RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI
1 SETTEMBRE 2020
A cura di Manlio Lo Presti
Esergo
Affondiamo nella stupidità, non metaforicamente,
proprio come in un baratro,
in una stupidità violenta.
GUIDO CERONETTI, La lanterna del filosofo, Adelphii, 2005, pag. 81
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SOMMARIO
Il silenzio sui danni del sistema BLOCKCHAIN
SALVIAMO I BAMBINI DALLA DITTATURA. IL 5 SETTEMBRE A ROMA.
Kennedy a Berlino: pandemia totalitaria, dal regime del 5G
OCEANO BERLINO: LA VERITÀ OLTRE I MEDIA
5 SETTEMBRE PIAZZA DEL POPOLO SARA’ DEGLI ITALIANI
Rilevata nube radioattiva nel Nord Europa dovuta a fissione nucleare (e nessuno sa da dove arrivi)
I numeri smontano gli allarmisti: ecco perché è finita l’emergenza
Moltiplicando il congiunto il prodotto non cambia
Fase 3. La percezione del tempo nella nuova normalità
Adesso la Sardegna chiede i danni ai catastrofisti
CARRI ABBANDONATI E SOLDATI FANTOCCIO
Cosa deve fare l’Italia in Libia
Il Secentenario della morte di Dante.
Riappropriarsi di Spinoza
Servizi segreti, agenti, spie: lontano dai riflettori, Italia terra di scambio e guerre d’intelligence
Alessandro Meluzzi: «Non ho mai visto un tale livello di falsità dei media.
Lotta all’evasione? Gli sprechi nella Pa sono doppi
L’ascesa del femminismo neoliberista
L’era delle banche centrali
Privacy violata? Per il risarcimento serve un danno “rilevante”
Cassa integrazione: modifiche in vista al decreto Agosto? Le proposte
“E ora dovete tagliare le pensioni!” Recovery Fund, arriva subito il conto da pagare
Coronavirus. Berlino, proteste no-mask: 300 arresti
La crisi turca e il crollo della Erdoganomics
Amazon: via libera a licenza per droni.
AccessCo, tutti i dettagli sulla (futura) società della rete unica fra Tim, Cdp, Open Fiber e Fastweb
EDITORIALE
Il silenzio sui danni del sistema BLOCKCHAIN
Manlio Lo Presti – 1 settembre 2020
Il doppiopesismo di stampo gesuita condiziona l’intera galassia informativa esistente.
Todo Modo: il significato simbolico del film-accusa di Elio Petri
Coloro che si dichiarano laici, atei, troppo smaliziati per credere all’oppio dei popoli, buonisti, globalisti, neomaccartisti, antifa sono comunque vittima di questa visione “doppia” per la quale una verità è più verità di un’altra.
Non se ne esce.
La doppia verità o postverità, inizialmente prodotto di raffinatissime menti gesuitiche, è la regola di ogni opinione. Se ne servono da tempo spin doctors sfornati a ripetizione da università americane sulle tracce di un gestaltismo esasperato che considera le azioni ma non le ragioni che muovono il mondo.
E’ più facile ed immediato avere risultati dal condizionamento psico-neurale delle masse. E allora, dagli a manipolare, trasformare, dissimulare, asservire, dire e non-dire, dire mezze verità. Tutto questo per eliminare qualsiasi ostacolo ai profitti dei colossi planetari che hanno bilanci superiori e quelli di intere nazioni.
Il globalismo quadrisex pauperista ecologista è la panacea di tutti i mali sociali.
Via le strutture familiari.
Via la partizione maschio-femmina: sarà creata una umanità unigender, più semplice da controllare.
Via lo stato sociale.
Via la proprietà individuale di case perché impediscono la mobilità delle persone (Mario Monti, che però possiede un impero),e non devono avere una terra di appartenenza per esere schavi sradicati.
Via i risparmi: la gente deve vivere di debiti e di carte di credito.
Via la riservatezza dei dati personali per il controllo facciale e la sorveglianza totale.
Via la libertà di agire perché ogni comportamento sia valutato a punti, come accade per la patente.
Via l’individualità personale per la quale ognuno è una realtà diversa: bastano le mascherine renderanno tutti uguali.
Via la possibilità di formazione culturale individuale costruita personalmente: tutto sarà appreso da macchine didattiche, da motori di ricerca, da memorie di massa stivate in centri di raccolta situati in imprecisati luoghi in fondo all’oceano e gestiti da corporations private. Saremo tutti TECH-GLEBA.
Via il lavoro creativo, individuale. Tutto sarà realizzato da stampanti 3D ed il resto da meccatronici sfronati in serie e poi espulsi dai cicli produttivi quando le procedure di fabbricazione muteranno.
TUTTO CIÒ PREMESSO
Assistiamo ad una durissima campagna di diffamazione contro i protocolli definiti 5 G (dove G sta per “generazione”). Lo scontro si delinea da tempo fra due precise potenze planetarie: la Cina e gli USA.
Il terreno di scontro è focalizzato dagli spin doctors sulla paura salutistica, sui danni fisici della irradiazione, ecc.
Da un anno lo scontro è cresciuto di intensità. La guerra è un conflitto “sporco” che sta usando anche l’arma batteriologica, o presunta tale. Si vagheggiano spallate informatiche, aggressioni spaziali ed infine, il propagandato COVID 1984!!!
TODO MODO PARA BUSCAR LA VOLUNTAD DIVINA affermano i gesuiti.
E questo è il mantra che è dietro le dottrine che hanno voluto cambiare il mondo sterminando tutti coloro che non erano d’accordo come esseri inferiori, da combattere con i roghi, con i genocidi, con i campi di sterminio, con i Gulag, da ricondizionare in appositi campi di rieducazione sul modello cinese.
Essere onusti della verità rivelata LEGITTIMA I SUOI POSSESSORI ALL’ODIO (DIVERSO DALL’ODIO DEGLI INFERIORI UMANODI-CIBO), ALLA FEROCIA, ALLA DITTATURA DEL POLITICAMENTE CORRETTO, ALL’ABORTO DI MASSA, ALLA SOSTITUZIONE ETNICA CON POPOLI CHE COSTANO (PER ORA) POCO E CHE SE SI RIBELLANO SARANNO REPRESSI CON LEGIONI DI POLIZIE PRIVATE PAGATE CON L’AZIONE DI CENTRI DI RICICLAGGIO MONDIALI.
P.Q.M.
Mi domando perché tutta questa sarabanda rumorosa, stupida, feroce, ignobile, satanica, genocida non viene utilizzata per smacherare i pericoli dei protocolli del sistema BLOCKCHAIN?
BLOCKCHAIN provoca danni fisici tanto e forse più del 5G, ma nessuno ne parla salvo qualche sparuto articolo messo in giro ad arte quando si deve dare fastidio ad un’azienda di cellulari troppo “intraprendente”, poi niente più.
Eppure, di cose da dire ce ne sarebbero tante anche per il sistema BLOCKCHAIN, con speciale riferimento alla eliminazione totalitaria delle libertà personali per il suo efficace funzionamento: un problema simile a quello del 5G.
La domotica eliminerà l’intimità familiare e la riservatezza: un problema simile a quello del 5G
Il blockchain sta producendo monete virtuali non ancora comprensibili né trasparenti, ma utilissime per il riciclaggio di capitali che non possono più transitare su inee bancarie tradizionali controllate totalitariamente da indagini antiriciclaggio, di cui si servono le mafie mondiali, le banche, i politici, le nazioni, le milizie private per alimentare i conflitti regionali in atto e futuri.
Il blockchain è compatibile con cellulari e dispositivi di cui non sappiamo la capacità radiante sui corpi umani: tutto viene nascosto per motivi di miliardi di dollari.
Quanto sopra, ci fa capire inequivocabilmente che si tratta esclusivamente di ragioni di bottega, di miliardi. Un motivo ignobile camuffato da ragioni ecologiche, mediche, salutistiche, inquinanti, umanitarie in genere, ecc. ecc. ecc.
Mentre la grande battaglia mondiale tra grandi tecnofeudatari continua, le popolazioni sono totalmente terrorizzate, bullizzate, affamate, ricattate, massacrate, sfruttate.
TUTTO QUESTO SEMPRE NELL’ INTERESSE DELLA GENTE, OVVIO!
GLI AFFARI SONO AFFARI
IN EVIDENZA
SALVIAMO I BAMBINI DALLA DITTATURA. IL 5 SETTEMBRE A ROMA.
20 Agosto 2020
Marco Tosatti
Carissimi Stilumcuriali, come sapete nei giorni scorsi abbiamo pubblicato la lettera di risposta che l’arcivescovo Carlo Maria Viganò ha indirizzato alle madri organizzatrici di una manifestazione che si terrà a Roma, il 5 settembre, a piazza del Popolo. Ci sembra opportuno pubblicare il manifesto degli organizzatori, e alcuni elementi sull’evento. Buona lettura.
§§§
5 SETTEMBRE PIAZZA DEL POPOLO SARA’ DEGLI ITALIANI
L’appuntamento è per sabato 5 settembre.
Alle ore 10 Piazza del Popolo sarà invasa da migliaia di italiani.
Sono mamme, papà, lavoratori, commercianti, artigiani, partite IVA, ribelli e italiani liberi che sono pronti a combattere per i propri figli e il proprio futuro, che chiedono lavoro e dignità, che non hanno creduto alla pandemia e lottano contro la carestia.
È l’Italia profonda che odia le sinistre perché vendute all’internazionale Dem, a Gates e Soros, a Obama e Clinton. Che ha capito che il “pericolo giallo” è imminente, pronta ad innalzare i tricolori contro la tirannia mondialista.
È l’Italia che schifa Salvini , la Meloni e tutte le false opposizioni in mascherina, che si sono messi supini di fronte agli arresti di massa, ai provvedimenti anti Covid e hanno tradito il popolo.
È l’Italia libera, contro tutti i partiti, contro il sistema, fuori dai ritmi imposti. Un popolo unito e plurale, tante verghe di un sol fascio, tanti rivoli che convergono nel fiume della libertà.
È una marea che monta, è l’unione di movimenti antagonisti e rivoluzionari, socialnazionali e nazionalpopolari. Sono associazioni, Onlus, gruppi nati su Facebook.
Sono quelli della manifestazione di Pasqua contro la quarantena. Sono quelli scesi in piazza in pieno lockdown il 25 aprile ed il 1 maggio. Sono le piazze del 30 maggio, del 2 giugno e del 6 giugno.
Sono le mobilitazioni che non hanno mai cessato, sono gli italiani disposti ad innalzare i tricolori contro la dittatura sanitaria, finanziaria e giudiziaria.
Il 5 settembre a Roma ci saranno gli uomini e donne d’Italia che non si faranno vaccinare, controllare, sorvegliare e distanziare. Ci saranno quelli che non vogliono più farsi rinchiudere, in trincea contro un nuovo lockdown, pronti ad innalzare le barricate contro lo Stato di Polizia e la tirannia delle mascherine.
Eccoli gli italiani del 5 settembre, gente laboriosa, libera e ribelle.
“Sono Adriana Perugini ristoratrice su Roma, ridotta al collasso economico dovuto all’emergenza covid. Scendo in piazza per reclamare i miei diritti, voglio lavorare non voglio fallire”.
Poi c’è Manuel, ragazzo di Ostia, cuore impavido, sempre in prima linea dal 30 maggio: “Sono Manuel Sannino di Roma, sono un padre, un imprenditore e un italiano fiero, ho deciso di scendere in campo il 5 settembre con tutte le mie forze per salvare il nostro paese, le nostre origini, i nostri figli e le nostre libertà violate, in nome di un sistema disumano, che traccia, monitora e controlla ogni nostro movimento, contro questo sistema che fa delle nostre vite e di quelle dei nostri bambini un gioco perverso, oscuro e irresponsabile, che svende le nostre identità in nome di quegli interessi che stanno affossando l’umanità intera! Decido di combattere per il paese più bello del mondo, per la patria che tutti decantano, ma pochi ormai sentono propria in maniera viscerale, per chi è stato abbandonato, per chi è perseguitato, per chi soffre e non ha supporto, aiuto o sostegno alcuno, decido di scendere perché se non lo facessi i rimorsi mangerebbero la mia anima , perché se ami la tua terra e la tua gente è un tuo dovere difenderla con le unghie e con i denti anche a costo della vita”.
C’è Forza Nuova, impegnata in una battaglia senza quartiere contro l’OMS, che giovedi presenterà il simbolo nuovo – una rondine all’interno di un cerchio tricolore – ed il manifesto di lotta contro le dittature. In sostegno dello storico movimento socialnazionale sono arrivati il professor Pierfranceco Belli, l’avvocato Carlo Taormina, l’economista anti U.E. Nino Galloni e il giornalista d’assalto e di controinformazione Max Massimi.
Ci sono oltre 100 sigle, da Salviamo i bambini dalla dittatura sanitaria a Italexit.
Queste le parole di Domenico Bernardo di RRR, Resistenza Ribellione Rinascita: “Sono padre di tre figlie il 5 settembre scendo in piazza per il loro futuro e per il futuro di tutti i bambini. Contro questo governo corrotto e dittatoriale”.
C’è L’elmo di Scipio associazione capitanata da Chiara Andrea Cianflone: “Il 5 scendo in piazza perché nella vita non bisogna mai rassegnarsi, chinare la testa al potere, vietato arrendersi alla mediocrità, dobbiamo uscire da quella zona in cui tutto è abitudine e rassegnazione passiva, bisogna coltivare il coraggio di ribellarsi”.
Da Milano a Bari ecco Roberto Falco, combattente pugliese di Futuro Italia: “Sono imprenditore padre e nonno ed e proprio per questo che il 5 settembre scendo in piazza per dare un futuro dignitoso alle nuove generazioni e estinguere un sistema politico corrotto e subdolo che ha messo in ginocchio una nazione è un popolo superlativo come l’Italia e gli italiani”.
Poi c’è Guido Prencipe di Rialzati Italia e Tana libera tutti giù le mani dai bambini: “Sono un imprenditore, padre di un ragazzo che tra pochi mesi raggiungerà la maggior età, scendo in piazza il 5 settembre perché non vedo un futuro per tutti i ragazzini e neanche per noi, scendo in piazza perché credo che ognuno di noi debba essere tutelato da questa nazione, ognuno di noi dovrebbe condurre una vita dignitosa per se e la propria famiglia, sono fiducioso in un cambiamento radicale della nostra Italia”.
Sono moltissimi i volti della protesta. Da Luca Gardin di Brescia all’ormai famoso Ciccio della Magna di “marcia su Roma”, tanti italiani che da si uniranno ancora da qua al 5 settembre.
Come una lava, inesorabile, che calerà su Roma e la invaderà, forti della voglia di libertà che il popolo italiano reclama e pretende.
§§§
E dal sito di Korazym.org di ieri rilanciamo volentieri queste ulteriori delucidazioni:
pubblichiamo:
– un “Appello per il 5 settembre” per una piazza di libertà a Roma, rivolto a medici, attori, cantanti, giornalisti liberi, sportivi, intellettuali, artisti, economisti, uomini liberi, “ad unirsi al raduno contro la dittatura sanitaria, finanziaria e giudiziaria”;
– una lettera indirizzata all’Arcivescovo Carlo Maria Viganò da un’associazione di genitori, che per il prossimo 5 settembre danno vita a un’iniziativa a tutela della salute fisica, morale e spirituale dei loro figli, a firma di Rosaria Mangia e Giuliano Castellino;
– una lettera rivolta a tutte le Mamme d’Italia dell’Arcivescovo Carlo Maria Viganò, in risposta alla lettera di Mangia e Castellino, un invito alla buona battaglia e la benedizione della piazza del 5 settembre.
Al via il ‘Raduno del 5 settembre’: “Salviamo i bambini dalla dittatura sanitaria”, che promuove l’incontro a Roma del ‘Popolo delle Mamme’, supportate dai papà e dai nonni, nonché da associazioni, comitati, gruppi e dai movimenti, che ritengono l’impianto legislativo della scuola affetto da illegittimità costituzionale e, comunque, dannoso per la salute psicofisica e per il futuro dei bambini.
“Salviamo i bambini dalla dittatura sanitaria” è un gruppo nato sul social Facebook il 6 giugno 2020, spontaneamente, in supporto di tante mamme italiane, che hanno sentito la necessità di unirsi e agire, con strategie e azioni concrete, per opporsi all’applicazione delle leggi “Lorenzin e Azzolina”, in palese antitesi con la salute e il benessere dei bambini.
Appello agli uomini liberi, per una piazza di libertà
A medici, attori, cantanti, giornalisti liberi, sportivi, intellettuali, artisti, economisti, uomini liberi, per unirsi al raduno del 5 settembre a Roma, contro la dittatura sanitaria, finanziaria e giudiziaria
Appello per il 5 settembre
Roma 15 agosto 2020
Ferragosto
L’uomo libero ha una chiamata che si chiama 5 settembre, che si chiama storia.
L’uomo libero che crede nelle libertà quel giorno deve essere in piazza per gridare a pieni polmoni che la vita non è fatta di mascherine, di distanziamento sociale, di vaccini, delle quattro mura di una quarantena o della paura dell’altro.
Né di disoccupazione, speculazio e precarietà.
L’uomo libero scenderà in piazza, per la nuova Vandea, per difendere i figli della patria, di quella terra che si chiama Italia, terra e sangue, contro tutto e contro tutti.
Contro i fantocci dell’Oms, della nuova vita al guinzaglio, del lavoro rubato, del turismo precluso, dei bambini privati del loro sorriso e della loro naturalezza.
Contro Bill Gates, Soros e Monti. Contro Conte e il suo governo. Ma anche contro quei pupazzi di Meloni, Salvini, Fontana e Zaia.
CONTRO IL SISTEMA.
CONTRO LA DITTATURA SANITARIA, FINANZIARIA E GIUDIZIARIA!
Contro il gigantesco castello di bugie per una rivoluzione che inizierà a Roma e che a mani nude conquisterà il mondo intero.
Abbiamo la possibilità di far vedere che non abbiamo paura, che amiamo il nostro essere uomini liberi, che non ci faremo domare perché gli uomini liberi non hanno museruole e non hanno padroni, non stanno rinchiusi e non sono legati perché sanno che la vita vera è e sempre sarà quella vissuta nel vento.
Il 5 settembre se ami la tua vita, le tue libertà, sei chiamato a vivere la storia e lottare per un mondo libero.
L’Italia futura ti ringrazierà, i tuoi figli ti ringrazieranno, i tuoi nipoti, i tuoi amici, i tuoi genitori, i tuoi nonni ti ringrazieranno.
Il mondo intero per sempre leggerà nei libri di storia che il 5 settembre 2020 a Roma si è compiuta la rivoluzione.
Senza paura, con coraggio e con fede verso la libertà.
Sarete complici? Sarete pavidi o sarete pronti a combattere?
Potrebbe essere l’ultima battaglia prima di perdere per sempre il nostro essere liberi, il mondo come lo conoscevamo.
Se non siete incazzati, se non sarete a Roma non avrete compreso.
L’ultima chiamata è per la vittoria del Bene sul male, della verità sulla menzogna.
Io il 5 settembre ci sarò e voi?
Pierfrancesco Belli (Docente universitario)
Carlo Taormina (Avvocato)
Luciano Barra Carracciolo (Economista)
Matteo Simonetti (Professore)
Massimo Viglione (professore)
Vittorio Sgarbi (Deputo/Critico d’Arte)
Carlo Maria Viganò (Monsignore)
Daniele Trabucco (Costituzionalista)
Nino Galloni (Economista)
Michelangelo De Donà (Costituzionalista)
Ruggero Capone (Giornalista)
Sara Cunial (Deputato)
Alessandro Meluzzi (Psichiatria)
Pasquale Mario Bacco (Medico)
Stefano Montanari (Medico)
Antonietta Gatti (Medico)
Diego Fusaro (Filosofo)
Dj Ludwig (Artista)
Renato Zero (Artista)
Enrico Ruggeri (Artista)
Max Massimi (Giornalista)
Ilaria Cucchi (Diritti civili)
Dario Musso (Rapper)
Giulio Tarro (Medico)
Edoardo Polacco (Avvocato)
Armando Manocchia (Giornalista)
Leonardo Leone (Imprenditore)
Fabio Duranti (Giornalista)
Claudio Messora (Giornalista)
Roberto Marchetti (Giornalista)
Udo Voigt (Apf Germania)
Novak Djokovic (Tennista)
Lewis Hamilton (Pilota Formula 1)
Dejan Lovren (Calciatore Liverpool)
Enrico Montesano (Attore)
Nicola Porro (Giornalista)
Giuseppe Povia (Cantante)
La lettera di Mangia e Castellino all’Arcivescovo Carlo Maria Viganò
Roma, 2 agosto 2020
Alla cortese attenzione
Sua Eccellenza Monsignor Viganò
Egregio Arcivescovo, Sua eccellenza, avendo appreso la possibilità di poterla contattare ci accingiamo a scriverle queste poche righe.
Come lei ben sa l’Italia è sotto attacco da parte dei satanisti.
Inutile che ci giriamo intorno per cui bisogna chiamare le cose per il loro nome.
Il Popolo ha provato più volte a ribellarsi, ma finora non è riuscito a far sentire appieno la sua voce a causa del terrorismo mediatico e psicologico diffuso da questo governo criminale.
Il popolo lancia il suo grido d’allarme.
Le chiediamo di attuare ogni azione che si ritrovi nelle sue possibilità al fine di salvare i bambini in primis ed il popolo intero in secondo luogo dalla dittatura sanitaria, finanziaria, giudiziaria e massmediatica.
Presto ci sarà una sommossa popolare.
E non sappiamo come andrà a finire.
Noi siamo impegnati nella mobilitazione popolare del 5 settembre a Roma, che già è finita sotto la tirannia repressiva del regime, che già sta attuando azioni per tapparci la bocca e vietarci piazze e strade.
Noi il 5 settembre a Roma ci saremo, perché solo il popolo può rappresentare l’opposizione in Italia.
Così come ieri a Berlino, il 5 settembre a Roma la popolazione deve scendere in strada a dire “no alla tirannia del Covid”.
Auspichiamo un suo intervento in nome dei bambini. Salviamo i bambini dalla dittatura sanitaria.
Salviamo l’Italia e gli italiani dalla feroce tirannia globalista.
