Mondi a parte: stranieri in carcere
di Alessandra Naldi
1.1 – Un fenomeno in crescita
Negli ultimi anni abbiamo registrato un enorme incremento della popolazione detenuta in Italia. Un incremento che risulta inspiegabile se si guarda ai classici indicatori utilizzati nell’analisi della criminalità da cui emerge piuttosto una complessiva diminuzione del peso e della frequenza di episodi delittuosi, quantomeno di quelli che intaccano la sfera del privato come le violenze o la sottrazione di beni personali. Molti hanno invece ricondotto questo incremento alla crisi dello Stato sociale e alla corrispondente opzione a favore di una risposta penale per tutti quei fenomeni che – a torto o a ragione – vengono messi in relazione alla questione della sicurezza e in particolare della sicurezza urbana.
Come mostrano le statistiche, a fare le spese di questo inusitato ricorso alla risposta penale sono sempre più spesso i “soggetti deboli”, cioè quelle categorie di persone che incontrano maggiori handicap nell’accesso ai diritti e alle garanzie (sempre più ridotte) offerte dai sistemi sociali; tra questi si inseriscono a pieno titolo gli stranieri, la cui presenza in carcere infatti negli ultimi anni è notevolmente aumentata, sia in termini assoluti che percentuali.
L’aumento della presenza straniera, che per il nostro paese rappresenta un cambiamento radicale nella situazione penale e carceraria, rispecchia in realtà una tendenza diffusa in tutto il mondo occidentale. Come nota Loic Wacquant, «in Europa, gli stranieri, gli immigrati non occidentali detti di “seconda generazione” e le persone di colore, ossia le categorie più vulnerabili sul mercato del lavoro e meno tutelate dal settore assistenziale dello Stato, sono decisamente sovrarappresentate in seno alla popolazione carceraria, in maniera per certi versi paragonabile alla “sproporzione” che colpisce i neri degli Stati Uniti».
Oggi gli stranieri detenuti in Italia sono quasi un terzo della popolazione detenuta: esattamente 16.330 su un totale di 55.338 detenuti complessivamente presenti nelle carceri italiane (dati a fine maggio 2001 ), pari al 29,5 % delle attuali presenze in carcere; sono quindi circa il doppio di quanti erano per esempio nel 1995, quando gli stranieri erano 8.334 pari al 17,7 % della popolazione detenuta complessiva.
Tra i nuovi ingressi in carcere l’incremento della percentuale di stranieri è ancora più vistoso. Alla fine degli anni Ottanta, quando il fenomeno dell’immigrazione straniera cominciava a farsi strada nell’agenda pubblica del nostro paese, era straniero un nuovo giunto all’incirca ogni sette/otto persone che entravano in carcere. Nel 1991 la percentuale di stranieri tra i nuovi ingressi in carcere era esattamente del 17,3 %; nel giro di cinque anni (1996) questa quota era già salita al 28,1 %: era cioè straniera più di una persona ogni quattro che venivano condotte in carcere. Nel 1999 avevamo già superato la soglia di uno su tre (esattamente il 33,4% dei nuovi giunti risultavano infatti essere stranieri) e nel 2000 la quota di stranieri sui nuovi giunti è ulteriormente salita fino al 36,2 %.
Il dato attuale sugli stranieri in carcere riflette quindi un fenomeno nuovo per il sistema penale e penitenziario italiano ma anche un fenomeno che è destinato ad aumentare nel prossimo futuro, se come sembra non interverranno radicali cambiamenti di rotta nelle politiche di gestione dell’ordine pubblico e soprattutto nelle politiche nei confronti dell’immigrazione.
1.1.1. Le ragioni dell’aumento della presenza di detenuti stranieri
Dietro questo dato di circa un terzo di stranieri sul totale della popolazione detenuta oggi in Italia si nasconde in realtà un intreccio di fenomeni e un intreccio di spiegazioni possibili.
Bisogna innanzitutto sottolineare che, parlando in generale di criminalità straniera e in particolare di stranieri in carcere, il dato percentuale andrebbe sempre usato con attenzione poiché si presta a facili mistificazioni. È infatti un dato che riflette non solo l’aumento del numero di persone straniere che entrano in contatto col sistema penale e carcerario, ma anche il parallelo calo del numero di cittadini italiani che vivono un’esperienza di detenzione.
