RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI
1 GIUGNO 2020
A cura di Manlio Lo Presti
Esergo
E il servo onora solo il violento …
FRIEDRICH HÖLDERLIN, Tutte le liriche, Plauso, Mondadori, 2001, pag. 187
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SOMMARIO
Dobbiamo diventare tutti Hannibal inebetiti
Il prof Zangrillo: “Il coronavirus non esiste più”. Scoppia la bufera
Coronavirus, arriva la mascherina con la valvola per bere: il brevetto è pisano
Ora vi racconto la verità su Immuni…
Covid, un gruppo di medici al governo: “Revocare i provvedimenti prudenziali”
“Ci scusiamo per il disagio”. “ATS… ma vaffanculo!”
QUELLA MANNAIA SU RISPARMI E CONTANTI, PER DIMOSTRARCI DEGNI DEL “RECOVERY FUND”
DIRITTO E MUSICA: L’INTERPRETAZIONE MUSICALE E L’INTERPRETAZIONE GIURIDICA
RIFLESSIONE DI UN LIBERO CITTADINO SUL VIRUS
La ricevuta del bollo auto va tenuta in auto?
Dopo il Covid-19 tornerà il tifo
Ungarétti, Giuseppe
I PUNTI CARDINALI DELL’ISPIRAZIONE – Giuseppe Ungaretti – I principi della poesia
Speranza cristiana ed etica kantiana: il poco che ci resta, il molto che ci serve
CYBER, TIMONIERE IN ROTTA VERSO I CONFINI DELLA PRIVACY
Didattica a distanza, quando il controllo si spinge troppo oltre
Gli italiani che hanno un mutuo sono in difficoltà. L’analisi
Aziende pubbliche dismesse e vendita riserve auree: il Piano Colao è eversivo
QUALI ECONOMIE STANNO RIPARTENDO, QUALI NO? Infografica istruttiva
FASE 2, SCATTA IL BLITZ PER ABOLIRE IL CONTANTE E RENDERCI SCHIAVI
Giuseppe Conte, Speranza, Lamorgese e Brusaferro “interrogati dai pm di Bergamo”.
DPO, tutta questione di… posizione
Privacy, il DPO: chi è e come nominarlo
CORONAVIRUS: LA GIUSTIZIA AI TEMPI DELL’EMERGENZA SANITARIA
Pessimismo
Realismo
LE FAKE WORDS: “SMART WORKING”
Bonus 600 euro, domande respinte: la Catalfo ha mentito? Il racconto di uno stagionale
Per Trump l’Antifa è un’organizzazione terroristica
GOVERNO: SACRIFICI NECESSARI, PRIVILEGI INTOCCABILI
Professor Zangrillo: “Da un punto di vista clinico il coronavirus non esiste più”
Le imprese statunitensi che finanziarono Hitler
DOCUMENTI PER LO STUDIO DELLA “MIT BRENNENDER SORGE”: L’ALLOCUZIONE NATALIZIA DEL 1937 DI PIO XI
EDITORIALE
Dobbiamo diventare tutti Hannibal inebetiti
Manlio Lo Presti – 1 giugno 2020
È apparso un articolo poco un articolo riguardante una nuova funzionalità attribuita alla mascherina (1) grazie ad una idea di un centro di ricerca in Toscana.
Adesso è possibile bere senza rimuovere la mascherina succhiando il liquido da una cannuccia inserita in un contenitore (bottiglia, thermos, ecc.).
Siamo veramente al colmo!
Riflettiamo sulle valenze simboliche e rituali dell’imbavagliamento e sulle tecniche di sovversione utilizzate dagli SPIN DOCTORS per farle accettare come un dovere civico e pseudosanitario, occultando il loro significato servile e antilibertario:
Cercare di attribuire altri utilizzi con la mascherina
- significa la sua permanenza sul viso senza una scadenza di utilizzo;
- significa la continuazione della riduzione degli umani a cose indistinte essendo loro sequestrata la possibilità di aggiungere la mimica del volto al messaggio parlato e ricevuto da un altro interlocutore eliminando il 75% del contenuto del messaggio, come la maggiore letteratura sulla comunicazione afferma da decenni;
- significa eliminare violentemente la sfera affettiva dei baci amicali e amorosi;
- significa un controllo totalitario del movimento dei corpi militarizzandoli dentro le regole del “divieto di assembramento”, cioè una riedizione 65.15.9.5.0. del Codice Rocco e sulla “Radunanza sediziosa” – art. 655 Codice Penale italiano, quindi diventiamo tutti “SOGGETTI SOSPETTATI 56 ORE SU 24” (2) – (3)
- significa certificare definitivamente la eliminazione del diritto di parola: “parli quando lo dico io”;
- significa certificare chi accetta di portarla per paura, per quieto vivere, per sottomissione o per tutte e tre i motivi insieme;
- significa censurare, catturare, minacciare, eliminare, allontanare, insultare coloro che non la indossano catalogandoli con una vasta e capillare opera di dossieraggio i cui dati saranno utilizzati per i prossimi
g.1)rastrellamenti di terra (inseguimenti e minacce sul posto, telecamere dappertutto, braccialetti, app di tracciamento identificazione facciale, termometri, dispositivi RFID sottopelle),
g.2)rastrellamenti di mare (le imbarcazioni con gli italiani saranno speronate e gli italiani uccisi, ma NON GLI IMMIGRATI perché sarebbe RAZZISMO!!!),
g.3)rastrellamenti di aria (elicotteri, alianti, riprese 24/24 dei satelliti italiani, della NATO della NSA, ecc. ecc. ecc.).
TUTTO CIÒ PREMESSO
PER RENDERE PLAUSIBILE IN BREVE TEMPO L’USO DELLA MASCHERINA CON L’ORIFIZIO
AVENTE LA FUNZIONE DI SUGGERE L’ENTEROCLISMA BUCCALE.
NIENTE DI PIÙ!
La razionalità della “FINESTRA DI OVERTON” è confermata ancora una volta …
Credo che l’ottimo Dario Argento avrà avuto un moto di ammirazione sul modo repentino in cui gli umani sono stati ridotti a sosia di Hannibal The Cannibal , ma senza avere la sua protervia, il suo genio maligno, ma genio, senza la sua intelligenza luciferina.
Solo maschere senza personalità, identità , volontà, idee proprie per impossibilità a dirle, maschere informi. Semiumani resi immensamente soli e soprattutto isolati e, per questo, malleabili, ricattabili, schiavizzabili.
Sarà rastrellata una nuova genia di TECHGLEBA MONOCELLULARE controllabile a distanza 56/24 anche nei momenti più intimi che dovranno essere eliminati del tutto con la istituzione dell’OBBLIGO PERMANENTE E TOTALITARIO AL “DISTANZIAMENTO SOCIALE” che potrà ripristinare antiche forme di relazione sociale servo-padrone.
Il padrone comanda e il servo OBBEDISCE A DISTANZA DI SICUREZZA, sotto il solerte e feroce controllo degli scherani tecnotronici.
ORMAI SOLO UN DIO CI PUÒ SALVARE …
NOTE
- https://video.repubblica.it/edizione/firenze/coronavirus-arriva-la-mascherina-con-la-valvola-per-bere-il-brevetto-e-pisano/361386/361942
- https://www.laleggepertutti.it/codice-penale/art-655-codice-penale-radunata-sediziosa
https://core.ac.uk/download/pdf/42948238.pdf La repressione delle opinioni dal Codice Rocco al diritto dell’unione europea
IN EVIDENZA
Il prof Zangrillo: “Il coronavirus non esiste più”. Scoppia la bufera
Il nuovo coronavirus “clinicamente non esiste più” e “terrorizzare il Paese è qualcosa di cui qualcuno si deve prendere la responsabilità”. A sostenere che il SarsCov2 abbia cambiato volto, perdendo molta della sua virulenza, è Alberto Zangrillo, direttore della terapia intensiva del San Raffaele di Milano.
Parole che il presidente del Consiglio superiore di sanità e componente del comitato tecnico scientifico (Cts) Franco Locatelli accoglie con “assoluto sconcerto” e “grande sorpresa”. Ed anche per il sottosegretario alla Salute Sandra Zampa è “un messaggio sbagliato che rischia di confondere gli italiani”.
Ad accendere il dibattito sono le dichiarazioni di Zangrillo, secondo cui “clinicamente il nuovo coronavirus non esiste più. Circa un mese fa – ha sostenuto – sentivamo epidemiologi temere per fine mese o inizio giugno una nuova ondata e chissà quanti posti di terapia intensiva da occupare. In realtà il virus dal punto di vista clinico non esiste più”.
Netta la replica di Locatelli: “Non posso che esprimere grande sorpresa e assoluto sconcerto per le dichiarazioni rese dal Professor Zangrillo. Basta guardare al numero di nuovi casi confermati ogni giorno per avere dimostrazione della persistente circolazione in Italia del virus”. Da qui la necessità di “continuare sul percorso della responsabilità dei comportamenti individuali, da non disincentivare attraverso dichiarazioni pericolose che dimenticano il dramma vissuto in questo Paese”.
Ma che il virus non sia più lo stesso lo sostiene pure il direttore della clinica di Malattie infettive dell’ospedale San Martino di Genova Matteo Bassetti, partendo dalla sua esperienza sul campo. Il virus “potrebbe ora essere diverso: la potenza di fuoco che aveva due mesi fa non è la stessa potenza di fuoco che ha oggi.
FONTE:https://ilformat.info/2020/06/01/il-prof-zangrillo-il-coronavirus-non-esiste-piu-scoppia-la-bufera/
Vogliono farci rimanere senza volto e quindi senza identità. Il fatto è simbolico. Non è da poco!!!
Ormai CI VOGLIONO DENTRO I RECINTI SOTTOMESSI, SCHIAVI SENZA DIRITTO DI PAROLA NE’ IDENTITA’ COME EVIDENZIA IL SIGNIFICATO DELLA MASCHERINA.
UN INQUIETANTE RIMANDO ANCHE ALLA MASCHERA DE “IL SILENZIO DEGLI INNOCENTI”.
Riflettiamo:
Coronavirus, arriva la mascherina con la valvola per bere: il brevetto è pisano
di Chiara Tarfano
Da Pontedera, la città della Vespa, in provincia di Pisa, nasce la mascherina con la valvola per bere ricambiabile. Il progetto è nato da un’idea di Carlo Arzelà, Tristano Baldanzi e Sefano Bani. Drinksafe (è il nome della mascherina) è un dispositivo brevettato ma non ancora certificato.
La valvola è adattabile anche ad altre mascherine in commercio.
Il materiale delle mascherine è in TNT in triplostrato e il costo del dispositivo standard si aggira intorno ai 5 euro. “La valvola una volta usate si smonta si disinfetta e si rimonta” spiega Carlo Arzelà.
FONTE:https://video.repubblica.it/edizione/firenze/coronavirus-arriva-la-mascherina-con-la-valvola-per-bere-il-brevetto-e-pisano/361386/361942
Ora vi racconto la verità su Immuni…
“Immuni” non è e non può essere un thriller. La gente ha bisogno di sentire anche voci che stonano con gli entusiasti filogovernativi che si complimentano vicendevolmente con “Good Job!” e altre espressioni anglofone che simulano un successo che è ancora tutto da vedere.
“Il Reverendo” ha risposto alla sollecitazione a tenere…. un’omelia, invito rivoltogli da Umberto Rapetto appena ha saputo di suoi esperimenti e verifiche sul codice sorgente.
Massimiliano Uggeri viene visto da molti come il “prete spretato”, come il “Bastiano” del Marchese del Grillo. Ha avuto qualche disavventura imprenditoriale, ma la sua competenza prescinde dalle tribolazioni giudiziarie che qualcuno vorrebbe utilizzare come scudo alle frecce che “Max” è pronto a scoccare.
Sviluppatore e hacker, studi di Ingegneria elettronica al Politecnico di Milano e una significativa esperienza al Media Lab del MIT, Massimiliano Uggeri conosce sulla propria pelle il fantasticare che si può fare sulle “app” e la lezione della vita lo spinge oggi a redigere questo “messaggio in bottiglia” e a “dire la verità, tutta la verità e nient’altro che la verità” su “Immuni”…
Alcune premesse iniziali, giusto per settare le aspettative e capire bene di cosa stiamo parlando:
Apple iOS è un sistema chiuso, blindato “by design”, e non è possibile bypassare questi controlli: tutto viene controllato dal Sistema Operativo, che per evitare situazioni potenzialmente rischiose, per questo Apple – insieme a Google – ha rilasciato la possibilità di accedere al Bluetooth e lasciarlo sempre acceso – che è una delle cose a rischio – a chi come entità governative o sviluppatori ufficialmente investiti da queste volesse sviluppare un’App per il tracciamento.
Quando il Commissario straordinario per l’emergenza Covid-19 (che per brevità qui chiameremo Arcuri) ha chiesto chi fosse in grado di fare gratis quest’App si sono presentati in molti. Peccato che Apple e Google ancora non avevano annunciato questa nuova possibilità, nemmeno nei canali non ufficiali si sapeva nulla, per cui chiedersi cosa c’era scritto nelle funzionalità dell’App approvata da Arcuri è assolutamente legittimo, ma lo è ancora di più chiedersi come società blasonatissime ed esperte abbiano potuto solo pensare di realizzare un’App – parlo per iOS – ben sapendo che non avrebbe non solo potuto funzionare ma che sarebbe stata rifiutata da Apple.
Dopo qualche tempo Apple e Google rilasciano le specifiche, per cui iniziano i lavori, anche se ormai è chiaramente troppo tardi perché l’App abbia qualche efficacia, ma comunque a gran voce viene chiesto di rilasciare il codice sorgente, in modo che – visto l’argomento molto delicato – chiunque in grado di farlo possa sia controllare che non ci siano cose “strane” ed anche contribuire. E qui cominciano a non quadrare le cose: prima viene rilasciata la documentazione (OK, avendo fatto l’analisi è chiaro che sia più facile che venga prodotta prima) e poi – dopo richieste sempre più pressanti – ecco che arriva il codice! Si, ma solo delle App – Android e iOS – e niente per il backend, ovvero la parte server che riceve i dati – non si sa quali – che li registra e gestisce. Questo rende molto difficile – diciamo quasi impossibile – capire quali vengano inviati, ma soprattutto non è proprio dato di sapere chi e cosa verrà fatto di questi dati.
Sappiamo che il sistema (chiamarlo App non ha nessun senso) è fatta da Bending Spoons, ma di fatto è un “consorzio” di società nel quale è chiaro cosa faccia solo BS. Degli altri attori si sa poco o nulla, se non che sono Jakala, SOGEI, e PAGOPA (che fa pagamenti sicuri? Ma che c’entra?)
Qualche giorno fa avevo scritto qualche cosa sulla prima versione dell’App iOS rilasciata: vabbè, sintetizzo dicendo che era una versione inutile, con riferimenti a server inesistenti ed altre amenità varie, tipo che senza poter recuperare la chiave per la crittografia (non rilasciata, ma nel codice c’era l’indirizzo del server inesistente) era di fatto un mockup, una demo, la definizione che avevo dato era “ci hanno messo nel recinto dei bambini così i grandi potevano lavorare in pace”, ed ho continuato a controllarne l’evoluzione. In tutto questo l’utilizzo smodato di tool esterni e di Pod (pezzi di codice open source) che sono sicuramente comodi ma di fatto fanno perdere il controllo del codice.
Poi arriva la grande sorpresa: il codice del Backend! Ok, in meno di mezz’ora installo una macchina virtuale con Debian minimalista, scarico tutto il codice e inizio ad installare. La documentazione per l’installazione del backend è scarna, come per l’App piena di tool esterni e librerie di terzi, grazie ad un po’ di esperienza e una buona dose di testardaggine, sono riuscito a farlo partire. Scarico la versione definita come “RELEASE” con tanto di pacchetto firmato per la submission ad Apple e… niente, è cambiato davvero poco o nulla. Niente di trascendentale, per carità, ora i server sono magicamente apparsi funzionano ma sono malconfigurati (chiave e i documenti necessari per la GDPR e i Termini di Servizio non sono accessibili, permesso negato, e non tutto viene recuperato e/o trasmesso in HTTPS, forse PagoPA che di mestiere fa anche i certificati SSL aveva da fare in questi giorni, boh?) Nella RELEASE c’è ancora il menu di debug, e – tra l’altro – crasha parecchio.
Insomma: fin dal primo rilascio su GitHub la versione è sempre stata “1.0” che già uno dice vabbè, così fino alla RELEASE che hanno – secondo loro – già inviato a Apple. Però dentro c’è scritto 0.9.0: come lo spiegate se non con una “presa per il culo”?
Qualche riga di debug (sul telefono, ovviamente): per chi conosce la materia è chiaro che sono errori un po’ grossolani, e
2020-05-29T14:04:12+0200 error: [immuni.main-application]: Unable to schedule background task: Error Domain=BGTaskSchedulerErrorDomain Code=1 “(null)”2020-05-29 14:04:42.808506+0200 Immuni[45219:6791010] Task <5CD722CA-E0D5-447F-AFA5-D088A5042C4D>.<2> finished with error [-1001] Error Domain=NSURLErrorDomain Code=-1001 “The request timed out.” UserInfo={_kCFStreamErrorCodeKey=-2102, NSUnderlyingError=0x6000036fb270 {Error Domain=kCFErrorDomainCFNetwork Code=-1001 “(null)” UserInfo={_kCFStreamErrorCodeKey=-2102, _kCFStreamErrorDomainKey=4}}, _NSURLErrorFailingURLSessionTaskErrorKey=LocalDataTask <5CD722CA-E0D5-447F-AFA5-D088A5042C4D>.<2>, _NSURLErrorRelatedURLSessionTaskErrorKey=( “LocalDataTask <5CD722CA-E0D5-447F-AFA5-D088A5042C4D>.<2>”), NSLocalizedDescription=The request timed out., NSErrorFailingURLStringKey=https://upload.immuni.gov.it/v1/ingestion/check-otp, NSErrorFailingURLKey=https://upload.immuni.gov.it/v1/ingestion/check-otp, _kCFStreamErrorDomainKey=4}2020-05-29 14:04:42.810928+0200 Immuni[45219:6791027] Task <5CD722CA-E0D5-447F-AFA5-D088A5042C4D>.<2> HTTP load failed, 0/0 bytes (error code: -999 [1:89])
2020-05-29 14:06:45.315550+0200 Immuni[45219:6789935] Could not signal service com.apple.WebKit.Networking: 113: Could not find specified service
LLVM Profile Error: Failed to write file “default.profraw”: Read-only file system
E qualche screenshot (dall’emulatore di Xcode
FONTE:https://www.infosec.news/2020/05/30/un-messaggio-in-bottiglia/immuni-lo-spiegone/
Covid, un gruppo di medici al governo: “Revocare i provvedimenti prudenziali” | Iss e Oms: “Il virus non è sparito, con l’allentamento ci saranno nuove ondate”
Critiche alle misure finora adottate, gli esperti: “Anche se le misure di lockdown saranno progressivamente eliminate si dovrà continuare a praticare il distanziamento sociale il più possibile”
“Il governo revochi i provvedimenti di contenimento emessi sulla base di uno stato di emergenza di cui oggi non sussistano dei presupposti di fatto che ne giustifichino l’applicazione”. E’ la richiesta posta da un gruppo di medici che ha inviato un’istanza in autotutela al governo. Nel documento vengono smontati i “punti della narrativa allarmistica sul coronavirus” attraverso prove documentali e l’esperienza sul campo, e viene chiesto al governo di giustificare le scelte fatte sulla base delle osservazioni di “esperti”. A questo gruppo di medici hanno replicato i masssimi organismi della sanità italiana e mondiale che operando sul campo e avendo a disposizione dati aggiornati e modelli di studio, diffidano dal seguire le indicazioni che circolano in rete. Oms e Iss invitano a non abbassare del tutto la guardia perché il virus non è sparito e con l’allentamento delle misure si prevedono nuove ondate di contagio”.
Il gruppo di medici: “Persiste un numero di divieti che non trova legittimazione scientifica”L’istanza è stata firmata da Pasquale Mario Bacco, Antonietta Gatti, Mariano Amici, Carmela Rescigno, Fabio Milani, Maria Grazia Dondini. Nell’atto i camici bianchi evidenziano come sia paradossale che “tutt’oggi, nonostante un quadro sanitario nettamente positivo, persista un numero impressionante di obblighi e divieti che non trova alcuna legittimazione scientifica e tantomeno giuridica”. Dall’altra parte, spiegano, permane “una regolamentazione confusa, contraddittoria e priva di giustificazione per chi ha un quotidiano e diretto riscontro con la situazione dei pazienti”.
“Basta diramare notizie allarmanti” I medici sono convinti che “in primo luogo sia necessario chiarire in modo univoco, chiaro e scientificamente credibile che il Covid-19 ha dimostrato di essere una forma influenzale non più grave degli altri coronavirus stagionali: nonostante l’Oms abbia dichiarato l’emergenza pandemica l’11 marzo, le cifre ufficiali dei deceduti, dei contagiati e dei guariti contraddicono la definizione stessa di ‘pandemia’ – scrivono -. Occorre dare informazioni corrette e fornire criteri di comprensione dei dati reali, evitando che i media diffondano notizie allarmanti, a nostro parere assolutamente ingiustificate. La banalizzazione statistica dei decessi è la sintesi di una comunicazione istituzionale che ha impedito, per tutta l’emergenza e ancora oggi, di avere una chiara sintesi della situazione, portando a un circolo vizioso in termini di provvedimenti sanitari e di impatto sociale”.
Leggi anche: L’Istat: il coronavirus fa raddoppiare i morti al Nord, addirittura quadruplicati a Bergamo
“Perché mantenere ancora le distanze ove non necessario?” E poi “per quale motivo si siano date disposizioni, su indicazione dell’Oms, di trasferire i pazienti anziani nelle Rsa, con le conseguenze ben note” e “per quale motivo si continui ostinatamente a ‘minacciare’ futuri, possibili scenari di inasprimento delle misure di contenimento, come se l’epidemiologia dipendesse solo dalla mancata ottemperanza di disposizioni sanitarie la cui efficacia è quantomeno dubbia: nessuna evidenza scientifica permette di affermare che in questo stadio dell’epidemia sia ancora necessario mantenere le distanze di sicurezza, usare mascherine, indossare guanti oltre a curare l’igiene delle mani”. Uso della mascherina che viene fortemente criticato per i danni collaterali che ne comporta.
Pronto l’esposto in caso di una mancata risposta Infine, concludono gli esperti, “confidiamo, in spirito di sincera collaborazione, di ricevere una risposta a queste nostre osservazioni, la qual cosa consentirà di porre fine alle pericolose speculazioni di chi, dinanzi a tanto dilettantismo, solleva il dubbio che il Covid-19 venga utilizzato per secondi fini”. Nel caso in cui il governo e le altre autorità interpellate non dovessero dare risposta entro i termini prestabiliti dalla legge i medici procederanno con un esposto.
Leggi anche: L’allarme dei medici delle terapie intensive
Iss: “Il virus non è cambiato, vanno rispettate le regole” – “La curva dell’epidemia sta decrescendo, stiamo andando verso un numero più basso dei casi in tutte le regioni, compresa la Lombardia”. Ad affermarlo il presidente dell’Istituto superiore di sanità (Iss), Silvio Brusaferro. “Solo nella prossima settimana sarà possibile avere i dati relativi all’andamento dei casi nei primi giorni della fase 2” ha detto Brusaferro. “Il virus non è cambiato – ha rimarcato il presidente dell’Iss -, ha le stesse caratteristiche e la stessa modalità di trasmissione che aveva nella fase 1, perciò violare le regole di comportamento per la prevenzione del contagio potrebbe facilitare la circolazione”.
Oms: “Il virus non è sparito” – Il coronavirus “non è sparito” e con l’allentamento delle restrizioni dobbiamo prepararci all’arrivo “di nuove ondate che si diffonderanno molto velocemente”. Lo ha detto l’inviato speciale dell’Oms per il Covid-19, David Nabarro. Anche se le misure di lockdown saranno progressivamente eliminate in tanti Paesi del mondo le persone “dovranno continuare a praticare il distanziamento sociale il piu’ possibile e isolarsi immediatamente se si ammalano”
FONTE:https://www.tgcom24.mediaset.it/cronaca/covid-un-gruppo-di-medici-al-governo-revocare-i-provvedimenti-prudenziali-mancano-i-presupposti-di-fatto_18845601-202002a.shtml
“Ci scusiamo per il disagio”. “ATS… ma vaffanculo!”
L’agenzia milanese per la salute “per errore” sparge il panico tra i cittadini: “È venuta a contatto col virus, rimanga a casa!”
Per fortuna non abito a Milano e non ho ricevuto l’incredibile SMS che l’Agenzia per la Tutela della Salute ATS di Milano ha “per sbaglio” inviato lunedì 25 maggio.
Per un attimo proviamo ad immedesimarci in chi riceve un messaggio e legge “ATS Milano. Gentile Sig/Sig.ra lei risulta contatto di caso di Coronavirus. Le raccomandiamo di rimanere isolato al suo domicilio, limitare il contatto con i conviventi e misurare la febbre ogni giorno. Se è un operatore sanitario si attenga alle indicazioni della sua Azienda”.
La ATS sul proprio sito web ha coraggiosamente scritto “Ci scusiamo per il disagio”. Sì coraggiosamente, perché nemmeno un incursore dei Navy Seals o del nostrano ComSubIn avrebbe l’ardimento di considerare un “disagio” il venire a sapere di essere (senza esserlo) un potenziale portatore di Coronavirus.
Gli impavidi funzionari hanno anche tenuto a precisare che “Agli interessati è stato inviato un ulteriore SMS di rettifica nella giornata di martedì 26/05” lasciando intendere che i “fortunati” hanno magari trascorso ventiquattr’ore nel panico, eventualmente avvisando a loro volta parenti e amici incontrati negli ultimi giorni. Non è difficile immaginare un lancinante effetto domino, fatto di ulteriori SMS, messaggi WhatsApp, telefonate e soprattutto di traumi emotivi che non si sanano con una banale “COMUNICAZIONE URGENTE AI CITTADINI” pubblicata sul sito web.
Come avranno passato la notte i destinatari del micidiale breve messaggio di testo spedito dall’Agenzia metropolitana?
Chi ripaga il danno (non il “disagio”) a questi poveretti? Cosa succederà a questa gente quando un domani sentirà il “bip” di un SMS in arrivo qualunque ne sia il contenuto? Come si comporterà chi riceve una comunicazione che possa riguardare la sua salute o proprio il contagio da COVID-19 ora che tutti si affretteranno ad installare la app Immuni?
Faranno tesoro dell’indispensabile “Per eventuali informazioni è possibile contattare il numero di telefono 02/85781”, se del caso mettendosi in coda al centralino della ATS “per non perdere la priorità acquisita”?
La circostanza è talmente drammatica da sbalordire anche i più immaginifici cultori della fantascienza. Possibile una cosa simile?
“Per un errore informatico” spiega la ATS sempre sulla propria pagina.
Sono sicuro che l’accaduto abbia tutti i requisiti per costituire la “carne al fuoco” per l’inevitabile “barbecue” che l’Autorità giudiziaria e il Garante per la Protezione dei Dati Personali vorranno preparare palesando la loro arte nel cucinare chi di dovere.
Mentre ci si augura che il fattaccio non passi in cavalleria, è d’obbligo complimentarsi con gli artefici di cotanto prodigio.
Tanto per cominciare il più sincero plauso va al direttore generale di ATS, il dottor Walter Bergamaschi (che al “Pirellone” era stato numero uno dell’assessorato alla Sanità e come si legge su Repubblica è “in «quota» Fontana: un tecnico, cioè, che il governatore leghista ha voluto personalmente”).
Sull’ipotetico podio la medaglia d’argento la riserviamo alla dottoressa Veronica Monaci, direttore dei Sistemi Informatici di ATS (pagina 6 dell’organigramma). Terza classificata è la società Rubrik srl con sede legale in via Clemente Mauro 13 a Salerno. Che c’entra? E’ la realtà che ha il ruolo di “Responsabile della protezione dei dati”, proprio di quei dati che sono il cardine di questa brutta storia…
Il titolo dell’articolo è un po’ forte? Macchè… E’ solo la revisione morigerata delle reazioni più garbate dei destinatari del messaggio. Ho provato a sostituirmi a chi ha ricevuto l’SMS ma ho voluto moderare i termini…
FONTE:https://www.infosec.news/2020/05/28/news/tecnologie-e-salute/ci-scusiamo-per-il-disagio-ats-ma-vaffanculo/
QUELLA MANNAIA SU RISPARMI E CONTANTI, PER DIMOSTRARCI DEGNI DEL “RECOVERY FUND”
Tra un mese gli italiani dovranno fare molta attenzione a come impiegheranno i propri risparmi (probabile interrogatorio da parte di Fiamme gialle ed Agenzia delle entrate) e, soprattutto, necessiterà evitare di far scoprire alle autorità di polizia l’eventuale tesoretto domestico. Perché dal primo luglio entrerà in vigore la limitazione (contenuta nella Legge di Bilancio ed approvata a fine 2019) all’uso dei contanti per pagamenti di beni e servizi: sanzioni pesantissime, e nel caso di grossi gruzzoli sotto il mattone scatterebbe anche il carcere oltre al sequestro. Le multe colpiranno anche l’eventuale donazione di danaro contante o i prestiti (oltre i 2mila euro) a congiunti, parenti ed amici. La riforma del controllo del risparmio italiano fa già da anni parte delle richieste di Commissione europea e Bce. Oggi, alla luce dell’accordo sul “Recovery fund”, l’Ue chiederà che la prima riforma in cambio d’aiuti sia appunto una stretta sull’uso che gli italiani fanno del proprio gruzzoletto, e colpendo il contante. Non dimentichiamo che nel resto dell’Ue non ci sono limiti all’uso di danaro contante.
Ma l’Italia è osservato speciale per debiti, dubbi di mafiosità sulla ricchezza e sul contante e, soprattutto, che il risparmio italiano sia frutto d’evasione fiscale. In pratica, l’Italia è ancora una volta l’appestato economico d’Europa. Da queste pagine, già un anno e mezzo fa avevamo narrato perché l’Ue deve colpire il risparmio degli italiani, e lo facevamo usando le parole di Stefano Simontacchi (direttore del Transfer Pricing Research Center dell’Università di Leiden, Olanda, e consigliere di Rcs MediaGroup). Simontacchi diceva sul Corriere della Sera che “una volta entrati nel sistema bancario, i soldi dovrebbero essere monitorati per impedire che vengano impiegati per usi incompatibili con l’attività del titolare”. E Simontacchi prevedeva “si sta presentando un’occasione imperdibile per reperire i fondi che mancano per gli interventi a favore della crescita”. Ma a quali soldi alludeva? Soprattutto chi dovrebbe essere colpito dalle iniziative del ministero dell’Economia? Nell’occhio del ciclone sono da anni i soldi che gli italiani avrebbero occultato sotto il mattone, creando (secondo i soliti prezzolati dagli “investitori istituzionali”) un “danno al sistema bancario del Paese”. Il danaro dei “paradisi domestici” (equivalente interno dei “paradisi fiscali” esteri) ammonterebbe secondo stime dell’Abi a 150 miliardi di euro, circa il 10 per cento del Pil italiano.
Un tesoretto bollato dal Corsera come “un enorme fiume sotterraneo di liquido che alimenta l’economia sommersa nella quale sguazzano beati evasori fiscali e criminali e che preoccupa magistrati e forze di polizia che per farlo riemergere vedono come soluzione una nuova voluntary disclosure e norme che incoraggino l’uso della moneta elettronica”. Ma oggi, nel dopo lockdown, il problema è doppio, e non riguarda solo il contante, s’estende all’uso allegro che gli italiani farebbero dei propri guadagni. E siamo alle solite, per una parte si tratta di popolo di formiche e per l’altra di cicale sprecone e poco attente alla “Green economy”. Già nel 2012, in pieno governo guidato da Mario Monti, pioveva sugli italiani il limite al prelievo bancario contanti di mille euro: quindi Pierluigi Bersani del Pd proponeva di abbassare il tetto del contante a 200 euro. Sempre dall’area politica Pd c’era chi proponeva il limite di mille euro alla tesaurizzazione domestica del contante, invitando l’esecutivo a normare il settore: in modo che la Guardia di Finanza potesse intervenire nelle case degli italiani con “paradisi domestici” superiori ai mille euro.
