NOTIZIARIO STAMPA DETTI E SCRITTI
13 DICEMBRE 2018
A cura di Manlio Lo Presti
Esergo
GENTILEZZA
Praticarla è facile.
Basta mettersi nei panni degli altri
prima di parlare, agire, giudicare.
MARLENE DIETRICH, Dizionario di buone maniere, Castelvecchi, 2012, pag. 77
https://www.facebook.com/Detti-e-Scritti-958631984255522/
Le opinioni degli autori citati possono non coincidere con la posizione del curatore della presente Rassegna.
Tutti i numeri dell’anno 2018 della Rassegna sono disponibili sul sito www.dettiescritti.com
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SOMMARIO
Sommario
Il Club Boemo (Bohemian Club) 1
Il cretinismo al potere ha contagiato la democrazia. 1
Svezia, una scuola vieta la festa di Santa Lucia in nome della “uguaglianza”. 1
Minacce UE all’Italia
Blondet: Salvini Ebbasta si è smarrito tra Berlino e Israele. 1
L’Occidente e la trasmissione dei suoi valori
Strasburgo, arriva la teoria del complotto dei Gilet gialli 1
La tua scelta libera
Inflazione dei diritti e crisi dei doveri
Sbarchi, giro d’affari da 4 miliardi per la criminalità organizzata. 1
Moscovici ora difende la Francia: “Parigi può sforare il 3 per cento”. 1
ESPOSTO DEPOSITATO ALLA PROCURA DELLA REPUBBLICA DI ORISTANO.. 1
“Bocciato” l’ambasciatore italiano: cosa rischia l’Italia in Libia. 1
Libia, un assist per Macron. Il piano per cacciare l’Italia. 1
Uno scrittore sionista da del razzista a milioni di italiani
Neolingua della politica italiana. 1
IN EVIDENZA
Spendiamo ora qualche parola a riguardo del Bohemian Club (Club Boemo) e del Bohemian Grove (Boschetto Boemo), perchè ha una stretta relazione con la Massoneria e gli Illuminati, in quanto sostanzialmente è un gruppo massonico formato da persone che stanno ad altissimi livelli nel mondo politico, militare, finanziario, economico, dello spettacolo e della comunicazione. Presidenti, ex presidenti, generali, banchieri, leader di compagnie petrolifere, vertici di multinazionali, proprietari di TV, giornalisti, cantanti e attori. E’ veramente un club di ricchi e potenti del mondo.
Il Bohemian Club è un circolo privato maschile delle arti fondato nel 1872 a San Francisco da un gruppo di giornalisti. Nel 1891 esso spostò parte della sua attività nell’omonimo ‘Bohemian Grove’, che è un grande bosco di sequoie esteso circa 1000 ettari sito a Monte Rio, in California, di proprietà del club. Il motto del club è ‘Weaving Spiders Come Not Here’ ossia ‘non fare affari nel Grove’, ma nella realtà i membri gli affari li fanno tra di loro e poi qui i potenti prendono decisioni politiche di rilievo (si dice che fu proprio nel Bosco Boemo che nel 1942 si decise l’utilizzo della bomba atomica durante la guerra, e che è lì che si decide chi deve correre nelle corse elettorali per la Casa Bianca). Il Club è super sorvegliato, per cui è inaccessibile a coloro che non vi sono iscritti, e coloro che vi sono iscritti sono obbligati a tenere nascosto quello che avviene in esso.
Tra i membri di questo club (che sono moltissimi) ci sono:
Bush (padre e figlio, del partito repubblicano americano, che sono stati ambedue presidenti USA),
Dick Cheney (Vicepresidente degli Stati Uniti durante l’amministrazione di George W. Bush),
Tony Blair (Primo Ministro del Regno Unito dal 1997 al 2007),
Colin Powell (Segretario di Stato degli Stati Uniti sotto il Presidente George W. Bush),
Donald Rumsfeld (Segretario della Difesa degli Stati Uniti sotto l’amministrazione del Presidente Gerald Ford dal 1975 al 1977 e successivamente sotto il presidente George W. Bush, dal 2001 al 2006),
Karl Rove (famoso giornalista che attualmente collabora con la Fox News, il Newsweek ed il Wall Street Journal),
Henry Kissinger (segretario di stato degli Stati Uniti durante le presidenze di Richard Nixon e di Gerald Ford),
David Rockefeller (banchiere statunitense),
Shimon Peres (l’attuale presidente Israeliano),
Al Gore (vicepresidente degli Stati Uniti d’America durante la presidenza di Bill Clinton, Premio Nobel per la pace 2007),
Newt Gingrich (dirigente nazionale del Partito Repubblicano americano),
Lawrence Summers (l’ex rettore dell’Università di Harvard)
e perfino il cantante degli U2 Bono Vox,
e l’attore nonché ex governatore della California Arnold Schwarzenegger.
In questo Bosco (in cui ci sono lussuosi accampamenti) annualmente – per due settimane nella seconda metà di luglio – si tiene un campo estivo a cui partecipano appunto molti potenti della terra (circa duemila), durante il quale i potenti si siedono sulle rive di un laghetto davanti ad una statua alta 12 metri raffigurante un gufo ai piedi del quale un feticcio umano viene cremato con un rito sacrificale officiato da sacerdoti che indossano mantelli da druidi. Questa cerimonia diabolica si chiama Cremation of Care (‘Cremazione della Cura’, che alcuni rendono ‘Cremazione dell’Intento’), e nel 2000 è stata filmata segretamente con una videocamera nascosta dal giornalista investigativo Alex Jones (che è riuscito ad infiltrarsi e ad eludere gli stretti controlli dei servizi segreti che ci sono al Bohemian Grove), ed è visionabile su Youtube (http://youtu.be/FVtEvplXMLs). Il documentario si intitola ‘Dark Secrets inside Bohemian Grove’ (Segreti Oscuri dentro il Bosco Boemo), e devo dire che rende molto bene l’idea di
Continua qui: https://destatevi.org/il-club-boemo-bohemian-club/
GLOBAL COMPACT FOR SAFE, ORDERLY AND REGULAR MIGRATION: LA GRANDE PIANIFICAZIONE E IL DIRITTO INTERNAZIONALE PRIVATIZZATO
Post di Francesco Maimone – DOMENICA 9 DICEMBRE 2018
“Dobbiamo consentire ai migranti di diventare membri a pieno titolo
delle nostre società evidenziando il loro contributo positivo”
(Global Compact for Safe, Orderly and Regular Migration)
1 In questi giorni sta tenendo banco sui Social e nei media il tema riguardante l’approvazione del Global Compact for Safe, Orderly and Regular migration (per brevità,GCSORM), ovvero l’accordo promosso in sede ONU e che sarebbe finalizzato a dare una risposta globale al fenomeno della migrazione. Tra le voci che si sovrappongono a favore e contro detto accordo, sembra soprattutto passare inosservato il fatto che il GCSORM non è una misura estemporanea partorita improvvisamente dal nulla, ma costituisce un documento inserito in una logica e ben congegnata “sequenza procedimentale” per dare specifica attuazione ad un disegno molto più vasto che l’Ordine sopranazionale dei M€rcati ha tracciato già da tempo.
2 In questa sequenza, ed evitando di risalire troppo nel tempo (per esempio, alla International Conference on Population and Development tenutasi nel lontano 1994 al Cairo), bisogna innanzi tutto prendere le mosse dalla distopica volontà di “trasformare il nostro mondo” contenuto in quel capolavoro cosmetico chiamato “Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile” adottata all’unanimità (quindi anche con il contributo del rappresentante italiano pro tempore) dall’Assemblea Generale dell’ONU con Risoluzione del 25 settembre 2015, entrata in vigore il 1° gennaio 2016 e che ha il compito di orientare i successivi sviluppi per i prossimi 15 anni. Come risulta da documenti parlamentari, l’Agenda “ha sostituito i precedenti Obiettivi di Sviluppo del Millennio (Millennium Development Goals) che avevano orientato l’azione internazionale di supporto nel periodo 2000-2015”. La nuova Agenda globale si propone, in particolare, di raggiungere i seguenti 17 obiettivi pubblicizzati alla stregua di un nuovo e meraviglioso paese di Bengodi, obiettivi ai quali sono associati “169 traguardi … che sono interconnessi e indivisibili” (così al punto 18, pag. 6, dell’Agenda):
2.1 Non è il caso di addentrarsi in un esame dettagliato di detto documento. Si evidenziano tuttavia alcuni principi generali che sono da considerare i pilastri sui quali è stata congegnata la Road Map elitista:
– “L’attività imprenditoriale privata, gli investimenti e l’innovazione rappresentano i motori principali della produttività, di una crescita economica inclusiva e della creazione di posti di lavoro. Riconosciamo la varietà del settore privato, che varia dalle micro imprese alle cooperative, e alle multinazionali. Promuoveremo un settore imprenditoriale dinamico e ben funzionante, salvaguardando contestualmente i diritti dei lavoratori e le norme ambientali e sanitarie…” (punto 67, pag. 29, dell’Agenda). Lo Stato non è contemplato come “motore della produttività”;
– “Il commercio internazionale è il motore per una crescita economica inclusiva e per la riduzione della povertà, ed esso contribuisce alla promozione dello sviluppo sostenibile. Continueremo a promuovere un sistema multilaterale di commercio che sia universale, basato sulle regole, aperto, trasparente, prevedibile, inclusivo, non discriminatorio ed equo nell’ambito dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, così come una liberalizzazione significativa del commercio…” (punto 68, pag. 29, dell’Agenda). Il Mercato sarà sempre più il nostro pastore;
– “… ogni Stato ha la primaria responsabilità della propria economia e del proprio sviluppo sociale e che il ruolo delle politiche interne e delle strategie per lo sviluppo non può essere messo in discussione. Rispetteremo lo spazio politico di ogni Nazione e la loro leadership per implementare politiche per la lotta alla povertà e per lo sviluppo sostenibile,pur rimanendo coerenti con l’importanza delle leggi e dell’impegno internazionali. Allo stesso tempo, gli sforzi per lo sviluppo nazionale necessitano del supporto di un contesto economico internazionale favorevole, attraverso un commercio mondiale coerente e di sostegno reciproco…” (punto 63, pag. 28, dell’Agenda). Nel caso dell’Italia, per esempio, verrebbero “rispettate” le politiche deflazionistiche e di impoverimento derivanti dall’appartenenza all’U€ ed al sistema della moneta unica;
– “… Riconosciamo il bisogno di fornire assistenza ai paesi in via di sviluppo affinché raggiungano la sostenibilità a lungo termine del debito, attraverso politiche coordinate, finalizzate a promuovere, a seconda dei casi, il finanziamento, la remissione, la ristrutturazione e la solida gestione del debito. Molti paesi restano vulnerabili alle crisi del debito e alcuni paesi, ivi inclusi alcuni dei paesi meno sviluppati, alcuni piccoli Stati insulari in via di Sviluppo e alcuni dei paesi sviluppati, sono nel mezzo di una crisi. Ribadiamo che i debitori e i creditori devono lavorare congiuntamente al fine di evitare e allo stesso tempo risolvere le situazioni di debito insostenibile. Mantenere livelli di debito sostenibile è responsabilità dei paesi mutuatari …” (punto 69, pag. 29, dell’Agenda). Detto altrimenti, nel farsi sbranare, l’agnello dovrà cooperare al meglio con il lupo, dal momento che sua è la responsabilità di essere la parte più debole del rapporto obbligatorio.
- Quanto delineato per sommi capi rappresenta a ben vedere il manifesto di un neoliberismo incrementale, all’interno della cui cornice di “crescita sostenibile”, ovviamente, svolgono un ruolo non indifferente anche le migrazioni di massa. A queste ultime, si badi bene, viene infatti riconosciuto a prioriun:
“… contributo positivo [per] una crescita inclusiva e … uno sviluppo
Continua qui: http://orizzonte48.blogspot.com/2018/12/global-compact-for-safe-orderly-and.html
La mia Francia può sforare il 3%, la vostra Italia no. Parola del commissario Moscovici (sbeffeggiato da Salvini)
di Michelangelo Colombo – 12 DICEMBRE 2018
Le parole di Moscovici sullo stato di salute delle finanze francesi e sull’impatto delle misure annunciate da Macron. Gli auspici di Salvini. E l’analisi dei provvedimenti in cantiere a Parigi. Fatti, numeri, commenti e polemiche
Scontro al calor bianco tra Parigi e Roma. Ecco tutti i dettagli e le polemiche.
CHE COSA HA DETTO MOSCOVICI SULLO SFORAMENTO DELLA FRANCIA
Il commissario europeo agli Affari economici e monetari, Pierre Moscovici, intervistato dal Parisien, ritiene che un eventuale sforamento, oltre il 3% del rapporto tra deficit e Pil, dopo l’annuncio delle misure del presidente Emmanuel Macron per smorzare la rabbia dei gilet gialli “può essere preso in considerazione”, anche se in modo “limitato, temporaneo ed eccezionale”. Per Moscovici la situazione della Francia non può essere paragonata a quella italiana.
