RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI
26 AGOSTO 2020
A cura di Manlio Lo Presti
Esergo
Chi è di memoria corta supera più facilmente l’esame della vita.
STANISLAW J. LEC, Pensieri spettinati, Bompiani, 2015, pag. 102
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SOMMARIO
Gli scienziati della sovversione hanno colpito ancora.
La strategia dell’esasperazione
ONG: CHI LE FINANZIA VERAMENTE? E PERCHE’ HANNO QUESTE E PROPRIO QUESTE PRIORITA’?
Berlinale, premi “genderless” ed edizione in presenza: come cambia l’industria del film
Bollo auto, il dettaglio nascosto che può far scattare la batosta
App Immuni: Azzolina e Speranza non sanno più come fare per convincere gli italiani a scaricarla
ORMAI CONTINUARE E’ INUTILE . E rischioso.
Gli italiani colpevoli di esistere
Giallo su Briatore, la Santanchè è sicura: “Flavio non ha il Covid”
I Neo-Ottomani preparano l’attacco all’Occidente.
Che cosa succede in Libia tra Usa, Turchia e Russia. L’analisi di Mercuri
LA GUERRA INFINITA DELL’OCCIDENTE ALL’UMANITA’: DOPO LA LIBIA – SIRIA E IRAN
COLPIRE IL LIBANO PER COLPIRE L’EURASIA
Guerre batteriologiche e guerre di greggio
MASSE, DISORDINE E MALAFEDE
Vittorio Feltri sull’amico Paolo Berizzi: “Merita un vaff***, ma non punizioni.
Che fine hanno fatto i verbali secretati?
La decrescita: l’ultimo volto del collettivismo
L’OMBRA NERA DELLA BLACKROCK SULLA CRISI ECONOMICA ITALIANA
Baldassarre: Il Parlamento Ue boccia la norma che chiede chiarezza sui fondi delle Ong.
Sicilia, Rampelli: «La Rackete sta portando altri 221 migranti. Il governo è in confusione cronica»
L’ex Merloni licenzia e dà il via all’autunno caldo: a rischio 2 milioni di posti di lavoro
L’asse Trump-Putin contro i “cinesi” Soros, Obama e Merkel
MUMMIARELLA E LA RASSEGNAZIONE MAFIOSA
IUS SOLI: I CALCOLI ELETTORALI DI BREVE PERIODO E LA PROSPETTIVA ELISYUM
UN COMPROMESSO TRA FINTA ONESTÀ E PAURA DI PERDERE LE ELEZIONI – IL COMMENTO
L’infettivologo Galli: «Non scaricate tutto sulle famiglie. A scuola 6 ore con la mascherina? Utopia»
Le imprese statunitensi che finanziarono Hitler
EDITORIALE
Gli scienziati della sovversione hanno colpito ancora.
Manlio Lo Presti – 26 agosto 2020
La megamacchina disinformativa ha mostrato, a reti unificate, una Sharon Stone struccata e addolorata in primo piano di sola faccia. In sequenza lenta e con vice bassa parla di rispettare le regole del COVID1984 perché sua madre è morta di COVID1984 (informazione sparata e non verificabile).
La diffusione televisiva è iniziata l’altro ieri sera e proseguirà martellante nei prossimi giorni.
Dall’altra c’è Miguel Bosé ispido e provato dalla morte della madre, con “casuale” enfatizzazione e catalogata COVID1984 .
La Stone lacrimosa è CONSAPEVOLE mentre Bosé, che invita a rifiutare la mascherina propugnando una nuova resistenza, è un NEGAZIONISTA.
La prima è giusta il secondo è descritto negativamente perché non è allineato alla vulgata della teologia della dittatura tekno-sanitaria in corso.
La creazione strisciante di odio semantico contro le opinioni dubbiose continua incessante.
Da notare che, da quando si martella a tappeto 36 ore al giorno il COVID1984, alla fine di ogni telegiornale ci sono inserimenti di eventi commoventi (libro Cuore versione 65.15.7.3.1.0): tutto calcolato e sincronizzato!!!
I neomaccartisti globalisti quadrisex possono minacciare, screditare, incoraggiare l’odio perché ONUSTI E MONOPOLISTI DELLA VERITA.
Chi si allinea deve essere additato al disprezzo terroristico, isolato socialmente, sterminato, ricondizionato in appositi CAMPI DI RIEDUCAZIONE POLITICA (Padellaro dixit in una puntata della trasmissione della Gruber sulla schieratissima globalista LA7).
Se poi questi merdosi hanno la sfrontatezza di continuare a dubitare, devono essere multati, scudisciati e in futuro – ESILIATI COME CRAXI.
Lo schema persecutorio manettaro-giuziziario-terrorista non cambia.
COSA SI DEVE FARE PER FAR INCASSARE 25 MILIARDI DI EURO ALLE FARMACEUTICHE.
Gli affari sono affari …
IN EVIDENZA
La strategia dell’esasperazione
Il prof. Angelo Ventrone ha proposto di ribattezzare la “Strategia della tensione” con l’espressione “Strategia della paura”. C’è del vero in entrambe le formule, che hanno il minimo comune denominatore nell’idea di una destabilizzazione dell’ordine pubblico al fine di ristabilire l’ordine politico in chiave strettamente autoritaria; il quid pluris di quella di Ventrone è la sottolineatura della valenza del terrorismo non più come strumento per mostrare la propria forza e colpire il nemico, ma come strumento per condizionare l’opinione pubblica.
Nel quadro di questa linea interpretativa, il prof. Ventrone, in una recente intervista, propone alcune osservazioni interessanti: gli ideologi della strategia della paura “avevano i mezzi e le conoscenze tecniche per manipolare [l’opinione pubblica]. Soprattutto a livello emotivo e psicologico. La paura di morire, l’istinto di sopravvivenza, sono stati d’animo sui quali è più facile lavorare… Si immaginarono l’organismo sociale come se fosse aggredito da un virus, quello comunista. Divenne importante intervenire sull’intero organismo sociale, non bastava più asportare solo la parte malata. E si studiarono due modi per intervenire, con termini che all’epoca usavano gli attori della strategia della tensione. Quello dei vaccini o delle contro-infezioni, cioè una dose controllata di veleno per costringere l’organismo a rendersi conto del pericolo e a produrre gli anticorpi“.
La criminalizzazione dei movimenti di lotta è il prodotto della creazione di una società “ansiosa e impaurita, nonché mobilitata sulla base della paura…, che tira la carretta a capo chino, più disposta a delegare scelte cruciali, più disposta ad accettare [qualsiasi] politica [purché] si annunci ansiolitica”, che “addita all’opinione pubblica” i “piantagrane contrari al blocco d’ordine, pardon, alla concordia nazionale” (cito Wu Ming, non dico altro).
Stasera è la sera dell’attacco del Presidente Conte alle opposizioni, senza contraddittorio e sul servizio pubblico. Un gesto che è la discesa di un ulteriore gradino verso la completa torsione autoritaria della nostra democrazia, lungo una scala ormai lunghissima. Basti ricordare la sostituzione dei politici con i tecnici, prima in situazioni più o meno realmente emergenziali, poi come stabile modus operandi per i ministeri chiave di esecutivi non graditi, infine – notizia freschissima – come poteri surrogati rispetto a quelli costituzionalmente previsti; la parallela delegittimazione della classe politica, prima tutta accumunata nello stigma della “casta” e della “cricca” e posta sotto tutela della magistratura a partire da Tangentopoli, poi vilipesa tramite la sostituzione della competenza specifica con l’incompetenza generale, secondo il principio per cui uno varrebbe uno e invece finisce che uno vale l’altro; da ultimo, le proposte di legge non annunciate, i testi in commissione modificati dopo la loro approvazione, il Parlamento ignorato.
Manca l’ultimo passo, che deve tenere conto che in Italia abbiamo ormai gli anticorpi per rispondere a qualsiasi avventura dal sapore sud-americano. Qui bisogna essere più dolci. Bruto è uomo d’onore; così sono tutti, tutti uomini d’onore. Se negli Anni Settanta la strategia della tensione aveva l’obiettivo di sterilizzare il pericolo comunista in funzione di una consolidamento conservatore in senso filo-atlantico, oggi pare dunque profilarsi una nuova strategia, tesa a marginalizzare i partiti sovranisti (absit iniuria verbis) nel quadro di una stabile subordinazione dell’Italia al progetto unionista germanocentrico.
Potremmo definirla la Strategia dell’esasperazione.
Il piano del PD (del PD: i 5 stelle sono solo interessati a mantenere lo stipendio da parlamentari fino alla fine della legislatura) è chiarissimo. Non permettere allo Stato italiano di sovvenire in alcun modo lavoratori e imprese in questa catastrofe economica, da aggravare prolungando, per quanto possibile, la quarantena imposta a colpi di Decreti del Presidente del Consiglio.
I cittadini dovranno superare la crisi con i propri risparmi, ciascuno secondo le proprie possibilità: altro che proposte, la patrimoniale, nei fatti, c’è già. La classe media verrà sospinta verso la povertà, i poveri avranno difficoltà a mettere insieme il pranzo con la cena, gli asset italiani drenati verso Francia (in primo luogo) e Germania (a seguire). La rabbia, esponenzialmente incrementata da questa reclusione forzata, esploderà in gesti spontaneistici e isolati, ma utili per ridurre ulteriormente gli spazi del dibattito democratico. E, per chiarezza, in modo non immediatamente controvertibile.
Si comincerà ovviamente dai social: la “Unità di monitoraggio per il contrasto della diffusione di fake news relative al Covid-19 sul web e sui social network” (ma non in TV o sui giornali, si noti) presto perderà qualsiasi riferimento alla pandemia, per diventare un protagonista della censura e della repressione del dissenso. Poi chissà, si continueranno a impedire gli assembramenti, soprattutto per evitare proteste quando, attraverso l’adesione al MES (quello vero), finalmente le elezioni saranno ridotte a meri ludi cartacei. È dai tempi di Carlo VIII, in fondo, che le fazioni italiane non prevalgono per i loro meriti, ma per gli appoggi internazionali. A cosa porti questa carità pelosa ce lo ha insegnato il Manzoni dell’Adelchi, ma il Manzoni – come la storia – insegna molto, ma non ha più scolari (soprattutto in epoca di lezioni via web).
Si finirà con un mutamento addirittura antropologico: il distanziamento sociale al posto della socializzazione, lo smart working al posto della fabbrica o dell’ufficio come luogo anche aggregativo, il commercio elettronico al posto dell’esercizio di prossimità, il denaro elettronico al posto di quello cartaceo. Un mondo di pervasivo controllo, a prova di click.
Un ultimo punto, non secondario. Se tutto questo sarà possibile (e lo sarà, a meno di tanta fortuna e di una nostra diuturna, attenta, disciplinata, instancabile spinta a Claudio Borghi e Alberto Bagnai, senza i quali oggi anche chi scrive ancora continuerebbe a informarsi guardando il Tg1, ed a Matteo Salvini, che ha avuto il merito storico, storico!, di dare loro una tribuna nazionale) sarà grazie alla mutazione antropologica dell’uomo moderno.
La scristianizzazione della società, la perdita del senso di eterno che è propria del mistero della Resurrezione, hanno portato l’uomo a una tale angoscia verso la morte da rimuoverne completamente la presenza, nel linguaggio, nel quotidiano, nei comportamenti dei giovani che rischiano volontariamente la vita. In questo contesto l’ingenuo scientismo positivistico ha fatto facilmente breccia, dando l’illusione che la medicina potesse non solo ritardare quasi indefinitamente la morte, ma addirittura prevenire qualsiasi malattia attraverso neppure il farmaco, ma la pozione magica somministrata sotto forma di vaccino. Ora però siamo al redde rationem. Di fronte all’impotenza – peggio: di fronte alla gravissima impreparazione planetaria – innanzi al Coronavirus, l’uomo subitaneamente nudo della sua corazza di certezze scientiste è attanagliato dal terrore ed accetta perciò ogni limitazione alla propria libertà, al proprio diritto di movimento, in una parola: alla propria vita.
Questo senso di smarrimento produce poi una pulsione infantilistica (esiste una pagina Facebook, a quanto pare non satirica, che si chiama “Le bimbe di Conte”) alla ricerca dell’uomo forte: da questo punto l’immagine del condottiero integerrimo, quasi aspro, costruita da Casalino a colpi di conferenze stampa in prime time e di pubblicità a tappeto su FB è perfetta. Il bravo bambino è quello che segue le regole dei genitori, che non li tradisce, che è sincero e trasparente: ecco allora lo spettacolo abominevole delle delazioni, delle gogne social, delle telefonate alle forze dell’ordine perché magari una mamma e un bambino prendono mezz’ora d’aria.
Queste persone appoggeranno sempre e comunque la Strategia dell’esasperazione, almeno finché anche in loro l’esasperazione non avrà il sopravvento sulla paura. E pian piano questo disgraziato Paese si spaccherà in due in modo irreversibile e Dio solo sa cosa succederà.
Ma la Storia si ricorderà di lei, prof. Conte. E prima della Storia noi, che non lasceremo cadere la memoria di ciò che sta accadendo.
FONTE: http://losmemorato-ilblog.blogspot.com/2020/04/la-strategia-dellesasperazione.html
ONG: CHI LE FINANZIA VERAMENTE? E PERCHE’ HANNO QUESTE E PROPRIO QUESTE PRIORITA’?
Se mi muovo su segnalazione di chi si è posto in navigazione, entro le acque sovrane libiche, già sapendo che non sarà in grado di navigare fino alla (unica) destinazione prescelta, l’Italia, si tratta visibilmente di un espediente.
Non è salvataggio, ma l’utilizzazione programmatica di più vettori, in oggettivo coordinamento tra loro, per una destinazione predeterminata e avulsa dalle regole del diritto del mare: le mete portuali più prossime, Tunisia e Malta, paiono infatti ignorate dai “salvatori-secondo-il-diritto-del-mare”che navigano allo scopo esclusivo, e dichiarato, di andare a raccogliere chi si mette in mare solo per finire in pericolo e essere “salvato”!
E questo meccanismo, dunque, nulla ha a che fare coi criteri di accidentalità del soccorso da apprestare in mare, e tantomeno coi criteri di prossimità in cui si sviluppa normalmente il soccorso “accidentale” e non predisposto; è, cioè, un “soccorso” apprestato da parte di chi abbia, come privato, un’unica ragione per navigare: quella di stazionare nei pressi delle acque territoriali libiche per completare la tratta illegalmente intrapresa e segnalata dagli scafisti o, per essi, dai passeggeri “addestrati” dei gommoni!
E quindi, posto che il finanziamento ufficiale UE copre, a malapena, meno di un terzo dei costi complessivi, e che ragionevolmente appare esclusivamente un (limitato) cofinanziamento della spesa sostenuta dal nostro Stato, chi li finanzia?
“L’EUROPA DELLE POVERTÀ
E fu sconfitta per buone ragioni, completamente dimenticate dalle ONG e dalle istituzioni UE: dopo la seconda guerra mondiale, per l’affermarsi delle democrazie sociali in cui l’intervento dello Stato, garantiva lo sviluppo armonico del capitalismo, coniungandolo con la priorità dell’occupazione e della tutela pubblica, cioè democratica e legalmente prevista, dei più deboli (che sono i lavoratori e le loro famiglie).
FONTE: https://orizzonte48.blogspot.com/2017/04/ong-chi-le-finanzia-veramente-e-perche.html
ARTE MUSICA TEATRO CINEMA
Berlinale, premi “genderless” ed edizione in presenza: come cambia l’industria del film
Il Festival Internazionale del film di Berlino torna con una novità in programma: per la prima volta, saranno aboliti i premi al migliore attore e alla migliore attrice per sostituirli con migliore ruolo protagonista e migliore ruolo secondario
Un’edizione in presenza e al passo coi tempi. Il Festival Internazionale del film di Berlino tornerà con una rivoluzione in programma: per la prima volta, i premi per la performance saranno definiti in modo neutro rispetto al genere. Nell’appuntamento previsto per febbraio 2021, saranno aboliti, infatti, i premi al migliore attore e alla migliore attrice per sostituirli con migliore ruolo protagonista e migliore ruolo secondario. “Non separare più i premi nella professione di attore secondo il genere sessuale è un segnale verso una maggiore consapevolezza di genere nell’industria cinematografica”, annunciato i curatori del festival Mariette Rissenbeek e Carlo Chatrian.
Sarà eliminato invece l’Orso d’argento Alfred Bauer, sospeso nel 2020 a causa di nuove scoperte sulla posizione del primo direttore della Berlinale durante il nazismo. Al suo posto sarà consegnato il Premio della giuria – Orso d’argento. Contestualmente è stato annunciato un studio storico specialistico esterno su Alfred Bauer, disponibile nei prossimi mesi. La Giuria Internazionale del Concorso assegnerà i seguenti otto premi: Orso d’oro per il miglior film (assegnato ai produttori del film); Gran Premio della Giuria dell’Orso d’Argento; Orso d’argento per il miglior regista; Premio della giuria Orso d’argento; Orso d’argento per la migliore interpretazione protagonista; Orso d’argento per la migliore interpretazione non protagonista; Orso d’argento per la migliore sceneggiatura; Orso d’argento per l’eccezionale contributo artistico.
FONTE: https://www.ildubbio.news/2020/08/24/berlinale-premi-genderless-ed-edizione-presenza-la-rivoluzione-comincia-al-cinema/
ATTUALITÁ SOCIETÀ COSTUME
Bollo auto, il dettaglio nascosto che può far scattare la batosta
Solo in caso di prescrizione o di rinuncia all’eredità di un veicolo può decadere l’obbligo di saldare il debito
Al momento della morte, infatti, tutta l’eredità, comprensiva di beni e debiti, viene trasmessa ad un congiunto scelto esplicitamente tramite testamento oppure seguendo le linee tracciate dalla legge (si va dal coniuge, fino ad arrivare ai figli ed eventualmente ad altri parenti fino al sesto grado). Chiunque risulti destinatario di una successione ereditaria dovrà dunque accollarsi eventuali debiti gravanti su un veicolo appartenente al parente defunto, facendosi carico, ad esempio, semplicemente anche di pagare il bollo auto entro la prevista data di scadenza.
Nel caso in cui gli eredi siano più numerosi, ognuno di essi sarà tenuto a versare una parte della somma totale che corrisponda a quella che è la ripartizione prevista proprio dalla stessa successione ereditaria. Una situazione, questa, che non si viene a creare ovviamente quando si parla di un solo erede, sia nel caso in cui venga investito del ruolo direttamente dal testamento che qualora risulti a termini di legge come unico destinatario dei beni del defunto. Divenendo, infatti, il solo proprietario della vettura sarà allo stesso tempo anche debitore dell’intera cifra da versare.
Nuovo proprietario, ovviamente, significa anche doversi occupare delle documentazione necessaria ad attestare il cambio dell’intestazione del mezzo. L’erede, dunque, dovrà sbrigare tutte le pratiche burocratiche, a partire da quella del passaggio di proprietà, la cui registrazione dovrà essere effettuata presso il Pubblico registro automobilistico (Pra). Dopo una necessaria autenticazione della firma dell’erede (o degli eredi), ci saranno 60 giorni a disposizione per provvedere a far registrare il passaggio nell’ufficio provinciale dell’Aci Pra o della motorizzazione civile.
L’unica situazione in cui l’erede può evitare di farsi carico del pagamento del bollo di un’auto ereditata si verifica nel caso in cui questo sia caduto in prescrizione, ovvero qualora siano trascorsi almeno 3 anni dal 1 gennaio dell’anno successivo in cui si sarebbe dovuto saldare il pagamento del bollo.
È ovviamente possibile farlo anche rinunciando all’eredità dell’autoveicolo, la cui proprietà passa in questo caso di diritto allo Stato.
FONTE: https://www.ilgiornale.it/news/economia/bollo-auto-dettaglio-nascosto-che-pu-far-scattare-batosta-1885378.html
App Immuni: Azzolina e Speranza non sanno più come fare per convincere gli italiani a scaricarla
Il professore ha rinnovato il suo appello perché la App Immuni sia scaricata dagli italiani. «È uno strumento di prevenzione, non di reazione. Quindi è fondamentale che tutti gli italiani la scarichino prima possibile, per salvare vite ed evitare nuovi lockdown. Nel frattempo, la diffusione procede a rilento.
App Immuni: ce l’ha solo un italiano su dieci
Ma la App Immuni è servita a qualcosa? Finora a poco. Dal 1 giugno sono stati 105 gli utenti positivi che avevano Immuni e hanno caricato le loro chiavi nel backend (21 a giugno, 38 a luglio e 46 per ora ad agosto). Le notifiche vengono registrate dalla App dal 13 luglio e ne sono state inviate 809. Inoltre almeno quattro potenziali focolai sono stati bloccati anche grazie alla app. Le persone entrate in contatto con un positivo avevano ricevuto la notifica di alert da Immuni. Numeri che fanno comprendere l’importanza di una maggiore diffusione della App.
E proprio per sensibilizzare gli italiani a scaricarla già dal 1 giugno è partita una vasta campagna di comunicazione con spot passati su tutte le principali reti televisive, sui giornali cartacei e online, in radio e sul web, che però finora non ha sortito gli effetti sperati. Protagonista dell’ultimo spot apparso sul piccolo schermo è Flavio Insinna, che invita appunto gli italiani a scaricarla, e ha fatto registrare un aumento dei download. Inoltre da agosto Immuni ha anche una pagina su Facebook, Twitter e Instagram. Ma non è abbastanza.
Ecco perché il ministero della Salute sta già lavorando a una nuova campagna, annunciata qualche giorno fa dallo stesso ministro Roberto Speranza. Anche il ministro dell’Istruzione Lucia Azzolina ne ha sottolineato l’importanza raccomandandola tra le misure assolutamente opportune per il rientro a scuola a settembre.
Intanto dal ministero fanno sapere che l’app Immuni non raccoglie dati che permettono di risalire all’identità di chi la usa, non chiede, né è in grado di ottenere, dati sensibili come nome, cognome, data di nascita, indirizzo, numero di telefono o indirizzo e-mail. Inoltre, per determinare il contatto, Immuni sfrutta la tecnologia Bluetooth Low Energy e non utilizza dati di geolocalizzazione di alcun genere, inclusi quelli del Gps. Infin, l’applicazione ha avuto il via libera ufficiale anche dal Garante della Privacy. Basterà a convincere gli italiani che è più utile delle ultime puntate di Temptation Island?
FONTE: https://www.secoloditalia.it/2020/08/app-immuni-azzolina-e-speranza-non-sanno-piu-come-fare-per-convincere-gli-italiani-a-scaricarla/
ORMAI CONTINUARE E’ INUTILE . E rischioso.
Quando leggo che “il virologo Andrea Crisanti” esige e comanda “300 mila tamponi al giorno“, mentre è così evidente che più aumentano i “tamponi” e più si scoprono “contagiati” ovviamente asintomatici (ossia sanissimi, ma da “isolare” perché “altrimenti contagiano i nonni”), capisco che ormai il mio lavoro informativo è inutile. Da giorni, ed anche oggi, tutte le tv e le radio aprono i notiziari con il “numero dei contagi che aumenta” – e il terrore va avanti senza deflettere, ferreo, sordo a qualunque argomento contrario – vuol dire che il Progetto non è più arrestabile e va lasciato arrivare fino alla conclusione vol
uta dai Progettisti. Senza dominare le tv, non si può raggiungere l’opinione pubblica con le informazioni documentate che smentiscono il terrorismo.
Non vale più la pena di sprecare tempo e fatica, di sforzare la mente, di negarmi a letture più profonde e piacevoli, o necessarie preghiere.
Non solo il mio lavoro ormai è inutile; diventa anche inutilmente pericoloso per me, per noi pochi che cerchiamo di dare l’allarme alla popolazione su ciò che la attende fra qualche mese.