Norma che, nella prassi, di fatto ha già da tempo esteso l’articolo 41 del decreto di Pubblica sicurezza (che riguarda solo il fondato sospetto di armi e droga) alle circostanze di tesaurizzazione privata superiori ai 3mila euro. In pratica, il fondato sospetto d’un grosso gruzzolo può permettere l’accesso domiciliare alle forze di polizia (la perquisizione come per armi e droga). La norma ovviamente s’estende anche all’apertura delle cassette di sicurezza sospettate di occultare valori per più di 3mila euro: ma chi mai prenderebbe un simile rifugio bancario per somme inferiori? Ma torniamo alla stretta di luglio sull’uso del contante, perché è una norma contenuta nella Legge di Bilancio approvata a dicembre 2019. E, nella Finanziaria 2020, si prevede la progressiva riduzione dell’uso del contante per i pagamenti. Così dal primo luglio prossimo il tetto massimo di spesa in contanti sarà di 1999,99 euro: per cifre superiori sarà necessario essere tracciati dall’Agenzia delle entrate attraverso bancomat, carta di credito, assegni e bonifici.
Ciò non esclude che somme importanti possano ancora circolare tra chi si conosce, ma con massima circospezione, perché sotto pandemia si sono affinate le telecamere ed i sistemi d’intercettazione. Il tetto subirà ulteriore abbassamento dal primo gennaio del 2022, quando il limite massimo dell’uso dei contanti scenderà a 999,99 euro. I cittadini che, dopo quella data verranno trovati in possesso di cifre in contanti superiori al tetto di legge saranno sottoposti ad indagini. Ma, senza arrivare ai futuri risvolti penali, già dal primo luglio 2020 se si donassero o si prestassero 2mila euro in contanti si verrebbe sanzionati (multe da un minimo di 3mila euro a un massimo di 50mila euro). Per legge nella violazione sono coinvolti entrambi gli attori: chi effettua il pagamento e chi lo riceve. Problemi anche per i genitori troppo generosi, infatti la movida notturna dei giovani vedrà perquisizioni sempre più accurate da parte delle forze di polizia (dalla Finanza alla polizia locale), e qualora un ragazzo venisse trovato in possesso di soldi eccedenti le norme, scatterebbe l’indagine anche sui familiari. Tutto questo rigore piace in Ue perché sul banco degli imputati finiscono nuovamente i risparmiatori italiani: rei a parere di Commissione Ue ed esperti tedeschi di sottrarre capitali all’impresa. Secondo gli esperti europei la propensione al risparmio aumenterebbe nelle società meno evolute, generando quei serbatoi familiari che poi permettono l’immobilizzo per antonomasia, ossia l’acquisto della casa.
“Come disincentivare in Italia risparmio e conseguente investimento nel mattone?”, si domandano i signori dell’Ue. E’ evidente che i tedeschi non afferrino quanto le aspettative reddituali siano deboli in Italia. Ecco che nelle fasce poco agiate della popolazione si preferisce abbassare il livello della qualità della vita, risparmiare su cibo, vestiario e trasporti, considerando che ogni euro risparmiato sia di fatto un euro guadagnato. Ma nel nord e centro Europa non comprendono come mai l’italiano non riversi i propri sacrifici nell’impresa, nei titoli, nella Borsa, ed invece finisca sempre per acquistare mattoni o pezzi di terra. Il risparmio sta aumentando perché è ormai cronica la diminuzione dei consumi: il livello troppo basso di reddito disponibile spinge ad accantonare. Così le famiglie preferiscono un proprio serbatoio finanziario sotto il mattone, piuttosto che lasciarsi convincere dai guadagni di borsa e altri investimenti finanziari. Ma il rigore pre e post pandemia ci consegna uno Stivale stanco di questi condizionamenti, che avverte ormai l’Europa come una trappola, un abito stretto, scomodo, troppo freddo o troppo caldo.
FONTE:http://www.opinione.it/economia/2020/05/29/ruggiero-capone_recovery-fund-fiamme-gialle-agenzia-delle-entrate-commissione-europea-bce-ue-simontacchi-simontacchi-corriere/
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DIRITTO E MUSICA: L’INTERPRETAZIONE MUSICALE E L’INTERPRETAZIONE GIURIDICA
Sommario: 1. Premessa storica – 2. Elementi di comparazione tra interpretazione giuridica e interpretazione musicale
1. Premessa storica
Ormai da tempo la dottrina nordamericana si occupa della comparazione tra diritto e musica, in particolare del raffronto tra l’interpretazione giuridica e quella musicale, sostenendo che il modello ermeneutico più vicino a quello giuridico sia quello musicale.
Se in America, nell’ambito del movimento law & humanities, fioriscono entusiastici raffronti tra law & music, in Italia sono apparsi alcuni lavori di valenti giuristi i quali, più cautamente, evidenziano le analogie tra i due modelli interpretativi non tralasciando però le notevoli differenze.
Solitamente gli studi italiani prendono le mosse da quella polemica sull’interpretazione musicale che iniziò nel 1930 e durò per circa un decennio impegnando filosofi, musicologi, cultori dell’estetica e vide impegnati due insigni giuristi come Salvatore Pugliatti ed Emilio Betti.
È dunque necessario ripercorrere le tappe di quella polemica per verificare se il contributo di quei due sommi giuristi all’interpretazione musicale apporta un effettivo chiarimento alla comparazione tra diritto e musica, nei termini che a noi interessa.
L’abbrivio della discussione fu dovuto a un articolo apparso nel 1930 sulla Rassegna Musicale ad opera del suo Direttore, Guido M. Gatti, che lanciava il quesito se l’interpretazione musicale dovesse ritenersi atto di creazione e dunque arte ovvero atto di mera esecuzione.
Bisogna subito rimarcare che la polemica sull’interpretazione musicale si svolse tutta nell’ambito della filosofia idealistica che ebbe sicuramente il merito di aver posto, per la prima volta, il problema della natura della interpretazione.
Tuttavia, mancando all’epoca una dottrina e soprattutto una storia dell’interpretazione musicale, la questione fu affrontata esclusivamente sulla base di categoria estetiche, filosofiche ed ermeneutiche.
Il maggior agitatore della polemica fu Alfredo Parente, crociano a oltranza, che, nella sua opera La Musica e le arti, sostenne il carattere meramente tecnico – pratico, e dunque estraneo all’arte, dell’interpretazione musicale.
Il presupposto teorico dal quale partiva Parente era costituito dalla distinzione, di matrice crociana, tra arte e tecnica; quest’ultima era da collocarsi nella sfera pratica e dunque estranea al gesto creativo.
Il musicista, attraverso i suoi strumenti tecnici, <<traduce in realtà sonora i fantasmi nella sua mente compiuti>>; dunque la fase della realizzazione, intervenendo in un momento successivo alla creazione, si pone al di fuori della stessa.
Identificata la tecnica con l’interpretazione ne consegue l’appartenenza di quest’ultima al momento tecnico – pratico e dunque non creativo. L’interprete non muove <<dall’interno>> come il creatore ma <<dall’esterno>>, cioè opera su una realtà già data che rappresenta <<l’imprescindibile guida e il freno del suo lavoro>>. L’interprete è pertanto privo della libertà e dell’autonomia di cui gode, invece, il creatore e si pone come soggetto passivo rispetto all’opera.
Da questi presupposti, che in realtà erano pregiudizi crociani, Parente si spingeva ad affermare che l’interpretazione <<si volge a ristabilire le condizioni fisiche necessarie a rimettere in vita opere già perfette nella fantasia del musicista>>.
In conclusione l’interpretazione non è arte ma mera attività pratica.
La tesi di Parente fu contrastata da Salvatore Pugliatti, insigne giurista e fine musicologo che, nella sua opera, L’interpretazione musicale, sostenne il carattere creativo dell’interpretazione.
Anch’egli idealista, ma più gentiliano che crociano, partiva dal presupposto che ogni atto dello spirito è atto creativo, e, essendo l’interpretazione atto dello spirito, non può che essere anch’essa creativa.
Se è vero anche per Pugliatti che l’interprete opera su una realtà già data, lo spartito, che costituisce <<un limite esterno all’attività spirituale>> è pur vero che l’approccio al testo è soltanto il primo momento, filologico – pratico, dell’attività dell’interprete che però non esaurisce l’attività interpretativa.
Il momento filologico testuale è importantissimo ma serve all’interprete solo per risolvere i problemi prettamente tecnici dell’esecuzione, serve cioè a liberare lo spirito dagli ostacoli che lo imbrigliano.
Superati gli ostacoli tecnici lo spirito riacquista la sua libertà e <<manifesta fatalmente la sua potenza creatrice>>.
L’interpretazione musicale è per Pugliatti un’attività complessa, attività creativa dello spirito che ricrea l’opera attraverso <<una nuova sintesi creativa, nella quale l’opera del compositore ovvero del poeta opera come un fatto dell’esperienza dell’interprete>>.
Emilio Betti, grande giurista e pioniere dell’ermeneutica, non intervenne direttamente nella polemica sull’interpretazione ma, nella sua ponderosa Teoria generale dell’interpretazione, dedicò un ampio capitolo all’interpretazione musicale.
Il grande giurista, addottrinato dalle letture di Schleiermacher, Dilthey, Droysen, ma anche di un musicista teorico come Furtwangler, rifiutava i preconcetti crociani e muoveva da ben altro orizzonte, quello dell’ermeneutica.
Betti affermava che l’interpretazione può avere tre finalità: ricognitiva, riproduttiva e normativa e attribuiva a quella musicale la funzione riproduttiva.
Coerente con la sua idea che il processo ermeneutico consistesse in una <<inversione del processo creativo>> riteneva che l’interprete dovesse ricreare <<in sé il processo creativo>> e dunque <<ricreare l’improvvisazione>>.
Anch’egli scomponeva l’interpretazione musicale in due momenti: un primo, ricognitivo, dedicato all’intelligenza del testo e alla risoluzione delle difficoltà tecniche che il testo presenta, e, un secondo momento, dialettico creativo.
Il momento ricognitivo è il momento della tecnica, la quale <<facilita l’esecuzione del particolare … ma non vale a promuovere una visione dell’insieme>>. Dunque la tecnica è senza dubbio <<la chiave per aprire l’opera d’arte>> ma offre una visione solo parziale della stessa.
Analoghi limiti connotano la conoscenza storica, essenziale per penetrare il testo ma idonea solo a <<rilevare concatenazioni di indirizzi e problemi stilistici>>.
Il secondo momento dell’interpretazione è quello dialettico. Quello dell’incontro tra la personalità dell’autore e quella dell’interprete.
In questo momento l’interpretazione si pone come ricreazione che consiste in <<una sintesi ricostruttiva fatta di una dialettica di fedeltà e di rinnovamento>> e <<che non si conclude mai in unità perfetta come nella creazione originale>>.
Questo è un passaggio cruciale.
Prima di tutto si afferma che la ricreazione dell’opera non può che passare attraverso la personalità dell’interprete il quale rinnova pur essendo fedele al testo. Già nella sua prolusione romana del 1948 Betti aveva sostenuto che, nel campo dell’interpretazione musicale, l’inversione dell’iter creativo <<non può riuscire senza la illuminazione di una commossa sensibilità, di un’inventiva e di un intuito divinatorio>>.
Inoltre, sempre nel passo citato, si annuncia il limite dell’interpretazione e il dramma dell’interprete: <<una sintesi che non si conclude mai in unità perfetta come nella creazione originale>>. L’interpretazione non può ricreare l’opera interamente perché irripetibile e l’interprete vive il dramma di un <<ideale irraggiungibile>>: quello di identificarsi con l’autore.
Volendo fare qualche riflessione su quanto finora esposto possiamo rilevare che la polemica sull’interpretazione musicale arricchì senza dubbio l’estetica e la musicologia provocando un vivace dibattito tra esperti e cultori di musica; ma occorre anche aggiungere che oggi ha perso del tutto la sua attualità.
Senza allontanarci troppo dall’oggetto di questa indagine ma solo per completezza espositiva bisogna rimarcare che i limiti di un’impostazione idealistica, che separava l’arte dalla tecnica, appaiono oggi inaccettabili e già nel 1958 un filosofo della musica come Theodor W. Adorno, in un celebre articolo dal titolo Musica e tecnica, affermava che <<è filistea l’idea di un contenuto spirituale in sé, per così dire bell’e pronto, che verrebbe proiettato all’esterno con l’ausilio di una tecnica concepita in termini altrettanto cosali. Interno ed esterno si producono a vicenda>>.
Giunti a questo punto occorre domandarsi quale contributo hanno offerto i due giuristi alla comparazione tra diritto e musica ovvero tra interpretazione musicale e interpretazione giuridica.
Certo possiamo dire che i due giuristi, avvezzi all’esegesi normativa, trassero dal loro campo gli spunti e i presupposti teorici per affrontare il problema musicale ma né Pugliatti né Betti confrontarono i due paradigmi ermeneutici, almeno non nel senso che intendiamo noi.
Bisogna ancora soffermarsi su Emilio Betti.
È singolare che nel suo Trattato affronti l’interpretazione giuridica subito dopo l’interpretazione musicale senza mai fare raffronti espliciti; anzi, il paragone ricorrente è con l’interpretazione teologica che condivide con quella giuridica la medesima finalità.
Nonostante questo, in alcuni punti Betti offre spunti importanti.
In primo luogo afferma che, anche nell’interpretazione giuridica, il momento ricognitivo non esaurisce l’attività ermeneutica dell’interprete.
L’interpretazione giuridica non è solo un conoscere la norma ma un conoscere <<per integrarla e realizzarla nella vita di relazione>>; è un conoscere finalizzato a sviluppare <<direttive per l’azione pratica>> o per decidere un caso concreto.
E’ questa dunque la funzione normativa dell’interpretazione giuridica.
Inoltre Betti afferma che l’interpretazione giuridica contiene e supera sia il momento ricognitivo che quello riproduttivo.
Il giurista, secondo Betti, non si limita a conoscere e a riprodurre la norma ma va ben oltre: <<rendere il precetto assimilabile nella vita>>.
Infine, e questo è un punto fondamentale per ciò che diremo in seguito, Betti esclude ogni identificazione tra l’interprete e il legislatore.
L’interprete del diritto non vive pertanto il dramma dell’interprete musicale, non può tendere a identificarsi con l’autore della norma.
2. Elementi di comparazione tra interpretazione giuridica e interpretazione musicale
Alcuni valenti giuristi (Resta, Iudica, Cossutta) hanno vagliato le possibilità di una comparazione tra l’interpretazione giuridica e l’interpretazione musicale con esiti molto interessanti e utili per una più vasta comprensione del fenomeno giuridico.
Gli studiosi, pur insistendo sulle differenze e le peculiarità di ciascun campo del sapere, hanno individuato alcune tavole di raffronto, specie per quel che attiene al procedimento ermeneutico che accomuna il lavoro dell’interprete della norma a quello della partitura.
È sicuramente incontestabile che entrambi si trovano di fronte a un testo da interpretare che pone senza dubbio problemi ermeneutici da risolvere; entrambi si trovano a far rivivere un testo che altrimenti resterebbe lettera morta, cristallizzato in uno spartito o in una norma.
Ma vediamo più da vicino quali sono questi problemi e come vengono affrontati dall’uno e dall’altro interprete, perché dietro apparenti analogie si celano anche non trascurabili differenze.
Si è insistito più volte sulla somiglianza tra il linguaggio musicale e quello giuridico, entrambi connotati da vaghezza e imprecisione e bisognosi dell’attività integrativa dell’interprete.
Chiedersi come si deve intendere esattamente un “non espressivo” o un “cantabile”, scritto tra le righe di uno spartito, è molto simile a chiedersi come bisogna intendere il “comune senso del pudore”, un “atto osceno” o un motivo “abietto” scritto in una norma giuridica.
Sulla vaghezza di entrambi i linguaggi nulla quaestio; però occorre indugiare sulle notevoli differenze.
La norma giuridica è un testo che deve essere compreso da tutti perché tutti devono conoscerlo, ignorantia legis non excusat, dunque deve tendere a essere chiaro.
Il linguaggio musicale si rivolge solo a chi è in grado di conoscerlo e di decifrarlo e dunque non ha la pretesa di rivolgersi a tutti.
Inoltre il testo musicale, la partitura, è un testo muto; per diventare musica richiede la materialità del suono e dunque ha bisogno di almeno due fattori: un interprete e uno strumento.
Sulla necessità dell’interprete tanto si è detto ma i problemi che pone lo strumento musicale all’interpretazione sono stati spesso trascurati.
Tanto per fare alcuni esempi, sappiamo che Chopin creava le sue opere su un pianoforte, solitamente il Pleyel, molto diverso dall’attuale gran coda Steinway, spesso utilizzato nelle sale da concerto, senza contare che Chopin pensava i suoi Valzer per il salotto e non per la sala da concerto, con tutte le difficoltà che impone l’acustica all’interpretazione.
A questo bisogna anche aggiungere l’uso, da parte dell’interprete, di strumenti diversi da quelli previsti dal compositore: Bach e Domenico Scarlatti scrivevano per il clavicembalo opere che oggi vengono suonate indifferentemente sul pianoforte e anche quando talvolta si ricorre a strumenti antichi, d’epoca, non si tratta degli stessi strumenti esistenti all’epoca del compositore; valga, come esempio, il famoso clavicembalo rinforzato della Landowska.
Il giurista, come il musicista, è intermediario tra il testo e il pubblico ma il musicista è prima ancora un demiurgo tra il testo e il suono. Egli crea il suono. Per fare questo deve rispondere a tutte le domande che il testo gli pone e deve altresì conoscere le potenzialità, i limiti e i segreti dello strumento; questo è l’aspetto tecnico che è anch’esso arte, contrariamente a quanto affermato dagli studiosi esaminati nel paragrafo precedente.
La separazione tra momento tecnico, chiamato riduttivamente pratico o peggio ancora meccanico e momento creativo, è pertanto soltanto formale e inconsistente.
Si è evidenziato che per il giurista come per il musicista l’interpretazione letterale è spesso solo il primo momento del procedimento ermeneutico. Ormai, considerato l’ impoverimento del linguaggio normativo, anche nel diritto il dato letterale è spesso insufficiente per l’interprete.
Accertata l’evidente analogia c’è però da chiedersi che cosa sia il testo per il giurista e per l’interprete musicale.
Solitamente al giurista basta aprire la Gazzetta Ufficiale per trovare il testo della legge così come l’ha concepito il legislatore; non è così per il musicista.
Piero Rattalino, illustre studioso di interpretazione pianistica, ha dimostrato quanto sia difficile per il musicista rinvenire una partitura fedele all’originale.
Molto spesso l’esecutore si trova a lavorare su una partitura manipolata da un revisore, solitamente anch’egli un’artista che apporta modifiche guidato dal suo personale gusto; certo esistono oggi i cosiddetti Urtex (edizioni originali) ma anche questi non sempre trascrivono tutto quanto è nell’originale. All’esecutore che voglia studiare il testo originale non resta che cercare ristampe anastatiche ovvero cercare negli archivi e nelle biblioteche manoscritti originali.
Dunque per il musicista la fedeltà al dato letterale, al testo conforme all’originale, potrebbe trasformarsi in un’avventura filologica.
È stato altresì rilevato che nella musica come nel diritto esiste l’interpretazione autentica.
Nel diritto ciò avviene comunemente quando il legislatore stesso interviene a dirimere un contrasto interpretativo vertente su una norma. Nella musica si avrebbe quando il compositore esegue la sua stessa opera.
A parte l’apparente somiglianza, nel campo musicale non sempre l’interpretazione autentica fa stato, come direbbero i giuristi.
Graziosi e Rattalino hanno espresso non poche riserve sulle esecuzioni degli autori. Talvolta il compositore si allontana dal testo, talaltra non è tecnicamente all’altezza della sua stessa opera.
Sappiamo, solo per fare degli esempi, che Scriabin al pianoforte suonava molto liberamente le sue composizioni; stessa cosa vale per Rachmaninoff nella esecuzione del suo Concerto per pianoforte e orchestra in do minore; dalle poche incisioni che abbiamo, sorprendiamo un Ravel tecnicamente debole, non proprio all’altezza delle sue opere e un Grieg che suonava i suoi Pezzi Lirici come un magnifico dilettante ma pur sempre dilettante.
Nessun pianista professionista potrebbe prendere a modello uno dei compositori sopra elencati.
In conclusione, l’interpretazione autentica non ha, nella musica, lo stesso peso che invece ha nel diritto.
Un punto di grande convergenza è da registrarsi nella necessità, che talvolta accomuna l’interprete del diritto a quello della musica, di ricorrere a elementi extra testuali.
Come il giurista di fronte a un problema ermeneutico potrebbe trovarsi costretto a ricorrere all’interpretazione della norma data dalla dottrina o dalla giurisprudenza, così il musicista potrà cercare ausilio nella tradizione interpretativa.
Anche la musica ha la sua giurisprudenza, solitamente costituita dalle edizioni della partitura o dalle incisioni su disco da parte di alunni del compositore o da alunni di alunni; il caso paradigmatico è l’edizione delle opere di Chopin a cura del suo fidato discepolo Mikuli, basata sulle indicazioni scritte a mano del Maestro e l’incisione sul disco del pianista Koczalski, alunno di Mikuli e un tempo considerato autentico depositario della tradizione interpretativa di Chopin.
Un’ultima considerazione va fatta sulla libertà dell’interprete.
La libertà del giurista nell’esegesi della norma è sicuramente più limitata rispetto a quella dell’esecutore. Il giurista è vincolato, in primis, da regole ermeneutiche fissate da leggi, è il caso dell’articolo 12 delle Preleggi.
La libertà dell’esecutore in musica è questione molto più articolata.
Sappiamo che le partiture dei compositori del periodo barocco erano molto povere di indicazioni per l’esecutore, anche perché quelle opere erano suonate molto spesso dagli stessi compositori.
Con il passare del tempo la separazione tra compositore ed esecutore impose un arricchimento della notazione musicale e la partitura s’infittì di indicazioni per l’esecuzione fino ad arrivare a Stravinsky, musicista ossessionato dall’idea di cancellare ogni moto di libertà dell’esecutore.
Tuttavia nella musica contemporanea l’atteggiamento del compositore verso l’interprete è ondivago; se Ligeti, nelle Nouvelles aventures, detiene forse il record per le indicazioni all’esecutore, abbiamo un Satie che non dà indicazioni sul tempo delle Gymnopédies e uno Stockhausen che nel suo Klavierstücke XI lascia all’esecutore la libertà, e anche la responsabilità, di scegliere quale serie di note suonare, trasformando, così, l’esecutore in una sorta di coautore di un’opera che si riproduce senza mai esaurirsi.
Niente di tutto questo è pensabile nel diritto.
Non c’è dubbio che anche l’interpretazione giuridica sia un’operazione creativa ma non bisogna mai dimenticare che il musicista è un’artista che aggiunge qualcosa di suo, talvolta troppo di suo, al testo in vista di un risultato estetico; il giurista invece deve cercare di far parlare quanto più possibile il testo.
Nessuno ha mai rimproverato Glenn Gould per le sue interpretazioni provocatorie mentre un giudice che si prendesse le stesse libertà vedrebbe solo annullato il suo provvedimento.
Venendo dunque alla conclusione di questo percorso comparativo possiamo osservare che il confronto tra i due paradigmi ermeneutici è senza dubbio stimolante, specie per il giurista, allargando la vastità dei suoi orizzonti per una più completa ed estesa comprensione del fenomeno giuridico, ma non bisogna farsi troppo sedurre dal demone della comparazione e tenere ben a mente le peculiarità di ciascun campo.
In questo rivive, immutabile, l’insegnamento di Emilio Betti sulla specificità dell’interpretazione giuridica, sulla sua particolare funzione e sulla responsabilità che su di essa incombe.
NOTE
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
Iudica, Interpretazione giuridica e interpretazione musicale, Rivista di Diritto Civile, n.3.
Resta, Il giudice e il direttore d’orchestra. Variazioni sul tema : diritto e musica, in Materiali per una storia della cultura giuridica,n.2, 2011.
Resta,Variazioni comparatistiche sul tema: diritto e musica, in www.comparazionedirittocivile.it .
Cossutta, Sull’interpretazione della disposizione normativa e sui suoi possibili rapporti con l’interpretazione musicale, in Tigor: rivista di scienze della comunicazione, n.1 , 2011.
Gatti, Del problema dell’interpretazione musicale, in Rassegna musicale, 1930, 225.
Parente, La musica e le arti: problemi di estetica, Bari, 1936.
Pugliatti, L’interpretazione musicale, Messina, 1940.
Betti, Teoria generale dell’Interpretazione, Milano, 1955.
Betti, Le categorie civilistiche dell’interpretazione, in Riv. It. Sc. Giur., 1948, 34.
Adorno, Musica e tecnica, ora in Immagini dialettiche. Scritti musicali 1955-65, Torino, 2004.
Graziosi, L’interpretazione musicale, Torino 1967.
Rattalino, L’interpretazione pianistica. Teoria, storia, preistoria, Varese, 2008.
Rattalino, Da Clementi a Pollini. Duecento anni con i grandi pianisti, Firenze, 1999.
Fubini, L’estetica musicale dal Settecento a oggi,Torino, 1964.
Mila,L’esperienza musicale e l’estetica, Torino, 1956.
Jori, Interpretazione e creatività: il caso della specialità, in Criminalia, 2009.
FONTE:http://www.salvisjuribus.it/diritto-e-musica-linterpretazione-musicale-e-linterpretazione-giuridica/
ATTUALITÀ SOCIETÀ COSTUME
RIFLESSIONE DI UN LIBERO CITTADINO SUL VIRUS
Enrico Marino – 31 maggio 2020
Dunque..il virus è mortale in spiaggia a meno di 4 metri tra ombrelloni ma non fa niente in aereo pressurizzato.
Vive su tutte le superfici tranne sulle buste delle bollette e gli acquisti di Amazon.
Non vive nei Carrefour e grandi catene ma è mortale nei bar, ristoranti,piccole imprese,parrucchieri e chiese.
La massima letalità la raggiunge tra i banchi di scuola, tra i quali i bambini sono i principali vettori di virus e batteri.
Il rientro a scuola avverrà solo dopo aver speso soldi per sanificazioni e vaccinato i bambini.
Pure sulle banconote pare sopravviva addirittura trentotto ore, sui bancomat e carte di credito muore immediatamente.
E sulle cambiali? Evapora !
Il virus è mortale dove possono arrivare vigili/forze dell’ordine, per tutto il resto ci sta l’aumento dei prezzi e la ridotta disponibilità.
È pericolosissimo se uscite a prendere un caffè o un aperitivo all’aperto, ma innocuo se si deve accogliere in pompa magna il ritorno di una persona “rapita”.
Il virus, quando sente la parola “elezioni” diventa feroce!
Può essere curato con il plasma ad un basso costo, ma si preferisce il vaccino..sperimentale e ad alto costo.
Siamo in una repubblica democratica, con il popolo sovrano, ma veniamo sottomessi dai diktat del governo.
È un virus che si accanisce sugli anziani e le piccole imprese.
È un virus elitario…usa solo il 5G per comunicare..e pare che per vederlo occorra una fantomatica app.
Decisamente pericoloso e aggressivo nelle palestre dove bisogna sanificare tutto prima, durante e dopo, ma sembra essere innocuo sui mezzi pubblici dove puoi appoggiarti ovunque e tenerti agli appositi sostegni anche se prima c’è passato Mr Covid in persona, addirittura non c’è bisogno nemmeno della misurazione della temperatura.
Sembra non essere letale nemmeno nei campi di calcio dove i calciatori possono anche fare ammucchiate in area o in barriera sui calci di punizione…
Viva la coerenza!!!! E, viva la scienza
Contributo tratto dal gruppo di discussione Whatsapp “AMICI DELL’ARTE”
La ricevuta del bollo auto va tenuta in auto?
Ho appena pagato il bollo auto: la ricevuta del versamento va conservata in auto per essere esibita in caso di controllo?
Da anni il cosiddetto bollo auto non è più una tassa sulla circolazione, ma sul possesso. Il che significa che il bollo va pagato anche se l’automobile resta inutilizzata o nel box auto. La conseguenza è che, non essendo un tributo collegato con la circolazione, la ricevuta di pagamento del bollo auto non va conservata a bordo del veicolo, né i vigili, la polizia o la guardia di Finanza potranno chiedere all’automobilista di esibirla in caso di controllo. Difatti i controlli della tassa automobilistica vengono effettuati in via informatica.
Anzi, è consigliabile tenere a casa tale documentazione per evitare che vada smarrita o rubata.
Per quanto tempo va conservata la ricevuta di pagamento del bollo auto?
In ogni caso, è opportuno che il contribuente custodisca, in luogo sicuro, tutte le ricevute di pagamento del bollo auto onde dimostrare l’adempimento dell’obbligazione tributaria in caso di controlli da parte della Regione o qualora arrivino cartelle di pagamento. In particolare, è opportuno che i documenti siano conservati per almeno tre anni decorrenti dal 1° gennaio dell’anno successivo a quello di versamento. Questo perché, al termine di tale periodo, si forma la cosiddetta «prescrizione»: in altre parole “scade” la possibilità, per l’amministrazione, di richiedere il pagamento e, se anche dovesse pretenderlo, al contribuente basterà solo dimostrare il decorso dei tre anni, senza dover anche esibire le ricevute di versamento della tassa automobilista.
Quali documenti vanno conservati in auto
Oltre ovviamente alla patente e al libretto di circolazione, è necessario conservare il certificato di assicurazione, ossia il documento contenente le informazioni sulla copertura assicurativa e che permette di circolare in tutta Europa senza la Carta Verde.
Non è più necessario conservare il contrassegno dell’assicurazione (cosiddetto tagliando) e il certificato di proprietà dell’auto, entrambi ormai in forma digitale.
Non è obbligatorio, ma opportuno, conservare nel cruscotto il cosiddetto Modulo Cai, ossia il modello da compilare in caso di incidente e da consegnare all’assicurazione per una più rapida definizione della pratica di indennizzo.
FONTE:https://www.laleggepertutti.it/147054_la-ricevuta-del-bollo-auto-va-tenuta-in-auto
Dopo il Covid-19 tornerà il tifo
Si pensava che qualora lo spettacolo del pallone fosse stato sospeso ci sarebbero stati dei disastri, ma così non è stato
Presto ripartirà il campionato di calcio. Forse lo sport nazionale non è un “male”. Il male semmai è il tifo.
Il tifo è un sentire abnorme da cui dipendono tutta una serie di comportamenti e stati d’animo “anomali”. Non a caso l’etimologia greca della parola tifo può anche tradursi come “febbre”, cioè una specie di pensiero con alcune caratteristiche del “delirio”, prima fra tutte il distacco dai piani di realtà.
Ci riferiamo a tutte quelle persone il cui umore dipende dal risultato della partita e a tutto ciò che ruota intorno a questo fenomeno: non solo spettacoli televisivi e radiofonici, ma anche a coloro che in ogni ambito lavorativo o sociale parlano in maniera appassionata e ridondante, e da cui subiamo, spesso passivamente, un martellamento a volte spiacevole.
Si percepisce chiaramente che questa passione è su base irrazionale, come “incidenza immaginaria” in tutta la filiera dei suoi significati; “incidenza immaginaria” evidente nei cronisti radiofonici che durante alcune trasmissioni sportive si rivolgono al loro pubblico chiamandolo “la platea di sportivi”, platea costituita magari da uomini spiaggiati su un divano con una pancia a mongolfiera a cui viene il fiatone soltanto salendo un piano di scale. E’ in un piano distaccato di realtà anche il racconto durante una trasmissione radiofonica, della sofferenza di un anziano signore che era ”in lacrime”, con la voce rotta dal pianto, per un rigore non concesso alla propria squadra del cuore e che, poco prima, aveva descritto la tragedia dei propri figli disoccupati e senza casa con una certa pacatezza e tranquillità d’animo. Un’incidenza immaginaria sì, ma che nella nostra vita che non si sarebbe mai potuta nemmeno mettere in discussione se non fosse arrivato il lockdown. Questo esperimento sociale, oltre che stimato pericolosissimo, sarebbe stato di fatto impossibile da realizzare.