ECCO LA SPIEGAZIONE DI MOSCOVICI SU FRANCIA E GERMANIA
“Se ci riferiamo alle regole, oltrepassare questo limite (del 3%) può essere preso in considerazione in modo limitato, temporaneo, eccezionale”, afferma Moscovici nell’intervista a Le Parisien. “Ogni parola conta – prosegue il commissario francese – l’eventuale sforamento del 3% non deve protrarsi per due anni consecutivi né eccedere 3,5% su un anno”.
IL GIUDIZIO DI MOSCOVICI SULLE MISURE DI MACRON
Per Moscovici le misure annunciate lunedì sera da Macron (e stimate intorno ai 10 miliardi di euro) sono “indispensabili per rispondere all’urgenza del potere d’acquisto”. Alla domanda di Le Parisien su un trattamento di favore alla Francia rispetto all’Italia sui conti pubblici Moscovici smentisce con forza. “Non c’è nessuna indulgenza, sono le nostre regole, soltanto le nostre regole”, insiste il commissario, aggiungendo: “Soprattutto non facciamo come se ci fosse da una parte una severità eccessiva e dall’altra non so quale lassismo”.
LE DIFFERENZE TRA ITALIA E FRANCIA SECONDO MOSCOVICI
Per il commissario socialista francese a Bruxelles, il paragone con l’Italia “è allettante ma sbagliato perché sono due situazione totalmente diverse”. “La Commissione europea sorveglia il debito italiano da tanti anni”, cosa che invece non ha “mai fatto” per la Francia.
LE PAROLE DI SALVINI SU MOSCOVICI E LA FRANCIA
“Sono ottimista sul fatto che la soluzione si trovi almeno noi come italiani. Noi come italiani la soluzione l’abbiamo trovata, confido nel buonsenso di Bruxelles e mi rifiuto di immaginare che si faccia finta di niente di fronte alle richieste miliardarie di un Macron in difficoltà e si facciano le pulci all’Italia. Sarebbe la fine di questa Unione europea”, ha detto il vicepremier Matteo Salvini da Gerusalemme. “Rientro a a Roma oggi pomeriggio e per occuparmi dello 0.1% di deficit e di tutta la discussione italiana”, aggiunge. “Se ho sentito Di Maio? Onestamente no”, conclude.
EUROPA IN ALLARME
Eppure l’Unione europea è già in allarme sulla Francia, scrive Il Sole 24 Ore oggi, a dispetto delle rassicurazioni che arrivano da Parigi: “Le misure proposte da Emmanuel Macron corrono il rischio – in assenza di interventi correttivi – di portare fuori strada un bilancio pubblico che ha già lasciato molto perplessi i commissari e spingere il deficit oltre la soglia del 3%, forse persino al 3,6 per cento”.
I DETTAGLI DELLE MISURE ANNUNCIATE DA MACRON
Mancano ancora i dettagli, ma Olivier Dussopt, segretario di Stato francese con competenza sul budget, ha – già lunedì sera – quantificato il costo complessivo delle misure, che entreranno in vigore a gennaio, in otto-dieci miliardi di euro. L’annullamento dell’incremento dei contributi per alcuni pensionati potrebbe costare – secondo Les Echos – tra 1,5 e 2 miliardi, la defiscalizzazione degli straordinari fino a tre miliardi, la defiscalizzazione dei bonus quasi un miliardo e l’annullamento delle tasse sui carburanti fino a 4 miliardi. Altre stime puntano a 11 miliardi. Tenendo conto che il governo francese valuta in 2.040 miliardi il Pil nominale dell’anno prossimo è facile stimare – semplicisticamente e immaginando un Pil invariato – un aggravio del deficit compreso tra lo 0,33-0,45%.
IL GIUDIZIO DEL SOLE 24 ORE
“Difficile che le misure possano avere un vero effetto espansivo, spingendo ulteriormente il Pil nominale
Continua qui: https://www.startmag.it/mondo/francia-italia-moscovici-salvini/
ATTUALITÀ SOCIETÀ COSTUME
Il cretinismo al potere ha contagiato la democrazia
Alessandro Gnocchi – Mer, 08/08/2018
Nel dibattito (si fa per dire) politico ha preso piede una categoria antropologica studiata dai migliori umoristi: il cretinismo.
Tutti i leader sono stati o si sono accusati a turno di essere cretini: Luigi Di Maio, Alessandro Di Battista, Matteo Renzi, Matteo Salvini, Silvio Berlusconi, Beppe Grillo. Nessuno è sfuggito all’insulto.
Anche in libreria il cretinismo si fa valere e guadagna spazio sugli scaffali. Il saggio Le leggi fondamentali della stupidità umana (Il Mulino) di Carlo Cipolla è diventato un bestseller intramontabile. Scrive l’autore che lo stupido danneggia l’intera società. Se poi va al potere fa più danni degli altri… Secondo Massimiliano Parente non siamo più in una democrazia ma in una Scemocrazia (Bompiani) fondata sul consenso raccattato dai cretini nei social network.
Lo psichiatra Vittorino Andreoli sta per pubblicare Homo Stupidus Stupidus (Rizzoli) dove si sostiene che la specie Sapiens sia in piena devoluzione verso l’idiozia. Ma la lista sarebbe sterminata. C’è il pamphlet del filosofo Maurizio Ferraris, L’imbecillità è una cosa seria (Il Mulino). Ci sono il Dizionario della stupidità (Rizzoli) del matematico Piergiorgio Odifreddi e l’Elogio dell’imbecille del giornalista Pino Aprile (Piemme).
Nel passato più o meno recente ci imbattiamo in immortali battute sui cretini. «Oggi anche il cretino è specializzato» (Ennio Flaiano). «Il cretino è sempre un altro» (Fruttero & Lucentini nel profetico La prevalenza del cretino, Mondadori). «Solo un cretino è pieno di idee» (Leo Longanesi). «Marinetti è un cretino con qualche lampo di imbecillità» (Gabriele d’Annunzio).
Nel recente La Selva. Un tentativo di serenità nel mezzo della tempesta (Rubbettino), Giancristiano Desiderio cerca di individuare una via d’uscita filosofica (e pop) alla crisi dei nostri tempi. Ed è costretto, ancora una volta, ad affrontare il tema del cretinismo. Vediamo quali sono le «qualità» del cretino.
Primo. Il cretino cede il potere al furbo che lo illude con una formula magica: lo Stato sarà al tuo servizio, lascia fare a me.
Secondo. Il cretino ha una fiducia incrollabile nella democrazia. «La sua presenza è interclassista e trasversale. Il cretino è molto più comune di quanto non si immagini. I cretini sono praticamente ovunque perché non sono il frutto del caso ma sono un prodotto storico: sono creature del Progresso».
Terzo. Le figure sociali più afflitte da cretinismo sono ad alto quoziente tecnico: «Il medico, l’ingegnere, l’economista, il professore, lo scienziato e oggi anche i comunicatori. Infatti, i più esposti alla cretineria o alla cretinaggine non sono gli ignoranti ma gli acculturati che hanno acquisito una tecnica specifica e la applicano un po’ ovunque».
Quarto. La scienza progredisce e produce scoperte «perché gli scienziati sono degli specialisti e lavorano con metodo ognuno nel suo settore o campo d’indagine».
Però talvolta mancano di una visione d’insieme della scienza stessa e tendono a salire in cattedra anche quando non sarebbe il caso. Così minano la propria autorità anche nel campo in cui sono davvero esperti. Quinto. «Non tutti gli specialisti sono cretini, ma tutti i cretini sono specialisti». Sesto. Il saggio è umile. Il cretino è arrogante. Non vuole riconoscere i propri limiti. Il suo ingresso nella vita pubblica è devastante. Il suo giudizio politico è formato dall’ignoranza che pretende di essere o farsi competente. Quindi l’opinione di un ignoto consigliere comunale è valida quanto quella di un luminare. Come intervenire? Per il cretino, lo Stato deve intromettersi per
Continua qui: http://www.ilgiornale.it/news/cronache/cretinismo-potere-ha-contagiato-democrazia-1563060.html
Svezia, una scuola vieta la festa di Santa Lucia in nome della “uguaglianza”
Tradizioni calpestate
Veronica Mameli – 12 Dic 2018
Il prossimo 13 dicembre di quest’anno non sarà celebrata la tradizionale ricorrenza di Santa Lucia nella scuola materna di Kärrbacken a Motala, cittadina svedese di circa 30.000 abitanti, nella contea di Östergötland. La festa è stata vietata dalla direttrice Anna Karmskog perché “la scuola vuole evitare discriminazioni e trattamenti offensivi”, senza peraltro il consenso dei genitori che hanno fortemente protestato a seguito della notizia dell’annullamento.
La motivazione ufficiale della cancellazione è che non tutti i bambini possono permettersi, per ragioni economiche, l’acquisto delle corone e dei vestiti tipici per la celebrazione. Di conseguenza, per evitare ogni sorta di discriminazione, la responsabile scolastica ha cancellato la tipica festa svedese, senza remore e senza previa consultazione con i genitori dei bambini. La tradizione di Santa Lucia, martire cristiana, è molto sentita in tutta la Svezia e affonda le sue radici nella figura della santa cattolica originaria di Siracusa, le cui spoglie sono oggi conservate a Venezia.
Nella tradizione scandinava Santa Lucia porta la luce nella notte più lunga dell’anno, durante il solstizio d’inverno, che nel calendario giuliano, antecedente a quello gregoriano, corrispondeva alla notte del 13 dicembre. Per l’occasione le ragazze sono vestite di bianco, a rappresentare la purezza di Lucia, con una cinta di stoffa rossa che simboleggia la spada del martirio, e indossano una ghirlanda sulla testa, mentre la ragazza che personifica Lucia porta sul capo una corona con delle candele. I ragazzi, anch’essi vestiti di bianco, indossano un copricapo a punta con raffigurate delle stelle dorate, e tutti insieme, ragazze e ragazzi, intonano i tradizionali canti dedicati a Santa Lucia.
Anche la tradizione culinaria svedese omaggia la santa con dolci tipici che ne portano il nome e che vengono serviti per la ricorrenza insieme alle tipiche bevande natalizie. La notizia del divieto della festa ha sconvolto i genitori dei bimbi dell’asilo di Kärrbacken e in particolare la rappresentante di classe, la signora Jessica Gunninge, di 44 anni, che si è dimessa dal consiglio di presidenza scolastico visto che nonostante le proteste dei genitori, la celebrazione dei festeggiamenti in onore della santa non è stata ripristinata. La signora Gunninge infatti, comprendendo le difficoltà economiche di alcune famiglie, si è proposta di raccogliere una colletta per comperare gli accessori necessari al festeggiamento, come le corone, i copricapi e i vestiti che sarebbero poi stati donati alla scuola. Tuttavia, la decisione unilaterale della direttrice è stata irremovibile e così i bimbi della scuola materna di Kärrbacken sono oggi privati di una delle più sentite e amate feste svedesi
Continua qui: https://www.loccidentale.it/articoli/146848/svezia-una-scuola-vieta-la-festa-di-santa-lucia-in-nome-della-uguaglianza
BELPAESE DA SALVARE
Minacce UE all’Italia
Gianfranco la Grassa – 12 DICEMBRE 2018
So che mi si potrebbe obiettare che sono per il “tanto peggio tanto meglio”. Tuttavia, sarei contento se la UE comminasse le sanzioni minacciate all’Italia senza sconti. Credo che si arriverà a qualche compromesso, ma mi piacerebbe che ciò non accadesse. Si metterebbe in piena luce che cos’è questa UE, che lascia passare il deficit francese ormai ben più alto (e oltre il “mitico” 3%), condannando invece l’Italia malgrado le sue “convulsioni” (a mio avviso meschine) per andare perfino sotto il 2,4%. I “traditori” del paese (politicanti, giornalisti, imprenditori inetti) già mettono le mani avanti a favore della UE: la Francia ha un debito pubblico inferiore e lo spread basso. Lo schifo che fanno è indescrivibile. La Francia è circa al 100% con il suo debito in rapporto al Pil (e non parliamo di altri paesi come USA e poi Giappone, Cina, ecc.), che non è poi così incommensurabilmente inferiore al nostro.
Inoltre, il risparmio dei nostri connazionali è enormemente più alto di quello francese (e anche di quello tedesco e di altri paesi UE). Allora i “vermi” già citati affermano; ma quello è un fatto privato, il debito di cui si parla è quello dello Stato. Schifosi ancor di più. Continuano a trattare lo Stato come un “padre di famiglia”, che deve comportarsi secondo l’atteggiamento parsimonioso di un singolo individuo che deve pensare ai suoi pargoli. E viene subito in testa la “Favola delle api” di Mandeville (citata spesso da Keynes in occasione della “grande crisi”), in cui la “virtù privata” (qual è appunto il risparmio del “padre di famiglia”) si ribalta in “vizio pubblico”, qual è la mancanza di adeguata spesa statale per rilanciare la domanda complessiva (consumi + investimenti) tentando di risollevare il sistema economico in crisi “d’asfissia”.
