La Prima Guerra Mondiale della Finanza
Intervista ad Andrea Di Stefano, a cura di C. B. (dal Rapporto sui Diritti Globali 2012)
(dal Rapporto sui Diritti Globali 2012) – 28 agosto 2016
Con il direttore della rivista “Valori” Andrea Di Stefano abbiamo parlato della massa di prodotti finanziari in circolazione, del potere della finanza sulla politica e della sudditanza della politica nei confronti di un mondo che appare senza confini, senza regole e senza controllo. Ci troviamo di fronte a una descrizione nuda e cruda di una situazione che apparentemente non offre alternative al dominio del capitalismo finanziario. Il professor Di Stefano, che appartiene alla ristretta categoria dei keynesiani venati dal pessimismo della ragione, in realtà in un passaggio dell’intervista apre all’ottimismo della volontà, quando interviene sulle nuove prospettive che si aprono in politica alla sinistra e alle possibilità di riconversione dell’economia in modelli verdi e sostenibili. Quindi non siamo necessariamente senza futuro.
Redazione Diritti Globali: La prima domanda che sorge spontanea di fronte all’impressionante numero di zeri che sta in alcune cifre della finanza e che fanno perdere completamente l’orientamento rispetto al loro valore è quale sia la dimensione dei prodotti finanziari in circolazione nel mondo.
Andrea Di Stefano: Non è facile determinarne l’entità: la deregulation è stata talmente rilevante da permettere la creazione di un numero impressionante di mercati paralleli, che di fatto sfuggono a ogni possibile inventario. Le banche centrali, che normalmente hanno tutti gli strumenti per controllare i flussi finanziari, non sono in grado di determinare a quanto ammonta questa massa di prodotti. C’è una stima della Banca dei Regolamenti Internazionali (BRI), secondo la quale solo il mercato over the counter dei derivati vale 670.000 miliardi di dollari, quindi tra dieci e 11 volte il Prodotto Interno Lordo mondiale. Se a questo dato si sommano il mercato regolamentato che dovrebbe essere di altri 300.000 miliardi di dollari, i mercati azionari che comunque muovono una discreta attività e quelli obbligazionari si arriva comunque ad alcune decine di volte il Prodotto Interno Lordo mondiale. Credo che, mettendo insieme tutti i mercati regolamentati e paralleli, la massa di prodotti finanziari in circolazione possa arrivare anche a cento volte il Prodotto Interno Lordo mondiale. Questa è una delle origini intrinseche della situazione in cui ci troviamo, perché lì dentro ci sono dei fattori di rischio che non sono controllabili nemmeno dalle autorità più strutturate.
RDG: L’economista Andrea Fumagalli sostiene che il 90% dei prodotti finanziari derivati è in mano a cinque Società di Intermediazione Mobiliare (SIM) e a cinque grandi banche. Se questi numeri sono validi, ha ancora senso parlare di senato virtuale della finanza o questo è il governo reale del mondo?
ADS: Secondo me, il numero è un po’ più ampio, perché occorre considerare che sono in campo anche gli investitori istituzionali, una volta molto meno rilevanti, con la promozione indotta alla finanziarizzazione dei redditi da pensione e quindi con lo sviluppo di grandi fondi pensionistici che investono sui mercati azionari e obbligazionari. Il numero dei soggetti che intervengono e movimentano somme enormi è cresciuto, siamo nell’ordine di qualche decina e non di una sola decina di operatori, ma il rilievo vale comunque: il sistema è molto concentrato e c’è un fenomeno completamente fuori controllo come l’accumulazione di profitto correlata alle modalità con le quali si operano le transazioni. Per esempio, la pratica del trading ad alta frequenza è stata resa possibile quando i regolatori hanno aperto alle market credit platforms, le piattaforme finanziarie e azionarie private. In tale contesto vi sono solo quattro o cinque grossissimi operatori, come Goldman Sacks, Nomura, prima anche Lehman Brothers, che hanno avuto le risorse e tecnologicamente le capacità per aprire ai mercati paralleli, che stanno accanto a quelli azionari gestiti dalle grandi Borse, e che sono soprannominati dark pools, cioè piscine nere, perché sono contesti difficilmente controllabili. Da questo punto di vista, c’è una concentrazione dell’attività con finalità che non sono più tanto quelle di garantire come accadeva prima profitti a medio termine, per esempio la crescita dello specifico prodotto finanziario, quanto quelle di fare grossi profitti dalla sola attività di compravendita dello stesso prodotto, un cambiamento che modifica completamente le regole del gioco.