Negli anni ‘80 l’Espresso intitolava “l’Italia è una Repubblica fondata sul pallone” sottolineando quanto gli italiani fossero dipendenti dal calcio, visto non solo come evento agonistico ma come una panacea universale foriera di pace sociale, capace di tenere in piedi i governi, di risoluzioni di conflitti sociali ed economici. Ancora oggi si cerca di dimostrare come personaggi del mondo dell’arte o intellettuali siano anch’essi tifosi per rinforzare l’idea che essere tifosi è auspicabile.
Si pensava che qualora lo spettacolo del calcio fosse stato sospeso ci sarebbero stati dei disastri e invece… E invece possiamo dire in questo periodo di pandemia da Coronavirus, in cui le partite di Calcio sono state sospese per lungo tempo, che così non è stato. Le temute conseguenze di questa arma di distrazione di massa non si sono fatte sentire neanche un po’. Anzi, se proprio dovessimo fare un bilancio, potremmo dire che l’assenza di questo martellante “rito tribale” ci abbia anche un po’ migliorato. Il calcio è un pilastro importante dell’economia italiana e ruotano forti interessi economici, mercato che ne approfitta ma non crea una audience smisurata in quanto creata dal tifo e non il contrario. Ci sono bisogni di massa che trovano come facile valvola di sfogo il tifo e dunque diventa così potente e pervasivo. Ma se non ci fosse, queste istanze sociali avrebbero sfoghi più tortuosi ma più giovevoli per la società?
Ma se fosse così anche per la televisione? La televisione essendo presente in ogni casa può accompagnare la vita quotidiana di ognuno di noi. Si è detto che chissà quali danni avremmo mai potuto avere se non ci fosse stata ad assorbire tutta l’aggressività, la solitudine delle persone, la frustrazione sociale: specie in alcuni spettacoli in cui va di scena il sadismo travestito da pietà tipo “Chi l’ha visto?” o il voyeurismo accattone di “Uomini e donne”…
Può sorgere il dubbio che tante cose che riteniamo necessarie per mantenere l’equilibrio sociale e forse il nostro stesso equilibrio mentale siano solo delle pseudo-realtà e che eliminarle ci renderebbe diversi, forse migliori.
FONTE:https://www.infosec.news/2020/05/31/speciale-coronavirus/dopo-il-covid-19-tornera-il-tifo/
CULTURA
Ungarétti, Giuseppe
Ungarétti, Giuseppe. – Poeta italiano, nasce ad Alessandria d’Egitto, l’8 febbraio 1888, da genitori lucchesi, colà emigrati, perché il padre Antonio lavorava come sterratore al canale di Suez. Frequenta l’École Suisse Jacot e si forma sui classici francesi: Baudelaire e Mallarmé soprattutto. Stringe amicizia con Enrico Pea e i fratelli Thuile; con Kavàfis e Zervos (il gruppo di “Grammata”). Nel 1912 U. migra a Parigi, si iscrive alla Sorbona (tesina su Maurice de Guérin con Strowski; segue i corsi di Bergson al Collège de France). Si lega ai futuristi italiani a Parigi – le sue prime poesie appariranno nel 1915 su Lacerba – ma anche ad Apollinaire, Paul Fort, Léger. Nel 1914 rientra in Italia e si arruola come volontario, soldato semplice, sul Carso. Nasce Il Porto Sepolto, stampato a Udine nel 1916. Finita la guerra, pubblica, per impulso di Papini, Allegria di naufragi, presso Vallecchi, 1919. Sposa Jeanne Dupoix, 1920. Si trasferisce a Roma nel 1921, una Roma barocca e cattolica, che fa da sfondo al Sentimento del Tempo, 1933. Nel 1936 si stabilisce a San Paolo del Brasile, ove gli è stata offerta la cattedra di Lingua e letteratura italiana presso l’università. Nel 1937 muore il fratello, nel 1939 il figlio Antonietto; nel 1942 rientra in Italia, ove è nominato “per chiara fama” titolare della prima cattedra di Letteratura italiana contemporanea presso l’università di Roma. Dai lutti privati e collettivi nasce l’esperienza del Dolore, 1947. Dalla vicenda di barbarie della seconda guerra mondiale sorge più alta l’esigenza di raccogliere, nella meditazione dei classici, la memoria della dignità e della tragedia di essere uomini: saranno le mirabili traduzioni dei 40 Sonetti di Shakespeare, delle Visioni di Blake, della Fedra di Racine, delle poesie di Gongora e Mallarmé, dell’Eneide e delle “Favole indie/”>indie della genesi”. Potrà così compiersi il viaggio e l’ultima ‘mira’: La Terra Promessa, 1950 e Il Taccuino del vecchio, 1960; rielabora poi, ‘a lume di fantasia’, le prose d’arte e di viaggio: Il Deserto e dopo, 1961. Raffinato esercizio di autoesegesi e di poetica sono le quattro lezioni, tenute nel 1964 alla Columbia University, New York, sulla Canzone. Muore a Milano nella notte fra il 1° e il 2 giugno 1970, già accolti, a Capodanno, “Gli scabri messi emersi dall’abisso”, in una poesia che sempre “torna presente pietà” (L’impietrito e il velluto). L’opera di U. è oggi riunita nei volumi Vita d’un uomo. Tutte le poesie (a cura di L. Piccioni, 1969); Vita d’un uomo. Saggi e interventi (a cura di M. Diacono e L. Rebay, 1974); Vita d’un uomo. Viaggi e lezioni (a cura di P. Montefoschi, 2004). Alla conoscenza del laboratorio giovanile ungarettiano ha contribuito il vol. di Poesie e prose liriche. 1915-1920 (a cura di C. Maggi Romano e M. A. Terzoli, 1989), autografi ritrovati, con le lettere, tra le carte di Papini. In ed. crit. sono apparsi: L’allegria (a cura di C. Maggi Romano, 1982) e Sentimento del tempo (a cura della stessa e di R. Angelica, 1988).
“Amo le mie ore di allucinazione […]. Anche le mie ore di randagio, d’immaginario perseguitato in esodo verso una terra promessa” (G. Ungaretti, lettera a G. Papini del 25 luglio 1916 dalla zona di guerra). Introdurre al Porto Sepolto (1916) con una citazione che presenta il nomade già in viaggio, in esodo, verso una Terra promessa, significa proporre la visione non già di un incipit, ma di un’origine, sempre ricercata e sempre più lontana; attestare non tanto un”opera prima’, ma il nucleo generatore più fecondo dei grandi miti ungarettiani di “riconoscimento” e di “quête” sino – appunto – alla Terra Promessa.
Così, al compimento del proprio percorso di poetica Ungaretti raggiungerà – poeta europeo – i modelli che l’avevano accompagnato, sin dalla Jeune Parque, 1917, di Paul Valéry o dalla Waste Land, 1922, di Eliot ove già si figura nel “drowned Phoenician Sailor” il “Piloto vinto d’un disperso emblema” del Recitativo di Palinuro. E, più ancora, affiora la recente esperienza dei Four Quartets, 1936–42, ove “Moves perpetually in its stillness”, – perpetuamente muove nella sua quiete – il desiderio di forma: “effimero / Eterno freme in vele d’un indugio” (Cori […] di Didone, VIII).
Come nel suo Petrarca, il Triumphus Eternitatis sarà assorbito dal buio nella notte dell’ossimoro: “Mi fanno più non essere che notte, / Nell’urlo muto, notte” (Ultimi Cori per la Terra Promessa, 12; dal Taccuino del Vecchio, 1960), nell’afono vuoto: “Che, dal fondo di notti di memoria, / Recuperate, in vuoto / S’isoleranno presto, / Sole sanguineranno” (ivi, 12). La poesia dell’ultimo Ungaretti si colloca accanto alle voci più nude della desolazione, come quella di Celan, che tradurrà mirabilmente La Terra Promessa (Das verheissene Land) e il Taccuino del Vecchio (Das Merkbuch des Alten). Anche quando non rimanga che “dondolo del vuoto” (L’impietrito e il velluto, 1970), deserto e Lösspuppen, crisalidi di Loess e “impalpabile dito di macigno”, pure, per memoria di forma, il ritorno è, sempre, istante possibile: “Petrarca / ist wieder / in Sicht” (Celan), “Fulmineo torna presente pietà” (L’impietrito e il velluto, clausola), nell’eterno bagliore / abbaglio di illuminazione e miraggio: “Incontro al lampo dei miraggi / Nell’intimo e nei gesti, il vivo / Tendersi sembra sempre” (Monologhetto). L’eterno Ist wieder: è di ritorno, nuovamente, nostra unica eternità, memoria di poesia che rinnova ricreando, unico e solo “diritto di ritorno” – “zurück – und zurückreicht” – che sempre ci resta:
E nel silenzio restituendo va,
A gesti tuoi terreni
Talmente amati che immortali parvero,
Luce.
(Ungaretti, Segreto del poeta).
Und in der Stille
deinen Erden-Gesten
– so sehr geliebt, daß sie mir
[unsterblich schienen –
zurück – und zurückreicht:Licht.
(Celan, Dichters Geheimnis).
Carlo Maria Ossola
FONTE:http://www.treccani.it/enciclopedia/giuseppe-ungaretti/
I PUNTI CARDINALI DELL’ISPIRAZIONE – Giuseppe Ungaretti – I principi della poesia
Speranza cristiana ed etica kantiana: il poco che ci resta, il molto che ci serve
È in atto un risveglio, individuale e collettivo, di straordinaria portata. Il Covid, almeno in questo, è stato di aiuto. Ha prodotto la accelerazione di un processo di illuminazione improvvisa di tante menti addormentate. Temi di cui fino a due mesi fa non si poteva neanche parlare, sono all’ordine del giorno. Saperi che, fino a all’anno scorso, erano confinati nei convegni per specialisti diventano consapevolezza diffusa tra gruppi sempre più nutriti di persone. Sta accadendo l’impensabile. E cioè la caduta del velo di Maya della incoscienza di massa.
Il Mondo, la Storia, il Contesto si stanno rivelando per ciò che, brutalmente, sono. È come nella storia del bambino il quale, nella sua ingenua innocenza, “vede” il re nudo occultato a tutti gli altri dalla stolta ottusità dei servi. A voler usare un’espressione abusata si potrebbe aggiungere: sta venendo giù tutto. Ma tranquilli: non stanno venendo giù cose buone e giuste. Sta venendo giù la tela cerata che finora ricopriva cose cattive e ingiuste, celate ai nostri occhi da una accurata propaganda.
E mentre in tanti si destano, e stropicciano gli occhi cisposi e addormentati, ancora increduli, la Matrice capisce che non c’è più tempo. E accelera. Parla ormai apertamente di app destinate al controllo massivo, di limitazioni “legali”, e magari perpetue, delle libertà fondamentali, di vaccinazioni obbligatorie, di soppressione “giustificata” del dissenso, di uno Stato etico e “correttivo” così simile a quelli partoriti, nel Novecento, da alcune delle più brutali dittature della storia, così analogo a quelli disegnati dagli scrittori distopici di mezzo secolo fa. Ma abbiamo bisogno di conforto.
Abbiamo bisogno di armi psicologiche più potenti ed efficaci di quelle avversarie. Perché la sproporzione delle forze in campo è così evidente, prepotente, micidiale da scoraggiare anche il più visionario degli ottimisti. E allora, ve ne proponiamo due, benchè fuori moda: la speranza cristiana e l’etica kantiana. La speranza cristiana è le “fede”, incrollabile, nel fatto che tutto andrà veramente bene, ma non nel senso che intendono lorsignori.
Nel senso di un cambiamento epocale, di una rigenerazione morale, di un rinnovamento sociale indirizzato verso tutti i valori oggi a rischio di estinzione: pace, libertà, democrazia, indipendenza, partecipazione, collaborazione. La speranza cristiana non ammette deroghe. Alla fine, il “male” perde e il “bene” vince. Nonostante il male abbia la statura di Golia e il bene solo la fionda di Davide. Quanto all’etica kantiana risponde a una precisa domanda. Quella che si pone chiunque sia impegnato in opere politiche, pratiche, intellettuali di resistenza all’attuale, apparente “ordine” del mondo: chi me lo fa fare?
Tutto l’impegno profuso sembra troppo piccolo, vano, dispersivo rispetto alla potenza di fuoco delle armate mediatiche nemiche. Ebbene, Kant ci risponde: “tu devi”. Lo “devi” fare e basta. Non perché “serve”, non perché “funziona”, non perché “vinci”. Perché “devi”. È questo l’imperativo etico cui siamo tutti chiamati. Non dobbiamo preoccuparci dei risultati. I risultati verranno se noi, a dispetto delle evidenze, continueremo a impegnarci in questa guerra “perduta” in partenza. Ma, alla fine, vittoriosa.
Francesco Carraro
www.francescocarraro.com
FONTE:https://scenarieconomici.it/speranza-cristiana-ed-etica-kantiana-il-poco-che-ci-resta-il-molto-che-ci-serve/
CYBERWAR SPIONAGGIO INFORMAZIONE DISINFORMAZIONE
CYBER, TIMONIERE IN ROTTA VERSO I CONFINI DELLA PRIVACY
31 MAGGIO 2020 – Valeria Rondinelli | in Penale
Sintesi
L’utilizzo del “Trojan di Stato” è uno strumento investigativo in grado di annientare la privacy in termini di intercettazioni non penalmente rilevanti, sia delle persone coinvolte nelle indagini, che di terzi estranei ad essi. Difatti risulta estremamente complicato durante lo svolgimento di casi giudiziari, dove si ricorre ai captatori informatici, riuscire a non oltrepassare quei limiti che ne garantiscono la tutela tanto della privacy quanto della persona. L’era digitale ci rende dei bersagli mobili, dal momento che assumono le sembianze di un computer. Dalle capacità dimostrate dal suddetto Trojan è come se noi popolazione, fossimo un gregge osservato h24 da un unico occhio attento, quello di Polifemo.
Abstract
Fino a poco tempo fa si ricorreva alle intercettazioni telefoniche durante indagini di stampo mafioso o terroristico, ad oggi invece lo si fa anche per indagini che riguardano reati di corruzione. Ma si capisce bene quanto sproporzionato sia paragonare un reato come la corruzione a quelli di mafia e terrorismo. In quanto innanzitutto nei casi di corruzione vi sono solo beneficiari, mentre in quelli di mafia e terrorismo sono coinvolte vittime, ragion per cui bisogna usare due pesi e due misure e soprattutto strumenti differenti con cui combatterli.
Le intercettazioni effettuate tramite captatore informatico, vengono denominate intercettazioni attive, questo perché non avviene un ascolto passivo del segnale, piuttosto ingabbiano le informazioni. È quello che è successo nel caso Palamara, tramite lo smartphone di quest’ultimo, infettato da un Trojan. Ma bisogna prestare molta attenzione durante quelle indagini dove viene utilizzato uno strumento del genere per eseguire operazioni come intercettazioni telefoniche, perché basta un nulla per mutarlo in un mezzo di sorveglianza di massa; come nel caso dello spyware denominato Exodus. Il fine per il quale tale spyware era stato progettato era spionaggio nei confronti di criminali, ma che ha finito per infettare centinaia di utenti italiani, a causa di un ipotetico errore di programmazione, tramite delle app inserite su Google Play Store.
L’intervento del Garante della privacy ha ancora una volta confermato quanto sia indispensabile analizzare molto più a fondo la questione Trojan. Tra le altre cose ha evidenziato con riferimento al caso Exodus, quanto segue: “Ciò che, tuttavia, emerge con evidenza inequivocabile, è la notevole pericolosità di strumenti, quali i captatori informatici, che per quanto utili a fini investigativi rischiano, se utilizzati in assenza delle necessarie garanzie anche soltanto sul piano tecnico, di determinare inaccettabili violazioni della libertà dei cittadini. Proprio per la complessità della tematica concernente le intercettazioni tramite utilizzo di Trojan, la riforma delle intercettazioni è stata oggetto di molteplici rinvii dell’entrata in vigore trovandosi perciò sospesa nel Decreto Milleproroghe.
Sommario: 1. Il caso Palamara racchiuso in un’equazione: CP = D3 – 2. Negli abissi dell’informatica impigliati nella rete dei captatori informatici – 3. Cyber, prefisso di interconnessione tra uomo e computer – 4. Legge “Spazza corrotti” e ausilio di Trojan in operazioni sotto copertura – 5. Riforma delle intercettazioni a mezz’aria nel Decreto Milleproroghe
1. Il caso Palamara racchiuso in un’equazione: CP = D3
In termini tempistici è passato all’incirca un quarto di secolo da quando le intercettazioni telefoniche sono divenute l’arma maggiormente utilizzata negli scontri tra politica e giustizia. L’ambito costituzionale che disciplina i diritti della persona ravvisa nelle intercettazioni telefoniche un mezzo di indagine letale. Vi sono circostanze in cui a causa della noncuranza concernente gli effetti che possono scaturirne, si finisce per turbare la privacy non soltanto di chi è implicato in casi giudiziari, ma anche di terze persone esterne ad essi. In suddette circostanze ciò accade fondamentalmente per tre motivi: negligenza nell’applicare le norme processuali; sistema giudiziario indulgente; giornalisti celeri nel solleticare quella parte di opinione pubblica contraddistinta dalla propensione di un giornalismo che informa a gamba tesa. Difatti quando si apre un caso giudiziario la reputazione dell’indiziato è quanto ci sia di più appetibile per i media, i quali danno origine ad una staffetta di informazioni che facciano quanto più notizia possibile, al contrario della sentenza alla quale verrà serbato un margine minimo, anche quando, se non soprattutto, si tratta di assoluzione.
Per riportare un esempio pratico, si può fare riferimento al caso Palamara, analizzando l’equazione CP = D3. Caso Palamara = Diritto alla privacy dei cittadini, Diritto all’informazione tramite i media, Dovere di indagare della magistratura. La metodologia d’indagine utilizzata dalle Procure e dai Servizi Segreti è stata oggetto di un mutamento radicale con l’ingresso dello spionaggio a mezzo software. Vale a dire la sagacia delle suddette autorità di ottenere qualsiasi tipo di informazioni su persone che rientrano in una certa cerchia di indagini. Tra queste persone è rientrato il PM di Roma, Luca Palamara. Lo smartphone di quest’ultimo è stato bersaglio di un Trojan per un tempo non definito e il quale ha dato origine ad un’inchiesta concernente la corruzione delle Procure in Italia.
Con riferimento al ramo dell’investigazione il binomio Digital Forensics ha scavalcato se vogliamo, quello di Computer Forensics. Questo perché ad oggi ci si ritrova in una realtà dove i dispositivi digitali presenti quotidianamente nelle nostre vite sia private che professionali, sono stati oggetto di una crescita esponenziale. Basti pensare all’utilizzo di macchine fotografiche digitali, tablet, smartphone che hanno quasi completamente rimpiazzato i cellulari tradizionali con sistema operativo proprietario. Da una prospettiva prettamente tecnica i suddetti dispositivi sono computer, chi più chi meno, specializzati. La diversità sostanziale in confronto all’informatica dei personal computer tradizionali è la relazione tra i vari dispositivi dei quali si è dotati. Basti pensare a quelle autovetture che con l’ausilio di specifiche applicazioni sono in grado di far tramutare uno smartphone in un computer di bordo. Tra l’altro i nostri dati sono acquisibili dappertutto, essendo oramai svincolati dai dispositivi e trovandosi in Cloud, come servizio pubblico, per citarne alcuni Dropbox, Skydrive; in un Cloud privato, un server Owncloud ad esempio; o in uno Storage connesso ad internet, tra cui Synology.
Il Garante privacy evidenzia quanto possa essere rischiosa la fusione dell’utilizzo di captatori informatici con quello di sistemi Cloud per l’archiviazione dei dati captati, perfino in Stati extraeuropei. “La delocalizzazione dei server in territori non soggetti alla giurisdizione nazionale costituisce un evidente vulnus non soltanto per la tutela dei diritti degli interessati, ma anche per la stessa efficacia e segretezza dell’azione investigativa”. Riguardo la privacy dei cittadini è palese dunque che le intercettazioni di comunicazioni rappresentino il mezzo investigativo che detiene i maggiori rischi. Rischi che aumentano in modo esponenziale nel momento in cui le intercettazioni vengono compiute con l’utilizzo di captatori informatici, i quali hanno un’inquietabile capacità di incunearsi nell’ambito privato, con altrettanta incredibile efficienza nell’ispezione e conseguentemente nella captazione.
A questo punto è doveroso chiamare in causa gli aspetti etici ovverosia ricorrere ad una Forensics Ethics e dunque a quei principi etici che guidino i professionisti impegnati nell’analisi di dati con scopi investigativi. Una necessità dettata da molteplici ragioni, tra le quali spicca senza alcun margine di dubbio quella relativa alla privacy di persone non implicate in maniera diretta nelle indagini. Difatti si arguisce che coloro i quali analizzeranno materiale informatico verranno a conoscenza di una vastissima quantità di dati, parecchi dei quali non saranno collegati alle indagini e di conseguenza solamente inerenti a persone estranee ai fatti. Il rischio che si corre è che tali strumenti investigativi si possano tralignare in mezzi di sorveglianza di massa.
A tal proposito si può far riferimento al caso Exodus. Lo spyware denominato Exodus era stato ideato con il fine ultimo di spionaggio nei confronti di criminali, ma che per un ipotetico errore di programmazione ha inoltre infettato centinaia di utenti italiani tramite delle app inserite su Google Play Store. Ad individuare il suddetto spyware è stata la Società no profit Security Without Borders in seguito ad un’inchiesta svolta in cooperazione con la Rivista Motherboard. Le maggiori Procure si sono avvalse di Exodus per svolgere operazioni come intercettazioni telefoniche, registrazioni ambientali, posizioni GPS, e altro ancora, nei confronti di criminali. Ma a causa di un errore nel codice, tale software ha finito per intercettare indistintamente tutti coloro i quali scaricassero le app racchiudenti lo spyware. Esso permetteva di attivare il microfono e la fotocamera del cellulare e perciò fungeva da occhi e orecchie. Si trattava prevalentemente di app in grado di ottimizzare le prestazioni del cellulare ovvero ricevere offerte promozionali esclusive da parte del proprio operatore per chi le avesse installate. Inoltre la password del Wi-Fi consentiva di entrare nella rete domestica dell’utente ed effettuare così intercettazioni aggiuntive.
Sul caso Exodus è intervenuto, interpellato dall’ANSA, Antonello Soro Garante della privacy, asserendo quanto segue: “È un fatto gravissimo. La notizia dell’avvenuta intercettazione di centinaia di cittadini del tutto estranei ad indagini giudiziarie, per un mero errore nel funzionamento di un captatore informatico utilizzato a fini investigativi, desta grande preoccupazione e sarà oggetto dei dovuti approfondimenti, anche da parte del Garante, per le proprie competenze. La vicenda presenta contorni assai incerti ed è indispensabile chiarirne l’esatta dinamica”. Aggiunge “Ciò che, tuttavia, emerge con evidenza inequivocabile, è la notevole pericolosità di strumenti, quali i captatori informatici, che per quanto utili a fini investigativi rischiano, se utilizzati in assenza delle necessarie garanzie anche soltanto sul piano tecnico, di determinare inaccettabili violazioni della libertà dei cittadini. Tali considerazioni erano state da noi rivolte al Governo, in sede di parere tanto sullo schema di decreto legislativo di riforma della disciplina intercettazioni che ha normato il ricorso ai trojan, quanto sullo schema di decreto attuativo che avrebbe, appunto, dovuto introdurre garanzie adeguate nella scelta dei software da utilizzare. È indispensabile trarre, da questa vicenda, la determinazione necessaria per impedire ulteriori violazioni in futuro, nella consapevolezza di come non possano tollerarsi errori in un campo così sensibile, perché incrocia il potere investigativo e il potere, non meno forte, della tecnologia. Strumenti investigativi così delicati devono certamente essere disponibili agli organi inquirenti come prevede la legge, ma nel rispetto di garanzie elevate per tutelare la libertà dei cittadini”.
Alla luce di ciò è necessario fissare delle regole lapalissiane circa la condotta da assumere in questi casi. Sarebbe dunque fondamentale un intervento che miri a bilanciare quello squilibrio tra valori degni di tutela in ambito costituzionale, la libertà e la segretezza di qualsiasi tipologia di comunicazione, ed anche il diritto all’informazione. Proprio come sancito dalla legge. Art. 15 Cost. <<La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili>>. In tal senso libertà e segretezza rappresentano un’endiadi, dal momento che non ci può essere una reale libertà di comunicazione laddove non ne viene assicurata la segretezza. Art. 21 Cost. <<Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione>>. Ratio legis: la tutela della libertà di pensiero viene legittimata in quanto consiste in una colonna portante di uno Stato democratico fondatosi su un pluralismo ideologico. Indispensabile è però tenere a mente che la libertà di pensiero non scinde dal rispetto della privacy e quindi bisogna calibrare bene ciò che viene scritto o detto nella diffusione di determinate informazioni, riflettendo sulla legittimità di farlo o meno.
2. Negli abissi dell’informatica impigliati nella rete dei captatori informatici
Le intercettazioni compiute tramite captatore informatico vengono definite intercettazioni attive, per il fatto che non effettuano un ascolto passivo del segnale, bensì operano imprigionando le informazioni. Vi sono poi le intercettazioni tradizionali di tipologia passiva, le quali avvengono per la maggior parte tramite l’utilizzo di architetture denominate sonde, presso gli snodi dell’ISP, nonché le porte di ingresso del traffico dati, in stato definito di front-end, deviando così il traffico dati tramite una linea indirizzata al server in Procura. Si hanno anche sistemi che non contemplano il contributo attivo degli ISP ma effettuano intercettazioni di dati analogici e digitali direttamente sulla linea, con l’ausilio dei telemonitor, situati in diversi punti di osservazione ponendo così rimedio all’eventualità dell’accesso da parte del soggetto, ai servizi internet attraverso una molteplice serie di collegamenti. C’è l’eventualità inoltre che si presenti l’esigenza dell’identificazione di sessioni di traffico dati originate da un punto indefinito di un’area geografica, gli inquirenti avanzano così con intercettazioni parametriche incentrate sul filtrare il traffico mediante specifiche parole chiavi, direttamente sulle dorsali di comunicazione o su una determinata area geografica.
Con riferimento invece alle succitate intercettazioni attive, il segnale viene intercettato prima che esca dal dispositivo e sia decifrato, mentre nel caso di comunicazione in ingresso, subito dopo essere stato decifrato, in tal modo da intercettazioni di flussi di comunicazioni sulla linea, l’operosità si trasfigura in requisizione del dato all’interno del dispositivo stesso. Una modalità operativa di questa natura è in grado di intercettare flussi di dati informatici di ogni specie, non soltanto quelli di tematica comunicativa, sottolineando come con il progresso tecnologico, sia sempre più arduo tracciare il confine tra le intercettazioni di flussi telematici e quelle di comunicazioni. Tra le altre cose da un punto di vista operativo non è più indispensabile la collaborazione dei gestori telefonici e l’attività tecnica è di totale pertinenza della Polizia giudiziaria e del consulente tecnico.
È doveroso a tal proposito introdurre il Decreto legislativo 29 dicembre 2017 n. 216, recante disposizioni in materia di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni, in attuazione della delega di cui all’articolo 1, commi 82, 83 e 84 lettere a), b), c), d) ed e) della legge 23 giugno 2017, n. 103. La nuova legge è composta da nove articoli, adducenti modifiche importanti al Codice penale ed al Codice di Procedura penale, alle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del Codice di Procedura penale, attinenti le intercettazioni. Art. 1 “Modifiche al codice penale”, dopo l’articolo 617-sexies del codice penale e aggiunto il 617-septies: diffusione di riprese e registrazioni fraudolente. Art. 2 “Modifiche al codice di procedura penale in materia di riservatezza delle comunicazioni e delle conversazioni telefoniche e telematiche oggetto di intercettazione”. Art. 3 “Modifiche al codice di procedura penale in materia di trascrizione, deposito e conservazione dei verbali di intercettazione”. Art. 4 “Modifiche al codice di procedura penale in materia di intercettazioni mediante inserimento di captatore informatico”. Art. 5 “Modifiche alle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale”. Art. 6 “Disposizioni per la semplificazione delle condizioni per l’impiego delle intercettazioni delle conversazioni e delle comunicazioni telefoniche e telematiche nei procedimenti per i più gravi reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione”. Art. 7 “Disposizioni di attuazione per le intercettazioni mediante inserimento di captatore informatico e per l’accesso all’archivio informatico”. Art. 8 “Clausola di invarianza finanziaria”. Art. 9 “Disposizione transitoria”.
Analizzando codesto Decreto legislativo, della c.d. “riforma Orlando”, si arguisce che il nucleo è rappresentato dalla Tutela della riservatezza e il Diritto all’informazione. Si possono riepilogare i suddetti nove articoli nei seguenti punti cardine: cernita delle intercettazioni; innovazione nella procedura per il deposito e la conservazione dei verbali di intercettazione; mutamento dei termini e modalità di acquisizione delle intercettazioni e scavalcamento della denominata Udienza stralcio; assegnazione al PM dell’archivio riservato per le intercettazioni irrilevanti e inutilizzabili; proibizione della trascrizione dei colloqui dei difensori; inserimento del reato di illecita diffusione di riprese e registrazioni fraudolente; limitazioni circa la trascrizione delle intercettazioni nella richiesta del PM e nell’ordinanza del Giudice; istanza della distruzione delle registrazioni non acquisite; intercettazioni mediante captatori informatici e procedure semplificate per l’intercettazione dei reati più gravi commessi dai pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione.
Ciò che ne emerge ancora una volta, da un’esplicazione delle modifiche apportate sono una riduzione dei requisiti di ammissibilità delle intercettazioni ed un ulteriore sconfinamento di quei limiti insuperabili della privacy, che la funzione nomofilattica dovrebbe garantire, specialmente nel momento in cui si parla di captatori informatici. Difatti la riforma ha esplicitamente disciplinato l’eventualità di effettuare delle intercettazioni per mezzo di trojan anche tramite impianti privati. Senza alcun dubbio si tratta di una risoluzione adeguata alla realtà dell’attuale progresso tecnologico che fa diventare rapidamente superata la strumentazione, necessitando di ricorrenti investimenti per il loro aggiornamento, laddove invece l’art. 8 del Decreto legislativo 29 dicembre 2017 n. 216 sancisce come non debbano scaturirne nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.
L’opportunità di far ricorso ad impianti privati manifesta però una contraddittorietà sistematica. Questo perché tale opportunità è sì prevista dall’art. 268 comma 3-bis c.p.p., il quale stabilisce le modalità captative delle intercettazioni informatiche e telematiche, ma è pur vero che si è di fronte ad una disposizione logica che viene meno nel momento in cui viene disciplinato l’uso del captatore informatico quale metodo di intercettazione nella sfera dell’art. 266 c.p.p. rivolto alle intercettazioni ordinarie, e non in quello dell’art. 266-bis c.p.p., che disciplina invece le intercettazioni di conversazioni informatiche e telematiche. Art. 266 comma 2 c.p.p. <<Negli stessi casi è consentita l’intercettazione di comunicazione tra presenti che può essere eseguita anche mediante l’inserimento di un captatore informatico su un dispositivo elettronico portatile. Tuttavia, qualora queste avvengano nei luoghi indicati dall’articolo 614 del codice penale, l’intercettazione è consentita solo se vi è fondato motivo di ritenere che ivi si stia svolgendo l’attività criminosa>>. E ancora art. 266-bis c.p.p. <<Nei procedimenti relativi ai reati indicati nell’articolo 266, nonché a quelli commessi mediante l’impiego di tecnologie informatiche o telematiche, è consentita l’intercettazione del flusso di comunicazioni relativo a sistemi informatici o telematici ovvero intercorrente tra più sistemi>>. Reputare l’intercettazione tramite captatore informatico, un’intercettazione ordinaria, vuol dire non prendere in considerazione le specificità tecniche che la caratterizzano; dal momento che sono risapute le capacità di tale tecnica investigativa, capace di captare non soltanto le comunicazioni nell’ambiente in cui è collocato, bensì anche le comunicazioni telefoniche effettuate dal medesimo dispositivo.