Crisanti, ho spiegato chi è e di quali temibili e persino vietate manipolazioni genetiche è specialista; per di più, impartisce la direttiva dei 300 mila persone al giorno insieme all’ingiunzione di sottrarre alle Regioni la competenza del settore sanitario per accentrarlo una autorità centrale, insindacabile e dotata di poteri polizieschi (“serve un piano nazionale di sorveglianza per quadruplicare la nostra capacità di effettuare tamponi, attività strategica per il nostro Paese non può essere lasciata in balìa delle diverse impostazioni delle Regioni”). Peggio, la sua ingiunzione è accolta e strombazzata da Il Fatto Quotidiano: ossia l’organo del Procuratore, quello per cui non esistono innocenti, ma solo criminali che Lui con la (sua) Giustizia non ha ancora scoperto.
Ciò significa che presto saranno varati decreti che puniscono penalmente, e indicato all’opinione pubblica come “negazionista”, sabotatore dello sforzo sanitario in corso, diffusore di notizie false dannose alla salute – e colpito da ammende tali, da rovinarmi economicamente, cosa facilissima perché i miei beni sono tutti dichiarati e visibili al Procuratore.
Ci sono già inequivocabili indizi della deriva repressiva che intende prendere il governo. Proposte di creare il reato di “incitamento al rifiuto delle terapie” che vieterà di argomentare contro il vaccino universale e obbligatorio deciso una volta per tutte. Preparazione, nelle regioni gestite dal governo, a trasformare gli alberghi in luoghi di confinamento sanitario, con concorsi a cui risponderanno in massa gli albergatori, rovinati dalla scomparsa dei turisti
Trasformazione degli scolari in malati e prigionieri:
E non manca il furibondo appello del capo della CGIL a far tacere quelli che lui nomina così:
Un rigurgito sanguinario che viene dal passato ineliminabile del paleo-comunista; ma il potere farà come dice Cremaschi, non dovete dubitare. Il linciaggio mediatico aiuterà.
Cari lettori, io sono pronto a subire danni – ma non senza prospettiva alcuna. Ormai le forze del male e della menzogna sono non solo preponderanti; sono schiaccianti.
E andranno fino in fondo; verso quel “Grande Reset” transumano che è stato tante volte descritto e spiegato, e che raccontare un’altra volta porta solo a fornire più materiale d’accusa al Cremaschi e alla psicopolizia (il nuovo Kgb liquidatore) che desidera, reclama e vuole.
Sicché, cari lettori, sto riconsiderando la mia funzione. Devo sforzarmi a vincere la mia mania – perché ormai l’ho contratta – di scrivere troppo spesso e troppo d’urgenza. Scrivere oltre significa solo diffondere disperazione, mentre invece è alla speranza che ci si deve volgere: sicuri che le loro “macchinazioni andranno in malora”, e fra un decennio al massimo quelli fra noi che saranno vivi vedranno la restaurazione della fede, in Europa, e con essa la legittimità del sovrano e del Papato. Ciò che sembra – ed è – impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile.
Preghiamo che questo tempo sia abbreviato. La preghiera ora è la sola cosa utile e necessaria.
Gli italiani colpevoli di esistere
Editoriale – Gli italiani sembrano doversi scusare di esistere. Bacchettati da maestrini che promettono punizioni a comportamenti non in linea con la dittatura moderna, prima il problema erano coloro che uscivano abusivamente sotto casa a “fare jogging”, ora sono diventati i giovani che vanno in discoteca o vanno in vacanza. Nel mentre importiamo le infezioni da altrove, e per questo nulla quaestio.
E così questo popolo loculizzato in smart working in ragione di una pandemia non supportata da dati certi e fin troppo strumentalizzata a livello di terrorismo ansiogeno, ora si sente colpevole di esistere. Tanto che sembrano essere richieste le scuse perchè si vuol vivere.
Beninteso che le persone non è che hanno scelto loro di venire al mondo. E’ la natura che ha creato l’uomo che si riproduce nei modi e nei tempi da tutti conosciuti. Sempre nella natura dell’uomo è l’espressività, la socialità, lo stare insieme, l’abbracciarsi: il vivere. Ciò che oggi è vietato perchè c’è il rischio dei contagi.
La curva epidemica aumenta, i focolai crescono, con soddisfazione dei virologi catastrofisti e di quanti alimentano con precisi obiettivi l’ansia popolare.
Ci sono contagi certo, ma questi contagiati poi che fine fanno? Muoiono tutti? Vanno tutti in ospedale o sono asintomatici? O è colpa anche essere asintomatico. E’ colpa di esistere.
E dunque nel mentre che il Pirozzi di turno cade dalle nuvole perchè la moglie a sua insaputa gli ha chiesto il bonus partite iva, il divario sociale aumenta sempre di più.
Non vi è più una prospettiva futura, il popolo è terrorizzato e minacciato per l’arrivo di un autunno che si profila ancorpiù ansiogeno che mai. L’inizio delle scuole… poi non ne parliamo. Sarà un caos probabilmente voluto. Più il popolo ha paura e meglio è. Allora eliminiamolo questo popolo che disturba. Sterminiamo la massa e lasciamo solo taluni politici a godere delle beltà residue. Finchè durano.
Ai posteri le ardue sentenze.
FONTE: https://www.ufficistampanazionali.it/2020/08/14/gli-italiani-colpevoli-di-esistere/
BELPAESE DA SALVARE
Giallo su Briatore, la Santanchè è sicura: “Flavio non ha il Covid”
Daniela Santanché, giallo su Flavio Briatore. Lei sostiene che il ricovero al San Raffaele di Milano è dovuto a una recrudescenza della prostatite da cui era affetto da tempo. “Al momento non si conosce il risultato del tampone, e avendolo sentito non sono autorizzata a dire altro”. Lo ha detto alla trasmissione In Onda su La7. “Sono stata autorizzata da Flavio, che è uno dei migliori amici, a riferire che è stato ricoverato per una infezione alla prostata recidiva”, ha aggiunto.
FONTE: https://www.iltempo.it/attualita/2020/08/25/news/giallo-su-briatore-daniela-santanche-sicura-flavio-non-ha-il-covid-billionaire-coronavirus-24315032/
CONFLITTI GEOPOLITICI
I Neo-Ottomani preparano l’attacco all’Occidente.
Per loro, per gli ideologi del neo-ottomanesimo intrisi di retorica nazionalista, mistica, religiosa noi, noi Occidente, siamo semplicemente il nemico. Noi, noi Europa, noi cristiani, noi ebrei siamo per loro semplicemente un terreno di conquista. Che questo semplice concetto rappresenti integralmente la visione neo-ottomana è dimostrato direttamente dalle dichiarazioni che arrivano da Ankara, da Istanbul, dagli estremisti che oggi prendono sempre più piede in Libia, da un’ampia fetta della popolazione rurale che abita la Turchia. Che questo semplice concetto sia aderente alla realtà lo si nota dalla sempre maggiore aggressività, sia verbale sia militare, messe in campo dal paese che oggi incarna lo spirito neo-ottomano che sta sorgendo nel Mediterraneo orientale e non solo. Al momento però la Turchia non possiede una struttura militare capace di sostenere questo progetto imperiale nel breve periodo; per diventare una potenza imperiale oggi la Turchia deve assolutamente diventare egemone nella gestione di alcuni beni primari e indispensabili al sostentamento stesso di quei nemici che abbiamo elencato in apertura di questa analisi.
Uno dei beni indispensabili all’Europa é il gas naturale, gas naturale di cui il Mediterraneo orientale è ricco: giacimenti di grandissima rilevanza sono presenti nelle acque cipriote, nelle acque israeliane, nelle acque libanesi ed egiziane. Le compagnie petrolifere di tutto il mondo sono accorse in quest’area geografica per sviluppare progetti di scoperta e poi estrazione funzionali ai bisogni dell’intero continente europeo e dei paesi rivieraschi e poveri (fino ad ora) di materie energetiche. Ma il Mediterraneo non è solamente il luogo dove trovare il gas naturale, il Mediterraneo è anche e soprattutto il luogo dove far transitare i gasdotti che possono portare ingentissime quantità di metano verso l’Europa, metano che non necessariamente deve provenire dai giacimenti ivi presenti. Il Mediterraneo infatti può ospitare sul suo fondo gasdotti che provengono dal Caucaso, dalla Persia, dal paesi del Golfo. Ed è su questo aspetto geografico e geopolitico che la Turchia di Erdogan pensa di costruire quella sua vita economica e quella indispensabilità strategica che potrebbe portare Ankara (o forse Istanbul) a diventare veramente la capitale di un nuovo impero. È funzionale a questo tentativo l’accordo ottenuto da Erdogan con il governo libico di Tripoli, accordo secondo il quale la Turchia e Libia condividerebbero il confine di una zona economica esclusiva marittima in grado di tagliare letteralmente in due il Mediterraneo. Chiunque volesse posare un gasdotto che attraversasse in Mediterraneo dovrebbe fare i conti con la volontà turca e quindi anche con le condizioni turche. Tuttavia questa arbitraria decisione di identificare un confine marittimo comune tra Turchia e Libia si scontra con la presenza, fisica e reale, della Grecia e di tutte le isole che appartengono ad Atene nel mar Egeo. La costellazione di isole greche nell’Egeo, e l’imponente presenza dell’isola di Creta, rendono la delimitazione di una zona economica esclusiva tra Turchia e Libia semplicemente un’utopia.
In risposta alla dichiarazione libico-turca riguardante la zona economica esclusiva, Atene e il Cairo hanno siglato poche ore fa un accordo analogo istituendo e delimitando un’altra zona economica esclusiva che relega la Turchia a uno Stato litoraneo, senza possibili pretese di controllo integrale del Mediterraneo orientale.
L’accordo tra Grecia ed Egitto ha alterato un labile equilibrio raggiunto grazie alla mediazione tedesca alcune settimane fa. In quei giorni infatti la Turchia si apprestava a iniziare l’esplorazione petrolifera all’interno di aree rivendicate, anzi possedute, dalla Repubblica ellenica, ci riferiamo in particolare a tratti di mare presenti nella competenza meridionale delle isole greche di Rodi, Karpatos e Kastellorizo. Poco più a nord di tali aree sono previste dal giorno 10 agosto esercitazioni militari turche, che però saranno svolte all’interno delle acque territoriali di Ankara. Il fatto che in quest’area vi sia, o non vi sia, presenza di idrocarburi è del tutto irrilevante, la Turchia con questa azione punta a dimostrare che le isole greche non posseggono una loro zona economica esclusiva.
La strategia di Erdogan potrebbe mimare quanto già accaduto nella zona economica esclusiva di Cipro, quando unità militare turche hanno impedito con la forza le attività di ricerca di una nave italiana, la SAIPEM 2000, inviata nell’area di sua competenza dopo che era stata vinta da parte italiana una concessione di esplorazione emessa dalle autorità cipriote. Allo stesso modo, nei prossimi giorni, Erdogan potrebbe mandare una nave per esplorazioni marittime all’interno della zona economica esclusiva greca, facendo scortare tale unità dalla sua marina militare. Questo atteggiamento Turco è figlio della debolezza italiana che alcuni mesi fa ha concesso ai turchi di prevalere con la forza contro il diritto internazionale.
Siamo assolutamente certi che al contrario dell’Italia la Grecia non permetterà che la violenza prevarichi il diritto e l’indipendenza della Repubblica ellenica. In un tale scenario, e qui dedicheremo un articolo specifico ad un’ipotesi di conflitto nell’area Rodi-Karpatos-Kastellorizo, l’unità dell’Occidente contro i progetti neo-ottomani e contro l’imperialismo Turco sarà fondamentale, non tanto per vincere una guerra, quanto per evitarla.
Nel caso in cui la Grecia sia lasciata da sola a confrontarsi contro i turchi la tentazione per Ankara di usare ancora una volta la forza del Mediterraneo potrebbe essere un richiamo troppo forte da vincere, scatenando così un conflitto armato tra due Stati che da sempre combattono l’uno contro l’altro contendendosi i medesimi territori. Se al contrario l’Europa tutta, l’Occidente tutto, la Nato nel suo complesso, prendesse posizione a difesa della legge e del diritto internazionale e conseguentemente a difesa della Grecia, non assisteremo a nessuna guerra in quanto Erdogan sa benissimo di non potersi confrontare contro un simile schieramento.
Nel nostro intimo attendiamo invece che, come spesso accaduto, alcuni paesi, per prima l’Italia, non prendano posizione a difesa del diritto internazionale e della legge. Spesso Roma tende a schierarsi dalla parte di colui che sembra il più forte e più determinato, già troppe volte abbiamo visto il nostro Paese appiattirsi sulle posizioni turche, cedere alle pressioni di Ankara, non difendere i propri interessi nazionali per il timore di dover ricorrere, anche in maniera molto limitata, allo strumento militare.
Nel malaugurato caso di conflitto tra Ankara ed Atene, la Grecia chiederà aiuto all’Occidente, alla NATO, a noi tutti; speriamo che questa volta, almeno questa volta, i governanti dell’Europa non si girino dall’altra parte, facendo finta che nulla stia accadendo alle porte della nostra Europa, dove un nuovo impero cerca di emergere a discapito nostro, mettendo in discussione ogni aspetto della nostra cultura e della nostra società.
FONTE: http://www.geopoliticalcenter.com/attualita/neo-ottomani-attacco-occidente/
Che cosa succede in Libia tra Usa, Turchia e Russia. L’analisi di Mercuri
Trump sul dossier Libia si è riavvicinato alla Turchia di Erdogan in funzione anti-russa, ossia per limitare la presenza della Russia nel Paese. L’analisi di Michela Mercuri, docente e autrice del saggio “Incognita Libia”.
La notizia più rilevante giunta dal teatro libico la settimana scorsa è costituita senz’altro dalle due dichiarazioni parallele del Governo di Accordo Nazionale e del presidente del Parlamento di Tobruk Aguila Saleh che si dicono pronti a sotterrare l’ascia di guerra e ad avviare trattative di pace.
È un’iniziativa che ha fatto discutere molto, e che ha già subito una secca smentita da parte del portavoce dell’Esercito nazionale libico di Khalifa Haftar, Ahmed al Mismari, che l’ha definita “marketing per i media”.
Ma è un fatto che ora i governi di Tripolitania e Cirenaica si vogliano parlare e abbiano presentato nei rispettivi documenti dettagliate condizioni per il cessate il fuoco e l’avvio di una fase di confronto sul futuro del Paese.
Per capire meglio i contorni di questi fatti, Start Magazine ha sentito Michela Mercuri, docente alla SIOI, all’Università Niccolò Cusano e all’Università di Macerata nonché componente dell’Osservatorio sul Fondamentalismo religioso e sul terrorismo di matrice jihadista e autrice del saggio “Incognita Libia”.
Mercuri, quali sono i principali elementi di novità nelle due dichiarazioni di Serraj e Saleh?
Ce ne sono molti. Il primo è che si tratta di soluzioni proposte da libici dell’Est e dell’Ovest del Paese con una road-map disegnata dai libici. Questo è un elemento importante perché l’esperienza ci insegna che le soluzioni calate dall’alto come le varie conferenze internazionali spesso non funzionano mentre è importante che siano i libici stessi a proporre le soluzioni ideali per risolvere le loro crisi interne.
E il secondo elemento qual è?
Il secondo elemento da mettere in evidenza è che queste dichiarazioni arrivano in parallelo con la ripresa della produzione di petrolio come garantito qualche giorno fa dalle guardie di Haftar. Un accordo legato alla ripresa della produzione può funzionare perché la ripresa della produzione ed un’equa redistribuzione della rendita petrolifera potrebbero essere la base per la stabilizzazione della Libia, visto che in un paese così legato ai proventi del petrolio come la Libia l’economia è strettamente legata alla politica. A questi elementi si aggiungono però alcune criticità.
Quali?
L’accordo proposto dalle due parti in causa esclude attori come Haftar che è molto vicino ad attori esterni come gli Emirati Arabi Uniti che potrebbero rigettare questo accordo che li marginalizzerebbero dal teatro libico.
Come si è arrivati a questo risultato, attribuito da molti alla mediazione Usa?
E’ impossibile negare la longa manus degli Usa in Libia. C’è stato un rientro in grande stile di Trump per ragioni legate evidentemente anche all’imminenza delle elezioni. Trump in particolare si è riavvicinato ad Erdogan tanto che i due hanno messo da parte le loro divergenze per gestire insieme il dossier libico. Questa posizione americana è stata assunta da Trump sicuramente in funzione anti-russa, ossia per limitare la presenza russa nel Paese. Tenendo anche conto che gli americani hanno appena fatto firmare un accordo tra Israele ed Emirati, che sono degli attori fondamentali nel quadrante libico, è facile immaginarsi un impegno a lungo termine degli Usa su questo fronte. L’unico punto interrogativo è quanto gli americani saranno disposti a cedere ai russi che difficilmente se ne andranno pacificamente dalla Libia dopo aver schierato i propri mercenari per ritagliarsi i propri interessi nazionali in Libia. Questo è uno dei punti interrogativi che potrebbe mettere a repentaglio la stabilizzazione del Paese.
Le risulta cambiata la posizione dei vari sponsor delle due parti, quindi Emirati, Qatar, Turchia ecc? Possiamo dire che la bozza di intesa tra Est ed Ovest possa andare bene loro?
Qatar e Turchia hanno indubbiamente hanno consolidato le loro posizioni all’interno del paese e hanno avuto quello che volevano. La Turchia ha già ottenuto a novembre una spartizione delle zone economiche nel Mediterraneo a lei favorevole, e pochi giorni fa ha ottenuto sempre da Tripoli la base di Misurata che le conferisce una proiezione strategica in tutto il Mediterraneo. Turchia e Qatar possono dunque dichiararsi vincitrici e soddisfatte. La Russia sembra aver accolto positivamente questo accordo ma avendo importanti mire nel Paese come ricavarsi una base in Libia, presumibilmente in Cirenaica, cercherà di ottenere questi obiettivi ma ormai da una posizione di svantaggio. Quanto agli Emirati, si tratta degli attori più ostici per il mantenimento di questo accordo. Sono gli attori da convincere perché sono quelli che più hanno speso per sostenere Haftar e con questo accordo sarebbero marginalizzzati dal teatro libico, dunque difficilmente lo accetterebbero così com’è. Da questo punto di vista, gli americani, che hanno una stretta partnership con gli Emirati, potrebbero giocare un ruolo fondamentale.
Nodo controllo petrolio e Sirte; come si sbroglierà? È possibile che alla fine si torni a combattere per Sirte e magari anche per Jufra?
La questione della smilitarizzazione di Sirte e Jufra è legata alla questione petrolifere perché nella sirtica si trovano il 70% delle riserve petrolifere del Paese. La prima ipotesi, che è quella più auspicabile, è che questa smilitarizzazione avvenga, che la produzione continui a fluire. Ma c’è una condizione fondamentale, ossia i proventi devono essere equamente spartite tra gli attori della Tripolitania e della Cirenaica. L’ipotesi al momento dunque è che se dovesse ripartire la spartizione dei proventi del petrolio e se tutti si comporteranno bene non dovrebbero esserci problemi tra queste fazioni.
FONTE: https://www.startmag.it/mondo/che-cosa-succede-in-libia-tra-usa-turchia-e-russia-lanalisi-di-mercuri/
LA GUERRA INFINITA DELL’OCCIDENTE ALL’UMANITA’: DOPO LA LIBIA – SIRIA E IRAN
DI
TONI SOLO
tortillaconsal.com
RILETTURA
Questo articolo è stato scritto nel gennaio 2012 da Toni Solo, editore del sito web Nicaraguano Tortilla con Sal, e rappresenta forse una delle analisi più complete in lingua inglese che riguarda il contesto storico dell’attuale aggressione imperialista contro la Siria e l’Iran, i passaggi (inclusa la fabbricazione del consenso pubblico) che portano alle guerre dell’Occidente, gli insegnamenti da trarre dalla guerra alla Libia, il fallimento della Sinistra internazionale nel mobilitare la solidarietà per le vittime di queste guerre e le implicazioni dei recenti avvenimenti per il mondo “in via di sviluppo”, con particolare attenzione alla progressiva America Latina.– Lizzie Phelan
Dopo la Libia, le ricche oligarchie Europee e Nord Americane continuano le lore secolari guerre contro l’umanità, attaccando adesso Siria e Iran. Esse e i loro alleati non concederanno mai una giusta parte di risorse economiche mondiali alla maggioranza impoverita del globo.
L’inevitabile conseguenza di questa strategia mondiale è un’aggressione interminabile da parte delle nazioni appartenenti alla NATO e dei loro alleati contro qualsiasi governo o movimento politico straniero che si oppone alla loro volontà.
Ciò che è successo alla Libia dimostra come quando trovano le condizioni adatte, le oligarchie antidemocratiche occidentali distruggano Paesi sovrani i cui governi cercano accordi o negoziazioni. Come la Libia, Iran e Siria hanno una lunga e storica esperienza della perfidia imperialista delle maggiori potenze occidentali, Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia. È perciò improbabile che quei Paesi cedano alle richieste della NATO.
Gli iraniani ripresero il controllo del loro Paese dopo la rivoluzione islamica del 1979. In Siria il nazionalismo selvaggio assunse una forma secolare sotto il governo socialista. Sia l’Iran che la Siria hanno cercato di promuovere un forte sviluppo economico, gestendo allo stesso tempo complicate divergenze culturali, etniche e religiose.
Siria – il contesto storico
La Siria, con oltre 23 milioni di abitanti, ottenne l’indipendenza dalla Francia nel 1946. I primi due decenni di indipendenza per la nuova repubblica furono caratterizzati da un susseguirsi di governi instabili. Una coalizione politica sperimentale con l’Egitto alla fine degli anni 1950 non ebbe successo. Infine, il partito socialista Ba’ath prese il potere nel 1963. Poi, nel 1970, Hafez al Assad divenne presidente dopo una lotta di potere interna al governo.
Sotto il governo di Hafez al Assad, la Siria ha consolidato la sua trasformazione attraverso una forte crescita economica basata soprattutto sull’agricoltura e sul petrolio. Dopo il 2000, quando suo figlio Bashar al Assad divenne presidente, la Siria continuò nella sua forte crescita economica, ma i recenti tentativi di mettere a punto riforme liberali in risposta alle critiche dell’opposizione e la pressione straniera hanno avuto poco successo. Gli Stati Uniti e i suoi alleati hanno cercato di sfruttare in modo aggressivo proprio le opportunità create dai tentativi di riforma del governo siriano.
Dal momento della sua fondazione nel 1948, il governo sionista d’Israele ha continuamente minacciato la Siria di aggressione militare; da allora il Paese ha subito attacchi aerei da parte di Israele in diverse occasioni nel corso dell’ultimo decennio. L’invasione israeliana e l’occupazione del vicino Libano nel 1982, ha seriamente minacciato gli interessi della Siria. Il governo siriano ha ricambiato con un proprio intervento militare. L’occupazione israeliana del sud del Libano si è conclusa solo nel 2000, dopo decenni di feroce resistenza in gran parte organizzata dal movimento politico-militare islamico di Hezbollah, un alleato fondamentale sia della Siria che dell’Iran.
Contemporanemente alla minaccia rappresentata dall’occupazione israeliana del Libano, la Siria è anche stata costantemente tormentata dalla protratta occupazione di Israele delle Alture del Golan, un territorio siriano requisito da Israele nel 1967 e da questi tuttora illegalmente detenuto. Quell’occupazione è stata condannata dalla Risoluzione ONU 497, una delle innumerevoli risoluzioni ONU violate con tracotanza dal governo sionista di Israele sotto la protezione dei suoi principali alleati militari, gli Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna. Per tutti gli scopi pratici, Israele è stato a lungo un membro de facto della NATO. È stato in questo contesto storico che la Siria ha mantenuto una significativa presenza militare in Libano fino al 2005.
