RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI 5 MAGGIO 2022
A cura di Manlio Lo Presti
Esergo
Lo sporco peggiore è quello morale: istiga a un bagno di sangue.
STANISLAW LEC, Pensieri spettinati, Bompiani, 2015, pag. 94
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SOMMARIO
Stato di emergenza nel Draghistan per guerra in Ucraina: non si andrà alle urne. Nuove restrizioni
Deindustrializzazione della Germania: così gli USA vogliono usare l’Ucraina per disinnescare Berlino
IL CELLULARE DELL’OPERAIO MORTO ALLA FARNESINA CI DIRÀ QUALCOSA IN PIÙ SULLA SUA FINE?
Usa e Gb: colpire direttamente la Russia… e poi?
Stampa USA: l’intelligence americana trasmette a Kiev i dati sulla posizione degli ufficiali russi in Ucraina
Il colonnello smaschera Biden: Perché vuole prolungare la guerra?
Nessuna informazione sulla macelleria dello Yemen…
Il Cinque Maggio
Una crisi trasformata in gara a produrre più armi
Turchia e Mediterraneo nella guerra del Gas
L’effetto domino della censura
Guerra Ucraina: Biden vara il Minculpop
COSA SI NASCONDE NELLE ACCIAIERIE DI AZOVSTAL
QUI LO VITO E QUI LO NEGO – IL SENATORE FILO-PUTIN “PETROV” PETROCELLI NON MOLLA E SI SFOGA ALLE “IENE”
Stampa USA: l’intelligence americana trasmette a Kiev i dati sulla posizione degli ufficiali russi in Ucraina
Federico Caffè sulla controffensiva neoliberista degli anni Settanta
Il potere e il disegno mortale dell’inflazione creata intenzionalmente: uno strumento per i tiranni
GOLDEN DRAGHI – IL GOVERNO ESERCITA I POTERI SPECIALI DEL GOLDEN POWER SU BNL!
Cleptocrazia
LAVORO REMOTO
Impresa: assumere persone provenienti dalla detenzione
Oggi: Lavrov ha imbarazzato il ministro italiano Moavero con una richiesta insolita a Mosca
La Russia ha retto la stretta delle sanzioni, il mondo no
Il rosso e il fucsia: il socialismo d’assalto dei CARC e la “pace proibita” di Michele Santoro
Leo Strauss e i neocons, architetti delle guerre
IN EVIDENZA
Stato di emergenza nel Draghistan per guerra in Ucraina: non si andrà alle urne. Nuove restrizioni
Non si andrà alle urne e Draghi potrebbe anche varare uno stato di emergenza strettamente legato alla guerra, si legge nel retroscena che parla di risparmio energetico su climatizzatori, illuminazione e riscaldamento in tutti i settori e che potrebbe toccare anche le pensioni.
Non si andrà alle urne. A fronte di una nuova escalation militare il governo potrebbe varare un nuovo stato d’emergenza ad hoc per intervenire sull’economia e sul contingentamento energetico. Ma anche per rinviare le elezioni politiche previste tra fine febbraio e inizio marzo 2023. L’esecutivo di Mario Draghi – scrive Il Tempo – si starebbe preparando a tutti gli scenari, anche quelli peggiori, e secondo un retroscena di Affaritaliani studia il varo di una «Finanziaria di guerra» che prevederebbe uno «scostamento di bilancio da almeno 15, se non 20, miliardi di euro». Se ne parlerebbe dietro le quinte in Parlamento e nei ministeri e contempla lo stop di Mosca all’invio di gas all’Italia come è accaduto con Polonia e Bulgaria.
In caso la Legge di Bilancio per il 2023 sarebbe anticipata a giugno o a luglio per finanziare nuovi interventi di emergenza per sostenere famiglie e imprese e i vari settori economici che si troverebbero a fronteggiare aumenti dei costi drammatici.
«Come spiegano fonti politiche, Draghi potrebbe anche varare uno stato di emergenza strettamente legato alla guerra (diverso da quello per il Covid)», si legge nel retroscena che parla di risparmio energetico su climatizzatori, illuminazione e riscaldamento in tutti i settori e che potrebbe toccare anche le pensioni.
Tra le ipotesi al vaglio anche quella di «rinviare di qualche mese le elezioni politiche». Come quelle amministrative per il Covid. «Qualcuno ipotizza un rinvio a fine 2023 o a inizio 2024» con Draghi che resterebbe a Palazzo Chigi fino a nuove consultazioni elettorali.
FONTE: https://raffaelepalermonews.com/stato-di-emergenza-nel-draghistan-per-guerra-in-ucraina-non-si-andra-alle-urne-nuove-restrizioni/
Deindustrializzazione della Germania: così gli USA vogliono usare l’Ucraina per disinnescare Berlino
di Fabrizio Verde
La Germania post Merkel vive una fase decisamente turbolenta. Crescono le pressioni dell’opposizione tedesca e di alcuni membri della sua stessa coalizione sul cancelliere tedesco Olaf Scholz, per quella che viene percepita come una mancanza di leadership di fronte alla crisi ucraina e per il suo ostinato rifiuto di inviare armi pesanti al regime di Kiev. Questo passaggio però possiamo ormai considerarlo superato, con una netta sconfessione della linea di Scholz, visto che il Bundestag (Parlamento tedesco) ha approvato il sostegno militare all’Ucraina.
Il Parlamento tedesco con 586 voti a favore, 100 contrari e sette astenuti, ha infatti approvato la fornitura di armi pesanti all’Ucraina, grazie al sostegno della coalizione di governo e del principale blocco di opposizione CDU/CSU guidato da Friedrich Merz, esponente del partito storicamente ostile all’ex cancelliera Angela Merkel.
Non tutte le forze politiche parlamentari hanno condiviso la scellerata decisione di armare l’Ucraina fino ai denti e quindi avvicinare la terza guerra mondiale.
I membri del partito di sinistra Die Linke e dell’estrema destra Alternativa per la Germania (AfD) hanno annunciato il loro rigetto della mozione. La proposta legislativa prevede di portare avanti gli aiuti militari destinati a Kiev, accelerando il processo ove possibile.
La Germania inizialmente ha rifiutato di inviare armi pesanti in Ucraina e successivamente ha negato la fornitura di attrezzature pesanti come i veicoli blindati. Tuttavia, di recente il governo di Olaf Scholz ha accettato che l’Ucraina acquistasse armi tedesche e ha sostenuto gli scambi di armi con gli alleati che hanno inviato attrezzature pesanti a Kiev.
La Germania ha già inviato in Ucraina circa 2.500 missili antiaerei, 900 bazooka con 3.000 proiettili, 100 mitragliatrici, 15 armi anticarro Bunkerfaust con 50 razzi, 100.000 bombe a mano, 2.000 mine, circa 5.300 cariche esplosive e più di 16 milioni di proiettili di vario calibro per armi leggere, dai fucili d’assalto alle mitragliatrici pesanti, secondo quanto rivelato dall’agenzia tedesca Dpa.
Ora prevede di inviare veicoli corazzati in Slovenia per sostituire i carri armati di epoca sovietica che Lubiana sta inviando in Ucraina, oltre a fornire mortai direttamente all’Ucraina e lasciare che Kiev acquisti cannoni corazzati antiaerei semoventi obsoleti dalla Germania.
Anche le compagnie tedesche hanno chiesto il permesso di spedire armi in Ucraina, sebbene non abbiano ancora l’approvazione del governo. Il consorzio delle armi Rheinmetall vuole inviare 100 veicoli da combattimento di fanteria Marder e 88 Leopard 1A5, mentre il gruppo KMW vuole consegnare 100 obici semoventi Panzerhaubitze 2000 (PzH 2000) a Kiev.
I ‘falchi’ contro Scholz
Nonostante con il voto del 28 aprile il Bundestag abbia praticamente decretato l’entrata in guerra anche della Germania con il beneplacito della SPD (partito del Cancelliere) i falchi alzano il tiro contro Scholz.
Diversi legislatori, tra cui il leader della CDU Friedrich Merz, hanno criticato aspramente Scholz per aver disertato la votazione a causa di una concomitante visita diplomatica in Giappone proprio mentre il Bundestag stava discutendo del conflitto in Ucraina. Merz ha accusato il Cancelliere di “esitazione e timidezza”.
Il rappresentante dell’SPD Nils Schmid ha difeso il viaggio di Scholz a Tokyo sottolineando l’importanza del Giappone come partner più importante della Germania in Asia.
Ma la svolta guerrafondaia non dovrebbe aiutare Scholz a scrollarsi di dosso le accuse di essere indeciso sull’Ucraina. Un nuovo sondaggio DPA/YouGov suggerisce che circa il 45% dei tedeschi non è soddisfatto del suo corso nella crisi, rispetto al 37% che approva la sua reazione alla guerra.
Possiamo affermare che la politica estera tedesca sta vivendo tempi difficili. Prima della votazione i media affermavano che il Cancelliere rischiava di essere costretto alle dimissioni a della sua “indecisione” nel sostenere l’Ucraina contro la Russia. Insomma, di difendere la cauta posizione di ragionevolezza assunta in seno europeo al pari della Francia di Macron.
Scholz aveva in precedenza dato prova di prudenza. Ad esempio, gli atlantisti più radicali chiedono di vietare quanto prima tutte le forniture di gas e petrolio dalla Russia, ma il Cancelliere ha ribattuto affermando che dopo una decisione del genere non regnerà la pace in Ucraina, ma in compenso la Germania cadrà in una grave crisi economica. “Il punto è che vogliamo evitare una drammatica crisi economica, la perdita di milioni di posti di lavoro e di fabbriche che non potranno più riaprire. Ciò avrebbe gravi conseguenze per il nostro Paese, per tutta l’Europa, e danneggerebbe gravemente la capacità di finanziare la ripresa dell’Ucraina”, ha spiegato il leader tedesco.
Germania potenza geo-economica
La prudenza di Scholz, ritenuta da alcuni eccessiva, alla luce del clima bellico che si vive in tutta Europa fomentato ad arte da Washington per i propri interessi strategici e geopolitici – ossia tenere divise Russia ed Europa – non deve sorprendere vista la natura della Germania. Dal dopoguerra in poi la parola così come il concetto di geopolitica in Germania, sono stati quasi banditi. Il rifiuto di una prospettiva geopolitica è stato a lungo alla base dell’approccio ultra-economicista di Berlino. Insomma, la Germania è essenzialmente, anche per i comprensibili motivi storici, una potenza geoeconomica.
La Germania è stata tradizionalmente intesa come una “potenza civile”, cioè quella che, a differenza di altre grandi potenze, utilizza le istituzioni multilaterali e la leva economica piuttosto che la forza militare per raggiungere i suoi obiettivi di politica estera.
In seguito all’avvio dell’operazione militare speciale della Russia per smilitarizzare e denazificare l’Ucraina, si verificano spinte interne ed esterne che portano Berlino a compiere una svolta epocale nella propria politica. La Germania ha infatti annunciato un piano per dare priorità alle spese militari, e a tal proposito sarà istituito un “fondo speciale” per equipaggiare meglio la Bundeswehr, le ormai obsolete forze armate tedesche.
Il piano annunciato dal Cancelliere Olaf Scholz prevede l’impegno di ben 100 miliardi di euro (112,7 miliardi di dollari) del bilancio 2022 per le forze armate e conferma l’obiettivo di raggiungere il 2% della spesa del prodotto interno lordo per la difesa in linea con le richieste della NATO.
“È chiaro che dobbiamo investire molto di più nella sicurezza del nostro Paese per proteggere la nostra libertà e la nostra democrazia”, ??ha affermato Scholz a commento della storica decisione tedesca riguardo il riarmo.
La Germania ha registrato un record di spesa per la difesa della NATO per il 2021, presentando un budget di 53 miliardi di euro per l’anno in corso.
Questa cifra segna un aumento del 3,2% rispetto all’anno precedente. Nel 2020, la spesa è stata limitata a circa 51,4 miliardi di euro.
I 100 miliardi di euro che Scholz ha detto che sarebbero stati dedicati alle forze armate quest’anno rappresentano una spinta di un anno, anche se la mossa è significativa, poiché la Germania è stata spesso criticata dagli Stati Uniti e da altri alleati della NATO per non aver investito abbastanza nella difesa.
La decisione di intensificare e raggiungere l’obiettivo della Nato per la spesa per la difesa del 2% del PIL è stata accolta con scetticismo da alcuni legislatori.
In Germania c’è infatti qualcuno che ha annusato quali potrebbero essere i piani ideati in quel di Washington e in ambienti NATO per ‘disinnescare’ la Germania e renderla più docile, maggiormente propensa a scendere a più miti consigli, secondo la prospettiva atlantica.
Per una potenza geoeconomica come la Germania il combinato disposto delle esorbitanti spese per riarmarsi e il dover forzatamente rinunciare al gas fornito (a basso costo) dalla Russia potrebbe avere effetti letali. L’ha dichiarato senza mezzi termini il Ceo della Basf: “Senza gas russo, l’economia collasserà”.
Intervistato dal quotidiano Frankfurter Allgemeine Zeitung ha contrapposto alla retorica bellicista di USA, NATO e megafoni del mainstream, la dura realtà: “Mettendo la questione in termini brutali, un eventuale stop alle forniture di Mosca trascinerebbe l’economia tedesca nella peggior crisi dal secondo dopoguerra e distruggerebbe la nostra prosperità. Soprattutto per molte piccole e medie aziende, questo potrebbe rappresentare la fine, Non possiamo prendere un rischio simile!”.
Questo è il punto: la Germania rischia la de-industrializzazione. Ed è con ogni probabilità l’obiettivo anche di Washington che disinnescando la locomotiva europea proverebbe a scongiurare ogni ipotesi di avvicinamento eurasiatico che ridimensionerebbe in maniera considerevole la cosiddetta anglosfera.
Un’ipotesi del genere non dispiacerebbe nemmeno troppo alla Francia che guida insieme alla Germania l’Unione Europea. Ma le visioni strategiche e le finalità geopolitiche del progetto europeo secondo i due paesi guida dell’Unione divergono profondamente. Con il suicidio di Berlino, Parigi avrebbe l’opportunità di rimodellare il blocco secondo la visione transalpina e superare l’accordo del 2018 tra i due paesi ritenuto precario e sbilanciato a favore di Berlino.
Infine, una riflessione simile possiamo farla anche per l’Italia: già l’ingresso nell’euro aveva dato un primo colpo alla manifattura nostrana. Adesso le sanzioni e l’embargo verso gas e petrolio della Russia darebbero il colpo finale. Roma e Berlino questa volta viaggiano sulla stessa barca, trasportate da Washington che naviga a vista nella ricerca dei propri interessi immediati a livello economico, geopolitico e strategico.
FONTE: https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/22953-fabrizio-verde-deindustrializzazione-della-germania-cosi-gli-usa-vogliono-usare-l-ucraina-per-disinnescare-berlino.html
ATTUALITÀ SOCIETÀ COSTUME
IL CELLULARE DELL’OPERAIO MORTO ALLA FARNESINA CI DIRÀ QUALCOSA IN PIÙ SULLA SUA FINE?
RITROVATO IL TELEFONINO DEL 39ENNE FABIO PALOTTI: ERA SOPRA LA CABINA DELL’ASCENSORE CHE L’HA SCHIACCIATO, AMMAZZANDOLO – L’AVVOCATO DI FAMIGLIA AVEVA MOSTRATO PREOCCUPAZIONI SULLA SCOMPARSA DELLO SMARTPHONE PRIVATO DELLA VITTIMA E UN BUCO DI MOLTE ORE TRA L’ULTIMA LOCALIZZAZIONE DELL’APPARECCHIO E LA SCOPERTA DEL CORPO DA PARTE DI UN COLLEGA – INDAGINI IN CORSO SUI PROTOCOLLI DELL’AZIENDA E SUL BADGE…
4 MAG 2022
FABIO PALOTTI OPERAIO MORTO ALLA FARNESINA 6
È stato ritrovato il cellulare di Fabio Palotti, l’operaio di 39 anni morto alla Farnesina, mentre lavorata alla manutenzione di un ascensore.
FABIO PALOTTI OPERAIO MORTO ALLA FARNESINA 5
Dopo che l’avvocato di famiglia aveva mostrato preoccupazioni sulla scomparsa del telefono privato della vittima e un buco di molte ore tra l’ultima localizzazione dell’apparecchio e il ritrovamento del corpo da parte di un collega, la mattina successiva alla scomparsa.
FABIO PALOTTI OPERAIO MORTO ALLA FARNESINA 4
Nel corso di un sopralluogo svolto ieri, il telefono è stato individuato sulla cabina dell’ascensore: il pm disporrà ora una perizia informatica sullo smartphone. In base all’autopsia, la morte dell’uomo è avvenuta tra le 18.30 e le 19 di mercoledì scorso, 27 aprile. Il decesso è stato immediato, non c’è stata agonia.
FABIO PALOTTI OPERAIO MORTO ALLA FARNESINA 3
Sulla vicenda, la procura di Roma procede per omicidio colposo, al momento contro ignoti. Verifiche sono state inoltre disposte sul funzionamento della cabina ascensore e, in particolare, sulla manopola utilizzata per il blocco, nonché sulla formazione dell’operaio, per capire se fosse adeguata al tipo di intervento.