In altre parole ci si ritrova a veder concretizzare la tutela della privacy per accrescere il potere pubblico a sfavore dei diritti di ogni singolo individuo. Si può constatare quanto appena affermato in un caso in cui un PM aveva rigettato la richiesta da parte del difensore di uno degli imputati di poter acquisire una copia dei file delle intercettazioni telefoniche ed ambientali effettuate in sede di indagine nel processo; mentre il Tribunale ne dava il consenso. Pertanto il ricorso in Cassazione del Procuratore della Repubblica, il quale ne asseriva un’abnormità sia strutturale che funzionale dell’ordinanza risultandone “avulsa dal sistema per singolarità e stranezza del suo contenuto, posto che, disponendo rilascio di copia integrale di tutte le intercettazioni, il giudice si sarebbe surrogato all’organo di accusa cui è rimessa la gestione delle intercettazioni”.
A tal proposito la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 18082/2018 ha provveduto a dare delle notevoli delucidazioni in tema di intercettazioni e in particolar modo di diritto dei difensori delle parti di ascoltare i file audio e a richiederne una copia; nello specifico dal momento che non essendone stata celebrata l’udienza stralcio, le intercettazioni nella loro completezza, disposte nel procedimento dovevano essere depositate agli atti, senza perciò incorrere in alcuna violazione delle fasi e della successione temporale dettata dal legislatore. Modello udienza stralcio contraddistinto dall’immediato inserimento nel fascicolo delle indagini preliminari del materiale di intercettazione nella sua interezza, anziché l’inserimento in un archivio riservato per poi essere analizzato in maniera tale da espellerne quelle parti irrilevanti ed inutilizzabili ai fini delle indagini e lasciar fuori così qualunque richiamo a soggetti casualmente implicati.
Va da sé che la suddetta negazione avrebbe rappresentato un limite per il singolo individuo, nonché per il diritto alla difesa, dal momento che vi è una sostanziale disparità tra la consultazione di un atto e l’acquisizione di una copia, la quale ne permetterebbe un’analisi meticolosa con un’eventuale confutazione argomentata. Perché solamente attraverso un raffronto dei molteplici contenuti delle intercettazioni è possibile un’attendibile confutazione delle ricostruzioni di accusa. Art. 268 comma 8 c.p.p. <<I difensori possono estrarre copia delle trascrizioni e fare eseguire la trasposizione della registrazione su nastro magnetico. In caso di intercettazione di flussi di comunicazioni informatiche o telematiche i difensori possono richiedere copia su idoneo supporto dei flussi intercettati, ovvero copia della stampa prevista dal comma 7>>. Inoltre la nuova disciplina ha innalzato il termine concesso alla difesa per l’acquisizione della documentazione raccolta durante le intercettazioni, da cinque a dieci giorni. Art. 268 ter comma 3 <<I difensori, nel termine di dieci giorni dalla ricezione dell’avviso di cui all’articolo 268-bis, comma 2, hanno facoltà di richiedere l’acquisizione delle comunicazioni o conversazioni e dei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche, rilevanti a fini di prova, non comprese nell’elenco formato dal pubblico ministero, ovvero l’eliminazione di quelle, ivi indicate, inutilizzabili o di cui è vietata la trascrizione, anche sommaria, nel verbale, ai sensi di quanto disposto dal comma 2-bis dell’articolo 268. Tale termine può essere prorogato dal giudice per un periodo non superiore a dieci giorni, in ragione della complessità del procedimento e del numero delle intercettazioni>>.
La recente immissione di un procedimento bifase, relativo al deposito degli atti riguardanti le intercettazioni e la cernita delle informazioni raccolte, prevede in un primo momento la consegna delle conversazioni o comunicazioni ed altresì dei relativi atti e solamente in seguito l’acquisizione di quanto risulti rilevante ed utilizzabile, vi è poi il contestuale stralcio destinato all’archivio riservato a ciò che si palesa essere irrilevante ed inutilizzabile. Circa quest’ultimo nel PM viene riconosciuta la figura di colui il quale ne è responsabile della preservazione, con concessa autorità di ascolto e analisi, ma proibizione di copia, sia da parte dei difensori che del giudice finché non si giunge alla conclusione di procedura dell’acquisizione. Per ovviare a codesto problema sarebbe bastato negare alla Polizia giudiziaria di trasferire nel brogliaccio di ascolto, tematiche di comunicazioni o conversazioni irrilevanti ai fini delle indagini, recependoli come dialoghi dove si evince che l’oggetto è esterno al thema probandum. Art. 187 c.p.p. comma 1 <<Sono oggetto di prova i fatti che si riferiscono all’imputazione, alla punibilità e alla determinazione della pena o della misura di sicurezza>>. Comma 2 <<Sono altresì oggetto di prova i fatti dai quali dipende l’applicazione di norme processuali>>.
Circa il diritto/dovere di informazione si reclama semplicemente l’osservanza delle regole, in quanto la serenità del Paese è strettamente connessa alla legittimazione che ne viene attribuita alla giustizia. Laddove non è importante solamente il giudizio, ma finanche il metodo tramite il quale si determina. È perciò di cruciale importanza scindere un processo mediatico da un processo giudiziario. Difatti nel processo mediatico si ha un miscuglio di informazioni, contrariamente a quanto avviene in quello giudiziario, dove si effettua una cernita delle informazioni raccolte, facendo capo a regole probatorie.
3. Cyber, prefisso di interconnessione tra uomo e computer
Il termine cyber rappresenta ai giorni d’oggi una vastità di rami di studio, che alludono alle connessioni nella vita contemporanea con i mondi virtuali. La definizione che il Devoto-Oli ne attribuisce al termine cyber è: <<Primo elemento (ingl.) di composti che alludono ad una interazione più o meno avanzata e futuribile tra uomo e computer (cyberpunk, cybersex, cyberspazio), usato part. (benché impropr.) in riferimento alla realtà virtuale e a Internet>>. O ancora l’esplicitazione della voce cibernetica esposta online dall’Enciclopedia Treccani: <<Disciplina che si occupa dello studio unitario dei processi riguardanti “la comunicazione e il controllo nell’animale e nella macchina” (secondo la definizione di N. Wiener, 1947): partendo dalle ipotesi che vi sia una sostanziale analogia tra i ‘meccanismi di regolazione’ delle macchine e quelli degli esseri viventi e che alla base di questi meccanismi vi siano processi di comunicazione e di analisi di informazione, la cibernetica si propone da un lato di studiare e di realizzare macchine ad alto grado di automatismo, atte a sostituire l’uomo nella sua funzione di controllore e di pilota di macchine e di impianti, e dall’altro lato, inversamente, di servirsi delle macchine anzidette per studiare determinate funzioni fisiologiche e dell’intelligenza>>.
Ci troviamo in una realtà in cui la vita ruota attorno alla cyber/ciber, vivendo una vita indiretta anziché una vita in diretta, in quanto la stragrande maggioranza delle attività giornaliere, da quelle sociali a quelle lavorative, fluiscono da una parte all’altra in reti telematiche e sistemi informatici. Nel mondo della telefonia mobile, qualificare uno smartphone incentrato su un sistema operativo, come meramente cellulare, è a dir poco limitativo; difatti si tratta a tutti gli effetti di un computer nel quale vengono immagazzinate svariate informazioni. Qualsiasi tipo di dispositivo tecnologico dotato di un sistema di memorizzazione di informazione è come se attraversasse due realtà che seppur diverse tra di loro, equamente rilevanti. Da un lato c’è la parte fisica percepibile tramite i sensi, ragion per cui, parlando di indagini investigative, ci si possono trovare sopra ad esempio impronte digitali; dall’altro lato c’è la parte logica, la quale invece non ha una struttura fisica. Si immagini un file, altro non è che un’estrapolazione logica. Quest’ultimo può essere oggetto di un processo di adulterazione, arduo da accertare, difatti pur riportandosi alla propria rappresentazione su un supporto magnetico, è improbabile giungere ad un livello talmente particolareggiato da constatarne, tipo la variazione dell’orientamento di una particella di materiale magnetico. Ciò diviene di gran lunga ancora più incalcolabile quando il file si trova su un supporto come un chip di memoria RAM, venendo costantemente mutato dal refresh della memoria, dal fatto che il sistema operativo stabilisce di dislocarlo in una differente locazione di memoria o sul file di swap.
Il file di swap viene denominato anche file di scambio e si figura in una porzione di disco fisso impiegata come memoria nel momento in cui il sistema operativo termina la memoria di lavoro fisica. Tralasciando la miriade di esempi del medesimo schema che si potrebbero riportare, vi è una realtà oggettiva che rimarrebbe invariata, e cioè le innumerevoli cause di distruzione o alterazione che ne conseguono dall’immaterialità della prova e che solamente un lavoro minuzioso ed attento del computer forenser può scongiurare. Difatti la Computer Forensics, nonché nuova branca della Polizia scientifica può essere definita come “la disciplina che si occupa della preservazione, dell’identificazione, dello studio, delle informazioni contenute nei computer, o nei sistemi informativi in generale, al fine di evidenziare l’esistenza di prove utili allo svolgimento dell’attività investigativa”. In linea di massima si parla di andare a determinare la più opportuna procedura di acquisizione delle prove, facendo in modo di non alterare il sistema informatico sul quale esse si trovano e assicurare l’identicità rispetto alle originali, delle copie trasferite su un differente supporto.
Quando si è dinnanzi ad un dispositivo portatile fanno il loro ingresso le tecniche della mobile device forensics. Si tratta di una disciplina che traccia le linee guida per una giusta gestione dei reperti informatici portatili ed inoltre della mobile cloud computing forensics, nonché sezione delle scienze forensi che propaga l’area di ricerca delle evidenze digitali connesse all’utilizzo dei dispositivi mobili sulle piattaforme cloud. È pur vero che studiando libri ed articoli trattanti tale argomento ci si accorge di come nella realtà lavorativa compaiano ad ogni indagine digitale, nuove problematiche oltre a nuovi scenari operativi, sebbene gli esperti si dimostrino ottimisti riguardo l’opportunità teorica di creare guide o best practice riguardo l’acquisizione e l’analisi delle evidenze digitali dai dispositivi mobili e dall’ambiente cloud.
Stephen Mason, nel Regno Unito ha ripartito in tre categorie la prova digitale:
– La prova creata dall’uomo: è considerato di questa specie qualsiasi dato digitale che risulti come l’esito di un intervento o di un’azione umana. Ciò può essere di due tipologie: human to human, come nel caso di uno scambio di e-mail, dov’è prevista un’interazione tra due persone, e human to PC, per esempio qualora venga elaborato un documento tramite un software di videoscrittura. Da una prospettiva probatoria si rivela essenziale comprovare che il contenuto del documento non sia stato oggetto di alterazioni e che le asserzioni in esso contenute possano ritenersi veritiere;
– La prova creata autonomamente dal computer: qualunque dato che sia il frutto di un processo adempiuto da un software secondo un definito algoritmo e senza l’azione umana, laddove come esempi si possono riportare i tabulati telefonici o i file di log. Con riferimento ai file di log, si tratta di informazioni generate dall’impiego delle infrastrutture ICT (Information and Communications Technology) e rappresentano le cosiddette tracce informatiche che costituiscono un’ottima sorgente di informazioni per la gestione dei sistemi ICT, oltre che fonte di prova ai fini investigativi. Da un punto di vista probatorio nel suddetto caso è indispensabile palesare che il software che ha portato a quel risultato abbia funzionato correttamente e altresì che la prova non sia stata alterata dopo essere stata prodotta;
– La prova creata sia dall’essere umano che dal computer: ciascun dato dal quale ne deriva il prodotto di un contributo umano e di un calcolo originato e memorizzato da un elaboratore elettronico. Può essere riportato l’esempio di un foglio di calcolo elettronico in cui i dati vengono immessi dall’essere umano e invece il risultato viene calcolato dal computer. Da una visuale probatoria è basilare attestarne tanto la genuinità dei contenuti immessi dall’essere umano, quanto il corretto funzionamento dell’elaboratore elettronico.
Da quanto detto è palese quanto la vita privata stia diventando sempre più di pubblico dominio. Questo perché la realtà virtuale caratterizzata oramai dal prefissoide cyber ha preso il totale controllo della vita reale. Va da sé che qualsiasi azione compiuta tramite un dispositivo munito di una connessione internet, è a portata di click. Laddove per via degli smartphone, principalmente, si è diventati bersagli mobili sottotiro del cecchino Trojan horse, il quale non sbaglia un colpo. Laddove tra le sue postazioni vi sono anche semplici app scaricate da altrettanti semplici cittadini, la cui unica colpa è quella di essere amanti della tecnologia, il cui prezzo da pagare a loro insaputa, com’è già successo, è la perdita della tutela della privacy, nonché della loro persona.
4. Legge “Spazza corrotti” e ausilio di Trojan in operazioni sotto copertura
Con l’entrata in vigore dal 31 gennaio 2019, della c.d. legge Spazza corrotti, legge 9 gennaio 2019 n. 3, è stato reso eseguibile svolgere indagini a mezzo trojan horse, oltre che per i reati di mafia e terrorismo, anche per quelli di corruzione. In prima linea nell’ambito delle indagini penali troviamo l’effetto generato dalla collisione tra la suddetta legge e l’informatica forense; nonché dalle modifiche apportate al decreto legislativo 216 del 29 dicembre 2017, denominato decreto intercettazioni.
I reati sono difformi tra di loro ed è per questo che ad ognuno di essi corrisponde un diverso criterio di giudizio circa la decisione della pena da applicare. Per quanto concerne la difformità tra reati di mafia e terrorismo e reati contro la Pubblica amministrazione è lapalissiano che non possono essere minimamente parificati; va da sé dunque, la presenza di un’antinomia nel sistema normativo. Difatti si ravvisa il venir meno di un principio di eguaglianza, dal quale non ci si dovrebbe mai svincolare al fine di evitare di ritrovarsi a giudicare in maniera eguale reati disuguali.
La sorgente di informazioni sta alla radice dell’investigazione e ad oggi il c.d. trojan ne risulta essere la più ricca, agendo a 360˚ come fosse una creatura mitologica con vista da falco e udito da cane. Queste spiccate doti se non utilizzate con avvedutezza, rischiano però com’è già successo, di arricchire il trojan di informazioni meramente private ed irrilevanti ai fini investigativi; specialmente qualora si ottenessero da intercettazioni c.d. a strascico. Per l’appunto l’art. 267 c.p.p. comma 1 sancisce che il pubblico ministero richiede al giudice per le indagini preliminari l’autorizzazione a disporre le operazioni previste dall’art. 266. Autorizzazione data con decreto motivato quando vi sono gravi indizi di reato e l’intercettazione è assolutamente indispensabile ai fini della prosecuzione delle indagini. Indi per cui non sono assolutamente previste le succitate intercettazioni a strascico, tramite le quali individuare ipotetici reati; questo perché in tal modo non esisterebbe più alcuna tutela della privacy, dal momento che si avrebbe in tal senso accesso a qualsiasi tipo di comunicazione senza alcuna reale motivazione.
Con riferimento al tema delle misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione rientra in tempi affatto superati, sebbene fossero argomento di classificazione criminologica già dagli anni ’40. Al fine di lumeggiare il crimine con una certa incisività è necessario che determinati reati siano classificati e contraddistinti in differenti tipologie, in maniera tale da poter essere confrontati da un punto di vista olistico. Ed è ciò che fece il criminologo statunitense Edwin Sutherland nello studiare e descrivere in maniera minuziosa quelli che coniò come i crimini dei colletti bianchi, attraverso la sua opera “White Collar Crime”. Laddove scriveva che <<[…] i crimini dei colletti bianchi sono di difficile individuazione, in quanto molti sono “delitti senza vittime”. In caso di corruzione entrambe le parti possono considerarsi dalla parte del guadagno derivato dall’accordo, entrambi sono passibili di condanna e, perciò è probabile che nessuno denunci il danno […]>>. Benché la corruzione raffiguri un reato, ancora una volta se ne arguisce la dissimilitudine tra un reato come quest’ultimo ed i reati di mafia e terrorismo, messi a paragone circa l’utilizzo delle medesime tecniche di investigazione.
Non bisogna dimenticare che la funzione del PM è quella di individuare la verità piuttosto che tallonare ipotesi investigative della Polizia Giudiziaria, le quali nonostante siano impostate in maniera autentica, saranno pur sempre influenzate a sbalzi da un comando a distanza che deciderà quando attivare e disattivare la registrazione; rischiando così che l’utilizzo del “trojan di Stato” simboleggi un dileggio in termini di privacy. Con la pronuncia n. 21911/2017 il Supremo Collegio ha fronteggiato la particolare questione delle chat pin to pin localizzate in Italia ed effettuate con l’utilizzo di smartphone riportanti marca BlackBerry. Si tratta di una chat che permette di comunicare a due utenti con un’operazione di cifratura preliminare compiuta già nella fase preliminare dell’emissione del messaggio dal proprio smartphone. Il suddetto messaggio criptato viene inoltrato ad un server, nel caso specifico presso la sede principale della società situata in Canada, la quale a questo punto rimanda il messaggio sullo smatphone del destinatario, il quale lo decripta presentandolo così leggibile al proprio utente. In poche parole nel momento in cui venisse eseguita una tradizionale intercettazione di tale messaggio nel corso del suo invio dal mittente al destinatario, risulterebbe fondamentalmente inservibile visto che il messaggio intercettato sarebbe criptato e dunque indecifrabile; ed è qui che subentra la società filiale che amministra in Italia il traffico di dati in questione. Difatti le Procure attraverso accordi si sono assicurate la facoltà di acquisire i testi decifrati concernenti le comunicazioni effettuate con l’ausilio di apparecchi di comunicazione, nonché oggetto di intercettazione, per mezzo dell’impiego del dispositivo procedurale assegnato dall’art. 266-bis c.p.p. Ciò nonostante parte del problema continua a sussistere, questo perché quella italiana non è altro che una filiale di riferimento, mentre la società principale che effettivamente preserva i dati sui propri server è situata in Canada, per cui l’istanza di accesso ed estrazione di quelle informazioni oggetto d’interesse di una decriptazione necessiterebbe di una procedura di rogazione internazionale.
Secondo quanto sancito dall’art. 268 c.p.p. comma 3 <<Le operazioni possono essere compiute esclusivamente per mezzo degli impianti installati nella procura della Repubblica. Tuttavia, quando tali impianti risultano insufficienti o inidonei ed esistono eccezionali ragioni di urgenza, il pubblico ministero può disporre, con provvedimento motivato, il compimento delle operazioni mediante impianti di pubblico servizio o in dotazione alla polizia giudiziaria>>. Prosegue il comma 3-bis <<Quando si procede a intercettazioni di comunicazioni informatiche o telematiche [v. 266 bis], il pubblico ministero può disporre che le operazioni siano compiute anche mediante impianti appartenenti a privati. Per le operazioni di avvio e di cessazione delle registrazioni con captatore informatico su dispositivo elettronico portatile, riguardanti comunicazioni e conversazioni tra presenti, l’ufficiale di polizia giudiziaria può avvalersi di persone idonee di cui all’art. 348, comma 4>>. Se ci si soffermasse ad esaminare la situazione in questione ci si renderebbe conto che ciò vuol dire non interpellare una società italiana, la quale controlla il traffico di dati, bensì alla già menzionata canadese che esegue l’operazione di estrazione e conseguente decriptazione dei dati in assenza della partecipazione di una qualche Forza dell’Ordine ovvero appartenente alla Polizia giudiziaria, sia essa italiana o altrimenti delegata all’estero.
Un espediente per evitare giuridicamente la problematica della rogatoria si è constatato nella denominata procedura di instradamento. L’instradamento nel settore delle telecomunicazioni, rappresenta la mansione di un commutatore, che sia centrale telefonica, router, switch, il quale stabilisce su quale porta o interfaccia trasmettere quanto ricevuto, vale a dire, conversazione telefonica, flusso di dati ed altro ancora. Attraverso l’instradamento si ha sì un espediente circa la rogatoria internazionale, dal momento che l’operazione di captazione non richiederebbe di interpellare l’Autorità Giudiziaria di uno Stato estero, in quanto la registrazione racchiuderebbe una conversazione effettuata in Italia. Eppure l’Autorità Giudiziaria esige di rivolgersi alla sede estera, dal momento che è quello il luogo in cui si preserva il file della conversazione da decriptare.
5. Riforma delle intercettazioni a mezz’aria nel Decreto Milleproroghe
Con il Decreto Milleproroghe, nello specifico d.l. 25 luglio 2018, n. 91, ci si riferisce ad un decreto legge approvato dal Consiglio dei ministri entro la fine dell’anno in corso, allo scopo di posticipare l’entrata in vigore di disposizioni normative o prorogando l’efficacia di leggi in scadenza. Tale strumento seppur nato come misura eccezionale, dal 2005 viene riproposto annualmente in Italia; anno in cui venne approvato al fine di rimandare l’entrata in vigore di alcune disposizioni ovvero di prolungare una sequela di termini ed altre scadenze che sarebbero sopraggiunte al termine alla fine dell’anno. Trattandosi di Decreto legge, è necessario che il c.d. Milleproroghe sia confermato da un voto delle Camere in un arco temporale di 60 giorno dalla sua approvazione dal Cdm.
Circa l’entrata in vigore della riforma delle intercettazioni abbiamo assistito a più rinvii, avvenute naturalmente a più riprese, ovverosia, dapprima previsto per la data del 26 luglio 2018 fu posticipato al 31 marzo 2019 e successivamente al 31 luglio 2019; date tra l’atro precedute da un generico “dopo il”. Bisogna pur dire che non stupisce affatto questa serie di rinvii, dal momento che si è sin da subito percepita da più fronti la direzione che stava per prendere, nell’estendere tanto i casi quanto le modalità di intercettazioni, con il conseguente ampliamento dell’utilizzabilità dei risultati. Tutto ciò con una certa beffa alla riservatezza e non da meno alla libertà di comunicazione, trovandosi così di fronte ad un capovolgimento di situazioni dov’è necessario ricorrere alle intercettazioni, situazioni che anziché essere definite eccezionali, vengono definite in tal modo, di regola.
Spunti bibliografici
Giovanni Ziccardi, Informatica giuridica. Privacy, sicurezza informatica, computer forensics e investigazioni digitali, Volume 2, Giuffrè Editore, 2012, pagg. 247 – 261
Fabio Alonzi – Stefano Aterno – Antonio Balsamo – Roberto Bartoli – Raffaella Brighi – Pasquale Bronzo – Alberto Camon – Giuseppe Cascini – Costantino Derobbio – Luigi Ferrarella – Chiara Gabrielli – Marco Gambardella – Glauco Giostra – Livia Giuliani – Caterina Malavenda – Lucia Parlato – Silvia Signorato, Collana diretta da M. Bargis – G.Giostra – G. Illuminati – R.E. Kostoris – R. Orlandi – G.P. Voena, Nuove norme in tema di intercettazioni. Tutela della riservatezza, garanzie difensive e nuove tecnologie informatiche, Volume 22 di Procedura Penale, a cura di Glauco Giostra e Renzo Orlandi, G. Giappichelli Editore, 2018, pagg. 5 – 273
A cura di Oliviero Mazza, Le nuove intercettazioni, Volume 6 di Leggi penali tra regole e prassi, Collana diretta da Adolfo Scalfati e Mariavaleria del Tufo, G. Giappichelli Editore 2018, pagg. 1- 3
Vincenzo G. Calabrò, Mobile Device and Mobile Cloud Computing Forensics, Lulu Editore, 2016, pagg. 7 – 33
Sutherland, White Collar Crime, cit., in P. Boccia, Sociologia, M&P edizioni, Treviso 2011, pag. 79
Di Stefano Michelangelo – Fiammella Bruno, Intercettazioni: remotizzazione e diritto di difesa nell’attività investigativa. (Profili d’intelligence), Altalex Editore, 2018, pagg. 118 – 127
FONTE:http://www.salvisjuribus.it/cyber-timoniere-in-rotta-verso-i-confini-della-privacy/
Didattica a distanza, quando il controllo si spinge troppo oltre
L’università Bocconi utilizza un software di proctoring che consente il controllo biometrico degli studenti durante gli esami a distanza. Fino a che punto è lecito invadere l’intimità della persona?
Uno dei problemi posti dalla quarantena da Coronavirus è che sia la didattica, sia gli esami universitari si svolgono online. Nel caso degli esami, in particolare, in ambito accademico si sta diffondendo l’uso di software di “protctoring” che, nella sostanza, prendono il controllo del computer dello studente e consentono al docente una sorveglianza molto estesa di ciò che accade durante l’esame.
Il fine sarà anche legittimo, ma il modo in cui viene perseguito molto probabilmente, no.
Queste sono le preoccupazioni alla base di una petizione lanciata su Change.org con la quale gli studenti dell’università Bocconi chiedono che l’ateneo smetta di utilizzare Respondus Monitor, un software di proctoring, appunto, che da quanto si legge:
- richiede agli studenti di mostrare all’università l’intera stanza con la telecamera,
- registra gli studenti che mostrano la loro carta d’identità universitaria, o per quelli che non ne hanno una con sé, la loro carta d’identità e memorizzare questi dati,
- analizza (pare) i log dei computer (sono componenti di Windows che contengono dati altamente sensibili, come ad esempio quali programmi sono installati),
- tracciano i movimenti oculari al punto che un professore ha dovuto avvertire i suoi studenti che, durante un esame, “non si può distogliere lo sguardo dallo schermo”. Neanche per un secondo”.
Inoltre, sempre a dire dei promotori della petizione, la privacy policy di Respondus attribuisce il permesso di condividere i video, pur anonimizzati, con ricercatori di terze parti e di conservare i dati fino a cinque anni.
E’ vero, tutti questi trattamenti sono condizionati alla prestazione del consenso da parte dello studente, ma a parte il fatto che da docente universitario mi sentirei in estremo imbarazzo ad invadere in questo modo la vita privata di uno studente, sta di fatto che, secondo il GDPR, il consenso non sarebbe valido e dunque i trattamenti non consentiti.
In primo luogo, infatti, il consenso non è libero: lo studente non ha una reale possibilità di decidere in autonomia se consentire all’università e agli sviluppatori di comportarsi in quel modo. O accetta, o non fa l’esame.
In secondo luogo, benchè la finalità del trattamento sia quella di assicurare la regolarità dell’esame, le modalità concrete con le quali ciò avviene sono eccessive e dunque prevale il diritto dell’interessato – la tutela della sua dignità, in particolare – a non vedersi sottoposto a questa forma di controllo invasivo e, per certi versi, umiliante.
In terzo luogo, non si capisce perchè il controllo a distanza dei lavoratori è sottoposto a tutta una serie di garanzie di legge (e in particolare al fatto che il consenso del lavoratore prestato individualmente non vale) mentre nel caso degli studenti basta selezionare qualche check-box e questo dovrebbe bastare a rispettare la normativa sul trattamento dei dati personali.
Non so se altre università stiano utilizzando Respondus Monitor o piattaforme analoghe, ma sarebbe interessante leggere la valutazione di impatto ai sensi dell’articolo 35 del GDPR e il parere dei DPO (che dovranno per forza essere stati consultati) e capire in che modo abbiano potuto giustificare una scelta che trasforma il docente nel maestro del video di Another Brick in The Wall.
FONTE:https://www.infosec.news/2020/06/01/news/riservatezza-dei-dati/didattica-a-distanza-quando-il-controllo-si-spinge-troppo-oltre/
ECONOMIA
Gli italiani che hanno un mutuo sono in difficoltà. L’analisi
31 Maggio 2020
Lo rileva Bankitalia, che parla di un 38% degli italiani che hanno un mutuo in seria difficoltà nel pagare le rate
Gli italiani che hanno un mutuo sono in difficoltà. A rilevarlo è Bankitalia, in un report dedicato alle famiglie e contenuto nella relazione annuale dell’Istituto guidato da Ignazio Visco.
Più nello specifico, si può parlare praticamente di 4 persone su 10 in serie difficoltà nel pagare le rate, considerando che l’analisi rileva un 38% di famiglie pronte a segnalare problemi nel far fronte alle scadenze nel mese di aprile.
Le ragioni sono inevitabilmente da rintracciare nell’emergenza sanitaria innescata dal coronavirus:
“Ad aprile il 38% dei mutuatari ha affermato di avere difficoltà a causa dell’epidemia di Covid-19, con una percentuale più elevata tra i lavoratori autonomi e tra quelli impiegati nel settore del commercio e della ristorazione”,
si legge nel report targato Bankitalia.
Italiani e mutuo: anno da dimenticare
Per Bankitalia a soffrire in misura maggiore sono il comparto commerciale e quello della ristorazione, ovvero quelli i cui mutui sono legati ad attività produttive messe in stallo durante il lockdown.
Con percentuali registrate al 62 e al 52%, praticamente più della metà degli italiani con ristoranti o negozi in mutuo ha evidenziato difficoltà a pagare le rate.
Una difficoltà a quanto pare sentita malgrado la sospensione garantita dal decreto Cura Italia, come diritto dei contribuenti disciplinato comunque da specifica richiesta e determinati requisiti.
Le conclusioni a cui è giunto l’istituto guidato da Ignazio Visco derivano da un’indagine effettuata su un campione di oltre 3mila italiani, rappresentativi di tutte le categorie sociali e lavorative:
“La sospensione delle attività produttive ha determinato un marcato deterioramento della condizione economica per l’insieme delle famiglie”, nota Bankitalia nel report, in riferimento soprattutto a ristoratori e gestori di attività commerciali.
Il risparmio privato non è sufficiente, specie nei casi in cui le spese di gestione di un’attività commerciale o produttiva in ogni caso permangono, anche a fronte di un blocco parziale o totale del lavoro.
La condizione d’emergenza sale addirittura fino al rapporto di un italiano su due nei casi di contratti di lavoro a termine, o di nuclei familiare le cui entrate sono notevolmente diminuite a causa della pandemia.
FONTE:https://www.money.it/italiani-con-mutuo-in-netta-difficolta
Aziende pubbliche dismesse e vendita riserve auree: il Piano Colao è eversivo
di Paolo Desogus
Diverse testate minori hanno ripreso la notizia della prima bozza del piano per la ripresa stilato da Vittorio Colao. I dettagli sono ancora vaghi, ma da quello che riporta Milano Finanza (un giornale molto ben informato) si tratta di un progetto di svendita colossole dell’industria pubblica italiana, attraverso cui finanziare l’industria privata.
Leonardo, Fincantieri, Ferrovie dello stato ed altre aziende verrebbero dismesse insieme alla vendita delle riserve auree italiane (tra le maggiori del mondo dopo quelle di Stati Uniti, Germania e FMI) per fare cassa e foraggiare l’industria privata.
Ora, ho molti dubbi che un piano del genere possa essere varato. Si tratta infatti di un progetto che possiamo definire, senza esagerare, eversivo, dato che sguarnirebbe il paese di protezioni economiche e industriali primarie, senza le quali persino la tenuta democratica è a rischio. È dunque probabile che Colao abbia deciso di far circolare una bozza sparando molto alto per valutare le prime reazioni e aggiustare il tiro. Seguirà nei prossimi giorni un disegno più moderato ma non meno devastante. Sulla base di quel documento inizierà poi una trattativa. Dalla richiesta iniziale di smantellamento dello stato pari a 100, si passerà dunque a 50 con l’obiettivo di ottenere 25, magari 30. Dunque da un progetto eversivo si passerà a un piano comunque molto pesante, che consentirà alle classi industriali italiane di trarre grossi vantaggi economici spartendosi qualche grande azienda pubblica.
Si tenga infatti conto che, a dispetto della propaganda antistatalista, le aziende di stato macinano da anni utili e rappresentano la punta più avanzate dell’industria italiana. In tempi di vacche magre i numeri di Leonardo e Fincantieri fanno gola a tanti.
Non è per questo un caso che, poco dopo la nomina di Colao, la famiglia Agnelli sia tornata alla ribalta intervenendo pesantemente sulla direzione di Repubblica. Per spartirsi il bottino la classe imprenditoriale italiana ha bisogno del forte sostegno dei media e soprattutto necessita di controllare quella parte dell’intellettualità italiana che legge ancora Repubblica credendo di sentirsi cosmopolita, colta e intelligente.
Permettetemi altre due considerazioni.
1) Vendere 30 dello stato è sempre meglio che darne via 100. Sebbene aleatorio quel 100 non è però privo di significato. La bozza fatta circolare in questi giorni costituisce infatti l’obiettivo finale delle nostre classi imprenditoriali. 30 è solo la prima tappa per giungere gradualmente a 100.
