NOTIZIARIO STAMPA DETTI E SCRITTI
11 LUGLIO 2019
A cura di Manlio Lo Presti
Esergo
Pericoloso entrare senza frustino nella gabbia dei ricordi:
MORDONO
GESUALDO BUFALINO, Il malpensante, Bompiani, 1987, pag. 78
https://www.facebook.com/Detti-e-Scritti-958631984255522/
Le opinioni degli autori citati possono non coincidere con la posizione del curatore della presente Rassegna.
Tutti i numeri dell’anno 2018 della Rassegna sono disponibili sul sito www.dettiescritti.com
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SOMMARIO
Bufera su Ikea per aver licenziato un dipendente no Lgbt 1
Patronaggio a rotelle
Nicola Porro “Il Politicamente Corretto Smontato Da Sinistra” 1
Ladri di tasse: dumping, Olanda e complici rapinano l’Italia
Declino demografico, servono misure per evitare l’abisso 1
C’era una volta Valentina Cortese, la diva della scena. Oggi non c’è più 1
Soros e Francesco uniti nella lotta
I Fratelli Mussulmani come ausiliari del Pentagono. 1
Alain Touraine: verità e movimento. Non basta difendere la modernità 1
Le parole e i corpi, di Maria Luisa Boccia 1
La cattiveria dei più umani
Novella Antigone?
Barchini
Tutta la verità
Anche i marchi hanno paura dei social 1
L’Italia è meglio di quanto si dice: 10 prove lo dimostrano
Dal blockchain alla finanza etica 1
Sea Watch. Denunciata la Gip di Agrigento, Alessandra VELLA. 1
Alessandra Vella
Magistrati
Working it (mettercela tutta?) 1
Accordo di libero scambio in Africa
Come si combattono e si perdono oggi le guerre
Discorso di David Sassoli al parlamento europe
Nel frattempo in Tedeschia …
Il super-Stato cinese Han: Il nuovo Terzo Reich. 1
Rosa Luxemburg e la sinistra 1
Salvini al 50%
Track This inganna gli algoritmi pubblicitari (aprendo 100 schede!) 1
Il misterioso oro di Yamashita
EDITORIALE
Cambiare e aggiornare il quadro normativo italiano sulla immigrazione
Manlio Lo Presti 6 07 2019
Come avevo più volte scritto in numerosi post e nelle rassegne stampa del mio blog www.dettiescritti.com , prosegue l’invasione razziale dell’Italia.
Un processo distruttivo che si appoggia sulle mentite spoglie dell’umanitarismo e sui sensi di colpa degli italiani buonisti su cui fanno leva affaristi, schiavisti, Ong, Coop, vaticano, 8 mafie, 26 gruppi politici, magistratura, servizi segreti stranieri sul territorio italiano, i francesi, i tedeschi, ora i turchi, le 200 ex spie della STASI, il Mossad, la Cia, Nsa, Fbi, la pseudo unione europea.
Sotto la copertura del salvataggio umanitario dei c.d. migranti (MOTIVO APPARENTE) queste imbarcazioni trasportano (MOTIVO VERO):
- armi,
- tecnologie sotto embargo,
- sostanze per la guerra chimica,
- organi umani,
- casse di danaro contante per finanziare eserciti privati che fanno il lavoro sporco dei genocidi, agenti segreti da trasbordare in segreto.
Ovviamente, si parla solo di migranti, cosa viene trasportato non sarà mai denunciato né dalle Forze di sicurezza, né dai Servizi segreti italiani, né dalla stampa, Tv e web totalmente asserviti e controllati dal DEEP STATE DE’ NOANTRI.
Il piano di sostituzione etnica non si ferma ed è spalleggiato da una magistratura politicamente schierata che usa furbescamente le lacune e le contraddizioni di una normativa che prevede soccorsi episodici e non una ondata che sta crescendo.
VA CAMBIATO IL QUADRO NORMATIVO SUBITO per non dare più spazi alle frange immigrazioniste eversive che stanno colpendo il nostro Paese.
Questa sarabanda distopica e mortale per l’Italia è sostenuta dalla forza propagandistica di periodici, web, cinema e spettacolo, catene televisive schierate e controllate dal 9% del Paese.
Una minoranza finanziata da titanici flussi monetari atlantici che hanno lo scopo di destabilizzare il nostro Paese per farlo diventare LA SACCA RAZZIALE D’EUROPA.
QUI DI UMANITÀ C’È POCO, SI TRATTA DI AFFARI E SOLO AFFARI.
Smettiamola di spalleggiare un giro di affari che supera i 12.000.000.000 (DODICIMILIARDI) di euro.
Anime belle svegliatevi e politici di tutti i fronti NON FATE I FINTI TONTI!!!
Ne riparleremo molto molto presto!
IN EVIDENZA
Bufera su Ikea per aver licenziato un dipendente no Lgbt
03 Luglio 2019 – Mauro Faverzani
In occasione dell’ultima Giornata internazionale contro l’omofobia, lo scorso 17 maggio, si pensava che Ikea avesse già dato il meglio, anzi il peggio di sé. Per tale ricorrenza aveva pensato bene, infatti, di pubblicare sui suoi social uno spot pro-Lgbtqia, 80 secondi con nove storie di «politicamente corretto»; poi volle tingere coi colori arcobaleno la sua borsa più venduta, la Frakta; infine, decise di donare mobili per un progetto di co-housing sociale destinato alla prima casa di accoglienza pensata a Torino per tutti gli Lgbtqia, che dovessero lasciare la propria famiglia, perché rifiutati dopo aver fatto outing.
Insomma, si può proprio dire che la multinazionale svedese dell’arredamento non si fosse risparmiata. Ma ora ha voluto superare sé stessa in un gioco al continuo ribasso. Come?
È accaduto in una sua filiale polacca. Alla vigilia della Giornata internazionale contro l’omofobia Ikea ha pubblicato, infatti, sul suo Intranet un avviso, in cui ha chiesto ai propri dipendenti di unirsi alle celebrazioni e di sensibilizzarsi sul tema, ad esempio chiedendo ai trans con quale pronome volessero essere definiti. Un invito, questo, che non è per niente piaciuto ad un suo dipendente, Tomasz K., da molti anni assunto presso la filiale di Cracovia, in Polonia.
L’uomo ha pensato bene di rispondere picche online, chiarendo di ritenere l’appello
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https://www.corrispondenzaromana.it/bufera-su-ikea-per-aver-licenziato-un-dipendente-no-lgbt/
«Ciò che nessun giornale ha detto sul caso Bibbiano (e, già che ci siamo, sul Sinodo amazzonico)» [Guelfo Rosa]
di jeannedarc il 8 Luglio 2019
RS: Che ha oggi, è nervoso?
GR: Nervoso? No gente, sono stanco di veder l’acqua pestata nel mortaio e soprattutto non mi piace che l’attenzione sul “caso Bibbiano” si stia mediaticamente spegnendo. Ma era prevedibile.
RS: La vicenda è grossa.
GR: Avete fatto bene a far notare come la presunta regina degli affidi – che ci faceva lezioni immanentiste, antimonoteiste e contro il Cristo “religioso” – avesse anche deriso la processione di riparazione al gay pride: il quadro sarebbe completo, ma c’è di più e nessuno ancora l’ha detto.
RS: Di più? Cosa?
GR: Riguarda sempre le preghiere di riparazione, che ormai sono diventate un’ossessione per gli LGBT e i loro rappresentanti politici. Nessuno ha notato una cosa molto semplice: l’anno scorso, quando ci furono le polemiche per la famosa veglia antiomofobia in diocesi di Reggio (a un anno di distanza dall’imponente processione di riparazione al gay pride del 2017) il clima si surriscaldò al punto che il vescovo Camisasca ricevette le dure critiche dei cattolici fedeli alla dottrina e la soldarietà di parroci e sindaci, in buona parte PD. Insomma: nel 2017, senza nessun supporto della diocesi, erano scesi in strada centinaia di cattolici per pregare in riparazione del Pride e nel 2018, sempre per pregare in riparazione di una irricevibile veglia antimofobia, i cattolici si erano trovati la diocesi contro, con solidarietà di un bel numero di sindaci piddini. E sapete chi c’era nella lista dei firmatari del sostegno al vescovo che permetteva la veglia antiomofobia?
RS: I sindaci di…
GR: …due dei sindaci piddini oggi indagati nell’inchiesta Angeli e Demoni! Colli (Montecchio) e Carletti (Bibbiano), il terzo Burani non risulta tra i firmatari [immagine sotto]. Scrivevano: «Riconosciamo l’importanza dei valori costituzionali dell’uguaglianza e della lotta alle discriminazioni – hanno scritto invece ieri i sindaci reggiani – pertanto cogliamo l’importanza di ogni gesto che, in una società che appare ogni giorno sempre più conflittuale, contribuisca a vedere nell’altro il reciproco riconoscimento e il rispetto. Il vescovo ha fatto un’azione di coraggio, di apertura e di inclusione che condividiamo». Verrebbe da dire: tutta questa attenzione e questi slanci di senso civico, non sarebbe stato meglio riporli forse altrove, dal momento che nei loro comuni ne succedevano di tutti i colori? Sia chiaro: al netto degli arresti domiciliari di Carletti, il ruolo
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Patronaggio a rotelle
Marco Travaglio 3 luglio 2019
Per il decimo compleanno del Fatto, abbiamo iniziato un giro d’Italia che ci ha portati, come prima tappa, in Sardegna. Ad Alghero e a Cagliari. Due incontri molto partecipati con i nostri lettori e abbonati, quelli che compiono 10 anni con noi e quelli nuovi. Abbiamo invertito l’ordine tradizionale del dibattito: prima le domande del pubblico, poi le nostre risposte. Molte domande riguardavano la SeaWatch-3 e la capitana Carola Rackete. A spanne, anche alla luce delle lettere che riceviamo, possiamo dire che la comunità del Fatto si divide a metà. Una parte, più attenta al lato umano, simpatizza e solidarizza con questa donna coraggiosa e generosa, che potrebbe fare la bella vita e invece si batte per i suoi ideali, recupera migranti da barconi pericolanti in acque libiche e li porta in Italia (anziché negli altri porti sicuri più vicini) per creare l’ennesimo incidente col nemico Matteo Salvini, violando dichiaratamente una serie di leggi, regole e ordini, ma rivendicando la sua disobbedienza civile e accollandosene le conseguenze senza fuggire né piagnucolare (diversamente da Salvini, scappato dal suo processo con l’immunità ministeriale votata anche da lui).
L’altra parte, più sensibile alla legalità, non accetta che l’Italia resti il capro espiatorio dei ricatti libici e del menefreghismo europeo (con la beffa delle lezioncine di accoglienza da “partner” egoisti e spietati), teme che il ritorno delle Ong nel Mediterraneo provochi un altro boom di partenze, morti e sbarchi (come fino a due anni fa, prima che Minniti mettesse un po’ d’ordine in quella jungla d’acqua), distingue fra l’atto umanitario iniziale e le azioni illegali successive della Rackete, solidarizza coi finanzieri che hanno rischiato la pelle per l’attracco spericolato della capitana, resta incredula dinanzi all’avallo acritico offerto da alcuni parlamentari Pd&C., teme che la Sea Watch abbia regalato altri voti alla Lega e si rimette al giudizio della magistratura. Quasi tutti apprezzano il tentativo del Fatto di ragionare e distinguere, senza intrupparsi nelle opposte tifoserie della curva Sud della Capitana e della curva Sud del Capitano. Ora che la crisi è chiusa, la ricostruzione dei fatti deve prevalere sulle emozioni di quei 17 giorni convulsi. Partendo dalle regole dello Stato di diritto – Costituzione, Codice penale e Codice della navigazione – e da un dato incontestabile: gran parte delle simpatie Carola se l’è conquistata dichiarando la sua disobbedienza civile e dicendosi pronta a subirne le conseguenze. Ora che le subisce, è assurdo e anche un po’ ridicolo scandalizzarsene.
E gli appelli e i diktat lanciati da cancellerie straniere, politici e firmaioli nostrani perché la capitana venga “liberata” e assolta non hanno alcun senso (al pari dei titoli tragicomici, tipo quello di Repubblica su “Le prigioni di Carola”, manco fosse Silvio Pellico ai Piombi e allo Spielberg, anziché un’indagata ai domiciliari in un alloggio di Lampedusa). Così come le sparate di Salvini&C. che la vorrebbero “in galera” o condannata a “pene esemplari”. In Italia, per Costituzione, la magistratura è “indipendente da ogni altro potere”, che dunque non prende ordini né dalla Germania, né dalla Francia, né da Salvini, né dalle opposizioni di sinistra, né da scrittori, intellettuali e artisti vari; e “l’azione penale è obbligatoria” su ogni notizia di reato. Ora, di notizie di reato la Procura di Agrigento ne ha raccolte parecchie (resistenza a nave da guerra, disobbedienza al divieto di sbarco e tentato naufragio): infatti ha arrestato Carola in flagranza, sia pur con la misura cautelare attenuata dei domiciliari. I salviniani decreti Sicurezza non c’entrano nulla con i reati contestati (esistono dalla notte dei tempi in ogni ordinamento democratico) e il governo non ha avuto alcun ruolo nella decisione del pm. Poi la parola è passata al gip, che ha interrogato l’indagata, ha sentito i suoi avvocati che
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https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2019/07/03/patronaggio-a-rotelle/5297163/
Nicola Porro “Il Politicamente Corretto Smontato Da Sinistra”
Milano 4 Luglio 2019
Leggete insieme a me. «Checché ne pensino i progressisti doc, l’insicurezza dei ceti popolari ha una robusta base di realtà (…) Che gli immigrati si concentrino in quartieri periferici, e lascino relativamente tranquilli i ceti medi urbani, è anche esso un dato di fatto.
Che la concorrenza degli immigrati nell’accesso alle prestazioni sanitarie e ai sussidi tocchi soprattutto i ceti popolari, è ancora una volta, un dato di fatto… Quanto alla criminalità e alle paure che suscita, i pochi studi disponibili rivelano che in Europa, il tasso di criminalità medio degli immigrati è quattro volte quello dei nativi (in Italia è sei volte)».
Ecco. L’autore è un sociologo. Un progressista, un uomo di sinistra. Luca Ricolfi scrive quello che abbiamo appena riportato in un libretto caustico, La sinistra e il popolo. Il conflitto politico nell’era dei populismi (Longanesi, 2017).
Consiglio vivamente il capitolo: «Politicamente corretto ed eccesso di civiltà». Non si tratta di un liberale, ma forse della più aspra critica della sinistra liberal dal suo interno.
Esiste un mondo di «buoni» e gli altri sono ai margini. «Nella storia della cultura occidentale, il politicamente corretto è stato il modo nel quale una parte politica, la parte progressista o liberal, ha preteso di stabilire come le persone dovessero parlare e, per questa via, che cosa dovessero pensare».