La criminalità straniera in Italia è ovviamente in aumento ma, come ha dimostrato Dario Melossi in una recente ricerca su multiculturalismo e sicurezza, è un aumento che va di pari passo con lo stabilizzarsi degli immigrati nel nostro paese: il trend di aumento della criminalità straniera, ricostruito in base ai dati sulle denunce a carico di cittadini stranieri e sugli ingressi di stranieri in carcere, è infatti del tutto simile a quello del numero di permessi di soggiorno concessi a cittadini stranieri.La considerazione principale riguarda però il fatto che nei confronti degli stranieri vengono spesso intrapresi percorsi penali differenziati rispetto a quelli riservati agli italiani. I dati sugli stranieri in carcere mostrano infatti importanti differenze tra detenuti italiani e detenuti stranieri, in particolare riguardo alle posizioni giuridiche e alla tipologia di reati che sono all’origine della detenzione. Per gli stranieri, ancor più che per gli italiani, si fa un notevole ricorso alla custodia cautelare, e questo fa sì che quasi il 60 % (59,7 % al 31 maggio 2001) degli stranieri nelle carceri italiane siano detenuti in attesa di giudizio mentre tra gli italiani, per cui comunque la situazione non può certo definirsi rosea, questo dato scende al di sotto del 40 % (39,50 % alla stessa data).
In realtà la discriminazione trova origine ancora più a monte, visto che le stati le penali registrano notevoli discrepanze anche nei dati relativi a denunce e condanne: la percentuale di stranieri rispetto al totale della popolazione detenuta è infatti molto più elevata di quella degli stranieri che subiscono una condanna penale e ancor più di quella degli stranieri denunciati.
1.1.2. Differenze tra i reati ascritti a detenuti italiani e stranieri
Un’ulteriore conferma dell’esistenza di fatto di percorsi penali differenziati per i cittadini stranieri viene dai dati relativi ai crimini che sono all’origine della carcerazione; anche in questo caso si registrano infatti marcate differenze tra detenuti italiani e detenuti stranieri. A partire dalla quantità dei reati ascritti rispettivamente a italiani e stranieri: ricordando che è frequente che una stessa persona sia imputata o condannata per più di un reato, i dati mostrano che gli italiani in carcere hanno sulle loro spalle un numero medio di imputazioni decisamente superiore a quello degli stranieri. I 171.458 reati complessivamente ascritti alle 55.338 persone detenute in Italia a fine maggio 2001 (pari in media a poco più di tre reati a testa) non sono infatti distribuiti equamente tra italiani e stranieri: quelli che riguardano gli stranieri sono solo 31.935, cioè meno di due reati in media per ogni straniero detenuto (1,96); i restanti 139.521 reati sono ascritti ai detenuti italiani, per una media di reati a persona decisamente più elevata (3,57).
Riguardo alla tipologia di reati ascritti ai detenuti, i dati mostrano la maggior frequenza con cui i detenuti stranieri sono accusati di violazioni della normativa sugli stupefacenti: costituiscono infatti il 38,4 % del totale dei reati ascritti a detenuti stranieri, contro il 16,5 % per gli italiani. Notevole è anche la prevalenza di stranieri tra le persone accusate di reati connessi alla prostituzione e, ovviamente, di violazione della legge sull’immigrazione; per tutte le altre tipologie di reato, la percentuale di casi attribuiti agli stranieri è sempre inferiore alla quota di stranieri sul totale della popolazione detenuta.
Al di là di queste considerazioni estremamente generiche, occorre notare che questo tipo di aggregazione dei dati non facilita il confronto tra italiani e stranieri, proprio a causa di quella sproporzione nella quantità di reati ascritti complessivamente ai detenuti italiani e a quelli stranieri evidenziata in precedenza. Altri dati diffusi dal ministero, anche se purtroppo più vecchi (si fermano infatti al 31 dicembre 1999), associano invece ciascun detenuto a un singolo reato e sono quindi di più agile utilizzo ai fini del confronto tra italiani e stranieri. Hanno inoltre il vantaggio di fornire, oltre ai dati aggregati, anche quelli relativi a ciascuna fattispecie di reato, consentendo così di distinguere tra crimini molto diversi (per caratteristiche e gravità) che risultano aggregati all’interno di un’unica categoria.
Leggendo i dati così disaggregati, risulta evidente come gli stranieri in Italia finiscano in carcere con imputazioni mediamente meno gravi degli italiani e comunque con differenze qualitative molto rilevanti.
Per la maggioranza assoluta (56,5 %) degli stranieri in carcere a fine 1999 la causa della detenzione era riconducibile a violazioni della legge sugli stupefacenti; tra gli italiani la quota di detenuti per questo tipo di reato scendeva a meno di un terzo (30,7 %). Al contrario, erano in proporzione molti di più gli italiani detenuti per reati contro la persona (19,5 %, contro il 9,2 % dei detenuti stranieri); e anche all’interno di questa grande categoria, i reati ascritti agli italiani risultavano mediamente reati molto più gravi (in particolare omicidi) mentre tra gli stranieri erano nettamente più frequenti reati come lesioni, minacce ecc. Analogo discorso vale per i reati contro il patrimonio, che erano all’origine della detenzione per il 33,8 % degli italiani contro il 22,3 % degli stranieri: in media risultavano esserci più detenuti italiani per rapina o estorsione e più detenuti stranieri per furto.