2) Non è chiaro quali siano stati i passaggi che hanno portato Colao alla testa della commissione per la ricostruzione. Perché Conte l’ha scelto? Perché ha dato a un uomo di cui sono note le parentele con l’universo ultraliberista la responsabilità di varare un piano per la ricostruzione? L’impressione è che dietro quella nomina ci sia una partita di giro per tenere in piedi il governo.
Resta in ogni caso un fatto. Con il Coronavirus si è ripetuta su vasta scala quella brutta scena che abbiamo visto dopo il terremoto dell’Aquila, quando due imprenditori al telefono, in una chiamata intercettata, ridevano a crepapelle di fronte alle immagini delle macerie, convinti che quella tragedia sarebbe stata per loro una grande occasione economica. Con il coronavirus quelli che ridono non sono più solo due imprenditori di una provincia cittadina, ma sono quelli che da anni tiranneggiano lo stato e che possono contare su un uomo loro vicino alla stanza dei bottoni, ovvero Colao.
FONTE:https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-aziende_pubbliche_dismesse_e_vendita_riserve_auree_il_piano_colao__eversivo/33397_35311/
QUALI ECONOMIE STANNO RIPARTENDO, QUALI NO? Infografica istruttiva
A che punto sono le economie dei principali paesi? Hanno intrapreso la strada della ripresa, approfittando della fase 2 e della maggiore libertà, oppure sono ancora in depressione? Oppure riescono a minimizzare gli effetti della chiusura ed a crescere, pur essendo ancora in fase 1?
Un’infografica di Visual Capitalist ci permette di capire, in modo semplice ed immediato quale sia la situazione di un’economia a seconda del livello di apertura. Nella parte superiore abbiamo le economie che hanno già eliminato le restrizioni, nella parte inferiore invece quelle che le hanno mantenute. A sinistra quelle che non sono ancora in ripresa, a destra quelle che hanno già intrapreso la strada della normalità:
Abbiamo economie che hanno ripreso già in sia la crescita , sia sono su una strada di liberalizzazione dei movimenti. Sono soprattutto economie dell’estremo oriente, come Taiwan, Vietnam e Corea. Nel riquadro opposto abbiamo invece economie economie che non hanno ancora né alleggerito l’isolamento né hanno ripreso il processo di ritorno alla normalità economica, come Belgio , Paesi Bassi e Regno Unito. Co sono paesi poi, come la Spagna e la Danimarca, che comunque stanno riprendendosi economicamente pur non avendo completamente cancellato la chiusura.
Cosa possiamo capire da questa immagine? Che comunque vada, nulla sarà più come prima e che la globalizzazione , già tremante, riceve ora un colpo quasi definitivo. Nulla sarò più come prima…
FONTE:https://scenarieconomici.it/quali-economie-stanno-ripartendo-quali-no-infografica-istruttiva/
FINANZA BANCHE ASSICURAZIONI
FASE 2, SCATTA IL BLITZ PER ABOLIRE IL CONTANTE E RENDERCI SCHIAVI
Sfruttare il post pandemia per salutare i contanti, fare spazio ai pagamenti elettronici e sferrare un durissimo colpo all’evasione fiscale.
Vittorio Colao, leader della task force di esperti arruolata da Giuseppe Conte per la ripartenza dell’Italia nella fase 2, ha già le idee chiare sui prossimi passi da compiere.
Intervistato da Tito Boeri in occasione dell’edizione online del Festival dell’economia di Trento, Colao è tornato a parlare di contante ed evasione fiscale. “Concettualmente – ha sottolineato il manager, in un passaggio riportato dal Corriere della Sera – del contante non c’ è bisogno, e nemmeno dei pos. Ogni smartphone può fare queste operazioni. È chiaro che bisogna creare degli incentivi per chi fa e per chi riceve i pagamenti elettronici. Un po’ di nero lo farebbe emergere”.
A quel punto Colao ha approfondito la questione facendo un esempio: “Io non sono per un approccio violento. Però quand’ è l’ultima volta che abbiamo avuto il bisogno di avere una banconota da 200 o 500 euro, che non dovrebbero proprio esistere? Io potrei vivere senza ritirare mai al bancomat”.
L’idea dell’ex numero uno di Vodafone è semplice: il contante potrebbe tranquillamente essere sostituito da uno dei tanti pagamenti elettronici possibili. D’altronde, una proposta del genere, sposa alla perfezione la linea del governo giallorosso che, nel corso degli ultimi mesi, aveva più volte strizzato l’occhio all’e-payment.
Senza contanti non possiedi nulla.
Pensate cosa potrebbe accadere se abolissero il contante: chiunque sarebbe in balìa dello Stato, del sistema bancario e di BigTech.
Il contante è tuo e non è ‘discriminabile’. Nessuno può impedirti di utilizzarlo e di averlo perché magari hai idee che non piacciono a chi controlla il sistema bancario e finanziario.
L’unica forma di moneta simile, anche se è elettronica, è la criptomoneta non privata come il Bitcoin.
Il Sistema di potere ha come obiettivo finale dichiarato quello dell’abolizione del contante. Che renderebbe il cittadino suddito. Più di quanto lo sia già adesso.
L’utilizzo della moneta elettronica ha i suoi vantaggi, ma ha l’enorme difetto, quando è “obbligatoria e totale”, di rendere il cittadino “schiavo del Sistema”.
Una volta che il contante venisse eliminato, infatti, scomparirebbe l’ultima linea di difesa che un individuo ha davanti allo strapotere del Sistema. Sarebbe impossibile ritirare il denaro dalle Banche, visto che il denaro non esisterebbe più, come entità fisica. E non si potrebbe conservare se non nel sistema finanziario: quindi sempre sotto tiro dello Stato. E delle banche.
La sua circolazione dipenderebbe infatto totalmente dal sistema bancario e finanziario, quindi, sarebbe soggetta a commissioni sempre crescenti.
Si potrebbe almeno pensare a “moneta elettronica” caricata su carte o cellulari che non fosse soggetta a commissioni bancarie. Ma questo non eliminerebbe il problema di fondo, quello della indisponibilità di questo denaro: i conti potrebbero essere bloccati dal Sistema. Lo Stato potrebbe decidere da un giorno all’altro di prelevare forzosamente senza più l’inghippo della corsa agli sportelli, che non esisterebbero più come fornitori di denaro fisico.
A quel punto, con l’abolizione del contante, l’unica difesa sarebbero le criptomonete sullo stile del Bitcoin, che però è un meccanismo ancora troppo speculativo e limitato ad un piccola fascia di popolazione.
Nonché quello della “tracciabilità”, ovvero del controllo totale: il Sistema potrebbe tracciare qualsiasi nostro movimento e inserire i nostri “gusti” e i luoghi che frequentiamo, in un’enorme banca dati il cui non utilizzo criminale, una volta creata, non potrebbe essere garantito da nessuno.
Il Sistema eurofanatico, rappresentato in Italia dal loro maggiordomo, Padoan, supportato da pennivendoli d’apparato, strumentalizzando il concetto di “evasione fiscale” vuole imporci un altro passo verso l’oppressione. Verso la rinuncia della libertà, in nome della lotta all’evasione.
Rinunciare al contante perché è “bene per l’economia”. E “se è bene per l’economia, chi sono io per oppormi a ciò che è bene per l’economia? L’economia non esiste per me, io esisto per l’economia”.
Siamo in presenza di una minaccia alla libertà senza precedenti. Il contante è una delle poche difese del cittadino rispetto all’arroganza dello Stato e delle multinazionali: non possono ‘cancellarti’ il contante, non possono impedirti di spenderlo. Possono invece bloccarti una carta, magari per motivi politici. Il contante è tangibile (l’oro ancora di più), i numeri in un conto elettronico no.
Per questo, se davvero volessero insistere su questo scempio di libertà il popolo deve ribellarsi. Anche in modo violento.
C’è un limite oltre il quale l’aggressione dello Stato al cittadino deve trovare una resistenza violenta. La legge naturale precede quella dei parlamenti, tanto più quella di un parlamento abusivo di puttane politiche come il nostro: e il diritto a possedere il frutto del proprio lavoro è un diritto naturale.
L’idea di tassare il contante è folle. Sia tassandolo all’utilizzo, sia nel caso volessero tassare i prelievi.
E poi dobbiamo rovesciare la vulgata mediatica: pagare le tasse è una concessione che il cittadino fa allo Stato, non il contrario. Siamo costretti a mantenere una pletora di parassiti, una burocrazia sconfinata che lavora contro i nostri diritti, sia a Roma che a Bruxelles.
Noi vogliamo lo Stato minimo. Non governi da cento ministri e sottosegretari che danno lavoro a deficienti che, altrimenti, venderebbero bibite davanti ai cessi degli stadi. E non vogliamo essere perseguitati da orde di burocrati da noi stipendiati: commissari Ue, autority e pletore di giudici.
Se mettono mano al contante, il cittadino deve mettere mano alla *******. Non c’è alternativa.
FONTE:https://voxnews.info/2020/05/30/fase-2-scatta-il-blitz-per-abolire-il-contante-e-renderci-schiavi/
GIUSTIZIA E NORME
Giuseppe Conte, Speranza, Lamorgese e Brusaferro “interrogati dai pm di Bergamo”. Lombardia e coronavirus, il retroscena
Interrogare il premier Giuseppe Conte, il ministro della Salute Roberto Speranza, quello degli Interni Luciana Lamorgese, il presidente dell’Istituto Superiore di Sanità Silvio Brusaferro. I pm di Bergamo che stanno indagando per epidemia colposa sulla strage per coronavirus in Lombardia e soprattutto nella Valseriana puntano dritto a Palazzo Chigi. Un retroscena clamoroso dalla Procura, dopo che venerdì il governatore lombardo Attilio Fontana aveva ribadito come la responsabilità di non aver imposto per tempo la zona rossa a Nembro e Alzano, “cuore” del focolaio, fosse da imputare al governo.
Il procuratore aggiunto Maria Cristina Rota ha pubblicamente fatto sua questa testi, scatenando una valanga politica su Roma. A questo punto, però, spiega il Corriere della Sera, “presto i pm potrebbero trovarsi a un bivio: andare avanti, fino alle convocazioni da notificare a Roma e a Palazzo Chigi, oppure spedire tutto alla Procura della Capitale, per competenza territoriale”. L’intenzione, spiega il retroscena del Corsera, è quella di “completare l’acquisizione di informazioni sul territorio bergamasco e lombardo, dopo le audizioni dell’assessore regionale al Welfare Giulio Gallera e del presidente Fontana”. Verranno sentiti anche il presidente regionale di Confindustria Marco Bonometti, “per capire se le presunte pressioni sulla politica contro la zona rossa (smentite da Fontana) ci siano state o no”. E non si esclude, appunto, una clamorosa convocazione a Bergamo degli esponenti del governo. e di Brusaferro, che i primissimi giorni di marzo aveva caldeggiato l’istituzione di una zona rossa. Palazzo Chigi si era detto favorevole, ma poi aveva bloccato tutto fino all’8 marzo, data del lockdown generalizzato. Troppo tardi. Tra marzo e aprile la mortalità a Nembro e Alzano era cresciuta di oltre il 700%, “ma dimostrare un nesso tra il provvedimento mancato e quei numeri sarà difficile”, conclude il Corriere.
FONTE:https://www.liberoquotidiano.it/news/politica/22961586/giuseppe-conte-speranza-lamorgese-pm-bergamo-convocazione-strage-coronavirus-lombardia-nembro-alzano.html
DPO, tutta questione di… posizione
Designare un DPO interno o esterno? Impossibile farne una questione di principio, perché occorre sempre guardare al contesto organizzativo e alle attività di trattamento svolte dal titolare o dal responsabile che intende procedere alla designazione.
Il GDPR, a riguardo, consente entrambe le opzioni purché siano rispettate le garanzie dell’art. 38, e dunque:
- che sia coinvolto nelle questioni riguardanti la protezione dei dati personali, anche e soprattutto per l’efficace promozione del principio di protezione dei dati sin dalla progettazione dei trattamenti;
- che si tenga conto del parere e delle raccomandazioni del DPO, documentando e motivando eventuali scelte difformi da parte dell’organizzazione;
- che sia dotato di risorse (finanziarie, infrastrutture e personale) e supporto da parte della Direzione per lo svolgimento della propria funzione;
- che sia garantita la sua formazione continua su tematiche relative alla protezione dei dati personali;
- che non sia penalizzato o ostacolato per lo svolgimento dei propri compiti;
- che sia garantita l’indipendenza;
- che non si generi un conflitto di interessi con l’attribuzione di eventuali ulteriori compiti o funzioni.
Inoltre, è molto importante considerare anche il fattore temporale: il DPO deve disporre di un tempo sufficiente per lo svolgimento della propria funzione. Ciò significa che anche in caso di svolgimento di ulteriori incarichi, sarà onere del titolare o del responsabile verificare che il DPO sia in grado di svolgere efficacemente la propria funzione garantendo l’adempimento dei propri compiti ed assicurando la continuità dell’attività di sorveglianza.
La scelta di designare un DPO interno ha l’indubbio vantaggio di presentare una figura stabilmente inserita e nota all’interno dell’assetto organizzativo, con l’ottimizzazione dei flussi informativi e la possibilità di ricevere un budget dedicato. I principali rischi di tale scelta riguardano i profili del potenziale conflitto di interessi, le garanzie di indipendenza funzionale e l’efficacia dei pareri e delle raccomandazioni nei confronti delle scelte direzionali.
Al contrario, la scelta di designare un DPO esterno presenta il vantaggio di una maggiore garanzia di indipendenza, assenza di conflitti di interesse e autorevolezza della propria opinione motivata nei confronti delle scelte direzionali. Il rischio di tale scelta è però che il DPO esterno non sia percepito come “parte” dell’organizzazione del titolare e del responsabile, anche per il riscontro alle richieste di dotazioni a supporto della propria funzione.
In entrambi i casi, è bene essere consapevoli degli inevitabili punti di forza e di debolezza in modo tale da predisporre particolare attenzione alla definizione, tanto in sede contrattuale che operativa, dei correttivi necessari per potenziare i vantaggi ed evitare (o contenere) gli svantaggi. Tali interventi devono essere operati dal titolare o dal responsabile del trattamento in forza del principio di responsabilizzazione al fine di garantire l’effettività del pieno svolgimento dei compiti e delle funzioni del DPO, con monitoraggio continuo della loro efficacia e valutazione di eventuali necessità ulteriori ed emergenti.
Perché vi sia un “posizionamento” del DPO conforme alle prescrizioni del GDPR, è bene ricordare, la designazione formale costituisce un elemento necessario ma non sufficiente, dal momento che in ogni caso l’osservanza della normativa in materia di protezione dei dati (e dunque: anche in relazione agli artt. da 37 a 39 GDPR riguardanti il DPO) è e rimane una responsabilità esclusiva in capo al titolare o del responsabile del trattamento.
Come è evidente, dal momento che possono esistere dei motivi a favore della scelta di designare un DPO tanto interno quanto esterno, il fattore determinante non può che derivare da un’accurata analisi preventiva del contesto del titolare o del responsabile del trattamento, tenendo conto soprattutto delle attività svolte sui dati nonché dell’assetto organizzativo (in senso lato, dovendo considerare ad esempio anche le sedi ed i punti di raccolta, elaborazione o conservazione dei dati).
FONTE:https://www.infosec.news/2020/03/02/news/riservatezza-dei-dati/dpo-tutta-questione-di-posizione/
Privacy, il DPO: chi è e come nominarlo
Lo richiede la nuova normativa europea del GDPR. Per rispettarla occorre non solo una corretta procedura di selezione di questa figura, ma valutare il proprio contesto legale-organizzativo. Ecco requisiti e consigli per la nomina
Avvocato – DPO in ambito ospedaliero e settore pubblico, presidente EPCE, titolare dello studio legale Di Resta Lawyers
Tra gli adempimenti di più ampio impatto sul mercato con l’attuazione del GDPR, c’è l’obbligo a nominare il responsabile della protezione dei dati personali ovvero del Data Protection Officer (DPO).
Figura già presente nelle organizzazioni più complesse presenti anche nel mercato italiano, ma che è ora obbligatoria per tutta la pubblica amministrazioni e in alcuni casi anche in ambito privato.
E con l’arrivo del decreto di adeguamento italiano al Gdpr, tutti i tasselli normativi sono al posto giusto perché le organizzazioni italiane, senza più alibi, siano chiamate all’attuazione delle nuove norme. Compresa, appunto, la nomina del DPO.
Indice degli argomenti
Cos’è il DPO, le linee guida Garanti privacy
Le linee guida pubblicate dal Gruppo europeo dei Garanti ex art. 29, in consultazione pubblica fino la fine di gennaio 2017, hanno fornito alcune indicazioni su cosa sia il DPO
Si conferma, inoltre, che nella disciplina estremamente succinta prevista dal legislatore europeo il DPO è un supervisore indipendente, il quale sarà designato obbligatoriamente, da soggetti apicali di tutte le pubbliche amministrazioni e nello specifico è previsto l’obbligo nel caso in cui “il trattamento è effettuato da un’autorità pubblica o da un organismo pubblico, eccettuate le autorità giurisdizionali quando esercitano le loro funzioni giurisdizionali”.
Sul piano interpretativo le recenti linee guida del Gruppo articolo 29 lasciano ancora diversi problemi aperti, alcuni dei quali ci si augura verranno risolti a breve a seguito della consultazione pubblica alla quale ha partecipato anche il Centro europeo per la privacy il cui documento è disponibile sul sito istituzionale.
Da quanto detto sopra, emerge comunque con chiarezza che, sebbene la designazione del Data Protection Officer sia accompagnato da una semplificazione in termini di designazione condivisa tra i diversi enti pubblici, questo adempimento comporterà certamente maggiori oneri per le finanze pubbliche.
Peraltro verso, il Data Protection Officer anche in ambito privato ha ruolo pervasivo dovendo essere coinvolto tempestivamente su ogni questione a lui/lei inerente per garantire una protezione dei dati effettiva dei cittadini e al contempo tutelare il titolare e il responsabile del trattamento, dovendo supervisionare tutte le attività di attribuzioni dei ruoli e responsabilità, piani di sensibilizzazione, di formazione nonché le attività di controllo (p.e. adeguatezza dei piani di audit interno).
In ambito privato, l’articolo 37 co. 1 lett. b) del regolamento europeo prevede l’obbligo di designare il DPO quando le attività principali del titolare e del responsabile richiedono su larga scala un monitoraggio regolare e sistematico, rientrano per esempio in tale presupposto gli operatori di telecomunicazione, gli operatori che effettuano profilazione per finalità di marketing comportamentale oppure erogare per premi assicurativi, localizzazione tramite app, monitoraggio sullo stato di salute tramite dispositivi indossabili e interconnessi (c.d. wearable devices), programmi di fedeltà, ecc. ecc..
Il DPO in ambito privato è obbligatorio anche per tutte le organizzazione che trattano come attività principale dati sensibili (o meglio particolari secondo il regolamento) oppure dati giudiziari su larga scala, rientrano in tale previsione ospedali, assicurazioni e istituti di creGdito eccetera.
A seconda della complessità del contesto organizzativo in cui dovrà operare, il DPO dovrà essere anche in grado di gestire questioni inerenti le diverse giurisdizioni.
I compiti del DPO
Più nel merito, i complessi compiti affidati al DPO sono previsti solo a livello minimale dal regolamento potendo quindi il titolare e il responsabile affidarne altri compiti, nello specifico il Dpo dovrà:
- 1) informare e fornire consulenza a titolare e al responsabile del trattamento nonché ai dipendenti degli obblighi derivanti dal regolamento;
- 2) sorvegliare l’osservanza del regolamento, nonché delle altre disposizioni europee o di diritto interno in materia di protezione dati;
- 3) sorvegliare sulle attribuzioni delle responsabilità, sulle attività di sensibilizzazione, formazione e attività di controllo;
- 4) fornire pareri e sorvegliare alla redazione della Data protection impact assessment (c.d. Dpia);
- 5) fungere da punto di contatto e collaborare con l’Autorità Garante per la protezione dei dati personali;
- 6) controllare che le violazioni dei dati personali siano documentate, notificate e comunicate (c.d. Data Breach Notification Management).
- 7)Ma come accennato il DPO potrà inoltre gestire inventari e gestire un registro dei trattamenti e delle attività di trattamento ex art. 30, sebbene a stretto rigore la specifica conservazione del registro della attività di trattamento ex art. 30 del regolamento europeo resti comunque ad appannaggio del titolare e del responsabile, peraltro, questi compiti sono già previsti da circa quindi anni come rientranti nel ruolo di Data Protection Officer interni alle istituzioni dell’Unione europea (regolamento 2001/45/Ce).
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Outsourcing Advanced Services Integration: una guida all’OASI della Governance per i CIO
Scelta e nomina del DPO, i criteri
In riferimento ai requisiti soggettivi e specificatamente allo profilo dello status, il candidato DPO ideale in molti casi potrebbe molto probabilmente occupare una posizione dirigenziale o manageriale stante l’obbligo di riferire al vertice gerarchico, un profilo senior potrà garantire maggiore indipendenza rispetto ad uno junior, soprattutto per garantire in modo effettivo la non ingerenza nelle proprie attività da parte del titolare. Inoltre, dovrà essere dotato di personale, locali e attrezzature sufficienti per adempiere i propri compiti, le linee guida esplicitano che dovrà anche essere dotato di una linea di budget adeguata graduata sulla complessità dell’organizzazione.
Il DPO potrà anche essere un dipendente dell’organizzazione oppure esterno in forza di un contratto di servizi, in quest’ultimo caso mentre l’indipendenza intesa come non ingerenza nelle proprie attività è un elemento più facile da soddisfare rispetto al DPO interno, il conflitto di interessi dovrà comunque essere disciplinato tenuto conto di alcune specificità del DPO esterno.
In ordine a quest’ultimo requisito soggettivo, il DPO interno potrà svolgere altre funzioni, ma dovrà avere sufficiente tempo per svolgere i propri compiti; a tal riguardo, sotto un profilo organizzativo si dovranno evitare situazioni di conflitto del DPO rispetto a chi gestisce processi decisionali critici dell’organizzazione in tema di protezione dei dati.
Chi scrive è persuaso che questo aspetto è meno critico di quanto sia stato sollevato in vari consessi specialistici, soprattutto tenuto conto dell’esperienza maturata in altri settori, come per esempio gli organismi di vigilanza sul decreto legislativo 231/2001, dove si sono adottate soluzioni legali-organizzative basate su codice etici dell’organizzazione, politiche e procedure organizzative che, unitamente alla verifica puntuale delle abilità e competenze concrete del DPO, consentono di inserire correttamente questo nuovo ruolo all’interno dell’organizzazione.
Preme infine ricordare che, come anche chiarito nelle recenti linee giuda, il DPO non potrà rispondere personalmente della non conformità dell’organizzazione al regolamento europeo, responsabilità dirette che ricadono esclusivamente sul titolare e sul responsabile.
Nomina del DPO, errori da non fare
Dall’esperienza di questi mesi, emergono alcuni errori tipici nella scelta del DPO:
- Considerare la nomina un mero adempimento formale
- La ricerca del massimo risparmio
- Scegliere una figura non indipendente, in conflitto di interesse
Si rinvia al seguente articolo per un approfondimento
In conclusione
Si tratta quindi di una figura professionale nuova sul mercato, sebbene diversi grandi enti ed operatori si siano dotati da diversi anni di una funzione privacy che svolge compiti assibilabili al DPO, che necessita di una preparazione specialistica e una formazione continua ma anche di un’esperienza concreta sul campo per supportare adeguatamente le organizzazioni nell’ambito di un mercato unico digitale europeo.
Per essere compliance occorre pertanto non solo una corretta procedura di selezione del candidato DPO, ma occorre valutare il proprio contesto legale-organizzativo che deve garantire una corretta gestione delle problematiche che inevitabilmente si porranno non solo in termini di indipendenza e di assenza di conflitto di interessi ma per una corretta integrazione del DPO con le altre funzioni dell’organizzazione.
Lo scenario europeo
Vale la pena anche ricordare i motivi di fondo che hanno animato l’Unione europea: con il nuovo pacchetto di riforma nell’ambito della protezione dei dati punta con decisione sull’aumento di fiducia dei consumatori per dare impulso al mercato unico digitale a livello europeo. La nomina del DPO è un tassello di questa finalità. Il pacchetto si compone di due atti normativi la direttiva 2016/680/CE (c.d. Direttiva Polizia) e il Regolamento 2016/679/UE. Come è noto, il Regolamento europeo per la protezione dei dati personali è entrato in vigore lo scorso 24 maggio, la sua disciplina diventerà direttamente applicabile in tutti gli Stati Membri dell’Unione europea a partire dal 25 maggio 2018.
Infatti, la disciplina normativa subisce cambiamenti sostanziali. Tra questi merita particolare attenzione il c.d. principio di accountability (tradotto prevalentemente con il termine “responsabilizzazione” oppure come proposto da alcuni commentatori anche “rendicontazione”), in virtù di tale principio tutti i titolari e i responsabili del trattamento dovranno preventivamente gestire la propria organizzazione in modo da garantire in ogni fase del trattamento la piena conformità al trattamento e raccogliere prove documentali per dimostrarla.
Principio questo che va certamente accostato ad un approccio proattivo al rischio fortemente rafforzato nel regolamento rispetto all’attuale Codice della Privacy e che obbligherà i titolari e i responsabili ad analizzare i rischi connessi ai trattamenti da loro posti in essere (c.d. risk-based approach).
La nomina del DPO è funzionale a questo scopo ed è per questo motivo che è fondamentale avvenga in modo efficace: per l’azienda ma anche per il sistema economico europeo nel complesso.
CORONAVIRUS: LA GIUSTIZIA AI TEMPI DELL’EMERGENZA SANITARIA
31 MAGGIO 2020 – Sara Ionà
Sommario: 1. Introduzione – 2. Disposizioni in materia di giustizia civile – 3. Disposizioni in materia di giustizia penale – 4. Disposizioni in materia di giustizia amministrativa
1. Introduzione
La presente trattazione ha l’obiettivo, senza alcuna pretesa di esaustività, di individuare le modalità di svolgimento delle udienze con collegamento da remoto.
Al fine di contenere gli effetti negativi dell’emergenza epidemiologica da Covid-19, il Legislatore ha disposto la sospensione delle attività giudiziarie, ad eccezione di quelle urgenti, e dei relativi termini processuali, dapprima, sino al 30 aprile 2020 e, poi, sino all’11 maggio 2020; in secondo luogo, con il decreto legge 30 aprile 2020, n. 28[1], ha stabilito la riduzione dell’attività giudiziaria sino al 31 luglio 2020 (art. 3, I comma, lett. i)).
Si sono distinti due periodi: il primo (dal 16 aprile 2020 all’11 maggio 2020), in cui si è svolta soltanto l’attività giudiziaria d’urgenza; il secondo (dal 12 maggio 2020 al 31 luglio 2020), in cui la trattazione delle udienze avviene in misura ridotta.
Per contenere gli effetti negativi dell’emergenza sanitaria in atto, nel rispetto delle indicazioni igienico-sanitarie approvate dal Ministero della Salute, il Legislatore è intervenuto con il decreto legge 17 marzo 2020, n. 18[2], al fine di regolare l’amministrazione della giustizia.
In particolare, l’art. 83, VI comma, dell’anzidetto decreto[3] prevede che “i capi degli uffici giudiziari […] adottano le misure organizzative, anche relative alla trattazione degli affari giudiziari, necessarie per consentire il rispetto delle indicazioni igienico-sanitarie fornite dal Ministero della Salute […] al fine di evitare assembramenti all’interno dell’ufficio giudiziario e contatti ravvicinati tra le persone”. Al fine di soddisfare tali finalità, i capi degli uffici giudiziari possono adottare misure idonee a garantire sia il contraddittorio, sia la partecipazione delle parti e degli ausiliari del giudice (ex art. 83, VII comma, lett. f) e h), d.l. n. 18/2020).
A riguardo, in forza dell’art. 83, VII comma, d.l. n. 18/2020, i capi degli uffici giudiziari possono adottare linee guida vincolanti per la fissazione e per la trattazione delle udienze (lett. d) e consentire “la celebrazione a porte chiuse, ai sensi dell’articolo 472, comma 3, del codice di procedura penale, di tutte le udienze penali, pubbliche o di singole udienze e, ai sensi dell’articolo 128 del codice di procedura civile, delle udienze civili pubbliche” (lett. e).
2. Disposizioni in materia di giustizia civile
– Invito e convocazione delle parti all’udienza con collegamento da remoto
Ai sensi dell’art. 83, VII comma, lett. f), d.l. n. 18/2020, “Prima dell’udienza il giudice fa comunicare ai procuratori delle parti e al pubblico ministero, se è prevista la sua partecipazione, giorno, ora e modalità di collegamento”.
In altri termini, prima della celebrazione dell’udienza, il giudice emette un provvedimento che la cancelleria dovrà comunicare, almeno sette giorni prima, ai procuratori delle parti ed al pubblico ministero, qualora sia prevista la sua partecipazione; la comunicazione dovrà indicare il giorno, l’ora e le modalità di collegamento tramite link, inserito nel provvedimento stesso.
Qualora il resistente non compaia all’udienza telematica, il Presidente del Tribunale, verificata la presenza del ricorrente e la regolarità della notifica del ricorso, procederà ex art. 707, III comma, c.p.c.[4]. Se la parte resistente costituita non è presente all’udienza telematica, allora il Presidente del Tribunale ne fisserà un’ulteriore, dandone atto a verbale ed indicando la data della nuova udienza.
– Svolgimento delle udienze con collegamento da remoto
Nel prosieguo, l’art. 83, VII comma, lett. f), d.l. n. 18/2020 indica le modalità di svolgimento delle udienze con collegamento da remoto, stabilendo che “All’udienza il giudice dà atto a verbale delle modalità con cui si accerta dell’identità dei soggetti partecipanti e, ove trattasi di parti, della loro libera volontà. Di tutte le ulteriori operazioni è dato atto nel processo verbale”.
Il comma VII, lett. h), della suesposta disposizione ammette la celebrazione delle udienze civili che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori delle parti, mediante lo scambio ed il deposito di note scritte, contenenti le sole istanze, le conclusioni e la successiva adozione, fuori udienza, del provvedimento del giudice.
Nel verbale d’udienza, il magistrato prenderà atto della dichiarazione di identità dei procuratori e delle parti presenti, nonché della presenza, nel luogo in cui si svolge il collegamento, di eventuali altri soggetti legittimati alla partecipazione (quali: magistrati in tirocinio, tirocinanti, co-difensori e praticanti avvocati). Inoltre, prenderà atto della dichiarazione dei difensori delle parti in merito alle modalità di partecipazione della parte assistita al momento dell’udienza e della dichiarazione relativa al fatto che non siano in atto né da parte dei difensori, né da parte dei loro assistiti, collegamenti con soggetti non legittimati, nonché della dichiarazione della parte che si colleghi da un luogo diverso da quello da cui si collega il difensore che non sono presenti fisicamente soggetti non legittimati.
Il giudice, i procuratori delle parti e le parti, se collegate da luogo distinto, dovranno tenere attivata per l’intera durata dell’udienza la funzione video. Il giudice disciplinerà l’uso della funzione audio per dare la parola ai difensori o alle parti; è vietata la registrazione dell’udienza;
Ove possibile, la gestione dell’avvio e dello svolgimento dell’udienza sarà effettuata dal cancelliere collegato da remoto con il medesimo applicativo; eventualmente, il cancelliere, utilizzando la “consolle d’udienza” potrà curare anche la verbalizzazione.
In caso di malfunzionamenti, di scollegamenti involontari ed impossibilità di ripristino, il giudice deve interrompere l’udienza e rinviarla, dandone comunicazione alle parti.
Al termine dell’udienza, il giudice inviterà i procuratori delle parti a dichiarare a verbale di aver partecipato all’udienza nel rispetto del principio del contraddittorio ed ad attestare che lo svolgimento dell’udienza, mediante l’applicativo, è avvenuto regolarmente.
3. Disposizioni in materia di giustizia penale
In materia di giustizia penale, non è previsto il processo telematico, a causa di evidenti difficoltà che investono profili normativo-costituzionali, di carattere organizzativo e relative alla sicurezza ed alla segretezza dei dati. Le disposizioni sul processo penale con collegamento da remoto devono garantire il rispetto dei principi delle convenzioni internazionali, dei principi costituzionali del diritto di difesa e del giusto contraddittorio e devono essere limitate al solo periodo di emergenza, anche al fine di evitare eventuali illegittimità.