Ricolfi è spietato. E continua: «Innaturale è invitare a non aver paura quando si è attaccati. Innaturale è non provare odio se qualcuno ci uccide la persona che ci è più cara. Innaturale è spingere il rispetto della sensibilità altrui fino a mortificare la nostra. Innaturale è applicare agli animali standard pensati per le persone. Innaturale è modificare artificialmente il lessico
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https://www.milanopost.info/2017/07/04/nicola-porro-il-politicamente-corretto-smontato-da-sinistra/
Ladri di tasse: dumping, Olanda e complici rapinano l’Italia
Scritto il 04/7/19
Meravigliosa Unione Europea: da un lato costringe paesi come l’Italia a sudare sangue per spuntare misere percentuali di deficit – con Conte che ora esulta, per aver evitato la procedura d’infrazione introducendo 7 miliardi di tagli– e dall’altro permette che alcuni paesi continuino a fare allegramente il loro piratesco dumping fiscale, “rubando” contribuenti ricchissimi che provengono dai paesi vicini. Guai se il governo gialloverde prova a tagliare le tasse, magari anche varando i minibot. Va benissimo, invece, se – proprio per sfuggire all’iper-tassazione – le imprese scappano in Olanda e in Lussemburgo, in Irlanda e in Gran Bretagna. Caso classico, quello dell’ex Fiat, ora Fca: «Il trasferimento della sede fiscale a Londra di quella che era la principale azienda automobilistica italiana, nonché il trasferimento della sede legale e fiscale in Olanda della sua società sua controllante ha causato all’Italiaun rilevante danno economico», dice Roberto Rustichelli, presidente dell’Antitrust, nella sua relazione annuale presentata in Parlamento, infrangendo quello che fino a ieri era una specie di tabù.
Vietato soffermarsi su questo sgradevolissimo aspetto della vita europea: il presidente uscente della Commissione, Jean-Claude Juncker, vero e proprio guardiano dell’austerity (a casa degli altri), ha trasformato il Lussemburgo in un paradiso fiscale. Idem l’Olanda, che poi è la prima a premere perché all’Italia venga imposto il massimo rigore.
Ovvio: più le aziende italiane soffrono a causa della pressione fiscale indotta dall’Eurozona, e
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https://www.libreidee.org/2019/07/ladri-di-tasse-dumping-olanda-e-complici-rapinano-litalia/
Declino demografico, servono misure per evitare l’abisso
di Redazione RS il 27 Giugno 2019
Di: Giorgio Enrico Cavallo
Girotondo attorno all’albero di Natale, a Torino, 6 dicembre 1954 (© Silvio Durante / LaPresse)
Se potessimo salire su una macchina del tempo e visitare l’Italia tra 50 anni, cosa troveremmo? È probabile che faticheremo a riconoscerla, specialmente perché la trasformazione più grande riguarderà gli stessi italiani. Che non ci saranno più. A leggere i dati Istat pubblicati una settimana fa, c’è da rabbrividire: il costante calo demografico che ha caratterizzato l’Italia dal positivo fenomeno del Baby-Boom, ha portato le nascite nel 2017 a sole 359mila. Poche, troppo poche per salvare il salvabile ed impedire al nostro paese una recessione inesorabile dal punto di vista demografico, finanziario e socioculturale.
Si prendano alcuni dati: «Ci si sposa sempre meno e sempre più tardi. Il confronto tra le curve dei quozienti specifici di primo-nuzialità nei vari anni mostra chiaramente sia la posticipazione sia la diminuzione della propensione alle prime nozze. In particolare, tra il 2008 e il 2017, si riduce notevolmente la quota dei primi matrimoni di spose tra 20 e 34 anni sul totale dei primi matrimoni celebrati: il peso del tasso cumulato di primo-nuzialità delle donne giovani sul tasso di primo-nuzialità totale è passato dall’82,0 per cento al 74,0 per cento. […] Di generazione in generazione aumentano le donne senza figli. Il numero medio di figli per donna calcolato per generazione continua a decrescere: si va dai 2,5 figli delle donne nate nei primissimi anni Venti (subito dopo la Grande Guerra), ai 2 figli per donna delle generazioni dell’immediato Secondo dopoguerra (anni 1945-49), fino a raggiungere il livello stimato di 1,44 figli per le donne della generazione del 1977. Un calo così marcato della fecondità ha comportato profonde modificazioni sulla composizione della discendenza finale per ordine di nascita. […] Le coppie con figli sono il 34,0 per cento del totale delle famiglie; il valore massimo si osserva al Sud (39,3 per cento), il minimo nel Nord-ovest (30,8 per cento). Seguono le coppie senza figli (il 20,5 per cento delle famiglie), maggiormente diffuse nel Nord e le famiglie di genitori soli, prevalentemente di madri sole (10,0 per cento). Per quanto concerne le famiglie composte da due o più nuclei, queste rappresentano una percentuale piuttosto esigua (1,5 per cento)».
Insomma: il nostro paese è condannato ad una discesa demografica irrefrenabile, proprio perché da troppi anni ci siamo accontentati di un figlio per coppia (se va bene). Interi paesi si sono svuotati, tanto che oggi il governo deve mendicare che gli stranieri vengano a fare i pensionati nei paesini del Meridione; non che poi nei piccoli centri del Nord si stia meglio.
Se poi a questo quadro di demenza demografica sommiamo l’omicidio predeterminato
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https://www.radiospada.org/2019/06/declino-demografico-servono-misure-per-evitare-labisso/
ARTE MUSICA TEATRO CINEMA
C’era una volta Valentina Cortese, la diva della scena. Oggi non c’è più
Evanescente, i gesti ampi, ironica, una personalità che si imponeva, per quella genialità che respirava di curiosità, di intelligenza. La divina della scena, qualsiasi essa fosse, stampava le sue interpretazioni che attraversavano il tempo, le mode, la peculiarità dei personaggi. Valentina Cortese ha tolto la sua presenza lasciando il mondo, Milano, smarriti, a riflettere quanto quel “folletto” fosse creativo, moderno, senza tempo.
Immortale a teatro, scricciolo che diventava immenso, forte nella tenerezza, violenta nella rabbia, con la voce modulata che sapeva impennarsi. Ma la classe, l’eleganza dell’anima nel privato segnavano i rapporti, la capacità di un giudizio obiettivo. “Carina” diceva spesso parlando dei “grandi” che aveva incontrato, al cinema o in teatro.
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ATTUALITÀ SOCIETÀ COSTUME
Cina, arrivano le buone maniere: i cittadini che hanno caldo non potranno più girare con la pancia all’aria
La modernità non è fatta solo di iPhone e connessioni iperveloci: è anche quella sottile forma di rispetto che impedisce alle persone di comportarsi in maniera fastidiosa per gli altri. Di fronte alla maleducazione diffusa, le istituzioni hanno deciso di reprimere e educare
Succede ogni estate: il caldo arriva nelle città e gli uomini, per non soffrire troppo, si arrotolano la maglietta sopra la pancia. Uno spettacolo ributtante e, al tempo stesso, una (ormai consolidata) abitudine cinese: è il cosiddetto “Beijing bikini”, cioè uomini che girano con il ventre (spesso capiente) al vento, senza nessun rispetto dell’estetica e della sensibilità degli altri passanti. Nei casi peggiori, decidono addirittura di levarsi del tutto la maglietta, passando dal “bikini” al “Beijing Topless”, un torso nudo che, oltre alle persone di buon gusto, ha cominciato a irritare anche le autorità.
E la reazione è arrivata: da inizio luglio a Jinan, una città cinese con 8,7 milioni di abitanti, è partito il giro di vite. Gli uomini, dice un’ordinanza, sono pregati di tenere le magliette a posto. Si tratta, a detta loro (ma chi scrive è del tutto
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https://www.linkiesta.it/it/article/2019/07/09/cina-pancia-abitudini/42802/
BELPAESE DA SALVARE
Soros e Francesco uniti nella lotta
Lisa Grazia 8 07 2019
Come abbiamo visto, Soros finanzia Arcigay in Italia, e Planned Parenthood (in Usa (l’ente pro-aborto che l’hanno scorso s’è scoperto faceva commercio di organi di feti).
Gestisce (attraverso apposite ONG) l’inondazione di immigrati in Europa, e nello stesso tempo eccita organizzazioni di minoranze etniche latinos in Usa, allo scopo di far cambiare la demografia dei collegi elettorali in modo da favorire Hillary contro Trump.
Per lo stesso scopo, paga organizzazioni razziali come Black Lives Matter (650 mila dollari) perché interrompano i comizi di Donald.
Nel maggio 2015, il consiglio direttivo in Usa della Open Society di Soros prende
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https://www.facebook.com/100011799936150/posts/752361488500509/
CONFLITTI GEOPOLITICI
I Fratelli Mussulmani come ausiliari del Pentagono
di Thierry Meyssan
Continuiamo la pubblicazione del libro di Thierry Meyssan, Sotto i nostri occhi. In questo episodio l’autore descrive come l’organizzazione terrorista dei Fratelli Mussulmani sia stata integrata nel Pentagono e inserita nella rete antisovietica, formata durante la guerra fredda con ex nazisti.
RETE VOLTAIRE | DAMASCO (SIRIA) | 5 LUGLIO 2019
GLI ISLAMISTI DIRETTI DAL PENTAGONO
Nei primi anni Novanta il Pentagono decide di accorpare tra le sue “risorse” gli islamisti, che in precedenza dipendevano esclusivamente dalla CIA. È l’operazione Gladio B, in riferimento ai servizi segreti della NATO in Europa (Gladio A [1]).
Per un decennio tutti i capi islamici – tra cui Osama bin Laden e Ayman al-Zawahiri – viaggiano a bordo degli aerei dell’US Air Force. Regno Unito, Turchia e Azerbaigian partecipano all’operazione [2]: di conseguenza, gli islamisti finora combattenti nell’ombra vengono “pubblicamente” accorpati alle forze della NATO.
L’Arabia Saudita – in quanto Stato e pure proprietà privata dei Saud – diventa ufficialmente responsabile della gestione dell’islamismo globale. Nel 1992 il re promulga una legge fondamentale in virtù della quale “Lo Stato protegge la fede islamica e applica la Sharia. Impone il bene e combatte il male. Adempie ai doveri dell’Islam […] La difesa dell’islamismo, della società e della patria musulmane è dovere di ogni suddito del re”.
Nel 1993 Carlo, principe di Galles, fa transitare l’Oxford Centre for Islamic Studies sotto il suo patrocinio, mentre il capo dell’intelligence saudita – il principe Turki – ne assume la direzione.
Londra si trasforma apertamente nel centro nevralgico di Gladio B, al punto che si comincia addirittura a parlare di “Londonistan” [3]. Sotto lo scudo della Lega musulmana mondiale, i Fratelli musulmani arabi e il Jamaat-e-Islami del Pakistan danno vita a varie associazioni culturali e cultuali intorno alla moschea di Finsbury Park. Questa struttura renderà possibile il reclutamento di molti kamikaze, a partire da quelli che attaccheranno la scuola russa di Beslan fino a Richard Reid, l’uomo delle scarpe bomba. Nel Londonistan hanno sede in particolare molti media, case editrici, giornali (al-Hayat e Asharq al-Awsat, tutti diretti dai figli dell’attuale re saudita Salman) e televisioni (il gruppo MBC del principe al-Walid bin Talal, che trasmette su venti canali), non diretti alla diaspora musulmana in Gran Bretagna, bensì al mondo arabo. L’accordo tra gli islamisti e l’Arabia Saudita viene esteso al Regno Unito: libertà totale d’azione, ma divieto d’interferire nella politica interna. Il sistema si avvale di diverse migliaia di persone e rastrella enormi quantità di denaro. Rimarrà ufficialmente in vigore fino agli attentati dell’11 settembre 2001, quando per gli inglesi sarà impossibile continuare a giustificarlo.
Abu Musab “Il Siriano”, superstite del colpo di Stato fallito ad Hama e contatto tra bin Laden e il Gruppo islamico armato (GIA) algerino, teorizza il “jihad decentrato”. Nel suo Appello alla resistenza islamica mondiale traduce in termini islamici la ben nota dottrina della “strategia della tensione”, con lo scopo di provocare le autorità e portarle a imporre una terribile repressione che costringerebbe il popolo a rivoltarsi. Tale teoria è già stata applicata dalle reti Gladio di CIA/NATO attraverso la manipolazione dell’estrema sinistra europea negli anni settanta e ottanta (Banda Baader-Meinhof, Brigate Rosse, Action directe). Naturalmente non è possibile che questa strategia abbia successo e CIA/NATO sanno benissimo che non può funzionare, visto che non è mai riuscita da nessuna parte; ma intendono comunque sfruttare la reazione repressiva dello Stato per insediare al potere i loro uomini. “Il Siriano” indica l’Europa e, soprattutto, gli Stati Uniti come prossimi campi di battaglia degli islamisti. Fugge dalla Francia dopo gli attentati del 1995 e, due anni dopo, crea a Madrid e nel Londonistan l’Islamic Conflict Studies Bureau, sul modello dell’Aginter Press che la CIA ha istituito a Lisbona negli anni sessanta/settanta. Le due grandi organizzazioni vantano un’eccelsa capacità nel preparare attentati sotto falsa bandiera (come quello di Piazza Fontana, attribuito all’estrema sinistra nel 1969 e quelli ai musulmani a Londra nel 2005).
Il consulente in comunicazione dei Fratelli Mussulmani, Mahmud Gibril al-Warfally, addestra i dittatori mussulmani a parlare un linguaggio democratico. Gibril riorganizza Al-Jazeera, indi diviene responsabile dell’insediamento di società USA in Libia, durante il regime Gheddafi, infine dirige il rovesciamento di Gheddafi.
Nello stesso periodo il libico Mahmud Gibril, professore all’Università di Pittsburgh, comincia a insegnare una lingua “politicamente corretta”. Vengono così addestrati emiri e generali di Arabia Saudita, Bahrein, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Giordania, Kuwait, Marocco e Tunisia (ma anche di Singapore). Combinando i princìpi delle relazioni pubbliche con lo studio dei rapporti della Banca mondiale,
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https://www.voltairenet.org/article206799.html
CULTURA
Alain Touraine: verità e movimento. Non basta difendere la modernità
Lo studioso francese analizza l’oggi. Ma trascura la filosofia. Il saggio dedicato ai meccanismi delle società attuali
tradotto in Italia da Raffaello Cortina Editore
Emanuele Severino – 8 luglio 2019
Dove conduce la modernità? Che implicazioni presenta il suo rafforzarsi, sempre più crescente? Si tratta di «capire la storia del soggetto dell’ipermodernità, che si è allontanata molto da quella preoccupazione della verità che era centrale per i greci»: «Le loro impareggiabili creazioni intellettuali si collocano nell’universo delle società d’ordine, non nell’universo delle società di movimento». Questo, il progetto che sta al centro anche dell’ultimo libro del sociologo Alain Touraine, In difesa della modernità (pagina 115), uscito in Francia l’anno scorso e ora tradotto da Rosella Prezzo per Raffaello Cortina Editore. Il progetto è, insieme, una «difesa». E si può dire che, sia pure variamente modulati, l’uno e l’altra formino l’atteggiamento dominante della cultura attuale. «Società d’ordine» (che si prolungano oltre la grecità fino al XIX secolo) sono quelle che si conformano a una «verità» da esse ritenuta immutabile e che è appunto l’ordine inviolabile; «società di movimento» quelle in cui l’uomo (il «soggetto») non crede più nell’esistenza di tale ordine, da ultimo fondato su Dio.