FABIO PALOTTI OPERAIO MORTO ALLA FARNESINA 2
In questo ambito, chi indaga cercherà di fare accertamenti anche sul protocollo utilizzato dall’azienda, che prevedeva un solo operaio in turno, e sul badge in possesso del 39enne.
FONTE: https://www.dagospia.com/rubrica-29/cronache/cellulare-dell-39-operaio-morto-farnesina-ci-dira-qualcosa-309014.htm
CONFLITTI GEOPOLITICI
Usa e Gb: colpire direttamente la Russia… e poi?
Le cose si mettono male. La mattana del sottosegretario della Difesa britannico James Heappey, il quale ha affermato che “non sarebbe un problema” se l’Ucraina usasse le armi fornite dal suo Paese per colpire il territorio russo, non è passata inosservata a Mosca.
La risposta è arrivata immediata dal ministero della Difesa russo e non è quella sproporzionata riferita dai taluni media, cioè di una minaccia a colpire obiettivi Nato, quanto quella più limitata di colpire i centri decisionali di Kiev,
Con un’aggiunta significativa “I consulenti dei paesi occidentali che prestano assistenza nei centri decisionali di Kiev non saranno necessariamente un problema” nel processo decisionale russo riguardo la ritorsione.
E, però, evidentemente la mattana di Heappey non è un caso isolato. Ieri, il Capo del Dipartimento di Stato Tony Blinken, rispondendo a una domanda non casuale di un cronista, ha dichiarato che sta all’Ucraina decidere se colpire o meno il territorio russo con le armi fornite dalla Nato. Di per sé, una risposta logica, ma che de facto mette la Nato direttamente contro Mosca.
Così, in parallelo, Putin ha dichiarato che Mosca è pronta a una “reazione fulminea” in caso di attacco, non certo limitata all’Ucraina.
Va considerato che Mosca, da quando ha ripiegato le truppe da Kiev nel Donbass, non ha più colpito la parte occidentale dell’Ucraina se non gli obiettivi militari, indicando chiaramente che intende limitare la sua azione (se avesse voluto, avrebbe già incenerito l’intera Ucraina, come fece l’America con l’Iraq, colpendo ad alzo zero, già il primo giorno, Baghdad).
Il punto che qualche testa calda in Occidente non vuole un conflitto circoscritto – sul modello di quelli che hanno scandito la guerra fredda -, ma intende allargarlo a tutti i costi, nulla importando delle linee rosse tollerabili dalla Russia.
E, però, le dinamiche geopolitiche sono regolate proprio da tali linee rosse, che non valgono solo per la Russia. Lo dimostra il caso delle Isole Salomone, che la Cina ha appena strappato dall’influenza di Australia e Usa.
Un’iniziativa diplomatica alla quale Canberra ha risposto dichiarando che un’eventuale base militare cinese in loco supererà una “linea rossa“, con avvertimento supportato da Washington, che ha minacciato un “intervento militare“.
Ma per l’Ucraina tale logica, che aiuta a prevenire disastri, non sembra valere. Il problema è che alla testa delle nazioni che oggi stanno spingendo per forzare le linee rosse di Mosca sono due figure pesantemente ricattabili: Boris Johnson, attraverso il party-gate, e Biden con il computer personale del figlio Hunter. E ciò complica tutto, perché certi ambiti guerrafondai usano di tutto per i propri scopi.
Resta che se il conflitto non viene raffreddato, non piangeremo solo i morti del Donbass, ma quelli di Londra, Washington, Roma e altrove.
Anche perché Putin non può frenare sempre le spinte di quanti, all’interno della Russia, chiedono una risposta più energica alla guerra asimmetrica della Nato (anche nelle cosiddette autocrazie esistono dialettiche interne).
Lo ha fatto più volte. E probabilmente ha usato tutto il suo potere per tacitare una risposta all’affondamento della Moskva. Lo ha spiegato perfettamente il superfalco Luttwak, il quale ha affermato che con quell’affondamento “abbiamo sfiorato la guerra mondiale“.
FONTE: https://piccolenote.ilgiornale.it/55645/usa-e-gb-colpire-direttamente-la-russia-e-poi
Stampa USA: l’intelligence americana trasmette a Kiev i dati sulla posizione degli ufficiali russi in Ucraina
L’edizione americana è uscita con una pubblicazione in cui, citando funzionari, si fa riferimento al trasferimento da parte dell’intelligence statunitense a Kiev di dati sulle posizioni esatte degli ufficiali russi che svolgono compiti nell’ambito di un’operazione militare speciale. Si tratta di una pubblicazione del New York Times (NYT), in cui si afferma che diversi “pacchetti di intelligence” sono già stati trasferiti, che hanno portato alla morte di ufficiali e generali russi sul territorio dell’Ucraina.
Tra le altre cose, l’intelligence americana trasmette informazioni allo stato maggiore delle forze armate ucraine sul movimento delle truppe russe, e ciò sarebbe avvenuto in tempo reale.
L’articolo afferma che la parte ucraina “utilizza anche i propri dati di intelligence, che vengono spesso confrontati con i dati dell’intelligence statunitense per prendere determinate decisioni”.
La stessa pubblicazione sottolinea che, allo stesso tempo, il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti si oppone al trasferimento a Kiev delle informazioni sui più alti generali delle forze armate della RF e di altre forze dell’ordine della Russia quando arrivano “sul territorio dell’Ucraina”.
Allo stesso tempo, il NYT non riferisce su quanti ufficiali russi siano morti in Ucraina dopo il trasferimento di informazioni dalla parte ucraina.
Va ricordato che pochi giorni prima dell’inizio dell’operazione militare speciale russa, il capo del regime di Kiev, Volodymyr Zelensky, ha dichiarato che “l’intelligence ucraina non ha dati che la Russia stia preparando un’offensiva”. Secondo Zelensky, si fida della sua intelligenza, perché almeno “non è peggiore di quella americana”. Sulla base di tutte queste informazioni, si può affermare che oggi in Ucraina l’intelligence viene raccolta principalmente dalla parte americana, che continua a sostenere di “non essere una parte in conflitto”.
Il colonnello smaschera Biden: Perché vuole prolungare la guerra?
Andrew J. Bacevich è uno che la guerra la conosce molto bene e non solo per sentito dire.
Presidente del think-tank Quincy Institute, è professore emerito di relazioni internazionali alla Boston University ed ex ufficiale Colonnello dell’Esercito degli Stati Uniti. Autore di svariati saggi sul tema delle relazioni internazionali – fra cui The New America Militarism (2005), The Limits of Power: The End of American Exceptionalism (2008) e The Age of Illusions: How America Squandered its Cold War Victory (gennaio 2020) – Andrew J. Bacevich collabora con svariate testate statunitensi che si occupano di esteri, fra le quali the American Conservative e The Nation. Il suo nuovo libro, Paths of Dissent: Soldiers Speak Out Against America’s Long War , co-edito con Danny Sjursen, sta per uscire nelle librerie americane. Critico dell’establishment della politica estera a stelle e strisce, Bacevich è una voce autorevole, spesso fuori dal coro. Bacevich: “Gli Usa vogliono indebolire Mosca” Raggiunto da InsideOver per un commento sulla guerra in Ucraina, la lettura di Bacevich è che si tratta, a tutti gli effetti, di una guerra per procura fra gli Stati Uniti e la Russia. “La guerra in Ucraina è iniziata come una guerra che contrapponeva l’Ucraina alla Russia. Da allora si è trasformata in una guerra che contrappone gli Stati Uniti e i loro alleati alla Russia. In questo senso, è una guerra per procura” spiega. La domanda che molti osservatori si pongono è: gli Usa cercano la pace oppure vogliono che il conflitto si prolunghi al fine di indebolire e “stritolare” con le sanzioni economiche la Federazione russa? Secondo l’ex Colonnello, la risposta è chiara. Gli Usa, spiega, “vogliono la pace alle loro condizioni. Nel frattempo, si accontentano di prolungare la guerra per punire e indebolire la Russia”. La via diplomatica? L’escalation degli ultimi giorni sembra aver allontanano l’ipotesi di una soluzione di questo tipo. E anche Bacevich è molto scettico in merito: “Man mano che le condizioni sul campo di battaglia cambiano, cambia anche la situazione diplomatica. Poche settimane fa sembrava possibile un accordo basato sulla neutralità dell’Ucraina. Oggi non ne sono così sicuro”. Sulla possibilità che il conflitto possa allargarsi, il docente spiega che si tratta di un’ipotesi plausibile e che la decisione in merito “è di Vladimir Putin”. Probabile anche che si ricorra ad armi nucleari, secondo l’ex ufficiale Usa. Il rischio, spiega, “è molto reale. Ma il vero pericolo è un errore di calcolo, non un’escalation intenzionale”. “L’allargamento a est della Nato? Un’inutile provocazione” Quanto alle sanzioni economiche adottate dall’occidente contro la Federazione russa, secondo l’ex Colonnello e studioso, è troppo presto per tirare le somme. “Le sanzioni – afferma – impiegano un po’ di tempo per infliggere dolore; ed è troppo presto per dire quanto dolore sta provando la Russia”. Su una cosa, però, Bacevich è sicuro: l’allargamento a est della Nato è stato un errore strategico. La sua visione “realista” delle relazioni internazionali è paragonabile a quella di John J. Mearsheimer, docente presso l’Università di Chicago e a quella di George Kennan. In un articolo pubblicato dal New York Times nel febbraio 1997, Kennan, il padre intellettuale della politica di contenimento americana durante la Guerra fredda, avvertì cosa avrebbe potuto mettere in moto l’espansione a est della Nato. “Penso che sia l’inizio di una nuova Guerra fredda”, spiegò. “Penso che i russi reagiranno gradualmente in modo piuttosto negativo e ciò influenzerà le loro politiche. Penso che sia un tragico errore. Non c’era alcun motivo per questo. Nessuno stava minacciando nessun altro”. A tal proposito, sottolinea Bacevich, “Kennan (e altri) avevano ragione; è stata un’inutile provocazione”. A tal proposito, l’esperto sembra essere scettico circa una probabile entrata di Paesi come la Finlandia e la Svezia nell’Alleanza Atlantica: “Vediamo se i membri europei della Nato faranno gli investimenti militari necessari per difendere un’alleanza in espansione” osserva. Il presidente del Quincy Institute smonta anche la narrazione del presidente Joe Biden sullo scontro in atto fra democrazie e autoritarismi: “È un’enorme semplificazione, eccessiva, alla quale i politici americani si abbandonano abitualmente” osserva. Una delle tante “semplificazioni” e narrative di guerra alle quali – purtroppo – ci stiamo abituando.
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FONTE: https://parstoday.com/it/news/world-i294246-il_colonnello_smaschera_biden_perch%C3%A9_vuole_prolungare_la_guerra
Nessuna informazione sulla macelleria dello Yemen…
Mentre i media ci inondano di immagini drammatiche provenienti dall’Ucraina, resta un assordante silenzio sulla guerra più dimenticata degli ultimi anni, quella dello Yemen, dove Emirati arabi e Arabia Saudita, armati di bombe, missili e jet (e l’intelligence) Made in Usa da sei anni fanno strame di un Paese per piegare i ribelli Houti, una banda di straccioni che ha osato infrangere la legge non scritta che vuole che tutte le entità politiche del Golfo debbano essere guidate dalle élite sunnite e subordinate a Riad.
Parliamo di ribelli, come sono stati considerati a lungo, salvo poi essere inseriti nella lista delle organizzazioni terroriste dall’Onu su richiesta degli Stati Uniti sotto l’amministrazione Trump, tolti poi da tale lista per volere di Biden che però poi ci ha ripensato e ha chiesto che vi fossero reinseriti, cosa avvenuta alcuni giorni fa grazie alla convergenza dell’ultima ora degli odiati russi, che in questo momento di difficoltà devono tenersi buoni i regali del Golfo.
A far cambiare idea a Biden la sollecitazione di Riad e Abu Dhabi, i quali hanno fatto notare all’alleato d’oltreoceano che gli houti avevano osato rispondere ai bombardamenti indiscriminati sulle loro città lanciando due o tre razzetti all’interno dei confini dei Paesi aggressori contro obiettivi legati al petrolio, peraltro avendo prima avvisato la controparte che avrebbero risposto se essi non avessero limitato la portata delle operazioni belliche (cioè, se avessero bombardato un po’ di meno).
La risposta degli houti, peraltro, era avvenuta perché “il conflitto in Yemen si è intensificato da gennaio, con massicce vittime civili e rinforzi militari statunitensi portati d’urgenza nel Golfo”, come scrive
Così veniamo alle cifre: nel novembre del 2021, l’Onu avvertiva che le vittime di questa guerra a fine anno sarebbero arrivate alla cifra oscena di 377mila, tra morti per bombe, fame e malattie, perché peraltro questa aggressione infuria contro uno dei Paesi più poveri del mondo e la situazione del Paese è stata più volte definita dall’Onu come il “disastro umanitario” più grave del pianeta.
Gli Stati Uniti, con Biden, avevano deciso di ritirarsi dal conflitto dopo anni di ingaggio a fianco degli aggressori, ma non lo hanno fatto, anzi hanno continuato a vendere armi ai sauditi.
Così al Jazeera: “Il Senato degli Stati Uniti ha bloccato una risoluzione che avrebbe vietato una vendita di 650 milioni di dollari di missili e lanciamissili all’Arabia Saudita. Così, a novembre, la vendita è stata approvata dall’amministrazione Biden”. Ancora al Jazeera: “La vendita di missili segue l’approvazione degli Stati Uniti di un accordo di manutenzione di elicotteri da 500 milioni di dollari in favore del regno [saudita] a settembre”.
Armi difensive, dicono dagli Usa, ma con una guerra, anzi un’aggressione, in corso, la distinzione appartiene alle questioni di lana caprina (vedi il recente attacco a una prigione yemenita, nel quale sono state uccise 80 persone con un’arma made in Usa, come da report di Amnesty).
Nessuno ha paragonato Barak Obama o l’allora Segretario di Stato Hillary Clinton – la maggiore fautrice di questo ingaggio con i sauditi – o i regali sauditi o emiratini a Hitler quando tutto questo è iniziato né durante la diuturna mattanza.
Nessuno protesta per le bombe che ogni giorno cadono sulle città yemenite e che hanno ridotto la bellissima Sanaa a un cumulo di macerie. A nessuno importa se gli ospedali yemeniti vengono bombardati (Save The Children). Né ha alcuna importanza il fatto che nel conflitto siano stati uccisi o feriti 10.200 bambini, riferisce l’Unicef, aggiungendo che “il numero effettivo probabilmente è molto più alto”.
Nessuna marcia della pace per lo Yemen, nessuna sanzione contro gli aggressori, né l’Occidente ha smesso di comprare petrolio da Riad, così come abbiamo fatto con la Russia, che anzi, venendo meno il petrolio russo a causa delle sanzioni, gli Stati Uniti hanno chiesto a Riad e Abu Dhabi di aumentare la produzione per attutire lo scompenso (ma non gli hanno nemmeno risposto al telefono, a causa dell’impegno Usa per un accordo con l’Iran).
Così non si può che essere lieti dello slancio umanitario che si sta producendo verso i poveri ucraini, né si può non condividere la deprecazione verso l’aggressore o la profusione di dolore che attanaglia i giornalisti inviati in loco. Resta però tragico che tutto ciò agli yemeniti venga negato.
Il problema sta forse nel fatto che gli yemeniti non sono “biondi con gli occhi azzurri”, come da titolo di un articolo di Haaretz che racconta come i media hanno riferito l’esodo dei rifugiati di guerra ucraini. Un articolo del quale riportiamo un passo: “Un giornalista della NBC ha affermato: ‘Questi non sono rifugiati dalla Siria, questi sono rifugiati dall’Ucraina … sono cristiani, sono bianchi, sono molto simili [a noi]’”.
“E un editorialista del quotidiano britannico The Telegraph ha spiegato la sua sorpresa per il fatto che ciò fosse accaduto in Ucraina. ‘Sembrano come noi’, ha scritto. ‘Questo è ciò che lo rende così scioccante. L’Ucraina è un paese europeo’”. Già, qui si tratta di uomini, gli yemeniti evidentemente non appartengono alla categoria, sono sub-umani.
Nel caso dello Yemen, peraltro, non si parla nemmeno di aggressione, ma semplicemente del “conflitto yemenita”, terminologia anodina che evidenzia la potenza della scrittura e del linguaggio.
Né è minimamente rapportabile lo spazio che viene dato alla guerra ucraina rispetto a quella yemenita. E non è solo perché non è una guerra europea, ché la guerra in Iraq (come quella siriana o libica) ha avuto uno spazio più che consistente nell’informazione nostrana, basti pensare ai cronisti estasiati mentre le bombe “intelligenti” americane piovevano senza sosta sulle case di Baghdad (alcuni di questi ora appaiono rattristati per le bombe russe).
