NOTIZIARIO STAMPA DETTI E SCRITTI
26 OTTOBRE 2018
A cura di Manlio Lo Presti
Esergo
Gli Amici si dicono sinceri, i nemici lo sono.
- (Schopenhauer)
CONOSCI TE STESSO, Il melangolo, 2015, pag. 67
https://www.facebook.com/Detti-e-Scritti-958631984255522/
Le opinioni degli autori citati possono non coincidere con la posizione del curatore della presente Rassegna.
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IN EVIDENZA
Attenzione, l’EUropa è obbligata ad istigare un golpe in Italia entro fine 2018: ecco come e perché
25 ottobre 2018 DI MITT DOLCINO
qelsi.it
L’EU è in crisi esistenziale. Soprattutto a causa delle enormi bugie dette in passato con il fine non di aiutare i vari paesi ad uscire dalla crisi ma piuttosto di perpetrare il potere in mano all’asse franco tedesco, con lo scopo di creare un mostro sovranazionale – l’EU – in grado di sostituirsi a termine agli USA in EUropa, asservendosi agli interessi dell’asse dominante. Un piano che data dalla fuga dei nazisti in Sud America 75 anni fa; la rivincita, come se fosse stato rinviato a tempi più propizi.
Il problema reale è che l’austerità imposta ai periferici dal 2009 NON ha funzionato e non funziona, serve solo per drenare ricchezza dalla periferia al centro (gli USA ad esempio crescono del 4% facendo il perfetto contrario). Esempio da manuale la Grecia: lo stesso FMI ha riconosciuto che l’austerità ha fatto danni in Grecia, che “si sono sbagliati” a fare i conti, che il moltiplicatore fiscale è stato stimato male con il risultato di far crollare l’economia ellenica pur senza ridurre il debito (è passato dal 140% nel 2010 a circa il 175% attuale, senza prospettiva di ridurlo drasticamente per i prossimi 20 anni almeno).
Il problema è che annientare economicamente la Grecia è servito alle aziende EUropee, previa imposizione via troika di svendere le aziende statali, per comprare a basso prezzo pezzi pregiati del sistema ellenico. Su tutti gli aeroporti greci, preziosi, acquistati addirittura dallo Stato tedesco (ossia da un’azienda di stato teutonica). Lascio perdere il caso – scandaloso – dell’imposizione tra
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Dopo aver distrutto la Grecia la Lagarde ora punta all’Italia
Nelle scorse settimane il Fondo Monetario Internazionale ha più volte criticato la manovra economica del governo italiano, con Poul Thomsen, capo del dipartimento europeo dell’Fmi, che ha invitato Roma a ” rispettare le regole dell’Unione europea con la sua legge di bilancio del 2019 e costruire un buffer di liquidità per attutire la prossima crisi economica” e la direttrice Christine Lagarde che ha dichiarato di sperare in “una distanza” tra la “retorica” del governo italiano, che allarma Bruxelles, e “le cifre finali” del bilancio del Paese.
Proprio Christine Lagarde, nei prossimi mesi, potrebbe essere chiamata a un ruolo di maggiore visibilità nel contesto dell’economia internazionale. Negli ultimi tempi eventi come la crisi commerciale sino-americana, il crollo del valore delle valute di diversi Paesi in via di sviluppo (Turchia, Iran, Pakistan, Argentina) e i rischi per una nuova, grande crisi sistemica generata dalle disfunzionalità del mercato bancario non sono stati bilanciati da un’adeguata capacità di reazione da parte del Fmi.
Intrappolato nella ristretta area ideologica che ha sempre influenzato la sua azione, fondata sulla concessione di aiuti a Paesi in difficoltà in cambio di riforme strutturali draconiane nel sistema economico, sociale e previdenziale, il Fmi ha proposto le prime, timide aperture a politiche in sostegno alla domanda nel 2016, ma senza che ciò producesse sostanziali cambiamenti. E il timore per un mancato cambio di direzione dell’ente guidato dalla Lagarde rende necessario considerare con dovuta cautela il suo recente interesse per il nostro Paese.
La Troika “informale” contro l’Italia
Tra l’11 e il 12 ottobre il governo Conte ha ricevuto reprimende da tutti e tre le istituzioni costituenti la famosa “Troika” vista in azione in Grecia: il fatto che Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione europea, e Mario Draghi, direttore della Bce, fossero in completo disaccordo con la manovra italiana era però prevedibile. Meno che critiche della stessa intensità arrivassero anche da oltre Atlantico, sede Fmi. Segno che l’allineamento di intenti tra Bce, Commissione e Fmi nei confronti dell’Italia appare simile a quello che caratterizzò il caso greco nel 2011.
Il vicepresidente del Consiglio Luigi Di Maio ha ironizzato sottolineando che all’elenco dei critici della manovra italiana manca “solo la Nasa e qualche ente di qualche altro pianeta”. In ogni caso, la situazione è da tenere monitorata: spiace vedere in questo contesto oppositori del governo italiano di diversa estrazione, dall’ex presidente dell’Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem alla giornalista del Corriere Maria Teresa Meli, invocare il commissariamento del Paese da parte dei custodi dell’austerità senza preoccuparsi di cosa ciò costituirebbe per un Paese che ha già sperimentato, in forma non completa, il rigore imposto da Mario Monti, Elsa Fornero e i tecnici loro accoliti tra il 2011 e il 2013. Il caso greco insegna che la Troika significherebbe, per l’Italia, la rovina.
I disastri del Fmi della Lagarde nella Grecia distrutta dall’austerità
Nel giugno scorso la Troika ha definitivamente tolto la Grecia dal commissariamento economico e finanziario in cui era stata vincolata dal 2011 in avanti. Proprio nel momento in cui la Lagarde ascese alla guida del Fmi, la Troika ampliò la sua esposizione nei confronti di Atene.
“Giunta al Fmi nel 2011, Lagarde esaminò alla lente il Paese di Platone. ‘È in
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MASSONERIA: BONANNO, ”NOI PULITI, PAPA FRANCESCO POTREBBE ESSERE NOSTRO CAPO”
L’AQUILA – “La massoneria è pulita, composta da persone con una forte morale, tanto che potrebbe essere suo capo ideale Papa Francesco, in virtù del suo messaggio dell’universalità del Creatore ‘urbi et orbi’, unico e comune per tutti gli esseri viventi, al di sopra delle religioni, che è anche un principio cardine della massoneria”.
Parola di Vincenzo Bonanno, delegato magistrale Abruzzo Molise della Gran Loggia di rito scozzese, volto noto aquilano, in quanto storico docente di lingua inglese del liceo classico “Cotugno” e presso la facoltà di Scienze motorie.
Nell’intervista ad Abruzzoweb, Bonanno tiene a sfatare quelli che per lui sono solo pregiudizi intorno alla Massoneria, consolidatisi dopo vari scandali e vicende giudiziarie che hanno segnato la recente storia italiana, a cominciare quelle che hanno riguardato la loggia P2 di Licio Gelli.
“Non ci sono preclusioni per essere ammessi alla massoneria – spiega innanzitutto Bonanno – ci sono persone di ogni nazionalità, cultura, senza distinzioni di ceto, orientamento sessuale o politico. Non accettiamo atei o agnostici, per un motivo molto semplice. Noi crediamo che ci sia un Dio, unico e comune a tutti”.
Le grandi famiglie italiane sono due, il Grand’Oriente d’Italia riservata solo agli uomini e la Gran Loggia di rito scozzese, a cui possono accedere anche le donne.
Bonanno è affiliato alla Gran Loggia di rito scozzese da oltre 40 anni, gli iscritti in tutta la regione sono circa un centinaio, divisi in gruppi provinciali.
Il gran maestro è l’avvocato Sergio Ciannella, che presiede il Supremo Consiglio.