Il saggio di Alain Touraine, «In difesa della modernità», è pubblicato da Raffaello Cortina Editore (traduzione di Rosella Prezzo, pagine 306, euro 26)
Ora, se un sociologo analizza le connessioni che costituiscono la storia dell’Occidente (e l’analisi di Touraine è estremamente ricca, articolata, suggestiva), egli si mantiene entro i confini della sociologia; ma quando la sua diventa una «difesa della modernità», cioè una critica della «verità» che i pensatori greci hanno per primi portato alla luce, allora la sua diventa una filosofia che per difendere il «movimento» — il divenire, la storia, il tempo — sostiene l’inesistenza di ogni verità immutabile. Ma allora ci si aspetterebbe di vedere come questa inesistenza sia sostenuta. E si resta delusi, perché Touraine, dopo la puntata in campo filosofico di cui si è detto, ritorna alla sociologia e descrive sì che cosa è accaduto nel modo di pensare delle società occidentali a proposito dell’«ordine» e del «movimento», ma lo descrive prescindendo da ciò che la filosofia ha pensato di essi. E se Touraine ribattesse che esiste, appunto, la sua «difesa della modernità», si dovrebbe rispondere, mi sembra, che tale difesa non può avere alcuna «verità» e che pertanto o è una congettura, un’ipotesi, oppure è soltanto la volontà, il proposito di far prevalere la modernità. E dunque chiederei: se le società occidentali vanno sempre più allontanandosi dall’Ordine divino, perché non ci si può domandare se questo processo sia un errare o l’opposto dell’errare? Riprenderemo alla fine questo ordine di considerazioni.
L’«ipermodernità» di cui parla Touraine è la forma più alta del «movimento»: è la
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Le parole e i corpi, di Maria Luisa Boccia
Chiara Giorgi – 21 GIUGNO 2019
Il libro di Maria Luisa Boccia, «Le parole e i corpi» (Ediesse, 2018), è stato presentato oggi, venerdì 21 giugno alle 19.30, alla Libreria Fahrenheit 451, Campo de’ Fiori 44, Roma. Intervengono con l’autrice Manuela Fraire (psicanalista) e Alberto Leiss (giornalista).
«Vogliamo partecipare ad un mondo, così com’è, con le sue cerimonie, le sue istituzioni, le sue regole, i suoi scopi, più o meno giusti o buoni?». È a questa «inattuale» domanda formulata da Virgina Woolf nelle Tre Ghinee che l’ultimo libro di Maria Luisa Boccia offre risposte fondamentali, consegnandoci una vera e propria bussola per orientare quante agiscono e pensano a partire da quella differenza che «non si lascia tacitare», che «continua a inquietarci, a richiedere una nostra significazione, altra da quella tradizionalmente ricevuta». Interpellata dalla marea femminista di Non una di Meno che da tempo inonda le strade del mondo, come da tutte quelle pratiche femministe che si esprimono in una composita realtà di gruppi, associazioni, centri operativi nei luoghi e negli ambiti più diversi dell’esperienza, Boccia dà conto nei suoi scritti di quel femminismo della differenza sessuale di cui è stata ed è una delle più importanti protagoniste nel panorama italiano e internazionale.
Ripercorrerne i motivi, le figure, la portata, gli assunti, è infatti il gesto che le consente di mettere in relazione «questo» femminismo con altri femminismi, «per riflettere – come scrive nell’introduzione – sulle politiche comuni tra femministe differenti». Se è infatti possibile una declinazione plurale del femminismo, a patto di non intendere i femminismi come sistemi di pensiero finiti e alternativi tra loro (il che ne esaurirebbe la portata rivoluzionaria, trasformativa ed «eccedente»), a connotare la generalità del femminismo è il suo «aver creato un altro modo di «nominare le cose». Comune alle sue pratiche e parole è stato e continua ad essere la «mossa» di dare parola ai corpi, di pensare a partire dai corpi, di fare del corpo pensante e del pensiero incarnato il centro dell’agire, la chiave della riflessione, il motore della trasformazione di sé e del mondo, simbolica e sociale. Proprio il corpo pensante ed il pensiero incarnato sono per Boccia i due modi di nominare, e praticare la differenza sessuale.
Da qui anche l’evocativo titolo del libro: Le parole e i corpi (Ediesse, 2018), composto di scritti selezionati che coprono un arco temporale di circa venti anni (dal 2000 al 2018), di cui l’autrice rintraccia un filo rosso capace di guidare la lettrice e il lettore in una appassionante narrazione filosofica e politica. A uscirne svelata è la forza costituiva di un pensiero e di una pratica, appunto la differenza sessuale, divenuta significante e non mero contenuto del discorso, la quale consente di riformulare le categorie moderne e contemporanee della politica, di agire differentemente, di cambiare nel profondo il modo di pensare delle donne, come anche degli uomini, di offrire «una
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DIRITTI UMANI – IMMIGRAZIONI
LA CATTIVERIA DEI PIÙ UMANI
Conflitti E Strategie – 9 luglio 2019
Il salvataggio con speronamento di motovedette e forzatura dei blocchi portuali, l’ospitalità obbligatoria imposta al popolo italiano, l’integrazione a via di calci in culo, non a chi arriva senza invito ma a chi accoglie coartato, la solidarietà parolaia dei radical chic a spese della gente comune, sono le armi del buonismo che sta provocando la guerra sociale. Auspicano il caos ed il disastro collettivo perché non sanno più dove aggrapparsi per mantenere il potere, considerato che gli elettori non li vogliono, non li votano e mai più li sceglieranno per guidare le istituzioni. La cattiveria dei buoni non ha limiti e non ammette contraddittorio perché il bene deve vincere sul male anche a costo di essere ancora più odioso. Non a caso è proprio il Papa il simbolo di questa deriva autoritaria della pietà che non accetta opinioni differenti. Si muore di lavoro, di debiti, di conflitti, di malattie, di carestie ma per Sua Santità esistono solo i poveracci che solcano il mare in cerca di fortuna, il resto vale meno, è solo disperazione di seconda o terza scelta.
Eppure, questi clandestini si pagano uno scomodo viaggio a suon di migliaia di dollari, non sembrano aver patito la fame e negoziano i loro “passaggi ad ovest” con trafficanti di carne umana, i quali grazie alla staffetta con navi ONG, che si incaricano dell’approdo sicuro, evitano anche l’arresto. Ed il ciclo ricomincia impunito. La produzione di migrazioni ha una organizzazione efficiente e
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NOVELLA ANTIGONE?
Giovanni Bernardini 1 07 2019
Qualcuno dice che Karola Rackete forzando il blocco abbia compiuto un atto di disubbidienza civile. Novella Antigone la “capitana” ha sfidato le leggi dello stato per affermare un superiore principio di giustizia. La cosa può piacere o non piacere la ma signora Rackete va ammirata.
Francamente una simile tesi non mi convince.
Chi compie un atto di disubbidienza civile afferma chiaramente di voler violare la legge. Non fa appello a corti di giustizia o a tribunali amministrativi. Non cita articoli del Codice penale o di questa o quella convenzione internazionale, non si rifà ad alcuna costituzione. Non invoca “situazioni eccezionali” o “stati di necessità”.
Si dichiara colpevole del reato che gli viene contestato, rivendica con orgoglio la propria colpevolezza e chiede di essere CONDANNATO. Vuole che la sua condanna apra un dibattito sulla giustizia o meno della legge che ha violato, stimoli un movimento mirante alla sua abolizione. Solo se questo movimento vince il disubbidiente civile potrà tornare libero.
Il disubbidiente civile contrappone la MORALE alla LEGGE, la GIUSTIZIA alla LEGALITA’.
Proprio per questo la disubbidienza civile è una forma ammirevole di lotta che però va usata, letteralmente, col contagocce. Può valere nei confronti di stati totalitari, di palesi, evidentissime violazioni di fondamentali diritti umani, oltre
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BARCHINI
Giovanni Bernardini – 4 luglio 2019
Un tempo neppure ne davano notizia, ora li pubblicizzano al massimo.
Si tratta dei mini-sbarchi, dei migranti che arrivano da noi sui “barchini”.
Perché li pubblicizzano? A me sembra evidente. Il messaggio che cercano di far passare è questo: “Vedete, quel cattivone di ministro dell’interno strilla tanto contro le ONG ed intanto i migranti arrivano lo stesso, sui barchini! La sua è solo propaganda!!!”
Ma che bello!
Cosa volete care anime belle? Che il ministro dell’interno impedisca ai barchini di toccar riva in qualche spiaggia siciliana?
Volete che costringa una barchetta a restare in alto mare?
Se un migrante arrivasse a nuoto fino a Lampedusa Salvini dovrebbe impedirgli di toccar terra?
Possibile che non capiate la differenza fra NAVI ONG che vanno a raccogliere i migranti al limite, se non dentro, le acque territoriali libiche e barchette che riescono a raggiungere l’Italia con mezzi propri?
Certo, anche i mini sbarchi vanno combattuti. Probabilmente occorrerebbe un blocco navale, nulla di eccezionale, lo fece a suo tempo il governo PRODI!
Occorrerebbero leggi che, nel rispetto dei fondamentali diritti umani, permettessero
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TUTTA LA VERITÀ
Giovanni Bernardini – 3 luglio 2019
Vogliamo dircela una volta per tutte la verità?
Dobbiamo smetterla di parlare di naufraghi e naufragi.
Un naufragio è un evento eccezionale. Parto con una nave da Genova diretto a Cagliari e sono ragionevolmente certo che quella nave mi porterà a destinazione. Avviene un incidente, la nave affonda, altre navi ci soccorrono.
Titanic, Andrea Doria, Costa concordia, London Valour:
quelli sono stati naufragi.
Il caso dei migranti è completamente diverso.
Partono su imbarcazioni insicure per recarsi clandestinamente in Europa ed in Italia. Nessuno di loro crede che la barca su cui sale lo porterà sino a destinazione. Dopo un po’ le loro imbarcazioni sono intercettate dalle navi ONG che li trasbordano e li portano a destinazione, cioè, quasi sempre in Italia.
Questo non è soccorso a naufraghi, è aiuto all’immigrazione clandestina.
Dobbiamo smetterla di parlare di profughi.
Un profugo potrebbe rivolgersi all’ambasciata di un paese democratico e presentare il
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ECONOMIA
L’Italia è meglio di quanto si dice: 10 prove lo dimostrano
Scritto il 11/7/19
“Dieci falsi miti sull’economia italiana” è il titolo del paragrafo iniziale di un volumetto che la Fondazione Edison ha realizzato in occasione dei suoi vent’anni di vita. Si tratta di sfatare alcuni luoghi comuni che vorrebbero il paese in ginocchio e incapace di rialzarsi. Può darsi che il testo sia viziato da un eccesso di ottimismo, ma non c’è dubbio che se l’Italia resta la seconda manifattura d’Europa e una delle prime potenze industriali al mondo qualcosa di vero ci sarà. Per prima cosa, dunque, non siamo il malato d’Europa che molti credono: non solo per il secondo posto nella manifattura dopo la Germania, ma anche per esibire il più alto valore aggiunto nel settore agricolo. Nell’ambito del G7 (2° punto) il Pil pro capite degli italiani è cresciuto più della media del gruppo e per quanto riguarda la competitività (3° punto) l’Italia se la batte con i concorrenti più virtuosi generando il quinto maggior surplus commerciale al mondo. Gli investimenti in macchinari e in mezzi di trasporto (4° punto) non sono la Cenerentola che la vulgata accredita, tutt’altro. E con riferimento alle spese per ricerca e sviluppo nei campi del tessile e dell’abbigliamento, delle calzature e dei mobili, (5° punto) siamo addirittura primi in tutta l’Unione.
Abbiamo inoltre la capacità di sfidare i mercati internazionali (6° punto) nonostante la piccola dimensione delle nostre imprese (il che non vuol dire che non si debba crescere). Il Made in Italy è uno dei marchi più famosi al mondo
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https://www.libreidee.org/2019/07/litalia-e-meglio-di-quanto-si-dice-10-prove-lo-dimostrano/
Anche i marchi hanno paura dei social
L’ultimo è stato Louis Vuitton, che ha ritirato la collezione ispirata a Michael Jackson. Un atteggiamento costruttivo?
di Silvia Schirinzi 19 Marzo 2019
L’avrete notato, no, che si intensificano a dismisura gli scivoloni offensivi dei marchi di moda sui social, rimbombati fino a raccogliere le defezioni e i boicottaggi di attori, registi, account di denuncia e utenti che non sapremo mai stabilire, a meno che non ci costruiscano un algoritmo apposito, quanto incidano per davvero su chi compra e che cosa compra. Se il caso recente di Dolce & Gabbana in rotta di collisione con la Cina tutta ci insegna qualcosa, d’altronde, è che nell’epoca dell’accountability (e cioè dell’obbligo a prendersi la responsabilità delle proprie azioni) a mezzo Instagram non c’è tempo e non c’è spazio per scusarsi sommariamente, perché bisogna essere tempestivi, esaustivi, convincenti. L’ultimo a cascarci è stato Louis Vuitton, che ha deciso di non mandare in produzione tutti i capi e gli accessori ispirati a Michael Jackson presenti nell’ultima collezione maschile. Il motivo? Le polemiche che hanno accompagnato l’uscita del documentario Leaving Neverland, che hanno costretto il direttore artistico Virgil Abloh, che fino a due mesi prima aveva scelto di celebrare Jackson con la sua collezione, a fare retromarcia: «Con la mia sfilata mi sono ispirato a Michael Jackson come artista e protagonista della cultura pop. Ho fatto riferimento solo alla sua vita pubblica, di cui sappiamo tutto, e all’eredità che ha lasciato come artista, che ha influenzato un’intera generazione di artisti e stilisti. Mi rendo conto che, dopo la messa in onda del documentario, quella stessa sfilata ha causato reazioni emotive. Condanno con forza ogni forma di abuso sui bambini, di violenza e di violazione dei diritti umani», si legge nella nota ufficiale.