E comunque, brutti scalzacani – sia politicanti di PD e F.I., sia i giornalisti di Repubblica, Corriere, Stampa, Messaggero, Foglio e similari, sia gli imprenditori privati di una Confindustria da sciogliere con calci in culo – siate coerenti: lo Stato deve ridicolmente comportarsi come fosse un singolo individuo con le sue virtù parsimoniose? E allora a fronte del suo debito va messo l’enorme risparmio dei cittadini italiani. Altrimenti, se lo trattate come “soggetto” che deve pensare ai problemi generali di una data collettività abitante una certa area territoriale su cui esiste la sua autorità, allora tale “soggetto” deve agire proprio in contrasto con l’atteggiamento del singolo
Continua qui: https://www.facebook.com/gianfranco.lagrassa/posts/10213437137992949
Blondet: Salvini Ebbasta si è smarrito tra Berlino e Israele
Scritto il 13/12/18
«Chi vuole pace, sostiene il diritto all’esistenza e alla sicurezza di Israele». E fin qui tutto bene (o quasi, visto che il binomio “pace” e “Israele” suona estremamente controverso). Ma il condottiero Matteo Salvini, in missione nello Stato ebraico (che ha appena riformato le sue leggi introducendo una norma “razziale” che pone gli ebrei al di sopra di chiunque altro), aggiunge, sul suo profilo Instagram: «Sono appena stato ai confini nord con il Libano, dove i terroristi di Hezbollah scavano tunnel e armano missili per attaccare il baluardo della democraziain questa regione». I “terroristi” di Hezbollah? Replica Maurizio Blondet: non sa, Salvini, che Hezbollah «ha pagato un alto
Continua qui: http://www.libreidee.org/2018/12/blondet-salvini-ebbasta-si-e-smarrito-tra-berlino-e-israele/
CULTURA
L’Occidente e la trasmissione dei suoi valori
di Francesco Alberoni
Molti ritengono che il mondo europeo non abbia radici, non creda in nulla che tutto sia diventato solo merce e spettacolo. Non è vero. Anche noi abbiamo una nostra tradizione, un patrimonio di idee, di principi e di valori che abbiamo ricevuto dai nostri antenati e che trasmettiamo ai nostri discendenti.
Ma con una differenza rispetto al passato. La tradizione antica veniva ereditata passivamente, conservata immutabile, non poteva essere né criticata, né discussa. Ne abbiamo un esempio nel mondo Islamico che ha come concetto essenziale la sharia, la legge, un insieme di comportamenti precisi dettati direttamente da Dio nel Corano o negli Hadith e che continuano a valere anche quando le circostanze storiche sono drasticamente mutate. Periodicamente perciò noi vediamo apparire nel mondo Islamico dei movimenti fondamentalisti o scritturalisti che vogliono restaurare la sharia nella sua interezza originaria (o presunta tale) che cercano quindi il fondamento del comportamento secondo valore nella ripetizione identica del più lontano passato.
Non cerchiamo perciò nel nostro passato delle regole immutabili, delle prescrizioni morali indiscusse. Cerchiamo invece i principi generali, i metodi organizzativi, i processi mentali che hanno inciso sul nostro spirito e sulle nostre istituzioni. Non quindi delle regole, ma dei principi generativi che strutturano e alimentano il nostro pensiero, lo indirizzando per affrontare e risolvere sempre nuovi problemi. Quindi se volete l’opposto di una sharia, di una normativa fissa. Ma una energia creativa.
Movimenti e civiltà. I movimenti. Fatta questa premessa domandiamoci allora quali sono le radici culturali tipiche dell’Occidente. L’Occidente ha qualcosa di assolutamente specifico. Max Weber lo ha identificato nella razionalità. Io mi sono posto lo stesso problema ed ho trovato un altro elemento: i movimenti. L’Occidente, perlomeno a partire dalla comparsa del cristianesimo si differenzia nettamente dalla civiltà indiana o cinese, perché ha affidato la creazione delle sue istituzioni a potenze dinamiche come i movimenti collettivi. E’ la tesi che ho svolto nel mio libro Genesi che infatti porta come sottotitolo “Come si creano i miti, i valori, le istituzioni della civiltà occidentale”.
Ogni struttura sociale stabile subisce dei cambiamenti. Cambiamenti che sono più intensi e rapidi quando avviene uno sviluppo scientifico-tecnico economico. Questo produce nuovi oggetti di consumo, nuove tecnologie, nuove opportunità di arricchimento, nuove forme di organizzazione del lavoro, una nuova ristrutturazione delle classi e degli interessi nuove armi, nuovi poteri, nuovi rapporti di dominio. E poiché il cambiamento non è programmato ma avviene ad opera di tanti attori diversi, all’insaputa l’uno dell’altro, (per questo l’ho chiamato trasformazione idiosincrasica) rende disfunzionali i costumi, le regole, le istituzioni precedenti. Se prima la ricchezza era in mano ai proprietari agricoli ora passa ai commercianti, ma anche ai pirati, anche ad organizzazioni guerriere che utilizzano nuove tecnologie belliche. Ad un certo punto si crea una discrepanza (Marx direbbe una contraddizione) fra la vita reale e quella prevista dai costumi e dalle istituzioni. La gente vive l’esperienza di disordine, di ingiustizia, di mancanza di senso. Oltre una certa soglia di questa che chiameremo, per semplicità, disordine o entropia, cosa avviene? Si mettono in moto dei processi ad un tempo mentali e sociali diversi: i movimenti. Nei movimenti la gente precedentemente divisa, ostile attraverso un processo che ho chiamato “stato nascente” si riunisce in un campo di solidarietà compatto. Nello stato nascente del movimento avviene un vero e proprio processo di fusione, la gente, piena di entusiasmo si sente invincibile e viene guidato da quelli che Max Weber chiama capi carismatici allo stato nascente.
Il movimento recupera sempre degli elementi del passato, ma si spinge verso il futuro, quindi produce un cambiamento. Dopo una fase fluida, esso definisce i suoi fini, i suoi obbiettivi, le sue strutture di potere, in sostanza diventa istituzione. Ebbene l’Occidente, a partire dalla comparsa del cristianesimo ci appare plasmato dai movimenti. Il cristianesimo stesso nasce come movimenti (pensiamo allo stato nascente della pentecoste) e la sua evoluzione teologica è essa stessa prodotta da movimenti culturali (Origene, Ario, Attanasio) Nel secolo XI è il movimento di Cluny che promuove la riforma della chiesa, con l’alleanza del movimento popolare dei patarini. Risultato Gregorio VII costruisce l’istituzione che governerà la chiesa nei prossimi mille anni. Movimenti sono poi quello francescano, domenicano, un grande movimento è la riforma protestante, è da movimenti che nasce la rivoluzione inglese che da il potere al parlamento. E’ un movimento quello che crea gli Stati Uniti con la sua dichiarazione di indipendenza e sono i movimenti a produrre la rivoluzione francese. Sono i movimenti nazionalitari a creare gli stati-nazione. E’ un movimento il marxismo, l’anarchismo. Ma sono movimenti cultuali anche il rinascimento italiano con la sua scoperta della classicità, la centralità dell’uomo. E ci sono movimenti scientifici. Galileo aveva i suoi seguaci ed i suoi oppositori organizzati. E’ un movimento culturale il romanticismo, il positivismo il surrealismo, il futurismo, la psicoanalisi.
In sostanza la storia dell’Occidente è caratterizzata da una dinamica in cui le trasformazioni scientifico-tecniche economiche producono un cambiamento che disgrega la solidarietà precedente e ne mina le istituzioni. La a risposta è un movimento entusiasta, animato dalla speranza di un futuro radioso che ricostruisce la solidarietà e crea una nuova istituzione più adatta al nuovo tempo.
Tutto questo non avviene in India e in Cina. In India il movimento viene rapidamente incistato nel sistema di caste. Oppure come il buddismo anziché indicare come meta la morte del mondo antico e la nascita di un nuovo mondo, anziché stimolare l’entusiasmo verso una meta luminosa, invita gli uomini a considerare tutto illusione e a cercare in se stessi, non nella trasformazione del mondo, la soppressione del dolore. In Cina prevale invece il costume e l’ordine tradizionale.
Diversa è la situazione del Medio Oriente. Dopo il cristianesimo nasce l’Islam che è come il primo una civilizzazione culturale cioè, come il cristianesimo un complesso istituzionale nato da un movimento e che ha la capacità di modificare le condizioni socioeconomiche da cui dipenda la sua esistenza e di dare il proprio linguaggio ai movimenti che sorgono per sfidarle, e si espandono assimilandoli. Però l’Islam, dopo una fase di dinamismo creativo, si irrigidisce nella norma immutabile, della sharia e nella fissità delle scuole coraniche. La filosofia Islamica, che ha recuperato il pensiero greco neoplatonico o aristotelico è quasi tutta nata in ambiente sciita, non sunnita, ai margini dell’eresia. E i movimenti Islamici hanno quasi sempre cercato di restaurare il passato con una interpretazione scritturalista, rigidissima del corano e della sharia. Movimenti come gli Almorabitun (XI-XII secolo), gli Almohahiddun (XII-XIII secolo), i wahabiti (XVIII secolo) o a quello del Mahdi in Sudan (XVIX secolo) sono in tutto e per tutto simili a quello integralista di Khomeini e a quello dei talebani (XX secolo).
Le civiltà. Seguendo il pensiero del filosofo tedesco Spengler, possiamo dire che una civiltà è caratterizzata da un modo di pensare, di sentire, da una propria arte, letteratura, matematica, filosofia, architettura, strettamente interconnesse. Sono l’ espressione di una stessa modalità di essere nel mondo.
Una civiltà, per Spengler, non è il prodotto di un movimento. Se pensiamo alla civiltà indiana, cinese, greca, egiziana, romana dobbiamo dire che ha ragione. Queste civiltà non sono sorte da movimenti. Anzi esse tendono semmai ad escludere, ad impedire il formarsi di movimenti. Hanno modi di pensare, di sentire, hanno concezioni del mondo e dello spazio, che ne ostacolano la formazione o l’elaborazione.
Per esempio, la civiltà greca non ha una concezione positiva del divenire. Semmai la storia procede degenerando: infatti prima c’è l’età dell’oro, poi quella del bronzo e infine quella del ferro. La perfezione, l’apogeo dell’uomo, è collocata all’inizio. Alla scaturigine. E’ data dagli Dei non è un prodotto dell’uomo.
Secondo Spengler il greco ignora addirittura il tempo storico. Non ha passato e non attende un futuro. E’ perciò molto difficile che un movimento si strutturi nel tempo. Può farlo solo aspettando una nuova età dell’oro, un ritorno nel tempo ciclico. Tuttavia, non riesce ad immaginare qualcosa che sia superiore alle origini. Perciò, quando appare uno stato nascente, come quello dionisiaco, la sua elaborazione avviene entro questa cornice obbligata, e il risultato non sarà l’attesa di un nuovo mondo. Il greco al massimo crede all’edificazione razionale di una società migliore, come quella proposta da Platone nella sua opera La Repubblica. Nella civiltà indù manca addirittura l ‘ idea stessa di tempo storico. Non può quindi esserci storicizzazione. L’esperienza straordinaria viene proiettata in un passato assolutamente indeterminato.
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CYBERWAR SPIONAGGIO DISINFORMAZIONE
Strasburgo, arriva la teoria del complotto dei Gilet gialli
A poche ore dall’attentato nella città francese, alcuni esponenti del movimento sorto nelle campagne hanno accusato Macron di aver organizzato l’attacco. E gridano al complotto
Giovanna Pavesi – Mer, 12/12/2018
Un complotto, probabilmente ordito per distogliere l’attenzione dalla rivolta che ha incendiato la Francia nelle ultime settimane.
È la tesi dei Gilet gialli che accusano il presidente Emmanuel Macron di aver organizzato l’attentato di Strasburgo per distrarre l’opinione pubblica dalle proteste e limitare la possibilità di manifestare.
Secondo quanto riportato dal Corriere della Sera, il commento più ricorrente tra gli esponenti del movimento, sorto proprio sui social network, sarebbe “guarda caso“. Che lascerebbe intendere un sospetto diffuso non supportato, però, da alcuna prova.