Nel febbraio di quell’anno una potente autobomba fu usata per assassinare il leader politico libanese Rafik Hariri, notoriamente critico della Siria. Le potenze occidentali al Consiglio di sicurezza dell’ONU sollecitarono l’avvio di un tribunale speciale che indagasse sull’omicidio. L’assassinio di Hariri è stato sfruttato dagli alleati politici dei Paesi NATO in Libano e nella regione per forzare il ritiro della Siria dal Libano. Da allora la NATO e i suoi alleati locali, tra cui l’Arabia Saudita e le monarchie feudali sue amiche degli Stati del Golfo, hanno usato il Tribunale speciale delle Nazioni Unite per intimidire e minacciare la Siria e i suoi alleati, principalmente Hezbollah del Libano.
Il Tribunale Speciale delle Nazioni Unite, dopo aver inizialmente nutrito sospetti contro la Siria, ha recentemente spostato il suo obiettivo su di Hezbollah. Non ha mai neppure preso in considerazione le gravi e plausibili prove che suggerivano il coinvolgimento israeliano nell’omicidio di Hariri. Tale comportamento da parte del Tribunale Speciale delle Nazioni Unite verso il Libano ricorda molto da vicino quello che successe nel caso dell’attentato terrorista di Lockerbie, ingiustamente manipolato per scopi politici a danno della Libia.
Come l’Iran, e a differenza della Libia, la Siria ha trovato un forte sostegno diplomatico da parte di Russia e Cina, così come di Paesi latino-americani tra cui Brasile, Cuba, Nicaragua e Venezuela. Mentre la NATO e i suoi alleati applicano sanzioni, la Russia ha recentemente stipulato un accordo con la Siria sulla vendita di armi, in un chiaro segno che in pratica ricusa la politica NATO nei confronti dei suoi alleati in quella regione, cioè Siria e Iran. Diplomatici russi hanno pubblicamente condannato come controproducenti le sanzioni applicate alla Siria.
La posizione della Cina è meno netta, data la sua forte dipendenza sull’affidabilità delle forniture di petrolio. Le costanti provocazioni degli Stati Uniti e dei suoi alleati potrebbero indurre l’Iran a chiudere lo Stretto di Hormuz, di grande importanza strategica, per rappresaglia contro le sanzioni. Comportandosi in questo modo, le potenze della NATO creano incertezza circa la garanzia di approvvigionamento di petrolio della Cina e la stabilità del prezzo del greggio sui mercati internazionali. Sarà certamente cosa succede in Siria a determinare la politica dell’Iran.
La recente visita del primo ministro cinese Wen Jiabao in Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi era direttamente mirata ad analizzare questo problema. È evidente che sono la NATO e i suoi alleati nella regione a provocare la grave instabilità dei mercati petroliferi internazionali. Quell’instabilità potrebbe benissimo danneggiare sia Stati Uniti che l’Europa e i loro rivali asiatici se l’Iran stesso decidesse di vendicarsi economicamente.
Il vicino di casa musulmano della Siria, la Turchia, negli ultimi anni ha fatto un doppio gioco più complesso di quello delle tirannie feudali arabe regionali antagoniste alla Siria socialista. Ha cercato di bilanciare i suoi interessi regionali come grande potenza musulmana del centro Asia con le sue aspirazioni di lunga data di aderire all’Unione europea e il suo status di membro della NATO. Per alcuni anni, prima della guerra contro la Libia, la Turchia sembrava essere interessata a sviluppare un legame strategico con Siria e Iran. L’attacco israeliano del 2010 alla Mavi Marmara che trasportava pacifisti in Palestina, sembrava aver esacerbato le divergenze della Turchia con i suoi partner della NATO. Ma nell’attuale crisi in Siria, la Turchia ha decisamente sostenuto l’aggressione della NATO contro il suo vicino. Il governo del primo ministro Erdogan ha permesso la costituzione di gruppi terroristici che attaccano la Siria dal territorio turco.
Il governo turco ha anche sollecitato e attuato dannose sanzioni contro la Siria e la sua gente, come parte della sempre più sinistra campagna per far cadere il governo del Partito Ba’ath siriano guidato da Bashar al Assad. Ma la Turchia ha anche un forte interesse in una robusta relazione con l’Iran. I suoi complessi interessi regionali potrebbero in ultima analisi costringere il Primo Ministro Erdogan a moderare l’attuale politica della Turchia verso la Siria.
L’attuale crisi della Siria
Gli incidenti iniziarono nel gennaio del 2011 e furono un tentativo a livello regionale da parte delle potenze della NATO e dei loro alleati locali di sfruttare la pressione popolare per un cambiamento politico. Nel marzo dello stesso anno, gli eventi nella città di Deraa suscitarono dubbie accuse su come le forze governative avessero aperto il fuoco contro manifestanti disarmati, proprio come era successo in Libia. Terroristi incoraggiati, addestrati e procurati da Arabia Saudita e da alleati come il Qatar e protetti dalla Turchia, hanno attaccato, tra le altre città, le forze di sicurezza governative a Baniyas, Homs e Hama.
Ma il sostegno popolare per il governo siriano e per il presidente Assad resta oltre il 50%, nonostante una massiccia campagna di disinformazione internazionale guidata dai media dei Paesi NATO e perfino di organizzazioni per i diritti umani. La NATO e i suoi alleati regionali hanno cercato in tutti i modi di destabilizzare il governo socialista indipendente della Siria. Il piano strategico del loro intervento è simile a quello utilizzato per distruggere la Libia. Hanno incoraggiato, addestrato e fornito gruppi terroristici eversivi, con una grande campagna di guerra psicologica, sia per nascondere che per giustificare la portata della loro aggressione.
Il Segretario generale dell’ONU, Ban Ki Moon, ha dimostrato ancora una volta, al di là di ogni dubbio, di essere un ignobile servo degli Stati Uniti e dei suoi alleati. Ha trascinato il suo ufficio e l’ONU in profondo discredito facendosi evidente strumento di intervento coloniale in tutto il mondo, al servizio delle élite occidentali. Sotto Ban Ki Moon, l’Organizzazione delle Nazioni Unite sta violando la sua stessa Carta Costituzionale, come ha fatto in Libia, lavorando in complicità con la NATO e la Lega araba, dominata dall’Arabia Saudita, per garantire le condizioni necessarie ad un’aggressione militare contro la Siria, che sarà forse guidata dalla Turchia.
Repressione imperiale
La crisi della Siria non deriva primariamente da appelli popolari per le riforme, ma da pressioni ed interventi esterni. Le tecniche utilizzate contro la Siria da parte delle potenze occidentali e dei loro alleati regionali, sono tutt’altro che nuove. Sono già state usate negli ultimi cinquant’anni per brutalizzare e disumanizzare i palestinesi, per demonizzare Cuba e Corea del Nord e per giustificare un interminabile programma di aggressioni in tutto il mondo. Ora la NATO, con la sua lunga e vergognosa storia di conquiste coloniali, ha aggiornato e perfezionato il proprio kit di strumenti per la repressione imperiale. Prima della Siria, lo hanno usato contro l’Iraq, l’Afghanistan, la Somalia, il Sudan, Haiti, Honduras, Costa d’Avorio e, ultimamente, la Libia. La campagna inizia sempre con una massiccia guerra psicologica messa in atto dalla macchina occidentale dei suoi media e da organizzazioni non governative per giustificare misure aggressive nei confronti di un dato Paese.
La guerra di propaganda consiste invariabilmente di esagerate e distorte accuse di violazioni dei diritti umani, di corruzione e di mancanza di democrazia. Queste accuse solitamente si evolvono fino a sostenere che il governo del Paese in oggetto sta causando una destabilizzazione regionale. Quando le condizioni preparate da questa guerra psicologica lo permettono, l’aggressione si sposta alla sfera economica, con appelli per sanzioni, legali o illegali che siano.
La fase successiva è quella della sovversione armata “per procura”. La perdita di vite provocata da tale sovversione terroristica può quindi essere utilizzata per attivare misure attraverso il sistema giuridico internazionale, se possibile attraverso la Corte penale internazionale, che è evidentemente uno strumento dell’imperialismo occidentale. L’intero processo prepara il terreno per un categorico intervento militare, preferibilmente proposto al Consiglio di Sicurezza dell’ONU da un organismo regionale, manovrato dagli alleati occidentali. La Lega Araba è servita a tale scopo nei confronti della Libia ed è attualmente usata negli sforzi dei Paesi NATO per distruggere la Siria. Sarà quasi certamente utilizzata nel completamento dei preparativi per l’aggressione che sta maturando contro l’Iran. Ma l’Iran è un obiettivo molto più complesso di quanto lo sia la Siria, perché è uno dei più grandi Paesi del mondo in estensione territoriale e con una popolazione di oltre 70 milioni.
Iran
La storia dell’Iran nel secolo scorso, comune alla maggior parte della regione, è stata di oppressione coloniale e di sfruttamento straniero. Dopo l’anti-democratico colpo di stato del 1953, il Paese subì più di 25 anni di dipendenza neocoloniale, complice la dittatura di Mohammed Reza Pahlavi. Pahlavi era un fedele alleato della NATO, nello stampo di dittatori come Anastasio Somoza, Mobutu Sese o Ferdinand Marcos. Il presidente del Nicaragua, Daniel Ortega, si riferisce spesso alle rivoluzioni gemelle del 1979 per ricordare che sia il popolo iraniano che quello del Nicaragua liberarono i loro Paesi da dittature crudeli nello stesso anno.
A seguito della rivoluzione islamica in Iran, le potenze della NATO appoggiarono il presidente iracheno Saddam Hussain nella lunga guerra contro l’Iran che durò dal 1980 al 1988. Ci si dimentica che la Siria è stata uno dei pochi Paesi arabi a sostenere l’Iran durante quella guerra. Gli alleati NATO locali, Israele, Arabia Saudita e le tirannie del Golfo, tutti temono l’Iran, perché l’Iran ha un potente governo impegnato in cambiamenti a livello regionale sulla base degli ideali della propria rivoluzione islamica. Nonostante sia stato moderato nell’applicare la sua politica rivoluzionaria regionale dopo la guerra con l’Iraq, l’Iran difende la sua sovranità senza compromessi. La cinica politica estera dei Paesi della NATO verso l’Iran è passata attraverso varie fasi di difficili compromessi, opportunismi e ostilità culminanti con l’attuale fase di aggressione vera e propria, che poco separa dal conflitto armato. Gli Stati Uniti in particolare, hanno cavalcato il fatto che l’Iran si stia dotando del nucleare come scusa per una guerra.
L’Iran sta cercando di sviluppare l’energia nucleare dagli anni ’50, ma gli Stati Uniti e Israele hanno prima iniziato a sfruttare il programma nucleare dell’Iran come pretesto per le sanzioni aggressive nel 2003, lo stesso anno in cui le potenze della NATO e i loro alleati hanno invaso l’Iraq col falso pretesto delle armi di distruzione di massa. Gli Stati Uniti e i loro alleati hanno sempre usato l’Autorità internazionale delle Nazioni Unite (AIEA) per l’energia atomica politicamente contro l’Iran, usandone le procedure per creare pretesti per un’aggressione economica e militare.
L’attuale Direttore Generale dell’AIEA è Yukiya Amano, considerato ancora più sensibile alle pressioni dei governi dei Paesi NATO che il suo predecessore, Mohamed al Baradei. Possibili modi di attaccare il programma nucleare iraniano sono discussi apertamente sui media occidentali, questo fa parte della costante guerra psicologica contro l’Iran. Attacchi armati hanno preso la forma di assassinii terroristici di scienziati nucleari iraniani, ed altri attacchi facilitati da Israele, membro virtuale della NATO.
La risaputa e immensa ipocrisia dei governi dei Paesi NATO ha raggiunto estremi senza precedenti nel caso dell’Iran. Le potenze della NATO proteggono l’illegale programma nucleare di Israele [secondo le rivelazioni di Mordechai Vanunu, ingegnere nucleare israeliano, al Sunday Times di Londra, già nel 1986 Israele possedeva più di 200 testate nucleari, n.d.t.], ma attaccano l’Iran per lo sviluppo pacifico dell’energia nucleare. Loro e i loro alleati fanno una palese guerra terroristica contro l’Iran usando le stesse organizzazioni terroristiche che essi condannano, come il Mojahedin-e Khalq, così come hanno usato Al Qaeda in Libano, in Libia e ora in Siria.
Analogamente, gli Stati Uniti ed Israele hanno usato la loro altamente sviluppata tecnologia in guerra cibernetica per sabotare la capacità industriale e di ricerca dell’Iran, con l’uso del “malware worm” Stuxnet per danneggiare i sistemi informatici iraniani. Questo tipo di guerra psicologica, falso pretesto per una vera e propria aggressione, le sanzioni economiche e il terrorismo vero e proprio vengono usati contro tutti i governi presi di mira dalle élites dei Paesi NATO e dei loro alleati. Negli anni ’30, un comportamento simile da parte di Germania e Italia venne chiamato col suo vero nome – fascismo. Tuttavia, in termini di capacità di difesa, l’Iran gode di molti vantaggi rispetto alla Siria. Il più ovvio di questi è la sua dimensione, sia territoriale che di popolazione. Il suo ruolo, poi, come uno dei principali fornitori internazionali di petrolio e gas alla Cina e molti altri Paesi, complica i piani della NATO per un attacco militare. Oltre il 30% delle forniture petrolifere internazionali passano attraverso lo Stretto di Hormuz, controllato dall’Iran. La geografia stessa dell’Iran gioca a suo favore, perché, ancora una volta, lo Stretto di Hormuz è una trappola potenzialmente pericolosa per qualsiasi attacco da parte di forze navali della NATO.
La capacità tecnologica missilistica dell’Iran è formidabile. La sua abilità per quanto riguarda la guerra elettronica è stata evidente nella guerra del 2006 tra Israele e Libano. In quell’occasione, Hezbollah, alleato dell’Iran, ha efficacemente neutralizzato la guerra elettronica israeliana e costantemente monitorato le comunicazioni militari israeliane. Per tutti questi motivi, qualsiasi attacco all’Iran sarà sicuramente molto più complesso nella sua progettazione ed esecuzione e di gran lunga più costoso sia in termini finanziari che di vittime per gli aggressori di quanto lo siano state le guerre contro l’Afghanistan, Iraq o Libia. Inoltre, diversi potenti Paesi respingono con forza i chiari preparativi della NATO per un’aggressione militare. Di questi Paesi, la Russia e la Cina sono i più espliciti, ma anche Brasile e India si oppongono ad un’aggressione armata. Tutti questi Paesi, in particolare Russia e Cina, capiscono molto bene che l’aggressione alla Siria e all’Iran è il modo con cui le potenze occidentali del Nord America e dell’Europa sperano di arrestare il loro stesso declino sul piano del potere globale e di prestigio, soprattutto in relazione all’Asia.
Da parte sua, l’India ha un rapporto commerciale molto forte con l’Iran, che le fornisce circa il 14% del suo fabbisogno petrolifero. L’India sta anche collaborando con l’Iran ad un importante progetto, la costruzione di un gasdotto per il trasporto di gas iraniano fino al Pakistan. Nonostante abbia recentemente aderito alla pressione degli Stati Uniti di votare contro l’Iran sulla questione del programma nucleare, l’India sostiene il diritto dell’Iran di sviluppare energia nucleare.
È improbabile che l’India si schieri in un potenziale conflitto armato tra l’Iran, la NATO e i suoi alleati locali. Allo stesso modo, il Brasile ha fortemente sostenuto il diritto dell’Iran di sviluppare energia nucleare e Dilma Rousseff sembra propensa a mantenere questa posizione. Tanto per confondere ancor più le cose in quel territorio, ultimamente la Turchia si è rifiutata di appoggiare nuove sanzioni contro l’Iran dei Paesi NATO che non fossero autorizzate dalle Nazioni Unite.
Questo conferma enfaticamente che l’Iran non è quella caricatura di paria isolato presentata dai media occidentali. È facile dimenticare che l’Iran probabilmente aderirà alla Organizzazione Cooperativa di Shanghai (SCO). L’Iran è impegnato in importanti progetti di costruzione ferroviaria con i membri della SCO Turkmenistan e Kazakistan. La SCO è composta da Cina, Russia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan, Paesi che totalizzano quasi un quarto della popolazione mondiale. Qualsiasi attacco contro l’Iran, una grande ed influente potenza regionale, avrà effetti estremamente pericolosi e imprevedibili per l’economia mondiale e ripercussioni devastanti nella regione. Questa realtà potrebbe benissimo portare i benpensanti nei Paesi della NATO a resistere alle pressioni da parte degli alleati locali, come Israele e Arabia Saudita, a scatenare un attacco militare contro l’Iran.
Lezioni dalla Libia
Da parte loro, Iran e Siria potrebbero rimpiangere il sostegno dato alla NATO nel golpe controrivoluzionario e alla guerra di aggressione coloniale in Libia. Il regime fantoccio del Consiglio Nazionale di Transizione insediato in Libia dalla NATO ha ripagato l’Iran e la Siria con la chiusura dell’ambasciata siriana di Tripoli e col riconoscere il Consiglio Nazionale della Siria (SNC, all’opposizione in Siria), come suo governo legittimo. Alberto Cruz del CEPRID ha fatto notare che forze speciali britanniche si vantano persino sul loro sito web di aver armato e addestrato i combattenti libici di Al Qaeda sul territorio turco per attaccare il popolo siriano.
I fatti accaduti di recente in Libia hanno rafforzato la lezione di lunga data che gli oligarchi nordamericani ed europei saranno sempre disposti a distruggere Paesi indipendenti che resistono al loro volere. La guerra libica ha anche dimostrato che, paradossalmente, l’Iran condivide con i potenti della NATO l’abbandono dei principi fondamentali delle Nazioni Unite di non-aggressione e di auto-determinazione dei popoli. Tale abbandono ha permesso la deprecabile applicazione del mal concepito principio di “responsabilità di proteggere”. Di conseguenza ciò ha portato direttamente alla distruzione della Libia, all’aggressione in corso della Siria e all’assalto militare contro l’Iran che sta maturando. Come la Russia e la Cina, oggi l’Iran sta in parte soffrendo le conseguenze del suo contributo alla distruzione della Libia. È giusto sostenere che se Russia, Cina e Iran avessero difeso il principio di non-aggressione nel caso della Libia, le potenze della NATO non sarebbero mai state in grado di destabilizzare la Siria così facilmente. La mancata difesa dei principi fondanti delle Nazioni Unite da parte dell’Iran è stata uguagliata dal completo collasso di quella che viene comunemente indicata come la Sinistra internazionale. Con pochissime eccezioni, gli opinionisti radicali, progressisti, socialisti, anarchici hanno o apertamente sostenuto la guerra coloniale della NATO alla Libia o se ne sono lavate le mani. Personaggi come Noam Chomsky, Ignacio Ramonet, Gilbert Achcar, Ramsy Baroud e Al Giordano, tra molti altri, hanno appoggiato il pretesto per la guerra contro il governo libico, anche se questo aveva il chiaro sostegno della maggioranza del Paese.
Il fallimento delle Sinistre internazionali è stato sia morale che intellettuale. Quello intellettuale è stato il classico “semina vento e raccoglierai tempesta”. A modo loro, Chomsky, Ramonet, Giordano e gli altri si sono in gran parte guadagnati la loro reputazione criticando i meccanismi che creano l’opinione pubblica convenzionale, ma, riguardo alla Libia, hanno invece accettato superficialmente le informazioni prodotte in totale consonanza con stile e contenuto delle più importanti operazioni di vendita di guerra psicologica.
Questa profonda ipocrisia intellettuale è stata accompagnata da un crollo morale della Sinistra internazionale nel non difendere la Libia e la sua gente contro una spietata aggressione coloniale militare. In generale, la Sinistra internazionale ha preso una serie di posizioni neocoloniali. Tutte condividevano l’ipotesi neocoloniale che la propria cultura e la propria società offrissero migliori modelli per la popolazione della Libia che non il sistema appoggiato dalla maggior parte dei libici e da essi stessi ideato. Non fu fatto alcun serio tentativo per sostenere i negoziati di pace, come era stato proposto dall’Unione Africana e dei Paesi dell’ALBA. In Nord America, il sostegno della Sinistra nera per il governo libico è stato ignorato. In Europa, prestigiosi media di sinistra quali Rebelión hanno censurato le opinioni che contestavano il golpe contro-rivoluzionario indetto dal Consiglio Nazionale di Transizione.
La demonizzazione di Muammar Gheddafi e la censura per omissione della Sinistra era indistinguibile da quella mediatica abituale. Chiunque dichiarasse solidarietà al governo libico e al suo popolo è stato tacciato di sostenere la dittatura. La Libia ha dimostrato come la funzione sistemica delle classi intellettuali e gestionali della Sinistra internazionale sia di camuffare la loro collocazione, complicità e definitiva legittimazione del sistema stesso che in apparenza rifiutano. Hanno accettato false informazioni, completamente in linea con la propaganda imperialista. Hanno collaborato all’abbandono dei principi fondanti delle Nazioni Unite. Hanno effettivamente accettato l’introduzione aggressiva del principio imperialista di “responsabilità di proteggere”. Discussioni sulla conquista della Libia da parte della NATO hanno dimostrato come in Nord America e in Europa la Sinistra internazionale sia essenzialmente un insieme di falsità di diverso rilievo ed efficacia. L’opportunità delle finzioni fornite da siti web vicini a individui come Ramonet, Chomsky e il resto è che fungono da intermediari con i network liberali e progressivi fedeli al capitalismo aziendale e ai centri di potere imperiale. Se si considera la loro capacità di raggiungere un significativo potere politico, le varietà nordamericane ed europee di finta Sinistra hanno vissuto per decenni con il fallimento. Il loro collasso morale e intellettuale sulla Libia non avrebbe dovuto sorprenderci.
Ciò che è stato e resta così singolare è come la Sinistra internazionale si identifichi con la falsa retorica delle stesse organizzazioni che pretende di criticare. Per la gente del Nicaragua, questo arriva a spiegare il riluttante riconoscimento del grande progresso ottenuto sotto la presidenza di Daniel Ortega per conto della maggioranza impoverita. Come la Libia, anche il Nicaragua è stato vittima di pregiudizi di classe e culturali della Sinistra internazionale.
Implicazioni per l’America Latina
Questi pregiudizi hanno reso impossibile alla maggior parte di ciò che passa per Sinistra in Nord America e in Europa di rinnovare se stessa in modo abbastanza convincente da guadagnarsi il sostegno della maggioranza, nonostante la cronica crisi economica dei loro Paesi. La crisi sistemica dell’Occidente minaccia la capacità futura degli Stati Uniti e dei suoi alleati di proiettare la loro potenza globalmente e di mettere un freno al loro personale declino nei confronti di Paesi asiatici quali Cina e India. Questo è il motivo per cui la NATO e i suoi alleati hanno distrutto la Libia ed ora minacciano Siria e Iran. Un così mutevole contesto internazionale presenta sfide enormi per i popoli dell’America Latina e i loro leader. Ciò dimostra la saggezza strategica e l’acume tattico della leadership politica dei Paesi dell’ALBA nello sviluppare rapidamente una base di commercio e cooperazione solidale e nel rafforzare l’integrazione regionale a lungo termine. È chiaro però che l’America Centrale e i Caraibi sono bersagli vulnerabili a future aggressioni da parte degli Stati Uniti. Gli USA e i loro alleati hanno appoggiato i colpi di stato di Haiti e Honduras, ed erano attivi nei tentativi di golpe in Venezuela, Bolivia ed Ecuador. Potrebbero anche non riuscire a rovesciare il governo in Siria e decidere che in caso di attacco militare all’Iran, le probabilità siano loro contrarie, ma sia che attacchino o meno l’Iran, gli Stati Uniti e i loro alleati europei stanno già molto probabilmente perfezionando la loro posizione aggressiva nei confronti dei governi indipendenti dell’America Latina.