Rosaria Mangia
Assedio 5 settembre in difesa dei bambini – richiesta supporto unitario
Giuliano Castellino
Vicesegretario nazionale FN – Coordinamento 5 settembre Italia Libera
§§§
FONTE: https://www.marcotosatti.com/2020/08/20/salviamo-i-bambini-dalla-dittatura-il-5-settembre-a-roma/
Kennedy a Berlino: pandemia totalitaria, dal regime del 5G
Grazie a tutti. Negli Stati Uniti i giornali dicono che sono venuto qui per parlare con 5.000 nazisti. E domani confermeranno esattamente che io ero qui ho parlato con 3-5.000 nazisti. Quando guardo questa folla, vedo l’opposto del nazismo: vedo persone che amano la democrazia, persone che vogliono un governo aperto, che vogliono leader che non mentano loro e che non assumano decisioni arbitrarie con il fine di orchestrare l’opinione pubblica. La gente non vuole più governanti che inventino leggi e regolamenti arbitrari per orchestrare l’obbedienza della popolazione. Vogliamo politici che si preoccupino della salute dei nostri figli e non del profitto loro e della lobby farmaceutica. Vogliamo politici che non facciano accordi con Big Pharma. Questo è l’opposto del nazismo. Guardo questa folla e vedo bandiere dell’Europa, persone con diverso colore della pelle, di ogni nazione, religione; persone che si preoccupano dei diritti umani, della salute dei bambini, della libertà umana. Questo è l’opposto del nazismo. I governi amano le pandemie, le amano per la stessa ragione per cui amano la guerra, perché permette loro di avere il controllo della popolazione che altrimenti non avrebbero. Le istituzioni si stanno organizzando per orchestrare un’obbedienza imposta.
Vi dirò qualcosa che per me è un mistero: tutte queste grandi e importanti persone, come Bill Gates e Anthony Fauci, hanno pianificato e pensato a questa pandemia per decenni, in modo che saremmo stati tutti al sicuro quando la pandemia finalmente sarebbe arrivata. Eppure, ora che ci siamo, non sembra sappiano quello di cui stanno parlando. E vanno avanti così. Diffondo numeri e non sono in grado di dirti qual è il tasso di mortalità per il Covid. Non riescono a fornirci un test Pcr che funzioni realmente. Devono cambiare di continuo la definizione di Covid nel certificato di morte per farlo sembrare sempre più pericoloso. La sola cosa di cui sono capaci è aumentare la paura. Settantacinque anni fa, Hermann Goering testimoniò al Tribunale di Norimberga. Gli venne chiesto: come avete convinto il popolo tedesco ad accettare tutto questo? E lui rispose: «È stato facile, non ha nulla a che fare con il nazismo: ha a che fare con la natura umana». Puoi fare questo in un regime nazista, socialista o comunista, puoi farlo in una monarchia o in una democrazia. L’unica cosa che si deve fare per rendere le persone schiave è spaventarle. E se riesci a trovare qualcosa per spaventarle riesci a fargli fare qualunque cosa tu voglia.
Sessant’anni fa, mio zio John Fitzgerald Kennedy è venuto in questa città perché Berlino era la frontiera contro il totalitarismo globale. Oggi lo è ancora. Mio zio è venuto qui e ha orgogliosamente detto al popolo tedesco: «Ich bin ein Berliner». Oggi tutti quelli che sono qui possono orgogliosamente dire un’altra volta: «Ich bin ein Berliner». Fatemi dire un’altra cosa: non hanno fatto un buon lavoro con la protezione della salute pubblica, ma hanno fatto un ottimo lavoro nell’usare la quarantena per portare il 5G in tutti gli Stati e per portarci verso la moneta digitale, che è l’inizio della schiavitù. Perché se loro controllano il tuo conto in banca, controllano il tuo comportamento. E vediamo tutte queste pubblicità in Tv, che come slogan ripetono: «Il 5G sta arrivando nella tua città, cambierà la tua vita in meglio!». Sono molto convincenti queste pubblicità, devo dire. Perché mentre le guardo penso: è fantastico, aspetto trepidante che arrivi la tecnologia di quinta generazione perché sarò in grado di scaricare un videogioco in 6 secondi anziché 16. È per questo che stiamo spendendo 5 trilioni di dollari per il 5G? No, il motivo è per la sorveglianza e la raccolta dati. Non è per voi o per me: è per Bill Gates, Mark Zuckerberg, Jeff Bezos e tutti gli altri.
La loro flotta di satelliti sarà in grado di sorvegliare ogni metro quadro sul pianeta, 24 ore al giorno. Ed è solo l’inizio: saranno anche in grado di seguire ognuno di voi attraverso i vostri smartphone, il riconoscimento biometrico facciale, il Gps. Pensate che ‘Alexa’ stia lavorando per voi? Lei sta lavorando per Bill Gates, spiandovi. Dunque la pandemia è una crisi di comodo, per le élite che stanno dettando le loro politiche. Gli dà lacapacità di cancellare la classe media, di distruggere l’istituzione della democrazia e di portare tutta la nostra ricchezza nelle mani di una manciata di miliardari, per rendere ricchi loro stessi impoverendo gli altri. L’unica cosa che si interpone fra loro e i nostri figli è questa folla che è venuta in piazza a Berlino. Gli diremo: non cambierete la nostra libertà, non avvelenerete i nostri figli; noi vogliamo indietro la nostra democrazia. Grazie a tutti, e non smettete di lottare.
(Robert Kennedy Jr., discorso pronunciato a Berlino il 29 agosto 2020 nella manifestazione oceanica contro la politica autoritaria intrapresa col pretesto del coronavirus. Il figlio di Bob Kennedy è intervenuto nella capitale tedesca ricordando il celebre discorso di suo zio, John Fitzgerald Kennedy, pronunciato il 26 giugno 1963. Proprio a Jfk, non a caso, Bob Dylan ha dedicato la canzone-denuncia “Murder Most Foul” anticipata sul web a fine marzo, giusto in coincidenza con l’inizio del lockdown universale, per diffondere lo stesso messaggio: la nostra libertà è in pericolo).
OCEANO BERLINO: LA VERITÀ OLTRE I MEDIA
31 agosto 2020
5 SETTEMBRE PIAZZA DEL POPOLO SARA’ DEGLI ITALIANI
Aggiornato il: lug 20
L’appuntamento è per sabato 5 settembre.
Alle ore 10 Piazza del Popolo sarà invasa da migliaia di italiani.
Sono mamme, papà, lavoratori, commercianti, artigiani, partite IVA, ribelli e italiani liberi che sono pronti a combattere per i propri figli e il proprio futuro, che chiedono lavoro e dignità, che non hanno creduto alla pandemia e lottano contro la carestia.
È l’Italia profonda che odia le sinistre perché vendute all’internazionale Dem, a Gates e Soros, a Obama e Clinton. Che ha capito che il “pericolo giallo” è imminente, pronta ad innalzare i tricolori contro la tirannia mondialista.
È l’Italia che schifa Salvini , la Meloni e tutte le false opposizioni in mascherina, che si sono messi supini di fronte agli arresti di massa, ai provvedimenti anti Covid e hanno tradito il popolo.
È l’Italia libera, contro tutti i partiti, contro il sistema, fuori dai ritmi imposti. Un popolo unito e plurale, tante verghe di un sol fascio, tanti rivoli che convergono nel fiume della libertà.
È una marea che monta, è l’unione di movimenti antagonisti e rivoluzionari, socialnazionali e nazionalpopolari. Sono associazioni, Onlus, gruppi nati su Facebook.
Sono quelli della manifestazione di Pasqua contro la quarantena. Sono quelli scesi in piazza in pieno lockdown il 25 aprile ed il 1 maggio. Sono le piazze del 30 maggio, del 2 giugno e del 6 giugno.
Sono le mobilitazioni che non hanno mai cessato, sono gli italiani disposti ad innalzare i tricolori contro la dittatura sanitaria, finanziaria e giudiziaria.
Il 5 settembre a Roma ci saranno gli uomini e donne d’Italia che non si faranno vaccinare, controllare, sorvegliare e distanziare. Ci saranno quelli che non vogliono più farsi rinchiudere, in trincea contro un nuovo lockdown, pronti ad innalzare le barricate contro lo Stato di Polizia e la tirannia delle mascherine.
Eccoli gli italiani del 5 settembre, gente laboriosa, libera e ribelle.
“Sono Adriana Perugini ristoratrice su Roma, ridotta al collasso economico dovuto all’emergenza covid. Scendo in piazza per reclamare i miei diritti, voglio lavorare non voglio fallire”.
Poi c’è Manuel, ragazzo di Ostia, cuore impavido, sempre in prima linea dal 30 maggio: “Sono Manuel Sannino di Roma, sono un padre, un imprenditore e un italiano fiero, ho deciso di scendere in campo il 5 settembre con tutte le mie forze per salvare il nostro paese, le nostre origini, i nostri figli e le nostre libertà violate, in nome di un sistema disumano, che traccia, monitora e controlla ogni nostro movimento, contro questo sistema che fa delle nostre vite e di quelle dei nostri bambini un gioco perverso, oscuro e irresponsabile, che svende le nostre identità in nome di quegli interessi che stanno affossando l’umanità intera! Decido di combattere per il paese più bello del mondo, per la patria che tutti decantano, ma pochi ormai sentono propria in maniera viscerale, per chi è stato abbandonato, per chi è perseguitato, per chi soffre e non ha supporto, aiuto o sostegno alcuno, decido di scendere perché se non lo facessi i rimorsi mangerebbero la mia anima , perché se ami la tua terra e la tua gente è un tuo dovere difenderla con le unghie e con i denti anche a costo della vita”.
C’è Forza Nuova, impegnata in una battaglia senza quartiere contro l’OMS, che giovedi presenterà il simbolo nuovo – una rondine all’interno di un cerchio tricolore – ed il manifesto di lotta contro le dittature. In sostegno dello storico movimento socialnazionale sono arrivati il professor Pierfranceco Belli, l’avvocato Carlo Taormina, l’economista anti U.E. Nino Galloni e il giornalista d’assalto e di controinformazione Max Massimi.
Ci sono oltre 100 sigle, da Salviamo i bambini dalla dittatura sanitaria a Italexit.
Queste le parole di Domenico Bernardo di RRR, Resistenza Ribellione Rinascita: “Sono padre di tre figlie il 5 settembre scendo in piazza per il loro futuro e per il futuro di tutti i bambini. Contro questo governo corrotto e dittatoriale”.
C’è L’elmo di Scipio associazione capitanata da Chiara Andrea Cianflone: “Il 5 scendo in piazza perché nella vita non bisogna mai rassegnarsi, chinare la testa al potere, vietato arrendersi alla mediocrità, dobbiamo uscire da quella zona in cui tutto è abitudine e rassegnazione passiva, bisogna coltivare il coraggio di ribellarsi”.
Da Milano a Bari ecco Roberto Falco, combattente pugliese di Futuro Italia: “Sono imprenditore padre e nonno ed e proprio per questo che il 5 settembre scendo in piazza per dare un futuro dignitoso alle nuove generazioni e estinguere un sistema politico corrotto e subdolo che ha messo in ginocchio una nazione è un popolo superlativo come l’Italia e gli italiani”.
Poi c’è Guido Prencipe di Rialzati Italia e Tana libera tutti giù le mani dai bambini: “Sono un imprenditore, padre di un ragazzo che tra pochi mesi raggiungerà la maggior età, scendo in piazza il 5 settembre perché non vedo un futuro per tutti i ragazzini e neanche per noi, scendo in piazza perché credo che ognuno di noi debba essere tutelato da questa nazione, ognuno di noi dovrebbe condurre una vita dignitosa per se e la propria famiglia, sono fiducioso in un cambiamento radicale della nostra Italia”.
Sono moltissimi i volti della protesta. Da Luca Gardin di Brescia all’ormai famoso Ciccio della Magna di “marcia su Roma”, tanti italiani che da si uniranno ancora da qua al 5 settembre.
Come una lava, inesorabile, che calerà su Roma e la invaderà, forti della voglia di libertà che il popolo italiano reclama e pretende.
FONTE: https://www.litaliamensile.it/post/5-settembre-2020-piazza-del-popolo-sar%C3%A0-invasa-dagli-italiani
Rilevata nube radioattiva nel Nord Europa dovuta a fissione nucleare (e nessuno sa da dove arrivi)
A darne notizia è stato Lassina Zerbo, portavoce della ONG, secondo cui tra il 22 e il 23 giugno è stato rilevato un livello di isotopi da fissione nucleare più alto del solito ma non preoccupante per la salute umana.
La CTBTO sovrintende a una rete di centinaia di stazioni di monitoraggio che utilizzano la tecnologia sismica, idroacustica e di altro tipo per verificare la presenza di test nucleari in qualsiasi parte del mondo. Tale tecnologia può tuttavia essere utilizzata anche per altri scopi.
Una delle sue stazioni, quella di Stoccolma, che si occupa di monitorare radionuclidi nell’aria ha notato livelli insolitamente alti di tre radionuclidi la scorsa settimana: cesio-134, cesio-137 e rutenio-103, associati alla fissione nucleare. Zerbo ha twittato anche una mappa che mostra l’area coinvolta:
La mappa non presenza confini geografici ma mostra la provenienza delle particelle nelle 72 ore prima che fossero rilevate: una vasta area che copre in parte la Danimarca, la Norvegia, la Svezia meridionale, gran parte della Finlandia, dei paesi baltici e parte della Russia occidentale tra cui San Pietroburgo.
“Questi sono certamente prodotti di fissione nucleare, molto probabilmente da una fonte civile”, ha detto un portavoce del CTBTO di Vienna, riferendosi alla reazione a catena atomica che genera calore in un reattore nucleare. “Siamo in grado di indicare la probabile regione della fonte, ma è al di fuori del mandato del CTBTO identificare l’origine esatta”, ha aggiunto.
Dalla mappa sembrerebbe che la fonte sia la zona occidentale della Russia ma quest’ultima ha negato il proprio coinvolgimento. Il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov ha dichiarato:
“Abbiamo un sistema di monitoraggio della sicurezza dei livelli di radiazione assolutamente avanzato e non ci sono allarmi di emergenza. Non conosciamo la fonte di queste informazioni.”
L’agenzia internazionale per l’energia atomica (IAEA) ha chiesto agli Stati membri di segnalare qualsiasi evento associato alla presenza delle sostanza radioattive e se questi radioisotopi siano stati rilevati nei paesi e rassicura che i 29 paesi membri
“hanno riferito volontariamente all’AIEA che non vi erano stati eventi sul loro territorio che potrebbero aver causato le concentrazioni di aria di Ru-103, Cs-134 e Cs-137. Hanno anche fornito informazioni sulle proprie misurazioni e risultati. Inoltre, alcuni paesi che non sono stati contattati dall’IAEA – Algeria, Georgia, Tagikistan e Emirati Arabi Uniti – hanno riferito volontariamente informazioni sulle loro misurazioni e che non vi sono stati eventi sul loro territorio.
Inoltre, il direttore generale dell’AIEA Rafael Mariano Grossi ha spiegato che
“i livelli segnalati all’IAEA sono molto bassi e non comportano rischi per la salute umana e l’ambiente. Mi aspetto che un numero maggiore di Stati membri ci fornisca informazioni e dati pertinenti e continueremo a informare il pubblico. L’AIEA continuerà i suoi sforzi per analizzare le informazioni raccolte al fine di identificare la possibile origine e posizione del rilascio.
Ieri, l’autorità finlandese per la sicurezza nucleare (STUK) ha fatto sapere di aver rilevato le tre sostanze anche prima, in un campione di aria raccolto a Helsinki il 16-17 giugno. Isotopi di cobalto, rutenio e cesio (Co-60, Ru-103, Cs-134 e Cs-137) sono stati rilevati anche a Kotka in un campione raccolto dal 15 al 22 giugno. Inoltre, nel campione di Kotka sono stati rilevati anche isotopi radioattivi di zirconio e niobio (Zr-95, Nb-95).
“La composizione delle sostanze radioattive rilevate suggerisce che sono derivate dal combustibile del reattore nucleare. A causa delle concentrazioni molto basse osservate, le sostanze potrebbero provenire dal normale funzionamento o manutenzione dei reattori nucleari. STUK è stata in contatto con centrali nucleari domestiche ed in esse non è stato rilevato il rilascio di emissioni. È pertanto improbabile che le sostanze radioattive rilevate siano di origine domestica” spiegano le autorità finlandesi.
L’esperto di protezione dalle radiazioni Jan Johansson presso l’autorità svedese per la sicurezza delle radiazioni ha detto che anche se i valori sono estremamente bassi
“ciò che risalta qui è la combinazione di queste sostanze. Non è qualcosa che di solito vediamo”, ha detto a Reuters.
Nessuno sa quale sia l’origine. Per fortuna non sembra che ci siano rischi per la salute umana visto che, stando a quanto hanno fatto sapere le fonti ufficiali, si tratta di quantità minime ma non vogliamo neanche pensare a cosa succederebbe se non fossero così piccole e se nessuno ne rivendicasse la “paternità”.
Fonti di riferimento: Lassina Zerbo/Twitter, Reuters, Reuters, IAEA,
FONTE: https://www.greenme.it/informarsi/ambiente/nube-radioattiva-nord-europa/
I numeri smontano gli allarmisti: ecco perché è finita l’emergenza
Ora il virus è meno letale: crescono i contagi ma rimane bassa la mortalità. I nuovi pazienti hanno sintomi lievi e la maggior parte dei contagiati sono asintomatici. Mai così pochi decessi dall’inizio della pandemia
L’imperativo resta quello di “non abbassare la guardia”. Nell’ultimo report settimanale il Ministero della Salute e l’Istituto Superiore di Sanità fotografano un aumento dei casi di Covid per la quarta settimana consecutiva.
Ma se è vero che i contagi sono in aumento anche nel nostro Paese, come nel resto d’Europa, è vero anche che il virus sembra essere diventato meno letale. Alla crescita dei casi rilevati negli ultimi giorni corrisponde, infatti, anche un boom di tamponi effettuati e una mortalità ai minimi dall’inizio dell’epidemia nel nostro Paese.
Lunedì i casi registrati sono scesi sotto quota mille, con 996 nuovi positivi e 6 vittime. Il giorno prima erano stati 1365 e 4 i decessi registrati, ma erano stati effettuati più tamponi (81.723 rispetto ai 58.518 di domenica). Aldilà dell’andamento della curva dei contagi oggi è un fatto, come spiega anche il report settimanale dell’Iss, che le infezioni diagnosticate negli ultimi mesi presentino “una minore gravità clinica”. Nella maggior parte dei casi, infatti, scrive sempre l’Istituto Superiore di Sanità, si tratta di pazienti “asintomatici“.
Quella della variazione assoluta giornaliera dei decessi per Covid è una parabola discendente che dallo scorso marzo si è progressivamente appiattita. Da tre mesi esatti i morti giornalieri per il coronavirus in Italia non superano quota cento. Il 30 maggio se ne erano contati 111. Poi i numeri crollano fino ad arrivare alla mortalità minima registrata nelle ultime settimane. Si passa progressivamente dai 969 morti dello scorso 27 marzo, nel pieno dell’emergenza sanitaria, all’unico decesso del 29 agosto, il numero più basso in assoluto da quando il virus ha cominciato a circolare in Italia.
A partire dal primo di luglio la curva dei decessi non supera mai la soglia dei trenta casi, fino ad arrivare al mese di agosto, in cui è raro che si siano registrati numeri a due cifre. Un andamento che fa ben sperare e potrebbe essere legato a diversi fattori. Il virologo Guido Silvestri, nel commentare la scarsa letalità della seconda ondata del virus negli Stati Uniti, nelle scorse settimane ha sottolineato come alla base del fenomeno potrebbe esserci l’aumento del numero dei tamponi, la migliore gestione terapeutica, la transizione epidemiologica con l’abbassamento dell’età media di chi contrae l’infezione, assieme al fattore stagionale che determina delle infezioni a inoculo virale più basso e ad una ridotta patogenicità del virus.
Anche Matteo Bassetti, direttore della Clinica di Malattie infettive dell’ospedale San Martino di Genova, ha evidenziato la “minore gravità della malattia” negli ultimi mesi. A spiegare la crescita dei positivi, anche secondo l’esperto, ci sarebbe l’aumento del numero dei tamponi e il fatto che nei luoghi di villeggiatura non sia stato rispettato il distanziamento sociale. Una situazione, insomma, che si profila ben lontana dal caos dello scorso inverno.
Come sottolineava nei giorni scorsi anche Matteo Villa, ricercatore dell’Ispi, i dati sulla letalità del Covid oggi ci dicono che “siamo diventati più bravi a capire chi abbia contratto l’infezione” e a proteggere le fasce più a rischio, come gli anziani. Un quadro che ispira un cauto ottimismo. “Un nuovo caso di positività, oggi – scrive l’esperto – è undici volte meno preoccupante che a marzo”.
FONTE: https://www.ilgiornale.it/news/cronache/quei-numeri-che-smontano-allarmisti-ecco-perch-finita-1886740.html
ATTUALITÁ SOCIETÀ COSTUME
Moltiplicando il congiunto il prodotto non cambia
Ampliando il concetto, la ministra De Micheli ha proposto una rivoluzionaria interpretazione della sicurezza in mobilità
Lasciamo perdere la scuola e come raggiungere la propria classe. Il ministro De Micheli ha espresso un concetto memorabile che eccede il mondo della scuola e del trasporto connesso. Per il trasporto scolastico non c’è alcun bisogno di potenziamento. Basta dire “todos caballeros” o qualcosa di simile. In caso estremo: “congiunto” a propria insaputa.
C’è del geniale in questo suggerimento ministeriale che spalanca le porte di autobus e scuolabus fino ad imbarcare qualunque studente “sicut sardine in barile”. Il problema della infedeltà coniugale, ad esempio, potrà essere facilmente risolta aumentando il concetto di “moglie”.
Siete invece debitori? Provate ad ampliare il concetto di debito fino ad abbracciare quello di credito. Nella peggiore delle ipotesi andate a pari e, se siete bravi, ci guadagnate pure: non è geniale?
C’è un caso di applicabilità su cui la Corte dei Conti non ha ancora rilasciato linee guida ufficiali concernenti lo status di evasore totale, parziale o occasionale del contribuente italiano. La Corte, da anticipazioni non confermate, sembrerebbe voler escludere dai benefici delle linee guida gli evasori totali, ma ha suggerito una via d’uscita per gli evasori parziali. Essi devono inglobare il concetto di parziale evasione nel concetto più ampio di parziale estinzione, ottenendo la derubricazione del reato all’atto della presentazione della giustificazione.