1.1.3. Una discriminazione a più livelli
All’origine di queste differenze tra cittadini italiani e cittadini stranieri nel rapporto con il sistema penale vi sono certamente scelte di politica di repressione del crimine e di gestione del fenomeno immigrazione, ma anche problematiche specifiche del sistema giudiziario e penale italiano che proprio di fronte all’affermarsi anche in Italia di una ampia fascia di criminalità straniera sta manifestando nuove e pesanti criticità.
Si può notare innanzitutto che, se gli stranieri compiono mediamente reati meno gravi degli italiani, si tratta però proprio di quei reati (furti, scippi, spaccio di droga…) più frequentemente associati alle istanze securitarie che tanto spazio hanno avuto nell’agenda pubblica del nostro paese negli ultimi anni, e che parallelamente sono diventati ancora più l’oggetto privilegiato delle politiche di controllo del territorio e dell’attenzione delle forze dell’ordine. Inoltre, trattandosi per lo più di reati di strada, l’individuazione dell’autore di questo tipo di crimini coincide per lo più con un arresto in flagranza di reato (senza dover ricorrere a un notevole impiego di risorse investigative, come invece esigono, ad esempio, i reati economici e finanziari).
Una volta entrati in contatto con il sistema penale italiano, è facile riscontrare come i cittadini stranieri subiscano ulteriori situazioni di discriminazione di fatto. Innanzitutto perché spesso per loro le garanzie di difesa in sede processuale risultano essere meno tutelate, per una serie di ragioni ben note: per motivi economici non possono quasi mai assicurarsi un difensore di fiducia e devono quindi ricorrere a difensori d’ufficio, visto anche che ostacoli formali e sostanziali (in primis l’impossibilità di certificare il livello di reddito di una persona che vive in Italia in una condizione di immigrazione irregolare) rendono loro estremamente difficoltoso accedere al gratuito patrocinio; subiscono inoltre le conseguenze di evidenti difficoltà linguistiche, di comunicazione e di scarsa conoscenza del sistema giuridico italiano. È infine facile dimostrare che nei confronti degli stranieri provenienti dai paesi poveri, come avviene spesso anche per gli altri “soggetti deboli”, l’istituzione giudicante mostra in genere un livello di attenzione minore rispetto a quello che viene garantito non solo ai cosiddetti “imputati eccellenti” ma in generale a chiunque per status, benessere economico e posizione sociale abbia degli strumenti di tutela da attivare in caso di errori giudiziari o di palese violazione delle garanzie di difesa; in questo senso un esempio è la brevità con cui vengono chiusi i processi a carico di stranieri e la frequenza con cui in questi casi si consiglia all’imputato di optare per il patteggiamento della pena.
Infine, a parità di imputazione o di condanna, la permanenza in carcere degli stranieri è mediamente più lunga di quella degli italiani, sia in fase di custodia cautelare che dopo l’eventuale sentenza. Questa differenza viene comunemente ricondotta al fatto che spesso gli stranieri non hanno un domicilio certificato per poter usufruire degli arresti domiciliari o delle misure alternative alla detenzione; ma anche quando la società civile è in grado di offrire soluzioni provvisorie per rimediare a questo problema (come nel caso delle molte associazioni di volontariato che, su tutto il territorio nazionale, si stanno attrezzando per offrire un alloggio temporaneo agli stranieri che possono accedere alla detenzione domiciliare o alle misure alternative, oltre che per coloro che possono usufruire di permessi premio), da parte della Magistratura di Sorveglianza si riscontra spesso un atteggiamento di maggiore chiusura nei confronti degli stranieri che rende loro ancor più infrequente che per gli italiani il ricorso a percorsi penali alternativi al carcere.
1.2 Alcune caratteristiche della presenza straniera nelle carceri italiane
Prima di entrare nel dettaglio di alcune delle principali caratteristiche della popolazione straniera detenuta nelle carceri italiane, un dato che occorre segnalare riguarda l’ineguale distribuzione sul territorio. La media nazionale del 29,5% di detenuti stranieri nasconde infatti fortissime disparità a livello regionale: i detenuti stranieri si concentrano soprattutto negli istituti penitenziari del centro nord e, tra questi, soprattutto nelle carceri delle grandi aree metropolitane.
L’ineguale distribuzione dei detenuti stranieri sul territorio nazionale rispecchia in parte le caratteristiche della presenza immigrata nel nostro paese che, come è noto, privilegia come luogo di approdo le grandi aree metropolitane, soprattutto delle regioni del nord e del centro Italia, per spostarsi solo in un secondo momento verso aree più decentrate (le province del nord-est, le campagne del sud); viceversa le fasce più marginali della popolazione immigrata, che sappiamo essere quelle più contigue al mondo della microcriminalità e della devianza, tendono a fermarsi nelle grandi città. .