Toni Solo
Fonte: http://lizzie-phelan.blogspot.it
Link: http://lizzie-phelan.blogspot.it/2012/03/wests-endless-war-on-humanity-after.html
FONTE: https://www.altrainformazione.it/wp/2012/04/24/la-guerra-infinita-delloccidente-allumanita-dopo-la-libia-siria-e-iran/
COLPIRE IL LIBANO PER COLPIRE L’EURASIA
“Abbiamo colpito una cellula, ed ora colpiremo i fornitori. Faremo ciò che è necessario per difendere noi stessi. Suggerisco a tutti loro, Hezbollah incluso, di considerare ciò”.
(Benjamin Netanyahu su Twitter, 4 agosto 2020)
L’ultimo numero di “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”, dall’emblematico titolo Il virus acceleratore, ha cercato di mettere in luce le potenziali prospettive geopolitiche della fase postpandemica. A prescindere dall’origine della crisi epidemica, sia essa naturale (un “incidente biologico”) o generata dall’uomo (fuga da laboratorio o atto deliberato di guerra batteriologica), tutti i contributi pubblicati sulla rivista hanno convenuto sul fatto che la crisi abbia generato l’“accelerazione” di taluni processi che, in un’altra situazione, con tutta probabilità, avrebbero richiesto mesi o anni prima di emergere e di mostrarsi con tutta la loro forza: uno su tutti, l’inasprimento dello scontro USA-Cina. Non si può dimenticare, infatti, che, solo nel gennaio di questo stesso anno, le due potenze raggiunsero un accordo che il presidente nordamericano Donald J. Trump definì nei termini di una grande vittoria della sua diplomazia.
Il medesimo discorso si potrebbe facilmente applicare a quanto avvenuto in questi giorni in Libano. Al momento non è dato conoscere l’origine dell’esplosione che ha letteralmente raso al suolo il fulcro dell’attività commerciale del Paese levantino. Tuttavia, sia essa accidentale o deliberatamente organizzata, con tutta probabilità scatenerà una reazione che farà riemergere (con violenza raddoppiata) le mai sopite tensioni interne allo Stato e che, naturalmente, avrà profonde ripercussioni geopolitiche.
È ben noto che il Libano, oramai da decenni, rappresenta un territorio di contesa tra “Occidente” ed Eurasia. Dopo quella che è stata indebitamente definita come la “primavera libanese” del 2005, diversi Paesi “occidentali” (tra cui Francia, Stati Uniti e Regno Unito)[1], insieme ad Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, organizzarono un gruppo, noto con l’infausto nome di “Friends of Lebanon”, che si proponeva di garantire aiuti finanziari a Beirut in cambio della sostanziale annessione del Paese alla sfera di influenza dell’“Occidente”[2]. Per anni Sauditi ed Emiratini hanno trattato il Libano come una semicolonia, nutrendo una classe politica palesemente corrotta e costruendo grattacieli, locali notturni e sale da gioco.
Questi aiuti sono stati progressivamente tagliati nel momento in cui il Paese ha iniziato a perseguire un orientamento geopolitico decisamente differente rispetto ai desideri occidentali. In questo, naturalmente, Hezbollah ha giocato un ruolo fondamentale, avendo rovinato sia i piani di annessione sionista della parte meridionale del Paese dei Cedri con la vittoria del 2006, sia il progetto di distruzione della Siria.
Non sorprende il fatto che gli Stati Uniti, ad esempio, abbiano inviato le condoglianze per i morti dell’“incidente” al porto di Beirut all’ex primo ministro libanese Saad Hariri (ben noto “fantoccio” saudita) ma non a Hasan Diab, attualmente capo di un governo sottoposto alle dure misure restrittive di quel “Caesar Act” che prevede sanzioni nei confronti di persone e istituzioni che intrattengono rapporti con il Partito di Dio[3].
In un documento dal titolo Strenghtening America & Countering Global Threats, prodotto e rilasciato nel giugno di quest’anno da un centro studi nordamericano di orientamento repubblicano-conservatore e vicino all’attuale amministrazione USA, vengono delineate le linee guida di quella che dovrebbe essere la politica estera degli Stati Uniti negli anni a venire. Oltre all’interessante sezione dedicata all’idea di “mantenere un ordine internazionale basato sui valori americani” (cosa che contraddice la propaganda isolazionista costruita attorno all’amministrazione Trump), particolare attenzione merita la parte, corredata di precise carte geografiche, in cui viene descritta la strategia da adottare per limitare l’influenza iraniana nel Vicino Oriente.
A questo proposito, alla pagina 50 del documento si può osservare una mappa in cui vengono segnati quei “ponti terrestri” (assolutamente da distruggere) che dall’Iran arrivano fino al Mediterraneo. E nella medesima sezione, per quanto concerne il Libano, si legge: “Congress should prohibit an IMF bailout of Lebanon […] Lebanon is currently seeking a bailout because of its dire economic situation […] Such a bailout would only reward Hezbollah at a time where protesters in Lebanon are demanding an end to corruption and standing against Hezbollah’s rule”[4].
Sorvolando sulla percezione abbastanza distorta della politica libanese palesata da queste affermazioni[5], ciò che appare evidente è la volontà di applicare al Libano una strategia per certi versi simile a quella utilizzata sia in Iran sia in Venezuela: strangolare il Paese economicamente per generare malcontento sociale.
Esacerbare le tensioni sociali dovute alla crisi economica, ridare adito alle mai sopite diatribe di ordine settario, far passare Hezbollah come mero strumento geopolitico per la penetrazione iraniana in Libano (magari attribuendo ad esso la responsabilità di quanto avvenuto), sono tutte azioni che si prestano alla preparazione di una nuova potenziale guerra civile che, qualora ben gestita, potrebbe portare in dote la pur difficile neutralizzazione del Partito di Dio[6].
Appare evidente che l’“incidente” al porto di Beirut non farà altro che accelerare tutte queste dinamiche. E la stessa tempistica di quanto avvenuto non può che far sorgere qualche dubbio sulla natura dell’evento.
Si è scelto di porre all’inizio di questo articolo una quanto meno “profetica” dichiarazione del primo ministro israeliano lanciata sulla piattaforma sociale di Twitter a poche ore dall’esplosione nella capitale libanese.
Le ragioni di tale scelta sono legate al fatto che, solo a luglio di quest’anno, un centro di ricerca israeliano aveva indicato l’area portuale di Beirut come un potenziale obiettivo militare della Forza di difesa israeliana. Qui ed in altre aree (anche residenziali) della capitale, secondo l’Alma Research and Education Center, erano (e sono tuttora) posizionati siti per lo stoccaggio ed il lancio di missili da parte di Hezbollah[7].
Tuttavia, la distruzione dell’infrastruttura non rientra nel novero di semplice eliminazione delle capacità di reazione militare del nemico. Questa, almeno in linea teorica, potrebbe avere delle ben più radicate motivazioni di natura prettamente geostrategica.
Come riportato da Stefano Vernole nel numero 2/2020 di “Eurasia”, la Cina aveva scelto il Libano (a discapito di Israele) come uno dei terminali mediterranei del progetto di cooperazione eurasiatica noto come Nuova Via della Seta. “La Cina – afferma Vernole prendendo spunto dalle dichiarazioni dell’economista Kamal Hadamis – intende costruire una ferrovia per connettere il porto libanese di Tripoli alla città siriana di Homs (coinvolgendo anche Beirut ed Aleppo), generando così un corridoio che consentirebbe di ridurre i tempi di trasporto delle merci e di evitare il transito dal canale di Suez, già intensamente navigato”[8].
Inoltre, sempre nel mese di luglio, Cina ed Iran hanno raggiunto un accordo di cooperazione strategica pluridecennale che ha dato ulteriore slancio alla progettualità di integrazione eurasiatica e mina alle fondamenta la strategia regionale nordamericana. Di fatto, tale accordo, considerando anche che a partire da ottobre avrà anche una sua estensione in ambito militare, rappresenta una seconda ramificazione di quell’asse islamico-confuciano (la prima può essere ben rappresentata dalla già ampiamente avviata collaborazione tra Cina e Pakistan) che viene percepito da molti analisti filoatlantisti alla stregua di una minaccia esistenziale per l’egemonia nordamericana[9].
In questo senso, sono chiare le parole di Ali Aqa Mohammadi (consigliere della Guida Suprema Ali Khamenei): “La coordinazione tra Iran e Cina può condurre la regione fuori dalle mani degli USA, rompendo la sua tentacolare rete regionale”[10].
Alla luce di questi fatti appare evidente che la distruzione dell’infrastruttura libanese, inserita in un quadro più ampio, costituisce non solo un punto di partenza per una nuova destabilizzazione del Levante e dell’intera area mediterranea, ma anche un avvertimento “gangsteristico” ad ogni potenziale rafforzamento della cooperazione regionale ed al patrocinio sino-iraniano sulla stessa.
A questo proposito, l’ambasciatrice nordamericana in Libano è stata abbastanza chiara mettendo in guardia il governo libanese da un eccessivo avvicinamento con Pechino. Essa, infatti, ha affermato che “voltarsi verso est non risolverà tutti i problemi del paese ed ha avvertito che questo riavvicinamento potrebbe aver luogo a spese della prosperità, stabilità e sostenibilità finanziaria del Libano”[11].
Impedire che il Paese si rivolga ad Oriente per risolvere i suoi enormi problemi strutturali rappresenta in questo momento il principale obiettivo dell’Occidente a guida nordamericana. In tal senso, non si può tralasciare il fatto che il Libano avrebbe potuto rappresentare anche un trampolino di lancio per la ricostruzione della vicina Siria: altra eventualità assolutamente deprecabile tanto per gli Stati Uniti (che ne occupano ancora una cospicua porzione di territorio) quanto per il vicino Israele.
Oggi più che mai, risuonano ancor più significative le parole che Gilles Munier scrisse nella dedica al martirio del militante europeo nei fedayyin palestinesi Roger Coudroy: “la lotta contro il sionismo oltrepassa ampiamente le frontiere della Nazione Araba […] Israele, pilastro dell’imperialismo anglosassone, è una minaccia permanente per tutti i popoli rivieraschi del Mediterraneo”[12].
NOTE
[1]Non a caso, il primo a manifestare la volontà di “aiutare” il popolo libanese è stato il presidente francese Emmanuel Macron, recatosi a Beirut pochi giorni dopo l’“incidente” ed accolto da una surreale petizione che proponeva per il Libano una sorta di nuovo mandato coloniale gestito da Parigi.
[2]Si veda K. Traboulsi, Beirut explosion: be angry, not just sad, for Lebanon, www.english.alaraby.co.uk.
[3]Tre membri di Hezbollah partecipano all’esecutivo dell’ex professore di ingegneria dell’Università Americana di Beirut. Tuttavia è bene ricordare che anche Saad Hariri, prima delle sue dimissioni, aveva all’interno del suo governo rappresentanti del Partito di Dio. Ciò dimostra che, in qualunque caso, è impossibile governare il Paese levantino senza tenere in considerazione una forza che rappresenta un’ampia fetta della popolazione. In “Occidente” si continua a considerare il Movimento di resistenza libanese come una semplice emanazione degli interessi geopolitici iraniani nel Paese dei Cedri. Al contrario, Hezbollah è una forza politico-militare profondamente radicata in Libano, tanto da risultare indispensabile per la sicurezza stessa della Nazione. Non si può dimenticare il ruolo svolto dall’ala militare del Partito nella difesa dei confini libanesi dalle potenziali penetrazioni dei gruppi terroristici che, a partire dal 2011, hanno messo a ferro e fuoco la Siria.
[4]Strenghtening America & countering global threats, www.docdroid.net.
[5]Appare evidente che Hezbollah, pur avendo un ruolo di primaria importanza nella politica del Paese levantino, non governa affatto il Libano. Tuttavia, è assolutamente utile far passare in “Occidente” questo messaggio per dare sfogo a quel ben noto meccanismo propagandistico che porta il pubblico a parteggiare per i “rivoltosi” e per azioni decise contro una forza politico-militare che nulla ha da spartire con i presunti valori occidentali. Non va tralasciato, inoltre, che i mezzi di informazione sionisti hanno apertamente cercato di attribuire la responsabilità dell’esplosione ad un commando di Hezbollah per scatenare la rabbia popolare nei confronti del Movimento politico libanese.
[6]A questo proposito si può vedere M. Young, Destroying Lebanon to save it, www.carnegie-mec.org.
[7]Israeli research center finds 28 Hezbollah missile launch sites, www.jpost.com.
[8]S. Vernole, Siria: inizio di ricostruzione o guerra di logoramento, “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” 2/2020.
[9]È bene ricordare che anche la collaborazione tra Cina e Iran è radicata nel tempo. Pechino, infatti, fornì aiuto militare alla neonata Repubblica Islamica sin dalla guerra contro l’Iraq degli anni ’80 del secolo scorso.
[10]Iran-China deal to ditch dollar, bypass US sanctions: Leader’s advisor, www.presstv.com.
[11]Il Libano si rivolge alla Cina per risolvere la sua crisi finanziaria, www.parstoday.com.
[12]G. Munier, “La Nation Européenne” , n. 29 novembre 1968 (trad. C. Mutti).
FONTE: https://www.eurasia-rivista.com/colpire-il-libano-per-colpire-leurasia/
Guerre batteriologiche e guerre di greggio
L’emergenza Coronavirus sta assumendo sempre più i connotati di una guerra ibrida ad ampio spettro: se in Europa la pandemia si è presto tramutata in assalto speculativo-finanziario, sul mercato del greggio si è evoluta in un tracollo dei prezzi dovuto all’apparente dissidio tra Russia ed Arabia Saudita. Vero obiettivo russo è spazzare via l’industria del petrolio di scisto americana su cui si basa l’autosufficienza energetica americana. Visti il rapido deteriorarsi della situazione internazionale, è difficile che gli USA rinuncino al petrolio di scisto: già si parla di un embargo al petrolio russo e forse a quello saudita. Il mondo si muove sempre meno secondo le logiche del libero mercato.
Mercato mondiale in dissoluzione
Più le settimane, passano più l’emergenza Coronavirus mostra la sua vera natura di attacco bioterroristico con finalità squisitamente geopolitiche: l’emergenza sanitaria è infatti sopravanzata, giorno dopo giorno, da una serie di “effetti collaterali” che costituiscono le vere ragioni dietro l’ offensiva angloamericana. Iniziata come attacco focalizzato contro la Cina, così da mandarne in stallo l’economia e tentare di destabilizzarne il sistema politico, l’epidemia è presto evoluta, grazie alle dinamiche messe in moto dalla malattia infettiva, in una più articolata offensiva contro l’intera economia globalizzata, in un certo senso “completando” la guerra commerciale sino-americana che aveva occupato buona parte del 2019: come l’Inghilterra di inizio Novecento era stata messa in allarme dall’industria tedesca sempre più competitiva ed agguerrita, così gli Stati Uniti si sono resi conto di stare progressivamente perdendo il vantaggio tecnologico sulla Cina (il 5G è stato probabilmente la spia di allarme) ed hanno perciò sferrato un attacco all’intera filiera produttiva mondiale, ruotante proprio attorno all’ex Impero Celeste. Pechino ha retto egregiamente il colpo, circoscrivendo e debellando l’epidemia in poche settimane, ma si trova ora a fare i conti un’economia mondiale più caotica che mai: la ripartenza non potrà che dipendere da un potenziamento dell’enorme mercato interno. I sogni anglosassoni di una crisi finanziaria della Cina ignorano deliberatamente la sua struttura finanziaria: senza alcun rilevante debito verso l’esterno, con uno yuan sotto stretto controllo delle autorità, Pechino è quasi autarchica dal punto di vista finanziario e si può affidare al “circuito monetario” per rilanciare l’economia, proprio mentre la pandemia, passata l’Oceano, raggiunge infine il luogo da cui era partito l’attacco biologico: gli Stati Uniti.
La situazione è molto più fosca in Europa, dove gli angloamericani sono ricorsi alla classica “peripheral strategy” delle ultime due guerre mondiali: attaccare la periferia del continente per risalire verso il centro. L’attacco si è perciò concentrato sull’Italia (attualmente principale “focolaio” europeo con circa 3.000 deceduti), “ventre molle” dell’eurozona, col chiaro intento di portare al collasso l’economia e, tramite il default del Paese, affondare l’intera Unione Europea. Si noti che, nella nostra analisi geopolitica di fine 2019 avevamo previsto un simile sviluppo, pur ignorando che nei primi mesi del 2020 sarebbe scoppiata la pandemia con annesso terremoto finanziario. L’operazione, come abbiamo sottolineato, è facilitata dalla gestione del nuovo governatore della BCE, Christine Lagarde, che, anziché interessarsi della stabilità dell’eurozona, pare voglia assecondare la strategia di Washington, dove ha lavorato per otto anni come capo dell’IMF. Come facilmente prevedibile, il Coronavirus, oltre che scatenare una tempesta sul mercato azionario ed obbligazionario europeo, ha duramente colpito le colonne portanti dell’Unione Europea: la libertà di movimento delle persone tra i diversi Paesi è stata momentaneamente sospesa e c’è la tendenza a procedere in ordine sparso anche per gli inevitabili salvataggi delle imprese strategiche. L’Unione Europea, a differenza della Cina, paga sia il prezzo di non essere uno Stato centralizzato ma un organismo sovranazionale, sia di essere diretta da personale che sembra più attento agli interessi angloamericani che a quelli continentali. Ciò non toglie che un suo collasso caotico paralizzerebbe l’Europa per diversi anni e non sono escludili neppure sbocchi di natura militare.
Colpendo l’economia globalizzata nel suo complesso, era però inevitabile che l’emergenza Coronavirus si tramutasse presto in una guerra ad ampio spettro, senza risparmiare nessun ambito né settore: tipico, a questo proposito, è la “guerra del greggio” che è esplosa nelle ultime settimane, parallelamente al precipitare della situazione in Italia ed in Europa. La crisi innescata dalla pandemia ha causato una contrazione dei consumi di petrolio senza precedenti: dai 60$ dollari al barile di inizio anno si è passati ai 45$ dollari di inizio. La riunione dell’OPEC a Vienna del 4 marzo avrebbe dovuto attuare una serie di tagli alla produzione per contenere la caduta del prezzo: invece è accaduto esattamente l’opposto. Russia e Arabia Saudita hanno apparentemente “rotto” l’alleanza stretta nel 2016, alleanza che aveva consentito di frenare la caduta dei prezzi dovuta all’irruzione del petrolio di scisto americano e canadese, e hanno stabilito di riversare sul mercato tutto il greggio producibile: l’effetto è stato un ulteriore tracollo del prezzo del barile, che ha toccato il 18 marzo il prezzo di 20$ al barile, un terzo rispetto al prezzo di inizio anno. La mossa, concepita dai russi e supportata dai sauditi (e gradita dai cinesi, cui serve un’energia a buon mercato per rimettere in moto la loro macchina industriale), mira proprio ad affondare l’industria del petrolio di scisto americana fiorita dal 2010 in avanti, così da scaricare sugli Stati Uniti i danni generati al settore energetico dall’emergenza Coronavirus: l’industria del petrolio di scisto è anti-economica sotto i 35$ al barile ed il precipitare dei prezzi rischia di infliggere un colpo durissimo ad un settore che, complessivamente, vale l’8% del PIL americano.
Ma c’è ben altro, la crisi dello “shale oil” americano mina alle fondamenta la strategia di sicurezza energetica americana, che si era basata proprio sul petrolio di scisto per raggiungere “l’autarchia” e svincolarsi dai produttori mediorientali: da qui la reazione scomposta di Washington, dove, dopo il collasso di questi ultimi giorni, si sono alzate addirittura voci a favore di un embargo ai danni della Russia o di nuovi dazi al petrolio straniero: in sostanza si tratterebbe di conservare “l’autarchia energetica” scaricandone il costo sul consumatore finale. I produttori di scisto americano sarebbero mantenuti sul mercato, anche se economicamente inefficienti, grazie al divieto di importate greggio straniero: un dato che conferma come l’economia, persino nei “liberali” Stati Uniti, stia passando ormai definitivamente in secondo piano rispetto a priorità militari-strategiche. Il mondo post-Coronavirus risponde sempre meno alle logiche del libero mercato, e sempre più a quelle geopolitiche: in Europa si tarda ancora a capirlo.
CULTURA
MASSE, DISORDINE E MALAFEDE
Nel breve saggio Il tempo della malafede, che dà il titolo a un’omonima antologia di scritti (Edizioni dell’asino, 2013), Nicola Chiaromonte prende spunto da Josè Ortega y Gasset per svolgere alcune considerazioni, come suo solito profonde e poco convenzionali, sulla società contemporanea, ovvero su quel tipo di società caratterizzata dalla presenza decisiva delle masse. Il filosofo spagnolo analizza il fenomeno delle masse, protagoniste della storia umana almeno dalla rivoluzione francese in poi, partendo da un’esperienza visiva, e cioè dal “fatto dell’agglomerazione, del pieno”, che descrive così: “le città sono piene di abitanti, le case piene d’inquilini, gli alberghi pieni di ospiti, i caffè pieni di clienti, i parchi pieni di gente che passeggia, i gabinetti dei medici famosi pieni di malati, i teatri pieni di spettatori e le spiagge piene di bagnanti. Trovar posto, che in passato, generalmente, non era un problema, oggi comincia a essere un problema quotidiano”.
Partendo da questa considerazione del filosofo castigliano, Chiaromonte osserva che quest’esperienza del non trovar posto “appare a prima vista un’esperienza angosciosa. Vuol dire subito sentirsi esclusi, o almeno rischiare di esserlo: gli altri sono già lì, occupano tutto, o quasi tutto, lo spazio disponibile. Per trovar posto occorre uno sforzo: bisogna farsi posto, lottare non già per la Vita in genere o contro una difficoltà naturale, ma per uno scopo mirabilmente infimo, che è occupare il poco spazio che ci è necessario”. Inoltre, la vita in comune c’impone, nell’epoca delle masse, di subire tutta una serie d’imposizioni normative e burocratiche e una serie di obblighi impliciti che invadono completamente l’esistenza quotidiana, tanto che si può avvertire come un dovere persino quello di divertirsi.
Ognuno tende a imitare i modelli di svago che solo pochi privilegiati possono soddisfare pienamente, con la conseguenza che si registra un’insoddisfazione generale e diffusa. Persino il riuscire a isolarsi diventa un problema, perché l’uomo solo può essere avvertito come mostruoso. Sperso tra la folla, l’individuo tende così a perdere “ogni sfumatura di pensiero individuale”. In realtà quando l’uomo-massa s’impone nell’era contemporanea non solo l’individuo assume un’importanza minima, non solo la sua esistenza tende a diventare anonima, ma per lui anche gli altri divengono anonimi. Sebbene nessuno realmente lo sia, ci veniamo tutti a trovare in una situazione di anonimità e in questo senso “possiamo dirci tutti eguali, unità indifferenti e permutabili l’una con l’altra”, e ritrovarci a fare quel che facciamo “non perché sia naturale, e neppure perché lo si ritenga positivamente utile, ma piuttosto per evitare le complicazioni e i mali che verrebbero (a sé e agli altri) dall’agire diversamente”.