Nel tempo ci sono cascati, in ordine sparso, Prada con un portachiavi a forma di scimmia, ritirato dal mercato con scuse a profusione, Gucci con un passamontagna che sembrava black-face (era un omaggio al lavoro sul travestitismo di Leigh Bowery, ma questa è un’altra storia), Burberry con un cappio al collo (francamente non necessario) comparso nella seconda collezione di Riccardo Tisci e accusato di feticizzare il suicidio. Nel 2016, anche Moncler aveva dovuto scusarsi per una collezione di felpe e t-shirt che ricordavano le bambole golliwog del XIX secolo, giocattoli controversi che scimmiottavano le persone di origine
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https://www.rivistastudio.com/louis-vuitton-michael-jackson/
FINANZA BANCHE ASSICURAZIONI
Dal blockchain alla finanza etica
Alessandro Messina – 1 Luglio 2019
Il mondo delle criptovalute, dalla antesignana Bitcoin al possibile, ma non probabile, lancio di Libra da parte di Zuckerberg, e le comunità della blockchain. Quale sarà il loro sviluppo, l’impatto sulle banche e che tipo di opportunità possono rappresentare per la finanza etica.
DLT, blockchain e Bitcoin
Come tutte le innovazioni, e in particolare quelle che nascono dal basso, anche la Distributed Ledger Technology (DLT, tecnologia dei registri distribuiti, o diffusi), di cui la blockchain è specifica declinazione, ha un grande potenziale libertario di (i) democratizzazione e (ii) redistribuzione del potere, nel caso specifico con riferimento alle modalità di accesso al web, ai suoi mercati, alle transazioni che – sempre più copiose – esso ospita e determina.
In estrema sintesi e semplificazione, la tecnologia blockchain consente di dare certezza, sicurezza, controllo diffuso allo scambio di informazioni che girano sul web, generando così un sistema autogestito, in cui chiunque in teoria può entrare, che non necessita di autorità – pubbliche o private – delegate a supervisionarne processi e modalità di funzionamento.
Il mondo si è accorto dieci anni fa di questa concreta applicazione ai processi digitali dell’utopia anarchica, con la nascita del Bitcoin, criptovaluta che è parte integrante (la più famosa e rilevante, tra le molte) della logica blockchain. E subito dopo si è trovato ad interrogarsi se, come già accaduto in passato per altrettanto ottime idee dalle altrettanto ottime intenzioni, non si stia mettendo tale dirompente potenziale al servizio solo (o soprattutto) di loschi traffici e oscure community.
Il Bitcoin è un vero e proprio asset digitale non replicabile, un “nuovo oro” dice qualcuno con molta enfasi, che corre parallelo ai circuiti economici ufficiali, ed è così inevitabile che eserciti potente forza di attrazione su chi – al meglio – è alla ricerca di facili e veloci profitti e – al peggio – si mescola con attività illegali o criminali.
Ma le criptovalute sono anche molto di più: 35 milioni di utenti unici (e verificati) non possono essere tutti speculatori o parte di una gang del narcotraffico…
I dubbi (e le preoccupazioni) delle autorità
Non è questa la sede per approfondire se e quando (e quanto) le criptovalute potranno diventare vera e propria moneta. Al di là della bolla mediatica prodotta da Libra, il progetto di Facebook, di cui tanto ancora si deve comprendere, sono molti i dubbi sulla natura di questi strumenti, di tipo funzionale prima ancora che giuridico. Secondo un recente studio di Banca d’Italia1:
- non soddisfano la definizione di attività finanziaria in quanto non forniscono, ad esempio, al possessore un diritto contrattuale a ricevere disponibilità liquide o un’altra attività finanziaria da un’altra entità;
- l’elevata volatilità di prezzo non le rende equivalenti alle attività liquide simili a “moneta”;
- quelle convertibili a tasso di cambio fluttuante non hanno le caratteristiche della moneta legale (“fiat money”), in primo luogo il potere liberatorio.
Tali considerazioni non hanno comunque impedito al Comitato di Basilea, recentemente, di inserire le cripto-valute tra le informazioni che le banche devono monitorare e presidiare nell’ambito dei rischi di mercato, di credito, di controparte e di liquidità2.
Dalle criptovalute agli smart contract
Dopo pochi anni dall’arrivo del Bitcoin nasce Ethereum, declinazione ben più ampia delle potenzialità delle DLT. Ethereum, infatti, non solo ha una sua criptovaluta (che si chiama Ether) ma a differenza del “banale” processo sottostante i Bitcoin, rappresenta anche un vero e proprio ambiente virtuale o convenzionale, una piattaforma di scambio da cui possono generarsi (e appunto essere transati) pacchetti di dati criptati (chiamati token), non modificabili, personalizzabili, scambiabili all’interno di sotto insiemi o sotto ambienti programmati per gli usi più diversi, i c.d. DAPPS (decentralized applications).
Questa architettura costituisce la base su cui costruire e far sviluppare gli smart-contract, ossia sistemi del tutto digitali e massimamente affidabili di scambio e negoziazione: se tutto andrà secondo le previsioni dei più fiduciosi, ciò decreterà la fine dei notai, dei catasti, delle anagrafe pubbliche e…tanto altro3.
L’esplosione delle ICO
La storia di Ethereum è emblematica del mondo blockchain anche per come nasce e si finanzia: attraverso una Initial Coin Offering (c.d. ICO) sono stati raccolti in modalità crowd – ossia in modo del tutto libero e distribuito sul web – circa 18,5 milioni di dollari (espressi in Bitcoin: 31.500 alla quotazione del settembre 2014), che hanno consentito tra 2014 e 2015 di coprirne i costi di sviluppo.
Oggi le ICO sono un processo ordinario di finanziamento di progetti di sviluppo in ambito blockchain, laddove sintetizzano i meccanismi di rappresentazione (prima) e accumulazione (dopo) del valore (potenziale o attuale) dell’iniziativa, mentre per quanto detto il meccanismo transazioniale è costituito dai token, e la “contabilità” di tutto è (appunto) la blockchain, o DLT. Ogni giorno vi è qualche ICO aperta, per i fini più disparati: giochi, sanità, sistemi di pagamento, investimenti, monete alternative, ecc4.
Consumo energetico e governance dietro le DLT
Non va sottovalutato il tema “energetico” connesso a tutto il funzionamento delle “catene” dei singoli algoritmi che determinano i “blocchi” crittografati5. Secondo un recente studio dell’Università di Cambridge, il consumo energetico annuo collegato a blockchain e criptovalute è tra 52 e 111 TWh, considerando che 82TWh è l’equivalente del consumo energetico del Belgio e rappresenta meno dello 0,01% del consumo energetico globale annuo6.
Nessuno ha mai fatto un calcolo di tale saldo saldo al netto dell’energia liberata: basti pensare alla carta non stampata, al mancato spostamento fisico di cose e persone, alla maggiore efficienza di ogni transazione a livello globale.
La valutazione del tutto intuitiva – e che pertanto lascia il tempo che trova – di chi scrive è che tale saldo possa essere positivo per l’umanità e il pianeta.
Vero è che l’impatto del processo computazionale, sempre più dispendioso col crescere del network globale di funzionamento della blockchain, sembra porre invece temi rilevanti in termini di governance. Infatti, il crescente costo delle attività di calcolo (l’estrazione di dati) ha portato alla nascita di forme di “cartelli” (pool) tra operatori, al fine di raggiungere economie di scala, così da determinare il rischio che pochi soggetti a livello globale ne detengano una rilevante quota, cosa che sarebbe in palese contrasto con la stessa filosofia alla base di ogni DLT. Secondo il citato studio della Università di Cambridge, però, tale eventualità appare sopravvalutata e l’attività di estrazione (mining) è in realtà meno concentrata di quanto percepito.
La scelta di Facebook di porre la propria criptovaluta in mano ad un trust nonprofit pare voler rispondere proprio a questo tipo di preoccupazioni, più che legittime se invece di un cartello di anonimi miners ci si trova davanti ad una delle aziende più potenti del mondo, ma rischia di non essere sufficiente a rassicurare le autorità mondiali, oltre che certamente scontentare le community blockchain per la chiara (e un po’ arrogante) violazione della visione sociale sottostante le DLT7.
L’impatto sulla finanza
L’impatto della tecnologia DLT sarà evidentemente significativo per il mondo delle banche e della finanza, e si inserisce in una fase storica in cui già, dopo la grande crisi finanziaria globale del 2008, tutta l’industria bancaria è fortemente ingaggiata in un permanente cambio di paradigmi organizzativi e tecnologici. Chiudono le filiali, si globalizzano i mercati, si moltiplicano le forme di interazione a distanza con il cliente, nuovi player iper-specializzati entrano nel mercato, offrendo sub-segmenti di servizi un tempo tipici delle banche (i pagamenti, gli investimenti, il credito, o loro ancora più specifiche declinazioni).
Il caso dell’Italia è emblematico.
Le banche della penisola hanno speso nel corso del 2017 (ultimo anno disponibile) circa 4,5 miliardi di euro per investimenti e ammortamenti in ambito tecnologico. Si tratta di una spesa fortemente in crescita (+5,7% su base annua).8
Esaminando la ripartizione di tali costi per aree funzionali, si nota che circa la metà (46,9%) è assorbita dai processi di Operations, a conferma di quanto rilevato per i precedenti esercizi, in ulteriore lieve crescita; seguono i Processi di supporto (23%) e i Processi di marketing, commerciali e customer service (20,2%) e i Processi di governo (9,9%).
Ne consegue che oggi le banche italiane spendono più di 2 miliardi di euro l’anno (ossia più dello 0,1% del Prodotto interno lordo) per garantire le loro funzionalità basiche: bonifici, finanziamenti, gestione conti correnti, ecc.
Proprio questo appare il principale spazio di (potenziale) intersezione tra le esigenze crescenti di ridurre tali costi, nella necessità di accrescere la marginalità sempre più ridotta dalla curva piatta dei tassi (e dalla feroce concorrenza), e le opzioni di sperimentazione nell’ambito blockchain da parte dell’industria bancaria.
Alcuni tra i più grandi operatori di mercato hanno previsto (ormai 3 anni fa) le prime sperimentazioni in 2-3 anni (in ambiti semplici e bilaterali, come i pagamenti internazionali), dopo altri 5 anni i primi casi più complessi (con più attori, come la finanza) ed entro i 10 successivi una operatività quasi piena (o almeno potenzialmente tale) basata su tecnologie blockchain9.
Considerata la velocità con cui negli ultimi anni le tecnologie si sono affermate, c’è da scommettere che se il blockchain avrà un futuro nell’industria bancaria, sarà con tempi più rapidi di questi. E sarà su scala globale.
Le opportunità per un mercato dei servizi bancari più plurale
Difficile fare previsioni. La fase è veramente dirompente. E ricca di opportunità.
Per il miglioramento dei servizi, una più ampia accessibilità dell’offerta, la sicurezza delle transazioni, per l’intero mercato.
Ma anche per un particolare aspetto di rilievo, significativo ai fini del pluralismo delle forme e della concorrenza bancaria. Si tratta del contenimento degli oligopoli informatici. Infatti, il peso crescente delle nuove tecnologie, come visto, condiziona ogni scelta strategica e operativa delle banche. Avere il controllo della leva tecnologica è dunque cruciale per mantenere autonomia progettuale e capacità competitiva in mercati sempre più rapidi e interconnessi.
Per le piccole banche questo significa spesso essere tagliate fuori dalle principali opportunità, perché costrette a contare su outsourcer molto più grandi di loro, che impongono tempi e condizioni dello sviluppo (e a volte sono anche in conflitto di interesse perché controllati o influenzati da banche concorrenti).
Ciò vale a livello paese (banche locali che tendono a sparire) e a livello internazionale (reti di banche che tendono a consolidarsi).
Per quanto concerne l’Italia basti pensare a quanto angusti siano in prospettiva gli spazi di mercato tra riforma del credito cooperativo (300 operatori ridotti a…3), crisi del modello di banca popolare (fallimento delle venete, Etruria, la crisi di Bari….e obbligo normativo di trasformazione in Spa per quelle con attivo superiore a 8 miliardi, che continuerà a portare a fusioni e concentrazioni “di diritto”), cattiva gestione di alcune vecchie banche pubbliche ora con poca o nulla prospettiva (dal Monte Paschi di Siena alla Cassa di risparmio di Genova).
Il tema, come è ovvio (o dovrebbe essere) data la natura del credito, non riguarda solo le banche come imprese, ma coinvolge seriamente prospettive di sviluppo del paese e capacità di gestire in modo efficace il risparmio delle famiglie.
Gli studi di Banca Etica registrano già oggi la vasta area di esclusione finanziaria che affligge l’Italia (in rapporto agli altri europei) e, al suo interno, molte regioni e territori10. Le citate dinamiche di grande concentrazione del settore, che vanno a colpire proprio le banche più prossime ai territori e alle fasce di clientela più vulnerabili (che attraversano ormai tutto il corpo sociale e imprenditoriale), portando alla riduzione del loro presidio diretto, potrebbero esasperare ulteriormente il problema dell’accesso ai servizi finanziari e in particolare al credito.
Il potenziale delle nuove tecnologie in tal senso sarà fondamentale. E potrà giocare un ruolo mitigante o accelerante tali squilibri. Si pensi al caso delle rimesse, i cui costi sono ancora incredibilmente alti nonostante le tante dirompenti innovazioni tecnologiche degli ultimi anni. Bisogna trovare il modo, efficiente e sicuro, di utilizzare le DLT per offrire servizi a basso costo a chiunque voglia trasferire denaro nel mondo11.
Dal punto di vista della finanza etica, perciò, è evidente che la partita si giocherà
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http://sbilanciamoci.info/dal-blockchain-alla-finanza-etica/?spush=bG9wcmVzdGltYW5saW9AZ21haWwuY29t
GIUSTIZIA E NORME
Sea Watch. Denunciata la Gip di Agrigento, Alessandra VELLA
Riportiamo la denuncia presentata alla Procura della Repubblica di Caltanissetta contro il Gip di Agrigento, Alessandra VELLA
VIDEO QUI:
http://www.imolaoggi.it/2019/07/08/denuncia-gip-di-agrigento-intervista-a-ornella-mariani/
Della Porf. Ornella Mariani
ALLA PROCURA DELLA REPUBBLICA di CALTANISSETTA
La sottoscritta MARIANI FORNI Ornella, nata a xxxx il xxxx e residente in Benevento alla via xxx,
PREMESSO
che l’ordinanza di scarcerazione di Carola Rackete, Comandante della nave o.n.g. Sea Watch 3, emessa dal GIP della Procura della Repubblica di Agrigento Alessandra VELLA, appare basata su presupposti giuridicamente errati;
che gli Immigrati da Costei imbarcati non erano Naufraghi, ma Soggetti con destinazione predefinita;
che il reato di resistenza e violenza da Ella opposto a nave da guerra italiana avrebbe potuto degenerare in un drammatico evento in danno di Servitori dello Stato;
che il Segretario di Stato olandese per le migrazioni Ankie Groekers- Knol, prendendone le distanze, ha riconosciuto i gravissimi delitti commessi dalla Rackete;
che non può essere sfuggito al GIP:
- a)l’intenzionalità della Racketenel restare quattordici giorni in mare pur nella consapevolezza di potere, nello stesso arco temporale, raggiungere porti tunisini, algerini, marocchini, portoghesi, spagnoli, francesi, maltesi, albanesi, egiziani, croati etc.;
- b)la sua determinazione a compiere un’azione politica estranea all’esercizio di un dirittoe distante dall’onere di un dovere e ad arrecare un violento e deliberato insulto alle Autorità italiane ed ai Finanzieri, la cui vita metteva a repentaglio con manovra intenzionale di stampo criminale, rivelandosi socialmente pericolosa: l’ordine di accensione dei motori laterali, mirava a schiacciare la motovedetta della G.d.F. e la scriminante di cui all’art.51 appare uno scardinamento delle norme attraverso false premesse in Fatto e in
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http://www.imolaoggi.it/2019/07/05/sea-watch-denunciata-la-gip-di-agrigento-alessandra-vella/
Alessandra Vella
Gianfranco La Grassa 3 07 2019
Molto bene. Questa Alessandra Vella – una giovanetta priva di sprint, una sorta di gemella di Carola – ha scelto di superare in vergogna la solita magistratura “di sinistra”.