Per quanto riguarda l’Abruzzo, la Gran loggia ha una sede nel centro storico dell’Aquila in un palazzo prestigioso ritenuto “tra i più antichi d’Italia”. Massimo riserbo sulla sua ubicazione, perchè, spiega il professore, “rispettiamo un principio di grande riservatezza e proteggiamo la privacy di chi ne fa parte”.
La massoneria, nella sua presentazione pubblica, dichiara di essere “un ordine universale iniziatico di
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Francia, gendarmi minacciano italiani col mitra al confine: la procura di Torino apre un’inchiesta
La procura di Torino ha aperto un fascicolo d’inchiesta, ad ora verso ignoti, in cui si ipotizza il reato di “porto illegale di armi da guerra in territorio italiano e minaccia aggravata dall’uso delle armi in danno dei cittadini italiani”. Le armi, secondo l’ipotesi dei magistrati, sarebbero state imbracciate dai gendarmi francesi sconfinati in territorio italiano.
Nel dettaglio, l’inchiesta riguarda i fatti verificatisi a Cesana Torinese il 2 agosto scorso, quando in zone boschive alla frontiera due persone di nazionalità italiana sono state controllate da quattro uomini in divisa, le quali hanno puntato contro di loro il mistra.
Al termine dell’intervento, i militari hanno intimato ai nostri connazionali di non dire nulla. Il procuratore capo di
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BELPAESE DA SALVARE
TANTE BALLE ROSSE ATTORNO AL CASO RIACE
Maurizio Blondet 15 ottobre 2018
di Francesco Storace
Bisogna smontare la propaganda e non solo scovare e denunciare le tante, troppe irregolarità amministrative: l’imbroglio di Riace è conclamato ogni giorno e gli attacchi della sinistra a Salvini in difesa del sindaco demagogo agli arresti domiciliari ne rappresentano prova.
Il Tg3 intervista una signora di colore, è addolorata per la partenza, “qui ci siamo integrati e abbiamo tutto”. Talmente integrati che non pronuncia una sola parola in lingua italiana.
Si scopre, con una superficialità tutta politichese, che a Riace si usava persino una moneta locale. Ma è Calabria e non Svizzera.
È normale che si debba mantenere un cosiddetto progetto che mira a sostituire gli italiani con gli immigrati? La sostituzione etnica in quale articolo della Costituzione è stabilita?
La balla della deportazione: la circolare del Viminale non impone proprio nulla. Lo Sprar a Riace è servito – secondo i magistrati – a frodare la legge. Gli immigrati che vogliono continuare ad essere assistiti da quel tipo di progetto possono andare in altri comuni. Nessuno è obbligato a lasciare il paese: la differenza è che se resta a Riace non lo fa più a spese nostre. E nemmeno rendicontate.
Sono sparite le femministe: strillano, strillano, ma non contro l’unica vergogna che dovrebbe motivare la loro indignazione. Niente, nemmeno una parola contro i matrimoni combinati per ottenere “la legalità”. È Medioevo, ma non se ne sono accorte.
Pare di vivere su un altro pianeta. In tutta Italia i sindaci sono “costretti” ad applicare la legge, perché in uno stato di diritto va rispettata da tutti sempre e comunque. Mimmo Lucano invece no. Secondo i suoi tifosi estremisti lui vale più di chiunque altro, per il sindaco di Riace le norme non si applicano.
Parlano di umanità per nascondere le illegalità, ecco che cosa succede.
Ma poi, di che stiamo parlando. Un paesino di duemila anime, ma con centinaia di immigrati. Zero prospettive di lavoro per gli italiani, si sopravvive solo grazie ai contributi pubblici. Si fa così l’integrazione? “Siamo alle comiche
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Un altro sguardo dal ponte
24 ottobre 2018
È chiaro che per la ricostruzione del ponte non basteranno i 18 mesi preventivati. Non si sa ancora da chi, né chi controllerà le procedure. Ma per il gruppo dei Benetton va avanti l’acquisizione di Albertis, il patto per Cellnex, l’Eurotunnel e l’ad Castellucci resta al suo posto.
Sulla vicenda del ponte di Genova, si sono, in maniera anche giustificata, sparsi fiumi di inchiostro ed anche su questo sito non sono mancati gli articoli di commento alla vicenda. Appare opportuno comunque seguire ancora lo sviluppo della questione perché essa rimane al centro dell’attenzione e poi, soprattutto, perché continuano a venire alla luce una serie di questioni di rilevante interesse.
I tempi della ricostruzione
Intanto c’è il problema della ricostruzione. Al momento del crollo, membri del governo e la stessa società Autostrade avevano fatto sapere che il ponte sarebbe stato ricostruito in pochi mesi, al massimo in un anno. Ora, mentre sono già passati più di due mesi e la confusione e i contrasti sul che fare regnano sovrani, qualcuno ci fa capire – in questo caso il professor Remo Calzona, dell’Università La Sapienza di Roma (Arona, 2018) – che ci vorranno sino a 18 mesi per completare l’opera, il che porterebbe il totale del tempo necessario a 20 mesi, stima che, allo stato dei fatti, riteniamo ancora largamente ottimistica.
In effetti i diciotto mesi, nelle dichiarazioni del professor Calzona, sono composti di tre fasi, fare il progetto – ciò che richiederebbe sempre secondo l’esperto tre mesi -; indire la gara – altri tre mesi -; ricostruire – un anno. Ora, per ognuna di queste fasi, in particolare prima e dopo ognuna di esse, sono prevedibili diversi momenti di dibattito e di stallo, senza considerare i possibili ricorsi degli esclusi, le sorprese in corso d’opera, ecc. Del resto, anche dal momento delle dichiarazioni del professor Calzona in poi sta passando velocemente il tempo e di fare il progetto esecutivo ancora non si parla. Una ulteriore riprova delle difficoltà anche temporali della cosa appare costituita dal fatto che sempre il professor Calzona afferma che lo schema di progetto di Renzo Piano non va, che è di vecchia concezione, avanzandone egli uno alternativo, mentre abbiamo a disposizione anche quello di Autostrade.
Chi deciderà quale progetto seguire? Il commissario nominato dal governo da solo? La cosa appare inverosimile e la stessa figura del commissario appare nella sostanza piuttosto evanescente, dal momento che le decisioni importanti saranno prese di concerto tra Di Maio e Salvini; ma ogni volta ci vorrà del tempo per metterli d’accordo.
E quando verrà deciso? Tra le tante difficoltà da superare c’è la questione delle regole nazionali ed europee in tema di assegnazione delle commesse pubbliche che impedirebbero di andare avanti troppo speditamente. In teoria bisognerebbe poi ancora considerare i tempi necessari per cose quali la valutazione di impatto ambientale, le autorizzazioni idrauliche e paesaggistiche, la conferenza dei servizi; o se ne farà a meno? Alla fine, sembra che cavarsela in meno di due anni, due anni e mezzo, sia difficile.
Chi dovrebbe partecipare
Altrettanto complicata appare la questione di chi debba costruire l’opera, con l’attenzione puntata in particolare sulle società Autostrade e Fincantieri, mentre immaginiamo che altri soggetti lavorino affannosamente e tenacemente nell’ombra per riuscire ad entrare nella partita (La Salini-Impregilo non ha niente da dire in proposito? E fare entrare nel gioco anche la tedesca Hochtief, società nella quale la famiglia Benetton ha una partecipazione importante, non poterebbe riuscire ad accontentare tutti, forse anche l’Unione Europea?) .
Abbiamo comunque mostrato in un precedente articolo, pubblicato su questo sito, le ragioni che spingono a non affidare l’opera a Fincantieri, mentre siamo d’accordo che motivi ineludibili impongono di evitare che ad essa partecipi Autostrade, almeno direttamente. Alla fine pensiamo che bisognerà inserire nella partita diversi attori e che la decisione in merito a chi essi saranno appare piuttosto complicata, se pure si riuscisse ad evitare la fase della gara.