Molti manifestanti hanno sostenuto che alcuni tweet di Macron, del prefetto o di altre autorità mostrerebbero un orario antecedente ai fatti delle ultime ore. La prova, per i Gilet gialli, che il governo fosse al corrente dell’azione e avesse
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La tua scelta libera
Stefano Burbi 6 luglio 2018
Basta farsi un giro sui canali televisivi, italiani (Rai, Mediaset, LaSette, Sky) e non; è sufficiente sfogliare le pagine dei quotidiani nazionali ed internazionali; se poi si leggono alcune bacheche di Facebook di personaggi pubblici apertamente schierati, le impressioni avute dall’esame dei mezzi di comunicazione sopra citati diventano certezze, e la conclusione è solo una.
Quale? Noi ci illudiamo di essere liberi di decidere e di scegliere (“la tua scelta libera”, recita uno slogan di una rete televisiva), ma non è così: qualcuno deciderà per te sempre e comunque cosa pensare, chi amare, chi odiare, cosa ascoltare e cosa apprezzare, come vestirti, come atteggiarti, quali posti visitare e quali invece evitare, chi chiamare amici e chi chiamare nemici, ed il tutto con contraddizioni e cortocircuiti spesso evidenti. Tu credi che i migliori artisti siano quelli che conosci, ma non pensi mai che invece ce ne sono altri, che sono ancora però nel più completo anonimato e che nessuno si è scomodato di scoprirli. Ed i famosi tormentoni estivi che la prima volta hai ascoltato con un certo fastidio, perché, diciamo la verità, erano del tutto insignificanti, a forza di sentirli dappertutto ed in ogni momento, adesso ti ritrovi a canticchiarteli quando meno te l’aspetti e sei pure contento di riascoltarli in televisione o alla radio perché li riconosci. Oggi la gente non vuole conoscere più nulla, né al cinema, né nelle sale da concerto, né nei musei: vuole “riconoscere”.
Nella politica in televisione è la stessa cosa: guardi un programma in cui viene ospitato un importante uomo politico e, quando lo vedi, esclami: “Ecco, parla lui, il cattivo, mentre tutti gli altri, lo vedi? Sono contro di lui”. Sì, perché gli autori del talk show hanno invitato lui (che a loro sta antipatico, si sa e non fanno nulla per nasconderlo) e poi 2 o 3 suoi avversari, ed il pubblico è stato accuratamente selezionato. “E’ in minoranza, – pensano gli ignari telespettatori – vuol dire che hanno ragione gli altri”, e non si accorgono, nemmeno tu, che chi lo attacca vorrebbe proprio – ironia della sorte – difendere le minoranze, ma lo stanno trattando esattamente come loro dicono che non si deve fare…
Non lo fanno nemmeno parlare serenamente, lo interrompono, e quando finalmente riesce ad esprimersi, inquadrano, mentre parla, i primi piani di volti di spettatori perplessi: gli altri ospiti lo guardano con un misto di commiserazione e disprezzo, poi parte la replica, sferzante; e se lo dice quell’importante emittente televisiva, chi sono io per contraddirla? “Lei non può parlare così perché
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DIRITTI UMANI – IMMIGRAZIONI
Inflazione dei diritti e crisi dei doveri
Vittorio Possenti
La Società, n.1, 2010
L’ideale dei diritti umani riveste da oltre mezzo secolo una funzione di sintesi analoga a quella di altre grandi idee che hanno contrassegnato il pensiero politico moderno: il giusnaturalismo, il contratto sociale, la separazione dei poteri. Il richiamo ai diritti umani è da tempo il punto focale di ogni agenda politica che manifesti un appeal in Occidente e cui ci si volge per le grandi decisioni politiche, ma senza che vi sia sufficiente chiarezza su che cosa sia un diritto umano, e come esso possa sottrarre la politica al rischio di cedere all’irrazionalità. Oggi si assiste anzi ad una crisi dei diritti umani non più radicati nell’intangibile dignità dell’uomo, ad un’inflazione di presunti ‘nuovi diritti’ che trascurano la questione dei doveri, ad una ripresa di uno spiccato individualismo libertario.
La tradizione dei diritti dell’uomo
- E’ impresa complessa stabilire un’attendibile sequenza della tradizione storica dei diritti umani, se non ci si vuole limitare all’elenco ben noto dei fondamentali atti pubblici che la scandiscono: la Dichiarazione d’Indipendenza del 4 luglio 1776, la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 27 agosto 1789, la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 10 dicembre 1948. Su piano politico-giuridico la mente va agli antecedenti lontani della Magna Charta, della legge dell’Habeas corpus, della rivoluzione inglese del 1688 col suo Bill of Rights, e così via. In ogni caso la storia delle dichiarazioni dei diritti umani è più breve della vicenda dei dibattiti filosofici su di essi, sulla dignità e fratellanza degli uomini, la loro comune cittadinanza nella grande società del genere umano, l’esistenza di una legge morale superiore ai singoli e ai popoli. Questa tanto più lunga vicenda affonda le sue radici nell’area biblica, greca, ellenistica, romana, e poi cristiana, e riconosce i propri fondamenti nell’idea della dignità dell’uomo e in quella della legge naturale: i diritti umani rinviano ad una legge superiore ai tempi e alle vicissitudini storiche.
I grandi pensatori della legge naturale: Sofocle, gli Stoici, Cicerone, san Paolo, Seneca, san Tommaso d’Aquino, ecc. andrebbero considerati quali antesignani della questione dei diritti umani, sebbene ponessero l’accento più sui doveri (De officiis). E andrebbe pure sottolineata l’importanza dei pensatori politici spagnoli del ‘500 (de Victoria, Soto, Suarez, ecc.), che all’inizio del colonialismo spagnolo proclamarono i diritti degli Indiani d’America all’indipendenza e alla giustizia, nonché quella del giusnaturalismo del XVII e XVIII secolo, e infine il rilievo moderno della teoria politica liberale e democratica. Né sembri esagerato se in questa ricerca all’indietro si possa indicare nel Decalogo, quale codice fondamentale della moralità umana, una prima, forse la prima in assoluto, indicazione implicita di fondamentali diritti dell’uomo, espressi perlopiù nella forma dell’imperativo negativo. Lo stesso Mirabeau nel discorso all’Assemblea Nazionale del 17 agosto 1789 propose di porre il Decalogo mosaico quale preambolo della dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. La cosa non deve destare sorpresa, poiché il Decalogo esprime i principali precetti scaturenti dalla legge naturale.
La concezione antropologica
- I diritti umani rappresentano un’esplicitazione della realtà dell’uomo, e danno corpo all’assunto che nessuna antropologia è politicamente irrilevante. In altri termini è impossibile trovare una concezione dell’uomo che sia senza immediati riflessi sulla vita civile e sui diritti. Anzi oggi le questioni antropologiche risultano più decisive di quelle morali. Uomo, chi sei? E’ sempre più difficile rispondere a questa domanda, ma è anche sempre più importante anche in ordine ai diritti umani.
La loro concezione dipende fortemente da alcune idee circolanti nella società, come osservava acutamente Tocqueville: “Perché vi sia una società e, a più forte ragione, perché questa società prosperi, bisogna che tutti gli spiriti dei cittadini siano sempre riuniti e tenuti insieme da alcune idee principali, e ciò non potrebbe avvenire se ognuno di essi non venisse ad attingere le sue opinioni a una stessa fonte, e non accettasse di ricevere un certo numero di credenze belle e fatte” (1). Attualmente le visioni dei diritti rinviano a idee sull’uomo in competizione e in contrasto, quali sono la visione cristiana e quella che chiamerò ‘nuova antropologia secolare’. Questa divergenza si manifesta in particolare nel campo dei diritti più direttamente legati all’essere umano: vita, famiglia, sessualità, matrimonio, morte.
La visione classica e cristiana, emergente da un lungo processo di elaborazione e approfondimento, si impernia attorno all’idea di persona umana, la quale a sua volta incorpora la nozione universale di natura umana. La determinazione di persona offerta da Boezio le raccoglie in unità: la persona è una sostanza individuale di natura intellettuale/spirituale (rationalis naturae individua substantia). La persona è primitiva; non si deduce da nulla e non si può ridurre a oggetto (2). Qui si incontra una solida base dei diritti umani ed un pegno della loro fondamentale universalità.
La nozione stessa di diritti dell’uomo non avrebbe senso se non fosse sostenuta dall’idea di persona cui essi ineriscono, e dal concetto di natura umana di cui sono un’esplicitazione. Secondo il realismo filosofico il concetto di natura umana non è un puro flatus vocis o un termine nominale cui si può attribuire un contenuto qualsivoglia. E’ un concetto definibile e fondato nella realtà, che contiene i caratteri universali presenti dovunque vi sia un essere umano. Al concetto di natura umana corrisponde quello di legge naturale di tale natura/essenza. Emerge così il problema della forza normativa della natura umana, che sta lentamente riacquistando peso nel campo dell’etica, della politica e del diritto. Queste posizioni consentono di intendere in modo autentico il richiamo oggi diffusissimo all’autodeterminazione, la quale non può essere intesa come possibilità di diventare ciò che si vuole, ma di diventare liberamente ciò che si è per natura.
A partire dall’evento originario della Creazione dell’uomo, la rivelazione del cristianesimo pensa l’essere umano come portatore di una scintilla divina, come imago Dei. E’ a queste profondità che si radicano il valore e la dignità dell’uomo: egli proviene da Dio ed a lui ritorna attraverso un’ordinazione immediata e diretta che trascende ogni bene comune terrestre. L’antropologia cristiana pensa l’uomo come dotato di logos, ossia di ragione e linguaggio, e perciò teso ad un’attività libera, attento al discernimento tra il bene e il male, aperto verso la trascendenza, uditore della Parola, e capax Dei. Le posizioni personaliste affermano appunto che nell’uomo vi è qualcosa di irriducibile alla natura cosmica: l’uomo non è un oggetto del mondo, qualcosa di riconducibile al cosmo, ma un ente dotato di autocomprensione ed esperienza di sé.
- La nuova antropologia secolare. La concezione tradizionale dell’essere umano si è trovata sfidata negli ultimi decenni in molte maniere, tra cui qui sottolineo la critica veemente proveniente dall’evoluzionismo e dal riduzionismo. Sta in effetti mutando l’immagine dell’uomo che viene trasmessa nella società, e che si struttura come nuova antropologia secolare. Questa rifiuta l’idea di una natura umana comune, e piuttosto ritiene che l’essere umano sia una mera costruzione sociale in cui emergono la storicità delle culture, la decostruzione e la relatività delle norme morali, la centralità quasi inappellabile delle scelte individuali. Nel caso della famiglia e della procreazione ciò implica che maternità e paternità siano realtà costruite socialmente, che di conseguenza possono ad ogni momento essere liberamente ridefinite: non vi sarebbe alcuna definizione stabile e naturale di maternità, paternità, famiglia, dei vari ruoli, ma tutto risulterebbe sfuggente, instabile e malleabile.
Terminata in maniera catastrofica la prova totalitaria del XX secolo vòlta a modificare politica e mondo, si tenta ora di trasformare l’uomo mediante la tecnica da un lato e l’appello alla libertà monocratica del singolo dall’altro. L’influsso della scienza e della tecnica sul cambiamento in corso è espressamente mirato all’uomo, per formarne una nuova comprensione. La nuova antropologia secolare non solo espone una versione compiuta dell’esistenza umana lontana dall’antropologia della tradizione, ma riesce ad influenzare i programmi e le politiche di molte organizzazioni internazionali, e ad essere presente in modo massiccio sui media mondiali. E’ divenuta l’antropologia implicita o esplicita di tante scienze sociali. Ne segue una seria difficoltà a far circolare una visione antropologica diversa, poiché quella ‘secolare’ è considerata ovvia, autoevidente, sostenuta dall’autorità della scienza, e scarsamente bisognosa di argomenti avvaloranti. Alla base vi è l’idea che sia impossibile offrire un resoconto universale della natura umana, e che alla conoscenza dell’uomo si può accedere solo attraverso le scienze.
I diritti umani sono fondati nella legge naturale
- Una sintonia di base corre tra l’universalità della Dichiarazione del 1948 e l’universalità dell’antropologia propria del cristianesimo. L’universalità dei diritti scaturisce dall’idea che la natura umana è dovunque la stessa, e che i diritti principali sono in essa fondati e non valgono come un’invenzione occidentale, come si disse negli anni ‘80 e ‘90 del secolo scorso. L’universalità della natura umana non muta attraverso il tempo e le culture, e rimane riconoscibile in virtù di una serie di atti che si mostrano dovunque: elaborare concetti, scegliere tra diversi corsi di azione e possibilità, creare l’arte, la filosofia, la scienza, la musica, essere sensibili all’idea del giusto e dell’ingiusto, ecc.
L’idea che la natura umana è dovunque la stessa implica che il processo di esperienza, riflessione e giudizio compiuto dai singoli esseri umani sia capace di condurre alle stesse verità fondamentali, e dunque ad una vera universalità dei diritti umani principali. La nozione di diritto umano ha senso se e solo se si concede che esiste un’universale natura umana, che può essere conosciuta attraverso esperienza e ragionamento.