Ad influire sulla distribuzione della presenza di detenuti stranieri vi sono poi le caratteristiche della popolazione detenuta di nazionalità italiana. Come avevamo già evidenziato nel precedente Rapporto, permangono forti disparità tra nord e sud Italia: così, mentre le carceri delle principali regioni del sud restano popolate in prevalenza da detenuti “locali”, nelle carceri del centro-nord la popolazione locale lascia via via il posto ai “nuovi arrivati”.
Un ultimo fattore che è importante citare, soprattutto per gli effetti che ha sulle condizioni di detenzione e di vita dei detenuti stranieri, riguarda il fatto che proprio gli stranieri, che spesso (soprattutto se sono sprovvisti di permesso di soggiorno) non possono certificare il luogo in cui risiedono e in cui risiede la loro famiglia, sono i primi ad essere coinvolti nei periodici sfollamenti che interessano molti degli istituti penitenziari italiani: come li aveva definiti qualche anno fa il direttore della CC “San Vittore” di Milano, «un popolo detenuto in continuo movimento, in traduzione continua da carcere a carcere».
Riguardo alla provenienza geografica degli stranieri detenuti nelle carceri italiane, vi è una netta prevalenza di detenuti provenienti dai paesi del Nord Africa, in particolare di maghrebini (Marocco, Tunisia e Algeria sono tre tra le quattro nazionalità in assoluto più frequenti), e da paesi europei non appartenenti alla UE, in particolare da Albania, ex Jugoslavia e Romania. Vi è inoltre una discreta presenza di detenuti sudamericani, soprattutto colombiani, cileni e venezuelani, mentre più scarsa è la presenza di detenuti provenienti dagli altri paesi dell’Africa e dall’Asia.
Nel corso degli ultimissimi anni la popolazione straniera detenuta, oltre che aumentare, è notevolmente cambiata quanto a composizione per provenienza geografica. Il dato più importante è l’aumento rilevante della presenza albanese: gli albanesi in carcere sono infatti passati da 2.104 (e dal terzo posto nella graduatoria per nazioni) agli attuali 2.717, con un incremento di quasi il 30 % nell’arco di meno di un anno e mezzo che li ha portati a diventare il secondo gruppo nazionale presente nelle carceri italiane. Per quanto riguarda gli altri paesi dell’est europeo, si registra un marcato incremento anche nella presenza di cittadini romeni (+27 %) e un lievissimo calo di detenuti provenienti dall’attuale Jugoslavia (-2,9 %), controtendenza parzialmente compensata da un forte aumento della presenza di croati (+39,3 %). Riguardo ai paesi del Maghreb, continua ad aumentare la presenza di marocchini (da 3.095 a 3.597), che si confermano di gran lunga il gruppo nazionale più presente nelle carceri italiane; è invece in calo anche in termini assoluti la presenza di tunisini (-2,9 %) mentre aumentano in maniera abbastanza cospicua i detenuti algerini (+22,1 %).
Si tratta quindi, anche dal punto di vista della provenienza geografica degli stranieri detenuti, di una situazione a tutt’oggi in forte evoluzione. Ovviamente questo comporta per l’istituzione carceraria enormi difficoltà a mettere a punto strumenti adeguati per fare fronte al radicale cambiamento nella composizione della popolazione detenuta. Si pensi, ad esempio, al problema della lingua: in una situazione che, come vedremo nel paragrafo successivo, vede già una pesante carenza di interpreti, mediatori linguistici e strumenti di comunicazione approntati nelle lingue di origine di detenuti stranieri, il continuo cambiamento nella composizione della popolazione detenuta straniera comporta ulteriori difficoltà ai pochi tentativi fatti finora per colmare questa mancanza. Ma anche rispetto ai tentativi (anche in questo caso, non molto frequenti) di un’offerta di attività trattamentali, educative e ricreative destinate in specifico a gruppi di detenuti stranieri, il rischio è quello di veder “invecchiare” i progetti prima ancora della loro realizzazione.
1.3 L’istituzione carcere di fronte alla presenza straniera
Il recente Regolamento di esecuzione del 2000 ha affrontato esplicitamente il problema dell’esecuzione penale e del trattamento in carcere per i detenuti stranieri. In particolare l’articolo 35 è dedicato esplicitamente alle condizioni di esecuzione penale nei confronti dei detenuti e degli internati di cittadinanza straniera, imponendo all’istituzione carceraria di tenere adeguatamente conto delle loro difficoltà linguistiche e delle loro differenze culturali, promuovendo esplicitamente i contatti con le autorità consolari dei paesi d’origine e sollecitando l’intervento di figure di mediazione culturale.
In realtà, come abbiamo avuto modo di verificare nel corso delle nostre visite, si tratta di indicazioni che restano spesso sulla carta. Sono pochi gli istituti penitenziari in cui siano stati avviati interventi per affrontare le problematiche specifiche dei detenuti stranieri. Le stesse informazioni ufficiali fornite dai Provveditorati regionali riferiscono che solo nove istituti penitenziari in Italia (su 146 censiti) prevedono un’attenzione particolare agli stranieri nell’ambito del servizio di accoglienza per i nuovi giunti; attenzione che in qualche caso si limita alla presenza di un interprete (CC di Chiavari) o alla consegna di materiale informativo in lingua (CC di Busto Arsizio e di Padova), cosa che peraltro sarebbe imposta a tutti gli istituti dall’articolo 69 dello stesso Regolamento d’esecuzione.