Per gli evasori occasionali è sufficiente una autocertificazione nella quale si dichiari che l’evasione è stata frutto di una svista determinata da comportamento stabile e stabilizzato. In questo caso non è richiesta autogiustificazione alcuna. Il nodo fondamentale suscitato dalla interpretazione geniale suggerita dal Ministro dei Trasporti riguarda tuttavia anche il ruolo delicato del Presidente del Consiglio. Il suggerimento secondo il quale ampliando il concetto di maggioranza fino ad inglobare quello di opposizione al fine di garantire la stabilità dell’esecutivo ha posto delicati quesiti sui quali la Corte Costituzionale ha chiesto un dovuto supplemento di tempo prima di esprimere il definitivo giudizio.
Se la Corte decidesse per l’assoluta legittimità dell’assorbimento dell’opposizione in quello di maggioranza, si porrebbe il problema che tutte le sentenze della stessa dovrebbero essere prese a maggioranza bulgara, in un senso o nell’altro, e si ritroverebbe nell’infelice ruolo del Torino, il quale perse 0 a 7 il 26 gennaio del 2020 con l’Atalanta e perse nel 1950 con il Milan 7 a 0 senza che alcun Ministro fosse pronto a suggerire la via d’uscita per le penose sconfitte: quella di assorbire il concetto di Torino nel concetto più ampio di Juventus.
FONTE: https://www.infosec.news/2020/08/31/news/novita-normative/aumentando-il-congiunto-il-prodotto-non-cambia/
Fase 3. La percezione del tempo nella nuova normalità
Ora che siamo ripartiti, dobbiamo ricordarlo. Ci portiamo appresso un bagaglio anomalo: le sensazioni provate mentre le libertà erano limitate, le realtà dimenticate e riscoperte nella strana condizione di reclusi in casa; sarà utile rammentarlo, prima che la memoria sfumi.
Ci sforziamo di tornare alla normalità con la riapertura delle fabbriche, la ripresa delle attività, gli spostamenti tra regioni; le mille prove di ripresa, necessarie, per l’economia e il nostro benessere, insieme a tutto il resto, il turismo, la cultura, lo spettacolo. Serviranno molte energie, oltre a tanti soldi, e non sappiamo se basteranno le capacità che, nonostante cedimenti e errori, abbiamo finora mostrato.
Pesa il fatto d’essere rimasti fermi per troppo tempo, immobili nelle nostre case, bloccati dalla paura del contagio, preoccupati per il futuro, obbligati a cambiare stili di vita, dopo aver perso i riferimenti: niente più orari di lavoro, scadenze, a regolare il ritmo delle giornate: l’uscita di casa, la pausa pranzo, il rientro in famiglia, l’accudimento di figli ed anziani, le incombenze. Buon ultimo, il divertimento, il contatto tra amici, l’affetto verso i propri cari.
Abbiamo sperimentato un tempo nuovo, aperto e sconfinato, da che era limitato, dilatato a dismisura mentre tutto ci era proibito, e lo spazio intorno si restringeva. Le città deserte, avvolte da un silenzio innaturale, offrivano un habitat insolito; improvvisamente, avevamo a disposizione una libertà così ampia da sembrarci eccessiva. Anarchica ed insensata.
L’annullamento delle regole ci ha dato la sensazione che l’orologio si fosse fermato e le lancette avessero smesso di andare avanti. Era la normalità al tempo del Covid, non più codificata da schemi, o disciplinata da regole, diversa dalla precedente, ma anche da quella che faticosamente stiamo ricostruendo ora.
Pochi punti fermi a segnare le giornate, dopo che le restrizioni avevano colpito anche gli affetti. La spesa ogni tanto, l’immondizia nei cassonetti, e, per pochi, la passeggiata con il cane. Per il resto, un orizzonte indefinito. Senza un perché. In cui era difficile orientarsi. Perché alzarsi alla stessa ora se non dobbiamo più uscire di casa? Che fare in tutto il tempo a disposizione?
Abbiamo provato smarrimento, da quando inseguivamo le ore, in preda a frenesie e urgenze; di colpo, non più soffocati dagli impegni, in difficoltà ad usare la libertà che avevamo disperatamente sognato. Come sarebbe bello starsene sprofondati su un divano a leggere o ascoltare musica, ci eravamo ripetuti di continuo, prima che, accadendo davvero, ci sentissimo disorientati. Non sempre abbiamo trovato un equilibrio soddisfacente.
Proviamo a pensarci ora, per averne una conferma. Quanto è durato davvero, per ciascuno, tutto questo periodo? È stata una fermata lunga o breve? Non guardiamo ai dati ufficiali del lockdown, quelli li conosciamo bene: da marzo a giugno, sono circa tre mesi. Piuttosto, pensiamo al tempo interiore, a quello che ognuno ha speso per resettare le proprie giornate.
Oggi non ne sappiamo calcolare la lunghezza effettiva, il periodo non è stato uguale per tutti: a domande semplici rispondiamo in maniera diversa. Era facile arrivare alla sera, oppure le ore non passavano mai? Stare a casa era un’idea comunque confortevole o ci ha spaventato, generando ansia? Come ce la siamo cavata, insomma, tra nuove angosce e ricerca affannosa di una quiete diversa?
Abbiamo conosciuto una situazione differente: il tempo non era più regolato dall’esterno, definito dalla cornice degli impegni. Una serie di incombenze limitanti, ma portatrici di senso, indicatrici di una direzione verso la quale andare. In una parola, un tempo organizzato e finalizzato ad uno scopo. Perciò rassicurante.
Una condizione del tutto naturale e consueta nelle società occidentali, dove il tempo è principalmente organizzazione sociale. All’opposto di altri contesti che non appartengono necessariamente ad epoche trascorse, attraversati da maggiore lentezza. Un’altra nozione di tempo, dove prevale un ritmo ciclico con la ripetitività degli eventi importanti, in una sorta di andamento circolare della vita: l’alternarsi delle stagioni, le produzioni agricole. L’evoluzione naturale delle cose.
Siamo stati colti alla sprovvista da un sovvertimento a cui è stato difficile adattarsi; è accaduto perché il rapporto con il tempo è più complesso di quello con lo spazio. I luoghi hanno una loro concretezza, sono raggiungibili, trasmettono in noi il senso della governabilità; ci sentiamo padroni dello spazio, cioè della realtà, mentre il tempo è sempre sfuggente.
Il viaggio nel tempo riguarda mete immateriali. Un passato che è stato reale soltanto in una fase ormai esaurita, che ora non esiste più. E un futuro ancora da venire, sottratto alle percezioni presenti. Entrambi quindi inafferrabili: anche inconsistenti? È spiazzante muoversi tra punti così evanescenti: avvolti da ricordi, oggetto di anticipazioni. È complicato spostarsi con la mente anziché con il corpo.
Senza le cose da fare, i lacci e gli obiettivi che cadenzavano le giornate, abbiamo avuto più tempo per pensare, rimanendo esposti alla variabilità delle emozioni del momento. Siamo entrati in contatto con noi stessi senza filtri, e la dimensione soggettiva ci è apparsa improvvisamente spoglia. Siamo rimasti a lungo così, dopo aver messo da parte l’involucro del ruolo sociale.
Il venir meno dell’abitualità ci proietta verso un vuoto che offre alimento alla tristezza, dà spazio alla depressione; le emozioni negative ci spingono a pensare che il tempo proceda a rilento, perché in fondo privo di senso. Non sappiamo chi siamo, cosa vogliamo, cosa fare di noi nel tempo che abbiamo a disposizione.
A queste sensazioni, si accompagna la percezione di uno spaesamento: qualcosa di simile all’essere in mare aperto, al buio, senza riferimenti. Sopravvivere dipende dalle capacità di reazione dei singoli e dalla variabilità delle situazioni in cui si vive. Lo vediamo negli anziani: si concentrano di più sulle cose lontane, che vengono sminuzzate in tanti dettagli, e questo sguardo sembra esaurire ogni interesse vitale; per loro, il tempo è un’entità più lenta e distante. Non solo l’età, ma anche le emozioni negative possono determinare lo stesso effetto. Lo sconforto, il disagio, il malessere finiscono per dilatare il tempo, renderlo infinito, perché vivere è troppo pesante.
Ora che le lancette si sono rimesse in moto, ora che ci attraversa il desiderio di gettarci di nuovo nella frenesia, è prezioso ricordare quello che abbiamo provato nel tempo appena vissuto, lungo o breve che sia stato. Di certo le giornate non hanno regalato soltanto smarrimento, paura, angoscia; ciascuno ha sperimentato anche altro: scoperte, sorprese, magari persino istanti di insperata felicità.
Nulla che già non conoscessimo, in fondo; che non fosse avvenuto anche prima della pandemia. Ricordate? Ogni volta che abbiamo vissuto un amore, percepito una passione o coltivato un interesse, il tempo – vissuto tanto intensamente – ci è sembrato troppo breve. Perché così striminzito, ci siamo chiesti, quando ce ne servirebbe altro? Ne avremmo voluto di più, per continuare a provare quei sentimenti positivi: qualcosa di simile, di fronte a scoperte impreviste, l’abbiamo avvertito durante il lockdown.
Mentre riprendiamo la vita precedente, resta il ricordo di qualche istante, pur piccolo e sfuggente: gesti, parole, suoni, contatti. Anche queste cose hanno fatto parte di quel presente rarefatto e silenzioso, quanto una piazza di Giorgio De Chirico, che è stata l’emergenza. Un momento sospeso e, tuttavia, dotato di incredibile corposità.
Il tempo non è, come abbiamo creduto sino ad ieri, solo merce o valuta, da comprare o vendere, regalare o tenere per sé. «Non sprecare tempo», «Approfittiamo del tempo libero», «Ogni cosa ha il suo tempo». Ci rapportiamo così al tempo. In questo modo ne parliamo. E, soprattutto, il suo scorrere non è uguale per tutti, e non ha un senso costante neppure per ciascuno di noi. Lento o veloce: si esaurisce a fatica, o ci incalza freneticamente. È accaduto da reclusi in casa, ma è sempre successo e così potrà avvenire anche in futuro: esserne consapevoli ci offre delle chance in più.
Fuori dal calendario, il tempo è una nozione molto relativa, impossibile non credere che la sua percezione dipenda da età, impegni, emozioni. Lo viviamo in forme diverse, con alterni e contrastanti stati d’animo. Persino durante i periodi più angosciosi come il lockdown, ci sono stati spirali di luce, che ci fanno ben sperare per domani.
Anche la scienza ne è convinta: il tempo non è lì costante, né scorre sempre allo stesso modo, il medesimo per tutti in ogni luogo. E forse è pure imprecisa la scansione tra passato, presente e futuro. Può essere che realtà e immaginazione si confondano, che anche mete irreali siano perfettamente raggiungibili. Chissà. Ma soprattutto, il significato ultimo del tempo dipende da noi stessi. «Il tempo è relativo, il suo unico valore è dato da ciò che facciamo mentre passa», scriveva Albert Einstein, che di relatività s’intendeva. Quello degli uomini è certamente un destino comune, ma ognuno gli va incontro a suo modo.
* Angelo Perrone, giurista, è stato pubblico ministero e giudice. Cura percorsi professionali formativi, si interessa prevalentemente di diritto penale, politiche per la giustizia, diritti civili e gestione delle Istituzioni. Autore di saggi, articoli e monografie. Ha collaborato e collabora con testate cartacee (La Nazione, Il Tirreno) e on line (La Voce di New York, Critica Liberale). Ha fondato e dirige Pagine letterarie, rivista on line di cultura, arte, fotografia.
FONTE: https://www.leurispes.it/fase-3-la-percezione-del-tempo-nella-nuova-normalita/
BELPAESE DA SALVARE
Adesso la Sardegna chiede i danni ai catastrofisti
Domani l’argomento sarà affrontato in Consiglio regionale, si valutano azioni legali. “Chi rimprovera la Sardegna mostra un’ipocrisia senza precedenti”, attacca il presidente Solinas
Sono passati dei giorni, eppure non si placa la polemica scoppiata in Sardegna dopo l’allarme provocato dalle comunicazioni di alcuni media e giornali in merito al considerevole aumento di contagi da Coronavirus nell’isola.
Un territorio, quello sardo, divenuto e rimasto Covid-free fino all’inizio della stagione turistica, e poi trattato alla stregua di nuovo epicentro del virus in Italia, una volta che il numero dei positivi è tornato a salire.
Inutile ricordare che in tempi non sospetti il presidente della Regione Christian Solinas aveva manifestato più volte le proprie preoccupazioni, chiedendo al governo di poter sottoporre i futuri turisti a controlli più rigorosi e approfonditi prima di essere accolti nell’isola. Bollate come incostituzionali, le sue richieste sono state rispedite al mittente, e adesso purtroppo è tardi. In Sardegna i contagi da Coronavirus sono ripresi, e di certo non a causa dei sardi (come segnalato dalle autorità, i casi sono da importazione o da ritorno). Dopo il gesto di protesta dell’ex governatore Ugo Cappellacci, che aveva presentato un esposto contro il governo per epidemia colposa, anche l’attuale presidente della Regione Christian Solinas ha deciso di agire, chiedendo un risarcimento danni. I legali sarebbero già a lavoro.
Proprio domani, infatti, in Consiglio regionale si parlerà dell’effetto che una certa campagna mediatica ha avuto sul territorio, colpendo così in particolar modo il turismo. “È francamente incomprensibile che, a fronte di questi numeri così contenuti, tutta l’attenzione sia concentrata solo su di noi: chi ci rimprovera mostra un’ipocrisia senza precedenti”, ha dichiarato il presidente Solinas al quotidiano “La Verità”.“Sapevamo tutti che i flussi turistici avrebbero potuto rappresentare una forma di trasmissione. Ero il più attento ai rischi, perché sapevamo che la riapertura avrebbe inevitabilmente determinato un avvio di circolazione virale”.
In risposta all’improvvisa crescita di contagi, alcuni sindaci (fra cui quello di Sassari) hanno deciso di chiedere ai propri cittadini l’uso della mascherina h24 anche negli spazi aperti, mentre in Regione si lavora a delle importanti riforme sanitarie. “La prima, che sarà definitivamente approvata domani, primo settembre, è quella della governance sanitaria. A questo è collegato un piano di rilancio dell’edilizia sanitaria, con quattro ospedali (Sassari, Cagliari, Sulcis, Alghero) e interventi di riqualificazione di altre strutture (Olbia, Nuoro, ecc). Si parte immediatamente, perchè lo stanziamento iniziale è di 1 miliardo e 600milioni”, ha spiegato il governatore.
L’amarezza per come è stata trattata la Sardegna, tuttavia, rimane tanta. “Chi rimprovera la Sardegna mostra un’ipocrisia senza precedenti: mentre si guarda ad alcuni locali della Costa Smeralda, che hanno una capienza abbastanza limitata, non si parla né della costa romagnola né della Versilia, dove ci sono strutture molto più grandi, con capienza assai maggiore. Gli assembramenti lì non sono contagiosi?”, si è sfogato il presidente Solinas. “A dispetto dei numeri e di ogni evidenza scientifica, c’è chi cerca di presentare la Sardegna come epicentro della diffusione virale. In Italia i casi di contagio al giorno sono intorno ai 1.400, in Sardegna 50-55. È incomprensibile“, ha aggiunto. “Facciamo attenzione, oggi il prezzo lo paga la Sardegna, ma domani tutta l’Italia nel suo insieme: se il leit motiv mediatico internazionale diventa quello del Paese untore, il danno sarà enorme”.
FONTE: https://www.ilgiornale.it/news/politica/campagna-anti-sardegna-solinas-chieder-risarcimento-danni-1886743.html
CONFLITTI GEOPOLITICI
CARRI ABBANDONATI E SOLDATI FANTOCCIO LA NUOVA TATTICA DI GUERRA DI ISRAELE CONTRO HEZBOLLAH?
Grazie a Southfront veniamo a sapere una situazione per lo meno strana. Escursionisti nelle alture del Golan occupate da Israele hanno trovato almeno 5 carri armati Merkava Mk IV armati e incustoditi. Potete vedere un video su questo ritrovamento alla fine del pezzo.
Le alture del Golan sono quella zona di Israele, annessa dopo la guerra dei sei giorni, che si incunea fra Libano e Siria, nota anche per la ricchezza di risorse idriche. La cosa particolare è che le porte dei carri armati erano aperte con equipaggiamenti e munizioni lasciati completamente incustoditi, ma comunque pronte all’uso. L’incidente è avvenuto in mezzo alle crescenti tensioni tra Hezbollah e le forze di difesa israeliane sia nell’area delle alture del Golan che lungo la linea di contatto israelo-libanese.
Probabilmente questi carri armati sono parte di un ridispiegamento di forze armate israeliane ai confini con il Libano in vista di possibili azioni verso le milizie anti-israeliane in quel paese, e più segnatamente Hezbollah e ci sono già stati segni di questa attività negli scorsi giorni.
Il 29 agosto, la Central Media Group , un mezzo di informazione libanese, ha diffuso un video di un incidente avvenuto circa una settimana fa. Il video mostrava un finto soldato che si muoveva in mezzo a una nuvola di fumo denso sulla linea di separazione israelo-libanese. Due carri armati Merkava IV dell’IDF stavano a guardia del “soldato robot”. Le forze di difesa israeliane (IDF) usano spesso questi “bersagli fittizi” nel tentativo di ingannare Hezbollah in tempi di tensione. Alcuni giorni prima i posti di osservazione di Hezbollah al confine israeliano erano stati colpiti dall’aviazione israeliana in risposta ad attacchi che avrebbero messo in pericolo soldati israeliani.
Israele considera il governo libanese responsabile per quello gli attacchi che provengono da quel lato, quindi i soldati robot, o fantoccio, ed i carri pronti all’uso possono essere visti come un sistema per ingannare, senza rischio per i soldati di Gerusalemme, i miliziani di Hezbollah, invitarli ad attaccare e quindi permettere la risposta, con i corazzati e l’aviazione , da parte di Israele. Una tattica attiva che può preparare la strada per azioni più ampie contro la milizia libanese. Del resto la situazione di confusione interna al Libano, con una grossa parte della popolazione che incolpa proprio Hezbollah dell’incidente devastante al porto di Beirut, può facilitare un’azione di eliminazione, o di disarmo di questa spina nel fianco filo-iraniana allo stato di Israele. Per questo fine si possono utilizzare anche i soldati fantoccio.
VIDEO QUI: https://southfront.org/wp-content/uploads/video/IMR_31_08_20.mp4
FONTE: https://scenarieconomici.it/carri-abbandonati-e-sondati-fantoccio-la-nuova-tattica-di-guerra-di-israele-contro-hezbollah/
Cosa deve fare l’Italia in Libia
di Marco Mayer
Perché – dopo un ritardo secolare – la questione meridionale possa essere affrontata con successo dai 200 miliardi europei del Recovery Fund c’è una condizione imperativa di cui nessuno parla: la politica estera italiana deve tornare ad essere lungimirante e ambiziosa!
Il futuro del sud è, infatti, indissolubilmente legato alla sua capacità di diventare un’area nevralgica di scambi economici, di cooperazione ambientale, sanitaria e digitale e di relazioni scientifiche e universitarie con i paesi del Mediterraneo allargato e dell’Africa.
Perché ciò si concretizzi non ci si può limitare alla dimensione europea che appare spesso impotente in materia di politica estera. Di fronte alle recenti “conquiste ” turche a Misurata, al grande attivismo russo nell’area, non è proprio il caso di aspettare; del resto è l’iniziativa di uno o più Stati membri a spingere la Ue ad agire in una cornice comune.
Per questo occorre un immediato salto di qualità delle relazioni bilaterali con numerosi paesi a partire dalla Libia. L’impressione è che in queste settimane le missioni della Farnesina sulla sponda sud siano di corto respiro; quasi esclusivamente rivolte ad ottenere un titolo di giornale sui rimpatri.
La dimensione è ben altra e in questa prospettiva si potrebbe immaginare – solo per fare un esempio – un grande programma straordinario di cooperazione interuniversitaria tra gli atenei italiani e quelli del Maghreb nel campo della medicina e della sicurezza.
Ma la Libia e Tripoli in particolare dovrebbe essere oggetto di un impegno davvero speciale della Farnesina in stretto contatto con i Ministeri di spesa interessati.
Con i libici (non è facile per le tante divisioni interne e interferenze esterne) l’Italia dovrebbe concordare interventi consistenti e immediati per la città di Tripoli; per il porto e la sua gestione, per l’aeroporto con un potenziamento dei suoi collegamenti interni e con i paesi confinanti, per i presidi sanitari e ospedalieri, per i collegamenti anche ferroviari con la cruciale area del Fezzan dove gruppi terroristici hanno purtroppo trovato supporti logistici e operativi locali.
Gli spazi di azione per un ruolo centrale e propulsivo dell’Italia in Libia ci sono tutti anche in vista di future cooperazioni sul campo. Numerosi nostri alleati europei non vedono, infatti, con favore né la crescita esponenziale e repentina dell’asse Tripoli/Istanbul/Ankara/Doha per quanto attiene il fronte occidentale né il patto tra Bengasi, Abu Dhabi e Mosca su quello orientale.
Nella lista del Recovery Fund i Ministri Gualtieri, Amendola e Provenzano dovrebbero inserire subito progetti e iniziative basate a Sud, ma con le caratteristiche di Hub rivolti all’esterno: alla Libia e a tutta la area mediterranea. In questa cornice il Mezzogiorno d’Italia potrebbe diventare una grande piattaforma euro-mediterranea in termini di diplomazia, asset militari, cooperazione tecnologica e marina, investimenti economici, sociali e sanitari. Il contrario di Gioia Tauro e dunque non un terminale di operazioni opache, ma un centro propulsivo di progetti positivi e di crescita.
Le premesse ci sono, c’è il caposaldo di ENI, c’è una presenza militare italiana di eccellenza (come in tutti i teatri stranieri dove operiamo), c’è un’ottima tradizione di cooperazione sanitaria e di scambi culturali e archeologici. Anche sul piano umanitario e dei diritti umani un intervento italiano a 360 gradi toglierebbe ogni alibi.
In accordo con le Nazioni Unite si tratta di negoziare come condizione “sine qua non” di tutti i programmi operativi la più dura repressione dei trafficanti e la demolizione dei centri di detenzione.