I diritti scaturiscono dalla prima radice costituita dalla legge morale naturale, propria della natura umana, e capace di garantire un approccio transculturale ai diritti. Si tratta di legge morale e non fisica, propria dunque degli esseri dotati di ragione. Ciò dà origine ad un nucleo comune di principi normativi essenziali, che appartengono a tutti, non sono una proprietà od un’invenzione del mondo civilizzato, ma un bene comune che nasce dalla coscienza morale di tutti (3). In virtù della partecipazione della ragione umana alla Ragione di Dio, Tommaso d’Aquino stabilisce la legge naturale come partecipazione della legge eterna nella creatura razionale (4).
A partire dalle inclinazioni fondamentali inscritte nella natura umana, la legge naturale assegna i nostri doveri e diritti (5). In questo modo essi fanno riferimento a qualcosa di incondizionato, di stabile e di indisponibile, e non assumono un carattere meramente contrattuale derivante da un accordo, o un valore derivante solo da un atto di una maggioranza politica. I diritti umani appartengono all’area del diritto, non della decisione politica attivata da una maggioranza. Non sono un fatto solo giuridico ma morale e antropologico, ed obbligano in coscienza non perché sono statuiti dalla legge positiva ma in base al loro radicarsi nel bene: si potrebbe dire che i diritti umani sono antropologici, non politici. Il radicamento dei diritti nella legge naturale conduce all’idea che esistano diritti validi per natura e non per convenzione, un assunto che le scuole del positivismo giuridico negano espressamente. Tra i vari studiosi di tale orientamento ricordo N. Bobbio. Questi ritiene che esistano solo diritti a contenuto non assoluto e cangiante: “Ce qui parait fondamental dans une époque historique ou dans une certaine civilisation, n’est pas fondamental en d’autres époques et en d’autres cultures. Il ne peut pas y avoir un fondement absolu de droits historiquement rélatifs” (6). Naturalmente il fondamento stabile dei diritti non significa astoricismo, rimanendo vero che i diritti umani sorgono nella storia man mano che singoli e società ne prendono coscienza.
II Catechismo della Chiesa Cattolica riassume il contenuto della dottrina sulla legge naturale, rilevando che essa “indica le norme prime ed essenziali che regolano la vita morale. Ha come perno l’aspirazione e la sottomissione a Dio, fonte e giudice di ogni bene, e altresì il senso dell’altro come uguale a se stesso. Nei suoi precetti principali essa è esposta nel Decalogo. Questa legge è chiamata naturale non in rapporto alla natura degli esseri irrazionali, ma perché la ragione che la promulga è propria della natura umana” (n. 1955).
Da tempo per influssi ideologici, filosofici e scientistici la dottrina della legge morale naturale si scontra con altre concezioni che ne sono la negazione, conducendo verso un’idea positivista del diritto, in cui la società, o la maggioranza dei cittadini, diventa la fonte ultima della legge civile. Naturalmente i diritti dell’uomo assumono concretezza e forza nel momento in cui vengono riconosciuti e tutelati come diritto positivo. Ma si tratta appunto di riconoscimento, non di creazione: se i diritti e i doveri dell’uomo e la dignità della persona sono radicati in un ordine stabile e non dipendente da un voto assembleare, si riducono molto i rischi di una loro interpretazione esclusivamente positivistica che ultimamente conduce al nichilismo giuridico. In questo si teorizza l’idea che la legge positiva possa avere qualsiasi contenuto e che la sua posizione dipenda non da un atto della ragion pratica ma solo da un atto della volontà in un determinato momento dotata di potere impositivo. Nel nichilismo giuridico non esistono né giusto né ingiusto in sé, ma giusto e ingiusto prendono valore solo dopo la statuizione della legge positiva (7).
- Il prezioso contributo ai diritti umani della Dottrina sociale della Chiesa, che si esplica anche con la presenza della Santa Sede nelle grandi organizzazioni multilaterali, sta nel costante raccordo del discorso sui diritti con la chiave antropologica della dignità della persona, con la legge naturale e il diritto naturale. Quest’ultimo ha trovato nuova vitalità nel mutamento del contesto culturale avvenuto intorno al 1989 col crollo del comunismo, e con l’assunto che il diritto non può essere esclusiva produzione dello Stato, ma garantito sopra esso.
Un passaggio-chiave del discorso di Benedetto XVI all’Onu (18 aprile 2008) riassume felicemente gli aspetti centrali richiamati: “l’universalità, l’indivisibilità e l’interdipendenza dei diritti umani servono tutte quali garanzie per la salvaguardia della dignità umana. E’ evidente, tuttavia, che i diritti riconosciuti e delineati nella Dichiarazione si applicano ad ognuno in virtù della comune origine della persona, la quale rimane il punto più alto del disegno di Dio creatore per il mondo e per la storia. Tali diritti sono basati sulla legge naturale iscritta nel cuore dell’uomo e presente nelle diverse culture e civiltà. Rimuovere i diritti umani da questo contesto significherebbe restringere il loro ambito e cedere ad una concezione relativistica, secondo la quale il significato e l’interpretazione dei diritti potrebbero variare e la loro universalità verrebbe negata in nome di contesti culturali, politici, sociali e persino religiosi differenti”.
Il Diritto nel giusnaturalismo e il rapporto intrinseco tra diritti e doveri
- Il Diritto. Dalla percezione che l’essere umano non è un oggetto o una cosa nasce il sentimento di qualcosa che gli spetta, di un suum da riconoscergli, ossia di un Diritto naturale (jus naturale) che esiste in lui. Da qui sorge un costante sentimento di insoddisfazione verso il diritto positivo, reso necessario dal senso di giustizia che una volta che ha prodotto diritto e legge, procede a criticarli e ad elaborare una nuova misura. I vari sistemi giuridici possono essere intesi come approssimazioni ad un unico testo-base, originario e primario, che è il diritto naturale o il giusto naturale, e dunque il diritto positivo non è mai eterno, ma essenzialmente decostruibile e riformabile in base all’intuizione del giusto naturale. Si instaura così necessariamente un circolo in cui il diritto positivo nasce dalla percezione del suum che spetta ad ognuno e dalla giustizia che lo attribuisce, e che prosegue con la critica di ogni diritto posto in base all’idea del giusto naturale. Il motore reale del fenomeno giuridico dovunque è la sproporzione o la non-conformità tra diritto positivo e diritto naturale, e senza questa inadeguazione il fenomeno giuridico potrebbe scomparire.
Con queste frasi abbiamo riassunto il contenuto essenziale della posizione giusnaturalistica, la quale tiene fermo che diritto e giustizia non sono mera espressione di volontà ma di ragione, ossia che diritto e giustizia, pur comportando elementi contrattuali e pattizi, non si riducono ad essi ma includono elementi reali attinenti alla natura delle cose, dell’uomo e dei rapporti tra soggetti. Reciprocamente nelle posizioni antigiusnaturalistiche radicali il tema della giustizia è ritenuto senza soluzione, di modo che questa e il diritto sono affidati al volere e al potere.
Nel giusnaturalismo esiste un’anteriorità del Diritto sulla Giustizia, per cui il compito di questa è realizzare quello. Per la comprensione di tale nucleo occorre precisare la nozione primaria di diritto (al singolare) come la determinazione di qualcosa che è dovuto all’essere umano come tale, che in quanto è un ‘io’ è parimenti un soggetto di diritto, e che ontologicamente non è semplicemente parte di una totalità, ma è un ‘tutto’. Orbene questo qualcosa che è dovuto all’essere umano è il suo diritto, di cui gli altri agenti morali sono obbligati in coscienza a riconoscergli e a non privarlo: è il suum che spetta alla persona come ‘suo dovuto’. In senso fondamentale il diritto è l’avere titolo intrinseco al proprio suum, e questo concetto veicola quello di obbligazione, l’essere cioè vincolati al rispetto del suum di ciascuno e di tutti. In altri termini l’idea stessa di diritto veicola necessariamente quella di dovere: dovere verso l’altro e dovere/obbligazione verso il bene, per cui diritti e doveri procedono strettamente congiunti senza che sia possibile porre i diritti al di sopra dell’obbligazione. Esistono dunque due significati di diritto: il diritto come ciò che è dovuto alla persona, che le spetta per natura e che si apre a relazioni di giustizia, e il diritto positivo che ha per scopo la realizzazione della giustizia e la sanzione. Il massimo compito della giustizia politica è il rispetto dei diritti umani.
Che nei diritti umani si incarni la giustizia e che il loro rispetto sia compito primario della politica è la posizione di Benedetto XVI: “La Dichiarazione universale ha rafforzato la convinzione che il rispetto dei diritti umani è radicato principalmente nella giustizia che non cambia, sulla quale si basa anche la forza vincolante delle proclamazioni internazionali…I diritti umani debbono essere rispettati quali espressione di giustizia e non semplicemente perché possono essere fatti rispettare mediante la volontà dei legislatori” (discorso all’Onu, 2008) In tal modo si trasmette l’idea che i diritti umani non veicolano un’etica utilitaristica ma sono espressione di giustizia.
Inflazione dei ‘diritti’ e deflazione dei doveri
- Il nesso che rinvia dai diritti ai doveri è antico e presente nella dinamica di alcune dichiarazioni francesi dei diritti e dei doveri, fra cui quella inserita nella Costituzione della Repubblica francese del 5 fruttidoro anno III (22 agosto 1795): “Tutti i doveri dell’uomo e del cittadino derivano da questi due principi, impressi dalla natura in tutti i cuori: Non fate agli altri ciò che non vorreste che sia fatto a voi stessi; fate costantemente agli altri il bene che vorreste riceverne”. Andrebbe poi evocata la tradizione mazziniana dei doveri, che emerge dal titolo stesso dell’opera, piccola ma succosa, intitolata appunto I doveri dell’uomo. Stesa da Mazzini nel 1860 e dedicata significativamente “agli operai italiani”, il libro sottopone a critica la concezione dei diritti dell’uomo uscita dal 1789, e poi sostenuta dalle correnti che assegnano rilievo al benessere e alla libertà del singolo, e che pongono gli interessi materiali come fine. Dopo aver trattato di Dio e della Legge, Mazzini introduce e discute quattro livelli di doveri: verso l’umanità, verso la patria, verso la famiglia e verso se stessi.
- Di fronte a tali esempi di un passato ormai lontano, da tempo si assiste ad un’inflazione di ‘nuovi diritti’ e alla concomitante difficoltà di contemperarli in modo che non entrino reciprocamente in conflitto. La crescita è accaduta secondo tre modalità: la proclamazione di nuovi diritti che non sono esplicitamente riconosciuti nella Dichiarazione universale; la tendenza da parte di istituzioni internazionali, tra cui la Commissione Onu sui diritti umani (oggi conclusa), di procedere alla proclamazione di nuovi diritti umani senza fare riferimento all’Assemblea dell’Onu; la facilità con cui sono stati evocati nuovi diritti di cui non consta la base o il fondamento. Si pensi al diritto al turismo e al diritto al disarmo, che possono esprimere un voto o un auspicio variamente meritevole, ma che non sono in senso proprio diritti. Dobbiamo ora esaminare questi temi.
L’assunto del Magistero cattolico è che coloro che hanno a cuore i diritti debbano rinunciare a liberarli dai doveri, poiché i diritti vengono svuotati e diventano altro quando si rescinde il legame coi doveri. Negli interventi del Magistero questo nesso è stato sottolineato molte volte: ciascuno può rendersene conto consultando gli indici per temi delle raccolte di documenti della Chiesa sui diritti umani (8).
Il tema è ripreso dal recente Compendio della Dottrina sociale della Chiesa: “Il Magistero sottolinea la contraddizione insita in una affermazione dei diritti che non ammetta una correlativa responsabilità” (9). Secondo la Pacem in terris (1963) “nella convivenza umana ogni diritto naturale in una persona comporta un rispettivo dovere in tutte le altre persone: il dovere di riconoscere e rispettare quel diritto” (n. 264). Sono gli stessi principi fondanti della Dottrina sociale della Chiesa che includono necessariamente la relazione diritti-doveri, come ben illustra il suddetto Compendio (cfr. cap. IV, Parte prima, pp. 87-114), richiamando i principi del bene comune, della destinazione universale dei beni, di sussidiarietà, di partecipazione e di solidarietà. Ora, tali principi si possono del tutto legittimamente comprendere come includenti i doveri correlativi, ossia il dovere di edificare il bene comune, di operare per un’adeguata destinazione universale dei beni, di costruire solidarietà e sussidiarietà, ecc.