Una discrasia che non stupisce. Semplicemente certe informazioni devono essere evidenziate (fino al parossismo) e altre trascurate (fino all’obliterazione) a seconda della convenienza e degli interessi geopolitici del momento. Interessi ai quali i media devono subordinarsi, in toto o in parte, con coraggiose eccezioni che confermano la regola.
Tale il mattatoio della storia umana, per riprendere una nota considerazione di Hegel, e tali le contraddizioni e l’ipocrisia della geopolitica, come le stridenti contraddizioni dell’informazione, che in tempo di guerra stridono di più.
P.S. abbiamo raccolto alcune immagini della tragedia dello Yemen ed in particolare dei bambini travolti da questa macelleria a ritmo continuo. Per la crudezza di alcune di queste fotografie abbiamo preferito non riportarle in questa nota. Chi vuole può visionarle cliccando qui (attenzione, sono particolarmente dure, come la guerra).
FONTE: https://piccolenote.ilgiornale.it/54919/nessuna-informazione-sulla-macelleria-dello-yemen
Una crisi trasformata in gara a produrre più armi
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Nella Costituzione postbellica vennero solennemente enunciati due principi inviolabili: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione” (art. 21 della Carta) e “Le Camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono al Governo i poteri necessari”. Tutti gli interventi in armi comportati da alleanze devono passare al vaglio del Parlamento nazionale, come è avvenuto per le varie missioni di pace: Parlamento sul quale ricadranno le ripercussioni delle sue decisioni, come avvenne sui re quando erano i titolari esclusivi del potere di dichiarare guerra, atto complesso includente deliberazione e proclamazione. Ma già Cavour, benché lo Statuto albertino non lo prevedesse ma non immemore che sconfitto a Novara Carlo Alberto aveva abdicato al trono (23 marzo 1849), per intervenire nella guerra di Crimea volle e ottenne l’esplicito assenso delle Camere (ndr. febbraio 1855).
E ora? Tanti, troppi “media” usano brandelli di esternazioni occasionali di questo o quel personaggio più o meno famoso per estremizzare e imbalsamare il “giudizio” su quello che occorre o non occorre fare, mentre incombe una catastrofe che potrebbe essere senza ritorno. Decisa da chi? Per quali obiettivi e/o tornaconti?
L’informazione mediatica sull’andamento della fase attuale di un conflitto ormai quasi decennale si disperde nella narrazione di dettagli macabri e/pietosi che possono suscitare qualche emozione la prima volta; ma poi risultano ripetitivi e scontati agli occhi di chi sa come sono sempre andate e vanno le guerre nel mondo e si domanda che cosa potrebbe avvenire se a qualcuno scappasse il dito per passare dalle scaramucce, dal “corpo a corpo” all’Apocalisse.
Volutamente o no? Al momento viene insinuato che Vladimir Putin, presidente della Federazione russa, sarebbe in difficoltà all’interno della sua cerchia di potere, di cui poco si sa. Ma come se la passa Joe Biden, presidente degli Stati Uniti d’America? A suo riguardo la certezza è conclamata: ampia sfiducia da parte di un’“opinione pubblica” ondivaga, divisa su questioni interne (inflazione, ordine pubblico assicurato a volte con metodi barbari, che suscitano emulazioni anche nel “Paese dei Limoni”) e l’interrogativo di sempre: chi comanda davvero là? Sa che cosa dice? Per chi parla a nome di chi?
Altrettanto avviene nello spazio detto “Europa”, labile, a fisarmonica. C’erano e, per ora, ancora ci sono l’Unione Europea, i Paesi europei inglobati nella OTAN (Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord), estesa sino alla Turchia), gli “altri” e poi lo spazio che nella “famiglia europea”, piaccia o meno a chi confonde la cronaca con la storia millenaria, comprende la Russia, come gli ugro-finnici, i magiari e altre etnie (ci riferiamo ai baschi, per evitare cattive interpretazioni, ma altre molte potremmo citarne).
Constatato che l’Unione Europea non ha né una politica estera unitaria, né una forza militare e neppure una moneta unica (alcuni suoi membri usano l’euro, altri no), non ha insomma un governo effettivo ma solo competenze circoscritte e vincolate all’approvazione degli Stati aderenti (tanto che è prevista l’unanimità sulle decisioni vincolanti), almeno una volta all’anno è doveroso domandarsi chi in questa babele di idiomi parli “con lingua diritta”. Alla Pasqua ortodossa potrebbe essere il giorno giusto per fare pulizia e sgomberare il campo da ambiguità ed equivoci.
Il papa: Vox clamantis in deserto?
L’Uomo della Strada da decenni ha trovato un’unica voce limpida e coerente: quella dei papi di Roma, da Giovanni XXIII a Paolo VI, da Giovanni Paolo II (che confutò radicalmente il concetto di “guerra giusta”) a Benedetto XVI (lapidato, almeno a parole, perché avanzò pacate riserve sulla compatibilità tra islamismo e “diritti dell’uomo”, comprendenti quelli delle donne) e all’attuale Francesco. Per l’eterogenesi dei fini, le Dichiarazioni dei diritti dell’uomo e del cittadino hanno fatto da supporto agli imperi coloniali. La Dottrina Monroe (1823) ha consentito agli USA (all’epoca una piccolezza: dieci anni prima gli inglesi avevano saccheggiato e incendiato Washington) di soggiogare gli imperi ispano-portoghesi dal Messico alla Terra del Fuoco. La Lega delle Nazioni dal 1919 è stata la pedana per l’ulteriore spartizione degli spazi afro-asiatici a beneficio di “mandatari”. Eccetera eccetera… Tutti quei solenni documenti sono rimasti parole e l’Organizzazione delle Nazioni Unite non hanno mai impedito lo scoppio di guerre dalla genesi non del tutto chiara, dagli obiettivi taciuti e dalle prospettive peggio che fosche.
Perciò nella confusione dilagante emerge l’appello del papa alla pace, che vuol dire semplicemente un “alt” immediato e perpetuo alle operazioni belliche, alla gara a chi fa più danni al nemico (e pazienza per quelli “collaterali” sia sui nemici sia sugli amici) e gioiosamente sperimenta armi novissime sempre più sofisticate e micidiali, proprio come nell’Apocalisse. Senza quell’“alt”, la guerra ora in corso (ormai poco conta chi, quando, come l’ha preparata e iniziata) può andare avanti a tempo indeterminato, perché non è conflitto tra “popoli”, ideologie, principi o valori, ma tra sistemi di produzione bellica: conferisce corpo e volto definitivo alla Terza Guerra Mondiale “a pezzi”, paventata da papa Francesco nel memorabile Discorso di Redipuglia (2014).
Aldo A. Mola
FONTE: https://www.civica.one/una-crisi-trasformata-in-gara-a-produrre-piu-armi/
Il ruolo della Turchia: un Paese che vuole entrare in Europa ma che gioca da incomodo
La Turchia è uno dei punti caldi dello scacchiere Eurasiatico che geopoliticamente si estende al di là del Mar Caspio e rende il Mediterraneo Orientale zona di confine politico. La Turchia di Erdogan costituisce, e non solo per la stessa natura geografica del Paese, una linea di confine ed al contempo di ventaglio. Non godendo di riserve, ma con un consumo di gas naturale triplicato, è in effetti alla mercè delle importazioni. Nel suo mix energetico nazionale il gas rappresenta il 29% del suo consumo di energia primaria e quasi il 50% della produzione di elettricità. Tra il 2000 e il 2015 ha aumentato i consumi da 15 miliardi a 47.5 miliardi di metri cubi, il secondo maggiore aumento della domanda di gas in tutto il mondo, dopo la Cina. (Umbach F.)1.
Malgrado i rapporti con la Russia non sempre siano stati facili e comunque facilitati nel passato da Silvio Berlusconi, spesso intervenuto a fa da paciere, la Turchia sta diventando partner privilegiato con la costruzione di Blue Stream e Turk Stream che la collegheranno alla Russia per il gas. In cambio la Turchia si presta per aggirare l’Ucraina, idonea a sostituire il South Stream con il TANAP che drena gas dal giacimento di Shah-Deniz II.
Tuttavia a Erdogan appare chiaro quanto possa essere micidiale la dipendenza dalla sola Russia e quindi ha messo in atto politiche di diversificazione energetica che introducono nello scacchiere i paesi del Golfo Persico (fig. 1).
Già dal 2014, Turchia ha firmato un memorandum d’intesa con il Qatar per importazioni fino a 1 Mld, miliardo di GNL. In assenza del Gasdotto Islamico che avrebbe dovuto convogliare il gas dal Qatar, ci si limita per ora al trasferimento shipping, utilizzando due terminali di importazione di GNL, a Marmara Ereglisi (una capacità di 8.2 miliardi di metri cubi all’anno) e Aliaga (5 Mld, miliardi di metri cubi all’anno) e una capacità di stoccaggio di GNL di soli 3 miliardi di metri cubi. Nel 2016 la quota di GNL nelle importazioni di gas turco è aumentata al 16.4%, dal 12.8% nel 2013.(F. Umbach, 2017).
Lo scacchiere è complicato dalla presenza di gasdotti per forniture interne, di gas non russo, a passaggio nel Kurdistan Iracheno. Nel novembre 2013 è stato firmato un accordo bilaterale per aumentare le consegne di gas curdi in Turchia da 4 Mld (billions of cube meter) all’anno nel 2017 a 10 Mld entro il 2020 e nel novembre 2015 entrambe le parti hanno considerato un rinnovo ulteriore dell’accordo, compresa la costruzione di un nuovo gasdotto.
Come si sa, la situazione politica è di alta tensione e quindi è stata richiesta l’intermediazione russa. Con l’intervento di Rosneft, nel settembre 2017, è stato avviato un negoziato con il governo regionale del Kurdistan iracheno sulla costruzione di un gasdotto per i mercati turco ed europeo.
Avendo acquisito il 30 % della partecipazione ENI nel giacimento di gas Zohr in Egitto, Rosneft, insieme a Gazprom, spera di controllare e minare la diversificazione dell’UE in forniture di gas non russe verso l’Europa. Tuttavia la situazione politica rende molto incerta la fornitura di gas attraverso i territori curdi e non solo per la guerra in Ucraina.
L’altra spina mediterranea per la Turchia, è l’effettiva influenza di Israele sui giacimenti Leviathan, Aphrodite e, con l’Egitto, Zohr. La costruzione di Poseidon è ancora suscettibile di rami ascensionali verso la Turchia per la destinazione di parte dei 2.2 trilioni di m3 del giacimento.2
La Turchia dunque politicamente costituisce un pilastro solido putiniano nella demarcazione e controllo dello scacchiere Mediterraneo e la sua incoming influence in Libia lascia presumere che i rapporti tra Italia (ENI) e Francia (ELF) siano in fase di pronunciato avvicinamento, come dimostra il recente Trattato Bilaterale di cooperazione del novembre 2021. Tale situazione ha favorito il riavvicinamento tra i due Paesi Cugini e una sorta di solidarizzazione “petrolifera” per arginare l’influenza Turca in Libia. Resta ancora da chiarire quale sarà il ruolo della Lukoil (ndr. la più grande compagnia petrolifera russa, presente in Italia grandi raffinerie e con 43 distributori) nella striscia mediterranea e del sud della Sicilia dove sono presenti 26 stazioni di servizio collocate tra Pozzallo e Mazara del Vallo. L’area è sensibile non solo per l’arrivo dei migranti ma anche perché è presente, secondo la Guardia di Finanza di Catania traffico clandestino tra la raffineria di Zawyja in Libia e la Sicilia.
Aldo Ferrara
© Aldo Ferrara, Professore f.r. Università Milano e Siena, Chief European Res. Group on Automotive Medicine (ERGAM)
1 Frank Umbach. Il dilemma energetico della Turchia: Bruxelles o Mosca? 14 dicembre 2017, GISreportsonline.com.
2 Ferrara A. Colella A., Nicotri P. Oil Geopolitics, le condotte insostenibili, Agora&CO, Lugano 2019
FONTE: https://www.civica.one/turchia-e-mediterraneo-nella-guerra-del-gas/
CULTURA
Il Cinque Maggio
Ei fu. Siccome immobile,
dato il mortal sospiro,
stette la spoglia immemore
orba di tanto spiro,
5 così percossa, attonita
la terra al nunzio sta,
muta pensando all’ultima
ora dell’uom fatale;
né sa quando una simile
10 orma di piè mortale
la sua cruenta polvere
a calpestar verrà.
Lui folgorante in solio
vide il mio genio e tacque;
15 quando, con vece assidua,
cadde, risorse e giacque,
di mille voci al sonito
mista la sua non ha:
vergin di servo encomio
20 e di codardo oltraggio,
sorge or commosso al subito
sparir di tanto raggio;
e scioglie all’urna un cantico
che forse non morrà.
25 Dall’Alpi alle Piramidi,
dal Manzanarre al Reno,
di quel securo il fulmine
tenea dietro al baleno;
scoppiò da Scilla al Tanai,
30 dall’uno all’altro mar.
Fu vera gloria? Ai posteri
l’ardua sentenza: nui
chiniam la fronte al Massimo
Fattor, che volle in lui
35 del creator suo spirito
più vasta orma stampar.
La procellosa e trepida
gioia d’un gran disegno,
l’ansia d’un cor che indocile
40 serve pensando al regno;
e il giunge, e tiene un premio
ch’era follia sperar;
tutto ei provò: la gloria
maggior dopo il periglio,
45 la fuga e la vittoria,
la reggia e il tristo esiglio;
due volte nella polvere,
due volte sull’altar.
Ei si nomò: due secoli,
50 l’un contro l’altro armato,
sommessi a lui si volsero,
come aspettando il fato;
ei fe’ silenzio, ed arbitro
s’assise in mezzo a lor.
55 E sparve, e i dì nell’ozio
chiuse in sì breve sponda,
segno d’immensa invidia
e di pietà profonda,
d’inestinguibil odio
60 e d’indomato amor.
Come sul capo al naufrago
l’onda s’avvolve e pesa,
l’onda su cui del misero,
alta pur dianzi e tesa,
65 scorrea la vista a scernere
prode remote invan;
tal su quell’alma il cumulo
delle memorie scese!
Oh quante volte ai posteri
70 narrar sé stesso imprese,
e sull’eterne pagine
cadde la stanca man!
Oh quante volte, al tacito
morir d’un giorno inerte,
75 chinati i rai fulminei,
le braccia al sen conserte,
stette, e dei dì che furono
l’assalse il sovvenir!
E ripensò le mobili
80 tende, e i percossi valli,
e il lampo de’ manipoli,
e l’onda dei cavalli,
e il concitato imperio,
e il celere ubbidir.
85 Ahi! Forse a tanto strazio
cadde lo spirto anelo,
e disperò; ma valida
venne una man dal cielo
e in più spirabil aere
90 pietosa il trasportò;
e l’avviò, pei floridi
sentier della speranza,
ai campi eterni, al premio
che i desideri avanza,
95 dov’è silenzio e tenebre
la gloria che passò.
Bella Immortal! benefica
Fede ai trionfi avvezza!
scrivi ancor questo, allegrati;
100 ché più superba altezza
al disonor del Golgota
giammai non si chinò.
Tu dalle stanche ceneri
sperdi ogni ria parola:
105 il Dio che atterra e suscita,
che affanna e che consola,
sulla deserta coltrice
accanto a lui posò.