Siamo tutti più o meno soggetti “a una forza maggiore la quale non deriva né da una norma morale, né dalla somma delle esigenze individuali, bensì semplicemente dal fatto dell’esistenza collettiva. È l’esperienza di un disordine retto da leggi di ferro”. Per questo, la circostanza che caratterizza la società di massa è moralmente estrema ed è sostanzialmente nihilista: si vive reprimendo ogni giorno la questione se “ciò che si fa giorno per giorno abbia un senso”, sapendo che la si reprime, per accorgersi poi che l’esserne consapevoli non ci aiuta a cambiare il corso delle cose. La nostra esistenza non cambia, ma riducendosi a una lunga serie di atti obbligati e indifferenti si rivela “priva di senso, svalutata; e svalutata non tanto rispetto ai ‘valori’ di cultura e di tradizione (i quali si possono sempre in qualche modo coltivare privatamente), ma in se stessa.
Un’esistenza letteralmente ‘incredibile’. E un’esistenza incredibile significa un’esistenza che si protrae in stato di continua malafede”, ovvero in cui ci si trova pressoché sempre in una posizione ambigua rispetto al proprio agire, in cui si fa quel che si fa senza “persuasione e, nel contempo, senza violare alcuna norma intima; ma anche senza osservarne chiaramente nessuna. Si può, a questo punto – conclude Chiaromonte – tornare a ciò che, secondo Ortega y Gasset, distingue la mentalità dell’uomo della massa: il fatto che ‘avere un’idea non significa essere in possesso delle ragioni di averla’ ”. Questo tipo di uomo non si rifiuta di fornire delle ragioni, e vorrebbe anche lui trovare la verità, ma non ha ragioni da dare e della verità non sa prendersi cura. Ha idee sulla sua situazione, ha in genere opinioni prese in prestito da altri, che non sono in genere né false né vere, ma così generiche dal risultare insignificanti.
La cosa forse più inaspettata e preoccupante è però che questa circostanza colpisce anche gli intellettuali. Anche loro si servono del linguaggio corrente, di “concetti belli e fatti, pronti per l’uso”, sedimentati nell’uso di quel linguaggio. Anche gli intellettuali, dal momento che si servono del linguaggio della massa, che “tende ad essere un linguaggio di formule nel quale le parole hanno un valore fisso, puramente indicativo e scarsamente espressivo”, tendono ad articolare pensieri già pensati secondo automatismi linguistici prestabiliti, e cioè a servirsi di quello che Martin Heidegger definiva “pensiero calcolante” (Rechnendes Denken), senza quasi mai accedere a ciò che invece lo stesso Heidegger definiva “pensiero meditante” (Besinliches Denken). In effetti, per Heidegger, come per Chiaromonte, l’assenza di questo tipo di pensiero è un ospite inquietante che si annida dappertutto nel mondo di oggi ed è alla radice della peculiare forma di nihilismo che lo contraddistingue.
Il lavoro culturale, il lavoro dello spirito, non può non risentirne in maniera sorda e non meno inquietante. La cultura, che ha nel corso dei secoli sviluppato e affinato capacità critiche e attitudini dialogiche, invece di essere quel luogo ideale in cui si “disputa intorno alla verità”, assomiglia a quello in cui il pensiero calcolante declina dei paradigmi teorici dogmaticamente assunti. La verità appare invece per Chiaromonte “soltanto nell’esperienza vissuta, nel riuscire a vivere sentendosi in qualche modo d’accordo con la natura delle cose e del mondo”, e non nel saper articolare in modo più o meno abile o brillante formule linguistiche preconfezionate.
Quella in cui ci troviamo è un’epoca di stereotipi collettivi sempre più diffusi e pervasivi, sempre più acriticamente riutilizzati, e secondo Chiaromonte non può mutare in seguito alla scoperta di qualche idea geniale, ma solo esercitandosi a dialogare con “l’ordine del tempo”, o con il suo “disordine retto da leggi di ferro”. Può cambiare cioè soltanto “a forza di soffrire in comune la sorte comune, cercando di comprenderla”, e tuttavia sempre conservando la consapevolezza che “dalla caverna, non si esce in massa, ma solo uno per uno”.
FONTE: http://opinione.it/cultura/2020/08/24/gustavo-micheletti_breve-saggio-il-tempo-della-malafede-nicola-chiaromonte-jos%C3%A8-ortega-y-gasset-masse/
CYBERWAR SPIONAGGIO INFORMAZIONE DISINFORMAZIONE
Vittorio Feltri sull’amico Paolo Berizzi: “Merita un vaff***, ma non punizioni.
Scrivi pure ciò che ti pare”
Un giornalista della Repubblica, Paolo Berizzi, che assunsi a Libero perché bravo e non solo in quanto ero amico di suo padre, ha scritto un tweet con quale esprime solidarietà verso i veronesi colpiti dal nubifragio e al tempo stesso dice che la sciagura sta meglio di un vestito nuovo ai fascisti e ai razzisti abbondanti nella città di Giulietta e Romeo. È scoppiato uno scandalo di serie B. Molta gente si è scagliata contro il redattore in modo eccessivo, benché il suo tweet fosse infelice. Ma se un cronista o un qualsiasi cittadino ha una opinione che riteniamo sbagliata ha comunque il diritto di esprimerla senza essere linciato.
Parlo per esperienza. È capitato anche a me di immettere in rete qualche messaggio ai limiti del buon gusto, e pure io sono stato trattato da delinquente. Se da una parte manca la misura, l’altra parte non è autorizzata a usare l’arma della diffamazione. Io non condivido le parole di Berizzi, tuttavia questo non mi dà la licenza di chiedere che egli sia addirittura buttato fuori dall’Ordine, come ha fatto qualcuno. Cosa c’entra la corporazione degli scribi con la libertà di pensiero, tutti i pensieri, belli o brutti che siano? Al massimo il mio amico Paolo merita un vaff***lo in puro stile Grillo, mentre invocare punizioni esemplari nei suoi confronti è una operazione di sapore appunto fascista.
FONTE: https://www.liberoquotidiano.it/news/commenti-e-opinioni/24311550/vittorio-feltri-paolo-berizzi-non-merita-punizioni-scrivi-cio-che-ti-pare.html
Che fine hanno fatto i verbali secretati?
- Categoria: Politica Italiana
Volete la dimostrazione che quello italiano è un popolo di coglioni? E’ facile. Solo un mese fa eravamo tutti qui a discutere dei famosi verbali del comitato tecnico scientifico. Se ne parlava dappertutto, sui giornali, nei talk show, sui telegiornali, nelle strade e nei bar. Tutti volevano sapere che cosa mai ci fosse di così imbarazzante in quei benedetti verbali da tenerli secretati.
La pressione pubblica cresceva, e l’opposizione arrivò addirittura a spiegare in Parlamento uno striscione con su scritto “che cosa avete da nascondere?” Poi i famosi verbali furono desecretati, e l’attenzione pubblica fu immediatamente convogliata su quello che contenevano: il CTS diceva di non chiudere l’Italia, ma il governo lo ha fatto lo stesso. Perchè lo ha fatto? Oppure, il CTS diceva di chiudere le zone di Nembro e Alzano, ma il governo non l’ha fatto. Perchè non l’ha fatto? Eccetera eccetera.
Dopo tre giorni era tutto finito. Le polemiche ovviamente portarono ad un nulla di fatto, e l’attenzione si spostò altrove.
Nel frattempo pochissimi si erano accorti che i verbali desecretati erano solo cinque, su un numero minimo di 49. Noi chiedemmo di vederli tutti, ma noi siamo piccoli e non contiamo nulla. I grandi media invece fecero finta di niente, e iniziarono a parlare d’altro.
E così gli italiani dimenticarono presto di essere stati presi per il culo. Quando un popolo è così facilmente ingannabile, e così facilmente manipolabile, allora lo si può definire un popolo di coglioni.
Se un fatto simile fosse accaduto negli Stati Uniti (o in Inghilterra, oppure in Germania), la faccenda si sarebbe trascinata fino al giorno in cui tutti verbali fossero stati rilasciati, dal primo all’ultimo (credetemi, questa gente avrà altri difetti, ma non amano essere presi in giro). Ma da noi no. Da noi basta che i “padroni del discorso” del mainstream spostino l’attenzione su qualcos’altro, e il popolo gli va dietro come un branco di sardine.
Il nostro è un popolo di coglioni. Gente che urla e sbraita se qualcuno al supermercato si abbassa per un attimo la mascherina, ma che si dimentica regolarmente di chiedere conto ai governanti delle proprie azioni.
Se io fossi un politicante, adorerei l’idea di governare gli italiani. Non esiste popolo che sia più facile da prendere in giro, e con la complicità criminale dei nostri giornalisti, farlo da noi è un gioco da ragazzi.
Massimo Mazzucco
FONTE: https://www.luogocomune.net/17-politica-italiana/5589-che-fine-hanno-fatto-i-verbali-secretati
ECONOMIA
La decrescita: l’ultimo volto del collettivismo
Gerardo Gaita
Pubblicato ilLuglio 12, 2020
Tra le tante proposte che promettono una “nuova libertà” deve essere inserita quella della decrescita.
Ovviamente, anche in questo caso, per rendere l’argomentazione plausibile, alla parola libertà viene fatto subire un sottile mutamento semantico: non più libertà dal potere arbitrario di altri esseri umani, bensì libertà dal bisogno, o meglio libertà dalla costrizione che viene esercitata da quelle circostanze che inevitabilmente limitano l’ambito delle scelte di tutti noi.
Così intesa, la libertà è evidentemente solo un altro nome per identificare la volontà di deprimere la libera scelta individuale e colpirne la fonte, cioè la proprietà privata.
La prima apparizione del termine decrescita è fatta risalire alla pubblicazione, nel 1979, di una raccolta di saggi dell’economista rumeno Nicholas Georgescu-Roegen, ma è solo con l’avvento del nuovo millennio, attraverso il lavoro del filosofo ed economista francese Serge Latouche, che la decrescita prende la forma di una vera e propria elaborazione concettuale e trova una sua collocazione davvero visibile nel dibattito culturale e politico.
Latouche è colui che qualifica la decrescita con gli aggettivi «serena» e «conviviale», mentre l’espressione «decrescita felice» è dote del saggista italiano Maurizio Pallante.
Difficilmente si può sostenere che gli autori della decrescita formino una scuola di pensiero in senso vero e proprio, più verosimilmente si può sostenere, invece, che compongano una galassia che ha molti punti in comune, declinati con tonalità diverse.
In ogni caso, esaminando il pensiero di Latouche, si può ottenere un quadro definibile come soddisfacente del pensiero generale della decrescita.
Latouche si pone in modo critico nei confronti della dimensione economica della vita umana, cioè non riconosce un ambito economico della vita sociale dotato di autonomia rispetto agli aspetti religiosi, magici, tradizionali ed etici.
In tal senso, l’economia sarebbe un’invenzione moderna, una costruzione culturale e storica nata tra il XVI e il XVII secolo, un modo di concepire il rapporto tra l’essere umano e il mondo sconosciuto alle civiltà precedenti e alle culture non occidentali, da cui sarebbe necessario uscire perché, secondo Latouche, disumanizzante e basata sulla distruzione sociale e ambientale, nonché contraria a una civiltà basata sulla semplicità volontaria e su etiche di vita rispettose dei più indigenti.
L’invenzione dell’economia costituirebbe la nascita a tutti gli effetti della “società della crescita”, una società da condannare poiché quel che sarebbe soddisfatto in questa società, e sempre più man mano che cresce la produzione, sarebbero i bisogni dell’ordine di produzione e non i bisogni dell’essere umano, mentre l’abbondanza indietreggerebbe irrimediabilmente a favore del regno organizzato della scarsità.
Per Latouche è falso quindi il principio di scarsità, dato che la natura provvederebbe in modo spontaneo ai bisogni dell’essere umano.
Sulla scia di queste premesse, l’autore francese arriva a lanciare il suo attacco contro i diritti di proprietà: la proprietà privata non sarebbe una risposta al problema della scarsità, bensì la sua causa.
Secondo Latouche, infatti, la recinzione delle terre, una volta comuni, avrebbe iniziato a creare una miseria che prima non c’era, dato che prima ci sarebbe stata soltanto una povertà non scissa da una certa sobrietà, il che la rendeva un qualcosa di sicuramente positivo.
Latouche considera l’economia di mercato e il socialismo reale due varianti dello stesso fenomeno da condannare, cioè la società della crescita, ma per Latouche l’economia di mercato è certamente ancor più da condannare perché in essa vede la forma più estrema della società della crescita, cioè la forma più estrema di distruzione dell’ambiente e di tutto quello che è sociale.
Con una certa coerenza, Latouche va alla ricerca degli antenati progenitori del pensiero della decrescita e in questi inserisce Karl Marx (almeno per quanto riguarda la critica all’economia di mercato) ed Émile Durkheim, ma soprattutto Marcel Mauss e Karl Polanyi, mentre come precursori più immediati, oltre a Nicholas Georgescu-Rogen, inserisce pensatori come André Gorz, Jacques Ellul e Ivan Illich.
Latouche, rifiuta l’esistenza di una reale dimensione economica della vita umana e, nel contempo, fa risalire questa dimensione, a suo parere, fittizia all’approccio psicologistico per cui l’economia sarebbe il risultato del desiderio di ricchezza, arrivando così alla bizzarra conclusione che sarebbe sufficiente eliminare o riformare tale desiderio per far venire meno questa dimensione.
Per la società della decrescita le parole chiavi sono convivialità, frugalità, sobrietà e austerità, attraverso le quali centrare l’obiettivo di una società nella quale «si vivrà meglio lavorando e consumando di meno»: per conseguirlo Latouche afferma che bisogna praticare l’autolimitazione del bisogno, non accorgendosi però che in questo modo finisce implicitamente per sostenere il principio di scarsità.
Cosa c’è oltre alla critica della dimensione economica della vita umana e allo slogan per il quale si vivrà meglio lavorando e consumando meno? Il cuore della proposta, in cui si invita a rompere con la dinamica della società industriale attraverso la direzione da parte dei pubblici poteri degli investimenti e la regolamentazione anch’essa da parte dei pubblici poteri del risparmio, cioè un programma di eco-collettivismo:
ridurre l’impatto ecologico, tornando alla produzione materiale degli anni 1960-70; ridurre i trasporti internazionalizzandone i costi attraverso eco-tasse; rilocalizzare le attività; incentivare l’agricoltura contadina al punto da farla diventare un settore che occupi stabilmente il 10-20 per cento della popolazione; trasformare l’aumento di produttività in riduzione del tempo di lavoro e creazione di impieghi (Latouche auspica una giornata lavorativa di 2 ore); rilanciare la produzione di beni relazionali; ridurre lo spreco energetico di un fattore 4; penalizzare le spese di pubblicità; decretare una moratoria sull’innovazione tecnologica; riappropriarsi del denaro attraverso monete regionali.
Incline ai facili slogan, Latouche riassume le sue indicazioni in otto parole d’ordine che iniziano tutte per “erre”, cioè rivalutare, riconcettualizzare, ristrutturare, ridistribuire, rilocalizzare, ridurre, riutilizzare, riciclare e si preoccupa di affrontare anche le sfide di breve periodo, con ricette economiche della solita solfa statalista: nessun debito pubblico, in quanto le entrate dovranno coprire le spese, ma “in caso di deficit” emissione di moneta; imposte dirette progressive (sopra il reddito massimo legale anche del 100 per cento); imposte indirette sui “beni di lusso”; acqua, gas, etc. a prezzo progressivo, imposta patrimoniale.
Nel corredo della decrescita trovano spazio, inoltre, il reddito di cittadinanza e la previsione di un sistema che garantisca a tutti, per tutta la vita, un reddito pieno, in cambio di un certo numero di ore di lavoro da svolgere nell’arco dell’intera vita e che dovrà essere relativamente basso.
Latouche, infine, afferma che la società della decrescita è fonte di una varietà incredibile di esperimenti sociali: resta da comprendere come si possa vedere ciò in un mondo che ha ampiamente svuotato i diritti di proprietà e quindi fortemente ostacolato il libero processo di mobilitazione delle conoscenze e delle risorse.
Come non essere d’accordo con l’obiettivo di perseguire relazioni di equilibrio fra lo sviluppo umano e la tutela del patrimonio ambientale o con l’andare ad analizzare i limiti del PIL, in quanto indicatore che consente una misurazione solo parziale della ricchezza in senso esteso, seppur la decrescita non colga il vero difetto di questo strumento approssimatore di fatti, cioè l’esclusione di tutte le spese “intermedie” che, a sua volta, produce sottostima dell’importanza dei “capitalisti” ed esagerazione dei consumi finali e delle spese statali.
Tuttavia, sono inaccettabili, perché semplicemente infondate, l’idea che etiche di vita rispettose dell’altrui sensibilità richiedano come presupposto la marginalizzazione della ricerca dell’agiatezza materiale, l’idea che l’obiettivo di perseguire relazioni di equilibrio tra lo sviluppo umano e la tutela della natura passi attraverso la diminuzione della produzione dei beni e non, invece, per il miglioramento dei processi di produzione, l’idea che la pianificazione centralizzata possa pianificare gli sviluppi delle conoscenze future e centralizzare un’immensa quantità di conoscenze di specifiche circostanze di tempo e di luogo, l’idea che la proprietà privata dei mezzi di produzione non sia la base del “benessere” per il maggior numero di persone e il fondamento della “libertà” dei cittadini.
In tutti gli autori della decrescita è riscontrabile sia l’assenza del riconoscimento che solo i miglioramenti introdotti dalla società aperta e dal mercato hanno permesso, ad esempio, l’allungamento dell’aspettativa di vita, il crollo della mortalità infantile, la diffusione di condizioni igieniche e alimentari accettabili, cure mediche e assistenza sanitaria un tempo impensabili, sia l’incapacità di capire che i diritti di proprietà privata incoraggiano le persone a conservare le risorse per il futuro più di quanto non facciano le regolamentazioni statali – a tal riguardo, informarsi sul lascito ambientale del defunto sistema sovietico.
Infine, la dimensione economica della vita umana è reale e non è l’esito di un “colpevole” desiderio di ricchezza, ma un prodotto della condizione e dell’attitudine umana: tale dimensione è quindi generata dalla condizione di scarsità (siamo chiamati costantemente a economizzare) e dal fatto che l’essere umano è quell’essere che si caratterizza per praticare lo scambio, la cui generalizzazione è resa possibile dal denaro, cioè dallo strumento che entra in relazione con la totalità degli scopi da ciascuno perseguiti.
La tragedia di qualsiasi concezione collettivista consiste nel fatto che iniziano tutte con l’affermare di voler mettere la ragione al primo posto, ma finiscono poi tutte per distruggerla.
Riferimenti bibliografici
Nicola Iannello, «Crescita, decrescita e libertà di scelta» in Idee di Libertà: economia, diritto, società (a cura di Nicola Iannello e Lorenzo Infantino) Rubbettino Editore, Soveria Mannelli, 2015
Articolo in originale su:
https://gerardospace.wordpress.com/2020/07/12/la-decrescita-lultimo-volto-del-collettivismo/
FINANZA BANCHE ASSICURAZIONI
L’OMBRA NERA DELLA BLACKROCK SULLA CRISI ECONOMICA ITALIANA
30 ottobre 2015 RILETTURA
Editoriale di Stefano Becciolini
La storia d’Italia è costellata di avvenimenti in cui “forze esterne” hanno contribuito alla realizzazione di crimini, tra cui il più eclatante è stato proprio l’omicidio di Aldo Moro e della sua scorta. Ma non voglio divagare su fatti ancora avvolti nell’ombra ( e che quattro processi non sono valsi a chiarire).Torniamo alla nostra piccola indagine conoscitiva dei fatti del Britannia che hanno poi portato alle stagioni delle privatizzazioni in Italia.
Scartabellando la documentazioni non sempre facili da reperire, risulta che Unicredit S.p.A.,
Editoriale di Stefano Becciolini per il Blog FAHRENHEIT 912
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FONTE: http://fahrenheit912.blogspot.com/2015/10/lombra-nera-della-blackrock-sulla-crisi.html
GIUSTIZIA E NORME
Baldassarre: Il Parlamento Ue boccia la norma che chiede chiarezza sui fondi delle Ong.
Vergogna
FONTE: https://www.secoloditalia.it/comunicati-stampa/baldassarre-il-parlamento-ue-boccia-la-norma-che-chiede-chiarezza-sui-fondi-delle-ong-vergogna/
IMMIGRAZIONI
Sicilia, Rampelli: «La Rackete sta portando altri 221 migranti. Il governo è in confusione cronica»
In Sicilia 58 positivi su 65 sono migranti
«La situazione dei migranti in Sicilia», dice il vicepresidente della Camera e deputato di Fdi. è la cronaca di un’emergenza annunciata. Persino il sindaco di centrosinistra, il primo cittadino di Lampedusa, vicino al governo rosso-giallo chiede da quasi due mesi lo stato d’emergenza. Ma non viene ascoltato. Allora c’è da preoccuparsi. In queste ore a parlare sono i numeri. Su 65 casi positivi da coronavirus, 58 sono migranti dovuti al sovraffollamento degli hotspot di Lampedusa. È grave che il governo di fronte all’ordinanza del governatore Musumeci, che dà disposizione di sgomberare i centri di accoglienza, non abbia ritenuto di dover dare disposizione alle forze dell’Ordine e alle prefetture per intervenire in tal senso».
Arriva la Rackete con la Sea Watch 4
«Ancor più vergognoso che il ministero dell’Interno ribadisca senza alzare un dito che la gestione della sicurezza sanitaria è competenza del governo. Cosa ha fatto quindi il governo quando tra luglio e agosto sbarcavano migliaia di clandestini in Sicilia? Nel frattempo la Sea Watch 4, guidata dall’impunita Carola Rackete e con a bordo 221 migranti, punta dritta verso le coste siciliane. Governo latitante, confusione cronica, porto di Lampedusa intasato di barchini e barconi, centri d’accoglienza trasbordanti, infezione galoppante, affari d’oro per scafisti, crimini in cerca di manovalanza e cooperative rosse: il ministro Lamorgese si dimetta subito», conclude.
Il maltempo blocca gli sbarchi in Sicilia
Intanto, il maltempo ha concesso una tregua a Lampedusa. Le proibitive condizioni el mare, infatti, hanno bloccato già da ieri gli sbarchi di migranti, impedendo, però, anche l’attracco della nave quarantena Aurelia, destinata ad accogliere una parte dei migranti ospiti dell’hotspot. Nella struttura di contrada Imbriacola ci sono attualmente circa 1.200 persone, tra cui anche gli ultimi 58 casi accertati di positività al Covid-19, che, secondo quanto ha spiegato ieri la Prefettura di Agrigento, avranno la precedenza nell’imbarco quando le condizioni meteo miglioreranno. Nel frattempo nell’hotspot sono giunti uomini e mezzi dell’Esercito con l’obiettivo di rafforzare il contingente di vigilanza già attivo e scongiurare ulteriori allontanamenti dalla struttura, da cui, sottolinea la Prefettura, non escono comunque i contagiati, isolati in una struttura appositamente deputata dentro il centro.
FONTE: https://www.secoloditalia.it/2020/08/sicilia-rampelli-la-rackete-sta-portando-altri-221-migranti-il-governo-e-in-confusione-cronica/
LAVORO PENSIONI DIRITTI SOCIALI
L’ex Merloni licenzia e dà il via all’autunno caldo: a rischio 2 milioni di posti di lavoro
Dire autunno caldo è un eufemismo. Sul fronte del lavoro la situazione si sta facendo letteralmente bollente. Ad aprire le danze, si fa per dire, è la ex Merloni, oggi Indelfab che a Fabriano, il 19 agosto, ha avviato la procedura di mobilità per i suoi 584 dipendenti. A stretto giro è previsto un primo incontro con l’azienda per capire se ci sono margini per il ritiro dei licenziamenti. Domani, inoltre, c’è in agenda anche la riunione tra i commissari che stanno gestendo la liquidazione di Air Italy e i sindacati. L’azienda ha fatto sapere di non avere alcuna intenzione di tornare indietro: chiuderà tutto e licenzierà l’intero personale. Si tratta di 1453 lavoratori.