La “capitana” non ha commesso nessun reato, nemmeno conta che a momenti accoppava alcuni della guardia costiera. L’umanità – falsa e orrenda maschera di una ormai irrimediabile degenerazione politica – giustifica qualsiasi azione contro l’intero nostro paese. D’altra parte, come sempre accade, in questa popolazione si annidano anche folti gruppi di traditori.
Per rigenerare una società, si deve arrivare allo scontro e alla definizione di quali sono i rapporti di forza. Continuare a lamentarsi ormai annoia. Del resto, anche sul piano dei rapporti con la UE si continua a fare la voce grossa e poi si accetta l’austerità. Si è ridiscesi al 2,04% del rapporto deficit/Pil. E allora, mi dispiace, ma manifesto dubbi assai forti verso gli economisti entrati nella Lega e che pensavo fossero un buon punto di resistenza. Troppe chiacchiere. Basta cercare consensi elettorali. Occorre l’azione forte.
Quanto alle nomine, al posto di Draghi (su cui ho già detto molto a partire dal 1999) va la Lagarde, una ignorantissima e forsennata liberista. Bene che abbiano mandato a cagare Timmermans al posto di Juncker, ma si deve andare ben oltre.
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https://www.facebook.com/1535134691/posts/10214733436919612/
MAGISTRATI
Giovanni Bernardini – 2 luglio 2019
Non mi stupisce affatto che la “capitana” sia libera.
Alcuni degli uomini politici che hanno assunto ed assumono le posizioni più estremistiche erano magistrati: Ingroia, De Magistris, Di Pietro.
Le virtù principali di un magistrato dovrebbero essere l’imparzialità e l’equilibrio. Un magistrato estremista è una contraddizione in termini. Eppure, ce ne sono, e non pochi.
Sono semplicemente ridicole a questo punto le litanie sulla indipendenza della magistratura, le formulette rituali: “confidiamo nella giustizia” eccetera.
Formulette tanto più insopportabili se si pensa allo scandalo enorme che coinvolge il CSM.
Quello che viene presentato come il supremo garante della autonomia della magistratura è un organismo dichiaratamente politico, pesantemente condizionato dai partiti, anzi, DA UN PARTITO.
Le assegnazioni vengono decise non in base alle necessità delle sedi ed alla
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L’IMPUDENZA DI UNA CANDIDATURA
29 giugno 2019 Mauro Mellini – Ex componente C.S.M.
La decisione di Mattarella di non sciogliere il Consiglio Superiore della Magistratura sconvolto dalle vicende del c.d. “caso Palamara”, ma di rattopparlo con l’elezione di due Consiglieri in sostituzione dei dimissionari Spina e Lepre ha, proprio con la prima candidatura ad uno dei posti in palio, evidenziato che il rimedio è peggiore del male.
Per sostituire dei dimissionari, coinvolti in beghe e chiacchiericci per l’occupazione del posto direttivo, si candida il protagonista della più sfacciata, vergognosa operazione di condizionamento per una nomina ad un posto in un Ufficio Giudiziario pretesa ed ottenuta dal protagonista di quella vicenda che oggi si candida con dichiarazioni che si stenta a credere possano essere fatte proprio da lui, primatista indiscusso di maneggi per un posto alla Procura Nazionale Antimafia, e per giunta, con l’applicazione alla Procura di Palermo di sua provenienza, così da figurare in trasferta rimanendo al suo posto.
A Nino Di Matteo l’offerta della candidatura è venuta dalle correnti di Davigo, già nel “pool di Mani Pulite”, noto per le sue dichiarazioni sulla presunzione universale di colpevolezza. Naturalmente “grande moralizzatore”.
In un’intervista (non a caso) al “Fatto Quotidiano”, il “Cittadino di Cento Città” espone un programma “alla moda”, contro le correnti (le altre) dell’A.N.M., “divenute “cordate di potere”, non solo interne ma anche esterne alla Magistratura” etc. etc.
Anche se le elezioni suppletive al C.S.M. non possono formalmente essere considerate parte del “caso Palamara”, è da questo che sono derivate le dimissioni alle quali si “rimedia” con le elezioni “suppletive” che si terranno in ottobre.
Il “Caso Palamara”, che, poi non è affatto un caso né tanto meno cosa limitata al comportamento di Palamara è, in sintesi, lo scandalo di maneggi tra Magistrati dell’A.N.M. e politici (anche ex magistrati) per l’assegnazione di posti al vertice di importanti Uffici Giudiziari. Brutta cosa, è vero. Uno scandalo. Che io, però mi rifiuto di considerare solo riconducibile ad una “questione morale”, perché, in realtà si tratta di una questione di ruoli e funzioni istituzionali e costituzionali.
Chi si candida per “rimediare” a questa sconcertante situazione, per una nuova vita del C.S.M. che faccia dimenticare (!!!) la bruttissima pagina?
Si candida il protagonista della più sbracata, teatrale e, francamente indecente
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http://www.lavalledeitempli.net/2019/06/29/matteo-andra-al-c-s-m-limpudenza-candidatura/
LAVORO PENSIONI DIRITTI SOCIALI
Working it (mettercela tutta?)
Guglielmo Ragozzino – 28 giugno 2019
Nell’anno del suo centenario l’Ilo pubblica una radiografia dei 3,3 miliardi di lavoratori, il 58% della popolazione mondiale. Molto al di sotto di quella potenziale.
Non sempre le prime pagine di The Economist sono allegre. Quella di fine maggio 2019 era però colorata e attraente e accompagnava il titolo “The great jobs boom” che chiedeva attenzione. Boom dei lavori, proprio quando il lavoro in Italia è oggetto di diffuse preoccupazioni, per il passato, il presente e l’incerto futuro? Tra l’altro c’è un vago ricordo che il settimanale faccia capo al gruppo Agnelli, un tempo italiano. Tornando a “The great jobs boom” dell’illustrazione, vi erano rappresentati uomini e donne, attivi nei servizi di ogni genere e sorta e nell’attività edilizia, una scolaresca a un incrocio, un gig-pizza in moto, redarguito da un agente del traffico, un funerale d’alto bordo, una ballerina con un severo costume a righe, un giudice in tocco e toga, un carcerato nel vestito di prammatica, fotografi dappertutto e artisti vari, una nave al bordo del porto con uno sfondo di grattacieli e gru in buon numero; e molto altro ancora che chi vuole può immaginare da sé pur senza vedere l’immagine, ma entrando nello spirito.
Sospetto italiano
Leggendo il testo collegato all’affresco di copertina con il titolo working it, (come dire: se ci provi, funziona!) sembra chiaro che il boom e il connesso racconto riguardi solo il pubblico dei lettori che contano, quelli che sanno apprezzare il successo capitalistico. Sono in fondo quelli che per partecipare cominciano a leggere l’antico periodico: Usa, Londra, Europa ricca di Francoforte, Amsterdam e dintorni. E poi la finanza, la pubblicità degli affari che mostrano i casi e le scelte di acquisto dei ricchi. Non c’è l’Italia, non tutto il Sud dell’Ocse. L’Italia non interessa; è citata malvolentieri, nel testo di appoggio, come economia in controtendenza, disordine da evitare. Per quanto riguarda poi le altre economie del mondo, quelle miserabili e quelle medie (da distinguere – come fanno all’Onu – tra medie basse, medie mediane, medie alte) vale la pena di occuparsene? Sì e no, decide il Vangelo dei ricchi. La Cina per esempio non va trascurata e neppure l’Antico Impero, un po’ usurato, di Elisabetta regina e di Theresa May.
Il rapporto dell’Ilo
Nell’anno del centenario (1919-2019) festeggiato dall’Organizzazione internazionale del lavoro, l’Ilo, l’Organizzazione, nella sua sede di Ginevra, ha cercato di riflettere un po’ di più sui risultati raggiunti (e su altri mancati) nel corso di un secolo. I temi principali sono stati: libertà del lavoro; pari retribuzione per pari lavoro nelle situazioni più diverse, perfino tra uomini e donne; proibizione o controllo del lavoro minorile. I progressi ottenuti non sono stati tali da accontentare: proclami, molte promesse, risultati lenti e parziali; e il lavoro resta – tutti all’Ilo ne sono convinti – l’unica via percorribile per il progresso umano, per lento e difficile che sia.
Lavoro e non lavoro nel mondo: quanti e quante lavorano; e come
L’affresco del lavoro umano è assai ampio; quello usato da The Economist è un “particolare”, come direbbero gli storici dell’arte. Gli umani registrati sulla faccia della terra sono, alla fine del 2018, 7,6 miliardi. In età di lavoro sono 5,7 miliardi. Si chiarisce subito che se è proibito o almeno contrastato il lavoro infantile, non c’è un’età massima, un limite per gli anziani. L’Ilo mette subito le mani avanti, e spiega che “una gran parte della popolazione mondiale non usufruisce dei benefici dell’età avanzata”. In altre parole, “molta gente non ha scelte diverse dal lavorare finché è in grado di farlo” (Global Employment and social trends, p.5 nota). A lavorare è il 58,4%. pari a 3,3 miliardi di viventi. Se si sommano 172 milioni di disoccupati, la forza lavoro complessiva ammonta a 3,5 miliardi, pari al 61,4% degli adulti. Facendo una semplice sottrazione, per l’Ilo il 38,6%, 2,2miliardi, come dire una popolazione pari a tutti gli abitanti dell’India più metà dei cinesi, non svolge alcuna attività lavorativa, vive di rendita o comunque a spese degli altri sei decimi dell’umanità. Per aggiungere un numero soltanto, è di 140 mln (Germania più Italia o poco meno) il conto della forza lavoro potenziale, formato da chi non ha trovato o non ha cercato lavoro.
Leggendo le cifre, il lavoro non è in gran forma; non è proprio così che va avanti il mondo. All’inizio del secolo l’aumento delle persone al lavoro, uomini e donne, era di cinquanta milioni l’anno; poi calato a quaranta milioni o anche meno intorno agli anni ’10 del secolo, intorno ai trenta milioni nei nostri anni, poco più di venti negli anni avvenire, sui quali si butta un occhio. Questo dimagrimento avviene alla presenza di una crescita considerevole della popolazione mondiale. In termini percentuali nel duemila erano stimati al lavoro il 61,2% degli esseri umani di 15 anni e più. Si trattava del 74,4% maschi e il 47,9% femmine. Nel 2018 al lavoro era il 58,4%, con i maschi scesi al 71,4% e le femmine al 45,3. Le previsioni dell’Ilo al 2023 indicano un 57,8 complessivo, con maschi al 70,5% e femmine al 45,3.
Che abbia prevalso un criterio di decrescita felice? O forse è il caso di un capitalismo affidato ad Amazon e Google, agli omologhi cinesi, e deciso a fare profitti con poco lavoro, sfruttato in modi adeguati? Quattro secoli fa Tommaso Campanella proponeva nella “Città del Sole”, per tutti e tutte, un lavoro di quattro ore al giorno, egualmente pagato, egualmente rispettato.
Per chi si lavora
Il lavoro umano si divide, stando all’Ilo, in quattro categorie, di misure assai diverse. La più frequente e considerata è quella di chi lavora per un padrone – quale che sia il nome che si preferisce attribuirgli – in cambio di una paga (salario o stipendio). Essa riguarda il 52% del totale di 3,5 miliardi di umani. Lavorano “in proprio”, invece, 2,3 miliardi, cioè il 34% del totale. Undici su cento sono quelli che lavorano “in famiglia”, nella panetteria paterna o, per esempio, aiutando la madre sarta o il cugino taxista. Il tre per cento che
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LA LINGUA SALVATA
pro-fón-de-re (io pro-fón-do)
SIGN Spendere, spargere con abbondanza; elargire con generosità
voce dotta recuperata dal latino profundere ‘spandere, versare’, derivato di fùndere‘versare’ con prefisso pro- ‘avanti’.
Nel dizionario tutte le parole sono uguali, ma qui siamo arrivati davanti a una parola maestosa. È un esempio di straordinario equilibrio fra semplicità e ricercatezza: non è una parola del nostro lessico di base, eppure è comune, riconoscibile e amichevole perché parte della ricca e disponibile famiglia del ‘fondere’ (da ‘confondere’ a ‘infondere’ a ‘diffondere’). E questo grado di ricercatezza accessibile informa un significato che altrimenti potrebbe benissimo essere prosaico.
Infatti, se parliamo del profundere latino, parliamo di un verbo tanto più ampio del nostro profondere, che in cima alla lunga lista di significati specifici che poteva prendere teneva ben presente il suo significato proprio di ‘spargere davanti’: in pratica uno spandere, un versare, che per quanto in latino potesse avere dei risvolti liturgici alti, a noi evoca volentieri l’aranciata sulla tovaglia, oddio, prendi lo scottex. Ma quando questo verbo fu recuperato dal latino, alle porte del Seicento (c’era stato uno sfortunato recuperoquattrocentesco col senso di ‘finire nel profondo, precipitare’) risulta molto selezionato. Del suo gran corpo tornito resta la linea di un prodigare, di uno spendere o
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PANORAMA INTERNAZIONALE
Accordo di libero scambio in Africa
IERI È STATA AVVIATA L’UNICA COSA CHE DAVVERO FERMERÀ I BARCONI DALL’AFRICA.
Il razzismo non ci piace – Facebook – 9 07 2019
Due indizi:
1) l’hanno fatta gli africani stessi
2) ha a che fare con la cosa che gli italiani sembrano odiare di più: il mercato
Scopri cos’è.