La solidità della posizione di principio deve fare i conti con la situazione contemporanea reticente sui doveri. Valga qui un’espressione di Giovanni Paolo II, esplicita nel rilevare la carenza del discorso sui doveri: “Un’osservazione deve ancora essere fatta: la comunità internazionale, che dal 1948 possiede una carta dei diritti della persona umana, ha per lo più trascurato d’insistere adeguatamente sui doveri che ne derivano. In realtà, è il dovere che stabilisce l’ambito entro il quale i diritti devono contenersi per non trasformarsi nell’esercizio dell’arbitrio. Una più grande consapevolezza dei doveri umani universali sarebbe di grande beneficio alla causa della pace, perché le fornirebbe la base morale del riconoscimento condiviso di un ordine delle cose che non dipende dalla volontà di un individuo o di un gruppo” (10). Se viene a mancare la base del diritto naturale è quasi fatale che si rivendichino ‘diritti’ che non hanno fondamento nella natura umana.
I suggerimenti di Giovanni Paolo II significano che occorre sviluppare le basi antropologiche e morali della Dichiarazione universale, che non le contiene o le ospita solo indirettamente. Ciò anche allo scopo di evitare che presunti diritti o meglio meri desideri o pretese si ammantino della potenza evocativa e del prestigio del termine ‘diritti dell’uomo’, per volgersi verso fini non coerenti con la dignità della persona.
- E’ dunque urgente ristabilire il nesso inscindibile tra diritti e doveri, necessario affinché la società civile si presenti come luogo di responsabilità pubbliche, all’insegna di un’etica della responsabilità e reciprocità. Per ottenere l’esito occorre chiarire che non si possono ridurre i diritti umani a diritti di libertà o porre questi ultimi al di sopra di ogni altro diritto: essere trattato come fine e non soltanto come mezzo non è un diritto di libertà, ma è la quintessenza della giustizia, da esercitare verso le donne, i deboli, gli svantaggiati, i vinti; il rispetto cui ha diritto l’embrione umano non è un diritto di libertà; neanche il diritto alla vita è un diritto di libertà; essere lasciate morire (in certi paesi) perché femmine che non generano reddito non è un’azione che viola un diritto di libertà. E’ impossibile affrontare la sfida ecologica sulla base dell’individualismo o su quella della libertà negativa; lo stesso vale per le questioni della solidarietà con le generazioni future.
L’esemplificazione potrebbe continuare a mostrare lo strabismo che si commette nell’individuare nella libertà lo scopo politico ultimo e nel porre i diritti di libertà al di sopra di tutto. Ovviamente la libertà è e rimane un grande bene, eppure non può essere l’unico, pena il fatto che la giustizia venga congedata. Abbiamo dunque bisogno di una concezione postliberale dei diritti umani, denotata da tre nuclei: i diritti di libertà non devono avere sempre e dovunque il predominio; il bilanciamento tra diritti e doveri deve essere più rigoroso che nell’individualismo liberale; infine più radicalmente la libertà non può essere lo scopo politico unico o supremo, perché questo è il bene comune il quale includa naturalmente anche la fruizione della libertà.
Occorre operare una differenza tra personalismo comunitario e personalismo liberale vertente sull’individuo. Un modo diffuso e insieme problematico di intendere i diritti umani si fonda sull’idea che essi riassumano nel divieto di interferire nella sfera altrui, e che di conseguenza in essi si esprima l’impossibilità di chiedere ad altri qualcosa che questi possono dare solo nella forma dello scambio: io appartengo solo a me stesso; io sono mio, io sono irrelato e non instauro rapporti con gli altri se non contrattualmente. Sempre più frequentemente si punta sul singolo inteso senza legami, senza affetti, senza inserimento in una reale comunità, su un’ipertrofia del sé da cui fluisce un’illimitata competizione fra soggetti separati intenti soltanto a promuovere se stessi, a dimettere le virtù civiche, ad elevare il singolo sopra e contro il bene comune. Questi rivendica una libertà senza misura, sostanzialmente ‘divina’ – la divina autonomia dell’uomo – indifferente all’aspetto sociale della vita e nel contempo fortemente segnata dalla tecnicizzazione delle esperienze fondamentali del vivere e del morire.
Per una nuova semantica dei doveri
- Le posizioni dei gruppi di interesse che reclamano sempre nuovi diritti si appellano a tre fattori che diventano il perno del loro argomentare: la libertà del singolo da ogni interferenza, il pluralismo dei valori, l’assunto che i valori riguardano solo la sfera privata. Ma la crescente sproporzione tra diritti e doveri richiede una nuova semantica dei doveri. E’ noto che la Dichiarazione universale è assai parca in merito, destinando solo il primo comma dell’art. 29 ai doveri: “Ogni individuo ha dei doveri verso la comunità, nella quale soltanto è possibile il libero e pieno sviluppo della sua personalità”. La sobrietà può forse essere spiegata in rapporto al periodo in cui si usciva da atroci violazioni dei diritti umani che suggerivano di insistere sui diritti: la rilettura attuale rileva tuttavia che siamo dinanzi ad un’esplicitazione troppo sintetica e infine insufficiente. « Quand on lit la Déclaration Universelle des droits de l’homme dans la perspective africaine subsaharienne, on est frappé par la place accordée à l’individu, pendant que la communauté semble jouer un rôle nettement subordonné (cf. art. 29). Il est évident qu’un telle conception se heurte à des difficultés dans la tradition africaine qui attache une grande importance à la communauté » (11). Bujo spiega che mentre in Occidente ci si riferisce all’idea kantiana di individuo centrato sulla sua libertà e geloso all’eccesso della sua autonomia, nell’Africa nera ”les personnes n’existent qu’en relations interpersonnelles” (p. 20).
Durante la preparazione della Dichiarazione del 1948 alcune voci si erano levate per ricordare il rilievo dei doveri. René Cassin stese una ‘bozza Cassin’ che fu presentata alla Commissione dei diritti umani (Human Rights Commission) incaricata di preparare la Dichiarazione universale. Cassin aveva ben compreso il rilievo del problema dei doveri, osservando che ciascuno, potendo raggiungere i suoi fini con l’aiuto cooperativo della società, contrae dei debiti nei suoi confronti. La lista dei doveri che propose, includeva ‘obedience to law, exercise of a useful activity, acceptance of the burdens and sacrifices demanded for the common good’ (12). Sebbene l’elenco non risultasse molto esteso, venne ulteriormente diminuito sino alla finale breve sopravvivenza presente nell’art. 29.
La questione dei doveri non è sufficientemente presente nelle risposte di grandi personalità cui l’Unesco nel 1947 indirizzò un questionario sui problemi connessi alla preparazione della Dichiarazione universale. Tra le oltre 30 risposte, raccolte nel 1949 nel volume Autour de la nouvelle déclaration universelle des droits de l’homme, solo poche menzionano il problema dei doveri.
Continua qui: http://www.vittoriopossenti.it/pace-e-diritti-umani/95-inflazione-dei-diritti-e-crisi-dei-doveri
Sbarchi, giro d’affari da 4 miliardi per la criminalità organizzata
22 maggio 2017 12:44 | Danilo Loria RILETTURA NECESSARIA, PER RICORDARE
Gli sbarchi di oltre 650 mila migranti nelle coste italiane hanno generato un guadagno illecito pari a circa 4 miliardi di euro con un incremento di oltre 300 punti percentuali nel triennio 2014-2016 rispetto al triennio precedente.
È quanto emerge dalla Nota scientifica dell’Istituto Demoskopika “Sbarchi & Disperazione. Il giro d’affari della criminalità organizzata” che ha analizzato il flusso dei migranti nelle aree a maggiore condizionamento ambientale della criminalità organizzata italiana nel periodo che va dal 2011 ad oggi.
«La criminalità organizzata italiana, – commenta il presidente dell’Istituto Demoskopika, Raffaele Rio – ha concesso ai gruppi criminali trasnazionali, con in testa le organizzazioni cinesi, magrebine, nigeriane e albanesi, di poter gestire l’intera filiera del traffico degli esseri umani. In cambio del denaro per il trasferimento e i servizi annessi, spesso anticipato dal trafficante, i migranti sono totalmente asserviti alle organizzazioni criminali almeno fino all’estinzione del debito contratto. Il placet di ‘ndrangheta, mafia, camorra e sacra corona unita – precisa Raffaele Rio – avviene per alcuni motivi prioritari. In primo luogo, la concessione dei sodalizi criminali italiani, ‘ndrangheta in testa, alle organizzazioni di trafficanti di esseri umani ottiene il beneficio di una “complicità criminale organizzativa” di queste ultime nel mercato degli stupefacenti il cui giro d’affari è, senza alcun dubbio, più remunerativo dell’arrivo dei clandestini. In secondo luogo – conclude il presidente di Demoskopika – perché la criminalità organizzata italiana può ottenere elevati guadagni da appalti e subappalti, vinti al ribasso, potendo disporre di un esercito di lavoratori a basso costo».
Viaggi della disperazione: crescita esponenziale nell’ultimo triennio, +313%. Sono stati ben 652.337 i migranti sbarcati sulle coste a “maggiore controllo” della criminalità organizzata italiana dal 2011 al 19 maggio 2017. In particolare, elaborando i dati dell’UNHCR, sono stati oltre 486 mila i migranti arrivati via mare in Sicilia, poco meno di 100 mila gli immigrati sbarcati sulle coste calabresi, circa 50 mila i flussi di migranti che hanno toccato le coste della Puglia e poco più di 18 mila, infine, i migranti approdati sulle coste campane. Un fenomeno crescente in maniera esponenziale soprattutto negli ultimi anni. Nel triennio 2014-2016, in particolare, si sono registrati quasi 610 mila sbarchi, pari all’80% del dato complessivo al netto dei primi mesi del 2017, a fronte dei 118 mila sbarchi monitorati nel triennio precedente (2011-2013), con un incremento più che rilevante pari a oltre 313 punti percentuali.
Migranti in fuga: ai trafficanti introiti per 4,5 milioni di euro al giorno. Gli oltre 650 mila migranti sbarcati sulle coste italiane, “a maggiore permeabilità criminale autoctona”, hanno portato direttamente nelle tasche di trafficanti di
Continua qui: http://www.strettoweb.com/2017/05/sbarchi-giro-daffari-da-4-miliardi-per-la-criminalita-organizzata/555537/
ECONOMIA
Moscovici ora difende la Francia: “Parigi può sforare il 3 per cento”
Moscovici: “Il superamento della soglia del 3% può essere concepibile in via limitata, temporanea e straordinaria. Situazione italiana è diversa”
Franco Grilli – Mer, 12/12/2018
Due pesi due misure? Sostanzialmente è questo il messaggio che sta passando sul fronte della battaglia per le manovre di Francia e Italia contro Bruxelles.
Di fatto il nostro Paese da tempo è sotto osservazione e rischia una procedura di infrazione proprio per le misure inserite nella legge di Bilancio che faranno impennare il rapporto tra deficit/Pil oltre la soglia del 2 per cento.
Ma in questo quadro si inserisce un’altra variabile: la mossa della Francia che
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FINANZA BANCHE ASSICURAZIONI
ESPOSTO DEPOSITATO ALLA PROCURA DELLA REPUBBLICA DI ORISTANO
12 dicembre 2018 DI PAOLO MALEDDU
paolomaleddu.com
Oggi (24/9/2018), spinto anche dall’ennesima delusione provata nel sentire le parole di Conte al Forum Ambrosetti di Cernobbio (vedi il mio post del 11 settembre), ho depositato presso la Procura della Repubblica di Oristano un esposto con una descrizione sintetica delle incredibili conseguenze e della sofferenza causata nella Società Civile dalla fraudolenta emissione monetaria a debito da parte di un Sistema Bancario privato che si spaccia per proprietario del valore della moneta senza averne titolo.
Sarebbe bene che questo esposto non rimanga l’unico depositato. Se anche solo qualche decina, o centinaia, o migliaia di persone in tutta Italia decidessero di presentarlo, qualche magistrato più sensibile potrebbe prenderlo in considerazione e non archiviarlo.
Le cose si muovono se noi, il popolo, decidiamo di attivarci.
Invito pertanto tutti coloro che avranno modo di leggerlo, a darmi una mano a diffonderlo quanto più possibile; quindi, di depositarlo voi stessi alla Procura più vicina, possibilmente migliorandolo e cambiando naturalmente i dati personali, per dare avvio ad una ribellione pacifica, silenziosa, senza tanto clamore ma sicuramente molto efficace.
Chi volesse il file dell’esposto da me depositato può contattarmi a questa mail: paolo.maleddu@gmail.com
Verità e Amore per il prossimo sono destinati a trionfare. E’ una legge universale, la forza/vibrazione che vivifica ogni cosa. Siamo destinati a vincere.
Farò anche un breve video, e vi chiederò ugualmente di aiutarmi a diffonderlo.
Ecco il testo completo dell’esposto (in pdf nel link in fondo alla pagina):
Oristano, 24 Settembre 2018
Al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Oristano
Io sottoscritto Paolo Maleddu, nato ad Oristano il 27 marzo 1951, residente nella borgata marina di Torregrande in via del Pontile N. 16A, vorrei con la presente esporre alcuni fatti riguardanti l’emissione monetaria nel nostro Paese le cui conseguenze, se non portate all’attenzione dell’opinione pubblica e della Magistratura per essere opportunamente presi in considerazione, continuano a produrre innumerevoli disagi economici e sofferenza all’intera popolazione italiana.