Questi sono solo due esempi, i primi in ordine cronologico in vista dell’autunno. Ma i licenziamenti sono pronti a esplodere, con un’impennata fino al 13% del tasso di disoccupazione. Come spiega Marco Patucchi, riprendendo la nota di Bankialia, su Affari&Finanza, “sviluppi più negativi rispetto a quelli delineati nello scenario di base potrebbero manifestarsi a seguito di un protrarsi dell’epidemia e della necessità di contrastare nuovi focolai, con ripercussioni sulla fiducia e sulle decisioni di spesa delle famiglie e di investimento delle imprese, di cali più consistenti nel commercio mondiale e strozzature alle catene globali del valore, di un forte deterioramento delle condizioni finanziarie”.
L’ufficio studi di Via Nazionale fissa per quest’anno un calo del 15% delle ore lavorate, con un rimbalzo del +4,1% l’anno successivo e un +1,8% nel 2022; il numero degli occupati è previsto in calo del 5,2% a fine 2020 e in crescita dell’1,6% e dello 0,7% rispettivamente nei prossimi due anni; tasso di disoccupazione in aumento dall’ll,9% stimato per quest’anno, al 12,9% del 2021 e al 13,1% del 2022. Numeri che parlano da soli e che danno la cifra della crisi che attraverserà il mercato del lavoro nei prossimi mesi. E il governo che fa? Come si sta preparando a questo? Come tutelerà gli italiani?
Le unità lavorative annue quest’anno si ridurranno del 9,3%, vale a dire oltre 2,2 milioni di posti di lavoro in meno, per poi crescere del 4,1% il prossimo anno, una dinamica in linea con il picco del Pil previsto a -8,3% quest’anno e in parziale ripresa (+4,6%) nel 2021. L’Istat, inoltre, stima una “caduta del monte retributivo” con i salari lordi in calo rispettivamente dello 0,7 e dello 0,4% nel 2020 e l’anno prossimo. C’è bisogno di lavoro, e di risposte da parte di chi è al comando del Paese.
FONTE: https://www.ilparagone.it/attualita/lavoro-2-milioni-a-rischio/
PANORAMA INTERNAZIONALE
L’asse Trump-Putin contro i “cinesi” Soros, Obama e Merkel
Se Donald Trump verrà rieletto, grazie alla maggioranza silenziosa degli americani (oltre il 60%, secondo i nostri sondaggi), sicuramente aiuterà l’Italia a liberarsi della tirannide burocratica dell’Unione Europea a guida franco-tedesca. Già ora le relazioni tra Usa e Germania sono gelide, come dimostra la decisione della Merkel di non partecipare al G7 negli Stati Uniti. Da decine di anni, i tedeschi usano i soliti sistemi finanziari per ingabbiare l’Italia: hanno sempre ingarbugliato i conti per far sembrare solvente la Germania, mentre le banche tedesche (soprattutto la Deutsche Bank) sarebbero già fallite dieci volte, se fossero state italiane; ma il governo tedesco e i suoi pupazzetti all’Ue continuano a mettere un salvagente sopra l’altro, per aiutare le banche tedesche. Penso che la fine del “Quarto Reich” sarà soprattutto una fine economica, così come quella della Cina comunista. Prima di abbandonare la Casa Bianca, Barack Obama disse: «Lascio ad Angela Merkel il testimone della difesa dell’ordine liberale». Al di là delle etichette (lui di sinistra, lei di destra), Obama e Merkel fanno parte della stessa squadra. Nonostante la censura in atto, il web è pieno di documenti che comprovano i legami di Obama e Merkel con George Soros.
Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, quando l’Ungheria finì nelle mani dei sovietici, George Soros smise l’uniforme delle SS e passò con i comunisti, facendo carriera nei servizi segreti ungheresi. Dopodiché passò al Kgb, dove conobbe una certa Angela Merkel, che nell’allora Germania Est lavorava a sua volta nei servizi segreti: quelli della Ddr, la famigerata Stasi. I due divennero amici. Poi Soros emigrò negli Usa, divenne americano e, fra l’altro, finanziò un certo Barack Obama. Nessuno sapeva chi fosse, Obama, e ancora oggi non si sa bene cosa abbia fatto da giovane (prima in Africa, poi in Indonesia). Si sa solo che era un grande amico di Soros. Obama, Soros e Merkel sono un trio: si conoscono molto bene. Anche sui media italiani, si è scatenata una guerra contro Trump: ogni giorno, il “Corriere della Sera” attacca il presidente americano, mentre “Repubblica” elogia la Merkel. Il “Corriere”, purtroppo, fu infiltrato da gente di Soros già ai tempi di Berlusconi. La propaganda contro Trump è orchestrata a livello internazionale, da elementi filo-cinesi che magari hanno fabbriche in Cina o comunque controllano giornali e televisioni.
Gli stessi media, poi, demonizzano Putin come dittatore e invece trattano coi guanti bianchi Xi Jinping. La ragione è la stessa che spinse Hillary Clinton, nelle presidenziali 2016 e anche dopo, con il Russiagate, a criminalizzare Mosca. La sinistra, ormai controllata dal partito comunista cinese, non può immaginare neanche lontanamente la possibilità che gli Stati Uniti e la Russia si stringano la mano e comincino a cooperare. Se queste due superpotenze dovessero cominciare a collaborare, quella tigre di carta che è la Cina di oggi (tigre di carta economica e propagandistica) crollerebbe in pochi mesi. I russi conoscono bene George Soros, ma anche l’ex agente della Stasi Angela Merkel e tanti altri, che sono infiltrati negli Stati Uniti e in altri paesi, compresa l’Italia. I russi hanno in mano tutti i file del vechio Kgb: informazioni che potrebbero passare agli amici americani, se Trump dovesse rimanere presidente. E’ per questo che la Cina, e tutti gli elementi pro-cinesi, stanno facendo una guerra all’ultimo sangue, contro Trump, per fare in modo che gli Usa di Trump e la Russia di Putin non si mettano d’accordo e non comincino a condividere informazioni sulla Cina. Il sistema di potere che ha costruito questa globalizzazione infame sta per crollare. Faremo di tutto, intanto, per aiutare Trump a essere rieletto.
(George Lombardi, dichiarazioni rilasciate a Francesco Toscano nella diretta web-streaming di “Vox Italia Tv” del 6 luglio 2020, su YouTube. Noto imprenditore italoamericano, Lombardi è uno stretto collaboratore di Trump).
FONTE: https://www.libreidee.org/2020/08/lasse-trump-putin-contro-i-cinesi-soros-obama-e-merkel/
POLITICA
MUMMIARELLA E LA RASSEGNAZIONE MAFIOSA
Nelle aree storicamente mafiose del Meridione la popolazione è rassegnata al dominio di quel sistema di potere inefficiente e parassitario, tutt’uno con l’arretratezza atavica e incurabile di quelle terre; un sistema a cui non ci si ribella perché tanto non lo si può cambiare, essendo esso tutt’uno anche con le istituzioni. Chiamiamola per semplicità ‘rassegnazione mafiosa’ – una forma di impotenza appresa, di learned helplessness, in termini psicologici.
Con la meridionalizzazione del Paese, questa rassegnazione mafiosa si è estesa alle istituzioni nazionali, è ora la base della governabilità dell’Italia. I governanti possono permettersi ogni inefficienza e ruberia, ogni tradimento degli interessi nazionali; possono fare le porcate peggiori, le più blatanti violazioni delle leggi e della Costituzione, che niente gli succede.
Tutto il Paese oramai manifesta la medesima rassegnazione; sente come inevitabile e ineliminabile il perpetuarsi del potere di Casta che ha tutti i caratteri della mafiosità, sia nel suo comparto partitico e politico che in quello burocratico che in quello giudiziario che in quello mediatico che in quello culturale. Comitati d’affari, consigliori di governo, trattative e decisioni segrete, abuso di poteri pubblici, nomine di compari ai posti chiave, commercio di bambini tolti alle famiglie, patti e ricatti segreti.
Questa rassegnazione è l’inerzia e la acquiescenza a tutti gli scandali e al loro insabbiamento che lascia tutto immutato, tutto a continuare.
Rassegnazione, oggi, a subire ancora il metodo del governo Conte e i suoi uomini nonostante le emerse prove degli abusi, delle falsità, degli Inganni, degli interessi sordidi, di un vero e proprio colpo di stato in senso giuridico ripetutamente commesso da questo governo, che ha proclamato uno stato di emergenza non previsto dalla Costituzione per sospendere la Costituzione, e lo ha fatto riferendosi a una norma che non prevede affatto una simile cosa, l’art. 24 c. 3 della legge istitutiva della Protezione Civile.
Ha gestito l’emergenza incostituzionale praticamente ignorando, come emerge dai primi verbali desecretati, le principali raccomandazioni del Comitato Tecnico Scientifico, che giustamente consigliava di non bloccare il Paese ma di chiudere ermeticamente le aree bergamasche ad alto tasso di contagio. Conte ha fatto l’inverso, strangolando l’economia nazionale e favorendo le morie di Bergamo e Brescia. Il Comitato doveva servire solo per vantare una giustificazione scientifica a provvedimenti illegittimi, eversivi, anti-costituzionali, evidentemente dettati dall’alto, dall’estero, a governi marionetta come quello italiano, spagnolo e altri.
Di fronte a metà di tanto, e al contorno di inefficienze africane, affarismo partitico e menzogne sui dati, il governo sarebbe stato scacciato a furor di popolo, se non ci fosse la rassegnazione mafiosa ad assicurare la governabilità – come già avevamo capito con i golpe giudiziari e finanziari dell’epoca napolitanica .
E Mummiarella, avendo il compito costituzionale di rappresentare la Nazione, la ha perfettamente rappresentata in questa rassegnazione, in questa acquiescenza, in questa accettazione, avallando tutto l’operato di Conte, senza una critica, con impeccabile aplomb. Egli sa, avendolo appreso dalla morte di suo fratello, che bisogna assecondare il Sistema. Un Sistema che è globale, non più solo trinacrio.
Similmente, Egli si è accuratamente astenuto dall’esercitare la moral suasion per indurre a dimettersi un Consiglio Superiore della Magistratura completamente discreditato. Si è scusato spiegando che lo scioglimento del CSM non è tra i poteri presidenziali. Debole scusa, perché bastava che si rifiutasse di presiederlo ed esprimesse la valutazione che tutti avevamo in animo sulla inattendibilità e inaffidabilità del detto Consiglio, e questo si sarebbe dovuto dimettere. Invece così anche questo nuovo e totale scandalo della Magistratura è avviato a felice soluzione insabbiatoria, come appare anche dalle mosse del processo a Palamara. Tutto potrà continuare come prima, indisturbato, compresa la dittatura soffice di Conte-Cacciari e la sospensione della Costituzione, mentre la Giustizia resterà sempre pronta per i colpi di Stato giudiziari e per l’eliminazione giudiziaria degli avversari (di concerto con la libera stampa del regime).
Da molti anni vado spiegando che, nel mondo reale, il compito dei magistrati e del primo magistrato, l’inquilino del Quirinale, è la conservazione del potere costituito coi suoi interessi e metodi, non l’attuazione della legalità formale.
Ora, grazie al sostegno politico dell’Unione Europea, interessata a un’Italia così marcia e dominabile, niente cambierà, se non in peggio. L’unica via di uscita da questa palude malarica e irriformabile, è l’emigrazione.
08.08.2020 Marco Della Luna
FONTE: https://marcodellaluna.info/sito/2020/08/08/mummiarella-e-la-rassegnazione-mafiosa/
IUS SOLI: I CALCOLI ELETTORALI DI BREVE PERIODO E LA PROSPETTIVA ELISYUM
“Il criterio per il conferimento della qualità di cittadino è diversamente determinato dai vari diritti positivi, ai quali pertanto è da fare riferimento. In generale può dirsi che criteri possibili sono quelli desunti:a) dal rapporto di discendenza naturale (ius sanguinis) per cui è cittadino colui che è nato, anche all’estero, da un padre (ndr; oggi qualunque genitore) che sia cittadino;b) dal fatto della nascita nel territorio dello Stato, all’infuori di ogni considerazione della cittadinanza dei genitori (ius soli). Criterio questo che, quando è applicato con carattere di assolutezza, (come avviene in Stati a basso livello di natalità e che quindi tendono ad aumentare artificiosamente il numero dei cittadini), conduce a conseguenze aberranti…”
2. A proposito di crisi demografica, cioè del “perchè”, prima (in nome del lovuolel’€uropa) gli italiani siano indotti a non fare figli e, poi, ciò gli venga imputato come colpa giustificatrice dell’obbligo (altamente “etico”?) di accettare l’immigrazione, ci pare giusto, preliminarmente, rammentare che tutto ciò:
Quindi smantellamento progressivo, e intensificabile, dello Stato sociale, mediante tetti al deficit e politiche monetarie deflazioniste, e, inevitabilmente, svuotamento del diritto al lavoro e all’abitazione, nonchè alla piena assistenza sanitaria pubblica, sanciti dalla Costituzione: artt.1, 4, 32, e 47 Cost..
DA NOTARE COME IL RECENTE INCREMENTO “RELATIVO” DELLA POPOLAZIONE RESIDENTE, cioè NON DEI NATI DI CITTADINANZA ORIGINARIA ITALIANA, SI COLLOCHI IN PIENO IN TEMPI DI EURO, CIOE’ DI VINCOLO ESTERNO €UROPEO INTENSIFICATO, E QUINDI DI ACCELERAZIONE DELLA DE-SOVRANIZZAZIONE DEMOCRATICA ITALIANA.
Le nascite in Italia diminuiscono col minor benessere delle famiglie coincidente con il “più €uropa”.
(grafico su dati Istat elaborati da G.C.):
Come ben possono rendersi conto ad es; i terremotati, nelle varie situazioni di carenza di spesa pubblica per gli interventi di ricostruzione, o le famiglie italiane con genitori disoccupati, rispetto all’assegnazione delle case pubbliche, in cui anziani soli, a seguito della distruzione sistematica e “austera” delle politiche familiari, e famiglie che hanno subito la denatalità indotta da decenni di politiche deflattive, si vedono “stranamente” sfavoriti.
Non porsi il problema generale di come il pareggio di bilancio incida, in stretta connessione con la questione devoluta alla Corte, sui complessivi livelli di diritti, tutti egualmente tutelati dalla Costituzione, porta a comprimerne, o a sopprimerne uno in luogo di un altro, generando un inammissibile conflitto tra posizioni tutelate. Un conflitto che, secondo un prudente apprezzamento della realtà notoria, non può essere risolto scindendo una realtà sociale composta, viceversa, da elementi interdipendenti; tale realtà viene, nel suo complesso, sacrificata illimitatamente, in una progressione di manovre finanziarie di riduzione, portate avanti pressocché annualmente, dall’applicazione del pareggio di bilancio e dalla graduale (o anche talora drastica) situazione di de-finanziamento che esso comporta. La sua logica, propria dell’applicazione fattane agli enti territoriali, è infatti quella di una prioritaria allocazione delle risorse al risanamento del debito pregresso e dei suoi oneri finanziari.
IV.4. Non si tratta dunque di tutelare un “pochino” (meno) tutte queste posizioni costituzionalmente tutelate, comunque comprimendole tutte contemporaneamente, ma di un generale e inscindibile piano di “caduta” (in accelerazione), dovuto alla crisi economica indotta dalla euro-austerità fiscale, con la disoccupazione (effettiva) record che essa determina e, dunque, con l’oggettivo e notorio (e drammatico)ampliarsi della sfera dei cittadini aventi diritto alle prestazioni costituzionalmente garantite, cioè tutelandi (secondo la Costituzione).
Il punto di caduta della legittima comprimibilità di tali diritti dei soggetti socialmente deboli è infatti già ben superato.
La Corte, per parte sua, non sa, e, forse, ancora non pensa di indicarlo univocamente in via astratta e generale, come la Costituzione imporrebbe, in virtù della natura incondizionata delle sue previsioni.
Dovrebbe essere notorio, infatti, che, di fronte alla massa della povertà dilagante, anche solo il mantenimento dei precedenti livelli di spesa assistenziale si rivela inadeguato e drammaticamente insufficiente.
E tutto ciò, grazie all’applicazione del pareggio di bilancio (e prima ancora del limite del 3% al fabbisogno dello Stato, anche a costo di una sua funzione prociclica), pur quando formalmente “mediata” dalla flessibilità, del tutto simbolica, offerta dalla Commissione UE! Si è arrivati ormai in una situazione di scelte dolorose obbligate, per cui o si effettua il trasporto scolastico dei disabili o si hanno decenti e sufficienti asili nidi o un adeguato numero di assistenti sociali (o analoghi operatori) per gli anziani. E via dicendo…”
Ma, per evidenti inerzie determinate dagli effetti sociali di tali politiche sui cittadini italiani, la legislazione “assistenziale” finisce inevitabilmente per privilegiare la povertà importata che, – tanto più in questa situazione di costante recessione o stagnazione €uroindotta-, risulterà (normativamente) ben più “titolata” nella spartizione della ridotta “torta della disperazione”. L’invecchiamento della popolazione, di conserva con la riduzione di retribuzioni e conseguenti prestazioni pensionistiche, e la disincentivazione a fare figli, divengono colpe imperdonabili (attribuite a chi ha subìto le €uropolitiche).
BOOM DI NUOVI CITTADINI IN ITALIA
“Il 2016 è stato un nuovo anno record per quanto riguarda le acquisizioni di cittadinanza in Italia.
Sono state, infatti, 205mila. Un numero che ha registrato continui aumenti: si è passati da 29mila nel 2005, a 66mila nel 2010 e a 100mila nel 2013. Da qui in avanti la crescita è stata ancora maggiore, con un totale di quasi 130mila nel 2014, fino a raggiungere il picco di ben 178mila nel 2015.
I dati sono stati diffusi dalla Fondazione Ismu in occasione della Festa della Repubblica, e segnalano anche che sono diventati italiani soprattutto molti di coloro che appartengono a comunità di antico insediamento e che hanno dunque maturato i requisiti di residenza o naturalizzazione: albanesi e marocchini in testa. Da notare che, invece, sono in significativo calo le cittadinanze concesse a seguito di matrimonio. Le quali, nel 2012, rappresentavano ben 1/3 del totale”.
Razzismo, la Ue bacchetta l’Italia: “Più moschee e subito lo ius soli” – La Commissione anti-razzismo del Consiglio d’Europa punta il dito contro Roma: l’Italia deve affrettarsi per la naturalizzazione degli stranieri e aprire più luoghi di culto islamici.
Si perché, come insegna Chang (pp.8-8.1):
…
I vari Paesi hanno il diritto di decidere quanti immigranti possano accettare e in quali settori del mercato del lavoro (ndr; aspetto quest’ultimo, che i tedeschi, ad es; tendono in grande considerazione).
Costituisce un mito – a un mito necessario ma nondimeno un mito (ndr; rammentiamo che lo dice un emigrato)- che le nazioni abbiano delle identità nazionali immutabili che non possono, e non dovrebbero essere, cambiate. Comunque, se si fanno affluire troppi immigrati contemporaneamente, la società che li riceve avrà problemi nel creare una nuova identità nazionale, senza la quale sarà difficilissimo mantenere la coesione sociale. E ciò significa che la velocità e l’ampiezza dell’immigrazione hanno bisogno di essere controllate”.
Alla svalutazione (salariale) dei tassi di cambio reale, perciò, deve corrispondere la svalutazione del diritto politico: l’indirizzamento idraulico del voto dei “nuovi italiani” viene scontato come sistema di rafforzamento del dominio delle oligarchie, che appunto perciò promuovono i propri futuri, e riconoscenti, sostenitori.13.1. La stessa possibilità numerica di una protesta elettorale che esiga il ripristino della legalità costituzionale, e respinga il vincolo €sterno dei mercati in nome della sovranità del lavoro, viene intanto allontanata.
La coesione socialeche, come ci dice Chang, si lega allaidentità nazionale, e che potrebbe condurre alla rivendicazione di sovranità democratica, in opposizione alle politiche antisolidaristiche imposte dall’€uropa, viene stemperata in un gioco di conflitti sezionali irrisolvibili (all’interno della guerra tra poveri che deriva dalla “scarsità di risorse”): i conflitti sezionali, a base etnico-religiosa, sono poifacilmente proiettabili in incessanti false flags elettorali di rivendicazione di diritti cosmetici.
E, a quanto pare, ESSI, previdenti, già si “avvantaggiano”:
Ce n’è di che spostare l’equilibrio elettorale a favore di chi sostenga e introduca una tale legge.
In pratica, passato l’effetto elettorale iniziale, i nuovi italiani non ci metteranno troppo a realizzare che sono finiti sulla stessa barca di quelli “vecchi” e che, anche per loro, non c’è una speranza di democrazia e benessere. Magari “culturalmente” ci metteranno un po’ a capire che avere i diritti politici non serve a granché, quando sei in uno Stato in cui, votare o meno, non cambia di una virgola le politiche che “devono” essere seguite. Ma ci arriveranno; oh, se ci arriveranno!
UN COMPROMESSO TRA FINTA ONESTÀ E PAURA DI PERDERE LE ELEZIONI – IL COMMENTO
Riceviamo da Giovanna Ammaturo –
L’INCIUCIO è l’espressione partenopea che indica lo spettegolio a bassa voce, ma nel gergale del giornalismo politico indica un accordo tra fazioni avversarie che attuano, con mezzi poco leciti, una logica di spartizione del potere. Senza arrivare a Massimo D’Alema che lo sdoganò, e indietro fino a Camillo di Cavour, è sufficiente Michel Barbet, sindaco M5S di Guidonia Montecelio. Il primo cittadino eletto con 200 euro per la campagna elettorale, come ha sottoscritto, e che in 3 anni si è mangiato tutto. Ha dilapidato 11 assessori andati via, 4 consiglieri passati alla opposizione, 5 dimissionari ed oggi fa appello alla responsabilità degli altri.
Abbiamo declinato l’invito non certo perché non abbiamo a cuore la città, e la risoluzione dei problemi, ma perché ci dividono troppe enciclopedie, una visione più ottimistica e non certo giustizialista del bene comune, dei valori reali ed etici oltre al rispetto autentico verso tutti i cittadini. I profittatori, come gli usurai, sono sempre presenti e Barbet ha certamente già vicino chi è pronto a sorreggerlo. Gli accordi definiti di basso livello, stretti tra i vertici romani, nazionali e regionali dei due partiti M5S e Pd sopra le teste dei guidoniani, hanno il solo scopo della spartizione del potere, oltre a rappresentare il terrore che hanno di perdere le elezioni nella seconda città d’Italia non capoluogo di provincia. Nicola Zingaretti è stato chiaro sull’ipotesi di inciucio e da mesi ha lanciato appelli sulla necessità delle alleanze con i 5Stelle. È evidente che la democrazia, il governo esercitato dal popolo tramite gli eletti liberamente, è da anni cosa astratta nel Paese. La paura e la carezzevole ebbrezza del potere è tanto più forte da far camminare anche sulle croci elettorali e le premesse a Guidonia già ci sono.
Il deputato del Collegio è rimasto Sebastiano Cubeddu del M5S, perché in Giunta delle elezioni viti i 250 voti elettorali recuperati dall’avversaria sulle cinquemila schede bianche e nulle, ne bastavano 120, impossibilitati a ricontare le schede valide, perché ammalorate dall’acqua, si è deciso di validare comunque la vittoria del M5S. Alla faccia della democrazia è la seconda volta che le schede vanno in giro. Anche nel 2003 furono rintracciate 52000 schede elettorali in un convento, ed i costi ed il tempo necessario per rintracciare i colpevoli divennero materia per la Procura. C’è paura, terrore di perdere la poltrona, i soldi, il prestigio mai conosciuti prima, la ratio di affari e conoscenze. Perché perderli allora? Andrà bene anche il do ut des richiesto dai comunisti che come «usurai», nei prossimi anni, faranno pagare a Barbet gli interessi sulla sua incapacità di governare. Michel Barbet sbatte la porta in faccia agli elettori, dopo le mancate promesse elettorali e dopo la festa della sua proclamazione scambiata per un’incoronazione. Chi vivrà, vedrà, nel frattempo si gusta l’uovo e all’elettorato pollo, che oggi vede il proprio voto gettato nel fango, ci sarà tempo per dare spiegazioni.