In questo senso, l’Unione delle Camere Penali Italiane, esprimendo una ferma opposizione al processo penale telematico, ha sostenuto che “la fisicità del luogo di udienza e delle relazioni tra i soggetti del processo mina le fondamenta, i principi costituzionali di garanzia e viola, per le modalità previste, le vigenti regole di protezione dei dati e di sicurezza informatica”. Un ulteriore limite al processo penale da remoto è stato espresso dal Garante della privacy, che ha chiarimenti al fine di fornire “ogni elemento ritenuto utile alla migliore comprensione delle caratteristiche dei trattamenti effettuati nel contesto della celebrazione, a distanza, del processo penale”. Sul punto, infine, è intervenuto il suindicato d.l. n. 28/2020, che ha modificato la disciplina del processo penale da remoto, escludendo la possibilità di celebrare con tali modalità, salvo diverso accordo tra le parti, le udienze di discussione finale, in pubblica udienza o in camera di consiglio, e quelle nelle quali devono essere esaminati testimoni, parti, consulenti o periti. Ciò perché i principi costituzionali del giusto processo e delle garanzie difensive non possono essere compressi da norme adottate solo durante un periodo emergenziale.
4. Disposizioni in materia di giustizia amministrativa
Ai sensi dell’art. 4 d.l. n. 28/2020, a decorrere dal 30 maggio 2020 sino al 31 luglio 2020, potrà essere chiesta discussione orale con istanza depositata entro il termine previsto per presentare le memorie di replica, ovvero, per gli affari cautelari, fino a cinque giorni liberi prima dell’udienza, mediante collegamento da remoto con modalità atte a garantire il contraddittorio e la partecipazione dei difensori all’udienza. L’istanza è accolta dal Presidente del collegio se presentata congiuntamente da tutte le parti, mentre, negli altri casi, il Presidente valuterà l’istanza sulla base delle eventuali opposizioni espresse dalle altre parti alla discussione da remoto.
Se il Presidente ritiene necessaria, anche in assenza di istanza di parte, la discussione con modalità da remoto, la dovrà disporre con decreto; in tal caso, la segreteria dovrà comunicare, almeno un giorno prima della trattazione, l’avviso dell’ora e delle modalità di collegamento.
A verbale si dà atto delle modalità con cui si accerta l’identità dei partecipanti e la libera volontà delle parti; il luogo da cui si collegano i magistrati, gli avvocati ed il personale addetto è considerato udienza a tutti gli effetti.
In alternativa alla discussione, si possono depositare note di udienza fino alle ore 9.00 del giorno dell’udienza o la richiesta di passaggio in decisione; il difensore che deposita tali note o la richiesta è considerato presente, ad ogni effetto, in udienza.
NOTE
[1] Decreto Legge 30 aprile 2020, n. 28, recante “Misure urgenti per la funzionalità dei sistemi di intercettazioni di conversazioni e comunicazioni, ulteriori misure urgenti in materia di ordinamento penitenziario, nonché disposizioni integrative e di coordinamento in materia di giustizia civile, amministrativa e contabile e misure urgenti per l’introduzione del sistema di allerta Covid-19”.
[2] Decreto Legge 17 marzo 2020, n. 18, c.d. “Decreto Cura Italia”, recante “Misure di potenziamento del Servizio sanitario nazionale e di sostegno economico per le famiglie, lavoratori e imprese connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19”.
[3] Art. 83 d.l. n. 18/2020, rubricato “Nuove misure urgenti per contrastare l’emergenza epidemiologica da COVID-19 e contenerne gli effetti in materia di giustizia civile, penale, tributaria e militare”.
[4] Art. 707, III comma, c.p.c. (“Comparizione personale delle parti”): “Se non si presenta il coniuge convenuto, il presidente può fissare un nuovo giorno per la comparizione, ordinando che la notificazione del ricorso e del decreto gli sia rinnovata”.
FONTE:http://www.salvisjuribus.it/coronavirus-la-giustizia-ai-tempi-dellemergenza-sanitaria/
LA LINGUA SALVATA
Pessimismo
pessimismo s. m. [dal fr. pessimisme, der. del lat. pessĭmus «pessimo» (in contrapp. a optimisme «ottimismo»)]. – Disposizione di spirito, naturale o acquisita per dolorosa esperienza di vita, a considerare la realtà nei suoi aspetti peggiori, a giudicare negativamente avvenimenti e situazioni, a prevedere che le cose volgano in ogni caso al peggio: essere in preda a un profondo, a un cupo, a un morboso p.; guardare al futuro con p.; il p. leopardiano. Nel linguaggio filos., il termine indica la giustificazione speculativa di un’esperienza negativa e dolorosa del mondo, e si distingue in p. empirico (quello antico e medievale), quando la svalutazione colpisce soltanto il mondo terreno e visibile, in antitesi a un migliore aldilà, e in p. metafisico (quello ottocentesco teorizzato da A. Schopenhauer), se la svalutazione si estende all’universa realtà.
FONTE:http://www.treccani.it/vocabolario/pessimismo/
Realismo
Nella filosofia scolastica, l’attribuzione di una realtà oggettiva ai concetti universali. Nella filosofia moderna, ogni dottrina che consideri l’oggetto della conoscenza come esistente in sé, indipendentemente dall’attività conoscitiva.
1. Il r. della filosofia scolastica
Il termine r. comincia a essere usato nella scolastica, in rapporto con la grande questione degli universali: sostenendone la realtà oggettiva, i realisti si oppongono ai nominalisti (➔ nominalismo) e ai concettualisti (➔ concetto). Capo della scuola realistica propriamente detta è Guglielmo di Champeaux; tra i massimi seguaci del r. scolastico sono da ricordare, oltre a s. Tommaso, s. Anselmo d’Aosta e Giovanni Duns Scoto.
2. Il r. nella filosofia moderna
Nella filosofia moderna il r. si oppone all’idealismo: le diverse forme di r., pur affermando tutte genericamente l’indipendenza della realtà empirica e sensibile, in contrapposizione al tentativo idealistico di ridurla al mentale, si differenziano tra di loro a seconda del tipo di idealismo contro cui polemizzano.
Così, in nome del r. si batté la corrente filosofica iniziata da T. Reid e continuata con D. Stewart, W. Hamilton e altri pensatori di lingua inglese. In contrasto con la tesi di origine cartesiana e lockiana che l’oggetto specifico della conoscenza siano le idee, ossia le rappresentazioni mentali, e con gli esiti scettici di G. Berkeley e D. Hume, i rappresentanti di questa corrente, appellandosi a un r. del ‘senso comune’, proponevano di identificare con le stesse cose reali l’oggetto proprio delle percezioni sensibili.
In funzione anti-idealistica si richiamò al r. empirico anche I. Kant, quando nella Critica della ragion pura negò la possibilità di dedurre integralmente i fenomeni dagli elementi a priori della conoscenza e dunque la necessità di riconoscere in essi un nucleo indipendente e reale immediatamente percepito dal soggetto nella sensazione. Contro le varie forme di idealismo di J.G. Fichte, F.W. Schelling, G.W.F. Hegel, si schierò J.F. Herbart con un’ontologia pluralistica che riconosceva come esistenti al di fuori del soggetto conoscente una molteplicità di esseri o reali. Ancora in funzione anti-idealistica si presenta il movimento verso l’oggettività che ebbe tra i suoi iniziatori F. Brentano e A. von Meinong e che influenzò E. Husserl nelle prime fasi della sua riflessione.
Nella cultura anglosassone, contro le analisi di B. Bosanquet, F. Bradley e T.H. Green, alla fine del 19° sec. J.C. Wilson iniziava quella confutazione dell’idealismo che trovò nelle pagine di G.E. Moore e B. Russell una più sistematica formulazione. Moore affermò l’istanza realistica di un’irriducibilità del reale al mentale e della necessità di riconoscere nella sensazione la presenza di due elementi che sono in una relazione del tutto estrinseca tra di loro. Non diversamente Russell in una prima fase del suo pensiero non solo sostenne l’irriducibilità del reale a ciò che è percepito, ma cercò di fondare le sue scoperte in logica e matematica su un’ontologia realistica che dava un’autonoma esistenza alle relazioni logiche, ai significati e ai numeri.
Nel 20° sec. è stato in particolare il pensiero statunitense a riprendere la problematica del r., ricollegandosi alla confutazione dell’idealismo di Moore. Nel 1910 comparve un vero e proprio manifesto del neorealismo i cui esponenti più significativi furono W.P. Montague, R.B. Perry, E.B. Holt, T.P. Nunn, S. Alexander: esso identificava il dato sensoriale oggetto diretto della conoscenza con le stesse cose e qualità reali. A questa conclusione si opporranno successivamente gli esponenti del r. critico (A.O. Lovejoy, J.B. Pratt, G. Santayana, R.W. Sellars), avanzando una teoria della conoscenza che vede la presenza di almeno tre elementi: l’atto percipiente, il carattere o dato direttamente colto nella percezione e la cosa od oggetto extramentale a cui il dato, essendone un segno, rinvia.
3. Il r. nella filosofia della scienza
Il problema del r. ha ricevuto nuova attenzione nella filosofia della scienza contemporanea all’interno del dibattito sullo status ontologico delle entità teoriche (non osservabili) postulate dalle teorie scientifiche. Alle prospettive fenomeniste e convenzionaliste, tendenti a considerare le teorie scientifiche come utili strumenti per la sistematizzazione dell’esperienza, K.R. Popper ha contrapposto la tesi che le teorie scientifiche descriverebbero in modo sempre più adeguato una realtà indipendente. Entro tale prospettiva Popper ha ripreso la definizione semantica di verità di A. Tarski, riproponendo il concetto di verità come corrispondenza e considerando la successione storica delle teorie scientifiche come un continuo avvicinamento alla verità. Posizioni realiste ha sostenuto anche H. Putnam, che tuttavia, dall’originaria adesione a un r. metafisico, per il quale esiste una totalità data di oggetti indipendenti dalla mente che le teorie scientifiche, se vere, descrivono oggettivamente, si è poi orientato, in parte sotto l’influsso di N. Goodman, verso un r. interno che riconosce la parziale dipendenza della realtà dai modi in cui viene descritta e concettualizzata. Quest’ultima posizione è soprattutto un tentativo di salvaguardare l’oggettività scientifica dal relativismo di T. Kuhn e P. Feyerabend, che ridimensionavano l’immagine del sapere scientifico come accumulo di teorie sempre più vere proponendo, in sua vece, la tesi della dipendenza delle ontologie scientifiche da presupposti e ‘schemi concettuali’ storicamente mutevoli. La prospettiva di Putnam si inquadra così nella crisi della teoria della conoscenza come rispecchiamento (o rappresentazione) e nel recupero della tradizione pragmatista rappresentato, tra gli altri, da R. Rorty, per il quale, più che nei termini della corrispondenza a una realtà data, il discorso scientifico va valutato in base alla sua conformità a sistemi di credenza e pratiche intersoggettivi.
In letteratura e nelle arti figurative, tendenza a rappresentare la vita quale si presenta a una rigorosa osservazione, non alterata per desiderio di idealizzarla.
Una specifica tendenza realistica, con caratteri storicamente differenziati, va affermandosi in Occidente nel campo della letteratura, dal 18° sec. in poi, parallelamente al progressivo affermarsi della borghesia come classe sociale egemone e al conseguente definitivo superamento della tradizionale divisione degli stili (sublime, mediocre, umile), che aveva relegato nell’ambito dei generi minori ogni rappresentazione troppo esplicita della realtà o della vita degli umili. Divenne così possibile fare oggetto di rappresentazione artistica le classi medie e la loro vita (dramma borghese, romanzo borghese); mentre le classi popolari, protagoniste fino allora quasi unicamente della letteratura variamente ‘comica’, cominciavano ad apparire anche in quella ‘seria’. Contemporaneamente il Romanticismo, ribellandosi contro i motivi e gli ornamenti tradizionali della letteratura, e ponendo al centro della nuova poetica l’esigenza di ‘interessare’ i lettori parlando nel loro linguaggio dei loro problemi e dei loro affetti, faceva in sostanza leva sulla loro concreta esperienza di osservazione quotidiana, e apriva quindi alla poesia il dominio della realtà. Il r. è dunque per sua natura schiettamente romantico, anche se fu spesso in polemica con il Romanticismo, identificato con la letteratura variamente patetica, vaporosa e sentimentale, che ne costituisce solo uno degli aspetti.
In senso ancora più specifico, ‘realistica’ è chiamata comunemente la letteratura teatrale e narrativa che ha il suo luogo d’origine e il suo centro di irradiazione in Francia, la sua fioritura nel periodo tra il 1830 e il 1870, il suo massimo artista in H. de Balzac, i suoi filosofi in H. Taine e in A. Comte. Borghesi i temi (famiglia, matrimonio, affari) nel teatro di É. Augier, nei romanzi di Balzac, trattati con apparente distaccata obiettività, mentre Stendhal, riconosciuto realista postumamente, mescola al suo sanguigno r. la forte carica passionale del suo temperamento personale. In tale senso stretto il r. si distingue dal successivo naturalismo di É. Zola e seguaci, e dal verismo italiano, che tuttavia, in modi diversi, del r. romantico possono essere considerati la naturale evoluzione.
Nel corso dell’Ottocento il r. si diffonde in quasi tutta l’Europa, così che in vario modo realisti possono essere considerati, per citare i maggiori, A. Manzoni e I. Nievo, N. Gogol´, F. Dostoevskij e L. Tolstoj, W. Thackeray e C. Dickens, G. Büchner e T. Fontane. Quel che distingue il r. dell’ultimo Ottocento dalle precedenti fasi realistiche è il rilievo che in esso assumono i problemi sociali, anche come conseguenza del diffondersi dell’ideologia socialista. Il r., diceva F. Engels, significa, «a parte la fedeltà nei particolari, riproduzione fedele di caratteri tipici in circostanze tipiche»; esso deve quindi tendere non tanto a una riproduzione meccanica della realtà, quanto a individuare, attraverso certi tratti tipici di una determinata fase storica, le tendenze di fondo della società.
Il carattere implicitamente pedagogico e prescrittivo di questa teoria del r. si accentuò nella Russia sovietica, dove l’istanza di un’arte rivoluzionaria, alternativa all’arte borghese e coerente con il progetto di edificazione della nuova realtà socialista, dopo la vivace sperimentazione degli anni 1920, si venne cristallizzando in una sorta di poetica di Stato, detta appunto r. socialista, in forme via via più soffocatrici della libertà creativa (il cosiddetto zdanovismo), almeno fino al ‘disgelo’ seguito al 20° congresso del Partito comunista dell’URSS (1956).
Se il r., come specifica tendenza letteraria, è fenomeno squisitamente ottocentesco, come istanza formale esso continua in varie forme nel 20° sec., non soltanto nel r. socialista: basti pensare alle forme peculiari assunte dal r. nella letteratura ispano-americana. In Italia, a parte l’episodio circoscritto del r. magico di M. Bontempelli, una significativa ripresa d’interesse per il r. si ebbe, soprattutto negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale, con il cosiddetto neorealismo che, preannunciato negli anni 1930 dalla nuova attenzione per la letteratura statunitense (C. Pavese, E. Vittorini), si propose un rinnovamento della letteratura in senso democratico, a partire dalle tematiche della Resistenza, dell’antifascismo, delle lotte contadine nel Sud ecc., non senza il rischio di cadere in una retorica di tipo populistico.
2.1 Il r. nel 19° secoloCome tendenza storica, il r. nel campo delle arti figurative si afferma in Francia, negli altri paesi europei e negli USA tra il 1840 e il 1870. Il modello induttivo positivista, con la sua fede nei fatti, e la nuova concezione scientifica della storia sono alla base di un atteggiamento chiarito dalla famosa dichiarazione di G. Courbet del 1861: «la pittura è un’arte essenzialmente concreta e può consistere solo nella rappresentazione di cose reali ed esistenti». La pittura realista tende a una rappresentazione oggettiva, fondata sull’attenta investigazione della realtà e su una visione intuitiva, libera da pregiudizi; c’è in questo una sostanziale contiguità con il r. letterario di L.-E.-E. Duranty e Champfleury, che sottolineano il dovere dell’artista di interpretare la propria epoca e collegano il r. ad aspirazioni politiche umanitariste. Gli artisti indagano la società nei suoi aspetti più umili ed emarginati, ricercano la veridicità e l’impegno morale, rifiutando la pratica e il repertorio accademico; raffigurano paesaggi e personaggi locali, formano colonie artistiche secondo una tendenza comune per tutto l’Ottocento. Già durante la monarchia di Luigi Filippo si osservano i segni di un interesse per la società contemporanea, benché solo nell’ambito della satira politica e di costume (E.-L. Lami, P. Gavarni). Da questo ambito si stacca H. Daumier, che unisce allo sguardo implacabile sulla società un magistrale controllo della resa fisionomica. Il rivolgimento del 1848 favorisce l’orientamento realista: il Salon di quell’anno accoglie pittori ‘provinciali’ come A. Leleux con quadri di contadini bretoni, C. Chaplin con tipi dell’Alvernia, F. Bonhommé con scene di vita operaia. Prima manifestazione pubblica del movimento realista è il padiglione allestito da Courbet nel 1855 con opere rifiutate dal Salon. L’operare dell’artista si configura anche come una presa di posizione ideologica, che ha punti di contatto con la ‘filosofia del progresso’ di P.-J. Proudhon e la sua idea di arte come celebrazione e insieme critica morale dell’esistenza concreta. Il tema del lavoro, nelle due dimensioni della città e della campagna, diviene centrale nel movimento realista, come nell’opera dei due svizzeri F. Simon e A. Anker. L’aspra condizione della vita contadina è espressa con pathos nobile ed eroico da J.-F. Millet. L’epica contadina è centrale anche in M.-C.-G. Gleyre, J. Breton e A. Legros. Intorno al 1870 si chiude la stagione del primo r.; mentre alcune delle sue istanze più avanzate sono raccolte da pittori come E. Manet e dal nascente impressionismo, si afferma una tendenza più propriamente naturalista. La fedeltà fotografica, la predilezione per aspetti patetici o bozzettistici, caratterizzano tale orientamento, rappresentato da J. Bastien-Lepage e P.-A.-J. Dagnan-Bouveret, accanto a J.-E. Buland, H.-J.-J. Geoffroy, N. Goeneutte, L. Lhermitte, J.-F. Raffaëlli, A. Roll. La facilità comunicativa, il messaggio sociale non problematico, fanno del naturalismo uno stile ufficiale, utilizzato anche per opere pubbliche della Terza repubblica francese.
In Belgio e nei Paesi Bassi stretti rapporti con la cultura naturalista presentano E. Claus, A. Collin, C. Douard, L. Frédéric; drammatica e vigorosa è invece la scultura di C. Meunier, centrata sulle condizioni di vita operaia. In Gran Bretagna, l’interesse per la realtà di F.M. Brown e, nell’ambito preraffaellita, di W.H. Hunt prepara l’affermazione del naturalismo di G. Clausen, S.A. Forbes, F. Goodall, H.H. La Thangue, H. von Herkomer; vanno ancora ricordati F. Bramley, gli scozzesi J. Guthrie e H.S. Tuke, l’irlandese F. O’Meara. In Russia il gruppo dei Peredvižniki (Ambulanti), formatosi nel 1870, apre la cultura russa al r. europeo. La riscoperta della vita e dei costumi popolari è centrale per i pittori attivi nella tenuta di Abramtsevo (I. Kramskoj, V. Perov, V. Polenov, V. Surikov, I. Repin). In Germania, A. Menzel inaugura la stagione realista con una pittura di forte impegno sociale, seguito da M. Liebermann e dal primo L. Corinth; capofila della tendenza naturalista è W. Leibl, con una pittura caratterizzata dalla ricerca di verità ‘ottica’. Colonie artistiche naturaliste sorgono in Ungheria, dove S. Hóllosy organizza quella di Nagybánya, e nei paesi scandinavi, a Skagen, con C.E. Skredswig e P.S. Kröyer. Negli USA il r. ha i maggiori interpreti in T. Eakins e W. Homer; una nutrita colonia di naturalisti americani, tra cui A. Harrison, L.B. Harrison, G. Melchers, C.S. Pearce, è presente in Bretagna intorno al 1880.
L’orientamento realista si diffonde in Italia dal 1855, soprattutto a Firenze, dove si forma il gruppo dei macchiaioli, rappresentato da G. Fattori, S. Lega, T. Signorini e dallo scultore A. Cecioni. Più incerto, a tratti regressivo, il rapporto con il r. degli altri pittori italiani del secondo Ottocento. A Napoli, testimoniano l’interesse per il degrado sociale meridionale G. Toma, T. Patini e lo scultore A. d’Orsi. Nelle regioni settentrionali, aderiscono alla tendenza verista G. Favretto, C. Pittara e lo scultore V. Vela; in una temperie già divisionista, ma legata a temi realisti, operano A. Morbelli, A. Pusterla, E. Longoni.
2.2 Il r. nel 20° secoloCon il 20° sec. il r. subisce una radicale trasformazione. Il concetto di realtà si amplia e diversifica, conducendo a diverse soluzioni formali (V. Kandinskij nel 1912 indica come decisivo il fine ‘interno’ di verità), sino a esiti integralmente non figurativi (Manifesto del realismo di N. Gabo e A. Pevsner, 1920). Di r. in senso courbettiano si può ancora parlare per le esperienze che contrappongono alla convenzionale verosimiglianza del naturalismo un proficuo rapporto con la lezione formale del postimpressionismo e delle avanguardie. I realisti della Secessione berlinese, H. Baluschek, K. Kollwitz e H. Zille, aprono il secolo con una pittura di forte impegno politico e di grande asciuttezza formale, che prepara gli sviluppi degli anni 1920. Negli USA, il gruppo The eight (A.B. Davies, W. Glackens, R. Henri, E. Lawson, G. Luks, M.B. Prendergast, E. Shinn, J. Sloan), fondato nel 1908, si propone di rappresentare la vita urbana con l’immediatezza praticata negli stessi anni in Gran Bretagna da W. Sickert, capofila del Camdem Town Group.
Le conseguenze sociali della Prima guerra mondiale, il ritorno all’ordine e alla figurazione in campo artistico, sono decisivi per gli sviluppi del realismo. Nella Germania di Weimar vi sono associazioni di tendenza realista: Novembergruppe, con M. Pechstein, G. Tappert, M. Melzer ecc.; Gruppe 1919, di più marcata radice espressionista, con C. Felixmüller e O. Lange; Rote Gruppe, dall’esplicito programma rivoluzionario. Un’impietosa messa a nudo della realtà è attuata con modi diversi: da quelli vicini al ‘montaggio’ dadaista di R. Haussmann, H. Höch, alle varie declinazioni della Neue Sachlichkeit, vicine all’espressionismo quelle di O. Dix, G. Grosz, L. Grundig, G. Jürgens (e, come figura isolata, di M. Beckmann), più affini all’esempio italiano di Valori plastici quelle di C. Mense, C. Schad, R. Schlichter, E. Thoms. L’esempio del r. politico tedesco fu raccolto in Unione Sovietica dai ‘pittori da cavalletto’ A. Dejneka e J. Pimenov, che trattano temi di vita sovietica in uno stile denso di riferimenti alle avanguardie; il r. socialista degli anni 1930 si presenta invece come una ripresa accademizzante, in linea con l’ostilità ufficiale verso le avanguardie; si afferma un’arte celebrativa e stereotipa, adottata dopo il 1945 da tutti i paesi socialisti. Realista può essere considerato negli anni 1920-30 anche il muralismo dei messicani J.C. Orozco, D.A. Siqueiros e D. Rivera, il cui linguaggio mescola fonti popolari, antiche e moderne, in linea con il progetto di un’arte per la collettività. Una tendenza realista si afferma negli USA dopo la grande depressione, nel quadro del New Deal roosveltiano e di una riscoperta in chiave antiavanguardista delle radici culturali nazionali (T.H. Benton, G. Bellows, P. Evergood, E. Hopper, G. Pène du Bois, B. Shahn, G. Wood). In Italia, l’espressione r. magico si riferisce alla stagione di Valori plastici e poi di Novecento, dove dominano le atmosfere sospese di A. Donghi, F. Casorati, L. Dudreville.
Di r. impegnato politicamente si torna a parlare solo alla fine degli anni 1930, quando, sull’esempio picassiano di Guernica, si forma il movimento Corrente(R. Birolli, B. Cassinari, R. Guttuso, A. Sassu, E. Treccani ecc.); lo stesso gruppo, insieme a R. Vespignani, M. Mazzacurati, A. Pizzinato e altri, sarà protagonista, dopo la Liberazione, di un dibattito sul ruolo del r. nella cultura italiana. Il gruppo francese Nouveau réalisme (1960) si propone di ristabilire un rapporto diretto tra l’arte e la realtà individuata nei mass-media e nel mondo degli oggetti di consumo. Nell’ambito della pop art, si diffonde un rinnovato interesse per il r., con G. Segal, P. Pearlstein, J. Rosenquist. Un’immagine aggressiva della realtà è invece caratteristica saliente dell’iperrealismo degli scultori J. De Andrea, D. Hanson, e dei pittori C. Close, A. Flack, G. Johnson. Successive, infine, sono le ricerche, condotte soprattutto con il mezzo fotografico, di artisti come M. Clegg & M. Guttman, T. Struth, A. Serrano.
Per il r. giuridico ➔ giusrealismo.
FONTE:http://www.treccani.it/enciclopedia/realismo/
LE FAKE WORDS: “SMART WORKING”
Pubblicato il 19 Aprile 2020
AUDIO QUI: https://www.francescocarraro.com/wp-content/uploads/2020/04/RadioRadicale-mp1048322.mp3
FONTE:https://www.francescocarraro.com/le-fake-words-smart-working/
LAVORO PENSIONI DIRITTI SOCIALI
Bonus 600 euro, domande respinte: la Catalfo ha mentito? Il racconto di uno stagionale
31 Maggio 2020
Bonus 600 euro lavoratori stagionali: nonostante le promesse del Ministro Nunzia Catalfo, la domanda per i 24 mila stagionali esclusi in prima istanza è stata respinta ancora. Money.it ha deciso di dar voce a questa categoria.
Bonus 600 euro per i lavoratori stagionali: qualche giorno fa il Ministro del Lavoro, Nunzia Catalfo, ha annunciato di aver trovato una soluzione per permettere a coloro che sono stati esclusi per un’errata contrattualizzazione (lavoro a tempo determinato anziché stagionale) di percepire sia il bonus 600 euro di marzo che quello di aprile.
Tuttavia, i fatti smentiscono il Ministro: gli stagionali, infatti, hanno visto ancora respinta la loro domanda, restando senza alcun aiuto economico dall’inizio della pandemia. A raccontarci cosa sta succedendo è Vincenzo Sclafani, addetto alla somministrazione di cibi e bevande durante i ricevimenti, un settore in profonda crisi a causa dell’emergenza epidemiologica da COVID-19 visto che molti matrimoni sono stati rinviati alla prossima stagione.
1)Buongiorno, intanto la ringraziamo per aver scelto noi per raccontare la sua vicenda. Ci spieghi quanto successo…
Ringrazio voi per avermi dato la possibilità di dare voce a tutta la mia categoria, quella di lavoratori che mettono passione nella propria attività, e che non hanno mai chiesto allo Stato nulla, ed ora, che solo per cause di forza maggiore sono rimasti bloccati a casa per due mesi e hanno bisogno di un intervento da parte dello Stato per poter sopravvivere, il tutto viene incatenato dalla burocrazia dei codici e dei codicilli.
In breve, il DL Cura Italia prevedeva tra le varie misure quella di un bonus a fondo perduto di 600 euro per il mese di marzo, poi prorogato dal DL Rilancio per il mese di aprile e maggio per varie categorie, tra cui i cosiddetti “lavoratori stagionali dei settori del turismo e degli stabilimenti termali”, indicando per accedere al bonus pochi paletti effettivamente.
Ma nulla si muove; il 15 maggio dopo 45 giorni tutte le domande degli stagionali vengono respinte in blocco poiché INPS sostiene che non siamo lavoratori stagionali, ma ricontrollando i paletti che il DL metteva, non capivamo, dato che rientravano perfettamente nei requisiti.
Il caos, il panico, senza lavoro e senza soldi, a fase 2 inoltrata. Qualcosa si muove grazie al tam tam nei social e scopriamo che il problema era il codice contrattuale di assunzione di ognuno di noi in tutta Italia. Contratti a tempo determinato invece che stagionali nella forma, ma stagionali nella sostanza, e per molti di noi, da anni ormai.
La Ministra Catalfo con vari post ci rassicura che le domande sarebbero state riesaminate e pagate, finalmente una speranza se ad esprimersi è proprio il Ministro. Attendiamo, e ieri dopo altri 15 giorni di attesa succede l’inverosimile: a tutti in sincronia, e, si presume con un solo click, i riesami automatici vengono chiusi con un nuovo respingimento a data, pensate bene 10 ottobre 1010.
Pura follia che ci lascia nuovamente nello sconforto, ancora. Ormai i bonus che attendiamo sono quelli di marzo, aprile, e a breve ormai anche quello di maggio. Per un totale di quasi 2000 euro a lavoratore. E le bollette nel frattempo si accumulano e si ha anche difficoltà a mettere qualcosa a tavola.
2) Da quanto è che è fermo e che non percepisce alcuno stipendio?
Il mio contratto è terminato come ogni anno il 30 Settembre, ho percepito la Naspi da Novembre a Febbraio.
3) Il Ministro Catalfo ha parlato anche di un bonus di 600 euro per i lavoratori dipendenti stagionali appartenenti a settori diversi da quelli del turismo e degli stabilimenti termali, anche se assunti tramite agenzie di somministrazione. Lei, come tanti altri, non potrebbe comunque rientrare in questa categoria?
No perché noi non rientriamo in queste categorie, noi siamo lavoratori stagionali del turismo e i codici Ateco delle strutture in cui lavoriamo, insieme ai nostri Unilav, confermano tale condizione.
Non siamo né appartenenti ad altri settori né assunti tramite agenzie, ne intermittenti. I lavoratori di queste categorie avranno il loro bonus adesso facendo domanda sul sito dell’INPS mentre prima a loro non spettava completamente; bene l’allargamento della platea, ma non ci riguarda. Anche perché è proprio la circolare in questione che dice a noi, citandoci espressamente, di non rifare la domanda.
4) Avete ancora fiducia riguardo al fatto che la situazione si possa sbloccare? E se sì, in che modo?
La fiducia a me personalmente non manca, al massimo si è ridotta al minimo, ma penso di rispondere a livello personale, non me la sento di rispondere per i miei colleghi. L’incertezza e la paura non provocano a tutti la stessa reazione. La situazione potrà essere sbloccata mettendo a confronto i nostri Unilav e verificando esclusivamente il codice ateco della struttura in cui abbiamo lavorato.
5) Riguardo alla situazione lavorativa nel suo settore di competenza, come vede il prossimo futuro?
Non benissimo, nel mio caso specifico si tratta di strutture per ricevimenti del settore wedding. Messo a dura prova dal coronavirus e che ha spaventato moltissime coppie di sposi portandole a rimandare il matrimonio a tempi migliori.
Sul nostro settore nello specifico abbiamo anche notato poche argomentazioni o quasi nulla da parte del governo. Il settore wedding muove moltissimi miliardi del nostro PIL nazionale e che purtroppo non sta ripartendo insieme agli altri settori, anche prendendo il bonus di maggio, per noi sarà difficile vivere anche nei mesi successivi.
6) Se avesse qui davanti il Presidente del Consiglio, cosa gli chiederebbe?
Semplicemente se si rende conto di come, in Italia spesso tutto si blocchi o venga rallentato da burocrazia e codici.
Bene la procedura semplice per chiedere un bonus, male il modo in cui vengono verificati i requisiti, mettendo tutto dentro ad un computer trattandoci non come persone ma come numeri, lasciandoci in perenne ansia e attesa e provocando spesso situazioni al limite della povertà, che in molti di noi fortunatamente era sconosciuta. Grazie per averci fatto vivere questa sensazione che avremmo volentieri evitato.