I fatti, oggettivamente incontestabili e di pubblico dominio, sono i seguenti:
1 – il denaro, sotto forma di banconote in euro o credito (bonifici bancari, carte elettroniche, assegni etc.) viene emesso nel nostro Paese dal Sistema Europeo delle Banche Centrali (Banca Centrale Europea in collaborazione con la Banca d’Italia) e dalle banche commerciali ordinarie sparse su tutto il territorio nazionale. Costituiscono una eccezione le monete metalliche, rappresentanti una esigua percentuale del circolante, che vengono coniate dalla Zecca di Stato;
2 – il denaro nasce come prestito ad interesse erogato dal Sistema Bancario ad un privato, società o Ente richiedente che, nell’atto del ricevere, si trasformano in debitori;
3 – il debito creatosi, capitale + interesse, è sempre maggiore del prestito, costituito dal solo capitale erogato.
I fatti appena esposti portano alle seguenti logiche conseguenze: per ogni 100 euro di capitale erogato come prestito dal Sistema Bancario, la Società Civile deve restituirne 110 : capitale 100 + interessi (diciamo, per semplicità di calcolo, 10%) 10 = 110.
Entrano 100 euro e 110 dovrebbero uscire: dico dovrebbero, perché in una economia che utilizza la moneta come mezzo di scambio, nessuna comunità umana può funzionare se deve dare più denaro di quanto ne riceve.
Dal momento che tutta la moneta nasce come prestito (solo capitale 100), il debito è matematicamente inestinguibile in denaro, non essendo entrati in circolazione i 10 corrispondenti agli interessi.
Prima paradossale conseguenza: nella Società Civile non c’è mai in circolazione denaro sufficiente a saldare (in denaro) tutto il debito esistente.
Seconda paradossale conseguenza: essendo la carenza di denaro non occasionale ma costantemente presente, è insito nel vigente sistema monetario il fallimento di un determinato numero di privati, società o addirittura lo Stato. Una non trascurabile percentuale di imprenditori sarà, obbligatoriamente e a propria insaputa, destinata a fallire indipendentemente dalle proprie capacità imprenditoriali.
Terza paradossale conseguenza: nell’attuale sistema monetario la Società Civile più è ricca di denaro circolante, più è indebitata; più è indebitata, più la società nel suo insieme è ricca.
Ultima paradossale conclusione: immaginiamo che tutti, privati, aziende, Comuni e Stato, riuscissero a saldare i debiti. Tutti gli euro rientrerebbero nel Sistema Bancario dal quale provengono e in circolazione non rimarrebbe un solo centesimo. Economia paralizzata, nessuna compravendita possibile, trasporti paralizzati: niente potrebbe più funzionare.
Incredibile, no?
Nel vigente sistema monetario la comunità umana, per poter sopravvivere, deve essere (contemporaneamente, obbligatoriamente e perennemente) indebitata e nell’impossibilità matematica di poter saldare ogni debito.
Come un qualsiasi convoglio ferroviario, la Società Civile è costretta, a sua insaputa, a percorrere un tragitto deciso da altri. Viene collocata su dei binari che la conducono obbligatoriamente verso un Debito Pubblico inestinguibile in denaro e le conseguenti privatizzazioni (pignoramenti è poco elegante) dei principali Beni Comuni strategici: acqua, energia, frequenze per media informativi e telefonia, trasporti, educazione, sanità, industrie alimentari una volta pubbliche, et cetera. La comunità degli uomini si viene così a trovare, nei confronti del Sistema Bancario privato (i Creatori di denaro – la Finanza internazionale), nella tipica condizione di sudditanza psicologica e di fatto del debitore verso il suo creditore.
Ancora più incredibile è il fatto che, nonostante siano questi fatti di pubblico dominio, chi può non fa nulla per fermare o, per lo meno, denunciare l’illegalità. La moneta, come tutte le unità di misura, è una convenzione, il suo valore le viene dato dallo Stato nel momento di dichiararla valuta ufficiale del Paese: come può essere emessa dal Sistema Bancario privato che, per togliere ogni dubbio
Continua qui: https://comedonchisciotte.org/esposto-depositato-alla-procura-della-repubblica-di-oristano/
PANORAMA INTERNAZIONALE
“Bocciato” l’ambasciatore italiano: cosa rischia l’Italia in Libia
Mauro Indelicato – 12 dicembre 2018
Ali Al Saidi un mese fa è protagonista di uno dei primi colpi di scena al vertice di Palermo: durante un tavolo tecnico sull’economia, prende la decisione di abbandonare i lavori. “Sì è vero, me ne sono andato – afferma poi dopo qualche giorno in una nostra intervista – Ma questo perchél’agenda non era più quella concordata con gli italiani durante la mia visita dello scorso 12 ottobre. Non aveva più senso rimanere”. Al Saidi è un deputato della Camera dei Rappresentanti, il parlamento eletto nel 2014 ed attualmente insediato a Tobruk. Si tratta dell’istituzione più vicina ad Haftar, al quale ha conferito nel 2016 il titolo di maresciallo di Libia. Lo stesso Al Saidi è uno dei deputati più vicini ad Haftar.
Ed è con lui che inizia una conversazione, a poche ore dalla notizia della nomina di Giuseppe Buccino Grimaldi quale nuovo nostro ambasciatore a Tripoli, con cui già dai primi commenti emergono le prime contrarietà di una parte del parlamento di Tobruk alla scelta del governo italiano.
La perplessità di Al Saidi sulla nomina di Buccino
“Ho sentito la notizia della nomina dell’ambasciatore – afferma Saidi al telefono – Il nostro amico lo hanno invece mandato in Iran”. L’allusione è a Giuseppe Perrone, l’oramai ex ambasciatore in Libia. Nell’ultimo consiglio dei ministri infatti, oltre alla decisione su Buccino, arriva proprio quella sullo stesso Perrone destinato all’ambasciata italiana a Teheran. La storia che vede protagonista la nostra rappresentanza diplomatica a Tripoli inizia lo scorso 10 agosto, a seguito di un’intervista rilasciata dallo stesso Perrone. L’oramai ex ambasciatore italiano dichiara, in particolare, di non ritenere la Libia pronta ad andare al voto il 10 dicembre. Ad Haftar queste dichiarazioni non vanno giù, tanto da parlare di ingerenza negli affari del paese africano. A poche ore dall’intervista, il parlamento di Tobruk dichiara Giuseppe Perrone ufficialmente “persona non gradita“. L’Italia, impegnata a ricucire con l’est della Libia, in quel 10 agosto lo richiama a Roma. La nostra ambasciata rimane aperta, ma senza un ambasciatore pienamente operativo.
“Cosa penso di questa vecchia nomina? – taglia subito corto Al Saidi, alludendo al fatto che Buccino è già stato ambasciatore – Credo che l’arrivo del nuovo rappresentante è un elemento negativo per il parlamento libico”. Ad Al Saidi non va giù l’approdo a Tripoli di un uomo che ha già rappresentato l’Italia nella capitale libica. “Negative” è il termine che Al Saidi ripete
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Libia, un assist per Macron. Il piano per cacciare l’Italia
- Lorenzo Vita – 3 settembre 2018 RILETTURA
La Libia precipita nel caos e Tripoli, dove l’Italia ha il suo maggiore alleato libico, rischia di vedere sparire la già fragile leadership del premier Fayez al Sarraj. L’Italia è preoccupata. E ha certamente motivi per esserlo. Perché la Libia è il nostro centro di interessi principale in Nordafrica e perché i nostri problemi sull’immigrazione clandestina partono, inevitabilmente, dalle coste libiche.
La violenza a Tripoli e il caos generato dal bagno di sangue che in queste ore sta sconvolgendo la capitale libica rischia di minare profondamente la nostra strategia sulla Libia. Sarraj è ormai sempre più debole: ma era lui il leader prescelto non solo dalla comunità internazionale, ma anche e soprattutto dall’Italia, per guidare la transizione del Paese. E adesso la sua leadership è appesa un filo. E con lui, inevitabilmente, il nostro piano per la Libia. Che adesso rischia di cadere sotto la scure delle milizie della Settima brigata e dei suoi partner (a cominciare dal generale Khalifa Haftar, l’uomo forte della Cirenaica).
Se l’Italia rischia di perdere la sua cabina di regia in Libia, c’è però un altro Paese che è pronto a sfruttare al massimo questa situazione: la Francia. Inutile nasconderlo, Italia e Francia hanno da mesi ingaggiato una guerra per la leadership libica. Un tempo era Roma ad avere saldamente in mano la situazione, ai tempi del colonnello Muhammar Gheddafi, avversario di facciata ma nostro primo alleato libico.
La guerra scatenata da Nicolas Sarkozy e sostenuta dal resto delle potenze occidentali – e in cui l’Italia è stata costretta a intervenire per evitare un disastro ancora maggiore – ha rovesciato completamente i piani. E ora, dopo anni di guerra civile, la Libia è divisa non solo fra tribù, milizie ed eserciti, ma anche tra potenze che si giocano l’influenza sul Paese.
La Francia di Emmanuel Macron vuole raccogliere quanto seminato in questi anni di guerra. Il presidente francese ha subito messo nel mirino la Libia e la considera un obiettivo prioritario della sua agenda internazionale. Non va dimenticato che uno dei primi atti del capo dell’Eliseo è stato quello di invitare a Parigi Sarraj e Haftar per trovare un accordo sulla pace in Libia. Era luglio del 2017. Nemmeno un anno dopo, il 29 maggio di quest’anno, Macron organizzava una conferenza di pace a Parigi con cui aveva ribadito il suo coinvolgimento sul futuro del Paese.
In quell’occasione, furono invitati nella capitale francese Sarraj, Haftar, il presidente della Camera dei rappresentanti Aguila Salah, e il presidente del Consiglio di Stato, Khaled al-Mechri. Una conferenza con cui Macron voleva affermare davanti al mondo, ma soprattutto agli occhi dell’Italia, che la Francia era la potenza che avrebbe dovuto guidare la Libia.
Poi qualcosa è cambiato: la strategia italiana ha iniziato a ingranare. Per il governo di Giuseppe Conte è arrivata la benedizione di Donald Trump per una cabina di regia sul futuro della Libia, tanto che Italia e Stati Uniti dovrebbero, a meno di novità molto gravi, organizzare in autunno una conferenza internazionale per il futuro del Paese.
E nel frattempo, i ministri Matteo Salvini, Enzo Moavero Milanesi e Elisabetta Trenta sono andati a Tripoli per discutere con le principali autorità del governo libico. Roma ha consolidato la collaborazione con le forze libiche per il controllo delle coste e del traffico di migranti. E nel frattempo, si dipanava la trama italiana sull’evitare le elezioni in Libia a dicembre prima di una mancata pacificazione del Paese.
Ed è su questo fronte che Macron ha puntato forte creando una spaccatura fortissima fra le fazioni libiche e l’Italia. Perché mentre Roma ha continuato a ribadire la contrarietà alle elezioni entro il 2018, Parigi si è mostrata benevola nei confronti di questa opportunità sposando le teorie di chi crede che in Libia si possa votare normalmente il 10 dicembre. Jean Ybes Le Drian, il potente ministro degli Esteri di Macron, ha così intrapreso un tour libico partendo da Tripoli, per poi incontrare, uno dopo l’altro, tutti i leader presenti
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POLITICA
Uno scrittore sionista dà dei razzisti a milioni di italiani
Federica Francesconi 6 luglio 2018
È bellissimo vivere in un paese dove uno scrittore sionista dà dei razzisti a milioni di italiani, colpevoli di avere esercitato il loro diritto al voto.
È commovente avere un gregge di cantanti e di attorucoli da quattro soldi belare contro il fascioleghismo, che secondo la loro visione farneticante ammorberebbe la società italiana.
È altresì sensazionale avere dei giornalisti, che vengono pagati a peso d’oro per due ciofeche che pubblicano, pontificare sull’accoglienza ai poveri africani.
Speriamo che codeste pietre rotolanti prima o poi si schiantino contro il muro della loro pochezza e della loro ipocrisia. Dove sono i Pasolini e i Sciascia di una volta che smascheravano le forme subdole dietro le quali si nascondeva il potere?