Estratti del nuovo “Regolamento di esecuzione della legge 26 luglio 1975 n. 354, recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà” relativi a detenuti e internati stranieri.
Art. 18. Rimborso delle spese per prestazioni sanitarie
- I detenuti o internati stranieri, apolidi o senza fissa dimora iscritti al servizio sanitario nazionale ai sensi della vigente normativa ricevono l’assistenza sanitaria a carico del servizio sanitario pubblico nel cui territorio ha sede l’istituto di assegnazione del soggetto interessato.
Art. 35. Detenuti ed internati stranieri
- Nell’esecuzione delle misure privative della libertà nei confronti di cittadini stranieri, si deve tenere conto delle loro difficoltà linguistiche e delle differenze culturali. Devono essere favorite possibilità di contatto con le autorità consolari del loro paese.
- Deve essere, inoltre, favorito l’intervento di operatori di mediazione culturale, anche attraverso convenzioni con gli enti locali o con organizzazioni di volontariato.
Art. 42. Corsi di formazione professionale
- L’ente regione, d’intesa con i provveditori regionali, programma, sulla base delle indicazioni e delle richieste delle direzioni degli istituti e con la collaborazione degli enti locali competenti, i vari tipi di corsi di formazione professionale, da svolgere secondo le esigenze della popolazione detenuta, italiana e straniera, e le richieste del mercato del lavoro. Ai sensi dell’ultimo comma dell’articolo 21 della legge, i corsi possono svolgersi in tutto o in parte, con particolare riferimento alle esercitazioni pratiche, all’esterno degli istituti.
Art. 62. Comunicazione dell’ingresso in istituto
- Immediatamente dopo l’ingresso nell’istituto penitenziario, sia in caso di provenienza dalla libertà, sia in caso di trasferimento, al detenuto e all’internato viene richiesto, da parte degli operatori penitenziari, se intenda dar notizia del fatto a un congiunto o ad altra persona indicata e, in caso positivo, se vuole avvalersi del mezzo postale ordinario o telegrafico. Della dichiarazione è redatto processo verbale.
- Se si tratta di straniero, l’arresto è comunicato all’autorità consolare nei casi e con le modalità previste dalla normativa vigente.
Art. 69. Informazioni sulle norme e sulle disposizioni che regolano la vita penitenziaria
- All’atto dell’ingresso, a ciascun detenuto o internato è consegnato un estratto delle principali norme di cui al comma 1, con l’indicazione del luogo dove è possibile consultare i testi integrali. L’estratto suindicato è fornito nelle lingue più diffuse tra i detenuti e internati stranieri.
Art. 92. Provvedimenti in caso di decesso
- Se si tratta di detenuti o di internati stranieri o italiani nati all’estero odi cui non si conosca il luogo di nascita, notizia del decesso è data al procuratore della Repubblica presso il tribunale di Roma.
Per il resto l’attenzione nei confronti della presenza straniera si limita in genere al rispetto di alcuni precetti basilari della religione islamica: in quasi tutti gli istituti da noi visitati gli operatori dichiarano di tenere conto delle esigenze dei detenuti musulmani nella preparazione del vitto (come minimo inserendo nel menu giornaliero delle alternative alla carne di maiale) e consentendo a chi lo vuole di consumare i pasti dopo il tramonto nel periodo del Ramadan. In diversi istituti sono state allestite apposite sale per la preghiera islamica o si utilizzano a turno a questo scopo alcuni degli spazi esistenti per le attività. Il problema è che oltre a questo non c’è molto altro, quasi ci si dimenticasse che non tutti i detenuti stranieri sono di fede islamica e che comunque le problematiche religiose non esauriscono le esigenze primarie di una persona. Questioni altrettanto importanti come quella della lingua non trovano altrettanta attenzione, visto che, come accennavamo prima, sono pochissimi gli istituti che dispongono di interpreti o che forniscono materiale informativo in lingua ai detenuti stranieri.
1.3.1. L’inserimento in carcere: come viene gestito il rapporto italiani/stranieri
Se a livello nazionale i detenuti stranieri costituiscono quasi un terzo della popolazione detenuta, la distribuzione ineguale sul territorio nazionale e l’elevata concentrazione di stranieri in attesa di giudizio fanno sì che vi siano istituti penitenziari in Italia in cui la netta maggioranza dei detenuti provengono da un altro paese e parlano una lingua diversa dall’italiano.