I controlli e i responsabili di Autostrade
Uno degli aspetti più inquietanti di quello che sta venendo alla luce ma che, d’altro canto, non deve aver sorpreso nessuno, tutti essendo perfettamente al corrente dello stato di organizzazione del nostro Paese, appare la scoperta che sia all’interno di Autostrade, che al ministero delle Infrastrutture – preposto al controllo – si sapeva bene che il ponte presentava da tempo delle grosse criticità, come attestato da molti documenti e da alcune testimonianze. Ma la paralisi decisionale e il rimando delle decisioni hanno colpito ancora. Si è, per altro verso, giocato d’azzardo sulla pelle dei cittadini ed anche su quella dell’economia genovese. Ricordiamo anche, a questo proposito, che l’area ligure è il più importante polo logistico del Paese. In particolare, e per altro verso si dimostra ancora una volta come in Italia quasi nessuno controlli veramente niente, quali che siano le risorse dedicate allo scopo e quale l’importanza della posta in gioco.
Si sta svolgendo ora tra i possibili responsabili lo spettacolo osceno di chi si rifiuta di parlare, di chi invece afferma che lui aveva visto e segnalato tutto, di chi afferma la sua totale estraneità al processo decisionale, di chi sostiene infine che non ne sapeva nulla. Temiamo che le cose si trascinino per le lunghe in procedimenti che dureranno molti anni e che alla fine nessuno paghi; ma speriamo che non sia così.
In tutta questa vicenda ha colpito in particolare l’atteggiamento assunto dalla società Autostrade e dal suo amministratore delegato, l’ing. Castellucci, cui in ogni caso gli azionisti hanno rinnovato di recente la loro fiducia. La società ha cercato sin dall’inizio di minimizzare l’accaduto e la famiglia Benetton non si è fatta in pratica sentire, lasciando la gestione della questione ai dirigenti. Lo stesso Castellucci, oltre ad aver offerto una tardiva e tiepida solidarietà alle vittime e a non aver neanche accennato alla possibilità di dimissioni, che sarebbero invece state doverose, ha cercato di negare anche le evidenze più palpabili. Di fronte ad una commissione di indagine del ministero il dirigente nega tutto, dichiara che non sa perché il ponte è crollato, rinvia ogni domanda di informazioni e di chiarimenti a future analisi tecniche; impressionante anche la sfilata davanti al magistrato dei dirigenti, che si rifiutano di parlare. Si sente dire più o meno: “Noi non abbiamo accesso ai luoghi, non abbiamo una capacità di farci un’opinione, stiamo svolgendo un’inchiesta, non vogliamo interferire con le indagini della magistratura”. Non sa niente neanche Berti, il responsabile delle Operazioni centrali (Mensurati, Tonacci, 2018). Del resto, la cosa non deve sorprendere. Messa di fronte alle sue responsabilità, e comunque nei momenti cruciali, la nostra classe dirigente per larghissima parte fa di solito finta di niente, nega tutto, scarica le colpe sugli altri, scappa altrove; punisce, se può, quelli che cercano di dire la verità.
La manutenzione
In questo quadro, comunque, appare evidente dalle cifre che, dal momento della privatizzazione in poi, le spese per la manutenzione del ponte e dell’intera rete autostradale si sono pesantemente ridimensionate.
Prima della caduta dei regimi dell’Est europeo chi viaggiava in tali Paesi si accorgeva dell’evidenza di quali grandi problemi di manutenzione degli edifici e degli impianti ci fossero, fenomeno interpretato come una sicura spia, in generale, di una società che non funzionava.
Il crollo del ponte di Genova ha avuto il peraltro dubbio merito di ricordarci che
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CONFLITTI GEOPOLITICI
Behind the Anglo American War on Russia
- William Engdahl – 11 settembre 21018
Perhaps they had a chance back during the Obama days when Secretary of State Hillary Clinton proposed her amusing “Reset” in USA-Russia relations to the new Medvedew Presidency following Putin’s rotation to the seat of Prime Minister in March 2009. Had Washington been a bit more perceptive and offered serious alternatives, it is conceivable that Washington would today have a geopolitical isolation of their second major problem on the Eurasian Continent, namely, the Peoples’ Republic of China. Recently the US Assistant Secretary of State for Europe and Eurasia, Wess Mitchell, testified to the Senate where he candidly revealed the true reasons for current Washington and London campaigns and sanctions against Russia. It has nothing to do with faked allegations of US election interference; it has nothing to do with poorly-staged false flag poisoning of the Russian Skripals. It’s far more fundamental and takes us back to the era before the First World War more than a century ago.
In testimony before the Senate Foreign Relations Committee on 21 August, Wess Mitchell, the successor to Victoria Nuland, gave an extraordinarily honest statement of real US geopolitical strategy towards Russia. It revealed a bit more honesty apparently than the US State Department wanted, because they quickly sanitized their published version on the department website.
Censored!…
In his opening remarks to the Senate committee members Mitchell stated:
“The starting point of the National Security Strategy is the recognition that America has entered a period of big-power competition, and that past US policies have neither sufficiently grasped the scope of this emerging trend nor adequately equipped our nation to succeed in it.
Then he continues with the following extraordinary admission:
“Contrary to the hopeful assumptions of previous administrations, Russia and China are serious competitors that are building up the material and ideological wherewithal to contest US primacy and leadership in the 21st Century. It continues to be among the foremost national security interests of the United States to prevent the domination of the Eurasian landmass by hostile powers. The central aim of the administration’s foreign policy is to prepare our nation to confront this challenge by systematically strengthening the military, economic and political fundaments of American power.”
In the State Department’s later sanitized version, the original text, “It continues to be among the foremost national security interests of the United States to prevent the domination of the Eurasian landmass by hostile powers.” And the sentence, “The central aim of the administration’s foreign policy is to prepare our nation to confront this challenge by systematically strengthening the military, economic and political fundaments of American power,” mysteriously were deleted. Because it was formal testimony presented to the Senate, however, the Senate version remains true to his original text, at least of 7 September, 2018. The State Department has been caught in a huge blunder.
If we pause to reflect on the meaning behind the words of Wess Mitchell, it’s pretty crude and wholly illegal in terms of the UN Charter, though Washington today seems to have forgotten that solemn document. Mitchell says US national security priority is to, “…prevent the domination of the Eurasian landmass by hostile powers.” He clearly means powers hostile to efforts of Washington and NATO to dominate Eurasia, ever since the collapse of the Soviet Union more than a quarter century ago.
But, wait. Mitchell earlier cites the two dominant powers who combined, he says, are the current prime foe of US global control. Mitchell states explicitly, “Russia and China are serious competitors that are building up the material and ideological wherewithal to contest US primacy and leadership.” But US control of Eurasia then means US control of Russia, China and environs. Eurasia is their land space. The Wess Mitchell Senate declaration is a kind of obscene global rollout of the 19th Century USA Monroe Doctrine: Eurasia is ours and “hostile powers” such as China or Russia who try to interfere in their own sovereign space, become de facto “enemy.” Then the formulation “building up the material and ideological wherewithal…” What’s that supposed to mean as justification for Washington policy to prepare a military response? Both nations are energetically moving, despite repeated Western economic warfare, to build their economic infrastructure independent of NATO control. That is understandable. But Mitchell admits it is for Washington Casus Belli.
To realize what a strategic blunder the Assistant Secretary of State for Europe and Eurasian Affairs made with that one careless sentence and why the State Department rushed to delete his remarks, a brief excursion into basic Anglo-American geopolitical doctrine is useful. Here, discussion of the worldview of the godfather of geopolitics, British geographer Sir Halford Mackinder is essential. In 1904 in a speech before the Royal Geographical Society in London, Mackinder, a firm advocate of Empire, presented what is arguably one of the most influential documents in world foreign policy of the past two hundred years since the Battle of Waterloo. His short speech was titled “The Geographical Pivot of History.”