Il problema in tutto questo scenario è che la grande assente – come spesso accade in Italia – è la politica. C’è una tendenza endemica ad essere subalterni: nello scorso decennio alla Francia sulla Libia e alla Russia sull’energia, oggi alla Cina sul 5G e sulle telecomunicazioni. Non c’è bisogno di scomodare il controspionaggio e tantomeno le procure. Oggi tante entità nostrane (imprese, studi professionali, import/export, ecc.) lavorano in piena legalità (più o consapevolmente) contro i nostri interessi nazionali ed anche per contrastare la coesione europea. Liberissimi di farlo se non incorrono in reati.
L’interrogativo è un altro: è o non è l’ora di ridare alla politica ciò che è proprio della politica: Servire il Paese. Non so cosa Luigi Di Maio voglia fare da grande. Ma immagino che tenga alla sua reputazione e voglia lasciare un buon ricordo alla Farnesina. Cosa aspetta? I litigiosi leader libici, le diplomazie turche e russe, i paesi arabi non stanno con le mani in mano. È solo prendendo in mano con grinta e perseveranza il dossier Libia che il Ministro degli Esteri può ricreare fiducia verso l’Italia nel Mediterraneo e in Europa.
Solo riprendere con vigore un ruolo di primo piano in Libia può aprire la strada ad una politica mediterranea e di cooperazione con il continente africano che è la condizione essenziale per la rinascita del Mezzogiorno e di conseguenza dell’Italia intera. Altrimenti con le navi militari russe a Sirte e con quelle turche a Misurata non solo il Mezzogiorno resterà ai margini del futuro del Mediterraneo, ma il declino del nord e dell’Italia intera diventerà irreversibile.
FONTE: https://www.startmag.it/mondo/italia-ue-libia-mediterraneo-intervento-mayer/
CULTURA
Il Secentenario della morte di Dante.
Inclusa est Flamma. Ravenna 1921 è la mostra che celebra il padre della lingua italiana.
Apre venerdì 11 settembre 2020 alle 17 in Biblioteca Classense la mostra “Inclusa est flamma. Ravenna 1921: il Secentenario della morte di Dante”, aperta fino al 10 gennaio 2021. Si tratta della prima di tre mostre che compongono Il progetto espositivo Dante. Gli occhi e la mente, ideato dal Comune di Ravenna – Assessorato alla cultura, dal MAR – Museo d’Arte della città di Ravenna e dalla Biblioteca Classense in occasione del 700° anniversario della morte di Dante Alighieri. Le mostre si svolgeranno da settembre 2020 fino a luglio 2021 presso il MAR, la chiesa di San Romualdo e la Classense. Inclusa est flamma. Ravenna 1921: il Secentenario della morte di Dante, a cura di Benedetto Gugliotta, responsabile dell’Ufficio Tutela e Valorizzazione della Biblioteca Classense, è un percorso di documentazione storica che ha il suo nucleo centrale nelle celebrazioni nazionali per il VI centenario dantesco del 1921, inaugurate l’anno prima proprio in Classense alla presenza del Ministro della Pubblica Istruzione Benedetto Croce.
Sono esposti libri, manifesti, fotografie, dipinti, manoscritti e numerosi oggetti d’arte conferiti come omaggio a Dante e alla città “ultimo rifugio” del poeta. Ciascuno degli oggetti, testimonianze della storia “ufficiale”, offre spunti per raccontare anche storie particolari, spesso sconosciute al grande pubblico e a volte sorprendenti. Il Secentenario del 1921 fu preceduto da altri momenti celebrativi di valenza nazionale, come per esempio le “Feste dantesche” del settembre 1908, organizzate dalla Società Dantesca Italiana, che riunirono a Ravenna rappresentanti di città e territori allora sotto la sovranità dell’Impero asburgico. In quell’anno si ritrovarono in un fraterno abbraccio Ravenna, Firenze, Trieste, Trento e le città della Venezia Giulia, dell’Istria e della Dalmazia che dopo la Grande Guerra completarono l’Unità d’Italia fino al Golfo del Quarnero. Nacque in quell’occasione la Cerimonia dell’olio, in cui annualmente Firenze offre l’olio destinato ad ardere nella lampada all’interno della tomba, simbolico atto di espiazione per l’esilio inflitto al poeta. E fu proprio nel settembre 1908 che venne presentata al pubblico la Collezione Dantesca Olschki, uno dei fondi bibliografici a soggetto dantesco più importanti al mondo. Acquisita nel 1905 dal libraio antiquario ed editore Leo Samuel Olschki, è ricca di oltre 4.000 volumi alcuni dei quali molto rari. Grazie alla collaborazione con la Casa editrice Olschki e con il Centro Dantesco dei Frati Minori Conventuali di Ravenna, sarà possibile vedere riuniti due esemplari di un’edizione pregiatissima e a tiratura limitata (solo 306 esemplari) della Commedia, insieme al manoscritto autografo del proemio, scritto da Gabriele D’Annunzio. Si tratta dell’edizione celebrativa per i 50 anni dell’Unità d’Italia (1911). La copia prestata da Olschki (l’altra è della biblioteca) è stampata su pergamena poi miniata e ha una legatura con borchie d’argento: un monumento dell’arte tipografica, stampata in soli 6 esemplari. È stata inoltre stabilita una collaborazione con l’Archivio Chini di Lido di Camaiore (LU), custode della memoria di Galileo Chini (1873-1956), forse il maggior interprete italiano dello stile Liberty. È lui l’autore del manifesto ufficiale del Secentenario, di grande formato (cm 200×150) recentemente restaurato ed esposto a Ravenna per la prima volta dopo il 1921. Oltre a quanto già citato, tra i pezzi più importanti in mostra saranno visibili il modello in bronzo del monumento di Dante a Trento, realizzato da Cesare Zocchi nel 1896; Dante nella pineta e I funerali di Dante, opere del triestino Carlo Wostry (1865-1943) e i celebri sacchi donati da Gabriele D’Annunzio e decorati da Adolfo De Carolis col motto “Inclusa est flamma” (“la fiamma è all’interno”) che dà il titolo alla mostra. I sacchi in tela di juta, contenenti foglie di alloro in omaggio a Dante, furono trasportati in aereo a Ravenna da tre aviatori che avevano partecipato a famose imprese militari di D’Annunzio, come il volo su Vienna del 1918 o l’Impresa di Fiume. Il Vate stabilì un parallelo tra la fiamma che ardeva sulla tomba di Dante e la fiamma perenne che veniva custodita presso il santuario di Apollo a Delfi, considerato dagli antichi Greci il cuore vivo della loro civiltà. Una simbologia iniziatica che intendeva rappresentare Dante visto come profeta della Nazione oltre che padre della lingua italiana.
A scandire il percorso sono diversi Albi di firme della Tomba di Dante e della Classense, che raccolgono autografi di visitatori e visitatrici illustri ma anche di comuni cittadini e cittadine che, tra XIX e XX secolo, intendevano testimoniare i loro sentimenti durante la visita al sepolcro di Dante. Curiosi, su tutti, gli autografi di papa Pio IX, che trascrisse dei versi danteschi ma non lasciò firma, e di quell’anonima fiorentina che, scossa dai sensi di colpa, chiese perdono al poeta quasi fosse stata lei stessa, cinque o sei secoli prima, a decretarne l’esilio dalla sua città natale.
Un calendario di eventi e iniziative collaterali, curati insieme alla Fondazione Alfredo Oriani di Ravenna e all’Istituto Storico per la Resistenza e l’Età contemporanea della Provincia di Ravenna, approfondirà di volta in volta alcuni aspetti del percorso espositivo.
Carlo Franza – 31 AGOSTO 2020
FONTE: http://blog.ilgiornale.it/franza/2020/08/31/il-secentenario-della-morte-di-dante-inclusa-est-flamma-ravenna-1921-e-la-mostra-che-celebra-il-padre-della-lingua-italiana/
Riappropriarsi di Spinoza
Sull’uso corretto di un filosofo alla moda
Matthieu Renault, Guillaume Sibertin-Blanc
Questo testo di Guillaume Sibertin-Blanc e Matthieu Renault – apparso in francese sulla Revue du Crieur (n. 10, 2018) – ripercorre la genealogia del cosiddetto «spinozismo di sinistra» francese, e in parte italiano (non di secondo piano sono i riferimenti alla fine e acuta spinozista Emilia Giancotti): da Althusser a Lordon, passando per Deleuze, Matheron (e Gueroult), Macherey, Balibar, Negri, Sévérac e tant* altr* filosofe e filosofi. Materia calda, con i suoi impensati (l’immanenza, il pensiero sulla e della vita, la teoria genetica dello Stato, il materialismo radicale, ecc.), la filosofia di Spinoza è un campo di battaglia attraversato da numerose generazioni, ora più apertamente ora più velatamente. I due filosofi, in guisa di conclusione, lanciano una sfida per i/le novell* spinozist*: «Nell’epoca della decomposizione e delle ricomposizioni della sinistra, più che determinare se lo spinozismo sia «di sinistra», la questione è senza dubbio valutare in quale misura la sinistra è «spinozista» e ciò che guadagnerebbe o perderebbe nell’essere tale; e ciò non solo dal punto di vista delle sue idee o della sua ideologia ma, come impone il parallelismo spinoziano, anche dei suoi modi di esistenza e organizzazione come corpo e insieme di corpi, «convenienti» o convergenti sotto alcuni aspetti, «sconvenienti» o divergenti sotto altri: lo spinozismo come scansione delle pratiche militanti, tutto un programma». Riappropriarsi di Spinoza è «pensare con» e non «a partire da» Spinoza. Perché lo spinozismo è, innanzitutto, un metodo di studio e di pensiero e una postura etico-politica. [Marco Spagnuolo]
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Al fianco delle letture conservatrici e delle interpretazioni liberali delle opere di Spinoza, è possibile delineare i contorni di uno «spinozismo di sinistra». E non recente: se Marx si è subito allontanato dal filosofo di Amsterdam, i pensatori della II e della III Internazionale ne hanno riconosciuto i tratti tipici di un autentico materialista. D’altra parte, gli intellettuali marxisti non hanno smesso di riattivare questa svolta di Marx attraverso Spinoza, costruendo non un pensiero omogeneo, ma delle letture proteiformi. Così Louis Althusser ha contribuito a rinnovare il pensiero marxista con l’ausilio della teoria spinozista della conoscenza; Antonio Negri pensa un «soggetto rivoluzionario» a partire dal concetto di moltitudine; Frédéric Lordon legge le attuali lotte sociali a partire dalla struttura degli affetti. Oggi, l’ombra di Spinoza si estende su una fetta delle scienze sociali in continuo sviluppo.
Un dossier dedicato a Spinoza da una rivista culturale si è promesso di recente di chiarire «le ragioni di un grande ritorno» e ha enumerato la molteplicità dei programmi teorici e critici tra i quali, da un parte e dall’altra dell’Oceano, il filosofo olandese del secolo XVII si vedrebbe coinvolto: spino-rhizomes, écolo-spinozistes, socio-spinozistes , spino-féministes1. La lista non è chiusa e si sarebbero potuti aggiungere, passeggiando in una libreria, Spinoza eroe dell’appassionante affresco storico-filosofico di Maxime Rovère (allo scaffale docu-fiction), Spinoza pronto all’uso del «vostro sviluppo personale» dell’autore di best-seller Frédéric Lenoir (allo scaffale spiritualità/buddismo), senza dimenticare (immediatamente prima delle casse) Spinoza «en marche» contro le passioni tristi dei manifestanti e altri scontenti arruolato da Emmanuel Macron nel suo libro-programma Révolution.
Spinoza nostro contemporaneo: la causa è intesa in modi evidentemente diversi. La sua filosofia aveva già polarizzato grandi dibattiti filosofico- politici. Era un materialista radicale debitore di Democrito o un precursore dell’idealismo assoluto di Hegel? L’araldo degli Illuministi francesi o già il becchino della filosofia classica tedesca? Un panteista o un ateo? Un figlio dell’umanesimo rinascente o un antenato dell’antiumanismo marxista? Un ambasciatore della trionfante modernità europea o un residuo delle origini orientali della filosofia la cui «vera patria» si situava, Schopenauer dixit, sulle «sponde sacre del Gange»?2
Il nome di Spinoza è disseminato in una molteplicità di direzioni eterogenee; il suo pensiero viene rivendicato da una moltitudine di voci. Polifonia o Babele, quel che è certo è che lo spinozismo contemporaneo è irriducibile ad una «contraddizione principale». Non riuscirebbe a definire una posizione identificata su un campo di battaglia; ci sono degli spinozisti in tutti o quasi tutti i campi e non si sa mai veramente se sono sul punto di collidere tra loro o siglare alleanze segrete. Prova per eccellenza, Spinoza, ci dice Yves Citton, «può piacere insieme alla vena neoliberale e ai suoi avversari più feroci»3. Tutto ciò ha spinto Slavoj Žižek a chiedere, non senza ironia: «È possibile non amare Spinoza?»4. Ma non è questa la ragione di tale successo, che pur pensando di costruire una filosofia che eliminasse qualunque conflitto di interpretazione, anziché un sistema chiuso d’idee, ci ha consegnato una vera e propria «macchina per pensare e far pensare» e, forgiando una «filosofia in prima persona, in atto»5, ha così autorizzato una proliferazione di forme di riattualizzazione? In ogni caso, la «moda Spinoza» – nel senso letterale, commerciale del termine, poiché Spinoza vende molto bene, in particolare a Natale! – non è evidentemente vicina a spegnersi e più si estende, più riversa nell’opinione pubblica un insieme di immagini e di slogan col rischio, di cui si prende gioco, di sconcertare i filosofi di professione, o meglio di inorridire i più puristi tra essi.
È necessario, però, abbandonare tale posizione soverchiante, incapace di restituirci le ragioni che spingono alcuni a indossare la parrucca di Spinoza piuttosto che un’altra, a favore di un approccio nel territorio neospinozista. Non sapendo da dove cominciare, andiamo alla Sorbona dove si riuniscono degli eminenti specialisti del nostro filosofo. All’uscita, pediniamo uno tra loro. Non tardiamo a scoprire che sta andando alla riunione di un’organizzazione- o è una cospirazione?- che riunisce degli intellettuali militanti di più generazioni, per la maggior parte di sesso maschile, che si riferiscono, in maniere diverse, ad una sinistra radicale dalle frontiere porose. Spiamoli e apprendiamo presto che questo collettivo eteroclita si appresta a festeggiare il suo cinquantesimo anniversario. Data di nascita: circa il 1968; luogo di nascita: Parigi. Spingiamo le nostre indagini più lontano e perquisiamo il loro piccolo locale: in un cassetto, dei biglietti ferroviari sbiaditi ci mettono sulla pista degli scambi avvenuti tra la Francia e l’Italia; in un angolo della stanza, una biblioteca zeppa di opere erudite sull’Etica firmate da universitari, in apparenza insospettabili, ma alcuni di loro sembrano essere stati compagni di strada dei nostri amici; in dei cartoni, una corrispondenza lascia pensare che il gruppo abbia dei satelliti in America Latina e altrove.
I nostri energumeni non avranno provato a formare un’Internazionale spinozista dai fini oscuri? Tutto ciò è decisamente intrigante ed è urgente fare un’inchiesta sulla storia di questa cellula se vogliamo sventare i suoi piani sovversivi; tanto più che tra i suoi seguaci, i «vecchi» sono stati a lungo dei noti comunisti e su di essi, ma anche sui più giovani, continua a vagare lo spettro di Marx.
Ricostruzione fantasiosa, il lettore l’avrà capito. Non c’è mai stata un’organizzazione rivoluzionaria spinozista; i membri di questo gruppo immaginario non hanno organizzato riunioni segrete né preparato delle bandiere con l’effigie di Spinoza né redatto dei volantini che convertono le sue parole filosofiche in parole d’ordine politiche. A dire il vero, non sarebbe stato facile fare un simbolo rivoluzionario del sigillo che usava il filosofo e su cui era scritta la parola latina caute: «prudenza». Aggiungete a ciò che i sospettati, di cui noi daremo presto i nomi, hanno elaborato le loro rispettive versioni dello spinozismo politico nella solitudine dei loro uffici e, nel caso di uno di loro, in una cella del carcere, e hanno prima di tutto dialogato per iscritto o in occasione di incontri universitari. Pur avendo intessuto dei rapporti gli uni con gli altri, rifiuterebbero l’idea di essere assimilati ad una tendenza unificata. Se malgrado tutto, e forse malgrado loro, desideriamo mostrare che qualcosa come uno «spinozismo di sinistra» esiste, bisogna tracciare la genealogia, ritrovando il nostro contegno di seri universitari, ripartendo dal più piccolo denominatore comune ai suoi rappresentanti, ovvero una problematizzazione dei rapporti tra Marx e Spinoza, che risale a molto tempo prima rispetto allo spinozismo contemporaneo.
Dal partito alle aule
Non c’è stato bisogno di aspettare le disillusioni del «socialismo reale» perché gli intellettuali marxisti si rivolgessero verso Spinoza, il più delle volte per regolare i loro conflitti interni. Senza dubbio Marx sarebbe stato il primo a sorprendersi, lui che, certamente, nei suoi scritti giovanili aveva mobilitato il Trattato teologico-politico per denunciare la trascendenza ancora tutta divina dello Stato hegeliano, ma che dal 1846 ne L’ideologia tedesca aveva relegato il pensiero spinozista in qualche annotazione lapidaria alla stregua delle astrazioni metafisiche incompatibili con l’analisi scientifica dei rapporti sociali. Questa elusione rompeva con la riabilitazione di cui il filosofo di Amsterdam era stato fatto oggetto tra i giovani hegeliani («di sinistra») come Moses Hess e soprattutto Ludwig Feuerbach che vi aveva scoperto un materialismo naturalista che permetteva di abbandonare l’idealismo di Hegel e il suo «Spirito del mondo» a favore di un’antropologia centrata sulle potenze dell’«uomo concreto».
Se dei concetti spinozisti de l’Etica hanno continuato ad informare in maniera più spettrale il pensiero di Marx, una volta abbandonato il terreno della battaglia filosofica e investito quello della critica dell’economia politica6, l’affiliazione di Spinoza a Marx è un’invenzione in parte postuma, legata intimamente alla codificazione dell’opera del secondo in dottrina. Engels ne fu il grande fautore. Nell’Anti-Dühring, breviario del marxismo di un’intera generazione di intellettuali e militanti, Engels aveva estratto dall’Etica il quadro materialista che permetteva di «rimettere in piedi» (materialismo) la dialettica che, in Hegel, «marciava in testa» (idealismo). Definire, come aveva fatto Spinoza, l’estensione e il pensiero come attributi, tra un’infinità d’altri, di una sola e unica sostanza, che la si chiami Dio o Natura, e dedurne l’identità «di ordine e connessione» tra le cose e le idee, il parallelismo tra anima e corpo, significava escludere qualunque dualismo tra la sfera della volontà umana e il regno delle leggi naturali a favore della possibilità, contenuta nel concetto spinoziano di «causa adeguata», di una libera appropriazione dei determinismi che ci fanno agire.
La grammatica così fissata fu riattivata, in contesti sempre polemici, nel corso di tutta la storia della II e della III Internazionale. Georgij Plechanov la mobiliterà alcuni anni dopo nella sua lotta contro il «revisionista Bernstein». All’indomani della rivoluzione russa, Abraham Deborine e i «dialettici», agli occhi dei quali Spinoza era un autentico materialista costretto a mostrarsi in abiti teologici – un «Marx senza barba» arriverà a dire uno di loro -, diedero battaglia contro i «meccanicisti» che negavano l’identità della sostanza e della materia in Spinoza7. Che quell’eminente filosofo quale credeva essere Stalin avesse chiuso il dibattito equiparando i suoi protagonisti e imponendo la propria versione del materialismo dialettico (diamat) non impedirà ai filosofi sovietici più tardi di trovare una linea di fuga in Spinoza, che trovò in Evald Ilyenkov un acceso difensore.
Nel frattempo in Francia l’egemonia conquistata dal marxismo hegeliano, sulla base di un’antropologia filosofica che aveva trovato nel concetto di alienazione la sua grande causa teorico-politica, lasciava poco spazio a un reinvestimento del pensiero di Spinoza. Nei suoi celebri corsi su Hegel degli anni Trenta, Alexandre Kojève aveva messo i puntini sulle i: con la pretesa di situarsi dal punto di vista dell’eternità, il «sistema di Spinoza è l’incarnazione dell’assurdo. […] Prendere sul serio Spinoza è effettivamente essere – o divenire – folli»8. In termini politici, solo nel quadro di una storiografia marxista, tinta di evoluzionismo, Spinoza poteva ancora trovare posto, se non favore. Nel 1956, mentre veniva divulgato il dossier Chruščëv e repressa l’insurrezione di Budapest, Jean-Toussaint Desanti pubblicò presso le edizioni de La Nouvelle Critique, rivista del Partito Comunista [Francese, n. d. t.], una Introduction à l’histoire de la philosophie9 interamente centrata sulla filosofia di Spinoza e l’emergere del capitalismo mercantilista e coloniale nell’Olanda del secolo XVII con, come risultato drammatico, l’eterna lotta dell’idealismo e del materialismo. A dispetto della sua ortodossia, il libro aveva il merito di non sacrificare mai le contraddizioni interne ai saperi dell’età classica sull’altare del determinismo sociologico; il prezzo da pagare fu la sua incompiutezza.
È su questa via che uno studente all’epoca «ancora molto stalinista», Alexandre Matheron, pensava inizialmente di impegnarsi10. Se ne allontanò per contribuire ad un inatteso rinnovamento degli studi spinozisti nel campo universitario francese. Preparato dai lavori di Sylvain Zac, cresce nel corso degli anni Sessanta prima di uscire allo scoperto con la pubblicazione a tamburo battente di Spinoza (1968) di Martial Geroult, Spinoza et le problema de l’espression (1968) e il suo complemento Spinoza. Filosofia pratica (1970) di Gilles Deleuze, e Individu et communauté chez Spinoza (1969) di Matheron, «bibbia» di numerosi spinozisti di sinistra delle successive generazioni. Da questo momento, tra questo «spinozismo accademico» e lo «spinozismo politico» in gestazione, nessuna frontiera impermeabile, ma un terreno comune in cui il lavoro degli uni coinvolgeva necessariamente gli altri. Come rivela Pierre-François Moreau, «ricostruendo l’Etica di Spinoza nella sistematicità della sua struttura concettuale, Geroult e Matheron ci sembrava integrassero gli studi spinozisti nell’epistemologia storica di Bachelard, Koyré, Canguilhem, a cui si richiamava Althusser nello stesso momento per rifondare il materialismo storico come scienza rigorosa»11. Eppure lo stesso Althusser, navigando tra il PCF e i banchi dell’École normale supérieure, anche prima di questo rinnovamento, aveva richiamato a (ri)prendere sul serio Spinoza.