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PARAFRASIEgli (Napoleone I) non è più. Come, dopo aver esalato l’ultimo respiro, il suo corpo mortale, ormai senza memoria, rimase immobile, separato da un così grande spirito vitale, così rimane il mondo, colpito, stordito dall’annunzio, ammutolito, pensando all’ultima ora dell’uomo del destino; e non sa quando l’orma di un piede mortale altrettanto grande tornerà a calpestare la sua polvere insanguinata. Il mio animo di poeta lo vide trionfante sul trono, e rimase in silenzio; e così fece anche quando, con sorte incalzante, cadde (dopo la sconfitta di Lipsia e l’esilio all’Elba), si risollevò (nei ‘Cento giorni’) e fu definitivamente sconfitto (a Waterloo e prigioniero a Sant’Elena), non unendo la sua voce a quelle di tanti altri: ora, immune da elogi servili e da vili insulti, si leva, commossa, per l’improvvisa scomparsa di una sì grande luce; ed eleva alla sua tomba un canto che forse durerà per sempre. Dalle Alpi (nella campagna d’Italia del 1796) alle piramidi (nella campagna d’Egitto del 1799), dal Manzanarre (fiume di Madrid: nella campagna di Spagna del 1808) al Reno (nelle campagne di Germania), le azioni fulminee di quell’uomo senza esitazioni seguivano immediatamente il suo improvviso apparire; agì impetuosamente da Scilla (in Calabria, dove giunse il suo dominio) al Tanai (il Don: nella campagna di Russia del 1912), da un mare (il Mediterraneo) a un altro mare (l’Atlantico). Si trattò di una gloria veritiera? La difficile sentenza (va lasciata) ai posteri; noi chiniamo il capo davanti al Sommo Creatore, che in lui volle lasciare una sì grande impronta della sua potenza creatrice. Egli sperimentò tutto: la tempestosa e trepida gioia di un grande disegno, l’insofferenza di un animo ribelle che obbedisce, ma pensa al potere, e lo raggiunge, e ottiene un premio che sarebbe stato una follia sperare; la gloria tanto più grande dopo il pericolo, la fuga e la vittoria, la reggia e l’esilio umiliante; due volte sconfitto, due volte vincitore. Egli si diede un nome (glorioso): due secoli (il XVIII e il XIX), contrapposti (tra conservazione e rivoluzione), gli si volsero sottomessi, come aspettando da lui il loro destino; egli impose il silenzio e sedette come arbitro giudicante. E poi scomparve, e finì la sua vita in ozio, in una così piccola isola (Sant’Elena), oggetto di immensa inimicizia e di rispetto profondo, di un odio implacabile e di un indomabile amore. Come sulla testa del naufrago incombe e grava l’onda su cui poco prima lo sguardo del misero scorreva in alto, cercando invano di avvistare lontani approdi, così su quell’anima scese il peso soverchiante dei ricordi! Oh, quante volte cominciò a scrivere per i posteri le sue vicende! E quante volte su quelle pagine, destinate all’immortalità, cadde la sua mano stanca! Quante volte, nel silenzioso tramonto di un giorno trascorso in un ozio forzato, abbassando gli occhi (che prima erano) saettanti, rimase con le braccia incrociate sul petto, e lo assalì il ricordo malinconico dei giorni passati! E ripensò agli accampamenti sempre spostati, alle trincee abbattute, allo scintillare delle armi dei drappelli e alle cariche della cavalleria, e agli ordini concitati e alla loro rapida esecuzione. Ah, forse per tanto dolore cadde il suo spirito affannato e si perse d’animo; ma dal cielo scese una forte mano divina, che pietosamente lo trasportò in un’aria più pura; e lo guidò, lungo i sentieri sempre fioriti della speranza, verso i campi eterni (del Paradiso), verso il premio (la beatitudine) che supera ogni desiderio umano, ove la gloria passata non è che silenzio e tenebre. Bella immortale, benefica Fede, abituata alle vere vittorie! Annovera anche questo tuo trionfo, rallegrati; perché nessun uomo più superbo si è mai chinato davanti all’infame croce del Calvario. Tu (o Fede), allontana dalle stanche spoglie di quest’uomo ogni parola malvagia: il Dio che abbatte e che risolleva, che fa soffrire e che consola, sul (suo) letto (di morte) abbandonato da tutti, è venuto a soffermarsi vicino a lui.
COMMENTOL’ode celeberrima per la morte di Napoleone I, composta di getto in tre giorni, comprende nove coppie di strofe di settenari, spesso sdruccioli (schema abcbde, in cui il secondo verso rima con il quarto e l’ultimo rima con l’ultimo della strofa seguente). Il ritmo incalzante e la continua serie di contrasti mostrano con grande evidenza sia il tumulto delle alterne vicende dell’epopea napoleonica, sia la loro finale inanità rispetto a una visione più distaccata e pensosa del fiume della storia. Solo alla fine d’una pur grande avventura terrena si compiono una conciliazione profondamente religiosa delle umane passioni e un’accettazione ormai placata del fatto che la gloria che passò è solo silenzio e tenebre (reminiscenza, forse, della battuta finale di Amleto, ‘Il resto è silenzio’).
Scelta, parafrasi, commento e note bio-bibliografiche a cura di Gigi Cavalli
FONTE: https://www.treccani.it/magazine/strumenti/una_poesia_al_giorno/07_12_Manzoni_Alessandro.html
CYBERWAR SPIONAGGIO INFORMAZIONE DISINFORMAZIONE
L’effetto domino della censura
di Elisabetta Raimondi
La guerra in Ucraina è stato il pretesto per oscurare Russia Today America. Era controversa, finanziata dal Cremlino. Ma in questi anni ha dato spazio ad alcune voci dissidenti
«Nel momento in cui non abbiamo più una stampa libera, può succedere qualunque cosa. Ciò che rende possibile a una dittatura o a un sistema totalitario di governare è che la gente sia disinformata; come si fa ad avere un’opinione se non si è informati? Se ci viene sempre mentito, la conseguenza non è credere alle menzogne, ma non credere più a niente. Questo succede perché le menzogne, per loro stessa natura, devono essere modificate, e un governo che mente deve costantemente riscrivere la sua storia. I destinatari non ricevono solo una menzogna – una menzogna alla quale si può credere per tutta la vita – ma un gran numero di menzogne, a seconda di come tira il vento della politica. E coloro che non possono credere più a niente non sono in grado di decidere. Sono defraudati non solo della capacità di agire ma anche della capacità di pensare e giudicare. E con persone ridotte così allora si può fare tutto ciò che si vuole».
Hannah Arendt
Questa citazione, tratta dall’articolo scritto dal giornalista e scrittore vincitore del Premio Pulitzer Chris Hedges il 28 marzo scorso, qualche giorno dopo la sua epurazione da YouTube, solleva una questione su censura, disinformazione e propaganda che, pur essendo all’ordine del giorno dall’inizio della invasione dell’Ucraina e dei crimini perpetrati contro i suoi abitanti, difficilmente oltrepassa i confini russi. Il problema è invece sempre più preoccupante soprattutto negli Stati uniti, dove la censura di quest’ultimo periodo non solo crea nuovi precedenti che si riverbereranno sul futuro della libertà di espressione, ma è ancor più deprecabile del solito in quanto strumentalizza le tragedie del popolo ucraino.
La pretestuosa chiusura di Russia Today America
Da molto tempo ormai a fare le spese della limitazione dell’informazione sono quei giornalisti e youtuber che, sgraditi all’establishment, negli anni si sono costruiti spazi indipendenti per contrastare il pensiero dominante e che ora si vedono sempre più declassati dagli algoritmi di YouTube a favore di Cnn, Msnbc, Fox News, New York Times, Washington Post e via dicendo.
A ciò va aggiunto che la decisione dei paesi occidentali di oscurare Russia Today, Sputnik, e altre emittenti russe che spacciano la propaganda dello zar, ha immediatamente scatenato una catena di pericolose reazioni, la prima delle quali è stata la chiusura del canale con sede principale a Washington Russia Today America, che The Atlantic e The New York Times giustificano, tutto sommato, come una perdita di poco conto.
Uno degli effetti collaterali è stato il licenziamento dell’intero staff americano di più di un centinaio di persone, che ora si trovano a spasso con il marchio russo bollato addosso. Ma la questione sostanziale è che la guerra in Ucraina è stato il pretesto per liberarsi finalmente di un organo di informazione scomodo che, pur fondato e finanziato dal Cremlino, nei suoi dodici anni di vita non ha mai fatto da cassa di risonanza della propaganda russa, tant’è che nei rari casi in cui ha trattato di Russia lo ha sempre fatto contrastando il regime putiniano. La sua scomodità consisteva piuttosto nel fatto che la rete si occupava soprattutto di questioni americane e lo faceva guardandosi bene dal limitare le libertà dei suoi giornalisti e autori, dal momento che il semplice fatto di ospitare voci dissenzienti da quelle dell’establishment e dei suoi media era già di per sé il suo principale obiettivo.
Un altro grave aspetto è che tale censura ha innescato una morsa ancor più stretta sulla libera informazione, con l’arbitraria rimozione da YouTube di tutte le annate dei programmi di illustri voci dissidenti conosciute internazionalmente. Ai primi di marzo sono finite nel nulla tutte le puntate di Breaking the Set, il programma che Abby Martin ha trasmesso da Russia Today America dal 2012 al 2015. Verso la fine di marzo la stessa sorte è toccata a Chris Hedges e ai sei anni di puntate del suo On Contact, candidato agli Emmy Award nel 2017.
Chris Hedges: dal New York Times a RT America alla sparizione da YouTube
Per circa due decenni corrispondente estero in Medio Oriente, Europa, Africa, America Centrale per diverse testate, dal 1990 al 2005 Chris Hedges è stato una delle firme di punta dall’estero per il New York Times, dove ha ricoperto il ruolo di redattore capo sia dal Medio Oriente, sia dai Balcani durante la guerra.
Autore di numerosi libri tra cui War is a Force That Gives Us Meaning, American Fascists, e The Death of the Liberal Class, e insignito del Global Award for Human Rights di Amnesty International, Hedges «avrebbe potuto avere vita facile, passando la seconda parte della sua carriera», afferma il giornalista indipendente Matt Taibbi, dedicandosi ad «attività super pagate quali conferenze, ingaggi universitari e partecipazioni a oscuri think tank, se solo avesse tenuto la bocca chiusa».Ma siccome la bocca chiusa Chris Hedges non l’ha tenuta su troppi argomenti tra cui l’opposizione alla guerra in Iraq, l’imperialismo e il militarismo statunitensi, la potenza del Military Industrial Complex, la dipendenza dell’establishment bipartisan dalle corporation, la corruzione del Partito democratico, e soprattutto essendo nel 2005 diventato portavoce del neonato movimento palestinese per Boicottare, Disinvestire e Sanzionare Israele (Bds Movement), il New York Times lo ha licenziato proprio nello stesso anno.
Sempre più emarginato per la sua eterodossia, come successo a tutte le più illustri voci dissidenti a partire da Noam Chomsky, nel 2016 Hedges è approdato a Russia Today America accettando «un cinico matrimonio di convenienza, poiché la Russia era felice di dare voce a figure che esponevano i problemi strutturali della società americana, mentre dal canto loro quelle voci quasi completamente bandite erano liete dell’opportunità di trasmettere ciò che consideravano la verità, pur consapevoli delle motivazioni editoriali».
Il 23 marzo scorso, senza essere nemmeno stato contattato da YouTube, Hedges ha saputo della sua epurazione dalla telefonata di un amico mentre si trovava a Londra, invitato al matrimonio in carcere di Julian Assange e Stella Moris, partecipazione che una volta arrivato al cancello della prigione gli è stata negata per quella che Hedges ha descritto come «la continua campagna di crudeltà contro Julian da parte delle autorità».
Nell’articolo già citato pubblicato sul giornale indipendente Sheerpost per il quale scrive regolarmente, il giornalista esordisce con una lunghissima serie di «gone» che fanno riferimento alla sparizione delle personalità ospitate e degli argomenti trattati nei sei anni del suo programma settimanale, da Cornel West a Noam Chomsky, da Slavoj Žižek a Tariq Ali, da Glenn Greenwald a David Harvey, dagli autori di biografie su Robert Oppenheimer o Susan Sontag a «esplorazioni» letterarie come quella «con il professor Sam Slote del Trinity College di Dublino dell’‘Ulisse’ di James Joyce».
Ero su Rt per le stesse ragioni per cui il dissidente Vaclav Havel era sulla Voice of America durante il regime comunista in Cecoslovacchia. La questione è farsi o non farsi sentire. Havel non era estimatore delle politiche di Washington più di quanto io non lo sia di quelle di Mosca. […] Quali sono stati i miei peccati? Io non ho, come il mio ex datore di lavoro, il New York Times, venduto la bugia delle armi di distruzione di massa in Iraq, propagato teorie cospirazioniste sul fatto che Donald Trump fosse un complice russo, diffuso il podcast in 10 puntate The Caliphate, che era un imbroglio, raccontato alla gente che l’informazione sul computer di Hunter Biden era ‘disinformazione’.
Ma i peccati odierni più gravi di Chris Hedges sono le sue reiterate analisi sia sulla menzogna dell’innocenza americana, culminante nell’ipocrisia di Biden quando chiama Putin «criminale di guerra» pur avendo gli americani compiuto gli stessi efferati crimini dei russi in tanti altri conflitti, sia della necessità di collocare la guerra attuale, che ha definito «un criminale atto di aggressione», in un contesto storico più ampio. Hedges, che era corrispondente estero dall’Europa negli anni del collasso dell’Unione Sovietica, sottolinea infatti come il tradimento degli accordi presi con Mosca dalle quattro potenze occidentali Usa, Francia, Gran Bretagna e Germania tra il 1990 e il 1991 sulla non espansione della Nato, avrebbe potuto prima o poi aizzare la Russia verso un conflitto, ipotesi paventata anche da personalità politiche «così diverse come Henry Kissinger e George F. Kennan, che definirono l’espansione della Nato nell’Europa Centrale come ‘il più fatale errore della politica americana di tutta l’era post-guerra fredda’».
Ora che il personaggio in grado di aizzare il conflitto lo ha fatto in un modo tale da non poter più essere ignorato, c’è solo da augurarsi che le conclusioni che Hedges ha ipotizzato il 14 marzo scorso in questo articolo sulla base di analisi lucide e veritiere, non si avverino.
Putin ha fatto il gioco dell’industria bellica. Ha dato ai guerrafondai quello che volevano, ha esaudito le loro più selvagge fantasie. Ora non ci saranno impedimenti nella marcia verso l’Armageddon. I budget militari voleranno alle stelle. Il petrolio sgorgherà dal suolo. La crisi climatica accelererà. La Cina e la Russia formeranno il nuovo asse nemico. I poveri verranno abbandonati. Le strade del mondo pulluleranno di profughi disperati. Ogni dissenso diverrà tradimento. I giovani saranno sacrificati in nome dei logori valori di gloria, onore e patria. I vulnerabili soffriranno e moriranno. Gli unici veri patrioti saranno i generali, gli opportunisti, i cortigiani dei media e i demagoghi che raglieranno per avere sempre più sangue. I mercanti di morte governano come dei dell’Olimpo. E noi, soggiogati dalla paura, intossicati dalla guerra, spazzati via nell’isteria collettiva, a gran voce chiediamo il nostro stesso sterminio.
*Elisabetta Raimondi è stata docente di inglese nella scuola pubblica. È attiva in ambito teatrale ed artistico, redattrice della rivista Vorrei.org per la quale segue dal 2016 la Political Revolution di Bernie Sanders
FONTE: https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/22841-elisabetta-raimondi-l-effetto-domino-della-censura.html
Guerra Ucraina: Biden vara il Minculpop
Biden ha istituito il Disinformation Governance Board che ha il compito di contrastare le Fake news, con particolare riguardo alla Russia, cioè alla guerra ucraina. A dirigere il nuovo organismo è stata chiamata Nina Jankowicz (lo hanno riferito indiscrezioni mediatiche confermate dall’interessata).
La Jankowicz, scrive Antiwar è stata “disinformation fellow” presso “il Wilson Center ed è stata consulente del ministero degli Esteri ucraino nell’ambito della Fulbright Public Policy Fellowship, un programma gestito dal Dipartimento di Stato. La Jankowicz ha anche supervisionato programmi diretti a Russia e Bielorussia presso il National Democracy Institute, una Ong finanziata dal governo statunitense” (per intendersi una di quelle Ong che creano dissidenti e attivisti nei Paesi attenzionati dal Dipartimento di Stato).
La donna si è specializzata in disinformazione, in particolare russa, e sul ruolo della disinformazione nelle guerre moderne e future. Così recita la presentazione del suo libro più noto, pubblicizzato su Amazon: “Dall’inizio dell’era Trump, gli Stati Uniti e il mondo occidentale hanno finalmente iniziato a svegliarsi riguardo la minaccia posta dalla guerra online e sugli attacchi della Russia”.
“La domanda a cui nessuno sembra essere in grado di rispondere è: cosa può fare l’Occidente al riguardo? Gli Stati dell’Europa centrale e orientale, tuttavia, sono consapevoli della minaccia da anni. Nina Jankowicz ha consigliato questi governi in prima linea nella guerra dell’informazione. Le lezioni che ha imparato da questa lotta e i suoi tentativi di convincere il Congresso degli Stati Uniti ad agire, costituiscono una lettura essenziale”.
Fin qui il suo ruolo di consigliere, che non è stato affatto marginale avendo interloquito spesso con il Congresso Usa (vedi anche sulla biografia ufficiale), e la sua intuizione profetica riguardo alla necessità di “agire” contro la Russia.
Nella sua lotta contro i russi è però inciampata in una polpetta avvelenata, avendo sponsorizzato il dossier Steele, fabbricato da un’ex spia britannica per rivelare al mondo la collusione di Trump con Mosca.
Dossier che si è poi rivelato non solo farlocco, ma anche mal confezionato, essendo basato sulle dichiarazioni di un tale spacciato per una fonte russa ben inserita nei gangli dello stato, rivelatosi invece un ciarlatano russo da tempo residente negli States e senza alcuna sorta di informazioni.
Non solo, la Jankowicz ha anche cavalcato l’ondata di rigetto per la storia del computer di Hunter Biden, circolata durante la recente campagna elettorale che ha contrapposto il padre a Trump, rilanciando più volte le smentite delle autorità sul tema (Newsweek).
Peccato che poi la storia dell’esistenza di tale computer, che conterrebbe materiale compromettente per il figlio del presidente, si sia rivelata vera (anche se poi a ritirarla fuori sono stati gli stessi che prima la smentivano, dal momento che serviva ai loro scopi, sul punto vedi Piccolenote).
