Operazione Valchiria, quelli che tentarono di abbattere Hitler e furono giustiziati
Claus Von Stauffenberg, colonnello della Wehrmacht, il 21 luglio 1944, ispirandosi alle idee di Stephan George, organizzò l’attentato contro il fuhrer e finì fucilato a Berlino. Con lui furono trucidati circa 170 ribelli e Rommel, invece, venne “invitato” a suicidarsi
È da poco passata la mezzanotte del 21 luglio 1944: nel cortile del Ministero della Guerra del Reich, nella Bendlestrasse di Berlino, un colonnello della Wehrmacht attende l’ordine della sua esecuzione. Si chiama Claus Von Stauffenberg, è un giovane ufficiale appartenente a un’antica e nobile famiglia sveva. In Nord Africa ha perduto un occhio, la mano destra e due dita della sinistra, a Berlino ha l’incarico di capo di Stato Maggiore dell’Esercito Territoriale. Leader della congiura per eliminare Adolf Hitler e rovesciare il suo regime, è stato lui ad aver piazzato a Rastenburg, nel quartier generale del tiranno, la bomba che avrebbe dovuto ucciderlo: eppure, assistito da una provvidenza maligna, il fhürer esce illeso dall’attentato. In poche ore l’Operazione Valchiria è soffocata. Arresti sono in corso in tutta la Germania e Stauffenberg è già nelle mani dei suoi aguzzini. L’ordine di puntare le armi contro il condannato fende il silenzio della Bendlestrasse, ma, prima che parta il fuoco, Stauffenberg lancia un grido possente: «Es lebedas geheime Deutschland! » («Lunga vita alla Germania segreta! »). Non fosse per il film di Bryan Singer Operazione Valchiria, il grande pubblico non saprebbe niente di questo eroe della Widerstand, la resistenza tedesca al nazismo. Un sacrificio in cui c’è la trama d’un destino e l’esito d’un incontro fatale. Per capirlo bisogna riavvolgere la pellicola della sua vita, almeno fino al 1924. Il diciottenne Claus, insieme ai suoi fratelli, Berthold e Alexander, e una pattuglia di amici biancovestiti, passeggia lungo il Reno nella campagna di Heidelberg, che è meravigliosa in quei primi giorni di maggio. Tra loro c’è un uomo anziano, ieratico, che sussurra parole levigate e aeree. In Germania è un mito vivente: si chiama Stephan George, è il poeta vate della nazione. Con i suoi amici parla della necessità di un’aristocrazia spirituale, additando loro un regno di cultura e di spirito antitetico a quello che proprio in quel 1924 sta concependo Adolf Hitler nel suo Mein Kampf. Nell’ottobre del 1928, mentre i nazisti si sono già lanciati alla conquista del potere, George convoca i suoi amici. Claus è da due anni ufficiale dell’esercito, ma ha preso una licenza per ascoltare il suo maestro. Dopo un lungo silenzio carico d’attesa, George legge il suo ultimo inno. Il titolo è Geheimes Deutschland (Germania segreta) : «Nelle soffocanti celle di cose orrende» recita un suo verso, «la pazzia ha appena trovato quello che domani avvelenerà tutti gli orizzonti». Una profezia. Nel 1931 il nazismo è sempre più in procinto di pervertire il cuore della Germania. George si esilia volontariamente, riparando a Minusio, in Svizzera. Vuole sottrarsi alle spire della propaganda hitlerita che intende usare la sua opera. Quando il nazismo va al potere, offre al vate tedesco un’accademia poetica che lui rifiuta. Il vero omaggio gli viene tributato da Edith Landmann che scrive un appello agli ebrei tedeschi della Germania segreta, invitandoli all’esodo e a costruire all’estero comunità ideali basate sul pensiero di George. Nell’autunno del ’33 il poeta raduna di nuovo i suoi discepoli a Minusio, confidando loro il timore che dopo la sua morte i nazisti possano strumentalizzare il suo funerale. Chiede ai fratelli Stauffenberg d’impedirlo. George muore il mattino