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Non se n’è accorto quasi nessuno. Non ne ha parlato quasi nessuno.
Ma ieri 54 nazioni africane su 55 (tranne l’Eritrea), riunite in Niger, hanno iniziato la fase operativa di un accordo di libero scambio al loro interno, che progressivamente creerà un mercato unico (e libero da dazi, tariffe e barriere doganali) per tutti i paesi africani. Per il loro commercio interno.
In altre parole, sta iniziando in Africa quel processo che – con l’avvio dell’Unione doganale alla fine degli Anni 50 – portò l’Europa su un sentiero di crescita e sviluppo. E, ancora una volta, non è un processo basato su statalismo, dirigismo, retorica delle chiacchiere e aiuti internazionali (che spesso finiscono solo nelle mani di classi dirigenti corrotte e alimentano corruzione
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Come si combattono e si perdono oggi le guerre
E finalmente la Troika lascia la Grecia. Spremuta fino all’osso e dissanguata. Una guerra avrebbe fatto meno danni.
Era arrivata perché la Grecia non aveva fatto i compiti e aveva un debito troppo elevato. La Grecia è entrata nel 2010 nel “programma di aiuti” Ue col rapporto debito/Pil al 146%.
Tutti a dire “Grecia sprecona”. Oggi è al 180%: gli imperscrutabili
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Fonte: www.facebook.com
Discorso di David Sassoli al parlamento europeo
Strasburgo – 3 luglio 2019
Cittadine e cittadini dell’Unione europea, signore e signori parlamentari, onorevoli colleghe e colleghi, cari amici, rappresentanti delle istituzioni, dei Governi, donne e uomini di questa amministrazione, tutti voi capirete la mia emozione in questo momento nell’assumere la Presidenza del Parlamento europeo e di essere stato scelto da voi a rappresentare l’Istituzione che più di ogni altra ha un legame diretto con i cittadini, che ha il dovere di rappresentare e anche di difendere, nonché di ricordare sempre che la nostra libertà è figlia della giustizia che sapremo conquistare e della solidarietà che sapremo sviluppare.
Permettetemi di ringraziare il Presidente Antonio Tajani per il lavoro che ha svolto, per il suo grande impegno, e la sua dedizione a questa Istituzione.
Voglio anche dare il benvenuto ai parlamentari confermati e alle donne, che rappresentano il 40 % di tutti noi: è un buon risultato ma noi vogliamo di più.
In questo momento, al termine di un’intensa campagna elettorale, ha inizio una legislatura che gli avvenimenti caricano di grande responsabilità, perché nessuno può accontentarsi di conservare l’esistente: ce lo dice il risultato elettorale e ce lo testimonia anche la composizione di questa Assemblea.
Siamo immersi in trasformazioni epocali: disoccupazione giovanile, migrazioni, cambiamenti climatici, rivoluzione digitale, nuovi equilibri mondiali, solo per citare alcune delle grandi questioni che, per essere tutte governate, hanno bisogno di nuove idee, del coraggio di saper coniugare con grande saggezza e il massimo di audacia.
Dobbiamo recuperare lo spirito dei padri fondatori, lo spirito di Ventotene, di coloro che seppero mettere da parte le ostilità della guerra e porre fine ai guasti del nazionalismo, dandoci un progetto capace di coniugare pace, democrazia, diritti, sviluppo e uguaglianza.
In questi mesi in troppi hanno scommesso sul declino di questo progetto, alimentando anche divisioni e conflitti che pensavamo essere un triste ricordo della nostra storia. I cittadini hanno dimostrato invece di credere ancora in questo straordinario progetto, l’unico in grado di dare risposte alle sfide globali, alle sfide che abbiamo di fronte.
Dobbiamo avere la forza di rilanciare il nostro processo di integrazione, cambiando la nostra Unione per renderla capace di rispondere in modo più forte alle esigenze dei nostri cittadini e per dare risposte vere alle loro preoccupazioni, al loro sempre più diffuso senso di smarrimento. La difesa e la promozione dei nostri valori fondanti di libertà, dignità e solidarietà deve essere perseguita ogni giorno dentro e fuori l’Unione europea.
Care colleghe e cari colleghi, pensiamo più spesso al mondo che abbiamo il dovere di vivere e alle libertà di cui godiamo. E allora diciamolo noi, visto che ad altri, ad est, a ovest, a sud fanno fatica a riconoscere che tante cose ci fanno diversi, non migliori ma diversi e che noi europei siamo orgogliosi delle nostre diversità. Ripetiamolo: perché sia chiaro a tutti che in Europa nessun governo può uccidere – e questa non è una banalità: il valore della persona e la sua dignità sono il nostro modo di misurare le nostre politiche; che in Europa nessuno può tappare la bocca agli oppositori, che i nostri governi e le nostre istituzioni che li rappresentano sono il frutto della democrazia di libere scelte, di libere elezioni; che nessuno può essere condannato per la propria fede religiosa, politica, filosofica; che da noi ragazze e ragazzi possono viaggiare, studiare, amare senza costrizioni; che nessun europeo può essere umiliato o emarginato per il proprio orientamento sessuale; che nello Spazio europeo, con modalità diverse, la protezione sociale è parte della nostra identità.
Il nostro modello di economia sociale di mercato va rilanciato. Le nostre regole economiche devono saper coniugare crescita, protezione sociale, rispetto dell’ambiente. Dobbiamo dotarci di strumenti adeguati per contrastare le povertà, dare prospettive ai nostri giovani, rilanciare investimenti sostenibili, rafforzare il processo di convergenza fra le nostre regioni e i nostri territori. La rivoluzione digitale sta cambiando in profondità i nostri stili di vita, il nostro modo di produrre e di consumare: abbiamo bisogno di regole che sappiano coniugare progresso tecnologico, sviluppo delle imprese, tutela dei lavoratori e delle persone.
Il cambiamento climatico ci espone a rischi enormi, ormai evidenti: servono investimenti per tecnologie pulite, per rispondere ai milioni di giovani che sono scesi in piazza e alcuni sono venuti anche qui, in quest’Aula, per ricordarci che non esiste un altro pianeta. Dobbiamo lavorare per una sempre più forte parità di genere e un sempre maggiore ruolo delle donne ai vertici della politica, dell’economia e del sociale.
Signore e signori, questo è il nostro biglietto da visita per un mondo che non ha regole ma che deve trovare regole e che noi vogliamo aiutare ad avere regole. Ma tutto questo non è avvenuto per caso. L’Unione europea non è un incidente della storia.
Io sono figlio di un uomo che a vent’anni ha combattuto contro altri europei. Sono figlio di una mamma, che anch’essa a vent’anni ha lasciato la propria casa e ha trovato rifugio presso altre famiglie. Io so che questa è la storia anche di tante vostre famiglie. E so anche che se mettessimo in comune le nostre storie e ce le raccontassimo davanti a un bicchiere di birra, non diremmo mai che siamo figli o nipoti di un incidente della storia, ma diremmo che la nostra storia è scritta sul dolore, sul sangue dei giovani britannici sterminati sulle spiagge della Normandia, sul desiderio di libertà, di Sofia e Hans Schöll, sull’ansia di giustizia degli eroi del ghetto di Varsavia, sulle primavere represse con i carri armati nei nostri paesi dell’Est, sul desiderio di fraternità che ritroviamo ogniqualvolta la coscienza morale impone di non rinunciare alla propria umanità e l’obbedienza non può considerarsi una virtù.
Non siamo un incidente della storia, ma i figli e i nipoti di coloro che sono riusciti a trovare l’antidoto a quella degenerazione nazionalista che ha avvelenato la nostra storia: se siamo europei è anche perché siamo tutti innamorati dei nostri paesi. Ma il nazionalismo che diventa ideologia e idolatria produce virus, che possono produrre conflitti distruttivi.
Colleghe e colleghi, abbiamo bisogno di visione e per questo serve la politica. Sono necessari i partiti europei sempre più capaci di essere l’architrave della nostra democrazia. Ma dobbiamo dare loro anche nuovi strumenti: quelli che abbiamo sono insufficienti. Questa legislatura dovrà rafforzare le procedure per rendere il Parlamento europeo protagonista di una completa democrazia europea.
Ma non partiamo da zero. Non nasciamo dal nulla. L’Europa si fonda sulle sue istituzioni che, seppure imperfette e da riformare, ci hanno garantito le nostre libertà, la nostra indipendenza. Con le nostre istituzioni saremo in grado di rispondere anche a tutti coloro che sono impegnati a dividerci. E allora diciamolo oggi in quest’Aula, all’inizio di questa legislatura, che il Parlamento europeo sarà garante dell’indipendenza dei cittadini europei e che solo loro sono abilitati a scrivere il proprio destino. Nessuno per loro, nessuno al posto nostro.
In quest’Aula, insieme a tanti colleghi e colleghe con molta esperienza, vi sono anche tantissimi deputati alla prima legislatura. Porgo loro un cordiale saluto di benvenuto. Ho letto molte delle loro biografie e mi sono convinto si tratti di una presenza molto positiva.
Il 63 % di questo Parlamento è composto da parlamentari di prima legislatura. Molti di loro sono impegnati in attività sociali, hanno grandi competenze, grandi professionalità. Tanti sono impegnati anche nella protezione delle persone. E questo è un campo su cui l’Europa deve migliorare perché abbiamo il dovere di governare fenomeni nuovi. Sull’immigrazione, ad esempio,
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http://www.europarl.europa.eu/doceo/document/CRE-9-2019-07-03-ITM-010_IT.html
Nel frattempo, in Tedeschia …
Via la Maschera 2.0 – 8 07 2019
E sia ben chiaro, con i voti di TUTTI…MA PROPRIO TUTTI.
Le regole di Horst Seehofer diventano legge. Ieri il Bundestag ha approvato ufficialmente il Migration-paket del ministro dell’Interno che prevede l’espulsione immediata dei profughi irregolari,
l’ampliamento della detenzione preventiva per i rifugiati e
il taglio del Welfare agli stranieri.
Senza contare le perquisizioni senza bisogno di mandato giudiziario.
È IL PIÙ STRETTO GIRO DI VITE sui diritti nell’era della cancelliera Angela Merkel, che quattro anni fa interpretava a meraviglia la «politica di benvenuto» ma da qui a fine mandato si limiterà ad accogliere solo i 260 mila migranti l’anno che servono a muovere l’economia nazionale. Una scelta politica inequivocabile; almeno quanto il clamoroso voto a favore dei
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Il super-Stato cinese Han: Il nuovo Terzo Reich
di Gordon G. Chang – 8 aprile 2019
Pezzo in lingua originale inglese: China’s Han Superstate: The New Third Reich
Traduzioni di Angelita La Spada
- Il leader cinese Xi Jinping chiede di “sinizzare” le cinque religioni riconosciute – il riconoscimento ufficiale è un meccanismo di controllo. I cinesi, come parte di questo impietoso e inesorabile sforzo, stanno distruggendo le moschee e le chiese, costringendo i devoti musulmani a bere alcolici e a mangiare carne suina, inviando i funzionari di etnia Han a vivere nelle case musulmane e ponendo fine all’educazione religiosa dei minori.
- I media cinesi, in questi ultimi anni, hanno moltiplicato la diffusione di stereotipi orribili sugli africani. Lo sketch trasmesso lo scorso anno dalla principale emittente televisiva di Stato – con 800 milioni di telespettatori – non è stato il peggiore, ma ha dato una chiara idea di quello che i funzionari cinesi pensano degli africani, considerandoli tanto esseri inferiori quanto oggetto di scherno.
- Campi di concentramento, razzismo, eugenetica, ambizioni di dominio mondiale. Vi ricordano qualcosa?
- C’è un nuovo Terzo Reich ed è la Cina.
Più di un milione di persone sono internate, senza alcuna ragione se non per la loro appartenenza etnica o religiosa, nei campi di concentramento situati in quella che Pechino definisce la Regione autonoma uigura dello Xinjiang. Nella foto: il 7 luglio 2009, i poliziotti cinesi si scontrano con delle donne uigure durante una protesta a Urumqi, la capitale dello Xinjiang.
Più di un milione di persone sono internate, senza alcuna ragione se non per la loro appartenenza etnica o religiosa, nei campi di concentramento situati in quella che Pechino definisce la Regione autonoma uigura dello Xinjiang, e che gli abitanti tradizionali dell’area, gli uiguri, chiamano Turkestan orientale. Oltre agli uiguri, in queste strutture sono rinchiusi anche i kazaki.
Le famiglie di questa regione martoriata del nord-ovest della Repubblica popolare cinese sono state smembrate. I figli degli uiguri e dei kazaki che sono stati imprigionati vengono “confinati” in “scuole” isolate dal mondo esterno dal filo spinato e sorvegliate da numerose pattuglie di polizia. A questi ragazzi viene negata l’istruzione nella loro lingua, e sono costretti a imparare il cinese mandarino. I controlli fanno parte della cosiddetta politica di “hanificazione”, un programma di assimilazione forzata. “Han” è il nome del gruppo etnico dominante in Cina.
E poiché gli uiguri e i kazaki stanno morendo nei campi di concentramento in numero considerevole, Pechino costruisce forni crematori per sradicare le usanze funebri e smaltire in tal modo i cadaveri.
I campi, un crimine contro l’umanità, si stanno diffondendo. La Cina sta costruendo anche in Tibet, nella parte sudoccidentale del paese, delle strutture simili, alle quali vengono date vari nomi eufemistici come “centri di formazione professionale”.
Inoltre, Pechino reitera il tentativo di eliminare la religione in tutto il paese. I cristiani si trovano maggiormente sotto attacco, proprio come i buddisti. Il leader cinese, Xi Jinping, chiede di “sinizzare” le cinque religioni riconosciute – il riconoscimento ufficiale è un meccanismo di controllo. I cinesi, come parte di questo impietoso e inesorabile sforzo, stanno distruggendo le moschee e le chiese, costringendo i devoti musulmani a bere alcolici e a mangiare carne suina, inviando i funzionari di etnia Han a vivere nelle case musulmane e ponendo fine all’educazione religiosa dei minori.
Questi tentativi, che hanno dei precedenti nella storia cinese, sono stati intensificati da quando Xi è diventato il segretario generale del Partito comunista, nel novembre del 2012.
Al contempo, Xi, molto più dei suoi predecessori, ha promosso il concetto di un ordine mondiale governato da un solo sovrano, quello cinese.
A grandi linee, la visione del mondo nutrita da Xi assomiglia molto a quella del Terzo Reich, almeno prima degli omicidi di massa.
Il Terzo Reich e la Repubblica popolare cinese condividono un razzismo virulento, che in Cina viene simpaticamente definito “sciovinismo Han”. Il gruppo Han, che si dice annoveri circa il 92 per cento della popolazione della Repubblica popolare, è in realtà la fusione di gruppi etnici affini.