Russia and Eurasian Pivot
Mackinder divided the world into two primary geographical powers: Sea power versus Land power. On the dominant side was what he termed the “ring of bases” linking sea powers Britain, USA, Canada, South Africa, Australia and Japan in domination of the world seas and of commerce power. This ring of dominant sea-powers was inaccessible to any threat from land powers of Eurasia or Euro-Asia as he termed the vast continent. Mackinder further noted that were the Russian Empire able to expand over the lands of Euro-Asia and gain access to the vast resources there to build a naval fleet, “the empire of the world might then be in sight.” Mackinder added, “This might happen if Germany were to ally herself with Russia.”
Mackinder noted the enormous geopolitical implications of the then-new Russian Trans-Siberian Railway linking the vast territory of Russia from in Moscow at Yaroslavsky Vokzal, across all Russia some 6,000 miles to Vladivostock on the Pacific. He warned his select British audience, “the century will not be old before all Asia is covered with railways,” creating a vast land area inaccessible to the naval fleets of the British and later, Americans.
What the world has experienced since that prophetic 1904 London speech of Mackinder is two world wars, primarily aimed at breaking the German nation and its geopolitical threat to Anglo-American global domination, and to destroy the prospect of a peaceful emergence of a German-Russian Eurasia that, as Mackinder and British geopolitical strategists saw it, would put the “empire of the world” in sight.
Those two world wars in effect sabotaged the “covering of all Eurasia with
Continua qui: https://journal-neo.org/2018/09/11/behind-the-anglo-american-war-on-russia/
CULTURA
Michel Houellebecq, uno Spengler ottimista in cerca di una via di scampo per l’Occidente
24 ottobre 2018 – Matteo Fais
Una cosa è certa: la maggior parte della letteratura europea – e quella italiana come nessun’altra – non si occupa della realtà. Oggi come oggi più che mai si potrebbe dire si realizza il principio dell’arte per l’arte, ovvero di una messa al bando dei contenuti privilegiando il gioco creativo. Il che non sarebbe per forza negativo, se non fosse che manca la base di tutto, ossia l’arte.
In alternativa, esistono una narrativa e una poesia senza qualità volte ossessivamente, per ordine di partito, a restituirci la giusta immagine del migrante – a quanto pare noi, autonomamente, non saremmo in grado, perché affetti da una percezione distorta che ci porta a decuplicarne il numero e a vederli tutti sporchi e cattivi.
Per grazia divina, a questo ridicolo coro di Saviani, Baricchi, e altri PIRLAndelliani personaggi vari, si contrappone l’unico scrittore europeo attuale che davvero meriti di passare alla storia, Michel Houellebecq. Pochi giorni fa, il francese ha ricevuto a Bruxelles il Premio Oswald Spengler, ovvero un riconoscimento che prende il nome dal grandissimo filosofo che scrisse quella pietra miliare il cui titolo è oramai parte dell’immaginario collettivo: Il tramonto dell’Occidente. Il Foglio, con Giulio Meotti, ne ha dato
Continua qui: http://www.pangea.news/michel-houellebecq-uno-spengler-ottimista-in-cerca-di-una-via-di-scampo-per-loccidente/
DIRITTI UMANI – IMMIGRAZIONI
Open Arms, tutte le balle: il documento che smaschera la Ong in fuga
19 Luglio 2018
L’unica cosa a non essere una bufala è la morte, drammatica come ogni morte, e ancor più perché riguarda una mamma e il suo bimbo, di due migranti al largo della Libia. Tutto il resto che è stato scritto finora sul ritrovamento un paio di giorni fa di due cadaveri in mare appoggiati a un gommone – dalle accuse alla Guardia Costiera libica di aver affondato il natante, fino all’ identificazione del luogo dove si sarebbe consumato il dramma – è una fake news. Prodotta ad arte, per screditare il governo libico, italiano o chiunque si opponga all’ immigrazione.
Leggi anche: “Caro Salvini, sai cosa faremo?”. Open Arms, Ong senza pudore: prima infanga poi sfotte l’Italia
Ricostruiamo i fatti. Due giorni fa la nave della Ong spagnola Proactiva Open Arms ritrova i resti di un gommone affondato con a bordo i cadaveri di una donna e un bimbo e un’ altra donna in fin di vita, Josephine, che viene salvata.
Subito il fondatore della ong Oscar Camps incolpa le motovedette libiche, ree di aver «intercettato una barca con 158 persone» e di aver «lasciato due donne e un bambino a bordo» e poi «affondato l’ imbarcazione perché non volevano salire sulle loro motovedette».
Questa ricostruzione è stata tuttavia smentita prima dalla Marina militare libica, e poi da due giornalisti a bordo della motovedetta, Nadja Krewald della tv tedesca N-tv e il freelance libico Emag Matoug. A loro dire, durante le operazioni di salvataggio, nessun migrante è stato lasciato in mare.
«Ne siamo sicuri, quando siamo andati via, non c’ era più nessuno in acqua», garantisce la Krewald, ai microfoni di Valentino Di Giacomo de Il Messaggero. E, a maggior conferma, venerdì prossimo la N-tv manderà in onda il
Continua qui: https://www.liberoquotidiano.it/news/italia/13361906/open-arms-tutte-balle-documento-che-smaschera-ong-in-fuga-.html
Desirée uccisa nelle macerie. Della civiltà.
Maurizio Blondet 25 ottobre 2018
Da Ciociaria Oggi:
“…Ieri mattina davanti a quel sito dismesso che doveva essere riqualificato da anni c’erano il padre e la madre della giovane Desiree. Il padre ha ottenuto il permesso di lasciare gli arresti domiciliari per recarsi a Roma a vedere il corpo della 16enne trovata morta a San Lorenzo. Arresti domiciliari disposti dopo una denuncia di stalking da parte della donna – da cui è separato da anni – e dalla stessa figlia che ad agosto aveva sporto una denuncia per aver ricevuto qualche sberla.
Desiree ad agosto si era nuovamente allontanata da casa e la madre aveva chiesto aiuto al padre che però aveva un ordine di non avvicinarla. Lui, incurante del rischio di una nuova denuncia, l’ha cercata, l’ha trovata, l’ha riportata a casa.
Lei lo ha denunciato e l’autorità giudiziaria ha imposto i domiciliari. Qualche ora prima della tragedia quello stesso padre era di fronte ad un giudice per chiedere la revoca della misura – con il parere concorde anche della madre di Desiree – che però il giudice non si è sentito di annullare”.
Desirée a 16 anni uccisa da stupratori e spacciatori senegalesi in una maceria abbandonata al degrado dal padrone, nel cuore della capitale. Adesso, a credere ai media, la mamma dice: lei non si è mai drogata, certo negli ultimi tempi era cambiata. Aveva deciso di iscriversi al liceo artistico… L’ultima telefonata alla nonna: “Ho perso l’autobus, resto a Roma a dormire da una amica”. Ma tanti l’avevano vista in quella zona piena di piscio e di ciarpame dove s’è fatta ammazzare dai negri.
Povera Desirée a cui in famiglia nessuno ha detto dei “No” . anzi, il solo che glieli ha detti, il padre, non ha alcuna autorità, è condannato per stalking, è stato denunciato dalla moglie; e quando l’ha riportata a casa, s’è beccato una denuncia anche da lei: la figlia sedicenne. Perché nessuno deve limitare la sua “libertà”, le sue “libere scelte”.
Tremendo scoprire come si descriveva lei, la povera sciocchina divorata dal nulla, su Facebook, sotto le immancabili foto in cui tutte le ragazzine come lei si propongono come seduttrici da pornovideo:
“Nata principessa, cresciuta guerriera, un angelo bianco con l’anima nera”.