Svolta senza ritorno: uscire dalla crisi (del marxismo)
«Noi non siamo stati strutturalisti […] siamo stati spinozisti»12. Non è difficile, a posteriori, comprendere ciò che in Spinoza poteva sedurre Althusser. Rifiutando all’individuo l’autonomia di soggetto sovrano e trasferendo la coscienza in una rete infinita di determinazioni causali, la filosofia di Spinoza era un’arma indicata nella battaglia condotta da Althusser contro l’umanesimo socialista incarnato nel PCF dalla linea dominante di Roger Garaudy, ritenuta in grado di soddisfare al compito della critica del marxismo di Stato e della liquidazione del passato stalinista. Innalzando lo spinozismo nel 1965 come la «più grande rivoluzione filosofica di tutti i tempi»13, formando due anni dopo all’ENS un misterioso «gruppo Spinoza» semi-clandestino, Althusser si curerà tuttavia meno di ricostruire il sistema spinoziano quanto di riesaminare alla luce di alcune delle sue tesi un insieme di problemi strategici, indissociabilmente teorici e politici come sempre nell’autore di Per Marx. Bisognava attende gli Elementi di autocritica (1974) affinché desse a questi slanci spinozisti un significato d’insieme, riprendendo e trasformando la vecchia sintassi engelsiana: non si trattava più di produrre una grande sintesi «Spinoza + Hegel = Marx» in vista di dare all’edificio teorico del marxismo un’unità da cui dipendeva, si era creduto, quella dello stesso movimento operaio organizzato ma, al contrario, di disfare l’unità dottrinale che aveva permesso ad una filosofia intangibile di essere fungere da garanzia ideologica per una linea politica pretesa incontestabile.
Althusser aveva operato una «svolta con Spinoza per vedere un po’ più chiaramente nella svolta di Marx con Hegel»14. Questa svolta doveva rivelare e attuare l’efficacia divisoria, «scismatica», dello spinozismo, la sua potenza di «frattura permanente» che scinde lo stesso pensiero marxiano-marxista in posizioni antagoniste irreconciliabili. È più l’irriducibile eterogeneità degli «attributi», che l’unità della «sostanza» spinoziana invocata da Engels e i suoi epigoni, che Althusser rivendicò in modo da porre in evidenza un tipo di processo la cui complessità (le «strutture») invalidava a priori qualunque aspirazione a coglierne il principio semplice: un’origine o un fine determinati, una contraddizione unica, un soggetto predestinato a portarla a termine. L’idea che un discorso filosofico o scientifico possa garantire una padronanza integrale del corso degli eventi, in particolare quelli rivoluzionari, non era altro che una finzione, soprattutto più pericolosa se questa garanzia era trasferita ad un’istanza di potere, partito e/o Stato. La rottura spinozista era inoltre inseparabile da una nuova «pratica teorica» che Althusser ipotizzava non più a partire dal parallelismo tra cose e idee, ma dalla distinzione spinoziana tra «generi di conoscenza», o modi di produzione delle idee. Nel primo genere di conoscenza (attraverso gli effetti: l’immaginazione), ritrovava la prefigurazione di una teoria materialista dell’ideologia; poteva allora identificare la dinamica emancipatrice del secondo genere di conoscenza (attraverso le cause: la ragione) dissipando l’illusione del «soggetto-supposto-sapere». A mille miglia da un preteso scientismo althusseriano, lo spinozismo di Althusser faceva valere la forza de-soggettivante di una pratica di sapere opposta insieme al positivismo (conformità del sapere ai fatti) e alla tecnocrazia (autorità dei competenti, cioè degli esperti).
La svolta di Althusser non fu un’odissea solitaria. Vi contribuì in maniera decisiva uno dei suoi giovani collaboratori, Pierre Macherey che, alle porte degli anni Sessanta, aveva realizzato con la direzione di Canghuilhem una tesi su «Filosofia e politica in Spinoza», in un’epoca in cui, in Francia, ci racconta, «la letteratura sul soggetto era inesistente: si scoprirono terre ignote; Spinoza politico non esisteva, se non in Unione Sovietica»15. Nel 1979, Macherey pubblicò un’opera chiave: Hegel o Spinoza. Mettendo in discussione le sintesi hegelo-marxiste, Althusser aveva rifiutato il posto di genitore povero che riservavano ad uno Spinoza ancora ignorante della contraddizione dialettica, della forza della negazione, della conflittualità nella storia. Il gesto di Macherey, che dice di assumere ancora oggi da Althusser una «formidabile incitazione a lavorare»16, fu scoprire in questa pretesa «mancanza» un’autentica resistenza anticipata che il pensiero di Spinoza, nel suo rifiuto di qualunque finalismo, avrebbe opposto, in anticipo, alla dialettica hegeliana. La causa, già avanzata in termini differenti da Deleuze, con la sua «grande identità Nietzsche-Spinoza» versus Hegel, era da tempo nell’aria: quattro anni dopo, lo scrittore Jean-Bernard Pouy la riassunse in termini meno eleganti ma del tutto efficaci, intitolando un romanzo Spinoza incula Hegel.
Benché avesse indicato più tardi che la «o» di Hegel o Spinoza dovesse essere intesa non solo come esclusione reciproca, ma anche, e simultaneamente, nel senso del sive latino, come equivalenza (alla stregua del Deus sive Natura di Spinoza), Macherey indicava allo stesso modo che la svolta verso Spinoza aveva smesso di avere come finalità il ritorno al buon porto marxista-leninista; esso costituiva un vero tornante irriducibile alla problematica della costituzione di una «filosofia marxista» introvabile in Marx. Macherey proseguirà su altre vie la sua esplorazione della potenza della provocazione permanente del pensiero di Spinoza nei confronti di qualunque codificazione della storia delle idee (Avec Spinoza, 1992) prima di produrre una monumentale Introduction à l’Ethique de Spinoza in cinque volumi. Rendendosi autonomo, il riferimento a Spinoza si è emancipato dalle questioni immediate in cui più generazioni di intellettuali marxisti infilavano il filosofo olandese. Alle porte degli anni d’inverno, lo spinozismo di sinistra aveva abbandonato l’anticamera del PCF ma, prima di rifugiarsi nel recinto delle università, doveva scriversi su un’altra scena, tra le mura di una prigione italiana.
Spinoza oltre Marx: potenza della moltitudine, o paura delle masse
Alla fine degli anni Settanta, passeggiando nei corridoi dell’ENS, si sarebbe potuto incrociare un filosofo italiano di una quarantina d’anni che non era al suo primo soggiorno in Francia e vi avrebbe trovato rifugio all’inizio del decennio a venire. Antonio Negri, figura di spicco dell’operaismo e dell’Autonomia italiana, avanzava carico di esperienza nelle organizzazioni rivoluzionarie di cui molti dei suoi anziani compagni avrebbero voluto potersi vantare. Teneva allora, su invito di Althusser, un corso sui Grundrisse di Marx che diede luogo alla pubblicazione nel 1979 di Marx oltre Marx, spesso considerato come il manifesto filosofico dell’Autonomia. Ma il 1979 è anche l’anno in cui Negri fu incarcerato per via di una presunta partecipazione all’assassino del deputato Aldo Moro. Migliaia di militanti sospettati di appartenere alle Brigate Rosse popolarono le prigioni italiane. «L’Autonomia era stata sconfitta» si ricorda: bisognava «scoprire la necessità di ciò che si stava vivendo», «ritrovare qualcosa di solido mentre tutto stava crollando». Secondo Negri, per cui i problemi politici sembrano essere immediatamente convertibili in problemi metafisici e inversamente, questa ricerca di terraferma non impegnava niente di meno che una «ricostruzione del marxismo su basi ontologiche», «al di là della critica dell’economia politica», anche al di là di Marx; non più perciò a partire da Marx stesso, ma da un filosofo il cui pensiero era pronto a rivelare le «forme di essere che sottendono la nostra azione»: Spinoza17.
Scritta in prigione, L’anomalia selvaggia. Potenza e potere in Spinoza apparve in italiano nel 1981. Nutrendosi dei lavori dei neo-spinozisti francesi — Matheron, questo «maestro universitario», e più ancora Deleuze — senza ignorare la tradizione dello spinozismo italiano, la prospettiva di Negri resta fermamente ancorata in un materialismo storico di cui aveva intrapreso la rifondazione dagli anni Settanta in un opera seminale (non ancora tradotta in francese): Descartes politico18. Al centro del complesso narrativo-teorico esposto da Negri, la tesi per cui la filosofia di Spinoza avrebbe conosciuto due «fondazioni» successive, la cui cesura si sarebbe manifestata con la brutale interruzione della scrittura dell’Etica a favore di quella del Trattato teologico-politico. Scoprendo l’immaginazione come potere di produzione del reale piuttosto che come suo riflesso degradato, questa saggio apriva la strada a un capovolgimento del rapporto tra la sostanza (una) e i «modi» (molteplici), cioè gli esseri-individui singolari, ormai «egemonici» nel sistema spinoziano. Orientandosi verso un immanentismo sempre più radicale, verso una pura filosofia dell’affermazione, Spinoza rompeva con qualunque pensiero della mediazione e del potere (potestas) a favore di un pensiero, selvaggio, della costituzione e della potenza (potentia), o di ciò che potremmo chiamare una «metafisica dal basso». Là dove il «primo Spinoza» era un «promotore dell’ordine del capitalismo», il secondo partecipava già alla «fondazione del materialismo rivoluzionario», non alla stregua di un precursore, poi superato, ma come l’autore di una «filosofia dell’avvenire», mai così attuale come in questa fine del secolo XX19.
È ne L’anomalia selvaggia, nella sua fine, che apparve il concetto di moltitudine; poiché tale sarebbe stata l’ultima parola dello stesso Spinoza nel Trattato politico. La moltitudine (multitudo), che era stata sempre considerata negativamente, come informe e incapace di riformarsi, era in realtà la condizione positiva dell’autocostituzione (immanente) della comunità politica, che invalida qualunque teoria (trascendente) del contratto sociale e dello Stato borghese. Per mezzo di questa riabilitazione, Spinoza si vedeva indissociabilmente messo al servizio di una critica della categoria di classe operaia, sostituendo all’operaio-massa (indifferenziato) l’operaio-sociale (singolarizzato) e richiedendo la formazione di una nuova «ontologia del comune»; progetto che occupò Negri e i «negriani» durante i decenni successivi, in un dialogo ininterrotto con Spinoza – di cui l’interessato ammette aver sempre avuto una «concezione strumentale»20: basti qui citare Il potere costituente e il saggio Spinoza sovversivo apparso negli anni Novanta, l’immenso cantiere aperto con Michael Hardt nel 2000 con la pubblicazione di Impero, o ancora la fondazione nello stesso anno della rivista Multitudes che, nel suo secondo numero, celebrava «L’evento Spinoza» promettendo di «ritornarci spesso e con determinazione»21.
La traduzione francese de L’anomalia selvaggia apparve un anno dopo l’originale, arricchita da prefazioni firmate da Deleuze, Macherey e Matheron. Era comunque necessario per dare un incondizionato sostegno politico al suo autore, ancora incarcerato. Deleuze avrebbe allora potuto ripetere ciò che aveva affermato nel 1979 a proposito di Marx oltre Marx: «Questo libro è letteralmente una prova d’innocenza»22. Questo non impedirà sicuramente agli amici francesi di Negri, Macherey in particolare23, di sottoporre ad un esame critico la sua interpretazione. Ma col senno di poi, possiamo affermare che la più importante critica allo Spinoza di Negri fu lanciata da un altro vecchio compagno in althusserismo, Étienne Balibar, in maniera d’altronde più sorprendente in quanto egli sostiene che all’epoca dei fatti non aveva ancora letto L’anomalia selvaggia. Questo accadde nel 1982, durante un colloquio internazionale a Urbino in occasione del 350 anniversario della nascita di Spinoza, organizzato da Emilia Giancotti, autrice di un erudito Lexicon Spinozanum, le cui affinità comuniste non avranno contribuito poco alla circolazione internazionale dello spinozismo di sinistra24.
Balibar che, stufo di «professare il bachelardo-marxismo althusseriano», si era lanciato qualche anno dopo nello studio e nell’insegnamento di Spinoza25, vi presentò un saggio di cui si avranno più versioni e che conosciamo oggi con il titolo «Spinoza, l’anti-Orwell. La crainte des masses». Il concetto di multitudo aveva catturato anche la sua attenzione. Sottolineando la sua plurivocità, non privilegiava meno la sua traduzione con «massa». Ciao che rivelavano i due trattati politici di Spinoza era l’ambivalenza passionale delle masse, la loro incessante fluttuazione, la loro tendenza a trasformarsi in folle incontrollabili; ma è anche l’ambivalenza dello stesso Spinoza ai cui occhi qualunque sedizione, qualunque rivolta di massa dovevano inevitabilmente terminare nella sostituzione di una tirannia con un’altra. Se c’era un’attualità di Spinoza, questa non risiedeva dunque tanto nella prefigurazione di un divenire-rivoluzionario quanto nell’ispirazione che poteva dare ad un pensiero dei paradossi della democrazia nell’«epoca delle masse»26.
Perciò, il minimo comun denominatore tra Negri e Balibar era un’acuta consapevolezza della necessità di un riesame delle aporie della tradizione comunista nella quale, althusserismo compreso, l’istanza delle masse suonava come la parola mana. Insistere sulla loro ambivalenza permetteva a Balibar di sfuggire d’un colpo alla ricusazione e al disconoscimento, all’alternativa tra invocazione melanconica di un’illusoria età dell’oro e rilancio maniacale di una grande sera trionfale. È in questa prospettiva che rileggerà il freudo-marxista Wilhelm Reich (La psicologia di massa del fascismo), ritrovando così le preoccupazioni di Deleuze e Guattari che, ne L’Anti-Edipo, erano ritornati sulla sequenza fascista degli anni Trenta e vi avevano rintracciato il problema centrale della filosofia politica di Spinoza: perché gli uomini combattono per la loro servitù come se si trattasse della loro salvezza?
Spinoza nelle scienze sociali: nuovi cantieri per nuove lotte?
Se la fine degli anni Sessanta aveva segnato un ritorno a Spinoza, la fine dei Novanta ne iniziò indubbiamente un secondo che a sua volta beneficiò di un potente radicamento universitario. Trovò il suo epicentro nel seminario organizzato da Pierre-François Moreau, poco dopo la pubblicazione della sua tesi Spinoza. L’expérience et l’éternité (1994), all’ENS Fontenay-Saint-Cloud, a cui hanno preso parte — fino ad oggi — anche Chantal Jaquet, Pascal Sévérac e Ariel Suhamy. Per quanto riguarda il libro di Laurent Bove, La Stratégie du conatus (1996), anticipò la migrazione, all’inizio dei 2000, dello spinozismo di sinistra verso la logica spinoziana degli affetti. Il raggio di questo nuovo spinozismo è di contro più difficile da definire di quello del suo predecessore e forse gli converrebbe più l’immagine della rete informatica, essa stessa ripensata a partire da quanto Balibar,in Spinoza et la politique (1985), intravvedeva come una teoria della comunicazione generalizzata. Ad alcuni oggi piace riconoscere, nel tessuto reticolare e a-centrato che struttura l’«ordine geometrico» dell’Etica, con il suo sistema di riferimenti tra proposizioni, dimostrazioni e scolii, una prefigurazione delle strutture iper-testuali che il World Wide Web ci ha reso familiari.
Il seminario internazionale «Spinoza oggi» organizzato a Cerisy nel 2002 è ricordato da alcuni partecipanti27 come una svolta in cui si rivelò un’inedita configurazione: ai filosofi ormai si affiancavano un biologo teorico dell’auto-organizzazione dei sistemi viventi (Henri Atlan), un economista che scoprì in Spinoza la «filosofia implicita della teoria della regolazione»28 (Frédéric Lordon) o ancora uno specialista della letteratura del VIII secolo vicino alla rivista Multitudes (Citton). Divenne chiaro che puntare tutto sulla coerenza filosofica interna del sistema spinoziano non esauriva la sua fecondità in altri campi. Citton e Lordon puntarono proprio su questo con l’opera collettiva Spinoza et les sciences sociales (2008) che si propose di dimostrare l’efficacia della filosofia di Spinoza in dominii così diversi, se non antitetici, come la teoria micro-sociologica di Gabriel Tarde (Citton) in dialogo con la filosofia di Gilbert Simondon (Philippe Zarifian), la sociologia dei campi di Bourdieu (Christian Lazzeri), il metodo regolazionista in economia monetaria (Lordon e André Orléan) e la microfisica foucaultiana del potere (Sévérac e Aurélie Pfauwadel).
L’introduzione del libro, in forma di manifesto, si proponeva, con un pizzico di eclettismo, di rispondere riunendo gli assiomi unificanti di questo «divenire spinozista delle scienze sociali» e accentuando le frontiere polemiche che ripercorrevano un campo di battaglia intellettuale largamente riconfigurato durante l’interregno degli anni Ottanta e Novanta. Con la parola d’ordine del «ritorno del soggetto», la sociologia aveva resuscitato l’antinomia astratta tra autonomia dei soggetti e determinismo delle strutture e vantato i meriti dell’individualismo metodologico contro lo spauracchio «olistico»: l’antropologia spinozista reclamava per sé un pensiero razionale e non sostanziale del trans individuale, superando questa falsa alternativa e rimettendo in discussione «sia la sovranità dell’ego sia la sovranità dello Stato»29, come dice oggi Citton riferendosi alle opere di Brian Massumi. Una filosofia politica ricostituita sulla base di un universalismo formalista aveva imposto l’agenda di una «razionalità comunicativa» che garantirebbe il regno del consenso a società «post-democratiche» che hanno preso ultimamente atto delle oscure complicità tra utopia egalitarista e totalitarismo; l’etica spinoziana ha introdotto a sua volta una comprensione materialista della produzione delle norme, indissociabile dai rapporti di potenza, e una concezione della comunicazione aperta alle sue dimensioni intellettuali e passionali, socio-tecniche ed economiche, attraverso cui lo spinozismo diventava compatibile con le nuove ricerche sul capitalismo cognitivo nell’epoca delle forze «immateriali».
Non fu meno precario l’equilibrio tra la retorica federativa delle convergenze e la difforme posta in gioco di uno spinozismo che non prescriva in anticipo alcuna «visione del mondo sociale» comune. Le linee di forza del «socio-spinozismo» si mostrarono molto tese. Il convettore fu nuovamente il concetto di moltitudine: Negri vi aveva condensato l’immaginario democratico radicale di cui l’ontologia spinozista era portatrice; Matheron, poi, ne aveva fatto la pietra angolare di una modellizzazione della genesi delle istituzioni e della sovranità. Entrambi volevano risolvere, con due percorsi diametralmente opposti, il problema dell’incompiutezza del capitolo sulla democrazia al termine del Trattato politico. Se si vuole passare da una prospettiva all’altra, è necessaria un’integrazione. Se ne rintraccia una in una metafora biologico-politica che traduce l’idea spinozista della sostanza come «causa di sé» nel linguaggio dei sistemi autoproduttivi o autopoietici30. Ne si troverà un’altra nell’idea dei «territori auto-trascendenti» (Jean-Pierre Dupuy) che iscrive nella dinamica dei rapporti sociali «la maniera in cui dei meccanismi strettamente immanenti sono capaci di generare effetti che dominano i loro stessi produttori»31.
Non senza paradossi, il socio-spinozismo riproduceva tale e quale la problematica — sviluppata da Feuerbach e il giovane Marx — della produzione delle trascendenze religiose e politiche (Dio e Stato) nelle quali gli uomini alienano la loro potenza collettiva32. Lordon, che aveva firmato nel 2001 un articolo in Actuel Marx con il titolo «Il conatus del capitale», ha portato al culmine il paradosso sperimentando una nuova «co-implementazione» critica di Marx con Spinoza e spingendosi a formulare sotto il nome di «strutturalismo delle passioni» una dialettica di orizzontalità (immanenza) e verticalità (trascendenza), di «strutture degli affetti» e delle strutture «macroeconomiche»33. Da un lato, ha rimarcato l’adeguamento dell’economia spinozista degli affetti alle forme di mobilitazione salariale delle passioni gioiose nell’epoca post-fordista, la trappola della ragione neoliberale che realizza l’ideale spinoziano di governo: «Condurre gli uomini in maniera tale che abbiano il sentimento, non di essere condotti, ma di vivere secondo la loro fisionomia e il loro libero arbitrio»34. Dall’altro, ha attribuito ai meccanismi dell’indignatio e della sedizione la genesi di un contropotere antagonista inseparabile dalla formazione di una nuova economia del desiderio35, come Deleuze e Guattari avevano suggerito a loro tempo rivendicando uno «spinozismo dell’inconscio»36.
Eretto, malgrado lui, a intellettuale organico dell’inorganico movimento Nuit debout nel 2015, Lordon per l’occasione lodò il documentario Merci Patron! di François Ruffin per la sua capacità di suscitare passioni gioiose opposte a qualunque forma di vittimismo. Invocava a questo fine l’assioma spinozista secondo cui i desideri possono essere impediti o distrutti solo da altri desideri potenti almeno quanto quelli. Il fatto che Lordon sia il solo ad aver cercato una reale connessione del pensiero spinoziano con le attuali lotte sociali — se si mette da parte il topos pseudo- spinozista della lotta come affermazione gioiosa — tende almeno a mostrare che tra i due Spinoza, quello che ci dà un arsenale analitico- critico adatto ad esaminare gli ingranaggi affettivo- istituzionali del neoliberalismo e quello che ci invita (o inviterebbe) alla resistenza e alla rivolta, vi è ancora un abisso.
Ritorno all’antropologia, fine dello spinozismo di sinistra?