RDG: Sono loro quindi i poteri forti, quelli che determinano i destini del mondo, che decidono che cosa fare e che condizionano i governi dei Paesi occidentali dall’interno e dall’esterno come ministri ombra nel governo mondiale?
ADS: Loro governano sicuramente molta parte del sistema mondiale: lo fanno però con una pratica che non è disegnata prima sul piano teorico. In altri termini, non sono la teoria neo-liberista, che è stata ideata a tavolino da un ristretto gruppo di soggetti con grandi interessi economico-finanziari che hanno deciso di imporre le loro idee ai governi attraverso le istituzioni internazionali. Questi non hanno un respiro strategico di dominio sul mondo, mirano però a sfruttare la loro posizione di potere. Il problema è la sudditanza della politica nei loro confronti, un fatto inquietante per la completa incomprensione delle logiche con le quali opera questo tipo di finanza. Il decisore politico non è per nulla autonomo, «ce lo chiedono i mercati» è il ritornello ricorrente. Da qui origina un meccanismo di delega indiretta e non democratica al tecnico, perché il politico non capisce questo sistema. Quando poi il politico vuole imporre al tecnico qualche meccanismo di regolazione finanziaria, viene immediatamente accusato di voler distruggere il sistema economico. Al riguardo, è emblematica la discussione intorno alla Tassa sulle Transazioni Finanziarie: la politica non è in grado di rispondere in maniera efficace ai mostruosi conflitti di interesse dei soggetti che operano nel mondo finanziario e che sostengono che la tassa finirebbe per demolire l’intero sistema. Non è assolutamente vero, semplicemente la Tassa sulle Transazioni Finanziarie darebbe fastidio agli operatori per i quali funziona solo la logica della massimizzazione del profitto finanziario. La politica, anche per l’incapacità a padroneggiare questo argomento, si trova spesso a subire l’attacco dei media al servizio del sistema. Un sistema che è in grado di influenzare i politici anche quando questi non appartengono alla lobby di riferimento del mondo finanziario.
RDG: Quindi l’azione attuale di David Cameron contro la Tassa sulle Transazioni Finanziarie è governata da questa logica, anche se nel Regno Unito è in vigore la stamp duty tax…
ADS: L’esempio inglese è secondo me emblematico e importante. Negli ultimi mesi noi abbiamo vissuto una specie di Prima Guerra Mondiale della finanza che ha visto il mondo finanziario anglosassone schierato contro la zona euro. Uno dei cardini di questa guerra è proprio la Tassa sulle Transazioni Finanziarie: la piazza londinese, che conta troppo rispetto al Prodotto Interno Lordo inglese e rispetto a qualsiasi altro Prodotto Interno Lordo, per effetto della distruzione sistematica del sistema produttivo britannico a motivo delle scelte operate da Margaret Thatcher, è in grado di condizionare in modo pesantissimo il governo. Quindi Cameron è la longa manus del sistema finanziario londinese, che è enorme e vive speculando sugli altri sistemi finanziari, soprattutto quello della zona euro: la Tassa sulle Transazioni Finanziarie è ritenuta molto pericolosa da una serie di operatori che sono i grandi elettori del Regno Unito e in particolare del Conservative Party, il Partito Conservatore e Unionista inglese. Basta un esempio passato sotto silenzio per evidenziare il ruolo della City nel mondo finanziario: dopo il fallimento della Lehman Brothers si è scoperto che i vertici della banca truccavano i conti in corrispondenza delle trimestrali cedendo per sette o dieci giorni i loro debiti, che erano enormi, a un soggetto terzo, per far figurare che avevano una liquidità in cassa che in realtà non c’era. Questa operazione non veniva fatta a New York perché era considerata illegale, ma sulla piazza londinese, che è la summa del peggio che è stato prodotto dall’industria finanziaria. La società inglese è stata comprata dalla finanza: nel Regno Unito o sei nella finanza o sei out. Tutto è permeato dalla finanza, che vuol dire sistema educativo, sistema legale, sistema universitario, che vuol dire quindi essere al servizio della sua filosofia. Nel periodo storico tra il Settecento e l’Ottocento, l’Inghilterra era al centro del commercio mondiale, oggi è al centro della finanza mondiale.