Nelle fantasie narcisiste, puberali, “l’anima nera”. Ovviamente in giro non un prete, non una maestra o professoressa, una parente cui si potesse confidare di questa “anima nera”. Non dico che è colpa della famiglia, al contrario: la famiglia stessa è una maceria e un degrado – ma è stata resa così. Dall’ideologia dominante e totale, un miscuglio di permissivismo e di “libertà”, ormai terza o quarta generazione di uomo-massa (per il quale vivere è essere quello che già si è), a cui né uno Stato né una religione, né una società, un vicinato con la sua santa pressione sociale, imprimono un qualunque obbligo, una direzione a migliorarsi, a studiare, a formarsi un carattere, a esercitare disciplinatamente l’intelligenza e la volontà – cose che si devono imparare – a riempire il vuoto spaventoso di scopi e di traguardi che è invincibile nell’adolescenza. Perché “una vita senza impegni è più negativa della morte”, ma questo non è qualcosa che – salvo eccezioni di personalità straordinarie – un singolo possa darsi da sé: è qualcosa che viene dal “comando”, dal comando politico: “comandare infatti vuol dire assegnare un compito alle persone, metterle sul loro cardine, impedire la loro dissipazione”.
E’ ormai passato un secolo da quando si è scritto: “In questi assistiamo al gigantesco spettacolo d’innumerevoli vite umane che camminano smarrite nel labirinto di se stesse, per non avere nulla a cui rivolgersi. Tutti gli imperativi, tutti gli ordini sono rimasti sospesi. Sembrerebbe la situazione ideale: una volta che ciascuna vita rimane nell’assoluta libertà di fare ciò che le aggrada, di attendere a se stessa. Ma il risultato è stato l’inverso: abbandonata a se stessa, ciascuna vita rimane priva di se stessa, vuota, inattiva. E dato che deve pur riempirsi di qualcosa, s’inventa frivolamente una propria esperienza, si dedica a false occupazioni” – o s’immagina “nata principessa, cresciuta guerriera”, forte e seduttrice “angelo bianco con l’anima nera”.
I neri, quelli veri, che guai a non “accoglierli”, l’hanno ben misurata ed abbrancata, una sciocchina che si mette in pericolo senza saperlo, bambina già guasta ma ingenua.
Parabola del nostro degrado collettivo, il quartiere di San Lorenzo: una maceria abbandonata, appartenente al fratello dell’ex sindaco Veltroni, ma non costruita perché – ammettiamolo – è ormai conveniente costruire un condominio lì? Dopo che Mario Monti ha stroncato il settore edilizio e i consumi interni, non ci sono lì più lavoratori, le botteghe artigiane sono state sostituite da spacciatori, occupanti, zoologia da centri sociali : e la chiamiamo “la movida studentesca”, – ma quali studenti incanagliti la animano?
Su Tripadvisor, i giudizi sul quartiere San Lorenzo:
Attraverso questo quartiere quasi tutti i giorni per andare all’Università. Negli anni ho cercato di esplorarlo il più possibile per trovare qualcosa di carino che mi portasse ad apprezzarlo un po’di più rispetto alla prima negativa impressione che mi ha fatto. Purtroppo, ho trovato ben poco. Il quartiere è piuttosto malfamato e purtroppo la realtà delle cose conferma i racconti e le dicerie. Oltre ad essere pericoloso, soprattutto di notte, è anche terribilmente sporco. La puzza di urina e di spazzatura a volte è davvero insopportabile, soprattutto durante l’estate. Qui e lì ci sono degli angoli carini, negozietti interessanti e belle opere di urban art. Ma si tratta di minuscole oasi in un deserto di
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La verità sulla Spagna buonista che non vuole i migranti minorenni
www.occhidellaguerra.it Lorenzo Vita – 25 ottobre 2018
Per la Spagna, gli immigrati minorenni soli sono troppi. E Madrid, insieme alle comunità autonome, non sa come gestirli. Al 30 settembre di quest’anno, in territorio spagnolo erano registrati 11.174 minori non accompagnati. “Questi minorenni presentano una sfida immediata e anche una sfida futura in materia di salute, educazione e dignità “, ha detto María Luisa Carcedo, ministro della Salute al Senato alcuni giorni fa.
Una dichiarazione che è vera nella sostanza, ma anche nasconde un’incapacità cronica di Madrid di gestire un problema che non è affatto così apocalittico come dichiarato dal governo di Pedro Sanchez. Basta un paragona con l’Italia per sradicare questa retorica iberica: i minorenni non accompagnati in territorio italiano, a giugno, erano 18.300, come ricorda La Verità. Settemila minorenni in più della Spagna.
Il problema è che le comunità autonome vogliono soldi, accoglierne pochi e senza problemi. A settembre, il governo Sanchez aveva dato il via libera all’assegnazione di 40 milioni di euro “per migliorare la cura dei minori stranieri non accompagnati e incoraggiare le comunità a rendere possibile una distribuzione tra di loro”, come scritto da El Pais.
Una misura straordinaria che serviva a rendere disponibili, per sei mesi, fondi utili a ciascuna comunità autonoma per migliorare le capacità di accoglienza dei migranti sotto la maggiore età. E i soldi sarebbero finiti alle regioni che avevano subito un maggiore afflusso di questa fascia di migranti. Un esempio, l’Andalusia, che sul suo territorio ne ha più di 4mila. E che, come storico feudo del Partito socialista, non aspettava altro che l’apertura dei rubinetti da parte di Madrid.
Altri milioni sono stati indirizzati verso la Catalogna, che vuole staccarsi dalla Spagna ma aspetta i soldi dallo Stato centrale per l’immigrazione, nonostante Ada Colau, da Barcellona, parli di accoglienza senza compromessi.
Il 70% di questi minorenni è ancora concentrato tra Andalusia, Catalogna, Ceuta e Melilla. Ma quando la Spagna e le regioni autonome parlano di crisi migratoria e di incapacità di accogliere questi giovani, forse dovrebbero guardare i
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ECONOMIA
Cosa succede in Fca tre mesi dopo Marchionne
www.lettera43.it Samuele Cafasso – 25 ottobre 2018
I mercati brindano per la vendita di Magneti Marelli e i dividendi annunciati. Ma, da Pomigliano a Mirafiori, gli stabilimenti italiani sono fermi e sempre più osservatori giudicano inevitabile lo “spezzatino” del gruppo. Il punto.
Per una curiosa coincidenza, proprio negli stessi giorni in cui cadono i primi tre mesi dalla morte del Ceo di Fca Sergio Marchionne, l’Italia e il governo Conte devono fare i conti con l’eredità lasciata dal manager italo-canadese nel nostro Paese e non si annunciano buone notizie per i lavoratori. Sergio Marchionne è morto a Ginevra il 25 luglio. Tre mesi e un giorno dopo, il 26 ottobre, a Roma è convocato allo Sviluppo economico il tavolo per gli ammortizzatori sociali a Pomigliano. Il 29 è previsto un nuovo incontro (manca solo la convocazione ufficiale) tra i manager di Magneti Marelli e i sindacati. Il giorno dopo, infine, il 30 ottobre, mentre a Londra verrà presentata agli analisti la trimestrale di Fca, a Roma il ministro dello Sviluppo economico Luigi Di Maio ha convocato i rappresentanti dei lavoratori per parlare del futuro dell’automotive in Italia.
GLI OPERAI ITALIANI SENZA AUTO DA PRODURRE
Sarà in quell’occasione che Fca farà planare su Roma qualche indicazione in più sui modelli che dovrebbero rilanciare gli stabilimenti italiani? In molti se lo augurano, ma in realtà l’azienda ha convocato i sindacati per discutere gli investimenti nelle fabbriche tricolore solo un mese dopo, il 29 novembre. Ma la situazione sta diventando drammatica: a Pomigliano, dove la cassa integrazione copre 2.000 esuberi teorici per 4.600 lavoratori, lo stabilimento è chiuso dal 22 al 31 ottobre. Cassa integrazione anche alle presse di Mirafiori per cinque giorni a novembre (dopo le 10 di ottobre e i fermi nel vicino stabilimento di Grugliasco) e all’Alfa di Cassino per 4 mila lavoratori dal 25 ottobre al 3 novembre. E se Pomigliano è lo stabilimento dove la situazione è più preoccupante, come vedremo, i fermi al polo torinese e a Cassino, dove si produce per i marchi “forti” del gruppo – Alfa Romeo e Maserati -, dicono che qualcosa non sta andando come dovrebbe.