L’elevata concentrazione di stranieri viene spesso interpretata come un elemento di problematicità in sé, anche se nel corso delle nostre visite abbiamo potuto verificare che anche all’interno delle carceri non esiste alcuna “soglia di tolleranza”, oltrepassata la quale la presenza straniera si trasforma in un problema ingestibile o quasi; un esempio tra tanti che si potrebbe citare è quello del carcere di Varese in cui, a fronte di una presenza media di circa il 25-30 % di stranieri (in una struttura comunque molto vecchia, sovraffollata e con gravi carenze di spazi e attività), sono almeno tre anni che non si verificano tensioni particolari con questi gruppi di detenuti. Nel corso delle nostre visite abbiamo piuttosto verificato come le modalità con cui le direzioni penitenziarie si rapportano alla presenza di detenuti stranieri possono influire moltissimo sulla qualità dei rapporti interni agli istituti contenendo, o al contrario alimentando le problematiche che la presenza di detenuti stranieri può portare con sé.
Un primo segnale della qualità del rapporto con i detenuti stranieri viene proprio dal modo in cui essi vengono inseriti all’interno dell’istituto e si rapportano al resto della popolazione detenuta. Frequentemente in questi ultimi anni sono state segnalate situazioni critiche nelle carceri italiane a seguito di un’elevata conflittualità tra detenuti italiani e detenuti stranieri o tra due o più gruppi etnici di detenuti non italiani. La soluzione di tenere il più possibile separati i vari gruppi, adottata all’interno di alcuni istituti, lungi dal risolvere il problema, rischia alla lunga di alimentare i problemi anziché risolverli.
Secondo le informazioni diffuse dai Provveditorati regionali a cui già in precedenza si faceva riferimento, sono solo due gli istituti penitenziari che allocano i detenuti stranieri in apposite sezioni – la casa circondariale di Piazza Armerina (Enna) e quella di Trento – a cui si aggiunge la casa di reclusione di Padova che ha istituito un’apposita sezione per i soli detenuti stranieri giudicabili, mentre gli stranieri condannati vengono inseriti nelle sezioni comuni. Molti sono invece gli istituti in cui, all’interno delle stesse sezioni, si tende alla composizione di celle con detenuti di un’unica nazionalità: una scelta che può rispondere alle esigenze e ai desideri degli stessi detenuti stranieri, e che di per sé non deve essere considerata fonte di discriminazioni o di tensioni.
Altre forme più marcate di separazione, come quella di condurre all’aria in spazi o tempi differenziati detenuti italiani e detenuti stranieri (come abbiamo riscontrato, ad esempio, nella casa circondariale di Brescia), o detenuti di diverse appartenenze etnico/nazionali vengono spesso motivate dalle direzioni con l’esigenza di ridurre le occasioni di conflitto tra i gruppi di detenuti; tuttavia in alcune delle nostre visite abbiamo verificato che spesso non sono altro che un segnale di una cattiva gestione delle problematiche connesse alla presenza di detenuti stranieri e che talvolta si traduce in un ulteriore motivo di conflittualità tra detenuti. Gli stranieri sono infatti tra le categorie di detenuti che soffrono le maggiori situazioni di abbandono, di carenze di progetti trattamentali e di intervento, di scarsa tutela dei diritti fondamentali della persona; separarli dal resto della popolazione detenuta significa creare all’interno degli istituti sacche di maggiore abbandono e di concentrazione delle situazioni potenzialmente esplosive. Questa separazione può anche essere percepita dai detenuti stranieri come un’ulteriore deprivazione nei confronti dei loro compagni italiani, ingigantendo un solco spesso già esistente tra i diversi gruppi di detenuti.
1.3.2. Diritti e trattamento delle persone detenute di cittadinanza straniera
Se si escludono i pochi casi di detenuti stranieri (singoli o gruppi) che, per le motivazioni più varie, vengono adeguatamente assistiti dalle autorità consolari del proprio paese di origine piuttosto che dalla comunità immigrata di appartenenza o da una rete parentale/amicale di sostegno sufficientemente potente, per la grande maggioranza dei detenuti stranieri è difficile ottenere un’adeguata tutela sul piano giuridico ma anche, indirettamente, attraverso la comunicazione all’esterno del carcere delle proprie condizioni di vita. Il fatto stesso che ormai, come abbiamo potuto verificare più o meno in tutti gli istituti penitenziari, la stragrande maggioranza degli episodi di autolesionismo che si verificano in carcere riguarda detenuti stranieri è un chiaro segnale di come a queste persone generalmente manchino altri canali per comunicare con l’istituzione e con l’esterno per manifestare la situazione di disagio in cui versano.