RDG: Negli Stati Uniti, invece, l’Amministrazione presieduta da Barack Obama ha provato a mettere qualche regolatore alla finanza, attraverso il Dodd-Frank Act, anche se ha trovato una forte opposizione nel Congresso. Ma si possono mettere degli argini a questo mondo?
ADS: Dando per acquisito che non c’è mai niente di salvifico che venga fatto all’interno di un sistema politico come quello americano, il Dodd-Frank Act è un provvedimento molto rilevante e condizionante come impianto normativo rispetto a questo sistema e infatti sta incontrando una opposizione durissima nelle regole attuative, non solo sulla questione della separazione tra banche di investimento e banche commerciali, ma anche su una serie di regole che coinvolgono tutto il sistema dei derivati. Nulla di rivoluzionario, ma un tentativo serio di regolamentazione del sistema finanziario, il cui percorso è pesantemente rallentato da una parte della lobby di Walt Street che non a caso sta investendo tantissimo sul candidato repubblicano Mitt Romney, che è il loro candidato.
RDG: Quindi la partita si giocherà lì…
ADS: Una parte della partita si giocherà lì, con delle incognite, perché un altro fronte importante è la questione militare: finora il governo degli Stati Uniti ha fatto da argine rispetto all’attacco all’Iran, ma c’è una saldatura molto pesante tra il vecchio apparato militare e una parte del sistema finanziario che spinge alla guerra. Questa alleanza ha trovato un ostacolo molto rilevante in entrambi i campi da parte dell’Amministrazione presieduta da Barack Obama.
RDG: Tra l’altro, Joseph E. Stiglitz dice che in questa crisi è stato speso tanto denaro pubblico quanto in una guerra.
ADS: Anche di più…
RDG: Tornando all’opzione militare, c’è chi sostiene che se le prossime elezioni negli Stati Uniti verranno vinte dai repubblicani si andrà a una nuova guerra.
ADS: Credo sia molto probabile, e il conflitto potrebbe essere più esteso rispetto al fronte medio orientale, per arrivare fino in Cina. Se si analizzano le prese di posizione dei teocon più estremisti, neanche tanto sotto traccia si legge una prospettiva con l’obiettivo di uno scontro con la Cina. La Cina sta diventando troppo pericolosa perché, da vero competitore, sottrae risorse al sistema americano e gli Stati Uniti non hanno alcuna intenzione di subire lo smacco di essere superati dalla Cina come prima potenza mondiale. A dispetto della vecchia idea occidentale, secondo la quale i democratici sono più orientati alla politica internazionale e i repubblicani a una politica isolazionistica, in realtà spesso è vero l’opposto: le Amministrazioni presiedute da Richard Nixon e da George W. Bush, per esempio, sono state l’espressione dell’aggregato politico militare americano. L’elemento di rischio quindi c’è, anche se lo stato dei conti pubblici potrebbe mettere i fautori di una nuova guerra in difficoltà.
RDG: A proposito della Cina, che cosa sta accadendo da quelle parti sul piano economico e soprattutto su quello finanziario, che è rigidamente nelle mani dello Stato?