FONTE:https://www.money.it/bonus-600-euro-domande-respinte-racconto-stagionale
PANORAMA INTERNAZIONALE
Per Trump l’Antifa è un’organizzazione terroristica
Gli esperti ritengono che sia incostituzionale
Il presidente Donald Trump ha twittato domenica che gli Stati Uniti designeranno l’Antifa come un’organizzazione terroristica, anche se il governo degli Stati Uniti non ha alcuna autorità legale esistente per etichettare un gruppo interamente domestico nel modo in cui attualmente designa le organizzazioni terroristiche straniere.
POLITICA
GOVERNO: SACRIFICI NECESSARI, PRIVILEGI INTOCCABILI
Dopo che la pandemia del Covid-19 si è abbattuta sul nostro Paese lasciandolo sospeso in una sorta di bolla in cui sono state limitate le libertà costituzionali, quindi lesi i diritti dei cittadini italiani, relegandoli ad inermi spettatori di un film il cui finale sembrava già essere scritto, in cui era anche facilmente presumibile che si sarebbe finiti in una inevitabile crisi economica e sociale, adesso dopo le scelte tardive del Governo e le sue ricette di rilancio inadeguate, è da porsi una domanda. I partiti che compongono la sua maggioranza sono verosimilmente davvero partiti? È la fatidica domanda che da alcune settimane campeggia non solo tra le pagine di alcuni giornali, ma anche nelle trasmissioni televisive dei retroscena politici, nei salotti buoni della capitale e nelle conversazioni della gente comune. Il dato di disistima, nella graduatoria di fiducia, che gli italiani nutrono nei confronti del premier Giuseppe Conte e del suo Governo è sempre più decrescente, sembra che stia divenendo un fenomeno inarrestabile.
Allo stesso tempo, come è naturale in simile circostanze, trovano terreno fertile le proposte politiche della Lega, Fratelli d’Italia, per certi versi anche Forza Italia e di nuovi movimenti che, proprio nelle prossime settimane, si sono dati appuntamento nelle piazze italiane. Per dovere di verità, in tempi non sospetti, queste forze politiche, già paventavano tale sprofondo, al momento, sembrano raccogliere interessanti consensi da tutti coloro che, a buona ragione, si sentono indignati da ciò che in questi ultimi mesi è accaduto nella vita politica italiana, a queste forze di opposizione si aggiunge chi, approfittando degli eventi, si propone con nuove iniziative, anche di aggregazione, tramite nuovi movimenti di opinione. Già, ma cosa sta accadendo e a cosa porterà tutto ciò? Speriamo che non si tratti di ripercorrere la storia di quel famoso decreto (qui però nulla c’entra Conte) borbonico “facite ammuina”, non vero e nemmeno verosimile, anche se a suo tempo fu ampiamente diffuso dai detrattori del regno. Decreto in cui si ordinava al personale di bordo delle navi di spostarsi dalla prua alla poppa e viceversa, in modo da far notare, a chi guardasse dal molo, che erano tutti intenti nel far qualcosa.
Adesso c’è da dire che del vero, invece, ai giorni nostri, purtroppo nei fatti vi è, ma non vorrei che qualcuno cavalcasse questo “vero” unicamente per fare, per l’appunto, solo “ammuina”, cioè confusione. Per sgombrare il campo da ogni equivoco, mi riferisco al fatto che è senza alcun dubbio giusto infuriarsi e criticare l’azione di Governo e i risultati scadenti che questa ha portato, ma nel concreto va alimentata una battaglia per il cambiamento proponendo, sul campo, delle proposte tangibili, affiancarle con l’autorità di una vera e grande nazione che abbia quella visione politica di ampio respiro e quella personalità necessaria per poter essere la guida verso quel cambiamento tanto auspicato. A proposito dei flop governativi ed illusioni fatte di non verità, va ricordato che tanti lavoratori e intere famiglie sono stati ridotti alla disperazione, senza aver quasi più nulla nelle loro tasche per andar avanti e senza che nulla, di quanto promesso dal Governo, sia mai entrato in modo concreto nelle loro tasche, tranne quei miseri 600 euro per alcuni, una goccia nell’oceano, e bene sottolineare che altre categorie di lavoratori, invece, non hanno ottenuto nemmeno quelli.
Gli italiani che tutti i giorni, comunque, devono fare i conti con bollette sempre più alte, prezzi sempre più insostenibili per i loro portafogli, oramai vuoti, tasse pesanti e, sempre più spesso, anche con il lavoro che manca, giustamente non comprendono e non si capacitano perché non si prendono dei legittimi provvedimenti. Non si capacitano del fatto che il premier Conte si era presentato loro come “l’avvocato del popolo”, un avvocato, lo si sa, fa gli interessi del suo cliente, che in questo caso è il popolo, ma con i decreti emanati, Conte gli interessi gli chiede proprio al popolo. Si, perché il miraggio dei soldi promessi tramite le banche, quando e se saranno erogati, altro non sono che un prestito che peserà sempre e comunque nelle case degli italiani. Quello che non si comprende è il fatto che un partito come il Pd, con la propria esperienza, con uomini che conoscono la macchina amministrativa dello Stato, possa ancora lasciar correre tutto questo, come pensa di poterlo spiegare un giorno alla società civile. Appare chiaro che a sfuggire, a tutti loro, è il problema di una “casta”, dapprima tanto osteggiata dai M5s, poi digerita e fatta propria, che giorno dopo giorno, appare evidente cristallizzarsi nei propri privilegi e nei propri diritti acquisiti intoccabili, in virtù di questi disposti anche a rinnegare, nei fatti, il proprio dna.
Naturalmente la questione non è unicamente racchiusa solo in questo, è solo una piccola voce di bilancio, va invece compreso che il rilancio italiano, attraverso la politica, deve inevitabilmente partire dalla piccola, media e grande industria di trasformazione, non bisogna dimenticare che la nostra è stata ed è una nazione basata sulla trasformazione. Per ritornare alla domanda di apertura sui partiti, il tempo sarà testimone se questa decadenza avrà corso repentinamente o più lentamente, una cosa è certa, lo spettacolo al quale stiamo assistendo ai nostri giorni non è tra i più qualificanti, quindi ben vengano solleciti esterni alla maggioranza, e in taluni casi al “palazzo” perché ci sia sempre quel senso civile e democratico in cui vi sono dei contenuti e delle proposte. In una nazione in cui si chiedono sacrifici, quali sacrifici sono stati compiuti dalla maggioranza di Governo come esempio?
FONTE:http://www.opinione.it/politica/2020/06/01/alessandro-cicero_covid-19-paese-governo-crisi-economica-sociale-conte-lega-fratelli-d-italia-forza-italia-decreto-visione-politica/
SCIENZE TECNOLOGIE
Professor Zangrillo: “Da un punto di vista clinico il coronavirus non esiste più”
Duro attacco del primario del San Raffaele: “Sono tre mesi che tutti ci sciorinano una serie di numeri che hanno evidenza zero”, “hanno terrorizzato il Paese”
“Il virus dal punto di vista clinico non esiste più“. Lo dice il professore Alberto Zangrillo, direttore di Terapia Intensiva al San Raffaele di Milano, in relazione all’evoluzione del coronavirus. “Tale tesi è stata espressa da più esperti, come il professor Clementi e il professor Silvestri: i tamponi eseguiti negli ultimi dieci giorni hanno risultati con una carica virale infinitesimale rispetto ai tamponi eseguiti sui pazienti un mese fa”, spiega.
“Oggi è il 31 maggio e circa un mese fa sentivamo epidemiologi temere per la fine del mese e inizio giugno una nuova ondata e chissà quanti posti di terapia intensiva da occupare. In realtà il virus dal punto di vista clinico non esiste più – ha spiegato Zangrillo intervistato a “Mezz’ora in più”.
“Lo dico consapevole del dramma che hanno vissuto i pazienti che non ce l’hanno fatta, non si può continuare a portare l’attenzione in modo ridicolo come sta facendo la Grecia sulla base di un terreno di ridicolaggine, che è quello che abbiamo impostato a livello di comitato scientifico nazionale e non solo, dando la parola non ai clinici e non ai virologi veri. Il virus dal punto di vista clinico non esiste più. Ci metto la firma”, ha quindi aggiunto.
“Da tre mesi numeri con evidenza zero, hanno terrorizzato il Paese”Il primario del San Raffaele ha poi lanciato un duro attacco: “Sono tre mesi che tutti ci sciorinano una serie di numeri che hanno evidenza zero, che hanno valore zero”. “C’è un solo numero che vale” ed “è l’evidenza: abbiamo sentito un mese fa un professore di Boston, che si chiama Vespignani, condizionare le scelte del governo dicendo che andavano costruiti 151mila posti di terapia intensiva”.
“Non va bene, è una frenesia, perché terrorizzare il Paese è qualcosa di cui qualcuno si deve assumere le responsabilità perché i nostri pronto soccorso e i nostri reparti di terapia intensiva sono vuoti e perché la Mers e la Sars, le due precedenti epidemie, sono scomparse per sempre e quindi è auspicabile che capiti anche per la terza epidemia da coronavirus”.
Fontana in Procura a Bergamo contestato dai cittadini
STORIA
Le imprese statunitensi che finanziarono Hitler
Una delle più importanti pagine di storia del XX secolo non raccontate nei libri di scuola occidentali, è quella che tratta i rapporti tra i grandi gruppi industriali statunitensi e la Germania nazista. Essenzialmente sono due i motivi per cui si omette di affrontare questa parte fondamentale di storia. Primo motivo consiste nel fatto che furono la finanza e le grandi aziende statunitensi a consentire alla Germania di risollevarsi dalla crisi socio-economica in cui versava per via delle condizioni capestro inflitte alla Germania alla fine della Prima Guerra Mondiale mediante il Trattato di Versailles. Il secondo motivo consiste nel fatto che fu proprio il sostegno economico e finanziario statunitense a consentire ad Hitler di armarsi, e che addirittura quando scoppiò la Seconda Guerra Mondiale, le grandi imprese statunitensi continuarono a fare affari con la Germania nazista tanto da consentirgli di poter mantenere il suo apparato bellico. Ciò è confermato anche dalle parole del presidente degli Stati Uniti Franklin D. Roosevelt, il quale in un discorso effettuato a Washington nel novembre del 1941 affermò: “L’andamento complessivo della nostra grande produzione industriale, non deve essere ostacolato dal comportamento egoista, di un pericoloso gruppo di imprenditori che pensano soltanto a realizzare eccezionali profitti. Costoro continuano a curare i propri affari come se niente fosse“.
Nel 1941 in Germania prosperavano ancora 553 aziende statunitensi, tra le quali Standard Oli, General Motors, Ford, IBM, Kodak, Coca Cola. Queste società mantenevano intensi rapporti commerciali con i nazisti, mentre i dirigenti dei quattro grandi colossi statunitensi (Standard Oil, General Motors, Ford, IBM) e delle relative affiliate tedesche potevano essere considerati addirittura amici di Hitler. Senza di essi infatti, il Führer non avrebbe potuto fare la sua guerra.
Standard Oil
Negli anni Trenta, la Standard Oil era il più grande gigante petrolifero degli Stati Uniti. Il potente gruppo che diventerà la “Esso”, portò avanti la sua politica economica in tutto il mondo senza distinguere tra regimi democratici e dittature. Il suo obiettivo consisteva nel creare un monopolio. La compagnia petrolifera Standard Oil faceva parte dell’impero Rockefeller e la sua sede centrale era a New York.
Il presidente della Standard Oil era il manager Walter Clark Teagle.
Teagle contribuì in maniera determinante allo sviluppo industriale della Germania nazista, sia prima che durante la Seconda Guerra Mondiale, anche attraverso il suo coinvolgimento con la società chimica tedesca IG Farben. A guidare il gruppo chimico tedesco concorrente della Standard Oil, c’era un altro dirigente spregiudicato, Hermann Schmitz. IG Farben aveva messo a punto un procedimento per creare la benzina sintetica, in modo tale che in caso di carenza di petrolio, il titolare del brevetto sarebbe diventato il padrone del mercato mondiale. Ma nel 1938 la Germania era ancora costretta ad importare l’80% del proprio fabbisogno di greggio.
Hitler voleva la guerra, ma per motivi strategici necessitava a qualunque costo della benzina sintetica. Era cosciente che in caso di conflitto la Germania si sarebbe vista chiudere gli approvvigionamenti petroliferi. Era stata progettata la costruzione di un oleodotto, poi la creazione di una flotta di petroliere, ma tutte queste idee erano state bloccate sul nascere da Hitler che invece aveva un piano molto chiaro, la Germania doveva vincere unicamente con l’autarchia.
Dal discorso di Hermann Göring, tenuto a Berlino nell’agosto del 1936: “Sapevamo di non avere carburante ed abbiamo costruito le fabbriche che dovevano fornirci il carburante, sapevamo che non potevamo procurarci il caucciù ed abbiamo costruito le fabbriche di caucciù, gli americani pensavano di avere il monopolio, ma la scienza tedesca ha spezzato questi monopoli e oggi siamo in possesso di tutti i mezzi necessari per sconfiggere il nemico“. Chi era Hermann Göring? Occorre ricordare che con il titolo di Maresciallo del Reich, era il numero due del regime nazista. Inoltre era anche il capo della Luftwaffe (aviazione militare tedesca) e questa carica gli forniva già di per sé un importante ruolo economico, ma ad aumentare il suo peso contribuì ulteriormente la nomina avvenuta alla fine del 1936 a Responsabile del Piano Quadriennale Economico della Germania. Altresì Göring vantava una fitta rete internazionale di pubbliche relazioni con personaggi di alto spessore economico.
Ma il potente comandante della Luftwaffe sottovalutò un elemento fondamentale: il piombo tetraetile. Si tratta di un additivo per benzina, senza il quale i motori supercompressi dell’aviazione militare tedesca non potevano decollare, e Hitler aveva necessità di una Luftwaffe pronta ed efficiente per realizzare i suoi piani di conquista a Est. Fu così che Göring invitò i dirigenti della IG Farben a mettersi in contatto con gli amici statunitensi. La Standard Oil infatti, era la prima produttrice al mondo di piombo tetraetile. I tedeschi avevano bisogno del know-how di Standard Oil per la costosa produzione del nuovo carburante sintetico. L’accordo tra Standard Oil e IG Farben fu realizzato in breve tempo. Walter Clark Teagle ed Hermann Schmitz realizzarono in breve tempo la costruzione in Germania di due impianti per la produzione di piombo tetraetile.
Ma nel luglio del 1938, la produzione era ancora insufficiente. Un approvvigionamento rapido e diretto avrebbe potuto mettere al sicuro da pericolosi imprevisti. La filiale della Standard Oil a Londra consegnò immediatamente ai nazisti l’antidetonante per un valore di 20 milioni di dollari. In quel momento Hitler era in grado di procedere all’annessione dei Sudeti e preparare l’attacco alla Cecoslovacchia.
Poco prima dell’invasione della Polonia, la filiale britannica della Standard Oil consegnò altro piombo tetraetile per un valore di 15 milioni di dollari. Durante la Battaglia d’Inghilterra, i primi bombardamenti aerei su Londra furono possibili proprio grazie alla disponibilità e all’utilizzo di questo composto chimico.
Per la sua guerra Hitler aveva estrema necessità di petrolio, ma in Germania la produzione del combustibile sintetico copriva appena la metà del fabbisogno. Ancora una volta era necessario ricorrere all’aiuto degli amici industriali negli Stati Uniti.
Standard Oil possedeva quasi la metà dei diritti sui giacimenti petroliferi rumeni di Ploiești, la fonte di greggio più importante in quegli anni per la Germania. Nell’archivio militare di Friburgo sono raccolte lettere e documenti che testimoniano che i nazisti avevano urgente bisogno di bright stock, l’olio pesante. Solo gli Stati Uniti erano in grado di rifornirli di questo materiale determinante per la realizzazione della guerra di Hitler ed anche durante tutta la guerra le imprese statunitensi fornirono bright stock alla Germania in quantità sufficiente per soddisfare le proprie esigenze belliche. Il bright stock è un derivato molto pregiato del petrolio, che tra l’altro veniva usato per alimentare i motori dei carri armati.
Il Terzo Reich dunque continuava ad avere bisogno della benzina e del gasolio degli Stati Uniti. Le navi degli amici statunitensi di Hitler nascondevano il petrolio nel Mar dei Caraibi e di norma le petroliere che li trasportavano battevano bandiera panamense. Ma nell’Oceano Atlantico stazionavano le navi da guerra britanniche che cercavano mediante il blocco navale di tagliare i rifornimenti petroliferi destinati a Hitler.
Il comandante supremo della marina militare tedesca, l’ammiraglio Karl Dönitz, riuscì ad ottenere un finanziamento di 500 mila dollari. Il diesel era un carburante molto costoso e Hitler voleva dominare l’Atlantico con i suoi sommergibili. Le consegne del diesel avvenivano mediante l’aiuto di industriali statunitensi della Standard Oil e soprattutto della Texaco di Torkild Rieber, un manager di origine norvegese fidato amico di Hitler. Rieber aveva anche rapporti con i servizi segreti tedeschi e sul suo conto gli informatori del Reich stilarono giudizi lusinghieri, tanto che fu definito “un vero sostenitore della Germania e sincero ammiratore di Hitler“.
Passando per Tenerife e altri porti spagnoli, le petroliere consegnavano il petrolio destinato ai tedeschi che in questo modo eludevano il blocco navale degli inglesi. Le navi cisterne rifornivano i sommergibili tedeschi direttamente in mare, davanti alle coste spagnole.
Il 7 dicembre 1941, con un attacco aereo alla base militare di Pearl Harbor il Giappone allargò la guerra nel Pacifico e interruppe i collegamenti tra gli Stati Uniti e la Malaysia, il principale fornitore di caucciù dell’esercito statunitense. Ma le due società, Standard Oil e IG Farben si erano accordate per mantenere relazioni d’affari anche nel caso di un coinvolgimento degli Stati Uniti nel conflitto. I dirigenti di Standard Oil e IG Farben stipularono un patto segreto. La IG Farben voleva impedire la confisca dei suoi brevetti nei paesi nemici e per questo intendeva metterli nelle mani fidate del gruppo statunitense. I chimici tedeschi avevano già realizzato la buna, una gomma sintetica ottenuta da carbone e calcio. Oltre che a Hitler, questi brevetti facevano gola anche alla Standard Oil, che fiutava la possibilità di assicurarsi un mercato redditizio anche negli Stati Uniti. Nel contratto di cessione del brevetto della buna (gomma sintetica), la Standard Oil su disposizione del Ministero dell’Economia del Reich, si impegnava ad utilizzare il brevetto solo previa autorizzazione tedesca. Malgrado la crisi della gomma, Standard Oil tenne fede all’accordo stipulato con i tedeschi. Il procedimento per la produzione della buna non doveva finire nelle mani di industrie concorrenti come la Goodyear.
Il potente senatore Bernard Baruch, incaricato di un’indagine dal presidente Roosevelt, nel gennaio del 1942 si rivolse così durante un discorso alla nazione: “Siamo del parere che l’attuale crisi possa aggravarsi a tal punto che in assenza di provvedimenti immediati, il Paese rischia il tracollo militare e sociale“.
Dopo Pearl Harbor, la Standard Oil e le sue affiliate continuarono a fornire benzina i nazisti. Nel frattempo negli Stati Uniti, il governo fu costretto a prendere provvedimenti per razionare la benzina.
Molti cittadini statunitensi, fra cui anche alcuni membri del Congresso, diedero la colpa alle compagnie petrolifere che continuavano a rifornire i nazisti e non consegnavano i brevetti del caucciù. Il senatore Harry Truman, futuro Presidente degli Stati Uniti, costretto dall’opinione pubblica ordinò un’inchiesta del Senato sulla situazione della difesa nazionale. Lo affiancò Thurman Arnold, esperto finanziario del Ministero della Giustizia. Dall’inizio della guerra, Standard Oil e potenti dirigenti come Teagle, erano controllati da Arnold e dai suoi collaboratori. In una precedente indagine avevano già tentato di infliggere al gruppo una sanzione amministrativa di 50 mila dollari per aver avuto rapporti d’affari con il nemico. Ma visto il ruolo fondamentale ricoperto da Standard Oil per gli Stati Uniti in guerra, il colosso del petrolio e il suo potente manager erano riusciti ad ottenere una riduzione della multa a mille dollari. Durante l’audizione al Senato, Thurman Arnold accusò Standard Oil che si rifiutava di consegnare il brevetto di caucciù, di complotto reiterato a favore dei nazisti. Successivamente, in una conferenza stampa, Thurman Arnold usò persino la parola “tradimento“.
Il congresso deliberò che i brevetti della buna venissero liberalizzati in tutti gli Stati Uniti. Il potere di Walter Clark Teagle era finito. Il top manager si dimise dai vertici del gruppo.
General Motors
All’inizio degli anni Trenta, la Opel, affiliata del gruppo statunitense General Motors, intraprese la costruzione di automezzi militari pesanti.
Nella primavera del 1935 a Brandeburgo, con la collaborazione della Wehrmacht, furono attrezzate nuove officine per mezzi pesanti. I manager della Opel, nel cui consiglio di amministrazione sedevano anche gli statunitensi, fiutarono subito il colossale affare rappresentato dalle commesse delle forze armate.
Realizzato secondo i nuovi sistemi di produzione statunitensi, l’impianto era il più moderno d’Europa e produceva ogni giorno 120 autocarri “Opel Blitz”, che costituivano la spina dorsale della Wehrmacht.
Senza l’Opel Blitz, Hitler non sarebbe riuscito ad entrare trionfalmente a Vienna, infatti durante le manovre militari per l’annessione dell’Austria, numerosi mezzi pesanti di altre marche si guastarono lungo la strada. Hitler dimostrò subito la sua riconoscenza: visitò personalmente lo stabilimento di Brandeburgo e ordinò altri duemila Opel Blitz.
Dall’avvento del nazismo fino allo scoppio della guerra, nella General Motors fu fondamentale il ruolo di un brillante manager statunitense. Il suo nome era James D. Mooney. In qualità di vicepresidente della General Motors in Germania, per i meriti acquisiti nella trasformazione della Opel in una delle maggiori aziende del settore militare, ricevette da Hitler l’Ordine dell’Aquila, la massima onorificenza conferita dal Partito Nazionalsocialista ad uno straniero.
Ogni volta che fu impiegato, l’Opel Blitz superò brillantemente le prove più ardue. L’avanzata ad Oriente, l’annessione dei Sudeti e l’aggressione alla Cecoslovacchia. Poi seguirono i successi della guerra lampo ad Ovest. Nel 1940, in poche settimane Olanda, Belgio e Francia furono travolte. Questi camion risultarono fondamentali anche per l’invasione dell’Unione Sovietica. Senza l’Opel Blitz, l’esercito tedesco non avrebbe mai potuto trasportare i suoi soldati per migliaia di chilometri all’interno dell’Unione Sovietica.
Negli stabilimenti Opel, la produzione di vetture utilitarie fu quasi del tutto abbandonata. Gli investimenti erano diminuiti e il personale si era assottigliato per la chiamata alle armi. Le officine interruppero questo tipo di produzione e la Luftwaffe pensò ad un nuovo utilizzo degli impianti di produzione di vetture utilitarie. Fu così che in quegli stabilimenti la Opel iniziò a produrre parti di fusoliera e motori per gli Junker-88, i più potenti bombardieri di Hitler. L’accordo firmato tra la Luftwaffe e la Opel fu possibile grazie al ruolo fondamentale svolto dal vicepresidente James D. Mooney, il quale viveva a Berlino, intratteneva rapporti epistolari con i vertici del partito nazista e nell’autunno del 1939 ebbe modo di incontrare più volte Hermann Göring, il capo della Luftwaffe, l’aviazione militare nazista.
Nei colloqui con Göring, Mooney espresse una forte solidarietà con i politici nazisti. Anche lui riteneva che dopo la Prima Guerra Mondiale, la Germania fosse stata trattata in modo troppo duro da Francia e Inghilterra. Göring incoraggiò Mooney a svolgere un’opera di mediazione. Mooney si rivolse al presidente statunitense Roosevelt, il quale si dichiarò disponibile a fare da mediatore. Roosevelt in persona augurò un buon successo alla missione di Mooney.
E qui risulta del tutto evidente la russofobia statunitense. Roosevelt con un embargo sul commercio avrebbe potuto impedire questo fondamentale sostegno alla mobilità dell’esercito nazista, ma non lo fece. Utilizzò invece gli industriali e i banchieri statunitensi per sviluppare e consolidare i rapporti diplomatici tra gli Stati Uniti America e la Germania nazista, in modo da potenziare quanto più possibile la macchina bellica tedesca al fine di renderla in grado di aggredire e invadere prima o poi l’Unione Sovietica.
Grazie alle continue adulazioni, nel febbraio del 1940 Mooney ebbe modo di incontrare Hitler nella nuova sede della Cancelleria. In un diario rimasto per decenni inedito per volere della General Motors, Mooney descrisse il colloquio estremamente amichevole avuto con il Führer. In una lettera indirizzata a Roosevelt, Mooney descrisse Hitler come una persona cordiale e amichevole. In seguito, Messersmith il Sottosegretario del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, definì Mooney: “un fascista“.
Ma questo episodio non cambiò i rapporti tra la General Motors e la Opel, che continuò a costruire veicoli militari per la Germania nazista. Per consentirgli di invadere l’Unione Sovietica, la Opel nei primi anni di guerra fornì all’esercito tedesco più di centomila mezzi militari.
Il 15 maggio 1941 il generale nazista Adolf von Schell, responsabile della fornitura di automezzi militari, conferì alla Opel un attestato nel quale dichiarava che senza l’aiuto dell’azienda non sarebbe stato possibile continua la guerra. Sempre nel 1941 la General Motors rifiutò una proposta d’acquisto per la Opel, preferì non vendere la casa automobilistica e rimanere in Germania. In una lettera al commissario del Reich per i patrimoni del nemico, la General Motors fece sapere di essersi ormai identificata con le sorti della Germania.
Al contempo, la General Motors partecipò al riarmo statunitense con molto zelo. L’organizzazione fu affidata allo stesso James D. Mooney. Il presidente della General Motors Alfred Sloan dichiarò: “Un’impresa multinazionale presente in tutto il mondo, è tenuta a gestire le proprie attività in base a rigidi criteri economici, incurante delle idee politiche del paese in cui opera. Non siamo un ente assistenziale, noi realizziamo profitti per i nostri azionisti“.
Il 6 agosto 1944, lo stabilimento di Brandeburgo fu quasi completamente distrutto dai bombardieri statunitensi. Anni dopo però, la General Motors ottenne dal fisco degli Stati Uniti un nuovo indennizzo di ben 32 milioni di dollari.
Ford
Nel 1939 nella cittadina di Riverdale, nel New Jersey, membri della Lega Tedesco-Americana (German-American Bund) marciarono durante uno dei loro campi estivi.
Il leader del movimento, del movimento Fritz Julius Kuhn, un chimico delle industrie Ford, era stato già membro del partito nazista in Germania. I 30 mila membri del German-American Bund promuovevano politiche razziste e antisemite filo hitleriane. Avevano simpatizzanti altolocati, come il datore di lavoro Fritz Kuhn.
Infatti, nel 1921 era stata pubblicata l’edizione tedesca del libro scritto da Henry Ford “L’ebreo internazionale. Un problema mondiale“. Fin dall’inizio, tra il leggendario costruttore di automobili Henry Ford e Adolf Hitler, c’era un elemento di forte comunanza spirituale: l’antisemitismo. Il libro di Ford rafforzò in Hitler l’odio antiebraico e lo indusse ad elementi di riflessione per la stesura del suo “Mein Kampf“.
Inoltre alcuni industriali statunitensi e membri della finanza, vedevano in Hitler e nelle dittature fasciste europee una possibile soluzione ai problemi che incontravano con i movimenti dei lavoratori e con i sindacati. Agli occhi di Henry Ford i sindacati erano opera del diavolo. L’azione brutale di Hitler contro i sindacati piacque a Ford che presidiava le sue fabbriche con milizie armate. Prima che Hitler salisse al potere, Ford lo sostenne con ingenti finanziamenti, tanto che un’immagine del benefattore statunitense era appesa nella sede del partito nazista a Monaco di Baviera.
Ogni giorno tantissimi tedeschi scrivevano lettere di ammirazione a Ford, il fordismo divenne l’ideologia degli industriali tedeschi. Per costoro ogni azione doveva essere realizzata proprio come l’aveva già realizzata Ford.
Nel 1930 Ford si recò in Germania, nella città di Colonia dove partecipò alla posa della prima pietra per la costruzione di un proprio stabilimento industriale. All’inizio gli affari non andarono bene, le Ford erano care e dovevano fare i conti con l’avversione di molti tedeschi verso i prodotti stranieri. Dal discorso di Hitler tenuto a Monaco il 16 febbraio 1935: “L’acquirente medio che oggi acquista un’auto straniera, non può dire di aver fatto questa scelta a causa della qualità superiore del prodotto, ormai le nostre autovetture tedesche non hanno più nulla da invidiare a quelle estere“.
All’inizio degli anni Trenta la produzione di autovetture negli stabilimenti Ford aveva subito una netta flessione. Edsel Ford, il figlio di Henry Ford assunse la direzione degli stabilimenti di Colonia e Detroit. Tramite informazioni riservate, Edsel Ford apprese che in Germania era in atto una battaglia economica in cui le commesse statali assumevano sempre maggiore importanza. Per Henry Ford non ci furono problemi, il motore otto cilindri Ford poteva essere venduto come motore per i fuoristrada militari. Fu così che la conversione dello stabilimento Ford di Colonia fu immediata.
Henry Ford impose che gli altri produttori d’auto stranieri non ricevessero più caucciù per pneumatici, né valuta per importarlo. Furono obbligati a procurarsi la gomma attraverso scambi merce e a destinare il 25% alla produzione bellica. Il dittatore tedesco si mostrò riconoscente verso il potente industriale statunitense. Finalmente, i veicoli prodotti a Colonia poterono fregiarsi del marchio: “prodotto tedesco”.
Gli affari con il regime nazista si intensificarono. Nel 1938 Ford e Opel furono introdotte nel programma di pianificazione della Wehrmacht. L’esercito tedesco in breve tempo commissionò alla Ford un ordine 100 mila autocarri, inclusi quelli pesanti a tre assi e i veicoli con trasmissione a catena. Ma i nazisti avevano fretta, stavano per effettuare l’annessione dei Sudeti e intendevano ricevere immediatamente dalla Ford mille automezzi pesanti, ma lo stabilimento di Colonia non era in grado di produrli in tempi così brevi.
La filiale statunitense offrì subito una soluzione. Furono spediti il giorno stesso da Detroit motori, telai e le cabine degli autoarticolati e appena giunti a Colonia furono assemblati di notte in tutta segretezza. Fu così che in brevissimo tempo la Wehrmacht ritirò gli autocarri richiesti e procedette immediatamente all’invasione della Cecoslovacchia. Quando ci si scandalizza per l’aggressività di Hitler, per il suo cinismo, per aver causato la guerra in Europa, si dimentica sempre che senza il sostegno delle imprese statunitensi non avrebbe potuto fare nulla. Nel caso specifico, si è davvero così ingenui da credere che alla Ford non sapessero a cosa servissero quei mille camion, da consegnare immediatamente e tutti insieme? Quanta ipocrisia!
Alla fine del 1938, Hitler dal canto suo insignì Ford della più alta onorificenza militare nazista concessa a uno straniero: l’Ordine dell’Aquila. Ford si fece appuntare con orgoglio l’onorificenza sulla giacca dal viceconsole tedesco a Detroit.
Ma anche Henry Ford si dimostrò riconoscente per i buoni affari conclusi. Così, il 20 aprile del 1939, in occasione del cinquantesimo compleanno di Hitler, la Ford versò 35 mila reichsmark sul conto personale del Führer.
Nei più nei primi anni di guerra aumentò in modo massiccio la produzione di mezzi pesanti ed Henry Ford se ne rallegrò. Poi, quando venne a sapere che un suo stabilimento in Gran Bretagna avrebbe dovuto costruire seimila motori per la Royal Air Force (l’aviazione militare britannica), Henry Ford si oppose. Scrisse al Daily Mail di Londra che poteva accettare solo commesse militari per la difesa degli Stati Uniti. Al contrario, l’industriale statunitense non aveva nulla da obiettare sul fatto che nella Francia occupata dai nazisti, gli impianti Ford lavorassero a pieno regime per la Wehrmacht, producendo mille mezzi pesanti al mese.