Violazione dei diritti è anche l’impossibilità di fatto di usufruire dei diritti che la stessa legislazione italiana garantisce ai detenuti. Un chiaro esempio è la tutela del legame con la propria famiglia: sono pochissimi i detenuti stranieri che riescono ad usufruire di colloqui, vuoi per la condizione di clandestinità che non consente di comprovare le relazioni di parentela, vuoi perché i familiari vivono ancora nel paese d’origine o sono comunque impossibilitati a recarsi in visita nel carcere dove il proprio caro è detenuto. In questa situazione diventano ancora più importanti le telefonate ai familiari, che per legge dovrebbero essere consentite a tutti i detenuti senza interprete e obbligo di ascolto (ad eccezione di quelli condannati per i reati di cui all’articolo 4 bis dell’OP). Nonostante questo spesso la magistratura di sorveglianza o quella di esecuzione, a seconda della competenza, impone registrazione e ascolto per tutti. E questo significa presenza obbligatoria dell’interprete con tutte le difficoltà nel reperire persone che, per pochi euro, sono disposte a recarsi in orari improbabili in carcere. Inoltre, per ogni autorizzazione alla corrispondenza telefonica l’amministrazione penitenziaria deve verificare che l’utenza telefonica sia intestata effettivamente alla persona legata da vincoli di parentela con il detenuto. Qui intervengono le difficoltà burocratiche legate alla verifica del numero di telefono dei destinatari stranieri delle telefonate, la scarsa collaborazione dei consolati dei paesi d’origine, l’impossibilità di utilizzare gestori di linee telefoniche alternative alla Telecom (come normalmente fanno gli immigrati in stato di libertà) e quindi i costi troppo elevati di cui le persone detenute non sono in grado di farsi carico. Ecco così che in molti degli istituti penitenziari che abbiamo visitato gli stranieri detenuti non riescono a telefonare a casa; addirittura in qualche caso le direzioni ci hanno dichiarato che è la stessa amministrazione penitenziaria a non poter garantire ai detenuti stranieri il diritto alle telefonate.
Sono pochi gli istituti penitenziari in Italia che hanno attivato progetti trattamentali specifici per i detenuti stranieri: dai dati dei Provveditorati regionali sarebbero 48 su 146 censiti, ma in molti di questi casi si tratta semplicemente di corsi di alfabetizzazione o della creazione di sportelli informativi e/o di orientamento. Anche nel corso delle nostre visite abbiamo riscontrato una carenza di progetti trattamentali specifici per i detenuti stranieri; addirittura in un caso (CC di Teramo) ci è stato dichiarato che non è possibile avviare progetti simili perché “gli stranieri detenuti sono tutti clandestini”.
Con una serie di paradossi ulteriori che discendono da questa situazione: come l’accesso al sistema sanitario, che la legge garantisce a tutti i detenuti indipendentemente dalla cittadinanza, ma che per gli stranieri tossicodipendenti in diverse carceri da noi visitate si traduce in un trattamento differenziato perché (in assenza di regole certe di applicazione della normativa sulla sanità in carcere) molte ASL non distribuiscono la terapia metadonica ai detenuti che non erano già in carico al SERT prima dell’ingresso in carcere; oppure l’ipocrisia di un trattamento penitenziario che la Costituzione vorrebbe essere finalizzato al reinserimento sociale del detenuto ma che per gli stranieri si ferma all’interno del carcere visto che non è prevista alcuna concessione né rinnovo automatico del permesso di soggiorno agli stranieri detenuti che abbiano seguito positivamente un percorso trattamentale.
1.3.3. Un esempio: la figura del mediatore culturale
Come accennato in precedenza, l’articolo 35 del nuovo regolamento di esecuzione prevede espressamente «l’intervento di operatori di mediazione culturale, anche attraverso convenzioni con gli enti locali o con organizzazioni di volontariato». Si tratta però di un articolo per il momento largamente disatteso, visto che solo 21 istituti su 146 (sempre secondo i dati forniti dai Provveditorati regionali) hanno inserito la figura del mediatore culturale all’interno del carcere.
Al riguardo andrebbe fatto un chiarimento, perché molto spesso quelli che vengono chiamati “mediatori culturali” sono in realtà semplici mediatori linguistici o poco più, visto che la pratica della mediazione culturale comporta un’assunzione delle differenze culturali e un processo di incontro tra culture che l’istituzione carcere difficilmente può rendere possibile. Tuttavia l’istituzione di queste figure di mediatori, anche nell’accezione più limitata, è fondamentale sia per superare gli enormi ostacoli linguistici e comunicativi a cui i detenuti stranieri devono fare fronte, sia per offrire loro persone che fungano da punti di riferimento a cui rivolgersi anche per affrontare le difficoltà della vita quotidiana in carcere.
Tra i “mediatori culturali” che operano nelle carceri italiane incontriamo figure estremamente differenziate. In molti istituti si tratta di operatori volontari ex articolo 17 OP; in qualche caso (come nelle due case di reclusione siciliane di Augusta e di Noto) questi “mediatori” svolgono anche il ruolo di guida spirituale per i detenuti stranieri. Altrove, come in quasi tutti gli istituti penitenziari dell’Emilia-Romagna, sono la Regione o gli Enti locali a finanziare l’inserimento in carcere di figure professionali che svolgono il ruolo di mediatore culturale; in altri casi ancora è stato lo stesso personale già in carico all’amministrazione penitenziaria ad usufruire di corsi o incontri di formazione alla mediazione culturale.