La mitologia cinese sostiene che tutti i cinesi discendono dall’Imperatore Giallo, il quale avrebbe regnato nel terzo millennio a.C. . I cinesi si considerano una branca dell’umanità separata dal resto del mondo, una visione rafforzata dall’indottrinamento nelle scuole, tra le varie cose.
Gli studiosi cinesi fondano la loro diversità sulla teoria evoluzionistica de “l’Uomo di Pechino“, secondo la quale i cinesi non condividono un antenato africano comune con il resto dell’umanità. Questa teoria dell’evoluzione separata dei cinesi ha rafforzato, non a caso, le idee razziste.
A causa del razzismo, molti in Cina, inclusi i funzionari, “credono di essere assolutamente diversi dal resto dell’umanità e implicitamente superiori”, scrive Fei-Ling Wang, autore di The China Order: Centralia, World Empire, and the Nature of Chinese Power.
Pertanto, il razzismo è istituzionalizzato e apertamente promosso. Ciò è stato terribilmente evidente lo scorso anno nello sketch di 13 minuti andato in onda durante il Galà della Festa di Primavera, lo spettacolo di varietà più seguito nel paese e trasmesso dall’emittente China Central Television. In “Festeggiamo insieme”, un’attrice cinese con il viso dipinto di nero interpretava il ruolo di una madre keniota, dotata di un seno enorme e di natiche posticce ridicolmente grandi. E peggio ancora, la sua spalla era una persona travestita da scimmia. L’associazione scimmia-donna faceva eco alla mostra allestita al Museo della provincia di Hubei dal titolo “Questa è l’Africa“, in cui nel 2017 furono esposte le foto di africani accanto a immagini di primati.
I media cinesi, in questi ultimi anni, hanno moltiplicato la diffusione di stereotipi orribili sugli africani. Lo sketch trasmesso lo scorso anno dalla principale emittente televisiva di Stato – con 800 milioni di telespettatori – non è stato il peggiore, ma ha dato una chiara idea di quello che i funzionari cinesi pensano degli africani, considerandoli tanto esseri inferiori quanto oggetto di scherno. Stando così le cose, si può desumere che tale visione sia condivisa dalla leadership di Pechino, che, in modo allarmante, lancia con maggiore frequenza appelli razzisti ai cinesi – e non solo a quelli che abitano in Cina.
La razza superiore di questo XXI secolo ha però un problema. La Cina, che oggi è lo Stato più popoloso del mondo, affronta un rapido declino demografico. Il tasso di natalità dello scorso anno è stato il più basso da quando la Repubblica popolare fu fondata nel 1949. Secondo il World Population Prospects 2017, pubblicato dalla Divisione per la popolazione del Dipartimento per gli affari economici e sociali delle Nazioni Unite, la popolazione del paese raggiungerà l’apice nel 2029. Ma questo picco potrebbe essere toccato nei prossimi due anni, poiché le cifre fornite dalle Nazioni Unite si basano sulle previsioni eccessivamente ottimistiche di Pechino. I demografi ufficiali cinesi, ad esempio, lo scorso anno non avevano previsto il crollo del tasso di natalità.
Nel 2024, si verificherà un altro evento epocale. A quel punto, per la prima volta in almeno 300 anni – e forse per la prima volta nella storia documentata – la Cina non sarà la società più popolosa al mondo. Quell’onore andrà a un paese che i cinesi in genere detestano e temono: l’India. E quando raggiungerà il suo picco nel 2061, l’India avrà 398,088 milioni di abitanti in più rispetto alla Cina.
Una volta che la popolazione della Cina inizierà a contrarsi, il processo subirà un’accelerazione. Nel 2018, la popolazione cinese era 4,3 volte maggiore di quella dell’America. Entro il 2100, si prevede che la Cina avrà una popolazione
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https://it.gatestoneinstitute.org/14039/cina-nuovo-terzo-reich
POLITICA
di Salvatore Bravo – 8 LUGLIO 2019
La differenza tra destra e sinistra di governo si assottiglia fino a renderle perfettamente speculare, per cui la sinistra annaspa e si lascia strumentalizzare dalla destra in una pericolosa e complice relazione biunivoca. Porre il problema della differenza significa rendere palese la paralisi programmatica e politica, ed il congelamento nella storia attuale. La sinistra è flatus vocis, siamo in pieno nominalismo, la sinistra di governo risponde alla funzione del capitale, anzi lo blandisce, non è solo dimentica di sé, si lascia colonizzare, diviene parte attivo del dispositivo anonimo del capitalismo assoluto.
La presenza puramente formale della sinistra, nella storia occidentale attuale, ha la sua causa “principale-immediata” nella caduta del muro di Berlino (1989), dopo la caduta dei paesi a socialismo reale non vi è stato che un lungo frammentarsi per adattarsi al capitale, per rendersi visibile e spendibile sul mercato del voto. La sconfitta storica ha palesato un’altra verità: il progressivo emergere del nichilismo economicistico delle sinistre. La sconfitta è l’effetto della verità profonda della sinistra, ovvero il progressivo svuotarsi di un progetto, dell’umanesimo per un accomodarsi curvato sull’economia della sola quantità, per cui l’avanzamento della cultura liberista ha trovato un mondo simbolico già disposto all’economicismo, al verticismo del potere, all’antiumanesimo. Il capitalismo di stato dei paesi a socialismo reale non è stato antitetico, ma competitivo al capitalismo liberista, le destre del capitale sono avanzate su un terreno già arato, pronto a prediligere la quantità sulla qualità, la propaganda all’attività soggettiva consapevole.
Non tutta l’esperienza è stata nefasta, ma il “tradimento culturale” rispetto ai grandi propositi teoretici ed ideologici ha indotto gli elettori a scegliere l’autentico (capitalismo liberista) rispetto all’imitazione (capitalismo di stato).
Per poter riaffermare la differenza tra destra e sinistra mediata dalla condizione storica attuale, non è sufficiente affermare che destra e sinistra sono categorie vetuste, dovrebbero essere riformulate con nuovi contenuti, è necessario l’esodo dagli steccati ideologici. Ricostruire le posizioni ideologiche è operazione lenta e faticosa nella quale lo strato teoretico incontra la prassi.
La sinistra ha il dovere di studiare la propria storia per organizzare la prassi della resistenza e dell’attacco progettuale, ciò non può che avvenire fuori dai contesti accademici, poiché essi sono schierati con i “principi” del capitale.
Riapprossimarsi a Marx
Rosa Luxemburg (Zamość, 5 marzo 1871 – Berlino, 15 gennaio 1919), insegna che nei momenti difficili, di ribaltamento delle posizioni bisogna tornare alla fonte per poter leggere fortemente il presente con categorie e concetti capaci di filtrare la verità storica. Gli errori del passato non devono essere rimossi, ma vissuti ad occhi aperti. Dinanzi a chi votò i crediti di guerra la Luxemburg non ha dubbi, ritornare a Marx, non per idolatrare, ma per avere la chiarezza delle fondamenta per distinguere la destra dalla sinistra. Il marxismo ufficiale doveva servire da copertura per ogni calcolo meschino, per ogni deviazione dalla vera lotta di classe rivoluzionaria, per ogni mediocrità che condannava la socialdemocrazia tedesca e in generale il movimento operaio, anche sindacale, a deperire nella cornice e sul terreno della società capitalistica, senza alcun serio sforzo per scuoterla e scardinarla. Ora, compagni, viviamo oggi il momento in cui possiamo dire: siamo di nuovo con Marx, sotto la sua bandiera. Se oggi noi dichiariamo nel nostro programma: il compito immediato del proletariato non è altro – riassunto in poche parole che fare del socialismo verità e realtà e sradicare completamente il capitalismo, noi ci mettiamo sul terreno su cui stavano Marx ed Engels nel 1848 e dal quale essi non si scostarono mai in linea di principio. Adesso si vede che cos’è il marxismo vero e che cosa era questo surrogato del marxismo (benissimo!) che per tanto tempo si pavoneggiò come marxismo ufficiale nella socialdemocrazia tedesca”.1
Contro il pavoneggiarsi dei facitori di parole, delle gerarchie di partito che ritagliano con la burocrazia la gestione delle idee e delle persone, la Luxemburg rilegge Marx, per formulare un progetto forte.
Sinistra sostanziale non è dittatura del presente, ma varco nel presente al fine di capire lo stato in cui si è, attraverso il varco storico si riattivano categorie interpretative per scorgere l’orizzonte verso cui tendere. Marx non è un semplice classico, le categorie interpretative marxiane strutturano un’appartenenza teleologica non dogmatica, ma critica. L’approssimarsi a Marx non è elemento secondario, ma primario, altrimenti non vi è sinistra, ma semplice flatus vocis, emissione verbale di voce senza contenuto. La dittatura del presente è il miglior successo del capitalismo assoluto, si fonda sul tramonto della storia. La Sinistra sostanziale, non di governo, è sinistra,
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Salvini al 50%
Patrizia Rametta 2 07 2019
NON AVEVAMO DUBBI CARO MATTEO SALVINI1
DOPO LO SHOW DI IERI IL GIUDICE PATRONAGGIO NON CONVALIDA L’ARRESTO DELLA TERRORISTA CAROLA.
ESATTAMENTE COME I GIUDICI CONNIVENTI DELLE BRIGATE ROSSE.
MA ATTENTI, I POVERI CRISTI IN GALERA CI VANNO,
CAROLA NO PERCHE FA PARTE
DEL PROGETTO DI INVASIONE PROGRAMMATA DELL’ITALIA.
L’EUROPA SE NE FREGA PERCHE’ VUOLE CHE L’ITALIA SIA UN HOTSPOT ENORME.
È IL COLPO DI CODA DI CHI FA BUSINESS SULLE VITTIME AFRICANE E VUOL FARCI CREDERE CHE SONO BUONI E ACCOGLIENTI LORO. POI LI PARCHEGGIANO IN LAGER A SPESE DELLO STATO ITALIANO.
A LODI UN GIRO D’AFFARI DA 7 MILIONI DI EURO SULLA PELLE DEI POVERACCI CHE PENSANO CHE CAROLA LI HA SALVATI…
- LI HA SOLO CONSEGNATI AGLI AGUZZINI DEM E FINIRANNO A
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SCIENZE TECNOLOGIE
Track This inganna gli algoritmi pubblicitari (aprendo 100 schede!)
L’idea di Mozilla funziona, ma mette in ginocchio i browser.
Da qualche tempo in qua Mozilla ha dichiarato guerra a tutte quelle realtà che, quando siamo online, ci seguono nei nostri spostamenti virtuali per creare un profilo il più possibile preciso delle nostre preferenze e, così, sottoporci pubblicità mirate.
Per tenere a bada questi trackerci sono varie tecniche, dal semplice blocco degli annunci (che però danneggia quei siti che traggono sostentamento proprio dalle visualizzazioni di banner) a più raffinate tecniche di inganno degli algoritmi.
Proprio quest’ultima soluzione è quella scelta da Mozilla (anzi, da Firefox, che è il marchio con cui ormai vuole farsi conoscere) con Track This, un servizio web dalle finalità chiare, l’aspetto accattivante e le modalità di esecuzione un po’ discutibili.
Track This permette di scegliere uno tra i quattro profili disponibili – Hypebeast, Filthy Rich, Doomsday e Influencer – e poi apre 100 schede di argomenti che possono interessare questi quattro “tipi umani“.
Le 100 schede di Hypebeast riguarderanno le ultime tendenze in ogni campo; quelle di Filthy Rich tutto ciò che sa di lusso e ostentazione; quelle di Doomsday, invece convinceranno gli inserzionisti che si è appassionati di teorie cospiratorie e che ci si sta preparando alla fine del mondo; le schede di Influencer, invece, comprenderanno argomenti come «i rimedi olistici,
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Che cos’è (davvero) Internet delle cose, e perché rivoluzionerà il mondo delle aziende e del lavoro
L’Internet delle cose sta entrando sempre più nelle nostre vite, influenzando le nostre vite non solo come consumatori, ma anche come lavoratori. La rivoluzione tecnologica, infatti, sta investendo in primis le aziende, che si devono dotare di strumenti e professionalità specifiche per gestirla
9 luglio 2019 Francesco Nicodemo e Giusy Russo
Sentiamo spesso parlare di Iot, acronimo di Internet of Things. Il Guardian già quattro anni fa spiegava che questa espressione indica la connessione di più dispositivi tra di loro e con Internet e che era addirittura il 1989 quando venne presentato un primo oggetto simile, si trattava di un tostapane. Se da un lato l’IoT mostrava già possibili rischi sul versante della privacy, dall’altro svelava le sue numerose potenzialità, non tanto in termini di produzione, quanto di organizzazione del lavoro, innanzitutto per avere il controllo di addetti e macchinari.
Ma quindi cos’è l’IoT? Per Treccani.it si tratta di una “rete di oggetti dotati di tecnologie di identificazione, collegati fra di loro, in grado di comunicare sia reciprocamente sia verso punti nodali del sistema, ma soprattutto in grado di costituire un enorme network di cose dove ognuna di esse è rintracciabile per nome e in riferimento alla posizione.” Viene anche detto che il primo a usare questa espressione è stato Kevin Ashton esattamente venti anni fa. Treccani spiega che l’IoT ha diverse applicazioni, che vanno dalla gestione di beni di consumo, durante la produzione, l’immagazzinamento, la distribuzione, la vendita o l’assistenza postvendita, al tracciamento di oggetti presi o rubati
Sentiamo parlare di Internet delle cose da tempo ed evidentemente ne sentiremo parlare sempre più spesso. A questo proposito, può aiutare la lettura di “IoT e Nuovo Marketing: Come e Perché Le Aziende Devono Utilizzare L’internet Delle Cose Nelle Loro Strategie Di Marketing.” Il testo, pubblicato da Dario Flaccovio Editore, è stato scritto da Claudio Gagliardini e Franz Russo. Il primo si occupa di social media, digital PR, marketing online ed è co-fondatore della digital agency seidigitale.com. Franz Russo, invece, racconta l’evoluzione digitale, ha collaborato con grandi aziende nazionali e internazionali e nel 2008 ha fondato il blog InTime, punto di riferimento per chi si occupa di social media, web marketing e, in generale, di comunicazione digitale.
L’Internet of Things apre una vasta gamma di possibilità ma pone anche una serie di questioni, prime tra tutte quelle relative alla privacy e alla gestione dei dati
In “IoT e Nuovo Marketing”, Gagliardini e Russo raccontano come stanno cambiando aziende e tecnologie con l’Internet delle cose, che rappresenta ormai un elemento imprescindibile della trasformazione digitale. Il libro, presentato già a Cremona, Bologna e Milano, ha carattere divulgativo, aspetto non irrilevante dal momento che gran parte delle pubblicazioni sul tema sono in
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STORIA
IL MISTERIOSO TESORO DI YAMASHITA
SORS – Ricerche Speciali – 12 GIUGNO 2018
(Read this post in English too)
L”idea dell’esistenza di tesori nazisti nascosti della Seconda guerra mondiale, acquisiti dal saccheggio dei paesi europei, attira da sempre gli avventurieri e i teorici della cospirazione. Tuttavia, si vocifera da anni di un tesoro appartenuto all’esercito giapponese e-mai ritrovato.