L’INCOGNITA: DOVE FINISCONO I SOLDI DI MAGNETI MARELLI?
La notizia della vendita al fondo americano Kkr – che controlla la giapponese Calsonic Kansei – di Magneti Marelli per 6,2 miliardi di euro ha creato euforia in Borsa: a Wall Street lunedì 22 ottobre il titolo ha guadagnato il 3,74%. Il balzo è dovuto sicuramente al maggior prezzo strappato dal gruppo rispetto alle prime offerte, ma pesa molto anche la convinzione per cui parte dell’incasso finirà nelle casse degli azionisti attraverso un maxi-dividendo, come promesso lo scorso primo giugno da Sergio Marchionne. Stiamo parlando di due miliardi di euro. Altri fondi potrebbe essere riutilizzati per il riacquisto di azioni proprie per sostenere le quotazioni. «Quello che vorremmo sapere», spiega Michele De Palma, responsabile automotive della Fiom, «è quante risorse andranno invece al rilancio degli stabilimenti italiani». È la stessa domanda che, sul Corriere della Sera e Il Sole 24 Ore, hanno posto ai manager di Fca due attenti osservatori come Giuseppe Berta e Francesco Zirpoli. «La domanda», scrive quest’ultimo, «quindi è: i 6,2 miliardi di euro frutto della vendita della maggiore (e per certi versi unica) multinazionale della componentistica italiana, saranno re-investiti per sviluppare nuovi modelli e tecnologie? In che misura questi investimenti rafforzeranno la posizione di Fca in Italia?».
IL MOTORE ELETTRICO CHE C’ERA GIÀ PASSA AI GIAPPONESI
Nel piano industriale ereditato da Sergio Marchionne e che il nuovo Ceo Mike Manley ha confermato, l’ibrido e l’elettrico giocano un ruolo chiave con la previsione di 9 miliardi di investimenti. E tuttavia lo scorporo di Magneti Marelli è un brutto colpo in questo senso. «Tutti sappiamo», spiega De Palma, «che in provincia di Bari, a Modugno, era stata avviata la produzione dei componenti elettronici per motori ibridi destinati ai nuovi Ram 1500 (i nuovi pick up lanciati sul mercato a metà 2018, ndr) e che quello stabilimento è in prima linea per l’elettrico». Il comunicato di Fca dopo l’ufficializzazione della vendita di Magneti Marelli parla di un’intesa tra i nuovi proprietari e il gruppo italo-americano per una fornitura pluriennale, anche a garanzia del mantenimento dei livelli occupazionali, ma nulla dice di possibili sinergie per lo sviluppo dell’elettrico. Dal governo attualmente in carica, pur sovranista quando si parla ad esempio di Alitalia, non si sono alzate voci critiche sulla vendita a un gruppo straniero di un’azienda strategica per l’industria dell’automotive nazionale. L’ex ministro Carlo Calenda ha parlato di «una pessima notizia». Secondo De Palma, tuttavia, «il tema era già sul tavolo con il governo precedente, noi l’avevamo segnalato. Quello che mi chiedo è perché si parla sempre di cordate italiane quando si tratta di salvare aziende decotte e invece non si interviene per una realtà che potrebbe essere la pietra angolare del rilancio dell’automotive in Italia». E che potrebbe essere decisiva nel settore del motore elettrico ma anche dell’automatizzazione.
L’amministratore delegato Mike Manley con John Elkann
Ansa
SULL’IBRIDO LA PARTENZA È A SCOPPIO RITARDATO
Il ritardo di Fca è conclamato e i primi passi molto timidi: secondo una fonte anonima, il Jeep Renegade ibrido annunciato da John Elkann e in vendita dal 2020 sarà prodotto solo in 5 mila unità. Mentre le altre case automobilistiche sfornano modelli nuovi, subito in versione ibrida, Fca pensa di applicare la tecnologia verde alla 500X a Melfi e la 500L in Serbia, che però sono auto già esistenti e quindi meno appetibili sul mercato. Poi arriveranno le novità, certo, ma è proprio questa incertezza sul futuro il principale motivo di preoccupazione tra i sindacati italiani.
A POMIGLIANO IL RISCHIO È CHE DEBBA INTERVENIRE IL GOVERNO
E qui torniamo ancora una volta al punto di partenza: dopo l’annuncio dei nuovi modelli lo scorso primo giugno per le fabbriche italiane, nulla si sa di dove questi verranno prodotti e da quando. La situazione più grave è a Pomigliano: qui a settembre scade la cassa integrazione che, formalmente, è stata riconosciuta per ristrutturazione, «mentre a noi risulta che non sia stato ancora avvitato un bullone», sostiene De Palma. Con le attuali regole, non ci possono essere dopo settembre altri ammortizzatori sociali. Si vocifera di un mini Suv assegnato a Pomigliano, ma per mettere su una nuova linea di produzione servono 12-18 mesi e in Campania (come altrove) nulla è partito. Il rischio che il governo debba intervenire con un piano di sostegno all’occupazione eccezionale è tutt’altro che irreale e questo spiegherebbe il nervosismo del governo nei confronti di Fca. Poco si sa anche del nuovo Suv di dimensioni simili al Levante che dovrebbe essere assegnato a Mirafiori e della 500
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Le voci dei lavoratori della Hag a rischio licenziamento
www.lettera43.it Andrea Aimar – 24 ottobre 2018
Fumata nera al Mise per evitare la chiusura dello stabilimento Jde di Andezeno. Cresce la rabbia dei lavoratori. Il reportage.
La riunione della sera del 22 ottobre al Mise sulla chiusura dello stabilimento Jde di Andezeno (To) che produce i marchi di caffè Hag e Splendid si è conclusa con l’ennesima fumata nera. Nessuna disponibilità alla trattativa da parte della multinazionale olandese che conferma la procedura di licenziamento per i 57 dipendenti. Per Fai-Cisl, Flai-Cgil e Uila-Uil le posizioni dell’azienda sono «inaccettabili» e denotano «una totale mancanza di responsabilità sociale». Il tavolo ministeriale è rinviato alla prossima settimana, a un mese dall’inizio della mobilitazione dei lavoratori di Andezeno.
Venerdì 28 settembre all’ora di pranzo erano circa una quarantina i lavoratori in presidio davanti ai cancelli dello stabilimento. La maggior parte di loro era impegnata a riassumere la situazione davanti alla telecamere di un programma televisivo. Poco distanti, seduti intorno a un tavolo all’ombra di un gazebo, sette lavoratori della Jacobs Douwe Egberts (Jde) condividevano acqua, pizzette e focaccine. Giorgio Giannese, manutentore meccanico, è stato il primo a parlare: «Sono qua da 15 anni, fino a sabato abbiamo lavorato facendo gli straordinari. Martedì mattina ci è arrivata la comunicazione. Qua c’è sempre stato lavoro, anche ora che siamo fuori in sciopero, dentro c’è da lavorare. La loro decisione è davvero assurda». Allo stabilimento di Andezeno, un paesino della collina torinese, escono i caffè che la Jde commercializza con i marchi Hag e Splendid. Martedì 25 settembre alla sede milanese dell’Assolombarda i sindacati avrebbero dovuto partecipare alla periodica riunione di aggiornamento e trattativa sui premi aziendali. «Qualche giorno prima veniamo contattati con una nota di modifica all’Ordine del giorno, inseriscono una comunicazione importante della società», ha raccontato a L43 Manuela Vendola, sindacalista della Iula. Come un fulmine a ciel sereno arriva la
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GIUSTIZIA E NORME
Il giudice robot, affascinante e spaventoso
23.10.18
Lo sviluppo dell’intelligenza artificiale ha ormai reso possibile la sua applicazione anche al diritto. Esistono già software in grado di trovare soluzioni a piccole dispute o per calcolare il periodo di detenzione. Arriveranno anche i giudici-robot?