del 4 dicembre; dopo aver vegliato il suo corpo cinto d’alloro, i giovani della “Germania segreta” ingannano gli hitleriti, celebrando il funerale del poeta il giorno successivo a un’ora diversa da quella comunicata. «Solo uno di noi può compiere il gesto di forza al quale siamo chiamati, quando regna il caos» aveva scritto George ne I templari. Chissà se, assieme alle atrocità commesse dai nazisti cui aveva assistito impotente, nella mente di Stauffenberg avessero risuonato questi versi, prima che il piombo lo falciasse. Ad ogni modo, questo discepolo di George sapeva di sicuro che il suo sacrificio non sarebbe servito solo a «far sapere al mondo che c’erano dei tedeschi buoni in Germania», come aveva scritto alla moglie Nina. La maggior parte dei congiurati vennero uccisi dopo un processo farsa miranti a umiliare e screditare i membri del movimento, il più importante dei quali, con la macabra regia del Ministero della Propaganda, inizia il 7 agosto del 1944 con 8 imputati (tra cui il Feldmaresciallo von Witzleben, che avrebbe dovuto assumere il comando della Wermacht dopo il golpe). Gli imputati vengono tutti condannati a morte e giustiziati tramite impiccagione con fili metallici a ganci da macellaio. Ma la furia di Hitler e del suo circolo di macellai non si placa. I processi contro i congiurati si susseguono: alla fine in totale sono circa 170 le persone direttamente o indirettamente coinvolte nella congiura che vengono assassinate dal regime – militari, ma anche civili di ogni settore della società. Stülpnagell viene giustiziato dopo che era riuscito solo a ferirsi con un tentativo di suicidio; Erwin Rommel invece venne “invitato” a suicidarsi – dovendo scegliere tra questa soluzione e l’umiliante processo che gli sarebbe toccato. Ma la perfidia di Hitler non si arresta davanti a nulla. Essendo Rommel un eroe nazionale per i suoi successi militari la sua morte “in seguito a ferite” viene celebrata dal regime nazista come un grave lutto nazionale; Treskow invece sceglie di morire avanzando da solo nella terra di nessuno ed offrendosi ai proiettili russi. Il rischio che sarebbe finita così era alto e tutti i congiurati ne erano perfettamente consapevoli: la realtà è che Von Stauffenberg e i suoi camerati avevano preso sulle spalle la croce dei peccati della Germania, per redimerli col loro sangue, riscattando dal baratro gli imperatori Hoenstaufen e le meraviglie dell’Alto Medioevo, Goethe e Schiller, le fiabe dei fratelli Grimm, la poesia di George, Hölderlin e Novalis. Si erano sacrificati affinché nemmeno nell’abisso si spegnesse la luce della Germania segreta, il pensiero oltre la barbarie. A coniare la formula “Germania segreta” – formula carica di enigma e di potere evocativo – era stato nel Karl Wolfokehl, un membro del circolo intellettuale che si riuniva intorno a Stefan George, che si è detto era stato il re della Germania segreta. Il grido di von Stauffenberg: “Es lebe unser geheimes Deutschland” non è solo un urlo gettato in faccia al plotone di esecuzione è l’estrema professione di fede in una certa idea della Germania. La stessa che aveva spinto i congiurati di luglio a piazzare le bombe nella Tana del lupo per eliminare il tiranno e farla finita con il nazismo. Undici anni prima, il 14 novembre 1933, l’anno della presa del potere di Hitler, era stato Ernst Kantorowicz, biografo di Federico II, patriota e combattente nella Prima guerra mondiale, ebreo costretto da lì a poco all’esilio negli Stati Uniti, a parlare di quell’idea di Germania in una lezione tenuta all’apertura dell’anno accademico. Lezione ora pubblicata in Germania segreta (Marietti 1820), antologia di scritti di Kantorowicz a