Concludendo, resta da vere come questo scarto, anziché essere riassorbito, continui a suscitare nuove linee di indagine tra le quali potrebbero essere comprese le teorie dell’emancipazione. Mentre l’assioma della «potenza della moltitudine» sembra ritornare ad essere il nome di un problema piuttosto che di una soluzione, vediamo che viene rilanciata la questione, che la maggior parte delle varianti dell’antiumanismo teorico avevano creduto chiusa, dello statuto dell’antropologia filosofica nella teoria critica. Gli spinozisti di sinistra della prima ora si erano impegnati a cercare in Spinoza una filosofia per il marxismo; ormai, agli occhi di qualcuno come Lordon, la sfida è ricostituire, con Spinoza, l’«antropologia mancante di Marx»37.
«Il marxismo, e Marx stesso» ci dice Balibar «si erano tenuti alla convinzione che la critica della religione fosse acquisita. Non c’è niente di meno sicuro»38. André Tosel, che aveva firmato nel 1984 un saggio sul Trattato teologico-politico (Spinoza ou le Crépuscule de la servitude), ha dedicato i suoi ultimi anni a riaprire tale questione in vista di un’analisi del «ritorno del religioso» sulle scene nazionale e internazionale. Contro i riduzionismi simmetrici dell’economia e del culturalismo, la filosofia spinoziana doveva nuovamente essere mobilitati per interrogare le ambivalenti potenze del religioso nella vita intellettuale, immaginativa ed affettiva. Altri si dirigono oggi verso il ruolo dei dibattiti con le scolastiche medievali cristiana, ebrea e araba39 nella genesi del pensiero di Spinoza. È in ultimo il problema dell’ebraismo di Spinoza ad essere reinvestito: contro il peso del tradimento che gli intellettuali ebraici, che trovano in Jean-Claude Milner il loro ultimo «profeta», hanno fatto pesare per almeno un secolo su Spinoza, Ivan Segré ha cominciato a reinscrivere il suo razionalismo integrale, «fuori dalla Legge» in una tradizione rivoluzionaria secondo la quale il «nome Ebreo» e il «nome operaio», lontano dall’escludersi reciprocamente, siano «come uno solo»40. Per Segré, che sostiene la possibilità di tre tipi di lettura dello Spinoza politico, «rivoluzionaria, conservatrice e liberale», il problema fondamentale, o quantomeno attuale, che ci ha lasciato il filosofo è quello dell’invenzione di un «collettivo che non sia più sotto l’imperio della paura, passione triste per definizione41.
Più in generale, osserva Moreau42, l’attuale vitalità delle ricerche su Spinoza viene meno da studi sistematici quanto invece da un dibattito critico su ciò che un’«antropologia non umanista» può apportare all’analisi della storicità delle forme di vita individuali e collettive. Ne sono testimonianza una serie di recenti lavori: sui concetti, che si tende a non tradurre più, di ingenium e imperium e su quanto essi condividano delle contraddizioni delle formazioni nazionali o nazionaliste (Lordon); sulle nozioni di divenire, attività o disposizione, che conduce a una rivalutazione del ruolo della contingenze e dell’evento nell’etica spinoziana (Sévérac, Jacques-Louis Lantoine, Julie Henry); o ancora sulle risorse che dà la filosofia di Spinoza per ripensareuna pedagogia emancipatrice sulla scia di Vygotski (Sévérac) e reinterrogare il posto dell’infanzia nel pensiero politico di Spinoza, come aveva già fatto François Zourabichvili in Le Conservatisme paradoxal de Spinoza (2002). Per un verso differente, alcuni riprendono l’assioma che Deleuze aveva posto al cuore dell’antropologia spinozista: la potenza si esprime in un «potere di affettare», ma anche in un «potere di essere affetti», in quanto i problemi etici possono insieme sorgere e risolversi esclusivamente in una zona di indiscernibilità tra attività e passività, autonomia ed eteronomia.
È chiaro che lo Spinoza contemporaneo non possa restare estraneo ai dibattiti in corso che, tra lotte ecologiste, indigene e contadine, cercano di trasgredire le frontiere dell’impero antropo-sociocentrico per pensare i rapporti tra i mondi umani e non-umani. Il ricorso a Spinoza nel pensiero ecologista non è perciò nuovo: dal 1977, il padre della deep ecology, Arne Næss, vi si richiamava per considerare la vita umana come spoglia di qualunque privilegio ontologico rispetto ad altri esseri che compongono l’ecosistema globale43. A un tale greenwashing hanno comunque resistito molti punti della dottrina spinozista. Rifiutando di pensare la natura in termini di ordine o disordine e ponendo al cuore delle logiche socio-passionali un meccanismo di «imitazione degli affetti», Spinoza respingeva qualunque possibilità di una comunità affettiva, anche immaginaria, tra uomini ed animali. Facendo della potenza del conatus, che nell’uomo equivale a dire del desiderio, la misura del diritto naturale, promuoveva un utilitarismo senza dubbio originale, ma che allo stesso tempo rinnovava un diritto sovrano degli uomini ad appropriarsi di tutti gli altri esseri naturali in funzione del loro proprio interesse… per quanto questo spinga infine a incitarli a conservare la natura per conservare sé stessi. La deep ecology segnalava così un ritorno allo Spinoza panteista- tutti i corpi sono espressione di un’unica e sola potenza infinita — eliminando le conseguenze antropocentriche che Spinoza stesso aveva potuto trarne. Delle recenti ricerche mostrano come il dibattito non sia chiuso e che, rimuovendo i limiti immaginari che riducono l’«imitazione degli affetti» all’identificazione dei «simili», la logica spinozista potrebbe impegnarsi nel campo delle connessioni trans-specifiche tra umani e non-umani di cui l’antropologia contemporanea testimonia44.
Eccoci ritornati al nostro punto di partenza: l’osservazione della diffusione di riferimenti a Spinoza in una molteplicità di campi teorici e critici, autorizzando usi locali selettivi e strategici del suo pensiero. In questo contesto, chiedersi se vi sia ancora uno spinozismo di sinistra non sembra aver praticamente più alcun senso, così come chiedersi se Spinoza stesso, uomo del XVII secolo, fosse di sinistra. Non brilleremo per originalità sottolineando che una tale dispersione è oggi quella della stessa sinistra e che è diventato impossibile fare di quest’ultima una «costante» in funzione della quale potremmo valutare la posizione della «variabile» spinozista nello scacchiere politico. Nell’epoca della decomposizione e delle ricomposizioni della sinistra, più che determinare se lo spinozismo sia «di sinistra», la questione è senza dubbio valutare in quale misura la sinistra è «spinozisa» e ciò che guadagnerebbe o perderebbe nell’essere tale; e ciò non solo dal punto di vista delle sue idee o della sua ideologia ma, come impone il parallelismo spinoziano, anche dei suoi modi di esistenza e organizzazione come corpo e insieme di corpi, «convenienti» o convergenti sotto alcuni aspetti, «sconvenienti» o divergenti sotto altri: lo spinozismo come scansione delle pratiche militanti, tutto un programma.
Traduzione dal francese di Marco Spagnuolo
NOTE
1. | ↩ | Le Magazine littéraire, «Spécial Spinoza», novembre-dicembre 2017, n° 585-586, p. 84 e 88-89. |
2. | ↩ | A. Schopenhauer, Le Monde comme volonté et comme représentation, PUF, 2004, p. 539 |
3. | ↩ | Intervista a Yves Citton, 30 novembre 2017. |
4. | ↩ | S. Žižek, Organes sans corps, Éditions Amsterdam, 2008. |
5. | ↩ | Intervista a Pierre Macherey, 26 ottobre 2017. |
6. | ↩ | A. Tosel, «Pour une étude systématique du rapport de Marx à Spinoza», in A. Tosel, P.-F. Moreau et J. Salem (a cura di), Spinoza au XIX siècle, Publications de la Sorbonne, 2007, pp. 127-147. |
7. | ↩ | G. Kline (a cura di), Spinoza in Soviet Philosophy, Routledge/Kegan Paul, 1952. |
8. | ↩ | A. Kojève, Introduction à la lecture de Hegel, Gallimard, 1989, p. 351 e 354. |
9. | ↩ | J.-T. Desanti, Introduction à l’histoire de la philosophie, PUF, 2006. |
10. | ↩ | «À propos de Spinoza. Entretien entre Alexandre Matheron, Laurent Bove et Pierre-François Moreau», Multitudes, n°3, novembre 2000. |
11. | ↩ | Intervista a Pierre-François Moreau, 8 febbraio 2018. |
12. | ↩ | L. Althusser, «Éléments d’autocritique», in Solitude de Machiavel, PUF, 1995, p. 181. |
13. | ↩ | L. Althusser, É. Balibar, R. Establet, P. Macherey et J. Rancière, Lire le Capital, PUF, 1996, p. 288. |
14. | ↩ | L. Althusser, «Éléments d’autocritique», in Solitude de Machiavel, cit., p. 183. |
15. | ↩ | Intervista a Pierre Macherey, 26 ottobre 2017. |
16. | ↩ | Ibidem. |
17. | ↩ | Intervista ad Antonio Negri, 16 gennaio 2018. |
18. | ↩ | Ibidem. |
19. | ↩ | A. Negri, L’anomalia selvaggia. Potere e potenza in Spinoza, in Spinoza, DeriveApprodi, 2018 (1998), p. 37. |
20. | ↩ | Intervista ad Antonio Negri, 16 febbraio 2018. |
21. | ↩ | J. Ceccaldi, «L’événement Spinoza», Multitudes, n° 2, maggio 2000. |
22. | ↩ | G. Deleuze, «Ce livre est littéralement une preuve d’innocence», in Deux régimes de fous, Éditions de Minuit, 2003, pp. 160-161. |
23. | ↩ | P. Macherey, «Negri: de la médiation à la constitution», in Avec Spinoza, PUF, 1992, pp. 245-270. |
24. | ↩ | Intervista a Étienne Balibar, 12 febbraio 2018. |
25. | ↩ | Ibidem. |
26. | ↩ | É. Balibar, «Spinoza, l’anti-Orwell. La crainte des masses», in La Crainte des masses, Galilée, 1997, p. 58. |
27. | ↩ | Intervista a Yves Citton, 30 novembre 2017; intervista a Frédéric Lordon, 14 dicembre 2017. |
28. | ↩ | Intervista a Frédéric Lordon, 14 dicembre 2017. |
29. | ↩ | Intervista a Yves Citton, 30 novembre 2017. |
30. | ↩ | Y. Citton, L’Envers de la liberté. L’invention d’un imaginaire spinoziste dans la France des Lumières, Éditions Amsterdam, 2006. |
31. | ↩ | Y. Citton et F. Lordon (a cura di), Spinoza et les sciences sociales, Éditions Amsterdam, 2008, p. 51. |
32. | ↩ | F. Fischbach, La Production des hommes. Marx avec Spinoza, PUF, 2014. |
33. | ↩ | Intervista a Frédéric Lordon,14 dicembre 2017. |
34. | ↩ | F. Lordon, Capitalismo, desiderio e servitù. Antropologia delle passioni nel lavoro contemporaneo, DeriveApprodi, 2015. |
35. | ↩ | F. Lordon, La Société des affects, Seuil, 2013 |
36. | ↩ | G. Deleuze, F. Guattari, L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, Einaudi, 1975. |
37. | ↩ | Intervista a Frédéric Lordon, 14 dicembre 2017. |
38. | ↩ | Intervista a Étienne Balibar, 12 gennaio 2018. |
39. | ↩ | Y. Djedi, «Spinoza et l’islam», Philosophiques, vol. 37, n° 2, 2010, pp. 275- 298. |
40. | ↩ | I. Segré, Le Manteau de Spinoza, La Fabrique, 2014. |
41. | ↩ | Intervista a Ivan Segré, 7 dicembre 2017. |
42. | ↩ | Intervista a Pierre-François Moreau, 8 febbraio 2018. |
43. | ↩ | E. de Jonge, Spinoza and Deep Ecology, Ashgate, Aldershot/Burlington 2004. |
44. | ↩ | E. Viveiros de Castro, Métaphysiques cannibales, PUF, 2009. |
FONTE: https://operavivamagazine.org/riappropriarsi-di-spinoza/
CYBERWAR SPIONAGGIO INFORMAZIONE DISINFORMAZIONE
Servizi segreti, agenti, spie: lontano dai riflettori, Italia terra di scambio e guerre d’intelligence
Uno dei principali tavoli su cui si gioca il braccio di ferro fra Stati Uniti e Russia resta l’Italia. Nel nostro Paese, infatti, lontano dai riflettori, continuano ad accadere cose particolari. Non siamo nel campo delle serie tv o del complottismo, siamo nel campo della realtà e dei fragilissimi equilibri internazionali i cui protagonisti sono servizi segreti, agenti e spie.
Giampaolo Cadalanu su Repubblica, racconta degli ultimi avvenimenti che hanno coinvolto direttamente l’Italia. “La scoperta – se verrà confermata – di un agente russo ai vertici del Comando Nato di Lago Patria, a due passi da Napoli, comunica un lieve disagio.
L’Italia, negli ultimi anni scampata per qualche miracolo alle stragi del terrorismo internazionale, sembra al centro di nuove tensioni, con regole mutate”.
FONTE:https://www.ilparagone.it/attualita/italia-servizi-segreti-spie/
Alessandro Meluzzi: «Non ho mai visto un tale livello di falsità dei media.
I giornali mainstream sono solo polli di allevamento»
Ai pennivendoli non conviene informarvi davvero”. Alessandro Meluzzi, psichiatra, saggista e rullo compressore nella controinformazione sulla pandemia, rincara la dose contro la censura delle prime pagine più quotate. I media Italiani, ad esempio, hanno completamente ignorato le manifestazioni di massa a Londra e Berlino contro lockdown e mascherine, eppure ci hanno asfissiato per mesi con ogni caffè preso dal Greta e dal gretinismo imperante.
Nessuno parla della Svezia dove il No Lockdown non ha portato un numero di morti particolarmente più altro dell’Italia, anzi, al contrario, molto più basso, e con danni economici molto più limitati. I media ormai non hanno più giornalisti che dovrebbero raccontare la verità, ma una serie di polli di allevamento in batteria che copiano l’un l’altro le veline di regime, sempre più corrotto e lontano dalla verità. Però la verità viene sempre fuori con il tempo, si può mascherare per un po’, ma non per sempre.
Meluzzi afferma senza problemi che l’informazione attuale è molto più falsa di quella della sua gioventù, e parliamo dei tempi delle stragi di Piazza della Loggia e di Piazza Fontana. Però questi giornalisti hanno mogli, amanti, yacht, case da mantenere, e ormai della verità non hanno nessun interesse.
ECONOMIA
Lotta all’evasione? Gli sprechi nella Pa sono doppi
I dati analizzati dalla Cgia di Mestre rivelano un quadro molto più complesso di quello dipinto dal governo e dal suo spot contro l’evasione fiscale
Si continua ad indicare la lotta all’evasione fiscale come strumento primo per recuperare dei fondi da immettere nelle casse del Paese e (almeno in teoria) reinvestire per il bene dei cittadini, tuttavia i dati forniti dall’Ufficio Studi dell’Associazione artigiani e piccole imprese di Mestre (la Cgia) mostrano un quadro differente.
Se da un lato, infatti, l’evasione fiscale è in grado di occultare ben 110 miliardi di euro all’anno, dall’altro i buchi ed il malfunzionamento rilevabili nelle attività della Pubblica amministrazione, oltre che mettere in evidenti difficoltà tanto le imprese quanto i privati, possono arrivare addirittura a superare ogni anno i 200 milioni di euro. Una cifra praticamente doppia rispetto alla prima, che l’Ufficio studi della Cgia di Mestre ha ottenuto creando un parallelo tra i mancati introiti tributari con cui deve fare i conti la Pubblica amministrazione a causa degli evasori e tutti quei costi che, proprio a causa dell’inefficienza dei servizi pubblici, aziende e privati si trovano ad avere sulle spalle. Ciò significa che in un raffronto del genere a subire maggiormente le inadempienze dell’altro elemento paiono proprio i cittadini.
Una situazione chiarita con l’ausilio dei numeri dall’Associazione artigiani e piccole imprese di Mestre, ma che pare ben poco nota ai più, impegnati a puntare il dito esclusivamente contro l’evasione fiscale, a livello mediatico molto più semplice per i politici da indicare come problema da risolvere rispetto all’ammettere e porre rimedio agli evidenti sprechi dell’Amministrazione pubblica. Questi, proprio a causa dei ridondanti “spot” del governo, passano in secondo piano.
Ciò non significa che l’evasione fiscale non sia un problema.“Non va mai giustificata e dobbiamo contrastarla ovunque essa si annidi, sia che riguardi i piccoli che i grandi evasori”, dichiara Paolo Zabeo, coordinatore dell’Ufficio studi della Cgia. “Se, infatti, portassimo alla luce una buona parte delle risorse sottratte illecitamente all’erario, la nostra P.a. avrebbe più soldi, funzionerebbe meglio e, probabilmente, si creerebbero le condizioni per alleggerire il carico fiscale. Con meno evasione e una P.a. più efficiente potremmo creare le condizioni per rilanciare questo Paese”, conclude.
Tra i vari sprechi, Cgia ricorda l’elevato costo annuo che le imprese devono sostenere per la burocrazia e quindi per gestire i rapporti con la P.a: si parla di 57 miliardi di euro. I debiti contratti nei confronti di privati fornitori dalla P.a. ammontano a oltre 53 miliardi di euro, mentre la spesa pubblica totale supera di 24 miliardi la soglia che consentirebbe di abbassare la pressione fiscale. Evidenti i buchi anche quando si parla dei tempi della giustizia (le lungaggini possono essere quantificate in 40 miliardi di euro all’anno), quando si analizzano i trasporti pubblici (sperperi per 12,5 miliardi all’anno) e la sanità pubblica (corruzione e sprechi costano alla collettività annualmente circa 23,5 miliardi).
“Il Governo, tuttavia, deve assolutamente mettere mano il prima possibile al nostro sistema fiscale, riducendone il prelievo e il numero di adempimenti che continuano ad essere troppi e spesso difficili da espletare”, ribadisce il segretario Cgia Renato Mason.
FONTE: https://www.ilgiornale.it/news/economia/lotta-allevasione-sprechi-nella-pa-sono-doppi-1886283.html
L’ascesa del femminismo neoliberista
Catherine Rottenberg – 18 GIUGNO 2020
Proponiamo un estratto dal libro L’ascesa del femminismo neoliberista di Catherine Rottenberg appena uscito per ombre corte, con la traduzione di Federica Martellino e una prefazione di Brunella Casalini. In questo saggio l’autrice sostiene che il femminismo neoliberista legittima lo sfruttamento della stragrande maggioranza delle donne mentre disarticola qualsiasi tipo di critica strutturale. Non sorprende, quindi, che questo nuovo discorso femminista converga con le forze conservatrici che, in nome della parità di genere e dei diritti delle donne, promuovono programmi razzisti e anti-immigrazione o giustificano gli interventi nei paesi a maggioranza musulmana. Rottenberg conclude quindi sollevando domande urgenti su come riorientare e rivendicare con successo il femminismo come movimento per la giustizia sociale.
Secondo molti progressisti americani, la campagna presidenziale di Hillary Clinton del 2016 e il forte sostegno che ha ricevuto dalle organizzazioni femministe, avrebbero segnato uno dei momenti clou della rinascita di un’agenda femminista negli Stati Uniti. Nei giorni precedenti alle elezioni vi era un’aspettativa sempre più intensa e quasi palpabile, tra un vastissimo numero di persone, circa la possibilità di inaugurare una nuova era in cui, per la prima volta nella storia degli Stati Uniti, a capo della nazione più potente del mondo, ci sarebbe stata una donna. Di conseguenza, al risveglio dell’inaspettata – e per molti scioccante – disfatta di Clinton, si è rivelato molto più difficile valutare la portata del fatto che una donna si stesse candidando alla presidenza sostenuta da un partito a favore delle donne e identificato come “femminista”.
Secondo numerosi opinionisti e critici, la vittoria di Donald Trump non è che una rabbiosa reazione proprio nei riguardi del femminismo e dei risultati da esso effettivamente conseguiti. La rapidità con la quale il presidente Trump ha tentato di trasformare in realtà l’agenda sessista e antiabortista della propria amministrazione sembra in effetti dar credito alla posizione secondo cui staremmo assistendo, per l’ennesima volta, all’ennesimo violento colpo di coda contro l’emancipazione delle donne. Ci sono pochi dubbi sul fatto che abbiamo fatto il nostro ingresso in un periodo particolarmente minaccioso della storia degli Stati Uniti, specialmente da quando la nuova amministrazione appare piuttosto determinata nell’erosione di molto di ciò che rimane delle istituzioni, delle agenzie e delle consuetudini del paese, per quanto imperfette potessero essere.
In un’intervista rilasciata non molto tempo dopo l’insediamento di Trump, Naomi Klein ha sostenuto che la vittoria di Donald Trump abbia condotto a un autentico “colpo di stato da parte delle imprese”, mentre Cornel West ha scritto un articolo per dire che gli Stati Uniti hanno fatto il loro ingresso in una sorta di neofascismo. Un assalto conclamato ai diritti delle donne e alla parità di genere, d’altronde, sembra essere dietro l’angolo. Il colpo dell’amministrazione statunitense contro i diritti riproduttivi è già stato sferrato, prima con l’ordine esecutivo di ristabilire il cosiddetto Global Gag Rule – che proibisce alle organizzazioni non statunitensi e non governative che ricevono fondi statunitensi di informare le donne sull’aborto, creando consapevolezza attorno alla questione ed eventualmente prendendola in carico – e poi legiferando il definanziamento di organizzazioni come Planned Parenthood. Brigitte Amiri, che scrive per l’American Civil Liberties Union (ACLU), ha scritto che “è fuori questione che Trump stia attivamente tentando di fermare il progresso verso la piena eguaglianza delle minoranze di genere e sessuali e il pieno accesso ai diritti riproduttivi”.