Intelligenza artificiale in tribunale
Marco Somalvico, un ingegnere specializzato scomparso quindici anni fa, definiva l’intelligenza artificiale come la disciplina informatica «che studia i fondamenti teorici, le metodologie e le tecniche che consentono la progettazione di sistemi hardware e software capaci di fornire all’elaboratore elettronico prestazioni che, a un osservatore comune, sembrerebbero essere di pertinenza esclusiva dell’intelligenza umana».
La recente accelerazione del suo sviluppo ha ormai reso possibili importanti applicazioni, dalla diagnosi medica alla guida di automobili, dal gioco degli scacchi all’investimento in borsa. Una delle frontiere è l’analisi del linguaggio naturale, che fa immediatamente pensare alla possibilità di risolvere controversie legali sulla base degli atti delle parti e della conoscenza delle norme: un computer e un algoritmo in grado di sostituirsi al giudice ed emanare sentenze non è fantascienza. Richard Susskind, uno studioso di Oxford e consulente di molti governi sull’applicazione dell’intelligenza artificiale al diritto, negli ultimi due decenni ha dipinto in numerose pubblicazioni il futuro delle professioni legali, ipotizzando in particolare che in una manciata di anni almeno alcune cause potrebbero essere decise da un giudice robot. La predizione risale peraltro almeno agli anni Sessanta (Lawlor, 1963). D’altronde, sono ormai molti gli studi legali e le società, anche in Italia, a usare questi strumenti per attività quali due diligence e analisi dei contratti: quello di JPMorgan, ad esempio, si chiama Coin.
Uno dei più interessanti contributi sul tema è un paper di un paio di anni fa, scritto da ricercatori inglesi, che contiene un curioso esperimento. Dopo aver fatto “studiare” a un algoritmo un certo numero di decisioni della Corte europea dei diritti umani (competente ad applicare l’omonima convenzione nelle dispute, di solito, tra individui e stati), si è dimostrato che il computer riusciva a risolvere le controversie, sulla base degli atti delle parti, esattamente come i giudici in carne e ossa nel 79 per cento dei casi. Il contributo offre peraltro affascinanti spunti su come i giudici ragionano: statisticamente, l’accuratezza della previsione è migliore quando l’algoritmo si basa sulle circostanze di fatto del caso descritte dalle parti che non sulla interpretazione della legge che forniscono. Il dettaglio suggerisce la rilevanza di come i giudici percepiscono i fatti, rafforzando l’idea che le preferenze ideologiche giocano un ruolo determinante nelle decisioni (“realismo legale”). Pur tenendo conto dei limiti metodologici, evidenziati dagli stessi autori che escludono che a breve i robot rimpiazzeranno i giudici persone fisiche, lo studio fa riflettere sul
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PANORAMA INTERNAZIONALE
BATACLAN, “AVRETE IL MIO ODIO”
Ha ragione Dante, non c’è niente di più libero del perdono…
Patrick Jardin, francese, 65 anni, ha perso la figlia nell’attentato jihadista del 2015 al Bataclan di Parigi. A differenza di Antoine Leiris, non intende perdonare.
29 settembre 2018 – Roberto Persico
È un mistero infinito, la libertà umana. Ero rimasto senza fiato, quando avevo letto il post di Antoine Leiris, che nell’assalto al Bataclan aveva perso la moglie, Hélène, e aveva scritto ai suoi assassini: “Non avrete il mio odio”. Mi era subito venuto in mente un passaggio di Hannah Arendt che amo follemente. “La redenzione possibile dall’aporia dell’irreversibilità è nella facoltà di perdonare — scrive in Vita activa —. Diversamente dalla vendetta, che è la naturale, automatica reazione alla trasgressione, l’atto del perdonare non può mai essere previsto; è la sola reazione che agisca in maniera inaspettata e che quindi ha in sé, pur essendo una reazione, qualcosa del carattere originale dell’azione. Perdonare, in altre parole, è la sola reazione, che non si limita a re-agire, ma agisce in maniera nuova e inaspettata”.
Il perdono è un modo per dire “io”, per dire “non accetto di fare quel che tu vorresti che io facessi, di essere ridotto a quel che tu vorresti che io fossi. Io sono io, e decido io”. Ovvero, io sono libero. Ci sentivo dentro l’eco — anche se so bene che Leiris è laico, laicissimo — del suggerimento impossibile di Gesù: “A chi ti colpisce su una guancia, porgi anche l’altra”. Che è laico, laicissimo. Perché non vuol dire “sii imbelle”, ma: “guarda che sei libero, che in ogni circostanza puoi sempre decidere tu che cosa fare, chi essere”.
Forse per questo mi ha colpito con tanta forza la notizia dell’intervista a Patrick Jardin, che al Bataclan ha perso una figlia. Ha più o meno la mia età, Patrick Jardin, e sua figlia aveva l’età che ha la mia adesso. Che cosa avrei fatto, che cosa farei io al suo posto? Non voglio dare facili risposte, bisogna essere dentro a una situazione per giudicare. La risposta di Jardin — se capisco bene
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POLITICA
Del discredito
29 settembre 2018 DI ANDREA ZHOK
Alle volte, di fronte allo sconcerto di amici europeisti per la ‘rozzezza istituzionale’ dei ‘populisti’ (non solo in Italia), mi chiedo cosa si aspettassero.
Per anni e anni siamo andati avanti in Europa con una (sedicente) ‘avanguardia tecnocratica’, sottratta ad ogni dibattito pubblico e ad ogni controllo democratico, che ha utilizzato i propri agganci tra le élite cosmopolite per pubblicizzare nei singoli paesi il Grande Progetto Europeo come un progetto di ricchezza e fratellanza comune.
“Fidatevi”.
Poi, alla prima difficoltà seria, si è vista una corsa di ciascuno al salvataggio dei propri patrimoni (ad esempio il salvataggio delle banche francesi e tedesche a spese della Grecia), uno scatenarsi di regole asimmetriche valutate arbitrariamente (aiuti di stato, surplus commerciali, procedure di infrazione, ecc.), una rincorsa alla colpevolizzazione del vicino nella più completa ignoranza delle realtà altrui, un’esplosione di ricatti, condizionalità, minacce, e il tutto abbinato ad un impoverimento di ampli strati della popolazione.
In sintesi:
1) i lavoratori europei si sono inizialmente e per decenni consegnati fiduciosamente mani e piedi ad un’élite tecnocratica;
2) questa élite li ha prima portati sugli scogli, dopo di che ha cercato di mettere in
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SCIENZE TECNOLOGIE
Cosa c’è veramente dietro la balla del riscaldamento globale
23 ottobre 2018 DI F. WILLIAM ENGDAHL
journal-neo.org
La recente conferenza ONU sul riscaldamento globale, sotto l’egida dell’International Panel on Climate Change (IPCC), ha concluso il proprio incontro in Corea del Sud discutendo su come limitare drasticamente l’aumento della temperatura globale. I media mainstream stanno spacciando vari scenari catastrofici causati delle emissioni di gas serra, specialmente CO₂, prodotte dall’uomo, se non vengono urgentemente intrapresi cambiamenti drastici nel nostro stile di vita. C’è solo una cosa che non va in tutto questo. La conclusione si basa su falsi studi e scienziati corrotti, che hanno raccolto miliardi di sovvenzioni per confermare la necessità di un cambiamento radicale nel nostro tenore di vita. Perché? La risposta è inquietante.
La riunione dell’IPCC ha discusso delle misure necessarie, a detta dei propri modelli informatici, per limitare l’aumento della temperatura globale ad 1,5 °C sopra quella dell’era preindustriale. Drew Shindell, dell’Università di Duke, uno dei membri del gruppo ed uno degli autori dell’ultimo Rapporto Speciale IPCC sul Riscaldamento Globale, ha detto alla stampa che per raggiungere l’obiettivo occorrerà diminuire le emissioni mondiali di CO₂ di un incredibile 40% per i prossimi 12 anni. L’IPCC richiede “zero emissioni nette” di CO₂ entro il 2050. Ciò significherebbe un divieto totale sui motori a gas o diesel per auto e camion, no centrali a carbone, trasformazione dell’agricoltura mondiale verso biocarburanti derivati da alimenti. Shindell ha ammesso: “Sono cambiamenti enormi”.