Insomma, a capo dell’organo che dovrebbe vigilare sulla disinformazione è stata messa una donna che ha propalato disinformazione a man bassa e ha lavorato con le autorità ucraine. Non promette nulla di buono.
D’altronde, il New York Times aveva spiegato subito dopo l’invasione ucraina come per vincere la guerra contro la Russia sia necessaria la disinformazione, come viene definita la menzogna mediatica. Confessione che fa il paio con le dichiarazioni di alcuni dirigenti dell’intelligence Usa, che hanno candidamente ammesso di propalare menzogne sul conflitto in corso.
Ovviamente, la campagna di disinformazione/anti-disinformazione americana riguarda anche gli Stati clienti degli Stati Uniti, la cui stampa mainstream non può discostarsi, tranne rare eccezioni che confermano la regola, dalle narrazioni d’oltreoceano.
Ma, evidentemente non soddisfatti della canea di trinariciuti cronisti, opinionisti e analisti che al di qua dell’oceano riecheggiano i dogmi della nuove religione bellicista, nonché infastiditi dalle poche e a volte confuse voci discordi, gli Stati Uniti hanno messo mano al portafogli per incrementare la canea suddetta di nuovi sacerdoti dell’informazione ufficiale.
Così, nel nuovo pacchetto di aiuti all’Ucraina, 33 miliardi di dollari, approvato ieri dal Congresso Usa, si può leggere che una parte sarà destinata a “contrastare la disinformazione e le narrazioni propagandistiche russe, alla ricerca delle responsabilità russe per la violazione dei diritti umani e a supportare attivisti, giornalisti e media indipendenti per difendere la libertà di espressione”. Dove la parola che suona più ironica è “indipendenti” (così sul sito ufficiale della Casa Bianca). Questa la tragica realtà di una guerra spacciata come una battaglia tra democrazia e autocrazia.
In genere, si obietta che in Russia i cronisti dissidenti chiudono i battenti o li mettono in galera, mentre qui hanno ancora diritto di tribuna. Vero, la metodologia occidentale, almeno ad oggi, è meno brutale e più raffinata, anche se il confronto va fatto con l’Ucraina, l’altro Paese direttamente belligerante, dove i traditori, cioè i dissidenti, sembra che non abbiano un destino molto felice.
Ma, al di là delle diatribe del caso, che non interessano, la realtà è che non è grazie ai bellicisti neocon, che oggi dirigono l’orchestra, che l’Occidente ha conservato la democrazia, ma proprio grazie a quanti, di varia estrazione, si sono opposti alla loro follia, che oggi sta mettendo a rischio la tenuta della democrazia occidentale e la stessa sopravvivenza dell’umanità.
FONTE: https://piccolenote.ilgiornale.it/55660/guerra-ucraina-biden-vara-il-minculpop
COSA SI NASCONDE NELLE ACCIAIERIE DI AZOVSTAL
Maggio 5, 2022
Il colonnello canadese Trevor Kadier già capo di stato maggiore dell’esercito canadese – inquisito per abusi sessuali – presente in Ucraina per i biolaboratori
I russi hanno finalmente liberato le acciaierie di Mariupol dove erano rintanati gli ultimi nazisti del battaglione Azov. Cosa si …
VIDEO QUI: https://youtu.be/w_-8I75KGa4
FONTE: https://greenpass.news/cosa-si-nasconde-nelle-accaierie-di-azovstal-dietro-il-sipario-talk-show-2/
QUI LO VITO E QUI LO NEGO – IL SENATORE FILO-PUTIN “PETROV” PETROCELLI NON MOLLA E SI SFOGA ALLE “IENE”
““PERCHÉ NON DEVO RIMANERE ALLA PRESIDENZA DELLA COMMISSIONE ESTERI SE RAPPRESENTO IL PENSIERO SUL TEMA SPECIFICO DI BUONA PARTE DEGLI ITALIANI?” – “L’ESPULSIONE ANNUNCIATA DA CONTE? NON MI È STATA ANCORA NOTIFICATA. IL TWEET CON LA Z DI PUTIN? È UNA PROVOCAZIONE, AVREI POTUTO METTERE LA BANDIERA DELLA NATO. C’È UN GOVERNO CHE STA PORTANDO IL PAES SULL’ORLO DELLA GUERRA…”
GIUSEPPE CONTE VITO PETROCELLI
Stasera in prima serata su Italia 1, nel nuovo appuntamento con “Le Iene”, condotto da Belén Rodriguez e Teo Mammucari, il servizio di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti con l’intervista al presidente della Commissione Affari Esteri al Senato Vito Petrocelli.
Il senatore grillino aveva suscitato numerose polemiche all’interno del Movimento 5 Stelle con cui è stato eletto per aver disertato la seduta congiunta con il premier ucraino Volodymyr Zelenskij e per aver votato contro al decreto sull’invio di aiuti militari al paese invaso dalla Russia. In questi giorni è balzato di nuovo agli onori delle cronache per aver scritto, alla vigilia del 25 Aprile, sulla sua pagina Twitter: “Per domani buona festa della LiberaZione…”.
IL TWEET DI PETROCELLI CON LA Z DI PUTIN
Parola scritta con la Z maiuscola all’interno della parola liberazione, che ricorda a tutti quella impressa sui carri armati dell’esercito russo, che starebbe per “za pobedu” e che significa “per la vittoria”. Al suo tweet ha risposto duramente il presidente del M5S Giuseppe Conte, con queste parole: “Il suo ultimo tweet è semplicemente vergognoso. Vito Petrocelli è fuori dal Movimento 5 Stelle”. La decisione di Conte di espellerlo dal Movimento è stata poi condivisa sia dal ministro degli Esteri Luigi di Maio, che ha chiesto anche le sue dimissioni dal ruolo di presidente della commissione, che da tutti gli altri partiti politici. Nel servizio anche le dichiarazioni dell’ex premier Giuseppe Conte.
Conte: Petrocelli deve avere la bontà di dimettersi perché, come sapete dai regolamenti, l’espulsione dal gruppo non è sufficiente per rimuoverlo dalla presidenza. Io lo invito a dimettersi perché chiaramente in questo momento, lui non è in condizione di poter garantire il buon funzionamento della Commissione, a prescindere dalle sue convinzioni.
Monteleone: Anche l’immagine di indipendenza, secondo lei, quindi?
Conte: Diciamo che le ultime uscite hanno compromesso, ecco, quel ruolo di quella funzione che aveva il presidente di autorevolezza, imparzialità e, ripeto, garanzia del buon funzionamento dei lavori della Commissione.
VITO PETROCELLI INTERVISTATO DALLE IENE
Questi alcuni stralci dell’intervista a Vito Petrocelli:
Monteleone: La liberazione, dalla A alla Z.
Petrocelli: Che domanda è? È ironica?
Monteleone: No, il tweet è il suo.
Petrocelli: Io ho sempre festeggiato il 25 aprile come la Festa della Liberazione, e ho deciso di scrivere un tweet per lanciare una provocazione.
GIUSEPPE CONTE E VLADIMIR PUTIN
Monteleone: Però, la z maiuscola, considerato che i russi la mettono sui carri armati che vanno a invadere un paese sovrano…
Petrocelli: E, ripeto, è una provocazione. Avrei potuto mettere la bandiera della Nato.
Monteleone: Perché non lo cancella?
Petrocelli: No, non si cancella, era necessario e discutibile.
Monteleone: Lei non fa il capo ultras. Lei fa il presidente della commissione Esteri del Senato della Repubblica.
Petrocelli: Certo, il momento è difficile. C’è un governo che sta portando il Paese sull’orlo di una guerra. Allora è necessaria una provocazione.
Monteleone: Ma, per fare una provocazione, è necessario solidarizzare con degli invasori secondo lei?
Petrocelli: È necessario solidarizzare.
Monteleone: Se lei mette la Z maiuscola dentro la parola liberazione qualcuno potrebbe offendersi. Qualcuno a cui sono morti familiari, magari…
Petrocelli: Io credo che una provocazione debba essere forte, altrimenti non ha senso. Altrimenti non è una provocazione.
Monteleone: In politica estera quando c’è un’aggressione bisogna scegliere da che parte stare.
Petrocelli: No, non necessariamente. Bisogna scegliere di stare dalla parte della legalità della Costituzione italiana che dice che l’Italia non deve partecipare ai conflitti. A me non sembra che la Russia stia minacciando la sicurezza nazionale.
Monteleone: L’ultima volta che ha fatto una previsione così è andata male, lei diceva che la Russia non ha mai attaccato nessuno nel corso della sua storia.
Petrocelli: Era vero fino a quel momento, io credevo che la Russia non sarebbe entrata in guerra. Mi sono sbagliato.
Monteleone: Però lei si fida un po’ troppo della Russia e un po’ meno degli alleati occidentali. Come facciamo cessare l’aggressione russa ai danni dell’Ucraina?
Petrocelli: Di sicuro noi non dobbiamo partecipare a un conflitto che non ci riguarda, quindi dovremmo smettere.
Monteleone: Lasciare l’Ucraina indifesa?
Petrocelli: Dovremmo smettere di inviare armi.
[…]
Petrocelli: Lei ricorda che quella Z significa anche denazificazione di un Paese.
Monteleone: Ma che cosa vuol dire per la vittoria?
Petrocelli: Lei ricorda che il 2 maggio è anche l’anniversario dell’eccidio a Odessa perpetrato nella Casa del Lavoro di circa 50 persone da parte di coloro i quali oggi siedono nelle istituzioni ucraine. È un conflitto cominciato otto anni fa. Noi non dobbiamo averci a che fare. Questo è il senso del mio tweet. Dovremmo aver a che fare con una guerra?
[…]
Monteleone: Dice Giuseppe Conte: «Vito Petrocelli è fuori dal Movimento 5 Stelle. Stiamo completando la procedura di espulsione».
Petrocelli: Non mi è stata ancora notificata.
Monteleone: Ma lei perché rimane presidente della commissione Esteri, visto che adesso ci sono i suoi colleghi che non vogliono più partecipare ai lavori?
Petrocelli: Io rimango presidente perché credo di dover rappresentare un pezzo di paese che nel Parlamento italiano non è rappresentato. Perché non devo rimanere alla presidenza della Commissione Esteri se rappresento il pensiero sul tema specifico di buona parte degli italiani?
[…]
Monteleone: Lei cosa pensa della Nato?
Petrocelli: Io penso della Nato quello che pensava il Movimento 5 Stelle quando ha fatto il programma del 2018.
Monteleone: Cioè?
Petrocelli: Il ruolo dell’Italia nella Nato andrebbe riformato. Significa che bisogna stare in un’associazione come è l’Alleanza atlantica da pari e non da sottomessi. In questo momento…
Monteleone: Noi saremo sottomessi?
Petrocelli: È evidente
Monteleone: A chi?
Petrocelli: Agli Stati Uniti, soprattutto.
Monteleone: Le pare bello quello che ha detto Lavrov che Zaleski è ebreo come Hitler? Le sembravano farneticazioni inaccettabili da un ministro degli Esteri di un Paese?
Petrocelli: Avrà avuto le sue ragioni. Io non lo so se Hitler era ebreo, nel senso di quello intende Lavrov.
Monteleone: Ma a lei sembra che stiano denazificando l’Ucraina i russi?
Petrocelli: Mi sembra di sì.
Monteleone: E come la stanno denazificando? Ammazzando donne e bambini civili, bombardando teatri, infrastrutture civili?
Petrocelli: No, eliminando questa presenza.
Monteleone: Ma le ha viste le bombe sulle case? Quello è denazificare?
Petrocelli: Lei le ha viste le bombe sulle case del Donbass?
[…]
Monteleone: Beppe Grillo l’ha chiamata per esprimere solidarietà?
Petrocelli: No.
Monteleone: È un silenzio vergognoso quello di Grillo?
Petrocelli: È un silenzio vergognoso quello di Grillo sì, su questa vicenda, non perché non mi ha chiamato.
[…]
Monteleone: È vero che lei è marxista, giusto?
Petrocelli: Sì.
Monteleone: Lo è ancora?
Petrocelli: Sì.
Monteleone: Si dimette?
Petrocelli: No, non mi dimetto.
Monteleone: Nemmeno se glielo chiede il suo partito?
Petrocelli: Me l’ha già chiesto il mio partito, tra l’altro, me l’ha chiesto il ministro degli Esteri. Piccolo l’errore.
Monteleone: Diciamo, lo sbaglio è nel 2018.
Petrocelli: È da vedere.
FONTE: https://www.dagospia.com/rubrica-3/politica/qui-vito-qui-nego-senatore-filo-putin-ldquo-petrov-rdquo-309016.htm
Stampa USA: l’intelligence americana trasmette a Kiev i dati sulla posizione degli ufficiali russi in Ucraina
L’edizione americana è uscita con una pubblicazione in cui, citando funzionari, si fa riferimento al trasferimento da parte dell’intelligence statunitense a Kiev di dati sulle posizioni esatte degli ufficiali russi che svolgono compiti nell’ambito di un’operazione militare speciale. Si tratta di una pubblicazione del New York Times (NYT), in cui si afferma che diversi “pacchetti di intelligence” sono già stati trasferiti, che hanno portato alla morte di ufficiali e generali russi sul territorio dell’Ucraina.
Tra le altre cose, l’intelligence americana trasmette informazioni allo stato maggiore delle forze armate ucraine sul movimento delle truppe russe, e ciò sarebbe avvenuto in tempo reale.
L’articolo afferma che la parte ucraina “utilizza anche i propri dati di intelligence, che vengono spesso confrontati con i dati dell’intelligence statunitense per prendere determinate decisioni”.
La stessa pubblicazione sottolinea che, allo stesso tempo, il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti si oppone al trasferimento a Kiev delle informazioni sui più alti generali delle forze armate della RF e di altre forze dell’ordine della Russia quando arrivano “sul territorio dell’Ucraina”.
Allo stesso tempo, il NYT non riferisce su quanti ufficiali russi siano morti in Ucraina dopo il trasferimento di informazioni dalla parte ucraina.
Va ricordato che pochi giorni prima dell’inizio dell’operazione militare speciale russa, il capo del regime di Kiev, Volodymyr Zelensky, ha dichiarato che “l’intelligence ucraina non ha dati che la Russia stia preparando un’offensiva”. Secondo Zelensky, si fida della sua intelligenza, perché almeno “non è peggiore di quella americana”. Sulla base di tutte queste informazioni, si può affermare che oggi in Ucraina l’intelligence viene raccolta principalmente dalla parte americana, che continua a sostenere di “non essere una parte in conflitto”.
ECONOMIA
Federico Caffè sulla controffensiva neoliberista degli anni Settanta
di Thomas Fazi
Estratto dal libro di prossima uscita “Una civiltà possibile. La lezione dimenticata di Federico Caffè” di Thomas Fazi (Meltemi, 2022)
Alla metà degli anni Settanta, si sviluppò in Italia un fervente dibattito su quelli che nel discorso pubblico erano presentati come i due “mali” del paese: l’inflazione e gli squilibri con l’estero. Per ironia della sorte, la discussione vide confrontarsi da un lato il relatore della tesi di dottorato di Mario Draghi, Franco Modigliani, e dall’altro il relatore della sua tesi di laurea, Federico Caffè.
La tesi di Modigliani, a grandi linee, era la seguente: esiste un unico livello del reddito (in termini macroeconomici) compatibile con la stabilità dei prezzi, dato il livello dei salari reali. Ciò implica che ogni sforzo per accrescere l’occupazione sopra quel tasso determinerà inflazione, anche se non si raggiunge un reddito coerente con il pieno impiego delle risorse. Per questo motivo, l’Italia si trovava attanagliata in una sorta di ciclo infernale inflazione-svalutazione-disoccupazione, di cui il principale responsabile, per Modigliani, era la scala mobile (cioè il meccanismo di indicizzazione dei salari all’inflazione).
Era quindi nell’interesse dei lavoratori stessi, e compito dei sindacati, cancellare la scala mobile, rivedere lo statuto dei lavoratori (che creava “assenteismo”) e accettare un livello salariale più basso, compatibile con la piena occupazione e con l’equilibro dei conti con l’estero. Questo, ammetteva Modigliani, «richiede qualche sacrificio ai lavoratori», ma in cambio la classe operaia avrebbe ottenuto la difesa dell’occupazione, il riassorbimento della disoccupazione e la fine dell’inflazione.
Diametralmente opposta era la visione di Caffè. In uno dei tanti articoli che scrisse in quel periodo, disse di accogliere «con vero smarrimento intellettuale» il fatto che fossero riemerse nel dibattito pubblico e accademico posizioni prekeynesiane secondo cui «la causa della disoccupazione […] risiede in una deviazione dai prezzi e dai salari di equilibrio che si stabilirebbero automaticamente in presenza di un mercato libero e di una moneta stabile». Per Caffè una posizione di questo tipo era del tutto inaccettabile sul piano analitico e, ancor di più, su quello delle sue ricadute concrete; gli era ben chiaro, infatti, che essa implicava, in ultima analisi, «l’abbandono della piena occupazione come obiettivo di politica economica prefissato dai poteri pubblici».