Dal 1942 ormai scarseggiava la manodopera nelle industrie tedesche. Lo sforzo militare, soprattutto quello sostenuto contro l’Unione Sovietica, impose il reclutamento di tutti gli uomini abili. Così, nello stabilimento di Colonia, la Ford poteva garantire i rifornimenti alla Wehrmacht solo ricorrendo al lavoro forzato e alla schiavitù. I prigionieri furono alloggiati in un apposito campo di baracche adiacente allo stabilimento industriale. Negli ultimi anni del conflitto, Ford affittò anche migliaia di detenuti nei lager, soprattutto sovietici. Per ogni detenuto pagava alle SS 4 marchi al giorno. Le condizioni di vita e di lavoro erano disumane.
“Curioso”, si fa per dire, il fatto che nel 1942 la città di Colonia fu bombardata a tappeto dagli angloamericani e nonostante la quasi completa distruzione della città, lo stabilimento industriale Ford non fu mai volutamente colpito. Così, nel corso dell’intera Seconda Guerra Mondiale, lo stabilimento Ford di Colonia produsse indisturbato per la Wehrmacht 78 mila mezzi pesanti e 14 mila mezzi con trasmissione a catena.
Solo nel 1944, alcune bombe caddero nei pressi dello stabilimento della Ford a Colonia, causando lievi danni. Di contro, con faccia tosta, nel 1965 la Ford chiese ad una commissione del governo statunitense circa 7 milioni di dollari di risarcimento per i danni di guerra. La commissione quantificò questo risarcimento in mezzo milione di dollari.
International Business Machines (IBM)
L’ascesa al potere di Hitler coincise con un vero e proprio boom della filiale tedesca della IBM. I calcolatori erano usati in quasi tutte le grandi industrie, ma da quel momento fra i grandi committenti figurò anche il governo tedesco.
Nel 1935 la Dehomag, l’affiliata della IBM in Germania, costruì un uovo grande stabilimento alla periferia di Berlino. Mediante schede perforate, le macchine prodotte dalla Dehomag in collaborazione con la IBM, lavoravano rapidamente dati per statistiche, registrazioni e calcoli, di cui producevano degli stampati.
Anche il fondatore e presidente della IBM Thomas Watson, rimase impressionato dai successi della Dehomag e per questi motivi si recava spesso in Germania. Thomas Watson era riconosciuto come un estimatore e ammiratore di Hitler, dimostrazione stava nel fatto che sia moralmente che materialmente e finanziariamente lo aveva sempre sostenuto, ancor prima che salisse al potere.
Nell’estate del 1937 la Camera di Commercio Internazionale organizzò a Berlino il suo congresso mondiale. Watson riuscì a farsi eleggere presidente. Un articolo del New York Times illustrò la cerimonia al Teatro Kroll (Krolloper): Watson era tra gli stranieri che presenti all’ingresso del teatro alzarono la mano destra in segno di saluto verso Adolf Hitler. Il giorno dopo fu addirittura ricevuto dal Führer. Thomas Watson dichiarò alla stampa: “Hitler con i suoi progetti ha imboccato la strada giusta. Tutto andrà nel migliore dei modi!“
Anche Watson fu insignito dell’Ordine dell’Aquila. A consegnargli l’onorificenza fu Hjalmar Schacht, all’epoca ministro delle finanze del Terzo Reich.
La Dehomag e la IBM divennero uno strumento indispensabile per la realizzazione del piano di sterminio degli ebrei. Infatti i loro calcolatori gestirono il grande censimento del 1939 mediante il quale le SS intendevano scoprire quanti ebrei vivessero in Germania, nella regione dei Sudeti e in Austria. In una seconda scheda, la cosiddetta carta supplementare veniva chiesto il nome, l’indirizzo, la razza e la discendenza anche di genitori e dei nonni. In questo modo, l’ufficio per la razza delle SS intendeva registrare tutti gli ebrei purosangue, mezzosangue e quarto di sangue.
Il 1° settembre 1939 l’aggressione alla Polonia segnò l’inizio della “Politica di annientamento ad Est”. Cracovia divenne la capitale della Polonia occupata, trasformata in governatorato. Nella Rocca di Cracovia si insediò Karl Hermann Frank, il brutale governatore di Hitler. Frank istituì a Cracovia un grande ufficio statistico nel quale giunsero per lavorare molti collaboratori di fiducia di Thomas Watson. Molti altri stretti collaboratori di Watson giunsero in altre città polacche, tanto che la rappresentanza della IBM a Varsavia fu ribattezzata “Watson Business Machines“.
In seguito, per attuare lo sterminio degli ebrei, tutte le cariche degli uffici anagrafici e statistici in Polonia, in Austria e in Francia, furono ricoperte da personale della IBM.
Nell’autunno del 1943 la carenza di manodopera rallentava la produzione bellica, così anche i detenuti dei campi di concentramento dovevano essere schedati in base alle competenze professionali e mandati a lavorare in modo forzato in tutto il territorio del Reich. In tutti i lager nazisti furono istituiti dei centri di rilevamento.
Tutti i dati elaborati dalla IBM venivano inviati alla sede delle SS a Berlino. Si stima che i prigionieri dei campi di concentramento schedati dalla IBM e ritenuti abili al lavoro forzato furono oltre un milione. Gran parte di questo archivio è stato immediatamente distrutto pochi giorni prima della caduta di Berlino, ma circa 140 mila schede della IBM sono ancora conservate presso l’Archivio Militare di Berlino.
Nel 1940, il giovane socio tedesco Willy Heidinger, il quale insieme ad altri due azionisti tedeschi deteneva il 15% della Dehomag, cercò di ridimensionare il ruolo degli statunitensi. Inoltre, il potere esclusivo della Dehomag all’interno del sistema tedesco cominciò a destare preoccupazione e sospetto. Il comandante di brigata delle SS Edmund Wiesmaier, da tempo consigliere di Hitler, si ispirava al vecchio detto “tutto ciò che giova al popolo tedesco è giusto!” e cominciò a parlare di nazionalizzazione.
Ma Thomas Watson non intendeva arrendersi così facilmente. Nel 1940 inviò a Berlino un collaboratore fidato e risoluto, il quale doveva trattare non solo con Heidinger ma anche con il comandante delle SS. Watson che si trovava a New York veniva tenuto informato tramite messaggi cifrati trasmessi dall’ambasciata degli Stati Uniti in Germania. Nel corso dei negoziati Wiesmaier risultò più conciliante. I nazisti infatti avevano bisogno dell’IBM per gestire la complessa macchina bellica, ma se la IBM voleva evitare la nazionalizzazione avrebbe dovuto accettare la riduzione della partecipazione azionaria. Tramite il suo emissario, Watson rifiutò anche questa offerta. Così, per l’intero periodo della guerra la IBM restò proprietaria della Dehomag.
Kodak
Anche l’azienda statunitense Kodak fu una stretta collaboratrice del regime nazista e giocò un ruolo importante durante la Seconda Guerra Mondiale.
Infatti, i nazisti continuarono non solo ad importare dalla Kodak bobine e materiali chimici per la realizzazione di filmati, ma le filiali della Kodak presenti in Germania fabbricavano inneschi, detonatori e altro materiale militare. Ciò ha davvero dell’incomprensibile in quanto il governo statunitense non attuò mai un embargo nei confronti della Kodak.
Inoltre la Kodak, nei suoi stabilimenti presenti in Germania, su richiesta del governo tedesco dapprima licenziò tutti i dipendenti ebrei e poi in seguito utilizzò più di 250 prigionieri dei campi di concentramento nazisti, facendoli lavorare in stato di schiavitù.
Coca Cola
La Coca Cola fu una delle prime aziende a collaborare con il regime nazista. Durante le Olimpiadi di Berlino nel 1936 infatti fu uno degli sponsor ufficiali.
La Fanta, la famosa bibita analcolica all’arancia, fu ideata in Germania nel 1940. La bibita nacque come sostitutivo della bevanda Coca Cola che dopo l’embargo della Seconda Guerra Mondiale non venne più importata in Germania. L’ideatore della bibita all’arancia fu Max Keith che, prima di allora, dirigeva le diverse fabbriche della Coca Cola Company sul suolo tedesco.
Il nome “Fanta” deriva dalla parola tedesca “Fantasieden” (in italiano “immaginazione”) e altro non era che un composto di fibra di mela da sidro e siero di latte.
Quindi all’inizio della sua storia, per la Fanta niente agrumi. Infatti ad inizio anni ’40, nella Germania nazista di agrumi non ve ne erano abbastanza.
Le banche statunitensi
Tutto iniziò alla vigilia del primo conflitto mondiale, quando la Banca Morgan spinse il neutralista Woodrow Wilson a spedire le truppe in Europa. La Morgan (che in seguito diventerà la JP Morgan) era la più potente banca del tempo e aveva raccolto oltre il 75% dei finanziamenti per le forze anglo-americane. Voglia di guerra, non importa su che fronte: la National City Bank, che pure lavorava a fianco della Morgan nel rifornire inglesi e francesi, non si faceva problemi a finanziare anche i tedeschi, come anche fece la Chase Manhattan Bank.
La banca Morgan, inoltre, aveva acquisito il controllo dei 25 principali quotidiani statunitensi. Obiettivo: propagandare l’opinione pubblica statunitense pilotandola in favore dell’entrata degli Stati Uniti nella Prima Guerra Mondiale.
Il legame tra il comparto militare-industriale e gli oligarchi di Wall Street è una connessione che risale agli inizi del Novecento. Le banche hanno sempre tratto profitto dalla guerra, perché il debito creato dalle banche si traduce in un enorme bottino di guerra per la grande finanza. E anche perché le guerre sono state utilizzate per aprire i paesi esteri agli interessi corporativi e bancari degli Stati Uniti. Ammise William Jennings Bryan, segretario di Stato durante il primo conflitto mondiale: “C’erano grandi interessi bancari legati alla Prima Guerra Mondiale poiché grandi erano le opportunità di profitto“. Il problema: tutelare gli interessi commerciali degli statunitensi, che avevano fortemente investito negli alleati europei. Almeno due miliardi e mezzo di dollari dell’epoca, prestati a francesi e inglesi a partire dal 1915. “I banchieri ritennero che, se la Germania avesse vinto la guerra, i loro prestiti agli alleati europei non sarebbero stati rimborsati“.
Il più grande banchiere statunitense dell’epoca, John Pierpont Morgan, fece di tutto per trascinare gli Stati Uniti in guerra a fianco dell’Inghilterra e della Francia, finendo per convincere il presidente Wilson. Obiettivo: proteggere gli investimenti delle banche statunitensi in Europa. Non a caso il marine più decorato nella storia, Smedley Butler, dichiarò: “Io ho combattuto essenzialmente per le banche americane“.
Nel periodo antecedente la Seconda Guerra Mondiale fu anche creato un piano per gettare le basi per gli investimenti statunitensi in Germania. La strategia, ideata da Hjalmar Schacht della Dresdner Bank, si basava sulle istruzioni del capo della Banca d’Inghilterra e dell’amministratore della banca Morgan; il politico statunitense repubblicano John Foster Dulles, divenuto poi il segretario di Stato nell’amministrazione Eisenhower, ordinò di redigere questa politica. Il piano impiegò un anno per diventare effettivo, ma alla fine del 1923 Schacht divenne il Presidente di Reichsbank. Questo è il modo in cui il sistema finanziario anglo-americano è stato fuso con l’equivalente tedesco. Nell’estate del 1924 il progetto fu reso noto al pubblico come “Piano Dawes”, chiamato cosi dal nome dell’amministratore della banca Morgan. Il piano prevedeva di ridurre della metà la somme dei risarcimenti tedeschi e risolse inoltre il problema di accesso al capitale per la Germania. La priorità era quella di stabilizzare la moneta per poi spianare la strada al processo di investimenti in Germania. Il piano stanziò 200 milioni di dollari di credito per la Germania e la metà di questa somma proveniva da Chase Bank e Morgan. L’importo può sembrare irrilevante, ma allora, nel 1924, 200 milioni di dollari erano pari al 2% dei ricavi complessivi del governo degli Stati Uniti.
Il rimborso del debito tedesco, francese e britannico avvenne attraverso uno schema ben preciso: il ciclo di Weimar. L’oro utilizzato dalla Germania per pagare la somma di risarcimento di guerra fu spedito negli Stati Uniti e “scomparve” subito dopo. Il metallo tornò poi in Germania, sotto forma di un “piano di aiuti” e fu inviato in Francia e in Gran Bretagna come una rata della somma dovuta. Questi paesi poi utilizzarono questo denaro per pagare i propri debiti verso gli Stati Uniti. Ciò rese la Germania dipendente dal debito. Qualsiasi possibilità di tagliare flussi di capitale avrebbe sicuramente gettato il Paese in bancarotta. Formalmente, il credito era stato concesso per garantire il pagamento. In realtà, esso portò alla ricostruzione dell’industria militare tedesca. Il vero pagamento fu realizzato con azioni di società tedesche che erano state trasferite in mani statunitensi.
Tra il 1924 e il 1929 il valore complessivo degli investimenti esteri tedeschi valeva 15 miliardi di dollari. Nel 1929 l’industria tedesca divenne la seconda più grande al mondo, ma il tutto sotto il controllo del settore finanziario degli Stati Uniti.
La cooperazione statunitense-tedesca era così stretta che persino Deutsche Bank, Dresdner Bank e la Donat Bank erano controllate dagli Stati Uniti.
Dal 1923 ad Adolf Hitler furono concesse considerevoli somme di denaro provenienti dalla Svezia e dalla Svizzera. Nel primo paese, la famiglia Wallenberg era la principale fonte di finanziamento.
Dopo alcuni anni Hitler era pronto a svolgere il suo ruolo, ma a causa dell’economia sana, il suo partito non vinse la gara politica. Questo fu il motivo per cui da Wall Street fu assunta la decisione di avviare la crisi economica. La FED e la banca Morgan sospesero il credito per la Germania e spinsero l’Europa centrale alla recessione. La Gran Bretagna abbandonò il gold standard e fu travolta dal caos nel sistema finanziario internazionale. All’inizio del 1932 avvenne un incontro in cui fu deciso il piano di finanziamento “NSDAP”. Un anno dopo il piano di Hitler fu approvato e nel 1933 Adolf Hitler divenne cancelliere tedesco. Egli non aveva bisogno di un colpo di stato ma di una situazione economica di crisi, durante la quale milioni di tedeschi riposero la propria fiducia nel Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori (NSDAP).
I Tedeschi che desideravano l’uscita dalla crisi economica diedero la propria fiducia ad Hitler, perché questo disse loro esattamente quello che volevano sentirsi dire.
Ma il coinvolgimento delle banche anglo-americane in Europa continuò, e dopo la Prima Guerra Mondiale molte grandi banche anglo-americane finanziarono i nazisti. Nel 1998, la BBC riportò la seguente notizia: “La Barclays Bank accettò di pagare 3,6 milioni di dollari a favore degli ebrei i cui beni erano stati sequestrati dai rami francesi della banca britannica durante la Seconda Guerra Mondiale“.
Anche la Chase Manhattan Bank ammise di aver sequestrato, sempre durante il secondo conflitto mondiale, circa cento conti intestati ad ebrei nella sua filiale di Parigi. Come scrisse il “New York Daily News”: “A quanto pare i rapporti tra la Chase e i nazisti erano piuttosto amichevoli, a tal punto che Carlos Niedermann, capo della filiale Chase Bank di Parigi, scrisse al suo supervisore di Manhattan che la banca godeva «di molta stima presso i funzionari tedeschi» e vantava «una rapida crescita dei depositi»“. Occorre notare che la lettera di Niedermann fu scritta addirittura nel maggio del 1942, ovvero cinque mesi dopo che i giapponesi avevano bombardato Pearl Harbor e che gli Stati Uniti erano entrati in guerra contro la Germania.
Dopo la guerra, una commissione governativa francese, indagando sul sequestro dei conti bancari ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale riferì che erano coinvolte cinque banche statunitensi: Chase Bank, Morgan, Guaranty Trust Co. di New York, la Banca della città di New York e l’American Express. Secondo il quotidiano britannico “The Guardian”, il senatore Prescott Bush (padre di George Bush e nonno di George W. Bush), “era amministratore e socio in società che trassero largo profitto dal loro coinvolgimento nel finanziare la Germania nazista“. La società di “nonno Bush”, aggiunge il “The Guardian” sulla base di fonti d’archivio statunitensi, era “direttamente coinvolta con gli architetti finanziari del nazismo“. E i suoi rapporti di affari continuarono fino a che il patrimonio della società fu sequestrato nel 1942 nell’ambito del “Trading with Enemy Act”, la legge statunitense che sequestrava i beni di chi aveva fatto affari col nemico in tempo di guerra, ma che come abbiamo notato nel corso di questo articolo, in molti casi non fu applicata.
Attraverso la BBH (Brown Brothers Harriman), Prescott Bush agì come supporto statunitense per l’industriale tedesco Fritz Thyssen, che contribuì a finanziare Hitler nel 1930 prima di cadere con lui alla fine del decennio. Fritz Thyssen scrisse anche un libro dal titolo “I paid Hitler” (“Io finanziai Hitler”) nel quale descrisse come elargì 25 mila dollari (allora una cifra molto ingente) per finanziare il neo costituito Partito Nazionalsocialista Tedesco e riuscì a diventare il primo e più importante finanziatore nella presa del potere del Führer.
Il “The Guardian” sostiene di poter provare che lo stesso Bush sia stato il direttore della UBC, la Union Banking Corporation di New York, che rappresentava gli interessi di Thyssen negli Stati Uniti, e continuò a lavorare per la banca anche dopo che gli Stati Uniti entrerono in guerra. L’UBC (Union Banking Corporation) era stata fondata da Harriman e dal suocero di Bush per mettere una banca statunitense al servizio dei Thyssen, la più potente famiglia di industriali della Germania operante principalmente nel mondo delle acciaierie. Alla fine del 1930, la Brown Brothers Harriman, che si considerava la più grande banca privata d’investimento del mondo, e la UBC, avevano acquisito e trasferito milioni di dollari in oro, petrolio, acciaio, carbone e buoni del tesoro statunitensi alla Germania, alimentando e finanziando l’ascesa di Hitler fino alla guerra. L’economista statunitense Victor Thorn ha dichiarato: “La UBC divenne la via segreta per la protezione del capitale nazista che usciva dalla Germania verso gli Stati Uniti, passando per i Paesi Bassi. Quando i nazisti avevano bisogno di rinnovare le loro provviste, la Brown Brothers Harriman rimandava i loro fondi direttamente in Germania“.
Tra il 1931 e il 1933 la UBC acquisì più di 8 milioni di dollari in oro, di cui 3 milioni inviati all’estero. Anni dopo, la banca fu colta in flagrante a gestire una società di comodo statunitense per la famiglia Thyssen, anche dopo che gli Stati Uniti erano entrati in guerra, e si scoprì che era questa la banca che aveva finanziato in parte l’ascesa di Hitler al potere.
Secondo la BBC, Prescott Bush e la banca Morgan, unitamente ad altri investitori importanti, avrebbero anche finanziato un colpo di Stato contro il presidente Roosevelt, nel tentativo di “attuare un regime fascista negli Stati Uniti“.
Ecco quindi, che quando si parla dei Bush, occorre sempre ricordare che una parte importante delle fondamenta finanziarie della loro famiglia fu costituita grazie all’appoggio e all’aiuto forniti ad Adolfo Hitler. Quindi i presidenti degli Stati Uniti appartenenti alla famiglia Bush giunsero al vertice della gerarchia politica statunitense grazie al fatto che il nonno e il padre, e la famiglia in generale, aiutarono finanziariamente i nazisti.
Purtroppo nelle scuole occidentali non insegnano che durante la Seconda Guerra Mondiale, sia lo schieramento anglo-americano che quello nazista furono entrambi finanziati dalla stessa fonte.
Luca D’Agostini
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Fonti
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John Hamer, The Falsification of History: Our Distorted Reality, Rossendale Books, Bacup 2012
DOCUMENTI PER LO STUDIO DELLA “MIT BRENNENDER SORGE”: L’ALLOCUZIONE NATALIZIA DEL 1937 DI PIO XI
Per introdurre adeguatamente questo obliato documento riprendo la descrizione della situazione in Germania dopo l’Enciclica dalle pagine del più volte citato libro di Mons. Maccarrone[1] (sottolineo in grassetto i passaggi a mio avviso più significativi):
“La propaganda nazista, per attenuare l’impressione suscitata dal documento papale, accentuò la campagna di calunnie del clero, sfruttando gli infami processi di immoralità. Un memoriale inviato il 27 Maggio 1937 dal Vescovo di Berlino, Mons. Preysing, al Ministro della Propaganda, testimonia in modo impressionante questa odiosissima manovra politica. Il memoriale, infatti, individuava gli scopi prossimi dell’insistenza sui processi citando passi significativi dei più diffusi giornali tedeschi, nei quali le ampie relazioni processuali servivano per rinnovare gli attacchi all’Enciclica e per seminare nei genitori la diffidenza contro i sacerdoti ed i religiosi che tenevano le scuole confessionali…I mesi dopo l’Enciclica videro anche l’accentuarsi di misure contro le essenziali libertà della Chiesa. Uno dei fatti più salienti fu la perquisizione poliziesca di alcune Curie vescovili…Non mancarono le proteste più vive per tali fatti, compiuti in aperto contrasto con gli art. 4 e 9 del Concordato del Reich…Dopo queste proteste della Santa Sede, diminuirono le perquisizioni alle Curie (unico caso fu quello di Frauenburg nel Novembre), però la libertà di ministero dei Vescovi e dei sacerdoti fu colpita con altri provvedimenti. Uno di questi, inteso ad allontanare sempre più il popolo dalla Chiesa, fu la limitazione nei giornali tedeschi, di notizie religiose. In tal senso furono date l’8 Luglio 1937 alcune istruzioni alla stampa del Baden, ordinando di pubblicare solo l’annunzio di manifestazioni « che hanno carattere di ufficio divino », escludendo ogni altro avviso, come Comunioni mensili, riunioni dell’Apostolato della Preghiera e dei Terzi Ordini, prove di canto del coro parrocchiale ecc. Simili restrizioni imponeva la circolare diramata l’11 Febbraio 1938 dall’associazione germanica degli editori, nella quale erano enumerati gli annunzi religiosi e di associazioni religiose che non dovevano pubblicarsi nei giornali quotidiani. Un’altra forma di costrizione della libertà di ministero fu l’applicazione, più frequente del cosiddetto « Kanzelparagraph » (paragrafo del pulpito), già celebre ai tempi del « Kulturkampf »…Il decreto doveva servire ad un’azione repressiva più forte contro i sacerdoti cattolici che difendevano dal pulpito i principii cristiani. Infatti, si moltiplicarono gli ammonimenti, i divieti, ed anche i procedimenti giudiziari contro sacerdoti secolari e regolari che nell’esercizio del loro dovere pastorale proclamavano e difendevano determinati punti della dottrina cattolica, come il valore del Vecchio testamento, la condanna della sterilizzazione, la necessità della scuola confessionale; furono date persino proibizioni assolute di predicare…Accanto al crescendo di queste misure contro la libertà della Chiesa, dopo la pubblicazione dell’Enciclica Mit brenneneder Sorge andò aumentando l’azione dei movimenti politici e culturali che tentavano di distruggere nel popolo tedesco la religione cristiana, ed erigere al suo posto il Nazionalsocialismo come unica « Weltanschauung »…Purtroppo – come faceva rilevare un rapporto del Nunzio alla Santa Sede, in data 17 Luglio 1937 – il grosso della popolazione non rilevava i veri e gravi torti che il Governo tedesco andava perpetrando verso i cattolici, in ispecie riguardo all’educazione religiosa, e, eccettuato il popolo cattolico pio ed alcuni protestanti credenti, il resto rimaneva indifferente, per non dire favorevole al Governo, abbacinato dall’astuto sistema di propaganda partigiana ed anche da certi vantaggi materiali, come il felice successo ottenuto dal Governo contro la disoccupazione, la notevole ripresa di affari che si poteva misurare dal gettito delle imposte, e la battaglia demografica in continuo sviluppo…Questo appariscente benessere e progresso materiale, favoriva assai la propaganda anticristiana. Se ne ebbe una nuova manifestazione al Congresso di Norimberga del Settembre 1937…dove fu fatta l’esaltazione di Rosenberg, celebrato come il filosofo del Nazionalsocialismo ( a lui fu conferito il così detto « premio nazionale »). Nei mesi successivi, pubblici discorsi di capi nazisti, diffusi nel popolo dalla ben manovrata propaganda, continuarono gli attacchi alla Chiesa. La stessa propaganda spergeva abilmente, quasi ad intervalli prestabiliti, voci di distensione e di offerte di pace, cui non corrispondeva alcun sincero proposito. In realtà, la implacabile lotta contro la Chiesa e il Cristianesimo continuava più intensa di prima; all’occhio dell’osservatore superficiale questa non poteva del tutto apparire, perché le chiese erano aperte, i sacerdoti amministravano i Sacramenti e lo Stato continuava a dare le sue sovvenzioni, ma i veri indici della situazione religiosa erano segnati dalla coartazione delle coscienze e dallo spirito anticristiano imposto nella vita pubblica[2]“.
Di fronte a tutto ciò, il Papa Pio XI protestò nuovamente, dinanzi a tutto il mondo, con la solenne allocuzione natalizia del 1937. Ecco la sintesi del suo discorso come appare nel detto libro di Maccarrone, e che descrive « il fatto doloroso, penosissimo, della persecuzione religiosa nella Germania »:
« Poiché vogliamo dare alle cose il loro nome, e non si abbia a ripetere di noi quello che l’antico storico disse in un determinato momento: Vera etiam rerum perdidimus nomina.
No, per grazia di Dio non abbiamo perduto tale nome: vogliamo chiamare le cose col loro nome. Nella Germania c’è infatti la persecuzione religiosa. Da molto tempo si va dicendo, si va facendo credere che la persecuzione non c’è: sappiamo invece che c’è, e grave; anzi poche volte vi è stata una persecuzione così grave, così temibile, così penosa e così triste nei suoi effetti più profondi. È una persecuzione alla quale non manca né il prevalere della forza, né la pressione della minaccia, né i raggiri dell’astuzia e della finzione ».
Ricordati poi i suoi personali e profondi legami con la Germania, così proseguiva l’accorata parola del Capo della Chiesa:
« È pertanto triste, doppiamente triste per il Sommo Pontefice dover ricordare quanto in quel Paese si commette contro la verità; una verità che lo riguarda non solo personalmente – questo sarebbe il meno, sarebbe molto meno – che lo riguarda in modo ben più grave in quanto tocca ciò che egli ha di più caro, che occupa i suoi pensieri, il suo cuore; ciò che investe tutta la sua responsabilità davanti a Dio e davanti agli uomini, ossia la gerarchia cattolica, la religione cattolica, la santa Chiesa di Dio, che la bontà divina ha affidato alle cure del suo Vicario in terra. Si va dicendo che la religione cattolica non è più cattolica, ma è politica, e si prende questo pretesto, questa qualifica per giustificare la persecuzione come se non fosse persecuzione, ma – per così dire – una manovra di difesa. Quei dilettissimi figli condividevano e condividono con il Padre la constatazione che qui si tratta della stessa accusa fatta a Nostro Signore quando fu tradotto davanti a Pilato, quando tutti l’accusavano di fare la politica: di essere un usurpatore, un cospiratore contro il regno politico, un nemico di Cesare…Così possiamo dire anche noi. Se noi facessimo la politica che ci si addossa, che ci si attribuisce in questo parlare di armamenti e di guerra, ci sarebbe forse un posto, per quanto piccolo od esiguo, anche per noi. No, il Sommo Pontefice non ha bisogno di giungere fin là. Il Papa non fa della politica. Egli non vive, non opera per fare politica, ma per rendere testimonianza alla verità, per insegnare la verità: questa verità il mondo così poco apprezza e poco cura, mentre si cura di tutto il resto, precisamente come Pilato che non aspettò la risposta alla sua domanda: Quid est veritas?
Il Sommo Pontefice voleva dire e ripetere e protestare altamente in faccia al mondo intiero: noi non facciamo della politica; al contrario, proprio per ritornare alle parole di Nostro Signore Gesù Cristo, se così fosse, la gente nostra – in tutto il mondo abbiamo gente nostra: carissimi figli, devoti fedeli, credenti, adoratori di Dio – verrebbe in aiuto a noi. Orbene nessuno di questi figli nostri sparsi nel mondo, nessuno crede che noi facciamo della politica; quando tutti vedono invece e continuamente constatano che noi facciamo della religione, e non vogliamo fare altro.
Certo – aggiungeva il Santo Padre – appunto per questo si deve affermare che il semplice cittadino deve conformare la propria vita civica alla legge di Dio, di Gesù Cristo. È questo fare della religione o della politica? Non certo della politica.
Noi vogliamo poi – proseguiva Sua Santità – che anche nella vita civica, nella vita umana e sociale, siano sempre rispettati i diritti di Dio, che sono anche i diritti della anime. È quello che abbiamo sempre unicamente fatto. Se altri ha pensato altrimenti e dice altrimenti, ciò è contro la verità. Ed è ciò che profondamente addolora il Sommo Pontefice: il gettare quest’accusa molteplice di abusata religione – uno dei peggiori pensieri che possano venire in mente umana – l’accusa di abusata religione a scopo politico; il lanciare, si dica pure la vera parola, tale calunnia contro tanti suoi venerati fratelli nell’Episcopato, contro tanti sacerdoti, contro tanti buoni fedeli di fare opera di buoni cristiani e quindi, evidentemente, opera di migliori cittadini, come consapevoli di essere responsabili anche di questi doveri civici e sociali non soltanto davanti agli uomini, ma dinnanzi a Dio stesso.
Il Santo Padre dichiarava pertanto che la sua protesta non poteva essere né più esplicita né più alta di fronte al mondo intero: noi facciamo della religione; non facciamo della politica: lo vedono tutti quelli che vogliono vedere.
Per il rimanente, questa proclamazione della verità vada – continuava il Sommo Pontefice – a consolare tanti suoi fratelli nell’Episcopato, i sacerdoti e i fedeli che soffrono tanto sotto questa persecuzione così ingiusta e così tristemente negatrice; e soprattutto soffrono per questa calunnia, dopo la quale non si poteva aggiungere una sofferenza più acuta alle sofferenze, alle angustie di ogni genere, che la persecuzione comporta in sé.
Sapessero essi che il Papa era con loro: che egli conosceva le loro tribolazioni; che soffriva con essi e che la sua più grande sofferenza era quella di saperli cotanto tribolati, così sensibili alle accuse che venivano mosse contro di loro.
Che ci resta? – proseguiva Sua Santità – Ci resta quello che, grazie a Dio, sempre ci resta e ci resterà: elevare l’occhio e il cuore, l’anima e la mente a Dio benedetto…Venisse a far cessare tanto male e a ricondurre sulla buona via della verità riconosciuta, della verità onorata, tanti che allora sembravano davvero non conoscerlo se non per negarla e per offenderlo. Terribile punizione, quella, terribile spettacolo, ma che faceva anche pensare – un pensiero, diceva Sua Santità, di cui egli sentiva per primo il bisogno – alla infinita misericordia di Dio, che tanto tollera. Davanti a quella divina longanimità si doveva veramente dire: se noi, in un momento qualsiasi, perdiamo la pazienza, erriamo. Sì, erriamo – concludeva Sua Santità – se noi non seguitiamo a pregare per tutti, e proprio anche per quelli che ci fanno soffrire per ciò che a noi è tanto caro e deve essere tanto caro al punto da dover dare la nostra vita »[3].
[1] Vedi i seguenti post: https://www.andreacarancini.it/2010/07/documenti-per-lo-studio-della-mi/ e https://www.andreacarancini.it/2010/07/documenti-per-lo-studio-della-mit_21/ .
[2] Mons. Michele Maccarrone, op. cit., pp. 187-192.
[3] Idem, pp. 192-194.
LETTERA ENCICLICA DEL PAPA PIO XI
A)http://www.vatican.va/content/pius-xi/it/encyclicals/documents/hf_p-xi_enc_14031937_mit-brennender-sorge.html
FONTE:https://www.andreacarancini.it/2010/07/documenti-per-lo-studio-della-mit_26/
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