ADS: A monte, bisognerebbe riuscire a leggere i riflessi dei cambiamenti in atto all’interno del potere politico, cosa francamente molto difficile quando si tratta della Cina. Secondo me, sommando una serie di valutazioni fatte dagli osservatori economico finanziari, la Cina è a rischio di una bolla immobiliare e del credito, di cui non conosciamo le dimensioni proprio perché il credito è regolato dalla Banca Centrale e non è trasparente. Le logiche con le quali vengono autorizzate le attività creditizie sono poco chiare, però è evidente che la bolla del credito facile ha spinto gli investimenti produttivi senza avere in corpo lo sviluppo di una diffusa classe media. Il rischio reale è che la Cina possa essere attaccata sia sul piano militare che su quello finanziario. La strategia più insidiosa per la Cina è quella portata avanti dall’Amministrazione americana presieduta da Barack Obama, attraverso l’azione contemporanea della leva finanziaria e della diffusione dell’utilizzo dei mezzi di comunicazione web, come è stato fatto con i regimi del Nord Africa. Non dimentichiamoci che quello che è accaduto in Nord Africa ha un carattere epocale. Per gli Stati Uniti è stata una vittoria strepitosa, perché si sono liberati di regimi ingestibili, hanno scardinato una parte delle radici dell’integralismo islamico vicino ad Al Qaeda e sono riusciti, allo stesso tempo, a mettere sotto pressione Israele di cui quei regimi erano gli alleati principali. La logica con la quale si sono mossi gli Stati Uniti sul piano internazionale è stata una novità molto rilevante e credo siano pronti, con questa Amministrazione, a utilizzare la stessa filosofia contro il regime cinese con delle dinamiche che possono avere un impatto molto pesante sia sul piano politico che su quello finanziario.
RDG: Negli Stati Uniti, da 24 mesi i posti di lavoro stanno aumentando, anche se non si è ancora scesi al di sotto della soglia dell’8% ritenuta come una delle condizioni necessarie per la conferma elettorale dell’attuale Amministrazione. La scelta di aumentare la spesa pubblica si sta rivelando vincente?
ADS: Sicuramente questa è una parte rilevante della strategia di Obama e, in particolare, del presidente della FED Ben Bernanke, le cui scelte in termini di liquidità stanno dando risultati che possono incidere anche in vista delle elezioni. La logica di utilizzare la Banca Centrale come strumento per sostenere la spesa pubblica nei vari settori, di battere moneta e irrorare il sistema di liquidità sortisce degli effetti che però possono essere rischiosi in una dimensione temporale più ampia. Bisogna vedere quindi la sostenibilità di queste scelte a medio-lungo periodo, dopo le elezioni.
RDG: Da questo punto di vista la strategia dell’Unione Europea e della BCE, in particolare con le politiche di austerità imposte alla Grecia, al Portogallo, all’Italia e alla Spagna, va in direzione opposta a quella degli Stati Uniti.
ADS: La strategia americana contiene dei rischi, ma quella europea è sicuramente sbagliata. Penso però che quella che ha messo in campo il nuovo presidente della BCE, Mario Draghi, sia stata un’operazione intelligente, una soluzione tampone, che attraverso l’erogazione dei prestiti alle banche ha aggirato il vincolo statutario della BCE di non poter stampare moneta, di non poter intervenire come la Federal Reserve, raggiungendo l’effetto di sgonfiare una parte dell’attacco speculativo. Adesso la vera sfida è capire che cosa succederà con gli appuntamenti elettorali in Francia quest’anno e in Germania il prossimo anno: se si affermeranno le posizioni di centrosinistra, ci dovrebbe essere un cambio di paradigma nell’Unione Europea. Sarebbe sconfitta una delle concause della crisi: non aver fatto gli eurobond, non aver salvato la Grecia con i 50 miliardi di euro che inizialmente sarebbero stati sufficienti, aver poi distrutto la Grecia. Un cambio politico nel governo dei più importanti Stati membri porterebbe a una revisione della politica economica in ambito europeo. Senza contare che anche in Italia lo scenario potrebbe cambiare. Si farebbe più difficile anche la posizione del Regno Unito come portavoce dei poteri finanziari, perché è diverso trattare con Angela Merkel e Nicolas Sarkozy o con François Hollande e la socialdemocrazia tedesca.
RDG: Come vede la situazione in Italia?
ADS: La vedo drammatica, perché non c’è attualmente una forza politica coesa, anche se moderata come i socialisti in Francia e la socialdemocrazia in Germania, con obiettivi diversi e concreti rispetto alla politica economica attuale. Semplicemente, manca l’elaborazione sulle cose basilari. C’è bisogno di fare operazioni politicamente molto importanti, come un’imposta patrimoniale secca e pesante o la revisione della politica fiscale, ma mi sembra che in questo momento non ci sia una prospettiva in grado di presentarsi con una piattaforma chiara, alternativa a quella che ci sta governando. In questo momento, infatti, siamo governati da commissari che applicano pedissequamente la lettera della BCE del 5 agosto 2011, compresa la modifica dell’articolo 18 contenuta nel paragrafo sul mercato del lavoro. Ovviamente, la gravità politica sta nel fatto che non bisognava far arrivare quella lettera: nel momento in cui Silvio Berlusconi si è messo nelle condizioni di farsela spedire, ha fatto commissariare il Paese. Quindi Mario Monti e i suoi sono commissari veri: Silvio Berlusconi non era affidabile come referente perché si faceva solo gli affari suoi, questi invece sono molto notarili nel perseguire gli obiettivi che sono stati loro richiesti.