L’onestà da operetta di Barbet e del M5S si è unita alla fifa del Pd di andare alle elezioni già a settembre, se il sindaco fosse dimesso entro fine luglio. Il panico di Zingaretti di andare alle elezioni e perdere contro il centrodestra, è un incubo maggiore delle mascherine pagate ma mai arrivate, quanto dei consiglieri locali di sottoporsi al giudizio degli elettori. Ora arriverà un nuovo vicesindaco con delega alle Finanze, un nuovo presidente del consiglio comunale, nuovi assessori all’Ambiente, al Sociale e ai Lavori pubblici. E una ciliegina anche la delega per la Ryder Cup. Ovviamente il tutto sarà novellato per il nuovo che supera gli steccati ideologici, per responsabilità, per il Covid -19 e la durata istituzionale del mandato. Certo che il Pd che cura il golf più della sovranità del popolo farà rivoltare nelle tombe Enrico Berlinguer e Palmiro Togliatti oltre agli elettori. Ma perché esistono ancora gli elettori?
FONTE: https://www.elisabettaaniballi.com/un-compromesso-tra-finta-onesta-e-paura-di-perdere-le-elezioni-il-commento/?cn-reloaded=1
SCIENZE TECNOLOGIE
L’infettivologo Galli: «Non scaricate tutto sulle famiglie. A scuola 6 ore con la mascherina? Utopia»
L’infettivologo Galli: «No alla febbre misurata dai genitori»
In vista della riapertura delle scuole si è deciso che la temperatura non venga misurata all’ingresso negli istituti, ma al mattino dai genitori. Galli risponde: «Se uno deve fare una sorveglianza epidemiologica non la può scaricare sulle spalle dei cittadini. La deve fare come struttura sanitaria, è una responsabilità politica».
Ci sono molte cose che vanno valutate
Sempre in merito alla misurazione della febbre che sarebbe compito delle famiglie,l’infettivologo Galli fa inoltre notare altri elementi. «Se un bimbo ha la febbre la sera e il mattino dopo non ce l’ha più e te lo mandano a scuola lo stesso, c’è qualcosa che non va. Come tutti ben sappiamo, infatti, è possibile che nelle prime ore del mattino la febbre sia scesa pur essendoci un processo infettivo in atto. Le cose da rivedere sono molte», sostiene l’esperto. «Un termometro per ogni casa di solito c’è. Però se ci sono 3, 4, 5 bimbi diventa un pochino complicato gestire tutto a livello domiciliare».
L’infettivologo Galli sulla stagione invernale
Pensando poi alla stagione invernale e a tutti virus che circoleranno oltre al Sars-CoV-2, Galli insiste. Bisogna «sviluppare dei protocolli e delle attenzioni: più test e meno plexiglass. Più test e meno banchi, più intervento sanitario nella scuola perché la totale garanzia che l’infezione non entri non ce l’abbiamo e non ce l’avremo mai. Il punto è riuscire a identificarla in maniera precoce e limitare il più rapidamente possibile i danni», ricordando che per la Covid in particolare «abbiamo una forte percentuale, oltre il 30% e forse addirittura di più nei giovanissimi, di persone che si infettano e rimangono del tutto asintomatiche».
FONTE: https://www.secoloditalia.it/2020/08/linfettivologo-galli-non-scaricate-tutto-sulle-famiglie-a-scuola-6-ore-con-la-mascherina-utopia/
STORIA
Le imprese statunitensi che finanziarono Hitler
LUCA LEONARDO D’AGOSTINI – 31 maggio 2020
Una delle più importanti pagine di storia del XX secolo non raccontate nei libri di scuola occidentali, è quella che tratta i rapporti tra i grandi gruppi industriali statunitensi e la Germania nazista. Essenzialmente sono due i motivi per cui si omette di affrontare questa parte fondamentale di storia. Primo motivo consiste nel fatto che furono la finanza e le grandi aziende statunitensi a consentire alla Germania di risollevarsi dalla crisi socio-economica in cui versava per via delle condizioni capestro inflitte alla Germania alla fine della Prima Guerra Mondiale mediante il Trattato di Versailles. Il secondo motivo consiste nel fatto che fu proprio il sostegno economico e finanziario statunitense a consentire ad Hitler di armarsi, e che addirittura quando scoppiò la Seconda Guerra Mondiale, le grandi imprese statunitensi continuarono a fare affari con la Germania nazista tanto da consentirgli di poter mantenere il suo apparato bellico. Ciò è confermato anche dalle parole del presidente degli Stati Uniti Franklin D. Roosevelt, il quale in un discorso effettuato a Washington nel novembre del 1941 affermò: “L’andamento complessivo della nostra grande produzione industriale, non deve essere ostacolato dal comportamento egoista, di un pericoloso gruppo di imprenditori che pensano soltanto a realizzare eccezionali profitti. Costoro continuano a curare i propri affari come se niente fosse“.
Nel 1941 in Germania prosperavano ancora 553 aziende statunitensi, tra le quali Standard Oli, General Motors, Ford, IBM, Kodak, Coca Cola. Queste società mantenevano intensi rapporti commerciali con i nazisti, mentre i dirigenti dei quattro grandi colossi statunitensi (Standard Oil, General Motors, Ford, IBM) e delle relative affiliate tedesche potevano essere considerati addirittura amici di Hitler. Senza di essi infatti, il Führer non avrebbe potuto fare la sua guerra.
Standard Oil
Negli anni Trenta, la Standard Oil era il più grande gigante petrolifero degli Stati Uniti. Il potente gruppo che diventerà la “Esso”, portò avanti la sua politica economica in tutto il mondo senza distinguere tra regimi democratici e dittature. Il suo obiettivo consisteva nel creare un monopolio. La compagnia petrolifera Standard Oil faceva parte dell’impero Rockefeller e la sua sede centrale era a New York.
Il presidente della Standard Oil era il manager Walter Clark Teagle.
Teagle contribuì in maniera determinante allo sviluppo industriale della Germania nazista, sia prima che durante la Seconda Guerra Mondiale, anche attraverso il suo coinvolgimento con la società chimica tedesca IG Farben. A guidare il gruppo chimico tedesco concorrente della Standard Oil, c’era un altro dirigente spregiudicato, Hermann Schmitz. IG Farben aveva messo a punto un procedimento per creare la benzina sintetica, in modo tale che in caso di carenza di petrolio, il titolare del brevetto sarebbe diventato il padrone del mercato mondiale. Ma nel 1938 la Germania era ancora costretta ad importare l’80% del proprio fabbisogno di greggio.
Hitler voleva la guerra, ma per motivi strategici necessitava a qualunque costo della benzina sintetica. Era cosciente che in caso di conflitto la Germania si sarebbe vista chiudere gli approvvigionamenti petroliferi. Era stata progettata la costruzione di un oleodotto, poi la creazione di una flotta di petroliere, ma tutte queste idee erano state bloccate sul nascere da Hitler che invece aveva un piano molto chiaro, la Germania doveva vincere unicamente con l’autarchia.
Dal discorso di Hermann Göring, tenuto a Berlino nell’agosto del 1936: “Sapevamo di non avere carburante ed abbiamo costruito le fabbriche che dovevano fornirci il carburante, sapevamo che non potevamo procurarci il caucciù ed abbiamo costruito le fabbriche di caucciù, gli americani pensavano di avere il monopolio, ma la scienza tedesca ha spezzato questi monopoli e oggi siamo in possesso di tutti i mezzi necessari per sconfiggere il nemico“. Chi era Hermann Göring? Occorre ricordare che con il titolo di Maresciallo del Reich, era il numero due del regime nazista. Inoltre era anche il capo della Luftwaffe (aviazione militare tedesca) e questa carica gli forniva già di per sé un importante ruolo economico, ma ad aumentare il suo peso contribuì ulteriormente la nomina avvenuta alla fine del 1936 a Responsabile del Piano Quadriennale Economico della Germania. Altresì Göring vantava una fitta rete internazionale di pubbliche relazioni con personaggi di alto spessore economico.
Ma il potente comandante della Luftwaffe sottovalutò un elemento fondamentale: il piombo tetraetile. Si tratta di un additivo per benzina, senza il quale i motori supercompressi dell’aviazione militare tedesca non potevano decollare, e Hitler aveva necessità di una Luftwaffe pronta ed efficiente per realizzare i suoi piani di conquista a Est. Fu così che Göring invitò i dirigenti della IG Farben a mettersi in contatto con gli amici statunitensi. La Standard Oil infatti, era la prima produttrice al mondo di piombo tetraetile. I tedeschi avevano bisogno del know-how di Standard Oil per la costosa produzione del nuovo carburante sintetico. L’accordo tra Standard Oil e IG Farben fu realizzato in breve tempo. Walter Clark Teagle ed Hermann Schmitz realizzarono in breve tempo la costruzione in Germania di due impianti per la produzione di piombo tetraetile.
Ma nel luglio del 1938, la produzione era ancora insufficiente. Un approvvigionamento rapido e diretto avrebbe potuto mettere al sicuro da pericolosi imprevisti. La filiale della Standard Oil a Londra consegnò immediatamente ai nazisti l’antidetonante per un valore di 20 milioni di dollari. In quel momento Hitler era in grado di procedere all’annessione dei Sudeti e preparare l’attacco alla Cecoslovacchia.
Poco prima dell’invasione della Polonia, la filiale britannica della Standard Oil consegnò altro piombo tetraetile per un valore di 15 milioni di dollari. Durante la Battaglia d’Inghilterra, i primi bombardamenti aerei su Londra furono possibili proprio grazie alla disponibilità e all’utilizzo di questo composto chimico.
Per la sua guerra Hitler aveva estrema necessità di petrolio, ma in Germania la produzione del combustibile sintetico copriva appena la metà del fabbisogno. Ancora una volta era necessario ricorrere all’aiuto degli amici industriali negli Stati Uniti.
Standard Oil possedeva quasi la metà dei diritti sui giacimenti petroliferi rumeni di Ploiești, la fonte di greggio più importante in quegli anni per la Germania. Nell’archivio militare di Friburgo sono raccolte lettere e documenti che testimoniano che i nazisti avevano urgente bisogno di bright stock, l’olio pesante. Solo gli Stati Uniti erano in grado di rifornirli di questo materiale determinante per la realizzazione della guerra di Hitler ed anche durante tutta la guerra le imprese statunitensi fornirono bright stock alla Germania in quantità sufficiente per soddisfare le proprie esigenze belliche. Il bright stock è un derivato molto pregiato del petrolio, che tra l’altro veniva usato per alimentare i motori dei carri armati.
Il Terzo Reich dunque continuava ad avere bisogno della benzina e del gasolio degli Stati Uniti. Le navi degli amici statunitensi di Hitler nascondevano il petrolio nel Mar dei Caraibi e di norma le petroliere che li trasportavano battevano bandiera panamense. Ma nell’Oceano Atlantico stazionavano le navi da guerra britanniche che cercavano mediante il blocco navale di tagliare i rifornimenti petroliferi destinati a Hitler.
Il comandante supremo della marina militare tedesca, l’ammiraglio Karl Dönitz, riuscì ad ottenere un finanziamento di 500 mila dollari. Il diesel era un carburante molto costoso e Hitler voleva dominare l’Atlantico con i suoi sommergibili. Le consegne del diesel avvenivano mediante l’aiuto di industriali statunitensi della Standard Oil e soprattutto della Texaco di Torkild Rieber, un manager di origine norvegese fidato amico di Hitler. Rieber aveva anche rapporti con i servizi segreti tedeschi e sul suo conto gli informatori del Reich stilarono giudizi lusinghieri, tanto che fu definito “un vero sostenitore della Germania e sincero ammiratore di Hitler“.
Passando per Tenerife e altri porti spagnoli, le petroliere consegnavano il petrolio destinato ai tedeschi che in questo modo eludevano il blocco navale degli inglesi. Le navi cisterne rifornivano i sommergibili tedeschi direttamente in mare, davanti alle coste spagnole.
Il 7 dicembre 1941, con un attacco aereo alla base militare di Pearl Harbor il Giappone allargò la guerra nel Pacifico e interruppe i collegamenti tra gli Stati Uniti e la Malaysia, il principale fornitore di caucciù dell’esercito statunitense. Ma le due società, Standard Oil e IG Farben si erano accordate per mantenere relazioni d’affari anche nel caso di un coinvolgimento degli Stati Uniti nel conflitto. I dirigenti di Standard Oil e IG Farben stipularono un patto segreto. La IG Farben voleva impedire la confisca dei suoi brevetti nei paesi nemici e per questo intendeva metterli nelle mani fidate del gruppo statunitense. I chimici tedeschi avevano già realizzato la buna, una gomma sintetica ottenuta da carbone e calcio. Oltre che a Hitler, questi brevetti facevano gola anche alla Standard Oil, che fiutava la possibilità di assicurarsi un mercato redditizio anche negli Stati Uniti. Nel contratto di cessione del brevetto della buna (gomma sintetica), la Standard Oil su disposizione del Ministero dell’Economia del Reich, si impegnava ad utilizzare il brevetto solo previa autorizzazione tedesca. Malgrado la crisi della gomma, Standard Oil tenne fede all’accordo stipulato con i tedeschi. Il procedimento per la produzione della buna non doveva finire nelle mani di industrie concorrenti come la Goodyear.
Il potente senatore Bernard Baruch, incaricato di un’indagine dal presidente Roosevelt, nel gennaio del 1942 si rivolse così durante un discorso alla nazione: “Siamo del parere che l’attuale crisi possa aggravarsi a tal punto che in assenza di provvedimenti immediati, il Paese rischia il tracollo militare e sociale“.
Dopo Pearl Harbor, la Standard Oil e le sue affiliate continuarono a fornire benzina i nazisti. Nel frattempo negli Stati Uniti, il governo fu costretto a prendere provvedimenti per razionare la benzina.
Molti cittadini statunitensi, fra cui anche alcuni membri del Congresso, diedero la colpa alle compagnie petrolifere che continuavano a rifornire i nazisti e non consegnavano i brevetti del caucciù. Il senatore Harry Truman, futuro Presidente degli Stati Uniti, costretto dall’opinione pubblica ordinò un’inchiesta del Senato sulla situazione della difesa nazionale. Lo affiancò Thurman Arnold, esperto finanziario del Ministero della Giustizia. Dall’inizio della guerra, Standard Oil e potenti dirigenti come Teagle, erano controllati da Arnold e dai suoi collaboratori. In una precedente indagine avevano già tentato di infliggere al gruppo una sanzione amministrativa di 50 mila dollari per aver avuto rapporti d’affari con il nemico. Ma visto il ruolo fondamentale ricoperto da Standard Oil per gli Stati Uniti in guerra, il colosso del petrolio e il suo potente manager erano riusciti ad ottenere una riduzione della multa a mille dollari. Durante l’audizione al Senato, Thurman Arnold accusò Standard Oil che si rifiutava di consegnare il brevetto di caucciù, di complotto reiterato a favore dei nazisti. Successivamente, in una conferenza stampa, Thurman Arnold usò persino la parola “tradimento“.
Il congresso deliberò che i brevetti della buna venissero liberalizzati in tutti gli Stati Uniti. Il potere di Walter Clark Teagle era finito. Il top manager si dimise dai vertici del gruppo.
General Motors
All’inizio degli anni Trenta, la Opel, affiliata del gruppo statunitense General Motors, intraprese la costruzione di automezzi militari pesanti.
Nella primavera del 1935 a Brandeburgo, con la collaborazione della Wehrmacht, furono attrezzate nuove officine per mezzi pesanti. I manager della Opel, nel cui consiglio di amministrazione sedevano anche gli statunitensi, fiutarono subito il colossale affare rappresentato dalle commesse delle forze armate.
Realizzato secondo i nuovi sistemi di produzione statunitensi, l’impianto era il più moderno d’Europa e produceva ogni giorno 120 autocarri “Opel Blitz”, che costituivano la spina dorsale della Wehrmacht.
Senza l’Opel Blitz, Hitler non sarebbe riuscito ad entrare trionfalmente a Vienna, infatti durante le manovre militari per l’annessione dell’Austria, numerosi mezzi pesanti di altre marche si guastarono lungo la strada. Hitler dimostrò subito la sua riconoscenza: visitò personalmente lo stabilimento di Brandeburgo e ordinò altri duemila Opel Blitz.
Dall’avvento del nazismo fino allo scoppio della guerra, nella General Motors fu fondamentale il ruolo di un brillante manager statunitense. Il suo nome era James D. Mooney. In qualità di vicepresidente della General Motors in Germania, per i meriti acquisiti nella trasformazione della Opel in una delle maggiori aziende del settore militare, ricevette da Hitler l’Ordine dell’Aquila, la massima onorificenza conferita dal Partito Nazionalsocialista ad uno straniero.
Ogni volta che fu impiegato, l’Opel Blitz superò brillantemente le prove più ardue. L’avanzata ad Oriente, l’annessione dei Sudeti e l’aggressione alla Cecoslovacchia. Poi seguirono i successi della guerra lampo ad Ovest. Nel 1940, in poche settimane Olanda, Belgio e Francia furono travolte. Questi camion risultarono fondamentali anche per l’invasione dell’Unione Sovietica. Senza l’Opel Blitz, l’esercito tedesco non avrebbe mai potuto trasportare i suoi soldati per migliaia di chilometri all’interno dell’Unione Sovietica.
Negli stabilimenti Opel, la produzione di vetture utilitarie fu quasi del tutto abbandonata. Gli investimenti erano diminuiti e il personale si era assottigliato per la chiamata alle armi. Le officine interruppero questo tipo di produzione e la Luftwaffe pensò ad un nuovo utilizzo degli impianti di produzione di vetture utilitarie. Fu così che in quegli stabilimenti la Opel iniziò a produrre parti di fusoliera e motori per gli Junker-88, i più potenti bombardieri di Hitler. L’accordo firmato tra la Luftwaffe e la Opel fu possibile grazie al ruolo fondamentale svolto dal vicepresidente James D. Mooney, il quale viveva a Berlino, intratteneva rapporti epistolari con i vertici del partito nazista e nell’autunno del 1939 ebbe modo di incontrare più volte Hermann Göring, il capo della Luftwaffe, l’aviazione militare nazista.
Nei colloqui con Göring, Mooney espresse una forte solidarietà con i politici nazisti. Anche lui riteneva che dopo la Prima Guerra Mondiale, la Germania fosse stata trattata in modo troppo duro da Francia e Inghilterra. Göring incoraggiò Mooney a svolgere un’opera di mediazione. Mooney si rivolse al presidente statunitense Roosevelt, il quale si dichiarò disponibile a fare da mediatore. Roosevelt in persona augurò un buon successo alla missione di Mooney.
E qui risulta del tutto evidente la russofobia statunitense. Roosevelt con un embargo sul commercio avrebbe potuto impedire questo fondamentale sostegno alla mobilità dell’esercito nazista, ma non lo fece. Utilizzò invece gli industriali e i banchieri statunitensi per sviluppare e consolidare i rapporti diplomatici tra gli Stati Uniti America e la Germania nazista, in modo da potenziare quanto più possibile la macchina bellica tedesca al fine di renderla in grado di aggredire e invadere prima o poi l’Unione Sovietica.
Grazie alle continue adulazioni, nel febbraio del 1940 Mooney ebbe modo di incontrare Hitler nella nuova sede della Cancelleria. In un diario rimasto per decenni inedito per volere della General Motors, Mooney descrisse il colloquio estremamente amichevole avuto con il Führer. In una lettera indirizzata a Roosevelt, Mooney descrisse Hitler come una persona cordiale e amichevole. In seguito, Messersmith il Sottosegretario del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, definì Mooney: “un fascista“.
Ma questo episodio non cambiò i rapporti tra la General Motors e la Opel, che continuò a costruire veicoli militari per la Germania nazista. Per consentirgli di invadere l’Unione Sovietica, la Opel nei primi anni di guerra fornì all’esercito tedesco più di centomila mezzi militari.
Il 15 maggio 1941 il generale nazista Adolf von Schell, responsabile della fornitura di automezzi militari, conferì alla Opel un attestato nel quale dichiarava che senza l’aiuto dell’azienda non sarebbe stato possibile continua la guerra. Sempre nel 1941 la General Motors rifiutò una proposta d’acquisto per la Opel, preferì non vendere la casa automobilistica e rimanere in Germania. In una lettera al commissario del Reich per i patrimoni del nemico, la General Motors fece sapere di essersi ormai identificata con le sorti della Germania.
Al contempo, la General Motors partecipò al riarmo statunitense con molto zelo. L’organizzazione fu affidata allo stesso James D. Mooney. Il presidente della General Motors Alfred Sloan dichiarò: “Un’impresa multinazionale presente in tutto il mondo, è tenuta a gestire le proprie attività in base a rigidi criteri economici, incurante delle idee politiche del paese in cui opera. Non siamo un ente assistenziale, noi realizziamo profitti per i nostri azionisti“.
Il 6 agosto 1944, lo stabilimento di Brandeburgo fu quasi completamente distrutto dai bombardieri statunitensi. Anni dopo però, la General Motors ottenne dal fisco degli Stati Uniti un nuovo indennizzo di ben 32 milioni di dollari.
Ford
Nel 1939 nella cittadina di Riverdale, nel New Jersey, membri della Lega Tedesco-Americana (German-American Bund) marciarono durante uno dei loro campi estivi.
Il leader del movimento, del movimento Fritz Julius Kuhn, un chimico delle industrie Ford, era stato già membro del partito nazista in Germania. I 30 mila membri del German-American Bund promuovevano politiche razziste e antisemite filo hitleriane. Avevano simpatizzanti altolocati, come il datore di lavoro Fritz Kuhn.
Infatti, nel 1921 era stata pubblicata l’edizione tedesca del libro scritto da Henry Ford “L’ebreo internazionale. Un problema mondiale“. Fin dall’inizio, tra il leggendario costruttore di automobili Henry Ford e Adolf Hitler, c’era un elemento di forte comunanza spirituale: l’antisemitismo. Il libro di Ford rafforzò in Hitler l’odio antiebraico e lo indusse ad elementi di riflessione per la stesura del suo “Mein Kampf“.
Inoltre alcuni industriali statunitensi e membri della finanza, vedevano in Hitler e nelle dittature fasciste europee una possibile soluzione ai problemi che incontravano con i movimenti dei lavoratori e con i sindacati. Agli occhi di Henry Ford i sindacati erano opera del diavolo. L’azione brutale di Hitler contro i sindacati piacque a Ford che presidiava le sue fabbriche con milizie armate. Prima che Hitler salisse al potere, Ford lo sostenne con ingenti finanziamenti, tanto che un’immagine del benefattore statunitense era appesa nella sede del partito nazista a Monaco di Baviera.
Ogni giorno tantissimi tedeschi scrivevano lettere di ammirazione a Ford, il fordismo divenne l’ideologia degli industriali tedeschi. Per costoro ogni azione doveva essere realizzata proprio come l’aveva già realizzata Ford.