A prescindere da quanto possa trapelare di ciò succederà nella parte restante del mandato di Trump, sembra in ogni caso chiaro che ci troveremo di fronte a una quantità estrema di danni. Tuttavia, la gran parte di questo libro è stata scritta durante quello che, rispetto a oggi, sembrava essere un periodo molto diverso, un periodo nel quale determinate posizioni progressiste – come il tanto agognato riconoscimento dei pari diritti di lesbiche, gay, bisessuali, transgender, queers e questioning – sembravano muoversi finalmente dai margini verso il consenso istituzionale e popolare. Si pensi al Marriage Equality Act, o alla già citata decisione da parte di un grande partito nazionale di candidare per la prima volta alla presidenza degli Stati Uniti una donna, che peraltro si identifica come femminista. Molti a sinistra – inclusa la sottoscritta – nutrivano sentimenti ambivalenti nei confronti di questi “progressi”, in larga parte perché dichiararsi progressisti, nel senso comune mainstream, sembrava inevitabilmente fondarsi su una deliberata noncuranza della devastazione provocata dalle politiche neoliberiste – non ultimo sulla vita delle donne povere e non bianche –, oltre che sulla invisibilizzazione delle ingenti diseguaglianze strutturali e dell’oppressione agita invariabilmente su tantissimi altri fronti.
Ma, come ho detto, dal 20 gennaio 2017 il clima politico statunitense si è trasformato in modi che in pochi avevano previsto in questi termini. Nello Studio Ovale ora alberga un magnate senza scrupoli e sprovvisto di qualunque esperienza politica – un presidente che in realtà ha già perso il sostegno popolare di almeno tre milioni di voti. L’amministrazione Trump, inoltre, è carica di inquietanti, e palesemente inconciliabili, contraddizioni. Il suo vicepresidente è un cristiano-evangelico fortemente contrario all’aborto, mentre il capo dei servizi segreti è un indefesso suprematista bianco; al contempo, gli altri membri del governo – quelli che, almeno al momento, si trovano alla guida delle più importanti agenzie governative – incarnano letteralmente i principi neoliberisti nella loro forma più estrema, sostenendo in particolare l’intensificazione della deregolamentazione, della privatizzazione e del rafforzamento del capitale, nonché mostrando la più totale indifferenza nei riguardi degli ultimi scampoli della rete di sicurezza del New Deal, o delle urgenti e necessarie politiche ambientali. Ciò che colpisce maggiormente è come il neoliberismo, solitamente associato alla rimozione di ogni ostacolo al libero flusso transnazionale di capitali e di beni, possa essere diventato l’alleato di un fanatismo nazionalista e nativista, anche in ambito economico. Benché l’attuale congiuntura tra il neoliberismo e ciò che Cornel West ha definito “neofascismo” non costituisca forse nulla di troppo inedito per il panorama politico contemporaneo – dal momento che questo connubio si è già verificato in altri paesi – è tuttavia scioccante, per molte persone in tutto il pianeta, assistere a questa spaventosa fusione negli Stati Uniti. Le azioni messe in atto dall’amministrazione Trump, il suo turbinio di ordini esecutivi estremamente controversi, hanno già scatenato mobilitazioni di massa e forme di protesta come non se ne vedevano da decenni1. Forse, abbiamo fatto il nostro ingresso in un’epoca di rinnovata resistenza popolare di massa, in cui sarà data nuova vita a vecchi concetti quali quelli di giustizia sociale e di eguaglianza, ossia gli unici in grado di costituire un’alternativa sia alle tendenze neofasciste della nuova amministrazione, sia alla razionalità neoliberista del mercato che, ovunque, persiste nel proprio processo di colonizzazione del mondo. O questa, almeno, come tenterò di illustrare meglio nel libro, è la mia speranza.
Al netto di tali premesse, e come diventerà via via più chiaro, questo libro mira tuttavia a render conto di un fenomeno diverso, ossia di quel groviglio tra neoliberismo e femminismo che, da quando esiste, viene considerato come parte integrante della politica progressista. L’odissea di questa ricerca inizia nel 2012 quando, dopo un lungo periodo di latenza in cui ben poche donne – e specialmente quelle più potenti – volevano identificarsi pubblicamente come femministe, lo status quo inizia a cambiare tanto rapidamente quanto tragicamente. All’improvviso, molte donne di classe medio-alta, negli Stati Uniti, iniziano a proclamarsi a gran voce femministe, una dopo l’altra: l’ex direttrice del Policy Planning del Dipartimento di Stato americano Anne-Marie Slaughter, l’ex presidente del Barnard College Debora Spar e la direttrice operativa di Facebook Sheryl Sandberg, fino alla giovane star hollywoodiana Emma Watson, o a celebrità dell’industria musicale come Miley Cyrus e Beyoncé. Il femminismo diventa di colpo accettabile, molto popolare, e ciò avviene attraverso modalità che semplicemente non aveva mai conosciuto prima.
La prospettiva di una rinascita del discorso femminista appare da subito molto promettente, specialmente alla luce dei danni macinati dal “postfemminismo” – che Rosalind Gill descrive come un complesso “intreccio di idee femministe e antifemministe”2 –, il quale aveva precedentemente svolto a dovere il compito di arginare la necessità di un movimento di massa, e organizzato, delle donne. Ciononostante, molte attiviste di lungo corso e molte studiose femministe hanno mostrato una certa cautela nei riguardi di quella recente riemersione, innanzitutto perché sembrava avvenire all’insegna della completa assenza di parole-chiave che invece, dai discorsi e dai dibattiti femministi, sembravano indissociabili: eguaglianza, emancipazione, giustizia sociale. Altre sembravano le parole-chiave atte, testardamente, a rimpiazzarle: felicità, conciliazione famiglia-carriera, responsabilità, “farsi avanti” [lean in]. Così, incuriosita dall’ampia proliferazione – e dall’ampia accettazione – di un nuovo lessico femminista fondato sulla paradossale omissione di tanti concetti-chiave del femminismo stesso, ho iniziato a seguire l’effetto individualizzante, e di “anestetico” politico, di questa nuova variante di femminismo. La comparsa di questo nuovo lessico femminista mi ha spinta ad analizzare la nuova visibilità, del femminismo stesso, nei prodotti culturali mainstream: dai giornali agli articoli di riviste, alle serie tv, alle varie autobiografie di donne famose, alle guide femminili su “come avere successo”, fino ai blog dedicati alle neo-mamme. Volevo capire come mai questa nuova forma di femminismo fosse diventata pubblicamente accettabile, guadagnando una così ampia popolarità, e tentavo di indagare quali rapporti quel cambio di registro intrattenesse realmente con la presunta legittimità che il femminismo stava improvvisamente ricevendo dall’immaginazione popolare statunitense. L’interesse nutrito nei riguardi questo nuovo fenomeno culturale è poi culminato quando svariate personalità politiche conservatrici – dalla premier inglese Theresa May a Ivanka Trump negli Stati Uniti – si sono aggiunte alle fila di una già sorprendente lista di donne pubblicamente identificatesi come femministe.
È sempre difficile cogliere un particolare fenomeno culturale mentre esso stesso accade – quasi in tempo reale – e questo è senza dubbio più vero specialmente se gli eventi si susseguono così rapidamente. I capitoli che seguono registrano e, al contempo, analizzano l’ascesa di ciò che definisco “femminismo neoliberista”. Il libro prende le mosse dalla percezione di una crisi sempre più forte della concezione classica dello spazio della teoria liberale – ossia, la rigida distinzione tra pubblico e privato. Si tratta infatti di una crisi che ha sortito effetti molto significativi su tutto il pensiero femminista liberale, così come sulla sua agenda politica di trasformazione sociale. Benché tale crisi non sia particolarmente nuova, e le sue origini non siano univoche, essa però coinvolge le contraddizioni interne dello stesso liberalismo, soprattutto quella per cui lo spazio, nell’immaginario politico liberale, sia già da sempre segnato dalla linea del genere. Come sosterrò, le ragioni di questa acutizzazione sono da ricondurre a due ragioni: la prima è data dall’ingresso di un numero sempre crescente di donne del ceto medio nel mondo del lavoro professionalizzato; la seconda, invece, dall’accresciuta egemonia della razionalità neoliberista. Facendo riferimento ai lavori di Wendy Brown, di Michel Feher e di Wendy Larner, per “neoliberismo” non intendo semplicemente un sistema economico o un insieme di politiche fondate sulla privatizzazione e sulla deregolamentazione del mercato; piuttosto, intendo una razionalità politica, una normatività, che oscilla costantemente tra “pubblico” – l’amministrazione dello stato – e “privato” – i meccanismi psichici del soggetto –, plasmando gli individui come agenti di potenziamento del capitale. La conversione costante e incessante, a opera della razionalità neoliberista, di tutti gli aspetti del nostro mondo in “atomi” del capitale, inclusi gli stessi esseri umani, produce soggetti individualizzati, “imprenditori di se stessi”, costretti a investire su di sé, considerati peraltro gli unici responsabili della propria cura e del proprio benessere. È significativo – ancorché paradossale – notare che proprio nel momento in cui la razionalità del mercato ha acquisito maggior ascendenza, questo nuovo tipo di femminismo ha fatto eclissare il postfemminismo, che studiose come Angela McRobbie e Rosalind Gill avevano già definito come un prodotto stesso del neoliberismo3. Dopo aver corroso il femminismo liberale e partorito il postfemminismo, la razionalità neoliberista si cimenta ora nella produzione di una nuova forma di femminismo. Tutto ciò solleva una serie di domande: perché mai il neoliberismo avrebbe bisogno del femminismo? In quali inedite modalità, rispetto al postfemminismo, potrebbe operare il femminismo neoliberista, e quali risultati potrebbe conseguire? Che tipo di lavoro culturale questa variante di femminismo fa emergere in questo particolare momento storico? E, infine, quali sono esattamente le sue modalità di azione? Questo libro mira a fornire un’analisi accurata della logica sottesa al femminismo neoliberista, dei suoi complessi meccanismi, e di come esso agisce per conseguire una serie di obiettivi, su tutti la produzione di un nuovo soggetto femminista.
[…]
Una delle tesi centrali di questo libro, infatti, è che la razionalità neoliberista potrebbe ben necessitare del femminismo per risolvere – almeno temporaneamente – una delle sue contraddizioni interne, proprio in relazione al genere. In quanto ordine economico, il neoliberismo fa chiaramente affidamento sulla procreazione e sul lavoro di cura gratuito per garantire la riproduzione e il mantenimento del capitale umano. Per esempio, le donne lavoratrici (ma anche gli uomini) acquistano sempre più frequentemente, e dunque esternalizzano, servizi di cura nei riguardi di bambini e/o anziani. In quanto razionalità politica, tuttavia, il neoliberismo non conosce altro lessico al di fuori della riproduzione del valore e del lavoro di cura. Questo non solo perché gli individui sono stati sempre più convertiti in capitale umano generico (attraverso l’occultamento del genere), ma anche perché la divisione tra sfera pubblica e privata – che caratterizza il pensiero liberale e la tradizionale divisione sessuale del lavoro – è stata erosa dalla conversione di tutto in capitale, e attraverso l’infiltrazione di quella razionalità tipica del mercato in tutte le sfere della vita, incluse quelle private. In aperto contrasto con la teoria liberale, in altre parole, il neoliberismo non ha un immaginario politico all’infuori di quello del mercato e dei suoi parametri, e questo immaginario sta colonizzando tutti gli ambiti dell’esistenza, incluso l’ambito privato.
La premessa alla base di questo libro è che sia gli uomini sia le donne – e in particolare quei soggetti già provvisti di un certo capitale economico, sociale, culturale e simbolico – sono sempre più indotti a pensarsi come capitale umano generico, a seguito di un processo che li spoglia di ogni valore (o di qualunque marcatore identitario), a eccezione di quello economico. Tale ingiunzione contribuisce a creare soggetti governati da un sistema valoriale fondato sul calcolo costi-benefici e che, se vogliono vivere – figurarsi, poi, se vogliono farlo in buona salute –, devono organizzare in un certo modo le proprie vite, compiere investimenti intelligenti su se stessi nel presente per aumentare le aspettative di successo nel futuro.
Parallelamente a questa premessa, tuttavia, la tesi di questo libro è che il femminismo neoliberista debba essere inteso come una sorta di grande respingimento della totale conversione delle donne istruite e in carriera in capitale umano generico. In maniera paradossale e controintuitiva, dal momento che preserva la procreazione come parte della traiettoria normativa di vita delle donne “ambiziose”, e la conciliazione come suo frame normativo e come fine ultimo, il femminismo neoliberista contribuisce a risolvere una delle tensioni costitutive del neoliberismo, facendo sì che le donne in ascesa nel lavoro desiderino una “felice conciliazione tra la carriera e la famiglia” e che tutta la responsabilità per la riproduzione stia tutta sulle loro spalle.
NOTE
1. | ↩ | Si veda il sito creato da Jeremy Pressman e Erica Chenoweth, Crowd Counting Consortium, disponibile online: http://sites.google.com/view/crowdcountingconsortium/home – consultato il 26 maggio 2017. |
2. | ↩ | Rosalind Gill, Postfeminist Media Culture: Elements of a Sensibility, in “European Journal of Cultural Studies”, 10, 2, 2007, pp. 147-166. |
3. | ↩ | Cfr. Angela McRobbie, The Aftermath of Feminism: Gender, Culture, and Social Change, Sage, London 2009. |
FONTE: https://operavivamagazine.org/lascesa-del-femminismo-neoliberista/
FINANZA BANCHE ASSICURAZIONI
L’era delle banche centrali
Quando, nel marzo 2001, la Bank of Japan guidata dal navigato Masaru Hayami annunciò il cambio di strategia monetaria e avviò quello che può a ben diritto essere considerato il primo quantitative easing della storia contemporanea nessuno poteva immaginare che la mossa decisa a Tokyo sarebbe ben presto divenuta la normalità in tutto il pianeta. Reduce dal “decennio perduto” che aveva smorzato l’entusiasmo per una locomotiva economica che al volgere degli anni Novanta immaginava il sorpasso sugli Stati Uniti, intrappolato tra la stagnazione, la deflazione e l’inizio del declino demografico, il Giappone intravide nella politica monetaria il viatico ottimale per lo stimolo alla domanda aggregata del Paese. Aumentando la sua base monetaria, la BoJ inondò il sistema nazionale di liquidità a basso costo per stimolare l’attività economica, promuovere gli investimenti e spingere la crescita dell’inflazione.
L’Abenomics, fondata sulla leva monetaria, era ancora ben al di là dall’essere concepita; l’accumulazione di fattori di crisi che avrebbero portato alla Grande Recessione nel 2007 impedì alla manovra nipponica di dispiegarsi nel migliore dei modi. Tuttavia, in un’epoca in cui Mervyn King, governatore della Banca d’Inghilterra, affermava che “una Banca Centrale di successo dovrebbe essere noiosa”, prevedibile e focalizzata sul tasso di interesse a breve termine, la mossa rappresentò una scossa di non secondaria importanza. Una previsione di quanto sarebbe accaduto dopo la Grande Recessione, in cui le banche centrali valorizzate come “quarto potere” delle democrazie occidentali avrebbero acquisito il centro della scena nella risposta alla crisi.
“In questi 12 anni le tre principali banche centrali del mondo, la Bce, la Fed Usa e la Banca del Giappone (BoJ), hanno espanso il proprio bilancio di circa 17mila miliardi di dollari”, fa notare Il Fatto Quotidiano in un’analisi che elogia le banche centrali per il ruolo giocato nella risposta al decennio più problematico dell’economia mondiale nel secondo dopoguerra, alla cui conclusione la pandemia di coronavirus ha aggiunto un nuovo, grave fattore di incertezza.
Dopo lo shock della grande recessione, i mercati finanziari si trovavano in affanno, in quanto epicentro del sisma, e la politica economica si era smarrita, senza bussola, dopo aver per anni favorito a colpi di deregolamentazioni e favoritismi il gioco degli “animal spirits” che aveva creato la Grande Recessione. Inoltre, la necessità di salvare il sistema finanziario costrinse gli Stati a creare voragini enormi nei propri bilanci, spingendo a livelli problematici il debito pubblico e sottraendo risorse alla normale politica di risposta alla crisi materiale dell’economia reale. Restava, terzo pilastro, la politica monetaria appannaggio di banche centrali sempre più indipendenti dal potere politico.
Già in passato grandi figure di banchieri centrali avevano segnato svolte fondamentali nella politica monetaria ed economica internazionale: negli Usa, nel 1979, Paul Volcker, governatore della Fed, impose un drastico aumento dei tassi che pose fine al compromesso keynesiano e preparò, col rientro in patria di grandi capitali, la rivoluzione neoliberista targata Ronald Reagan. In Italia i lunghi decenni della Prima Repubblica sono stati accompagnati dalla presenza della figura dello storico governatore della Banca d’Italia Guido Carli, il banchiere nato a Brescia che giocò un ruolo chiave nell’evoluzione delle dinamiche politiche nazionali fino alla firma del Trattato di Maastricht da lui completata come ministro dell’Economia.
Ora però il protagonismo dei banchieri centrali è ancora più accentuato. A partire da Ben Bernanke, alla guida della Fed durante la risposta alla crisi, per arrivare a Mario Draghi, Jerome Powell, Jens Weidmann, i banchieri centrali hanno assunto un ruolo sempre più spiccatamente visibile nei processi decisionali. Carli, lavoratore instancabile e personalità schiva, poteva permettersi, forte della sua credibilità, di parlare in maniera ieratica quando necessario, soprattutto in occasione delle comunicazioni finali, conscio di un forte dialogo della sua istituzione con la politica. Ora, nell’ultimo decennio è sembrato che le banche centrali siano diventate esse stesse una centrale decisiva di elaborazione politica. Lo abbiamo visto in Europa, in particolar modo, durante l’era Draghi: parafrasando Carl Schmitt, la politica monetaria della Bce ha risolto lo “stato d’eccezione” della crisi dei debiti, o perlomeno l’ha annacquato, conferendo al banchiere romano il ruolo di autorità sovrana più importante d’Europa durante la sua permanenza all’Eurotower.
Il mezzo dell’ascesa delle banche centrali è stato lo sdoganamento completo del quantiative easing, fattosi globale e dinamico. I mercati mondiali e la politica economica si sono adeguati a considerare normale il diluvio di liquidità emesso dalle principali banche centrali con l’obiettivo di unire al rilancio dell’inflazione una strategia a tutto campo destinata a favorire o perlomeno a evitare l’affondamento a un’economia reale messa a repentaglio dal blocco del mercato interbancario, dal crollo dei prestiti e dei finanziamenti, dalla stagnazione della produzione.
Il protagonismo delle banche centrali ha aumentato la visibilità dei loro leader, ogni appuntamento sull’aggiornamento dei tassi di interesse è divenuto uno snodo cruciale per le economie interessate da questa politica, ogni annuncio di nuovi piani di Qe ha galvanizzato governi e imprese. Le banche centrali, aumentando i loro bilanci, assorbivano senza freni titoli di debito pubblico, obbligazioni corporate, titoli bancari. In risposta alla crisi del coronavirus la Fed statunitense ha passato definitivamente il Rubicone arrivando alla completa monetizzazione del debito creato dal governo per rispondere all’emergenza economico-sanitaria, comprendente misure di helicopter money. Christine Lagarde, successore di Draghi alla guida della Bce, con una semplice gaffe sugli spread è stata in grado di far volatilizzare dai mercati europei 825 miliardi di euro in una sola giornata il 12 marzo scorso. Due esempi del genere segnalano la pervasività delle banche centrali nella vita politica ed economica dei principali Paesi del pianeta. Di cui possiamo trarre un bilancio, per quanto non ancora completo, già significativo.
Da un lato, le banche centrali hanno avuto il pregio della tempestività. Di fronte a crisi epocali, sviluppatesi in poche settimane, le scelte di immettere grandi quantità di liquidità per tamponarne gli effetti si sono spesso rivelate vincenti. Analogamente, data la lunga durata dei loro piani, le banche centrali hanno costruito una forte e durevole credibilità.
Di contro, senza il sostegno della vera politica economica la risposta monetaria resta asimmetrica. Le banche centrali non possono finanziare posti di lavoro, investimenti, piani di sviluppo, ma contribuire a creare il contesto ottimale perchè essi prendano forma. Molto spesso la politica ha volutamente abdicato alle sue responsabilità a favore dell’alibi monetario: la cerimonia di saluto a Mario Draghi nello scorso autunno ha visto i leader europei rendere omaggio a un leader che, in un certo senso, ne ha “emendato” le colpe che rischiavano di far naufragare l’euro. Inoltre, il Qe globale è forse andato troppo oltre, creando un’eccessiva accumulazione debitoria tra gli operatori privati e non venendo in alcun modo dirottato verso una sana politica per l’economia reale, restando confinato nelle gore morte della finanza speculativa.
In conclusione, dunque, possiamo dire che il new normal economico-finanziario, a partire dalla svolta giapponese di vent’anni fa, vede la banca centrale come attore dinamico e propositivo; al contempo, è la politica reale a dover reclamare e riconquistare spazi che in passato, troppo spesso, ha volutamente concesso in gestione a terzi. La politica monetaria è una parte, non il tutto: e quei leader che per deresponsabilizzarsi hanno ignorato questo semplice dato hanno contribuito ad acuire, piuttosto che risolvere, le asimmetrie della governance globale del sistema economico.
FONTE: https://it.insideover.com/economia/lera-delle-banche-centrali.html
GIUSTIZIA E NORME
Privacy violata? Per il risarcimento serve un danno “rilevante”
Secondo la disciplina civilistica occorre verificare tanto la serietà della lesione quanto la gravità dell’offesa
Con l’ordinanza 20 agosto 2020, n. 17383, la Corte di Cassazione ha ribadito che la risarcibilità del danno non patrimoniale derivante da violazione in materia di protezione dei dati personali è ammessa solo in caso sia realizzata una lesione significativa. Un “danno in re ipsa”, per mera violazione della disciplina normativa, non è (e continua a non essere) pertanto configurabile. Coerentemente con la disciplina civilistica del risarcimento del danno non patrimoniale occorre verificare tanto la serietà della lesione quanto la gravità dell’offesa, e dunque è necessario che sia realizzato un pregiudizio significativo e meritevole di tutela e che il danno arrecato si ponga oltre una soglia minima. Insomma: è escluso qualora realizzi una lesione minima e bagatellare.
Sebbene i fatti posti alla base della decisione siano precedenti all’applicazione del GDPR, e gli artt. 11 e 15 Cod. Privacy presi in considerazione dalla S.C. siano stati abrogati dall’intervento del d.lgs. 101/2018, i criteri di rilevanza ricordati non possono certo dirsi in contrasto con l’attuale quadro normativo applicabile.