L’indignazione di Caffè di fronte a questo tentativo di revisionismo storico e teorico era tale che durante una lezione dedicata ai quadri sindacali della CGIL abbandonò i suoi toni tradizionalmente pacati per lasciarsi andare a un giudizio particolarmente caustico: «Affermazioni del genere mi danno soltanto il fastidio che provo nel dovermi trovare oggi sotto gli occhi, sui muri, simboli nazisti o antisemiti». Caffè notava, infatti, come «non [fosse] verificato né empiricamente né analiticamente» che una riduzione dei salari, né tantomeno una riduzione del tasso di inflazione, «migliori di per sé le condizioni dell’occupazione: questo è solo un atto di fede». Anzi, la storia – nonché l’apporto teorico di Keynes, ovviamente – dimostravano l’esatto contrario: «di certo c’è solo che una politica di stretta creditizia provoca maggiore disoccupazione».
Senza considerare, poi, la parzialità, se non la malafede, di una lettura che vedeva nelle spinte salariali il principale responsabile delle pressioni inflazionistiche. Una caratteristica della posizione “anti-inflazionista”, notava Caffè, era infatti, «quella di sottovalutare l’importanza di episodi specifici che vengono generalmente collegati all’aumento dei prezzi sul piano mondiale», in particolare «la quadruplicazione dei prezzi dei prodotti petroliferi, a partire dallo scorcio finale del 1973». Non a caso, negli anni Ottanta, con la riduzione del prezzo del petrolio cominciò a rallentare anche l’inflazione, che si riportò su valori analoghi a quelli della seconda metà degli anni Sessanta.
Caffè comprendeva bene quale fosse il vero obiettivo della polemica anti-inflazionista: «mettere indietro le lancette della storia», a un tempo in cui il lavoro era trattato alla stregua di una qualunque altra merce, in cui, cioè, poteva essere acquistato e liquidato secondo le esigenze del datore di lavoro e più in generale del “mercato”; e anzi in cui l’uomo finiva per essere meno degno di considerazione persino dei mezzi non umani del processo produttivo. Insomma, Caffè aveva ben chiaro che la posta in gioco andava ben al di là della semplice scala mobile. In discussione, seppur in maniera implicita, c’era una conquista di civiltà che Caffè, fino a qualche anno prima, riteneva assodata per sempre: la ridefinizione del lavoro, a tappe alterne nel corso del XX secolo e poi in maniera più strutturale dopo la Seconda guerra mondiale, da merce in diritto, il che significava anche e soprattutto il diritto a un’esistenza dignitosa; e insieme il dovere delle autorità pubbliche di garantire il lavoro, per mezzo di politiche (monetarie, fiscali, industriali, sociali ecc.) tese alla piena occupazione.
Nei primi anni del dopoguerra, Caffè si era detto convinto che «l’impegno di promuovere il pieno impiega costituisca […] [una di quelle] svolte oltre le quali diventa imperativo il procedere ed impossibile il tornare indietro». E invece, a trent’anni di distanza, fu costretto a riconoscere che «[s]ono bastati cinquant’anni per dimenticare (o fingere di dimenticare) la intrinseca incapacità del mercato di determinare, con le sue forze spontanee, sia un accettabile livello di occupazione, sia una distribuzione della ricchezza e dei redditi meno sperequata di quanto lo sia nei paesi che si dicono “industrialmente progrediti”».
Caffè osservava con crescente preoccupazione «la riaffermazione», in quegli anni, «di un liberismo economico che spesso confonde la valorizzazione dell’iniziativa individuale con la salvaguardia a oltranza di posizioni privilegiate; l’offuscarsi della concezione di Stato garante del benessere sociale, che spesso si tende a valutare alla stregua di uno Stato acriticamente assistenziale; la tendenza a riabilitare il mercato, trascurandone le inefficienze». Per Caffè si trattava di tesi irricevibili non solo sul piano etico-morale, date le conseguenze pratiche che implicavano per le politiche occupazionali e di welfare, ma anche su quello strettamente analitico. Era semplicemente inconcepibile che «di fronte a una involuzione economica che è stata […] giudicata la più grave dopo quella del 1930, non si trovi nulla di meglio da proporre che “la riscoperta del mercato”».
In tal senso, secondo Caffè, era da considerarsi del tutto priva di fondamento la tesi, già circolante negli anni Settanta, secondo cui quella italiana fosse un’economia “ingessata”, necessitante di essere liberata da “lacci e lacciuoli”. Era semmai vero il contrario: anche nell’Italia degli anni Settanta, «l’entità dei costi sociali non pagati» generati dall’eccessiva enfasi posta sui meccanismi di mercato era «ben più rilevante degli intralci creati da forme, sia pure farraginose, di regolamentazione pubblica».
Particolarmente assurdo, poi, secondo Caffè, era proporre un “ritorno al mercato” nel momento in cui nelle principali economie capitalistiche era in corso «un processo di crescente concentrazione, centralizzazione e organizzazione societaria». Caffè, infatti, faceva notare quanto fossero infondati gli «orientamenti di pensiero» riaffiorati in quegli anni «che, contrapponendo lo “Stato” al “mercato” (secondo una tipica antitesi ottocentesca), attribuiscono agli interventi dei poteri pubblici nella vita economica un carattere perturbatore e destabilizzante. […] Poiché il mercato è una creazione umana, l’intervento pubblico ne è una componente necessaria e non un elemento di per sé distorsivo e vessatorio». Anzi, è vero l’opposto. Caffè comprendeva bene che il capitalismo maturo – tanto nelle sue varianti “progressive” quanto in quelle più regressive, “neoliberali”, che cominciavano ad affermarsi in quegli anni – non può esistere senza un permanente intervento statale.
In questo senso, Caffè comprendeva bene che l’ideologia liberista, almeno nella sua polemica ufficiale contro lo Stato, era da considerarsi poco più che un comodo alibi per un progetto che non puntava a distruggere lo Stato quanto a riconfigurare radicalmente le forme dell’intervento pubblico.
Per lo stesso motivo Caffè contestava l’ideologia del «vincolismo» o dell’«automatismo internazionale», ossia la tesi che cominciò a prendere piede sempre in quegli anni, anche a sinistra, secondo cui la crescente internazionalizzazione economica e finanziaria e il sempre maggior potere delle imprese multinazionali – ciò che oggi chiamiamo globalizzazione – imponeva dei vincoli ineluttabili ai singoli Stati, rendendoli sempre più impotenti nei confronti delle forze del mercato, erodendo la capacità dei governi di decidere in autonomia (cioè a prescindere dalla volontà dei mercati) le politiche economiche e sociali, in particolare quelle di segno progressivo-redistributivo. Caffè, a differenza di molti suoi colleghi, comprendeva bene che la cosiddetta “globalizzazione” non era il risultato di una dinamica intrinseca al capitale o all’innovazione tecnologica che inevitabilmente riduceva il potere statale, ma al contrario un processo attivamente promosso dagli Stati stessi.
Insomma, secondo Caffè, l’esistenza di vincoli oggettivi derivanti dall’economia internazionale non era una premessa ineluttabile. I vincoli, infatti, erano in larga parte autoimposti e «nulla, nell’esperienza umana, costringe all’accettazione [impotente] e fatalistica d’un qualsiasi “vincolo”». Ancor meno giustificata era l’idea secondo cui «le singole economie nazionali [siano] obbligate ad adattarsi ai mutamenti del mondo circostante, anche a costo di subire disoccupazione e depressione». La visione di Caffè era diametralmente opposta: sono i rapporti di un paese con l’estero che devono essere subordinati alle esigenze della collettività e in particolare della piena occupazione, non viceversa.
Va detto che Caffè non era così ingenuo da ricondurre il nuovo clima di opinione affiorato in quegli anni – che invocava la necessità di assoggettare le esigenze della piena occupazione e del welfare state ai “vincoli” ineluttabili dell’economia internazionale – unicamente all’emergere di un nuovo consenso, sostanzialmente prekeynesiano, in ambito accademico. Gli economisti (tanto i neomonetaristi quanto i neokeynesiani) erano semmai gli apologeti, più o meno consapevoli, di quella che Caffè definisce – con stupefacente lucidità, se si considera che il termine non era ancora entrato nel linguaggio comune – una «controffensiva neoliberista», guidata da potenti interessi padronali decisi a ristabilire il loro dominio su una classe lavoratrice rea di essersi emancipata troppo.
In quest’ottica, osservava Caffè, l’enfasi ossessiva sul problema dell’inflazione – che monopolizzò il dibattito politico-economico italiano per circa un decennio dalla metà degli anni Settanta –, e soprattutto la lettura antioperaia che veniva data dal fenomeno, erano da considerarsi funzionali a una strategia che non mirava realmente, o primariamente, a risolvere il problema dell’inflazione stessa, comunque molto meno grave di quanto si voleva far credere (in Israele, ricordava per esempio, l’inflazione era tre volte superiore a quella italiana), ma piuttosto a sfruttarne lo spauracchio per raggiungere obiettivi politici ed economici di ben altra natura: «[O]ggi l’inflazione più̀ che essere combattuta viene strumentalizzata nel senso che evocando questo male dell’inflazione si intendono risolvere molti altri problemi di natura industriale, sindacale, rivendicativa e così via».
Caffè la chiamava «strategia dell’allarmismo economico»: una sorta di equivalente mediatico-narrativo della strategia della tensione di matrice propriamente terroristica utilizzata per destabilizzare il paese in quegli anni.
FONTE: https://www.sinistrainrete.info/politica-economica/22863-thomas-fazi-federico-caffe-sulla-controffensiva-neoliberista-degli-anni-settanta.html
FINANZA BANCHE ASSICURAZIONI
GOLDEN DRAGHI – IL GOVERNO ESERCITA I POTERI SPECIALI DEL GOLDEN POWER SU BNL!
A FAR ALLERTARE L’ESECUTIVO, CHE HA ATTIVATO LO STRUMENTO STRAORDINARIO, È STATA LA CESSIONE DI 530 DIPENDENTI DELLA BANCA, DEL GRUPPO FRANCESE BNP PARIBAS, AD ACCENTURE. CHE ORA VIENE STOPPATA DA PALAZZO CHIGI – È UNA DELLE PRIME APPLICAZIONI DELLA DISCIPLINA A UNA BANCA…
MAG 2022
Il governo Draghi esercita il golden power su Bnl del gruppo francese Bnp Paribas. La cessione di 530 dipendenti della banca Bnl, in procinto di passare ad Accenture si ferma, per ora, per l’attivazione dello strumento straordinario da parte del governo.
Nel dettaglio Palazzo Chigi avrebbe chiesto a Bnl maggiori informazioni sulla società del gruppo Accenture, Accenture Service Tech (Ast), che gestirà i dati personali della clientela italiana della banca. Dati che verranno trasferiti assieme al personale.
Il primo caso in ambito bancario
DISCORSO DI MARIO DRAGHI AL PARLAMENTO EUROPEO STRASBURGO
Si tratta di una delle prime applicazioni della disciplina del Golden Power a una banca. Di fatti lo strumento normativo, introdotto in Italia nel 2012, è stato allargato al settore assicurativo e finanziario solo nel 2020 con il Decreto Liquidità. Non è però detto che lo stop alla cessione Bnl- Ast sia definitivo.
L’indicazione dell’apertura di un dossier Golden Power sulla banca emerge dalle lettere inviate dalla stessa Bnl ai dipendenti che già all’inizio di questa settimana avrebbero dovuto trasferirsi presso gli uffici di Accenture Service Tech. Bnl in una comunicazione ai sindacati ha confermato la circostanza dichiarando però di aver già pronte le risposte ai quesiti del governo. La banca ha poi confermato come l’esternalizzazione dei 530 addetti del back-office slitterà semplicemente da maggio a giugno.
La posizione dei sindacati
La cessione, fortemente avversata dai sindacati, rientra nel piano più ampio della banca per contenere i costi con l’ultima operazione perfezionata in aprile, quando una parte delle attività della divisione IT della banca è stata ceduta a CapGemini.
Scrivono le Segreterie di Coordinamento Nazionale Gruppo Bnl Fabi – First Cisl- Fisac Cgil- Uilca e Unisin: «Ora, l’intervento di una autorità (la Presidenza del Consiglio dei Ministri!), seppure con una richiesta di informazioni che potrebbe comunque essere propedeutica ad un veto sull’operazione, rafforza, se ce ne fosse ancora bisogno, il convincimento che bene hanno fatto queste Organizzazioni Sindacali, a rimettere tali operazioni alla valutazione legale delle autorità e istituzioni competenti».
FONTE: https://www.dagospia.com/rubrica-4/business/golden-draghi-governo-esercita-poteri-speciali-golden-power-309015.htm
LA LINGUA SALVATA
Cleptocrazia
clep-to-cra-zì-a
SIGNIFICATO Sistema di governo fondato su corruzione e peculato, in cui un’élite spoglia le risorse pubbliche per fini personali
ETIMOLOGIA voce composta dagli elementi greci clepto- (da kléptes ‘ladro’), e -crazia (da krátos ‘potere’), letteralmente il ‘governo dei ladri’.
«Era una cleptocrazia in cui l’intero popolo rimaneva alla fame, mentre il ‘presidente’, la sua famiglia e i suoi scagnozzi avevano ricchezze faraoniche.»
L’elemento greco -crazia piace proprio tanto: è sulla cresta dell’onda da millenni. Come secondo elemento di una parola composta, ci permette di descrivere un sistema di potere, fondato su tutto ciò che il primo elemento può voler indicare o immaginare. Abbiamo delle crazìe antiche, dalle aristocrazie alle autocrazie, dalle democrazie alle oclocrazie (ma sono decine), crazie moderne, come l’odiosamata burocrazia, e un bel mazzo di crazie contemporanee, da quelle che hanno ormai un’aura rétro da Ventennio, come la demoplutocrazia, a quelle ancora rampanti come la meritocrazia e la tecnocrazia.
La cleptocrazia si colloca in questa bella famiglia, e il modo speciale in cui declina l’assetto di potere ci viene raccontato da un primo elemento non comunissimo ma relativamente noto, clepto-, che viene dal greco kléptes ‘ladro’. Forse vi ricorderete di lui per la cleptomania, cioè l’ingovernabile impulso a rubare — la cui suggestione va spesso oltre la pura clinica.
Ma quindi la cleptocrazia è il governo dei ladri? Alla grossa, ma ci sono dei punti da circostanziare, che coinvolgono in particolare i suoi ambiti d’uso.
È un termine che vive soprattutto nel linguaggio giornalistico, e non è un tipo di linguaggio da cui ci si aspetta solitamente una messa a fuoco di grado scientifico. È un linguaggio in cui l’impatto, la capacità di rappresentare in maniera icastica prevale su tante altre istanze. In questo contesto possiamo dire che una cleptocrazia è un sistema di governo fondato sulla corruzione, sul peculato e su amenità di questo tenore.
Ma non vive solo in quest’ambito. Si trova usato anche nelle scienze sociali, dove con precisione maggiore (seppur con una certa variabilità a seconda di autori e autrici di mezzo mondo), indica la spoliazione, da parte di un élite, delle risorse di un gruppo vasto — una formazione statale o una realtà poco meno complessa. Per fare l’esempio forse più celebre, parla di cleptocrazia il biologo e antropologo statunitense Jared Diamond nel suo famoso Armi, acciaio e malattie.
Le risorse del gruppo, raccolte e accentrate, possono migliorare significativamente la vita del gruppo intero (pensiamo alle infrastrutture che permettono di creare, rispetto alle possibilità di risorse sparpagliate), oppure possono ingrassare la sola élite — con tutte le sfumature intermedie che ci possono essere fra questi due poli. E dove si colloca la cleptocrazia su questa linea?
Tendenzialmente, è quel profilo di governo che si approssima al polo della ruberia totale da parte di chi comanda. Così possiamo parlare delle cleptocrazie che sorgono dopo una torbida dismissione coloniale o la caduta di un impero, di rapporti ambigui con cleptocrazie da parte di grandi imprese, ma magari anche di una gestione cleptocratica di un patrimonio da parte di chi lo ha temporaneamente amministrato.
In effetti non si tratta propriamente di ladrocini, quando si parla di cleptocrazia; ci racconta un passaggio legittimo di grandi ricchezze attraverso poche mani, a cui però restano attaccate; tradiscono il motivo per cui quelle ricchezze sono state concentrate, volgendole a fini personali e non al bene del gruppo che le ha conferite, o a cui sono state semplicemente prese. Una realtà di appropriazioni, che nonostante il nome recente (compare in italiano nel ‘75) sa avere una presa forte nella descrizione del mondo e delle sue comunità.
Parola pubblicata il 05 Maggio 2022
FONTE: https://unaparolaalgiorno.it/significato/cleptocrazia
LAVORO PENSIONI DIRITTI SOCIALI
LAVORO REMOTO
Marco Parlangeli – 5 01 2022
Suona sempre un po’ più strano festeggiare il lavoro che non c’è, e quando c’è è molto spesso sbagliato. I giovani fuori dal mercato, al Sud non ne parliamo, morti sul lavoro in continuo aumento ed episodi di sfruttamento che sempre più spesso vengono a galla. Sembra di essere tornati cinquant’anni indietro (quando ancora lo Statuto dei lavoratori era di là da venire, mentre oggi è quasi un ferro vecchio da rottamare), con in meno la speranza e con in più internet.