Nel 1930 Ford si recò in Germania, nella città di Colonia dove partecipò alla posa della prima pietra per la costruzione di un proprio stabilimento industriale. All’inizio gli affari non andarono bene, le Ford erano care e dovevano fare i conti con l’avversione di molti tedeschi verso i prodotti stranieri. Dal discorso di Hitler tenuto a Monaco il 16 febbraio 1935: “L’acquirente medio che oggi acquista un’auto straniera, non può dire di aver fatto questa scelta a causa della qualità superiore del prodotto, ormai le nostre autovetture tedesche non hanno più nulla da invidiare a quelle estere“.
All’inizio degli anni Trenta la produzione di autovetture negli stabilimenti Ford aveva subito una netta flessione. Edsel Ford, il figlio di Henry Ford assunse la direzione degli stabilimenti di Colonia e Detroit. Tramite informazioni riservate, Edsel Ford apprese che in Germania era in atto una battaglia economica in cui le commesse statali assumevano sempre maggiore importanza. Per Henry Ford non ci furono problemi, il motore otto cilindri Ford poteva essere venduto come motore per i fuoristrada militari. Fu così che la conversione dello stabilimento Ford di Colonia fu immediata.
Henry Ford impose che gli altri produttori d’auto stranieri non ricevessero più caucciù per pneumatici, né valuta per importarlo. Furono obbligati a procurarsi la gomma attraverso scambi merce e a destinare il 25% alla produzione bellica. Il dittatore tedesco si mostrò riconoscente verso il potente industriale statunitense. Finalmente, i veicoli prodotti a Colonia poterono fregiarsi del marchio: “prodotto tedesco”.
Gli affari con il regime nazista si intensificarono. Nel 1938 Ford e Opel furono introdotte nel programma di pianificazione della Wehrmacht. L’esercito tedesco in breve tempo commissionò alla Ford un ordine 100 mila autocarri, inclusi quelli pesanti a tre assi e i veicoli con trasmissione a catena. Ma i nazisti avevano fretta, stavano per effettuare l’annessione dei Sudeti e intendevano ricevere immediatamente dalla Ford mille automezzi pesanti, ma lo stabilimento di Colonia non era in grado di produrli in tempi così brevi.
La filiale statunitense offrì subito una soluzione. Furono spediti il giorno stesso da Detroit motori, telai e le cabine degli autoarticolati e appena giunti a Colonia furono assemblati di notte in tutta segretezza. Fu così che in brevissimo tempo la Wehrmacht ritirò gli autocarri richiesti e procedette immediatamente all’invasione della Cecoslovacchia. Quando ci si scandalizza per l’aggressività di Hitler, per il suo cinismo, per aver causato la guerra in Europa, si dimentica sempre che senza il sostegno delle imprese statunitensi non avrebbe potuto fare nulla. Nel caso specifico, si è davvero così ingenui da credere che alla Ford non sapessero a cosa servissero quei mille camion, da consegnare immediatamente e tutti insieme? Quanta ipocrisia!
Alla fine del 1938, Hitler dal canto suo insignì Ford della più alta onorificenza militare nazista concessa a uno straniero: l’Ordine dell’Aquila. Ford si fece appuntare con orgoglio l’onorificenza sulla giacca dal viceconsole tedesco a Detroit.
Ma anche Henry Ford si dimostrò riconoscente per i buoni affari conclusi. Così, il 20 aprile del 1939, in occasione del cinquantesimo compleanno di Hitler, la Ford versò 35 mila reichsmark sul conto personale del Führer.
Nei più nei primi anni di guerra aumentò in modo massiccio la produzione di mezzi pesanti ed Henry Ford se ne rallegrò. Poi, quando venne a sapere che un suo stabilimento in Gran Bretagna avrebbe dovuto costruire seimila motori per la Royal Air Force (l’aviazione militare britannica), Henry Ford si oppose. Scrisse al Daily Mail di Londra che poteva accettare solo commesse militari per la difesa degli Stati Uniti. Al contrario, l’industriale statunitense non aveva nulla da obiettare sul fatto che nella Francia occupata dai nazisti, gli impianti Ford lavorassero a pieno regime per la Wehrmacht, producendo mille mezzi pesanti al mese.
Dal 1942 ormai scarseggiava la manodopera nelle industrie tedesche. Lo sforzo militare, soprattutto quello sostenuto contro l’Unione Sovietica, impose il reclutamento di tutti gli uomini abili. Così, nello stabilimento di Colonia, la Ford poteva garantire i rifornimenti alla Wehrmacht solo ricorrendo al lavoro forzato e alla schiavitù. I prigionieri furono alloggiati in un apposito campo di baracche adiacente allo stabilimento industriale. Negli ultimi anni del conflitto, Ford affittò anche migliaia di detenuti nei lager, soprattutto sovietici. Per ogni detenuto pagava alle SS 4 marchi al giorno. Le condizioni di vita e di lavoro erano disumane.
“Curioso”, si fa per dire, il fatto che nel 1942 la città di Colonia fu bombardata a tappeto dagli angloamericani e nonostante la quasi completa distruzione della città, lo stabilimento industriale Ford non fu mai volutamente colpito. Così, nel corso dell’intera Seconda Guerra Mondiale, lo stabilimento Ford di Colonia produsse indisturbato per la Wehrmacht 78 mila mezzi pesanti e 14 mila mezzi con trasmissione a catena.
Solo nel 1944, alcune bombe caddero nei pressi dello stabilimento della Ford a Colonia, causando lievi danni. Di contro, con faccia tosta, nel 1965 la Ford chiese ad una commissione del governo statunitense circa 7 milioni di dollari di risarcimento per i danni di guerra. La commissione quantificò questo risarcimento in mezzo milione di dollari.
International Business Machines (IBM)
L’ascesa al potere di Hitler coincise con un vero e proprio boom della filiale tedesca della IBM. I calcolatori erano usati in quasi tutte le grandi industrie, ma da quel momento fra i grandi committenti figurò anche il governo tedesco.
Nel 1935 la Dehomag, l’affiliata della IBM in Germania, costruì un uovo grande stabilimento alla periferia di Berlino. Mediante schede perforate, le macchine prodotte dalla Dehomag in collaborazione con la IBM, lavoravano rapidamente dati per statistiche, registrazioni e calcoli, di cui producevano degli stampati.
Anche il fondatore e presidente della IBM Thomas Watson, rimase impressionato dai successi della Dehomag e per questi motivi si recava spesso in Germania. Thomas Watson era riconosciuto come un estimatore e ammiratore di Hitler, dimostrazione stava nel fatto che sia moralmente che materialmente e finanziariamente lo aveva sempre sostenuto, ancor prima che salisse al potere.
Nell’estate del 1937 la Camera di Commercio Internazionale organizzò a Berlino il suo congresso mondiale. Watson riuscì a farsi eleggere presidente. Un articolo del New York Times illustrò la cerimonia al Teatro Kroll (Krolloper): Watson era tra gli stranieri che presenti all’ingresso del teatro alzarono la mano destra in segno di saluto verso Adolf Hitler. Il giorno dopo fu addirittura ricevuto dal Führer. Thomas Watson dichiarò alla stampa: “Hitler con i suoi progetti ha imboccato la strada giusta. Tutto andrà nel migliore dei modi!“
Anche Watson fu insignito dell’Ordine dell’Aquila. A consegnargli l’onorificenza fu Hjalmar Schacht, all’epoca ministro delle finanze del Terzo Reich.
La Dehomag e la IBM divennero uno strumento indispensabile per la realizzazione del piano di sterminio degli ebrei. Infatti i loro calcolatori gestirono il grande censimento del 1939 mediante il quale le SS intendevano scoprire quanti ebrei vivessero in Germania, nella regione dei Sudeti e in Austria. In una seconda scheda, la cosiddetta carta supplementare veniva chiesto il nome, l’indirizzo, la razza e la discendenza anche di genitori e dei nonni. In questo modo, l’ufficio per la razza delle SS intendeva registrare tutti gli ebrei purosangue, mezzosangue e quarto di sangue.
Il 1° settembre 1939 l’aggressione alla Polonia segnò l’inizio della “Politica di annientamento ad Est”. Cracovia divenne la capitale della Polonia occupata, trasformata in governatorato. Nella Rocca di Cracovia si insediò Karl Hermann Frank, il brutale governatore di Hitler. Frank istituì a Cracovia un grande ufficio statistico nel quale giunsero per lavorare molti collaboratori di fiducia di Thomas Watson. Molti altri stretti collaboratori di Watson giunsero in altre città polacche, tanto che la rappresentanza della IBM a Varsavia fu ribattezzata “Watson Business Machines“.
In seguito, per attuare lo sterminio degli ebrei, tutte le cariche degli uffici anagrafici e statistici in Polonia, in Austria e in Francia, furono ricoperte da personale della IBM.
Nell’autunno del 1943 la carenza di manodopera rallentava la produzione bellica, così anche i detenuti dei campi di concentramento dovevano essere schedati in base alle competenze professionali e mandati a lavorare in modo forzato in tutto il territorio del Reich. In tutti i lager nazisti furono istituiti dei centri di rilevamento.
Tutti i dati elaborati dalla IBM venivano inviati alla sede delle SS a Berlino. Si stima che i prigionieri dei campi di concentramento schedati dalla IBM e ritenuti abili al lavoro forzato furono oltre un milione. Gran parte di questo archivio è stato immediatamente distrutto pochi giorni prima della caduta di Berlino, ma circa 140 mila schede della IBM sono ancora conservate presso l’Archivio Militare di Berlino.
Nel 1940, il giovane socio tedesco Willy Heidinger, il quale insieme ad altri due azionisti tedeschi deteneva il 15% della Dehomag, cercò di ridimensionare il ruolo degli statunitensi. Inoltre, il potere esclusivo della Dehomag all’interno del sistema tedesco cominciò a destare preoccupazione e sospetto. Il comandante di brigata delle SS Edmund Wiesmaier, da tempo consigliere di Hitler, si ispirava al vecchio detto “tutto ciò che giova al popolo tedesco è giusto!” e cominciò a parlare di nazionalizzazione.
Ma Thomas Watson non intendeva arrendersi così facilmente. Nel 1940 inviò a Berlino un collaboratore fidato e risoluto, il quale doveva trattare non solo con Heidinger ma anche con il comandante delle SS. Watson che si trovava a New York veniva tenuto informato tramite messaggi cifrati trasmessi dall’ambasciata degli Stati Uniti in Germania. Nel corso dei negoziati Wiesmaier risultò più conciliante. I nazisti infatti avevano bisogno dell’IBM per gestire la complessa macchina bellica, ma se la IBM voleva evitare la nazionalizzazione avrebbe dovuto accettare la riduzione della partecipazione azionaria. Tramite il suo emissario, Watson rifiutò anche questa offerta. Così, per l’intero periodo della guerra la IBM restò proprietaria della Dehomag.
Kodak
Anche l’azienda statunitense Kodak fu una stretta collaboratrice del regime nazista e giocò un ruolo importante durante la Seconda Guerra Mondiale.
Infatti, i nazisti continuarono non solo ad importare dalla Kodak bobine e materiali chimici per la realizzazione di filmati, ma le filiali della Kodak presenti in Germania fabbricavano inneschi, detonatori e altro materiale militare. Ciò ha davvero dell’incomprensibile in quanto il governo statunitense non attuò mai un embargo nei confronti della Kodak.
Inoltre la Kodak, nei suoi stabilimenti presenti in Germania, su richiesta del governo tedesco dapprima licenziò tutti i dipendenti ebrei e poi in seguito utilizzò più di 250 prigionieri dei campi di concentramento nazisti, facendoli lavorare in stato di schiavitù.
Coca Cola
La Coca Cola fu una delle prime aziende a collaborare con il regime nazista. Durante le Olimpiadi di Berlino nel 1936 infatti fu uno degli sponsor ufficiali.
La Fanta, la famosa bibita analcolica all’arancia, fu ideata in Germania nel 1940. La bibita nacque come sostitutivo della bevanda Coca Cola che dopo l’embargo della Seconda Guerra Mondiale non venne più importata in Germania. L’ideatore della bibita all’arancia fu Max Keith che, prima di allora, dirigeva le diverse fabbriche della Coca Cola Company sul suolo tedesco.
Il nome “Fanta” deriva dalla parola tedesca “Fantasieden” (in italiano “immaginazione”) e altro non era che un composto di fibra di mela da sidro e siero di latte.
Quindi all’inizio della sua storia, per la Fanta niente agrumi. Infatti ad inizio anni ’40, nella Germania nazista di agrumi non ve ne erano abbastanza.
Le banche statunitensi
Tutto iniziò alla vigilia del primo conflitto mondiale, quando la Banca Morgan spinse il neutralista Woodrow Wilson a spedire le truppe in Europa. La Morgan (che in seguito diventerà la JP Morgan) era la più potente banca del tempo e aveva raccolto oltre il 75% dei finanziamenti per le forze anglo-americane. Voglia di guerra, non importa su che fronte: la National City Bank, che pure lavorava a fianco della Morgan nel rifornire inglesi e francesi, non si faceva problemi a finanziare anche i tedeschi, come anche fece la Chase Manhattan Bank.
La banca Morgan, inoltre, aveva acquisito il controllo dei 25 principali quotidiani statunitensi. Obiettivo: propagandare l’opinione pubblica statunitense pilotandola in favore dell’entrata degli Stati Uniti nella Prima Guerra Mondiale.
Il legame tra il comparto militare-industriale e gli oligarchi di Wall Street è una connessione che risale agli inizi del Novecento. Le banche hanno sempre tratto profitto dalla guerra, perché il debito creato dalle banche si traduce in un enorme bottino di guerra per la grande finanza. E anche perché le guerre sono state utilizzate per aprire i paesi esteri agli interessi corporativi e bancari degli Stati Uniti. Ammise William Jennings Bryan, segretario di Stato durante il primo conflitto mondiale: “C’erano grandi interessi bancari legati alla Prima Guerra Mondiale poiché grandi erano le opportunità di profitto“. Il problema: tutelare gli interessi commerciali degli statunitensi, che avevano fortemente investito negli alleati europei. Almeno due miliardi e mezzo di dollari dell’epoca, prestati a francesi e inglesi a partire dal 1915. “I banchieri ritennero che, se la Germania avesse vinto la guerra, i loro prestiti agli alleati europei non sarebbero stati rimborsati“.
Il più grande banchiere statunitense dell’epoca, John Pierpont Morgan, fece di tutto per trascinare gli Stati Uniti in guerra a fianco dell’Inghilterra e della Francia, finendo per convincere il presidente Wilson. Obiettivo: proteggere gli investimenti delle banche statunitensi in Europa. Non a caso il marine più decorato nella storia, Smedley Butler, dichiarò: “Io ho combattuto essenzialmente per le banche americane“.
Nel periodo antecedente la Seconda Guerra Mondiale fu anche creato un piano per gettare le basi per gli investimenti statunitensi in Germania. La strategia, ideata da Hjalmar Schacht della Dresdner Bank, si basava sulle istruzioni del capo della Banca d’Inghilterra e dell’amministratore della banca Morgan; il politico statunitense repubblicano John Foster Dulles, divenuto poi il segretario di Stato nell’amministrazione Eisenhower, ordinò di redigere questa politica. Il piano impiegò un anno per diventare effettivo, ma alla fine del 1923 Schacht divenne il Presidente di Reichsbank. Questo è il modo in cui il sistema finanziario anglo-americano è stato fuso con l’equivalente tedesco. Nell’estate del 1924 il progetto fu reso noto al pubblico come “Piano Dawes”, chiamato cosi dal nome dell’amministratore della banca Morgan. Il piano prevedeva di ridurre della metà la somme dei risarcimenti tedeschi e risolse inoltre il problema di accesso al capitale per la Germania. La priorità era quella di stabilizzare la moneta per poi spianare la strada al processo di investimenti in Germania. Il piano stanziò 200 milioni di dollari di credito per la Germania e la metà di questa somma proveniva da Chase Bank e Morgan. L’importo può sembrare irrilevante, ma allora, nel 1924, 200 milioni di dollari erano pari al 2% dei ricavi complessivi del governo degli Stati Uniti.
Il rimborso del debito tedesco, francese e britannico avvenne attraverso uno schema ben preciso: il ciclo di Weimar. L’oro utilizzato dalla Germania per pagare la somma di risarcimento di guerra fu spedito negli Stati Uniti e “scomparve” subito dopo. Il metallo tornò poi in Germania, sotto forma di un “piano di aiuti” e fu inviato in Francia e in Gran Bretagna come una rata della somma dovuta. Questi paesi poi utilizzarono questo denaro per pagare i propri debiti verso gli Stati Uniti. Ciò rese la Germania dipendente dal debito. Qualsiasi possibilità di tagliare flussi di capitale avrebbe sicuramente gettato il Paese in bancarotta. Formalmente, il credito era stato concesso per garantire il pagamento. In realtà, esso portò alla ricostruzione dell’industria militare tedesca. Il vero pagamento fu realizzato con azioni di società tedesche che erano state trasferite in mani statunitensi.
Tra il 1924 e il 1929 il valore complessivo degli investimenti esteri tedeschi valeva 15 miliardi di dollari. Nel 1929 l’industria tedesca divenne la seconda più grande al mondo, ma il tutto sotto il controllo del settore finanziario degli Stati Uniti.
La cooperazione statunitense-tedesca era così stretta che persino Deutsche Bank, Dresdner Bank e la Donat Bank erano controllate dagli Stati Uniti.
Dal 1923 ad Adolf Hitler furono concesse considerevoli somme di denaro provenienti dalla Svezia e dalla Svizzera. Nel primo paese, la famiglia Wallenberg era la principale fonte di finanziamento.
Dopo alcuni anni Hitler era pronto a svolgere il suo ruolo, ma a causa dell’economia sana, il suo partito non vinse la gara politica. Questo fu il motivo per cui da Wall Street fu assunta la decisione di avviare la crisi economica. La FED e la banca Morgan sospesero il credito per la Germania e spinsero l’Europa centrale alla recessione. La Gran Bretagna abbandonò il gold standard e fu travolta dal caos nel sistema finanziario internazionale. All’inizio del 1932 avvenne un incontro in cui fu deciso il piano di finanziamento “NSDAP”. Un anno dopo il piano di Hitler fu approvato e nel 1933 Adolf Hitler divenne cancelliere tedesco. Egli non aveva bisogno di un colpo di stato ma di una situazione economica di crisi, durante la quale milioni di tedeschi riposero la propria fiducia nel Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori (NSDAP).
I Tedeschi che desideravano l’uscita dalla crisi economica diedero la propria fiducia ad Hitler, perché questo disse loro esattamente quello che volevano sentirsi dire.
Ma il coinvolgimento delle banche anglo-americane in Europa continuò, e dopo la Prima Guerra Mondiale molte grandi banche anglo-americane finanziarono i nazisti. Nel 1998, la BBC riportò la seguente notizia: “La Barclays Bank accettò di pagare 3,6 milioni di dollari a favore degli ebrei i cui beni erano stati sequestrati dai rami francesi della banca britannica durante la Seconda Guerra Mondiale“.
Anche la Chase Manhattan Bank ammise di aver sequestrato, sempre durante il secondo conflitto mondiale, circa cento conti intestati ad ebrei nella sua filiale di Parigi. Come scrisse il “New York Daily News”: “A quanto pare i rapporti tra la Chase e i nazisti erano piuttosto amichevoli, a tal punto che Carlos Niedermann, capo della filiale Chase Bank di Parigi, scrisse al suo supervisore di Manhattan che la banca godeva «di molta stima presso i funzionari tedeschi» e vantava «una rapida crescita dei depositi»“. Occorre notare che la lettera di Niedermann fu scritta addirittura nel maggio del 1942, ovvero cinque mesi dopo che i giapponesi avevano bombardato Pearl Harbor e che gli Stati Uniti erano entrati in guerra contro la Germania.
Dopo la guerra, una commissione governativa francese, indagando sul sequestro dei conti bancari ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale riferì che erano coinvolte cinque banche statunitensi: Chase Bank, Morgan, Guaranty Trust Co. di New York, la Banca della città di New York e l’American Express. Secondo il quotidiano britannico “The Guardian”, il senatore Prescott Bush (padre di George Bush e nonno di George W. Bush), “era amministratore e socio in società che trassero largo profitto dal loro coinvolgimento nel finanziare la Germania nazista“. La società di “nonno Bush”, aggiunge il “The Guardian” sulla base di fonti d’archivio statunitensi, era “direttamente coinvolta con gli architetti finanziari del nazismo“. E i suoi rapporti di affari continuarono fino a che il patrimonio della società fu sequestrato nel 1942 nell’ambito del “Trading with Enemy Act”, la legge statunitense che sequestrava i beni di chi aveva fatto affari col nemico in tempo di guerra, ma che come abbiamo notato nel corso di questo articolo, in molti casi non fu applicata.
Attraverso la BBH (Brown Brothers Harriman), Prescott Bush agì come supporto statunitense per l’industriale tedesco Fritz Thyssen, che contribuì a finanziare Hitler nel 1930 prima di cadere con lui alla fine del decennio. Fritz Thyssen scrisse anche un libro dal titolo “I paid Hitler” (“Io finanziai Hitler”) nel quale descrisse come elargì 25 mila dollari (allora una cifra molto ingente) per finanziare il neo costituito Partito Nazionalsocialista Tedesco e riuscì a diventare il primo e più importante finanziatore nella presa del potere del Führer.
Il “The Guardian” sostiene di poter provare che lo stesso Bush sia stato il direttore della UBC, la Union Banking Corporation di New York, che rappresentava gli interessi di Thyssen negli Stati Uniti, e continuò a lavorare per la banca anche dopo che gli Stati Uniti entrerono in guerra. L’UBC (Union Banking Corporation) era stata fondata da Harriman e dal suocero di Bush per mettere una banca statunitense al servizio dei Thyssen, la più potente famiglia di industriali della Germania operante principalmente nel mondo delle acciaierie. Alla fine del 1930, la Brown Brothers Harriman, che si considerava la più grande banca privata d’investimento del mondo, e la UBC, avevano acquisito e trasferito milioni di dollari in oro, petrolio, acciaio, carbone e buoni del tesoro statunitensi alla Germania, alimentando e finanziando l’ascesa di Hitler fino alla guerra. L’economista statunitense Victor Thorn ha dichiarato: “La UBC divenne la via segreta per la protezione del capitale nazista che usciva dalla Germania verso gli Stati Uniti, passando per i Paesi Bassi. Quando i nazisti avevano bisogno di rinnovare le loro provviste, la Brown Brothers Harriman rimandava i loro fondi direttamente in Germania“.
Tra il 1931 e il 1933 la UBC acquisì più di 8 milioni di dollari in oro, di cui 3 milioni inviati all’estero. Anni dopo, la banca fu colta in flagrante a gestire una società di comodo statunitense per la famiglia Thyssen, anche dopo che gli Stati Uniti erano entrati in guerra, e si scoprì che era questa la banca che aveva finanziato in parte l’ascesa di Hitler al potere.
Secondo la BBC, Prescott Bush e la banca Morgan, unitamente ad altri investitori importanti, avrebbero anche finanziato un colpo di Stato contro il presidente Roosevelt, nel tentativo di “attuare un regime fascista negli Stati Uniti“.
Ecco quindi, che quando si parla dei Bush, occorre sempre ricordare che una parte importante delle fondamenta finanziarie della loro famiglia fu costituita grazie all’appoggio e all’aiuto forniti ad Adolfo Hitler. Quindi i presidenti degli Stati Uniti appartenenti alla famiglia Bush giunsero al vertice della gerarchia politica statunitense grazie al fatto che il nonno e il padre, e la famiglia in generale, aiutarono finanziariamente i nazisti.
Purtroppo nelle scuole occidentali non insegnano che durante la Seconda Guerra Mondiale, sia lo schieramento anglo-americano che quello nazista furono entrambi finanziati dalla stessa fonte.
Luca D’Agostini
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Fonti
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FONTE: http://www.madrerussia.com/le-imprese-statunitensi-che-finanziarono-hitler/
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