Questo è il famoso “l’oro di Yamashita” i cui tesori vennero presumibilmente saccheggiati durante l’occupazione giapponese del Sud-Est asiatico. La pista da seguire include una rete di caverne, tunnel e interi complessi sotterranei usati per nascondere il bottino, ma le prove su tali affermazioni sono quasi inesistenti.
Il bottino nel suo complesso porta il nome del generale giapponese Tomoyuki Yamashita, soprannominato la “Tigre della Malesia” a causa della sua vittoriosa campagna militare nel Sud-Est asiatico nelle prime fasi della guerra.
Nonostante le prove materiali limitate, ci sono quelli che propongono varie teorie e storie segrete. Tra i sostenitori più rumorosi di tali teorie c’era uno storico americano, Sterling Seagrave, che insieme a sua moglie Peggy, scrisse due studi approfonditi sull’argomento.
Il primo, intitolato “La dinastia Yamato: La storia segreta della famiglia imperiale del Giappone”, pubblicato nel 2000, ha introdotto l’idea del bottino nascosto. Affermò che il tesoro era stato acquisito su vasta scala ed era destinato a finanziare lo sforzo bellico giapponese durante la Seconda guerra mondiale. Nel libro, i Seagraves sostengono che il principe Yasuhito Chichibu, il fratello minore di Hirohito, guidava l’organizzazione top-secret chiamata Kin no yuri (Golden Lily).
Avevano il compito di occuparsi dei depositi di oro massiccio rubati da varie banche, depositi, locali commerciali, musei, case private e edifici religiosi.
Il sequel dello studio, intitolato “Gold Warriors: il recupero segreto dell’America di Yamashita’s Gold” è uscito nel 2003. Si concentra sul recupero post-bellico e sull’appropriazione del bottino da parte degli agenti dei servizi segreti americani, il più importante dei quali è Edward Geary Lansdale.
I Seagraves hanno concluso che gran parte del bottino è stato scoperto subito dopo la guerra e che i fondi sono stati deviati alle operazioni segrete della CIA nella Guerra Fredda.
Vari resoconti affermano che il tesoro fu inizialmente immagazzinato a Singapore, e di conseguenza trasferito nelle Filippine durante la guerra. L’intenzione era di spedire il bottino alle isole giapponesi. Ma quando gli Stati Uniti entrarono nella Guerra del Pacifico, la supremazia del mare fu stabilita da loro, e il piano per trasferire un carico così prezioso divenne troppo rischioso.
Alcuni ipotizzano che diverse navi mercantili giapponesi che trasportavano parte del bottino siano state affondate da un sottomarino americano, questo indusse il governo imperiale ad abbandonare l’idea.
Successivamente, il tesoro rimase bloccato nelle Filippine, dove divenne una sorta di mito nazionale nel periodo post-bellico. Nel 1992, Imelda Marcos, la moglie dell’ex presidente delle Filippine, Ferdinand Marcos, affermò
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Da Wikipedia, l’enciclopedia libera.
L’oro di Yamashita, noto anche come tesoro di Yamashita, è il nome dato ad un presunto bottino di guerra saccheggiato nel sud-est asiatico dalle forze imperiali giapponesi durante la seconda guerra mondiale.
Ha preso il nome dal generale giapponese Tomoyuki Yamashita, soprannominato “Tigre della Malesia“. Nonostante le credenze che la ricchezza sia ancora nascosta nelle Filippine e abbia attratto cacciatori di tesori da tutto il mondo per oltre cinquant’anni, la sua effettiva esistenza è stata smentita da molti esperti.[1][2][3] L’oro di Yamashita fu il soggetto di un complesso procedimento legale avviato in una corte delle Hawaii nel 1988 che vide coinvolti un cacciatore di tesori filippino, Rogelio Roxas, e l’ex Presidente delle Filippine Ferdinand Marcos.[4] Nel corso della sua lunga presidenza durata vent’anni, Marcos fu accusato di aver rubato ingenti somme di denaro dalle tesorerie filippine. Tuttavia, secondo testimonianze della moglie di Marcos, Imelda Marcos, le enormi ricchezze della famiglia sarebbero derivate dal tesoro di Yamashita.[5] 1Il saccheggio e la presunta copertura.
INDICE
- 2Scetticismo sull’esistenza del tesoro
- 3La vicenda di Rogelio Roxas
- 4Nella cultura di massa
- 5Note
- 6Voci correlate
- 7Collegamenti esterni
Il saccheggio e la presunta copertura
Tra i sostenitori di rilievo dell’effettiva esistenza dell’oro di Yamashita ci sono Sterling Seagrave e Peggy Seagrave, che hanno scritto due libri sull’argomento, The Yamato Dynasty: the Secret History of Japan’s Imperial Family (2000) e Gold Warriors: America’s Secret Recovery of Yamashita’s Gold (2003). Secondo i Seagrave, il saccheggio sarebbe stato organizzato su grande scala, sia da noti gangster della Yakuza come Yoshio Kodama, che dalle classi più alte della società giapponese, incluso l’imperatore Hirohito.[6]
Il governo giapponese pensò che saccheggiare il sud-est asiatico fosse il mezzo più rapido per sopperire alle spese sostenute durante la guerra. Secondo i Seagrave, Hirohito nominò il proprio fratello, il Principe Chichibu, a capo di un’organizzazione segreta chiamata Kin no yuri (Giglio d’oro) finalizzata a tale scopo. Si pensa che molti di coloro che erano a conoscenza dell’esatta locazione del tesoro siano stati uccisi durante il conflitto, o in seguito processati dagli Alleati per crimini di guerra e infine condannati a morte o incarcerati. Lo stesso generale Yamashita fu giudicato colpevole di crimini di guerra e impiccato nelle Filippine il 23 febbraio 1946 dalla United States Army.[6]
Il tesoro saccheggiato avrebbe incluso una diversa varietà di oggetti preziosi provenienti da banche, cassette di custodia, musei, case private, edifici religiosi e stabili commerciali.[6] L’oro di Yamashita prende il nome dall’omonimo generale, che ebbe il comando delle forze giapponesi nelle Filippine nel 1944.
Secondo varie fonti, il tesoro fu inizialmente portato a Singapore e poi trasportato nelle Filippine.[6] I giapponesi pensarono di spedire il tesoro dalle Filippine al Giappone al termine della guerra. Tuttavia, col progredire del conflitto mondiale, i sottomarini della US Navy e gli aerei militari degli Alleati inflissero gravi perdite ai trasporti navali giapponesi. Alcune delle navi con a carico parte del tesoro affondarono in battaglia.
I Seagrave e alcuni sostenitori[6] affermarono che i militari dei servizi segreti americani riuscirono a localizzare gran parte del tesoro; avrebbero poi agito in collusione con Hirohito e altre importanti figure giapponesi per nascondere l’esistenza dell’oro di Yamashita, usandolo per finanziare le operazioni segrete di intelligence degli Stati Uniti nel mondo durante la Guerra Fredda. Queste teorie attrassero numerosi cacciatori di tesori, ma molti esperti e storici filippini affermarono che non era presente alcuna prova credibile riguardo l’esistenza del tesoro.[1]
Nel 1992 Imelda Marcos affermò che il tesoro di Yamashita aveva contribuito in gran parte all’arricchimento del proprio marito, l’ex Presidente delle Filippine Ferdinand Marcos.[7][8]Molti individui e consorzi, sia filippini che stranieri, proseguono nella ricerca del tesoro di Yamashita. Nel corso degli anni sono stati segnalati anche diversi casi di morti accidentali, infortuni e perdite finanziarie da parte di cacciatori di tesori.[1][9] Attualmente, l’ufficio della Mines & Geosciences Bureau del Department of Environment and Natural Resources è l’organo di governo che rilascia il permesso di cercare e recuperare tesori in territorio filippino.
Scetticismo sull’esistenza del tesoro
Il professore dell’Università delle Filippine Ricardo Jose ha criticato la teoria secondo la quale il tesoro ritrovato nel Sud-est asiatico sarebbe stato trasportato nel territorio filippino: «Già dal 1943 i giapponesi non avevano più il controllo dei mari… non avrebbe senso portare qualcosa di così prezioso qui quando sai che sarà perso nelle mani degli americani. La cosa più razionale sarebbe stata trasportare il tesoro a Taiwan o in Cina».[1]
Lo storico e presidente dell’Istituto Storico Nazionale Ambeth Ocampo ha commentato: «Due dei miti sul capitalismo che incontro solitamente sono il tesoro di Yamashita e le voci che le ricchezze di Eduardo Cojuangco Jr. si siano originate da una borsa di soldi», «Per gli ultimi 50 anni molte persone, sia filippini che stranieri, hanno speso il proprio tempo, soldi ed energie alla ricerca dell’elusivo tesoro di Yamashita», «Quello che mi domando è perché negli ultimi 50 anni, nonostante tutti i cacciatori di tesori, le loro mappe, testimonianze orali e cercametalli sofisticati, nessuno abbia ritrovato niente».[2]
Nel marzo 1988 un cacciatore di tesori filippino di nome Rogelio Roxas fece causa nello stato di Hawaii all’ex Presidente delle Filippine Ferdinand Marcos e a sua moglie Imelda Marcos per furto e violazione dei diritti umani. Roxas affermò di aver incontrato nel 1961 a Baguio City il figlio di un ex membro delle forze imperiali giapponesi, il quale gli rivelò la presunta locazione del leggendario tesoro di Yamashita. Roxas dichiarò che un secondo uomo, che in passato aveva servito come interprete di Yamashita durante la seconda guerra mondiale, gli riferì di aver fatto visita ad una camera sotterranea dove erano nascosti lingotti d’oro e d’argento e di aver inoltre sentito parlare di una statua dorata di Buddha tenuta in un convento nelle vicinanze della camera.
Roxas dichiarò di aver formato un gruppo di persone per la ricerca dell’oro negli anni successivi, e di aver ottenuto il permesso da un parente di Ferdinand Marcos, il giudice Pio Marcos. Secondo Roxas, nel 1971 lui e il suo gruppo di ricercatori scoprirono una camera chiusa in terre comuni statali nei pressi di Baguio City, dove ritrovarono baionette, spade di samurai, radio e resti di scheletri umani con indosso divise militari. L’uomo affermò inoltre di aver rinvenuto una statua dorata di Buddha dell’altezza di 91 cm e numerose casse impilate.
Disse di aver quindi aperto una delle casse e di averla trovata piena di lingotti d’oro. Assieme alla sua squadra, Roxas affermò di aver estratto dalla camera il Buddha d’oro, del presunto peso di una tonnellata, e una cassa contenente ventiquattro barre d’oro e di averle infine nascoste nella propria abitazione. Roxas avrebbe successivamente richiuso la camera segreta per tenerla in custodia, in attesa di poter ritirare le casse rimanenti, che secondo lui erano anch’esse piene d’oro. Roxas dichiarò di aver venduto sette delle barre d’oro contenute nella prima cassa e di aver cercato dei potenziali acquirenti per la statua del Buddha dorato.
Due individui interessati esaminarono il metallo del Buddha e ne verificarono l’autenticità, attestando che si trattava effettivamente di oro da venti carati. Fu in seguito a ciò che, secondo Roxas, Ferdinand Marcos venne a sapere della sua scoperta e ordinò il suo arresto, oltre al sequestro della statua e dei lingotti d’oro. Roxas dichiarò che per contrastare la sua campagna per recuperare il Buddha d’oro e il resto del tesoro sequestrato, Marcos continuò a minacciarlo oltre ad ordinare la sua incarcerazione per più di un anno.[4]
In seguito alla sua liberazione, Roxas rimase in silenzio e mantenne in sospeso le sue accuse contro Marcos sino alla caduta di quest’ultimo dal governo nel 1986. Nel 1988 Roxas e la Golden Buddha Corporation, che allora deteneva i diritti di proprietà sul tesoro ritrovato, fecero causa a Marcos e alla moglie Imelda in una corte statale delle Hawaii, chiedendo danni per furto e presunte violazioni dei diritti umani commessi contro il cacciatore di tesori. Roxas morì alla vigilia del processo,[10] ma in precedenza era riuscito a dare la propria testimonianza, da utilizzare come prova. Nel 1996, la famiglia Roxas e la Golden Buddha Corporation ottennero come risarcimento la cifra di 22 miliardi di dollari, che in seguito con gli interessi aumentarono a 40.[11] Nel 1998 la Corte Suprema hawaiana attestò che vi erano sufficienti prove per sostenere che fu effettivamente Roxas a scoprire il tesoro e che Marcos ne aveva assunto illegalmente la proprietà. Tuttavia la Corte non procedette col risarcimento, dichiarando che la cifra di 22 miliardi di dollari era troppo speculativa, non avendo alcuna chiara indicazione riguardo alla quantità o qualità del tesoro. Venne perciò avviata una nuova udienza riguardo al valore economico della statua di Buddha e delle 17 barre d’oro.[4]
Dopo un ulteriore lungo periodo di procedure legali, la Golden Buddha Corporation ottenne un risarcimento ai danni da Imelda Marcos per un valore di 13.275.848,37 dollari (13.3 milioni), mentre la famiglia di Roxas ricevette 6 milioni di dollari per violazione dei diritti umani.[12] Infine, la sentenza concluse che Roxas aveva effettivamente trovato un tesoro nelle Filippine, e seppur la Corte Suprema hawaiiana non avesse l’obbligo di verificare se si trattasse dell’oro di Yamashita, le testimonianze riguardo alla vicenda sembravano puntare in quella direzione. Roxas, presumibilmente grazie alla mappa consegnatagli dal figlio di un soldato giapponese e alle indicazioni di un interprete di Yamashita, scoprì una camera segreta contenente spade e scheletri di soldati giapponesi. Tutto ciò portò la Corte d’Appello statunitense a sintetizzare la vicenda come segue: «Il tesoro di Yamashita fu scoperto da Roxas e rubatogli dagli uomini di Marcos».[13]
- L’oro di Yamashita, seppur non menzionato direttamente, è uno degli elementi principali della trama di Cryptonomicon, un romanzo di Neal Stephenson.
- La scoperta dell’oro di Yamashita a Singapore ispirò la trama del romanzo The Year of the Tiger[14]di David Miller, pubblicato nel 2012.
- Un film sul presunto tesoro, Yamashita: The Tiger’s Treasure, diretto da Chito S. Roño, uscì nelle Filippine nel 2001.[15]Il film raccontò la storia di un ex prigioniero di guerra filippino e quella di suo nipote, a cui rivelò l’esatta
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https://it.wikipedia.org/wiki/Oro_di_Yamashita
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