Internet ha portato tante belle cose, ma fra queste non è chiaro se sia compreso il lavoro da remoto, il famigerato smart working. Da una parte, per carità, niente spostamenti, la possibilità di lavorare da casa magari in pigiama. Ma dall’altra l’isolamento, asettico e igienico, e antisociale: i rapporti con clienti, colleghi, resto del mondo mediati da uno schermo. E molto spesso anticamera delle ristrutturazioni aziendali e degli sfoltimenti: intanto ti levo ufficio e scrivania, poi ti licenzio, magari con un pratico sms, così neanche ti devo guardare in faccia.
Sviluppo della produzione non significa più automatico aumento dell’occupazione, tutto è più immateriale, etereo, rarefatto. Proprio come i mercati finanziari, che hanno sempre meno contatto con il mondo reale e che comunque presto torneranno a dare soddisfazioni agli investitori.
FONTE: https://www.marcoparlangeli.com/2022/05/01/avviso-ai-naviganti-lavoro-remoto
Impresa: assumere persone provenienti dalla detenzione
La legge prevede vantaggi fiscali e contributivi per le imprese che assumono
- detenuti o internati all’interno degli istituti penitenziari,
- detenuti o internati lavoranti all’esterno del carcere ai sensi dell’art. 21 legge 354/1975 (ordinamento penitenziario)
- e detenuti o internati semiliberi
Sgravi fiscali
Le imprese che assumono detenuti o internati all’interno degli istituti penitenziari o lavoranti all’esterno ai sensi dell’art. 21 ord.penit., possono ottenere un credito d’imposta per ogni lavoratore assunto, nei limiti del costo per esso sostenuto, di 520 euro mensili;
Le imprese che assumono semiliberi possono ottenere un credito d’imposta per ogni lavoratore assunto, nei limiti del costo per esso sostenuto, di 300 euro mensili;
Per i lavoratori assunti con contratto di lavoro a tempo parziale, il credito d’imposta spetta, in ogni caso, in misura proporzionale alle ore prestate;
Il credito d’imposta spetta inoltre, se il rapporto di lavoro è iniziato mentre il soggetto era ristretto, per i diciotto mesi successivi alla cessazione dello stato detentivo per i detenuti ed internati che hanno beneficiato della semilibertà o del lavoro esterno e per i ventiquattro successivi alla cessazione dello stato detentivo nel caso di detenuti ed internati che non hanno beneficiato della semilibertà o del lavoro all’esterno.
Gli stessi sgravi si applicano alle imprese che svolgono attività di formazione nei confronti di detenuti o internati a condizione che al periodo di formazione segua l’immediata assunzione per un tempo minimo corrispondente al triplo del periodo di formazione per il quale l’impresa ha fruito dello sgravio.
Sono escluse dalle agevolazioni le imprese che hanno stipulato convenzioni con gli enti locali aventi per oggetto un’attività formativa.
Condizioni per accedere al credito d’imposta
Le imprese devono:
- assumere detenuti o internati all’interno degli istituti penitenziari, lavoranti all’esterno del carcere ai sensi dell’art. 21 ord. Penit. o semiliberi (detenuti o internati) con contratto di lavoro subordinato per un periodo non inferiore a 30 giorni
- corrispondere un trattamento economico non inferiore a quello previsto dai contratti collettivi di lavoro
- stipulare un’apposita convenzione con la Direzione dell’istituto penitenziario dove si trovano i lavoratori assunti (si veda modulistica)
Come si accede al credito d’imposta
- Entro il 31 ottobre di ogni anno le aziende convenzionate con gli istituti devono presentare apposita istanza alla direzione dell’istituto (si veda modulistica), indicando l’ammontare complessivo del credito d’imposta di cui intendono fruire per l’anno successivo, includendo nella somma anche il periodo post detentivo e quello dedicato all’attività di formazione. Le direzioni trasmettono le istanze ai provveditorati.
- Entro il 15 novembre i provveditorati regionali devono inviare le istanze al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria.
- Entro il 15 dicembre il Dipartimento determina l’importo massimo spettante ad ogni singolo soggetto imprenditoriale.L’elenco degli aventi diritto e l’ammontare degli sgravi viene trasmesso all’Agenzia delle Entrate e pubblicato sul sito www.giustizia.it.
Il credito fiscale potrà essere compensato dalle aziende solo quando sarà effettivamente maturato a seguito dell’assunzione dei lavoratori.
Utilizzazione del credito d’imposta
Il credito d’imposta non concorre alla formazione della base imponibile delle imposte sui redditi e dell’imposta regionale sulle attività produttive e non assume rilievo ai fini del rapporto di deducibilità degli interessi passivi e delle spese generali.
E’ utilizzabile esclusivamente in compensazione ai sensi dell’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241 e deve essere indicato nella dichiarazione dei redditi relativa al periodo di imposta in riferimento al quale è concesso.
Le agevolazioni sono cumulabili con altri benefici, concessi a fronte dei medesimi costi ammissibili, in misura comunque non superiore al costo sostenuto per il lavoratore assunto o per la sua formazione .
A decorrere dall’anno 2015 ,l’utilizzo in compensazione del credito d’imposta avviene esclusivamente presentando il modello F24 attraverso i sistemi telematici messi a disposizione dall’Agenzia delle entrate (ENTRATEL e FISCONLINE ) utilizzando il codice tributo 6858 denominato “Credito d’imposta – Agevolazione concessa alle imprese che assumono detenuti o svolgono attività formative nei confronti dei detenuti – Decreto interministeriale 24 luglio 2014, n. 148”.
Sgravi contributivi
Le quote a carico dei datori di lavoro e dei lavoratori relative alle aliquote per l’assicurazione obbligatoria previdenziale ed assistenziale dovute ai detenuti o internati assunti all’interno degli istituti penitenziari ( imprese private e cooperative) o ammessi al lavoro all’esterno ai sensi dell’articolo 21 della legge 26 luglio 1975, n. 354 ( solo cooperative), sono ridotte nella misura del 95 per cento. Tali sgravi contributivi si applicano anche per i diciotto mesi successivi alla cessazione dello stato detentivo del lavoratore assunto per i detenuti ed internati che hanno beneficiato della semilibertà o del lavoro esterno a condizione che l’assunzione sia avvenuta mentre il lavoratore era ammesso alla semilibertà o al lavoro all’esterno e per i ventiquattro successivi alla cessazione dello stato detentivo nel caso di detenuti ed internati che non hanno beneficiato della semilibertà o del lavoro all’esterno a condizione che il rapporto di lavoro sia iniziato mentre il soggetto era ristretto.
Il rimborso all’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale degli oneri derivanti dalla riduzione è effettuato sulla base di apposita rendicontazione. Le agevolazioni contributive sono riconosciute dall’INPS in base all’ordine cronologico di presentazione delle domande da parte dei datori di lavoro a cui l’Istituto attribuisce un numero di protocollo informatico.
FONTE: https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_3_4_25.page#
PANORAMA INTERNAZIONALE
Oggi: Lavrov ha imbarazzato il ministro italiano Moavero con una richiesta insolita a Mosca
Il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov ha imbarazzato il suo omologo italiano Enzo Moavero Milanesi con una richiesta insolita. Questa informazione è stata condivisa da un giornalista italiano, Alfrede Faieta.
Il capo del ministero degli Esteri russo, Sergei Lavrov, è stato al centro dell’attenzione dei media mondiali nelle ultime settimane, le sue dichiarazioni sull’attuale situazione mondiale suscitano accese discussioni sulla stampa. Secondo Alfrede Faieta, il diplomatico russo sa come sorprendere i suoi oppositori politici e la visita del ministro degli Esteri italiano Enzo Moavero a Mosca nell’ottobre 2018 ne è stata un vivido esempio. Lo riporta oggi. PolitRussia presenta una rivisitazione esclusiva dell’articolo.
“Tutto è iniziato con una visita a Mosca dell’allora ministro degli Esteri italiano Enzo Moavero. Era ottobre 2018″, osserva l’autore dell’edizione italiana.
Come appreso dal giornalista italiano, al termine delle trattative, Lavrov ha consegnato al capo del ministero degli Esteri italiano un pezzo di carta con un testo in italiano. Il suo contenuto ha piuttosto sorpreso Enzo Moavero, poiché descriveva una richiesta piuttosto insolita da parte russa.
In Russia volevano che Enzo Moavero trasmettesse il messaggio alla procura di Milano, che si occupava di un caso di alto profilo contro le compagnie energetiche occidentali Eni e Shell. Tra gli imputati in questa indagine c’era l’ex diplomatico russo Ednan Agaev. La parte russa era convinta dell’innocenza di Agayev e ha dichiarato la propria posizione in una nota consegnata al ministro italiano.
“La parte russa è convinta che non abbia commesso alcuna azione illegale. A questo proposito, ci auguriamo che le autorità italiane dimostrino un approccio ragionevole”, si legge nel messaggio ricevuto da Lavrov.
La richiesta di Lavrov ha confuso il ministro italiano, che non si aspettava un simile andamento della situazione. Enzo Moavero non sapeva cosa fare di questa lettera, e per evitare malintesi preferì tenerla per sé. Temeva che il trasferimento della carica di ministero degli Esteri russo al procuratore italiano potesse provocare uno scandalo politico e incidere negativamente sulla sua carriera. La lettera è stata infine protocollata presso il ministero degli Esteri italiano, quindi inviata alla procura con la richiesta di fornire informazioni rilevanti.
“Questa richiesta del tutto insolita ha messo in imbarazzo il ministro italiano”, ha detto il giornalista.
L’autore di Today ha affermato che il procedimento nel caso Eni e Shell, in cui Agayev era imputato, è durato per diversi anni. Solo nel 2021, dopo un lungo processo, la procura italiana ha ritirato le accuse contro l’ex diplomatico russo.
In precedenza, PolitRussia ha parlato dell’imbarazzo diplomatico del ministro degli Esteri britannico Liz Truss durante i negoziati con Sergey Lavrov.
FONTE: https://politros.com/23164606-today_lavrov_smutil_ital_yanskogo_ministra_moavero_neobichnoi_pros_boi_v_moskve
La Russia ha retto la stretta delle sanzioni, il mondo no
3 maggio 2022
Le sanzioni d’inferno che si sono abbattute sulla Russia e che avrebbero dovuto piegarla in breve tempo, non solo non hanno sortito gli effetti desiderati, ma si sono rivelate nefaste per i Paesi che le hanno comminate.
Ne scrive Brahma Chellaney su The Hill, secondo la quale i Paesi che hanno emanato sanzioni contro la Russia “sono cadute in una trappola: con le sanzioni e l’aggravarsi del conflitto, che contribuiscono ad aumentare i prezzi globali delle materie prime e dell’energia, si registrano maggiori entrate per Mosca nonostante una significativa diminuzione delle sue esportazioni. Mentre i prezzi internazionali più alti, alimentando l’inflazione, si traducono in problemi politici interni per coloro che hanno emanato le sanzioni”.
E mentre il rublo, nonostante il flagello, si è “ripreso grazie all’intervento statale”, altre valute sono in forte calo: per fare un esempio, lo yen giapponese, “(la terza valuta più scambiata al mondo), è sceso al minimo da 20 anni rispetto al dollaro USA”
“Nel frattempo, l’inflazione galoppante e le interruzioni delle catene di approvvigionamento stanno minacciando i profitti delle imprese occidentali, mentre l’aumento dei tassi di interesse, deciso per frenare l’inflazione, peggiora la già brutta situazione dei consumatori”.
Anche l’America è alle prese con simili problematiche, dal momento che “aprile è stato il mese peggiore per Wall Street dal crollo del marzo 2020 innescato dalla pandemia”, mentre l’indice S&P 500, che misura l’andamento delle più importanti imprese americane, nello stesso mese “è sceso dell’8,8%”.
“Nei primi due mesi di guerra ucraina – prosegue la Chellaney – chi ha imposto le sanzioni ha ironicamente aiutato la Russia a raddoppiare quasi le sue entrate relative alla vendita di combustibili fossili, circa 62 miliardi di euro, secondo il Centre for Research on Energy and Clean Air”.
“I 18 acquirenti più importanti, con la sola eccezione della Cina, sono stati i Paesi che hanno imposto le sanzioni, con l’Unione Europea che da sola ha rappresentato il 71% degli acquisti di combustibili russi”.
Non solo l’energia: “La Russia è il paese più ricco al mondo per risorse naturali, essendo tra i maggiori esportatori mondiali di gas naturale, uranio, nichel, petrolio, carbone, alluminio, rame, grano, fertilizzanti e metalli preziosi come il palladio, più prezioso dell’oro e utilizzato nei convertitori catalitici”.
Così “i veri perdenti del conflitto Russia-NATO, purtroppo, sono i paesi più poveri, che stanno sopportando il peso maggiore delle ricadute economiche. Dal Perù allo Sri Lanka , l’aumento dei prezzi di carburante, cibo e fertilizzanti ha innescato violente proteste di piazza, che in alcuni Stati sono sfociate in disordini politici”. Inoltre, tali Paesi hanno visto incrementato di molto il loro debito pubblico.
Le sanzioni avrebbero dovuto devastare la Russia, ma non è andata così, continua la ricercatrice, perché, come tutti i conflitti, anche quelli economici hanno risvolti imprevedibili.
Il combinato disposto sanzioni – rifornimento di armi all’Ucraina avrebbe dovuto portare la Russia a impantanarsi, logorandola e finendo per farla collassare. “E se, invece di una Russia indebolita – si chiede la ricercatrice – un contraccolpo nazionalistico generasse una Russia neo-imperiale più militarmente assertiva?”
Infatti, è da considerare che se certo la guerra non va come sperava la Russia, non va neanche come sperava la Nato, dal momento che Mosca ora controlla gran parte del Donbass, cioè il territorio sul quale insiste “il 90 per cento delle risorse energetiche dell’Ucraina, compreso tutto il suo petrolio offshore e gran parte delle sue infrastrutture portuali critiche. I porti ucraini sul Mar d’Azov e quattro quinti della costa ucraina del Mar Nero sono ora della Russia, che in precedenza aveva preso il controllo dello stretto di Kerch che collega questi due mari”.
Se la Russia si trincera in quest’area, secondo la Chellaney, potrebbe “evitare di impantanarsi” nonostante il diluvio di armi inviate in Ucraina. Un diluvio, peraltro, che segnala come neanche l’America creda più nell’efficacia delle sanzioni, che peraltro storicamente non hanno mai conseguito gli scopi per le quali sono state emanate, non avendo mai ottenuto il cambiamento di linea politica degli Stati interessati.
Ma c’è un altro aspetto che merita attenzione, conclude la ricercatrice: “le sanzioni, segnalando l’avvento di una nuova era di unilateralismo a guida statunitense, rischiano di indebolire e, alla fine, persino di far collassare l’architettura finanziaria globale controllata dall’Occidente che si vorrebbe difendere”.
Infatti, “le sanzioni estreme, alimentando preoccupazioni diffuse sull’armamento della finanza, con tutte le implicazioni che ciò comporta per i Paesi che oseranno oltrepassare le linee rosse stabilite degli Stati Uniti, hanno dato nuovi stimoli agli Stati non occidentali per esplorare nuovi accordi paralleli. La Cina non solo guiderà tale processo, ma è anche destinata a emergere come la vera vincitrice del conflitto NATO-Russia”.
La chiosa finale della ricercatrice è discutibile, ma di certo a Washington tale ipotesi è presa in seria considerazione. E però continuare a esercitare la massima pressione sulla Russia e, in parallelo, ripristinare l’assertività pregressa, o aumentarla, nei confronti della Cina, non è praticabile. Neanche l’America può reggere due fronti tanto impegnativi.
Così, mentre il confronto con la Russia resta aspro, con tutti i rischi del caso, il confronto globale Oriente – Occidente rimane fluido e imprevedibile. Vedremo.