RDG: Eppure la sinistra appare in crescita in Europa…
ADS: Io credo che ci sia un grosso spazio per l’affermazione di un progetto alternativo di sinistra. In Francia, il successo del tutto imprevisto del candidato del Front de la Gauche, Jean-Luc Michel Mélenchon, è abbastanza significativo, con i sondaggi che lo danno al terzo posto e 120.000 che hanno riempito Piazza della Bastiglia a Parigi a fronte delle 30.000 previste. Questo vuol dire che una buona parte dell’elettorato vuole programmi radicali di trasformazione della società e di redistribuzione della ricchezza e del reddito. Del resto, sono proposte condivise non solo dagli economisti di estrema sinistra, ma anche da economisti più moderati come Paul Krugman, secondo il quale se non si procede a una redistribuzione del reddito dopo vent’anni di polarizzazione della ricchezza è inevitabile che la crisi non possa avere vie di uscita.
RDG: Tra le proposte in campo in Italia c’è quella, sostenuta tra gli altri da Giuliano Amato e da Alessandro Profumo, di una patrimoniale capace di aggredire in maniera radicale il debito pubblico per liberare risorse nei confronti dell’economia.
ADS: Io sono convinto che una patrimoniale secca per abbattere il debito sia ineludibile, se vogliamo uscire da questa situazione e liberarci dal cappio della BCE. Abbattere lo scoglio del debito, vale a dire ridimensionare in maniera radicale la spesa per interessi, significa liberare risorse per un ciclo economico positivo di nuovo tipo. Ormai il modello postfordista non ha più margini, essendo stata erosa quella posizione di nicchia in ampi settori manifatturieri che giustificava la presenza di una parte del sistema economico italiano nella filiera internazionale. Non essendo riusciti a difendere questo sistema, occorre tornare a politiche industriali dirigiste, nel senso buono del termine, innanzitutto sul piano del trasporto pubblico e della rete elettrica, che va rifatta da cima a fondo. Servono però le risorse per le infrastrutture materiali e immateriali, che si possono trovare soltanto asciugando lo stock del debito. Se ci trovassimo in una situazione con un avanzo primario di quattro o cinque punti percentuali, se non ci fosse più una spesa per interessi allucinante, pari almeno a cinque punti di PIL, ci sarebbero immediatamente risorse disponibili per fare gli investimenti che servono a indirizzare il sistema economico verso nuovi obiettivi.
RDG: Quindi anche tu pensi che questa crisi sia epocale e che se ne possa uscire solo cambiando il modello economico…
ADS: Penso che questa sia la sfida reale: il cambio di paradigma nel modello produttivo è necessario. Il modello produttivo attuale è inefficiente proprio dal punto di vista capitalistico e richiede un sacco di energie per ottenere rendimenti molto bassi. Occorre cambiare il modello di produzione, ma anche quello di consumo. Siamo in piena crisi di sovrapproduzione di merci. Si dovrà produrre meno per stare sui mercati perché si dovrà stare sulla qualità e non sulla quantità. Questo cambia proprio le basi economiche: dal basso costo all’alta qualità, è in gioco tutto il meccanismo di redistribuzione del profitto, a partire dalla filiera che cambia profondamente le vecchie regole, anche sul piano del lavoro. Se vent’anni fa i produttori di vino scadente avevano anche lavoro a basso costo, oggi chi produce vino di qualità ha dei livelli di retribuzione che sono incomparabilmente migliori rispetto a quelli di una volta. Occorre riuscire a programmare sul medio e lungo termine, superando le logiche dei ritorni a brevissimo termine in tutti i settori dell’economia.