Oggi abbiamo sul pulpito Daria Bignardi, Erri de Luca e Michele Serra a dare lezioni di
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Neolingua della politica italiana
Novembre 2013
Il linguaggio pubblico si è fatto più sudicio delle stalle di Augia, e non c’è Ercole che possa sobbarcarsi in un giorno la fatica delle pulizie, tanto l’aria è appestata da parole vane, sciocche, inutilmente astruse o anche soltanto brutte. Un fiume purificatore dovrebbe spazzar via le mille locuzioni stereotipate (la schiena dritta, il ditino alzato), le parole svuotate da un uso inflazionistico (golpe, fascismo, comunismo), gli accoppiamenti pregiudiziosi (liberismo selvaggio, garantismo peloso), la partenogenesi dei neologismi (malpancista, doppiopesista). Ma queste non sono che mosche, per restare al mitologico letamaio. Perché a intasare le stalle nazionali sono parole ben più ingombranti, che ostruiscono il linguaggio ma soprattutto il pensiero, e che generano senza tregua malintesi, equivoci, ambiguità. Alcuni se ne servono con malizia, altri soggiacciono al loro incanto senza colpa. La confusione delle lingue, intanto, non fa che crescere.
Nel 1799, a Venezia, il gesuita Ignazio Lorenzo Thjulen pubblicò il Nuovo vocabolario filosofico-democratico, un pamphlet antigiacobino nel quale sosteneva che la Rivoluzione era stata più perniciosa del castigo di Babele, avendo confuso non solo le lingue ma anche le idee. La parte più consistente del dizionario si intitolava appunto «Vocaboli che hanno mutato senso, significazione ed idea», ed era un primo esperimento di Newspeak orwelliano, dove ogni termine finiva per designare il suo contrario: «Molti popoli, ingannati da falsi vocaboli e mal intesi, hanno corso dietro a tutto ciò che in realtà detestavano».
Qui non c’è stata nessuna rivoluzione, ma un po’ di ordinaria pulizia non guasta.
Antipolitica. Quando questo ceto politico finirà sepolto sotto il peso della sua dabbenaggine, una parola dovrà essere scolpita a lettere d’oro sulla sua lapide, accanto alle date di nascita e di morte: antipolitica. E non perché a travolgerlo saranno le mille cose affastellate sotto questa insegna, ma precisamente perché, si dirà, non seppe trovare di meglio per etichettare il nemico e le sue armate imbelli. Antipolitica, è appena il caso di dirlo, è parola abissalmente stupida. Così stupida che perfino un avvistatore di scie chimiche, un ossessionato dal Bilderberg, un esperto di nanoparticelle annidate nelle merendine può svelarne il trucco e convincersi, con qualche ragione, di essere più illuminato del nemico. Più che una parola, antipolitica è un’attrezzatura masochistica che aziona due autolesionismi convergenti: per un verso dà l’immagine strategicamente suicida di un sistema assediato che si arrocca dietro torri merlate; per altro offre il più ingenuo degli assist, una comoda «alzata» per lo schiacciatore più schiappa. Che dirà: «Noi non siamo l’antipolitica, siamo contro questa politica. Siamo per un’altra politica». Vedete? Alla portata dello scemo del villaggio. E basta frugare un po’ in rete per constatare che l’obiezione l’hanno fatta propria, appunto, villaggi interi di scemi del villaggio. Galvanizzati dall’occasione di ottenere, se non il warholiano quarto d’ora, un quarto di minuto d’intelligenza.
Bene comune. Non che la formula non abbia un senso, fin dai tempi di Tommaso d’Aquino. Il problema, semmai, è che ne ha troppi, che scivolano promiscuamente l’uno nell’altro. Ermanno Vitale, nel pamphlet Contro i beni comuni (Laterza), ha provato a mettere un po’ d’ordine nel caos, ed è fatica erculea anche questa. Ribolle di tutto, in questo calderone ideologico e verbale: i vagheggiamenti di un inesistente Medioevo precapitalistico dove tutti si spartivano in armonia le ricchezze della Terra, i filosofemi fanta-marxisti di Toni Negri, i miraggi di qualche contrada esotica (la Bolivia di Evo Morales, il Chiapas del subcomandante Marcos), la sopravvalutazione allucinatoria di microsperimentazioni locali elevate a esempio generale, come il Teatro Valle occupato a Roma. Tutti i nodi vengono al pettine in un manifesto, Beni comuni del giurista Ugo Mattei, che Vitale smonta pezzo per pezzo, e da cui pesca brani immaginifici come questo, in puro stile Casaleggio Associati: «Si va imponendo sempre più una visione che vede Gaia come una comunità di comunità ecologiche, legate fra loro in una grande rete, un network di relazioni simbiotiche e mutualistiche, in cui ciascun individuo (umano o meno che sia) non può che esistere nel quadro di rapporti e relazioni diffusi, secondo modelli di reciprocità complessa». Umano o meno? Di sicuro c’è qualcosa di umano, troppo umano in certi usi del bene comune nel dibattito italiano. Si può dire che è una delle varianti indigene di quella che Jean-François Revel chiamava la grande parade: la chiassosa e variopinta sfilata, ma anche parata in senso calcistico, che ha consentito a molti ex comunisti di aggirare con noncuranza il piccolo ostacolo del 1989. Rifoggiandosi, all’occasione, un’identità da benecomunisti. Ma il primo problema è che non si sa quali e quanti siano i beni comuni (l’acqua? la cultura? internet?) e a chi siano comuni (alle città? alle nazioni? all’umanità intera?). Leggiamo lo Statuto della Fondazione Teatro Valle: «Il bene comune non è dato, si manifesta attraverso l’agire condiviso, è il frutto di relazioni sociali tra pari». Che vuol dire, per esempio, nel caso dell’acqua? Che uno porta l’idrogeno e l’altro l’ossigeno? Ma al di là dell’autointossicazione gergale, la questione, in fin dei conti, è capire chi ha titolo per decidere cosa è bene comune e cosa non lo è. E quando si tratta di sottrarre un bene al comune (in senso amministrativo) e proclamarlo bene comune, la vaghezza della formula è d’aiuto. Potremmo quindi uscirne così: bene comune è ciò che i depositari del marchio Bene Comune™ designano come tale. E se non lo è, lo occupano.
Casta. Il termine più abusato degli ultimi anni nasce da un paradosso. Il libro di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo del 2007 aveva infatti per sottotitolo Così i politici italiani sono diventati intoccabili. E non occorreva certo avere studiato con Louis Dumont, conoscere il sanscrito o il tamil, possedere nozioni avanzate di indologia per sapere che gli intoccabili, i paria, sono per l’appunto i fuori casta, i reietti, il grado infimo della tradizionale gerarchia sociale indiana. La «casta degli intoccabili» è un po’ come l’«aristocrazia dei pezzenti». Bisticci concettuali a parte, aver risciacquato i panni nel Gange anziché in Arno ha avuto le sue conseguenze. La più vistosa è che la parola arcaica ne ha eclissate altre, meno accattivanti ma più precise. Come corporazione. E già, perché in Italia ci siamo liberati dei fasci (forse) ma non delle corporazioni: e la parola casta era abbastanza vicina da farci sfiorare quella presa di coscienza, ma abbastanza lontana da precluderla. Così, sotto quella voce indianeggiante abbiamo ammucchiato tutti i babau del risentimento nazionale: le lobby e le logge, le cricche e le parrocchie, i palazzi e i salotti, i quartierini e le conventicole. E una primizia di rivoluzione liberale è finita in jacquerie plebea.
Fatto. «Niente di più misterioso di un fatto, nulla che rassomigli di più a quei sogni reali che empivano di spavento i gran sacerdoti di Babilonia». Ogni aspirante giornalista dovrebbe mandare a memoria il monito di Paul Valéry. Da qualche tempo, tuttavia, questa parola dall’aria innocua è diventata strumento di mille raggiri ideologici, ricatti morali, illusioni ottiche spacciate per fotografie: e così si chiamano fatti i rottami – in sé muti e indecifrabili – di storie vaste e complicate, e una volta raccolti questi rottami li si venera come feticci o li si punta come selci scheggiate al petto dell’interlocutore, per metterlo a tacere: «È un fatto!». E invece è spesso un brandello di vita essiccata, tagliato secondo le convenienze, o un’opinione corazzata in un esoscheletro di dati che nasconde così la sua natura. La mente umana subisce il fascino dell’alta definizione: riconosciamo a colpo d’occhio il qualunquista in chi urla un generico «Sono tutti ladri!», ma siamo ancora soggiogati da chi riporta la cifra, foss’anche inventata o gonfiata, dei parlamentari con procedimenti a carico. C’è in questo qualcosa di molto primitivo: ci agitano davanti un monile adorno di numeri e di verbali e di virgolettati, e restiamo impietriti. Come davanti al leggendario basilisco. L’unico modo per ucciderlo era metterlo allo specchio.
Legalità. Qualche anno fa Feltrinelli pubblicò un libro illustrato per l’infanzia, Le regole raccontate ai bambini, firmato da Gherardo Colombo, ex magistrato di Mani pulite, e da Marina Morpurgo. Tra le illustrazioni di Ilaria Faccioli ce n’erano un paio che vale la pena descrivere: nella prima, dallo spiccato gusto maoista, un gruppo di bambini in festa mostra cartelli con scritto «Viva la legalità! Vogliamo legalità!»; nella seconda, un signore cattivo (guarda caso bruno, semicalvo e dal sorriso smagliante) è circondato da tv, radio e giornali che intonano all’unisono: «Vota lui!». Tanto basta per capire che legalità non è più una parola neutra e innocente, e si presta agli usi ideologici più vari. Specie quando circola in aggregati come «cultura della legalità» (formula vaga su cui prospera tutta un’antimafia khomeinista) o «controllo di legalità», l’idea che i magistrati siano non già applicatori della legge ma guardiani del gregge, preposti a vegliare perpetuamente sulla Nazione. Capita così che un Gian Carlo Caselli chiami «assalti alla legalità» quelli che sono, tutt’al più, assalti a Gian Carlo Caselli. Occorre quindi affinare l’udito quando si sente inneggiare alla legalità: sembrano inviti al rispetto della legge, e spesso sono appelli al tifo incondizionato per la magistratura inquirente. Le due cose, direbbe il santo Milarepa, «paiono uguali, ma sta attento a non confondere».
Moralismo. Chi abbia in testa i moralisti classici come La Rochefoucauld e La Bruyère, legherà questa parola a dei gentiluomini misantropi e coltissimi, per lo più slegati dalle cure e dalle contingenze terrene, che dal loro esilio volontario meditano sull’infinita monotonia del cuore umano. Ora, pensiamo a come il nostro bipolarismo patologico ha maltrattato la parola moralismo fino a renderla inservibile. Gli uni (sono quelli che deridono il «ditino alzato») la mettono in ridicolo, dando di moralista a chiunque abbia a eccepire su cose che spesso con la morale c’entrano poco; gli altri (sono quelli che vantano la «schiena dritta») la agitano come una clava contro il nemico politico e antropologico. L’effetto, si è visto, è stato quello di ottenere non già la moralizzazione della politica, ma la politicizzazione della morale. E ci vorrebbe un La Bruyère per compatire la triste, meccanica, nauseante ripetitività di queste pose gemelle.
Narrazione. La mamma chiede al bimbo accucciato sul vasino: «Stai facendo la cacca?». «No: la narrazione del mio defecare». Con la vignetta di Altan si potrebbe chiudere la partita, e farla finita con quest’altro assillo ventennale. Che si è esteso anche alle più inenarrabili regioni dello scibile umano. Tutto diventa affabulazione e storytelling, tutto è presentato sotto forma di racconto. A quanto pare, abbiamo dovuto scontare il crollo dei grands récits novecenteschi con la disseminazione imperialistica della forma-narrazione. E non è certo il solo Nichi Vendola a farsene megafono, e neppure l’allegra combriccola dei Wu Ming, divulgatori di una sorta di versione adolescenziale a fumetti del «mito politico» di Georges Sorel. Ormai senti parlare indifferentemente, e come se davvero significasse qualcosa, di narrazione del territorio, di narrazione del capitalismo, di narrazione del Pd, di narrazione del femminile. È il pendant del feticismo del fatto. Se quello rendeva tutto fossile, qui ogni cosa si fa fluida. Per capovolgere il motto del Parsifal, lo spazio qui diventa tempo, ed è tutto uno scorrere di storie, come fiumi in cerca di uno sbocco. Dove sfoceranno? Ecco, ci sono anche libri dedicati alla «narrazione del cibo». C’è da supporre che, superata la narrazione della digestione, il tutto finisca più o meno come nella vignetta di Altan.
Pancia. Parlare con la pancia è affare da ventriloqui, ascoltare la pancia è invece uno dei segnali del beato rincoglionimento dei futuri papà («Lo senti? Scalcia!»). Pare però che certi politici sappiano parlare alla pancia del paese, e che questo sia un vantaggio ma anche, tutto sommato, una cosa piuttosto ignobile. Ora, tutto sta a svelare i sottintesi e le implicazioni dell’antropomorfismo. A occhio e croce, la pancia del paese dovrebbe trovarsi all’altezza del basso Lazio, ma si direbbe che non è questo che intendono. «B. è la pancia del
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