FONTE: https://piccolenote.ilgiornale.it/55684/la-russia-ha-retto-la-stretta-delle-sanzioni-il-mondo-no
POLITICA
Il rosso e il fucsia: il socialismo d’assalto dei CARC e la “pace proibita” di Michele Santoro
Avanti.it La narrazione uniformante dei media di regime non fa breccia nel popolo sempre e comunque. È quello che stanno dimostrando i tamburi della propaganda atlantista per fomentare russofobia e corsa agli armamenti: stavolta neanche la sinistra ci è cascata. In effetti, non ce lo aspettavamo, dopo aver assistito negli anni dell’operazione coronavirus al cieco esercizio di obbedienza a norme e protocolli pseudo-sanitari (primo su tutti, la mascherina all’aperto) e alla più cieca professione di fede alla narrazione imposta da tecnici ed esperti. Ebbene sì: noi credevamo che lo stoicismo covidista della sinistra italiana avrebbe immediatamente scaricato e installato l’aggiornamento inviato dall’alto, trasformandosi in frenesia bellica e odio verso tutto ciò che è russo. E anche loro, i padroni del discorso, lo credevano: già Cairo Communication preparava il terreno su La7 con titoli come “Da No Vax a Pro Putin?” ma abbiam fatto male i conti, noi e loro. Se nel piano sanitario entrava in campo la sacralità della Scienza, con le sue leve stregonesche che sobillavano le più ataviche paure sulla propria salute, l’avversità alla guerra è sempre stata, invece, uno dei valori di sinistra che nemmeno lo tsunami fucsia è riuscito a scalfire. Così, l’evento “Pace proibita” organizzato il 2 maggio dalle 21 alle 23,30 da Michele Santoro al Teatro Ghione di Roma ha fatto il tutto esaurito, vedendo la partecipazione straordinaria di tutti personaggi della sinistra anti-sistema che durante la pandemia o erano spariti, o ce li eravamo ritrovati a pappagallare sul trespolo petaloso della narrazione repubblichina (nel senso di Molinari). Ascanio Celestini, Fiorella Mannoia, Vauro Senesi, Moni Ovadia, Sabina Guzzanti, Tomaso Montanari: ce li siamo trovati tutti là, insieme, in un revival dal sapore cinematografico, come stagionati vendicatori marveliani, a dire basta alle armi, sì alla pace. I più si sono astenuti dal parlare apertamente delle ragioni di Putin, anche se Ovadia ha letto un bellissimo articolo della giornalista americana Lara Logan sul battaglione Azov. La diretta dell’evento, rifiutata dal mainstream, è passata sui canali indipendenti, Byoblu, Telenorba, etc. e un tripudiante Santoro all’indomani del grande successo non ha disdegnato di lasciare intendere un suo ritorno in politica: “Fare il mio lavoro è la mia politica, ma se il mondo volesse un partito nuovo non capisco perché io non potrei aderire come tanti altri”.A Napoli – stesso giorno, tre ore prima – l’aria era diversa. Duecento persone si sono presentate all’evento organizzato dal partito dei Comitati di Appoggio alla Resistenza per il Comunismo (noto come CARC) che, fermandosi al titolo, sembrerebbe proprio la stessa cosa: “Contro la guerra, la propaganda di guerra e la censura. Per la libertà d’informazione”. Ma, già dall’impostazione, tutto cambia: si inizia commemorando la strage di Odessa – quella in cui 42 persone morirono bruciate vive, torturate e giustiziate in loco dai neonazisti (finanziati dagli USA) che diedero fuoco alla Casa dei sindacati – poi interviene Ciro Raia, presidente dell’ANPI di Napoli, che risponde ai pesanti attacchi subiti negli ultimi giorni per non essersi schierati univocamente con la propaganda atlantista. Ospite di punta è Giorgio Bianchi, appena tornato dal Donbass, che spiega a che punto è il conflitto e riporta ciò che ha visto sul campo. Così come nelle intenzioni degli organizzatori, l’evento prosegue nella sua natura pluralistica e composita: la moderatrice Fabiola D’Aliesio, direttivo nazionale CARC, dà la parola a don Filippo Severino del movimento Pax Christi come al giornalista Francesco Santoianni, a volti noti della politica locale come Luigi De Magistris, Giorgio Cremaschi e Maria Muscarà si alternano attivisti locali come Valentina Dell’Aversana del Comitato contro la deriva autoritaria della gestione della pandemia e il giovane Gennaro Thiago Menna. È proprio questa pluralità, ci spiega Igor Papaleo, segretario CARC della Campania, la reale depositaria della verità, che va restituita alle classi popolari per costituire quell’intelligenza collettiva che è la base di qualunque discorso organizzativo. I CARC stanno faticosamente costruendo il comunismo contemporaneo, e hanno le idee chiare: diversamente da Potere al popolo!, che dopo il diktat di Cremaschi ha abbandonato qualsiasi forma di dissenso alla narrazione dominante in materia di Covid e dittatura sanitaria, i Comitati a Napoli hanno fin da subito stretto una solida alleanza con le realtà contrarie al green pass, dagli studenti fino ai gruppi minori, condividendo anche la piazza e offrendo le loro strutture per riunioni ed eventi. Così, nonostante la partecipazione popolare assai minore rispetto ad altre metropoli italiane, Napoli è l’unica città dove i movimenti contro le politiche economicide e le assurdità sanitarie dell’operazione coronavirus hanno assunto un’anima di sinistra. Quest’evento, così come le attività capillari sul territorio di quelli che per i più sono soltanto centri sociali, è un primo passo, a detta di Igor Papaleo, segretario campano dei CARC, verso la creazione di strutture autonome di autogoverno che possano sopperire al distacco sempre maggiore delle istituzioni – ormai al soldo dei poteri sovranazionali – dai popoli. Napoli chiama Roma: ancora una volta, le realtà territoriali hanno dato una lezione di socialismo ai pacifisti arcobaleno.FONTE: https://avanti.it/il-rosso-e-il-fucsia-il-socialismo-dassalto-dei-carc-e-la-pace-proibita-di-michele-santoro/
Leo Strauss e i neocons, architetti delle guerre
di Roberto Pecchioli
Alcune personalità poco conosciute al grande pubblico influenzano le idee e gli accadimenti storici molto più di protagonisti famosi. Nella Chiesa Giuseppe Dossetti, prima politico, poi monaco, riuscì a determinare molte delle conclusioni del Concilio Vaticano II e pose le basi, in Italia, per l’egemonia del cattocomunismo. A livello globale, poche personalità influenzano il presente quanto Leo Strauss, pensatore tedesco di origine ebraica emigrato negli Stati Uniti. Il suo pensiero è poco noto, la sua lezione è alla base del movimento neo conservatore e della politica di potenza. Possiamo affermare che gli straussiani – alcune decine di personalità di enorme potere – sono veri e propri architetti della guerra come strumento dell’impero americano.
Leo Strauss (1899-1973) nacque in una famiglia di stretta osservanza ebraica e in giovinezza fu affascinato dal pensiero di Heidegger – successivamente rinnegato – poi amico e sodale di Carl Schmitt, che lo aiutò nella carriera e di cui sempre condivise l’approccio filosofico realistico. Ammiratore di Hobbes, ebbe un rapporto controverso nei confronti di Niccolò Machiavelli, il fondatore della scienza politica. Studioso di Platone, polemico contro lo storicismo imperante, propugnò una sorta di ritorno agli antichi, latori di verità insieme profonde e segrete.
Ciò che differenzia radicalmente il pensiero di Strauss da quello di tutti gli altri pensatori del suo tempo è la convinzione che i saggi – da sempre – abbiano fatto ricorso a una forma di scrittura basata sulla reticenza e l’occultamento, la doppiezza e il sotterfugio.
Di qui la necessità di leggere tra le righe, alla ricerca delle verità nascoste, dei simbolismi, dei messaggi cifrati, delle allusioni e degli ammaestramenti segreti, che, per non risultare distruttivi, devono rimanere appannaggio di ristrette cerchie intellettuali. Il rimprovero mosso a Machiavelli è di aver rivelato gli “arcana imperii” senza mantenere il suo magistero – che Strauss segretamente ammirava – all’interno di una ristretta cerchia di iniziati accuratamente selezionati. Strauss fu soprattutto il tenace costruttore di un modello di ordine politico orientato non al bene comune o al senso di giustizia, bensì alla potenza, fondato su una concezione secolarizzata della storia e una visione naturalistica dell’uomo.
Il crocevia del pensiero di Strauss fu la scoperta – o riscoperta – della cosiddetta scrittura reticente, che non svela ma cela, la prassi della filosofia perenne come insegnamento esoterico, a partire degli scritti del greco Senofonte. Per Strauss cultura e morale sono un prodotto dei filosofi/profeti. Ispirato da Platone (Repubblica), il filosofo deve trasformarsi in legislatore. Tuttavia, poiché la verità è oscura e sordida, essa è riservata a pochi illuminati. In pubblico, il filosofo deve fingere di credere alle illusioni di massa, costruite a uso delle moltitudini. La chiamò “nobile menzogna”, una doppiezza applicata da un potere che finge con grande cura di credere a principi e valori – buoni per il popolo – che disapplica e deride nelle stanze riservate della decisione.
Il sapiente deve essere in pubblico paladino della giustizia e della bontà disinteressata, mentre insegna in segreto a una scelta platea che la verità è segreta, la folla manipolabile, la giustizia favorevole all’amico e avversa al nemico. Tutti i grandi filosofi furono per Strauss scrittori esoterici con un doppio messaggio, uno di salvezza per la massa, l’altro di potere per la minoranza. Evidente il debito platonico, la preferenza per Trasimaco contro Socrate: la giustizia è l’interesse del più forte; chiunque sia al potere fa le regole a suo vantaggio e le chiama giustizia. L’impatto di Strauss sulla vita intellettuale delle élite americane è stato tra i più influenti movimenti accademici del XX secolo. Gli straussiani – una minoranza ristretta ma potentissima – sono al potere in Occidente e la menzogna è la forma normale della relazione tra popolo e oligarchia, dominanti e dominati.
Gli straussiani sono un gruppo di dottrinari, pensatori, politici, uomini d’impresa che guidano da decenni la politica americana sui temi economici e di potenza. Qualcuno li considera una setta e in effetti i primi discepoli di Strauss furono un circolo quasi segreto, costituito da giovani di origine ebraica. Ad essi era riservato l’insegnamento più criptico ed esoterico, trasmesso in forma orale, come gli antichi maestri.
Le lezioni ai prescelti avvenivano in forma di conversazione privata e di esse non esistono tracce scritte, solo riferimenti indiretti. Il filo conduttore di quell’insegnamento segreto – esoterico in senso letterale – era la necessità di un potere forte, accentrato, e la conclusione che la democrazia liberale non può sopravvivere se non diretta da un potere superiore dotato di forza coercitiva. Strauss era convinto che le opere degli antichi contenessero concetti veritativi comprensibili a pochi, inadatti alla massa, alla quale vanno fornite conoscenze essoteriche, ossia comunicate anche ai non iniziati.
Inculcava il principio della nobile menzogna, ritenendo moralmente giusto mentire per un fine superiore – il potere – una condotta da applicare all’attività pubblica degli iniziati, a partire dall’agitazione dei suoi seguaci contro le lezioni di docenti di avverso orientamento. Il fine era una sorta di lotta continua applicata alla geopolitica. Uno Stato deciso a sopravvivere e a esercitare volontà di potenza (Nietzsche fu uno dei riferimenti di Strauss) deve essere permanentemente in guerra. Questo portava Strauss a un’etica spartana, giacché la pace porta in sé i germi della decadenza.
L’intero pensiero di Strauss è dominato dal platonismo e da una concezione di diritto naturale hobbesiana. L’architrave della società è un élite coesa dai principi distinti da quelli ufficialmente veicolati: qualcuno è destinato a dirigere, la maggioranza a essere diretta. Sono degni di esercitare il potere coloro che sanno che non esiste moralità fuori dell’oligarchia. Tuttavia, Strauss sosteneva nei suoi scritti che la morale è indispensabile per mantenere l’ordine e la coesione interna delle società. La religione è la colonna dell’ordine sociale. Se per Marx la religione era l’oppio dei popoli, per Strauss è una “santa frode”, un efficace strumento della politica, il collante che unisce le società. Utile, necessaria per le masse, non per i governanti.
Un coacervo di idee che influisce sulla politica estera americana da decenni, trascinato dall’influenza nell’economia, nella cultura, nei “pensatoi” riservati (think tank). L’intera architettura geopolitica e di guerra ibrida dispiegata dagli Usa dalla caduta del comunismo sovietico è stata impostata e spesso dominata dagli straussiani, presenti in ruoli chiave nelle amministrazioni sia democratiche che repubblicane.
Dopo la morte di Strauss, i suoi discepoli si mantennero uniti e sbarcarono in politica al seguito del senatore democratico Henry “Scoop” Jackson. Tra loro Elliott Abrams, Paul Wolfowitz, Richard Perle. Gli ultimi due avrebbero ricoperto incarichi governativi apicali. Decisivo fu l’approdo nel giro straussiano di un gruppo di intellettuali di ascendenza trotzkista (la rivoluzione permanente di Lev Trotsky, corrispettivo della lotta politica continua, metafora della guerra permanente straussiana), israeliti anch’essi. Si trattava di giovani carichi di avversione verso l’URSS, portati in politica dalla Rand Corporation, il più influente think tank dell’apparato militare industriale statunitense. Gli ex trotzkisti, da collaboratori del partito democratico, passarono ai repubblicani, diventando ideologi del cosiddetto neo conservatorismo. Wolfowitz introdusse concetti come “guerra preventiva” e “asse del male” con riferimento ai nemici degli Usa.
Fin dal 1976, Wolfowitz era giunto alla conclusione che non era sufficiente isolare l’URSS, occorreva farla finita con essa. I neocons divennero artefici di gruppi di lavoro e ONG legate al potere riservato come il National Endowment for Democracy (NED) e l’USIP, dal nome orwelliano di Istituto Statunitense per la Pace. Entrambe, con l’appoggio dell’Open Society di George Soros e delle ricche ONG dei miliardari, furono implicate nel tentativo rivoluzionario cinese di Tienanmen, in tutte le “rivoluzioni colorate “e nella deposizione e successivo arresto del presidente serbo Milosevic; nella rivoluzione delle rose georgiana che provocò la caduta del presidente ex sovietico Shevardnadze e condusse a una guerra. E ancora nella rivoluzione arancione in Ucraina del 2004, con la cacciata di Yuschenko; in quella dei tulipani in Kirghizistan nel 2005; nella rivoluzione che cercò invano di deporre il belorusso Lukashenko; nei disordini antirussi del 2009 in Moldavia. Il ruolo dei neocons e delle ONG legate alla Cia e ai “filantropi” nei fatti ucraini del 2014, l’azione di Victoria Nuland – esponente democratica, moglie del neocon straussiano Robert Kagan (diventato democratico in odio al “fascismo” di Trump) è noto a chi non legge le veline mainstream.
Wolfowitz elaborò nel 1992 un documento nel quale chiedeva una più forte egemonia mondiale americana, anche contro l’Europa. La tesi era che i governi europei non hanno una visione geopolitica globale (è la verità) e che quindi l’impero americano è autorizzato a prendere decisioni unilaterali. Robert Kagan scrisse un libro apertamente anti europeo nel 2003 e un significativo articolo sull’influente rivista Foreign Affairs in cui sosteneva “la benevola egemonia globale degli Stati Uniti”. Straussiani di fatto furono esponenti dei governi repubblicani come Dick Cheney e Donald Rumsfeld. Richard Perle fu consigliere del presidente bosniaco musulmano Izetbegovic e trafficò con la strana figura di Osama Bin Laden. Gli straussiani e i neocons hanno spesso usato l’islamismo per indebolire gli alleati della Russia, pur saldamente ancorati a un sionismo estremista, in nome del quale Perle consigliò nel 1996 l’eliminazione di Yasser Arafat, l’inizio di una guerra contro l’Iraq (avvenuta alcuni anni dopo) e la deportazione dei palestinesi in territorio iracheno.
Dopo l’oscuro attentato alle Torri gemelle, fu Wolfowitz l’ispiratore dell’operazione Desert Storm (Tempesta nel Deserto) e i neocons dell’Office of Special Plans gli artefici della propaganda bellica sulle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein. Non fecero altro che applicare la strategia della “nobile menzogna” di Strauss ed elaborarono la teoria geopolitica e geoeconomica detta dottrina Rumsfeld-Cebrowski. Questi i punti essenziali: gli Stati Uniti devono garantirsi risorse a basso costo dai paesi in via di sviluppo; le guerre coloniali convenzionali per conquistare e dominare completamente un paese sono praticamente impossibili o troppo costose. Pertanto i conflitti armati devono essere prolungati in una “guerra senza fine” che lasci sul campo Stati falliti, come la Libia dopo Gheddafi. Gli Stati Uniti devono promuovere o provocare guerre attraverso organizzazioni o governi fantoccio e prolungarle il più a lungo possibile (Afghanistan, Iraq o Siria). In assenza di uno Stato con cui negoziare, l’estrazione delle risorse (leggi il furto) è molto più facile.
Gli insuccessi finali dei conflitti scatenati hanno costretto gli straussiani a cambiare strategia, ma la tattica generale è sempre quella di soffiare sul fuoco per mantenere instabile le aree geopolitiche di interesse. Da questa prospettiva, cambia il giudizio sulla guerra in Ucraina, un conflitto in fondo regionale che può portare a conseguenze drammatiche. In una visione straussiana, non stupirebbe che l’oligarchia Usa punti a un accordo sotterraneo con la Russia in funzione anti europea, con il risultato di rendere l’Europa dipendente non dal gas naturale russo (che può essere venduto altrove) ma dal gas di scisto americano, alla faccia della propaganda green e degli interessi della colonia europea. La doppiezza straussiana – agire in termini di potenza mentendo ai popoli – è una delle forme della “grande politica” ignota alla gente comune. Però la chiamano democrazia.
FONTE: https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/22952-roberto-pecchioli-leo-strauss-e-i-neocons-architetti-delle-guerre.html
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