RDG: L’amministratore delegato della FIAT Sergio Marchionne, dopo aver a lungo indicato la FIOM come il primo dei suoi problemi, ora dice con il suo solito finto candore che in Europa c’è una sovrapproduzione del 20% nel settore auto, a ulteriore dimostrazione che tutta la campagna sul contratto separato era solo uno specchietto per le allodole.
ADS: L’amministratore delegato della FIAT ha come obiettivo vero vendere al migliore offerente: sa benissimo che il futuro non è per l’industria automobilistica, soprattutto per una realtà tecnologicamente non innovata come la FIAT. Non essendoci spazio per tutti i costruttori, inevitabilmente ci sarà sempre più concentrazione. A mio giudizio, il mandato che Sergio Marchionne ha avuto dalla famiglia Agnelli è stato quello di mettere intelligentemente le mani sulla Crysler, preparando le condizioni perché FIAT-Crysler si presenti al matrimonio con un altro operatore: questo passaggio porterà inevitabilmente a una riduzione della capacità produttiva del nuovo soggetto almeno del 30%, in particolare se andasse in porto l’alleanza con PSA Peugeot-Citroën, che copre gli stessi segmenti di mercato della FIAT. A quel punto, sarebbe inevitabile la chiusura di buona parte degli stabilimenti in Italia. C’è un’analisi molto chiara condotta l’anno scorso da Roberto Romano della CGIL Lombardia: la profittabilità per impianto del Gruppo FIAT è in perdita, con la presenza, strutturalmente, di un problema industriale: gli impianti Fiat hanno sempre avuto una redditività bassa perché sono stati costruiti non con una logica industriale, ma di prebende economiche. Il Gruppo ha aperto a Melfi con gli aiuti di Stato, poi chi si è visto si è visto; ha aperto in Brasile, perché lo Stato brasiliano gli ha dato i finanziamenti; apre in Cina perché qualcuno paga. La logica industriale, che impone una filiera molto stretta della produzione perché costruire auto costa, è stata abbandonata da molto tempo, sostituita dalla logica di avere tanti nuclei produttivi sparsi a seconda della redditività di breve e brevissimo periodo garantita dai finanziamenti pubblici, che non può che essere disastrosa. E se Marchionne è bravo, come credo sia, sul piano finanziario, farà quest’operazione nell’arco di quest’anno, puntando sulla parziale ripresa del mercato americano che gli permetterà di valorizzare al meglio l’operazione Chrysler, per la quale la famiglia ancora una volta non ha tirato fuori un dollaro: tra i soldi messi dal governo degli Stati Uniti e i soldi raccolti sul mercato, quella dell’amministratore delegato del Gruppo è stata una campagna, come ha detto il “Financial Time”, da grande giocatore di poker. Io non vedo nessun futuro per la FIAT in Italia: tutta la vicenda è stata costruita per allungare i tempi, utilizzandoli per smantellare senza grandi difficoltà quello che c’è e che comunque è sempre meno. Rimarranno probabilmente uno o due siti produttivi per costruire 500.000 vetture per il mercato interno italiano, dove non c’è più spazio per un’espansione della domanda.
RDG: Questo problema però non riguarda solo la FIAT.
ADS: Il problema del modello autocentrico va ben oltre la FIAT ed è la sua inefficienza: è costoso, inquinante ed energivoro, con la benzina che costerà sempre di più visto che le riserve di petrolio sono sempre di meno. Bisogna rendersi conto che la mobilità privata è morta e che si affermeranno sempre di più modelli dove non esiste la proprietà dell’auto, ma la sua utilizzazione al risparmio attraverso fenomeni come il car sharing o il car pooling. In Francia sono milioni le persone che non hanno più auto di proprietà. Il modello autocentrico era già morto e gli abbiamo allungato la vita con politiche sbagliate, pensando che questo garantisse occupazione. Non garantisce niente, brucia solo risorse, limitandosi a produrre utili nell’immediato a operatori privati con soldi pubblici: l’apoteosi della logica capitalistica della peggior specie. Di questo dobbiamo prendere atto tutti quanti, anche il sindacato, e lavorare a un nuovo modello per il trasporto che garantisca qualità, risparmio energetico e occupazione.
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