Un esempio che merita di essere citato a parte è quello del “Progetto Nimrod”: questo progetto, che ha interessato gli istituti milanesi di San Vittore e Opera, ha visto la realizzazione di attività formative dirette sia agli operatori del carcere, in particolare a un gruppo di agenti di Polizia penitenziaria, sia a un gruppo di detenuti stranieri, con l’idea che alcuni di essi a fine corso (risorse del carcere permettendo) potessero trovare una collocazione lavorativa all’interno del carcere proprio nel ruolo di mediatore culturale alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria.
1.4 Una presenza che mette in crisi il sistema
Come abbiamo visto, attorno alla presenza straniera in carcere convergono una serie di elementi di problematicità che, in sé, non sono affatto esclusivi dei detenuti stranieri ma che accomunano i problemi dei detenuti stranieri a quelli di tutta la popolazione detenuta o, da un altro punto di vista, a quelli della maggioranza degli immigrati stranieri in Italia; tuttavia questi molteplici fattori di problematicità, sommandosi gli uni agli altri, finiscono col rendere nel complesso insostenibile la situazione dei detenuti stranieri nelle carceri italiane.
Vi è innanzitutto tutta quella fascia di problemi connessi al carcere come “discarica sociale”, come più volte definito dall’ex direttore del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria Giancarlo Caselli, un grande contenitore in cui raccogliere (e rimuovere) problematiche sociali che altrove non trovano adeguate risposte. Le prigioni italiane, così come avviene in tutta Europa, sono popolate non tanto di grandi criminali ritenuti responsabili di gravi reati, ma piuttosto di fasce estremamente marginali della popolazione per cui spesso devianza e criminalità (prevalentemente micro) rappresentano un’espressione di problematiche sociali che meriterebbero risposte altre. Si tratta prevalentemente di autori di reati di piccola entità, condannati a pene brevi o più spesso detenuti in attesa di giudizio che talvolta finiscono per scontare l’intera pena in custodia cautelare. Il profilo sociale di questi detenuti ci descrive persone perlopiù giovani o giovanissime con un basso livello di istruzione, che non hanno mai avuto un’occupazione lavorativa stabile e regolare e che spesso risultano privi di un’adeguata rete affettivo-familiare e sociale che funga da sostegno nelle situazioni critiche; per queste persone le scelte devianti rappresentano in qualche caso una necessità di sopravvivenza, ma più spesso l’espressione di un disagio sociale che potrebbe essere contenuto con strumenti ben più efficaci di quello penale. Questa situazione di marginalità sociale accomuna le fasce più emarginate della popolazione italiana (la cosiddetta area del disagio, in cui si sommano povertà, disoccupazione, abbandono scolastico e sociale, degrado dell’ambiente di vita e in molti casi tossicodipendenza) con una larga fascia della popolazione immigrata che finisce con l’avere problemi di tipo giudiziario.
Ci sono poi tutti i problemi derivanti dal cattivo funzionamento del sistema penale italiano, a partire dall’affollamento delle carceri di persone in attesa di giudizio e dello scarsissimo ricorso alle misure alternative alla detenzione, soprattutto per persone accusate di reati di lieve entità, con pene o residui pena brevi o brevissime; persone che una piena attuazione della legislazione vigente potrebbe far uscire subito dal carcere o addirittura non far transitare neanche dall’esperienza detentiva. Si tratta di problemi comuni a tutti, italiani e stranieri, ma che nel caso degli stranieri assumono proporzioni ancor più rilevanti, come mostrano le già citate quote di detenuti stranieri in attesa di giudizio, e il numero irrisorio di detenuti stranieri che riescono ad accedere ai benefici di legge e alle misure alternative.
In questo quadro, già di per sé drammatico, si sommano i problemi legati alla cattiva gestione del fenomeno immigrazione in Italia, a partire dalla carenza di politiche che non siano essenzialmente repressive e dall’assenza di opportunità di ingresso regolare per i nuovi immigrati e di regolarizzazione della posizione degli immigrati già presenti sul territorio italiano, al di là delle sanatorie una tantum, unico e caotico frutto di un quindicennio di politiche migratorie nel nostro paese. La situazione paradossale del sistema italiano, per cui l’immigrato/nonpersona non esiste ai sensi dello Stato italiano finché non finisce nelle maglie della giustizia, si riflette all’interno del carcere nella situazione di migliaia di persone che esistono solo in quanto detenuti; persone che fuori dal carcere non godono dei normali diritti di cittadinanza e per cui l’arresto costituisce la prima e unica occasione di riconoscimento da parte dello Stato italiano.
http://www.ristretti.it/areestudio/territorio/antigone/rapporti/stranieri.htm