cura di Gianluca Solla. La Germania di Kantorowicz è quella di Stefan George e von Stauffenberg, ma anche di Johann Wolfgang Goethe e di Federico II. È la Germania meridiana e latina, che rigetta ogni impulso esclusivista e suprematista. Una tentazione sempre latente nell’anima tedesca ma che il nazismo seppe sfruttare al massimo grado costruendo l’abiezione razziale e totalitaria, rispetto alla quale nessun’altra fase della storia tedesca presente e passata è ovviamente paragonabile. Ma è la vocazione universalistica della cultura tedesca che Kantorowicz indica come compito della Germania per uscire da quel rischio, ricordando con Goethe che “il perfetto tedesco dovrebbe essere sempre più che tedesco”. Nella Germania segreta confluiscono l’elemento romano e quello greco, l’elemento italiano e quello inglese, “che sono da intendersi non come diversità non tedesche ma come dati di fatto originari dell’umanità”. E i più grandi tedeschi sono quelli che la Germania presume più estranei a se stessa, “nonostante essi abbiano scavato i pozzi più profondi”. Accadde con Federico II e Federico il grande, con Johann Winckelmann, con Goethe che “la Germania ha reso estraneo a forza di festeggiarlo”. E di questa estraneità fu oggetto anche Friedrich Hölderlin, “rifiutato in quanto romantico della grecità e di cui si ignorava volentieri la critica alla Germania perché la si percepiva come una degermanizzazione”. E non meno estranei rimasero innumerevoli altri tedeschi della Germania segreta: da August von Platen a Friedrich Nietzsche, arrivando a Stefan George. La Germania segreta porta in sé l’essenza dell’intera Europa e dei paesi del Mediterraneo: “Lì dove si desta l’elemento europeo della Germania”. E così Kantorowicz parla della cattolicità come elemento essenziale ricordando la vicenda di Clemente II, papa tedesco che restò durante il suo pontificato vescovo di Bamberga e principe dell’impero; e come quella di Bruno di Toul che fu papa con il nome di Leone IX. Pontefice tedesco anch’egli, ma che volle assolvere la sua missione universale anche contro le pretese nazionali di Enrico III. Storie lontane mille anni ma attuali, considerando che sul soglio pontificio nell’Europa di nuovo a egemonia tedesca siede oggi un pontefice tedesco e universale. Del resto la Germania è sempre stata spaccata in due dal limes romano sopra il quale c’è la Germania della Riforma, sotto quella cattolica con zone di confine dove queste due identità si confondono e confrontano. C’è una parte della Germania tutta tesa verso Roma, con una concezione politica carolingia che è quella che ha ispirato l’Europa di Konrad Adenauer e di Kohl, e c’è una Germania che tende a chiudersi in sé. La prima è quella di Stefan George, renano, proveniente da una famiglia di commercianti di vini, formatosi nella cultura francese, la seconda quella che ispira il prussianesimo. L’attrazione tra la Germania latina e l’Europa meridionale è simbolizzata dal dipinto Italia e Germania di Friedrich Overbeck, capolavoro scaturito dalla scuola dei nazareni, il poco noto ma essenziale cenacolo artistico spirituale sorto a Roma per iniziativa d’una comunità di pittori tedeschi che all’inizio dell’Ottocento cercarono e trovarono in Italia e in particolare nel centro della cristianità la sede e la fonte della loro ispirazione. Come del resto Goethe e Thomas Mann, l’altro gigante tedesco, umanista e cosmopolita, ascritto di diritto alla Germania segreta. “Profondo destino della Germania e più ricca grandezza” scriveva George Simmel “è di comprendere se stessa e il suo contrario come proprio sé superiore”. Un pensiero che sarebbe piaciuto a Stefan George e a Ernst Kantorowicz.