Il rapporto, denominato SR15, dichiara che il riscaldamento globale di 1,5 °C porterà “probabilmente” all’estinzione delle specie, a condizioni meteorologiche estreme, e a rischi a salute, crescita economica ed approvvigionamento di cibo. Per evitare tutto questo, le stime hanno richiesto che i soli investimenti energetici salgano di $2,4 trilioni l’anno. Il che potrebbe spiegare l’interesse delle principali banche globali, in particolare quelle della City di Londra, a spingere la carta del riscaldamento globale.
Lo scenario assume una dimensione ancor più incredibile, in quanto generato da dati fasulli, creati da un gruppetto internazionale di scienziati climatici, che etichetta i colleghi in disaccordo come “negazionisti del cambiamento climatico”. Vi ricorda qualcosa? Ecco come uccidere un legittimo dibattito scientifico. Il capo IPCC ha recentemente sentenziato: “Il dibattito sulla scienza dei cambiamenti climatici è già stato fatto, ora è chiuso”.
Il dibattito è tutt’altro che finito. Il Global Warming Petition Project, firmato da oltre 31.000 scienziati statunitensi, afferma: “Non ci sono convincenti prove scientifiche che il rilascio umano di anidride carbonica, metano od altri gas serra stia causando o causerà, nel prossimo futuro, un riscaldamento catastrofico dell’atmosfera terrestre ed un’interruzione del clima terrestre. Vi è anzi una sostanziale evidenza scientifica che l’aumento del biossido di carbonio nell’atmosfera produca molti effetti benèfici sugli ambienti naturali di animali e piante”.
Allarmisti
La cosa più interessante dei terribili avvertimenti di catastrofe globale è che si basano sempre su previsioni future. Quando il “punto di svolta” della cosiddetta irreversibilità è passato senza evidenti catastrofi, ci si inventa sempre un nuovo punto futuro.
Nel 1982 Mostafa Tolba, direttore esecutivo del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP), avvertì che “se i governi non agiscono ora, entro un paio di decenni il mondo affronterà un disastro ecologico”. Predisse che l’inazione avrebbe portato “una catastrofe ambientale verso l’inizio del secolo, che vedrà una devastazione totale, irreversibile come qualsiasi olocausto nucleare”. Nell’89 Noel Brown, sempre dell’UNEP, disse che intere nazioni sarebbero state spazzate via dalla faccia della terra, a causa dell’innalzamento del livello del mare, se la tendenza al riscaldamento globale non fosse stata invertita entro il 2000. James Hansen, figura onnipresente negli scenari apocalittici, ai tempi dichiarò che, “per preservare un pianeta simile a quello su cui la civiltà si è sviluppata sulla Terra ed alla quale è stata adattata la vita”, il limite massimo era di 350 ppm di CO₂. Rajendra Pachauri, allora capo IPCC, dichiarò che: “Se non si agisce prima del 2012, sarà troppo tardi”. Oggi il livello misurato è 414.
Come osserva lo scienziato britannico Philip Stott: “In sostanza, negli ultimi cinquanta anni, è stato regolarmente dato alla Terra un avviso di sopravvivenza di 10 anni… Il periodo postmoderno di ansia per i cambiamenti climatici può essere probabilmente fatto risalire a fine anni ’60… Nel ’73, quando lo spavento del “Raffreddamento Globale” era in pieno svolgimento, con previsioni dell’imminente collasso del mondo entro venti anni […] gli ambientalisti avvertivano che, entro il 2000, la popolazione americana sarebbe scesa a soli 22 milioni. Nell’87, il nuovo spavento improvvisamente divenne il “Riscaldamento Globale”, e venne quindi istituito l’IPCC (il Gruppo Intergovernativo sui Cambiamenti Climatici) (1988)…”.
Dati difettosi
I modelli IPCC sono puramente teorici, non reali. L’ipotesi dipende interamente da modelli informatici che generano scenari futuri, non corroborati da registrazioni empiriche che li verifichino. Come ha concluso uno studio scientifico, “I modelli climatici computerizzati, sui quali si basa il ‘riscaldamento globale causato dall’uomo’, hanno sostanziali incertezze e sono palesemente non attendibili. La cosa non sorprende, dal momento che il clima è un sistema dinamico non lineare ed accoppiato. È molto complesso”. Accoppiato vuol dire che gli oceani causano cambiamenti nell’atmosfera e viceversa. Entrambi sono legati in modo complesso ai cicli solari. Nessun modello che prevede il riscaldamento globale o mille “punti di svolta” è in grado di analizzare, e neanche cerca di farlo, le reciproche influenze tra l’attività del sole ed i cicli di eruzione solare che determinano le correnti oceaniche, correnti a getto, gli El Niños ed il tempo quotidiano.
John McLean, un australiano esperto di IT e ricercatore indipendente, ha recentemente effettuato un’analisi dettagliata del rapporto IPCC sul clima. Osserva che il set di dati usato è HadCRUT4, palesemente pieno di errori. Nota: “È molto amatoriale, ha lo standard di uno studente universitario del primo anno”. Tra gli errori, “le medie della temperatura sono state calcolate con pochissime informazioni. Per due anni, le temperature sulla Terra nell’emisfero meridionale sono state stimate da un solo sito in Indonesia”. Altrove, ha scoperto che per l’isola caraibica di Saint Kitts e Nevis la temperatura è stata registrata a 0 °C per un mese intero, in due occasioni. Il set di dati è una produzione congiunta del britannico Hadley Center e dell’Unità di Ricerca Climatica dell’University of East Anglia. Quest’ultimo è il gruppo implicato diversi anni fa nel famigerato scandalo Climategate, che riguardava dati errati e relativa cancellazione di mail compromettenti per nasconderlo. I media mainstream hanno prontamente sepolto la storia, rivolgendo invece l’attenzione su “chi ha illegalmente cancellato le mail dell’East Anglia”.
Abbastanza sorprendentemente, se si fa una piccola ricerca, si scopre che l’IPCC non ha mai condotto una vera inchiesta scientifica sui possibili casi di cambiamento del clima terrestre. Le fonti artificiali di cambiamento venivano asserite arbitrariamente.
Il malthusiano Maurice Strong
Pochi tuttavia sono a conoscenza delle origini politiche e persino geopolitiche delle teorie del riscaldamento globale. Com’è successo? Il cosiddetto Cambiamento Climatico, o Riscaldamento Globale, è un programma di deindustrializzazione neo-maltusiano, originariamente sviluppato nei primi anni ’70 da circoli attorno alla famiglia Rockefeller, per impedire l’ascesa di industriali indipendenti rivali. Nel mio libro, “Myths, Lies and Oil Wars”, descrivo dettagliatamente come l’autorevole gruppo Rockefeller abbia anche sostenuto la creazione del Club di Roma, dell’Aspen Institute, del Worldwatch Institute e del report del MIT “Limits to Growth”. Uno dei principali organizzatori del programma di crescita zero fu un amico di lunga data di David Rockefeller, un petroliere canadese di nome Maurice Strong. Strong fu uno dei primi divulgatori della balla per la quale le emissioni prodotte dai veicoli di trasporto, dalle centrali a carbone e dall’agricoltura avevano causato un drammatico aumento della temperatura globale, che minacciava la civiltà.
Come presidente della Conferenza ONU di Stoccolma del 1972 sulla Giornata della Terra, Strong promosse un’agenda di riduzione della popolazione ed abbassamento degli standard di vita in tutto il mondo, per “salvare l’ambiente”. Alcuni anni dopo lo stesso Strong ribadì la propria radicale posizione ecologista: “Il crollo delle civiltà industrializzate è l’unica speranza per il
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