L’art. 82 GDPR, infatti, regolamenta il diritto al risarcimento del danno stabilendo che “Chiunque subisca un danno materiale o immateriale causato da una violazione del presente regolamento ha il diritto di ottenere il risarcimento del danno dal titolare del trattamento o dal responsabile del trattamento” (art. 82.1 GDPR), non andando a rideterminare le regole generali poste alla base della responsabilità civile ma anzi rimettendo (art. 82.6 GDPR) l’azione legale risarcitoria alle autorità giurisdizionali competenti a norma del diritto dello Stato membro.
Certamente, per meglio inquadrare la determinazione dell’an risarcitorio devono essere in primo luogo considerate le disposizioni dell’art. 82 GDPR, in forza delle quali viene estesa la responsabilità anche al responsabile del trattamento qualora abbia agito in violazione del GDPR o delle istruzioni del titolare (art. 82.2 GDPR), è esonerato dalla responsabilità il titolare in caso dimostri la non imputabilità del danno (art. 82.3 GDPR) e viene estesa la solidarietà passiva a tutti i titolari e responsabili coinvolti nel trattamento di dati personali e nella violazione che ha prodotto un danno nei confronti dell’interessato (art. 82.4 GDPR). Ciò non significa in alcun modo che siano, in linea di principio, esclusi altri criteri applicabili in sede di cognizione e che conducano la valutazione e l’accertamento di fatto da parte del giudice di merito.
Ovviamente, molto dei criteri che saranno applicati verrà rimesso all’evoluzione della giurisprudenza (di legittimità e di merito) relativa al danno privacy, materia che assume indubbiamente una crescente importanza con l’avanzare del progresso tecnologico e la prospettazione dei nuovi orizzonti dello “stato dell’arte” delle attività di trattamento dei dati personali e delle tutele effettive da garantire agli interessati.
FONTE: https://www.infosec.news/2020/08/31/news/riservatezza-dei-dati/privacy-violata-per-il-risarcimento-serve-un-danno-rilevante/
LAVORO PENSIONI DIRITTI SOCIALI
Cassa integrazione: modifiche in vista al decreto Agosto? Le proposte
1 Settembre 2020
Cassa integrazione: modifiche in vista al decreto Agosto o almeno è quello che chiedono i Consulenti del Lavoro con le proposte presentate in occasione dell’audizione presso la V Commissione Programmazione Economica e Bilancio del Senato del 31 agosto.
Cassa integrazione: le proposte di modifca alla misura cardine del decreto Agosto in vigore dal 15 agosto arrivano dal Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro in occasione dell’audizione presso la V Commissione Programmazione Economica e Bilancio del Senato.
Non è la prima volta che i Consulenti del Lavoro si esprimono sulla cassa integrazione per l’emergenza COVID-19 e in più di un’occasione hanno messo in evidenza le criticità dell’ammortizzatore sociale, fin dal decreto Cura Italia.
Nella giornata del 31 agosto il Consiglio dell’Ordine ha avanzato alcune indicazioni fondamentali sulla cassa integrazione come è stata concepita nel decreto Agosto e che dovrebbe quindi essere modificata in vista della conversione in legge dello stesso entro il mese di ottobre.
La nuova cassa integrazione del decreto n.104/2020 prevede un proroga di 9 settimane più ulteriori 9 fino al 31 dicembre.
Queste si vanno ad aggiungere alle prime 18 settimane introdotte dal decreto Cura Italia e dal dl Rilancio per l’emergenza. Vediamo nel dettaglio quali sono le proposte di modifica dei Consulenti del Lavoro sulla cassa integrazione del decreto Agosto.
Cassa integrazione: le criticità del decreto Agosto
Per la cassa integrazione è necessario apportare delle modifiche al decreto Agosto che conterrebbe delle criticità secondo i Consulenti del Lavoro.
Il Consiglio Nazionale dell’Ordine alla Commissione del Senato del 31 agosto si è soffermato in prima battuta sulla proroga della cassa integrazione prevista dal decreto n.104/2020, di Agosto, per ulteriori 18 settimane dal 13 luglio al 31 dicembre 2020. Questa a detta degli esperti “per effetto del meccanismo di computo automatico” escluderebbe le aziende che non hanno richiesto tutte le settimane dell’ammortizzatore sociale previste dalle precedenti disposizioni.
Altro elemento cui si sofferma il CNO è il contributo addizionale previsto per quelle aziende che non possono dimostrare una riduzione del fatturato pari o superiore al 20% e che non abbiano avviato l’attività d’impresa successivamente al primo gennaio 2019.
Il contributo addizionale, del 9% per i datori di lavoro che hanno avuto una riduzione del fatturato al di sotto del 20% e del 18% per coloro che non hanno avuto riduzione alcuna, viene ritenuto ingente rispetto a quanto previsto dalla disciplina ordinaria.
Altro punto in merito alla cassa integrazione del decreto Agosto su cui si concentrano i Consulenti del Lavoro è l’esonero contributivo di quattro mesi per quelle aziende che richiedono l’ammortizzatore.
Il decreto all’articolo 3 prevede infatti che possano ottenere l’esonero dei contributi fino al 31 dicembre nei limiti del doppio delle ore di integrazione salariale già fruite nei predetti mesi di maggio e giugno 2020, con esclusione dei premi e contributi dovuti all’INAIL, riparametrato e applicato su base mensile.
Questo limite viene considerato penalizzante per alcune aziende e pertanto i Consulenti del Lavoro chiedono che vengano presi in considerazione anche i anche i periodi autorizzati antecedentemente all’entrata in vigore del decreto n.104/ 2020 e collocati nei mesi di luglio e agosto.
Il Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro, come si legge nel documento presentato in audizione, propone modifiche anche ad altre misure legate alla cassa integrazione.
Più che modifiche richiede chiarimenti a scanso di equivoci sull’articolo 14 che disciplina il blocco dei licenziamenti per il periodo di fruizione della cassa integrazione che scade il 31 dicembre 2020.
Mentre il limite temporale previsto dal decreto Rilancio era univoco per tutti, il 17 agosto, ora la data sembra essere mobile e richiede uno sforzo di calcolo nella sua applicazione non di poco conto.
Secondo il CNO in fase di conversione del decreto Agosto è necessario fare chiarezza e a scanso di equivoci modificare i commi 2 e 3 dell’articolo 3 del decreto Agosto. I Consulenti ravvisano una poca chiarezza nella sintassi adottata dal legislatore nel concepire la norma.
In audizione al Senato, gli altri suggerimenti presenti nel documento riguardano:
- una disciplina transitoria di raccordo in tema di deroghe dei contratti a termine, a seguito dell’introduzione dell’articolo 8 che ha modificato l’articolo 93 del decreto Rilancio;
- una specifica nella formulazione dell’articolo 22 dedicato al Fondo per la formazione personale delle casalinghe che fra i requisiti per l’accesso richiama l’iscrizione all’assicurazione sociale presso l’INPS (art. 7 della L. n. 493/1999) senza però precisare la data di iscrizione o una anzianità minima pregressa;
- nuovi chiarimenti sulla platea dei lavoratori fragili tutelati dal decreto Agosto che potranno accedere al rimborso degli oneri di integrazione delle indennità di malattia a carico dello Stato e che non hanno ancora ricevuto istruzioni sulle modalità di recupero da parte dell’INPS.
FONTE: https://www.money.it/cassa-integrazione-modifiche-in-vista-decreto-agosto-proposte
“E ora dovete tagliare le pensioni!” Recovery Fund, arriva subito il conto da pagare
27 LUGLIO 2020
L’Unione europea è una gabbia dalla quale dobbiamo liberarci. Il recovery Fund sarà lo strumento di ricatto che la signora matrigna utilizzerà per imporci nuove controriforme dal carattere neoliberista.
Tra le cose che il nostro Governo ha deciso di mettere in vendita, vi è il nostro sistema pensionistico. L’accettazione del meccanismo di aiuti “determinerà il taglio alle pensioni”.
L’obiettivo sarà quello di ridurre la spesa e i pensionamenti anticipati. Come riferito da Il Sole 24 ore, la Commissione europea non ha utilizzato mezzi termini, il messaggio è chiaro, l’Italia deve “abbandonare subito Quota 100 e tornare rapidamente a muoversi lungo il solco tracciato dalla riforma Fornero.”
La questione verrà ripresa in Italia martedì prossimo durante la convocazione tra sindacati e la commissione tecnica voluta da Nunzia Catalfo, ministra del lavoro e delle politiche sociali.
Se il governo italiano vorrà mantenere fluido il flusso dei fondi, dovrà seguire le imposizioni dei Paesi frugali (Paesi Bassi, Austria, Danimarca e Svezia). In qualsiasi momento “uno o più Paesi degli Stati membri, nel caso in cui valutassero il mancato rispetto di importanti obiettivi, possono chiedere al Presidente del Consiglio europeo di rimettere la discussione sul punto o sui punti controversi. Il procedimento può durare fino a tre mesi. Nel frattempo ogni pagamento verrà bloccato in attesa della decisione del Consiglio”.
L’Italia sarà sotto stretto controllo dell’Europa. Quella delle pensioni è una tra le diverse controriforme indicate dall’euro-gabbia. A rischio l’intero comparto previdenziale. Ancora una volta i cittadini italiani pagheranno con i tagli (a sanità, salari, diritti dei lavoratori e sussidi per disoccupati e persone disabili) l’appartenenza alla Ue.
“Secondo uno studio commissionato da un eurodeputato della Linke tedesca, Martin Schirdewan, tra il 2014 e 2018, sono state rivolte agli Stati Ue 105 raccomandazioni per l’incremento dell’età pensionistica e la riduzione della spesa pensionistica, 63 raccomandazioni per i tagli alla spesa sanitaria o per la privatizzazione della sanità, 50 raccomandazioni per la soppressione di aumenti salariali, 38 raccomandazioni per la riduzione della sicurezza del lavoro e dei diritti di contrattazione dei lavoratori, e 45 raccomandazioni per la riduzione dei sussidi a disoccupati e persone disabili”.
Cos’altro dobbiamo sopportare in nome di questa Unione mai esistita? È tempo di riprenderci la nostra sovranità e riportare l’Italia ad essere brillante protagonista.
Gianluigi Paragone ha fondato un partito per l’uscita dalla UE: No Europa per l’Italia – Italexit
FONTE: https://www.ilparagone.it/attualita/e-ora-dovete-tagliare-le-pensioni-recovery-fund-arriva-subito-il-conto-da-pagare/
PANORAMA INTERNAZIONALE
Coronavirus. Berlino, proteste no-mask: 300 arresti
Sono state circa 38.000 le persone scese in strada in città per una manifestazione che si è svolta per lo più in modo pacifico
30 AGOSTO 2020
La crisi turca e il crollo della Erdoganomics
Dietro alla guerra energetica nel Mediterraneo si nasconde il disastro economico al quale Erdogan ha condotto la Turchia
Il Trattato di Sèvres del 1920, di cui si celebrano in questi giorni i cento anni, rappresenta ancora oggi un vero trauma nell’immaginario collettivo del popolo turco. Un impero al collasso economico, sconfitto nella Grande guerra, fu spartito dalle potenze europee e notevolmente ridotto nelle sue dimensioni territoriali. Al tempo, la reazione a queste imposizioni scatenò una vera e propria guerra per l’indipendenza e grazie a Mustafa Kemal Atatürk, comandante militare e politico, tra il 1920 e il 1923, non senza violenze sulle popolazioni civili, la Turchia liberò dalla presenza straniera l’intera penisola anatolica, arrivando a riconquistare anche un lembo dei suo antichi territori europei, la Tracia. Con il Trattato di Losanna del 1923, le potenze europee accettavano questo riassetto territoriale e riconoscevano la repubblica turca, sorta dalle ceneri dell’Impero ottomano. A poco meno di cento anni dalla sua nascita, la Turchia è oggi attraversata da una profonda crisi, guidata in modo sempre più instabile da Recep Tayyip Erdoğan, le cui scelte di politica estera, militare ed economica appaiono quanto mai incerte e pericolose. A cento anni dal Trattato di Sèvres, oggi come allora la crisi economica spinge l’Impero ottomano al collasso. Ma Erdoğan non è Atatürk e rischia di non superare la crisi. Lo scontro con la Grecia per lo sfruttamento dei fondali del Mediterraneo orientale serve come arma di distrazione di massa.
LA GUERRA ENERGETICA NEL MEDITERRANEO ORIENTALE
Alle varie azioni intraprese su molteplici scenari – dalla Siria alla Libia all’Azerbaijan – e alle numerose interlocuzioni avviate negli ultimi mesi con molti attori geopolitici, la Turchia negli ultimi giorni ha aggiunto una vera e propria guerra con finalità di controllo sulle fonti energetiche nel Mediterraneo orientale. Non da oggi, infatti, per tutelare i propri interessi energetici e aumentare il raggio di azione delle esplorazioni nel Mediterraneo, la Turchia dichiara che la sua sfera d’influenza sui mari da cui è bagnata non sia limitata solo alle aree limitrofe alle coste e contesta i confini marittimi che le sono assegnati dagli accordi internazionali; per questo motivo la Turchia non ha firmato la Convenzione internazionale dell’ONU, UNCLOS del 1982, sul mare e più recentemente Ankara ha rivendicato il diritto ad estendere le acque di propria competenza nel Mediterraneo, fino a ratificare un accordo in tal senso con la Libia lo scorso novembre, smentendo quanto concordato precedentemente in tema di confini marittimi tra Grecia, Egitto e Cipro, con l’appoggio di Francia e Italia. La cancelliera Merkel, anche nella sua veste di Presidente di turno del Consiglio Europeo, aveva promosso una mediazione tra Grecia e Turchia ma alla soglia della firma di una dichiarazione congiunta tra i governi dei due paesi, che doveva segnare l’avvio delle trattative, il governo greco ha invece annunciato di aver raggiunto un accordo con Il Cairo sulla reciproca delimitazione della acque territoriali. Ankara ha giudicato questo un atto ostile, contrario alla ricerca di una soluzione diplomatica, e, scortata per mare e per cielo, ha inviato una nave per avviare delle prospezioni nelle acque contestate con la Grecia. Nel frattempo, qualche giorno fa, è stato tracciato il volo di un drone armato dell’esercito turco intorno all’isola greca di Rodi, come azione aggressiva finalizzata a costringere a negoziare gli attori coinvolti.
I TENTATIVI DI CONCILIAZIONE E LA POSIZIONE DELLA FRANCIA
Alle azioni intraprese sul campo, però, secondo uno schema che gli è proprio, Erdoğan ha accompagnato parole più concilianti: “Uniamoci a tutti i paesi del Mediterraneo e troviamo una formula che sia accettabile per tutti” ha dichiarato e il Ministro della Difesa turco Hulusi Akar ha aggiunto: “La Turchia vuole risolvere i suoi problemi con la Grecia nel dialogo del Mediterraneo orientale. Siamo a favore del diritto internazionale e delle ragioni di un buon vicinato”. Questa volta, però, all’attitudine conciliante della cancelliera Merkel ha fatto eco una posizione molto dura della Francia, che annovera ormai una sfida continua con la Turchia su quasi tutte le questioni aperte del Mediterraneo alla Siria e alla Libia (passando per la visita del Presidente Macron a Beirut che ha suscitato l’irritazione di Ankara). Macron ha infatti dichiarato: “Ho deciso di rafforzare temporaneamente la presenza militare francese nel Mediterraneo orientale. Lo farò nei prossimi giorni in collaborazione con i partner europei, compresa la Grecia. La situazione nel Mediterraneo orientale è allarmante. Il passo unilaterale della Turchia sull’esplorazione petrolifera provoca tensioni, ma queste devono terminare per consentire un dialogo pacifico tra i vicini e tra gli alleati all’interno della NATO“. Per capire come si collocano questi recenti sviluppi nel quadro della politica di Erdoğan, ne abbiamo parlato con Gaetano Sabatini, Direttore dell’ISEM – CNR, Istituto di Storia dell’Europa Mediterranea, e Professore ordinario di Storia economica presso l’Università degli Studi Roma Tre, dove ha insegnato anche Geopolitica economica.
DIETRO LO SCONTRO CON LA GRECIA L’OMBRA DELLA CRISI TURCA
Professor Sabatini, può spiegare a Policy Maker cosa c’è dietro le azioni provocatorie che Ankara sta conducendo nel Mediterraneo orientale?
Gaetano Sabatini: Dietro vi è, indubbiamente, la gravissima crisi economica della Turchia che Erdoğan sta disperatamente cercando di coprire. Sulla Turchia sta per abbattersi una tempesta finanziaria, che potrebbe risultare fatale e alla quale Erdoğan rischia di non sopravvivere politicamente. Solo un cospicuo prestito internazionale potrebbe salvare la Turchia dal collasso, ma al contrario il presidente turco prova a distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dalle questioni economiche accendendo il nazionalismo con azioni in patria e nel Mediterraneo. La riconversione di Santa Sofia in moschea e le provocazioni militari nei confronti della Grecia in materia di esplorazioni energetiche possono essere lette in quest’ottica. Contemporaneamente però Ankara cerca un accordo internazionale per dare ossigeno alle casse turche, rivolgendosi come sempre a Stati Uniti, Fmi, Ue e agli altri partner internazionali.
Ma la Turchia avrà maggiori possibilità di trovare prestiti all’estero per salvare la sua economia con o senza Erdoğan?
GS: Certamente senza! Immaginiamo una Turchia senza le leggi liberticide di Erdoğan, con un quadro politico interno ed esterno più stabile e meno polarizzato (si pensi solo alla questione curda), questa potrebbe essere in grado di ottenere con più successo un prestito internazionale. Questo lo pensano ormai anche molti turchi dei ceti medi, che in passato lo hanno sostenuto, e per questo Erdoğan potrebbe avere le ore contate. Naturalmente Erdoğan cercherà di impedire con ogni mezzo questo scenario e lo sta già facendo appunto con le azioni nazionaliste in patria e nel Mediterraneo, ma si tratta di gesti disperati, di corto respiro. Non è difficile pensare che non sarà lui a negoziare il prestito. I principali centri di potere turchi lo manderanno a casa per negoziare meglio; una importante conferma in tal senso viene dalla frammentazione del partito di Erdoğan, l’AKP, in varie forze politiche.
IL PUNTO DEBOLE DI ERDOĞAN E L’ECONOMIA TURCA
Tutta l’aggressività di cui ha dato prova la politica estera di Erdoğan degli ultimi anni, in una prospettiva che è stata – da lui per primo – chiaramente etichettata come neo-ottomana, è stata anche un modo per nascondere la crisi economica strisciante del paese, mentre continuava ad erodersi il suo consenso interno e, per converso, si accresceva grandemente il ricorso a leggi liberticide e all’islamizzazione della società turca.
GS: Sì, è così, e c’è da dubitare che la maggioranza dei turchi segua ancora l’AKP. Il ceto medio basso, più osservante dei precetti dell’Islam e quindi più sensibile ai richiami di Erdoğan, è anche la parte della popolazione maggiormente esposto alla crisi e questo potrà renderla meno convinta nel sostegno al presidente.
Ma quali sono i punti più deboli di Erdoğan?
GS: Il punto debole di Erdoğan e dell’Erdoğanomics è il terribile squilibrio della bilancia commerciale turca, non più compensato dai flussi di capitali in entrata, frenati dal Covid-19, dal blocco delle attività e dal crollo del turismo. Gli ultimi dati sulla bilancia commerciale turca sono emblematici e prospettano il disastro: meno 3 miliardi di dollari per il mese di luglio, lo stesso trend degli ultimi mesi a partire da maggio. La Turchia deve sfamare quasi 85 milioni di abitanti ma non essendo mai stato un paese autosufficiente dal punto di vista alimentare, ha bisogno di importare beni di prima necessità e generi alimentari. Nonostante il miglioramento nelle tecniche di produzione in campo agricolo, la Turchia resta fortemente dipendente dall’estero per il suo approvvigionamento. La Turchia d’altro canto è un paese esportatore di alcuni generi alimentari e soprattutto dopo le sanzioni di Stati Uniti e Ue alla Russia, a seguito dell’invasione e annessione della Crimea, ha rafforzato i legami con Mosca, diventandone un importante fornitore di prodotti, in particolare di frutta e verdura.
E il commercio con l’Ue?
GS: I rapporti commerciali Turchia-Ue sono regolati dalle tariffe preferenziali accordate ai paesi associati dall’Unione, ma non sono assolutamente sufficienti ad alleviare la crisi della bilancia commerciale turca giacché i beni che la Turchia potrebbe esportare nel mercato comunitario sono tra quelli che l’Ue già produce in eccesso, con la parziale eccezione della frutta secca e dell’olio, che viene utilizzato per essere miscelato con altri oli alimentari di produzione Ue. In definitiva, solo un ingente prestito internazionale potrebbe riequilibrare gli effetti del deficit commerciale e frenare la terribile svalutazione che la lira turca sta vivendo.
Ma non ci sono altre fonti di capitali provenienti dall’estero?
GS: Ci sono, ma hanno anch’esse registrato una forte contrazione: gli investimenti stranieri a causa della instabilità interna e le rimesse degli emigranti a causa degli effetti della pandemia di questi ultimi mesi. Per lo stesso motivo è crollato anche il turismo, che tuttavia era in difficoltà già prima del Covid-19, a causa delle tensioni internazionali e della deriva autoritaria del presidente, che aveva soprattutto raffreddato il turismo europeo. In un primo momento questa caduta era stata compensata dai flussi provenienti dalla Russia e più in generale dall’Europa orientale, ora però anche quel turismo è bloccato a causa della pandemia.
COME USCIRE DALLA CRISI?
Come si può immaginare, dunque, che la Turchia possa uscire da questa crisi?
GS: Innanzitutto intervenendo sulla politica monetaria: nonostante gli sforzi della Banca Centrale Turca, che ha per questo bruciato una parte importante delle sue riserve, la lira turca si è deprezzata sempre di più, anche perché Erdoğan si oppone caparbiamente all’adozione di qualsiasi misura di politica monetaria restrittiva. La fase di caduta generalizzata della domanda sui mercati internazionali, peraltro, priva la Turchia dei benefici effetti sulle sue esportazioni che la svalutazione della lira in altri tempi le aveva regalato, in attesa di qualche prestito internazionale che salvasse un indispensabile alleato della NATO.
Si può immaginare che anche in questo caso, alla fine, intervengano gli Stati Uniti?
GS: Il contesto internazionale è cambiato radicalmente e non sarà facile trovare alleati ben disposti nei confronti della Turchia: gli Stati Uniti non sono gli stessi del passato e con Trump si mostrano più ondivaghi che mai. Per questo Erdoğan sta mettendo in campo tutti gli strumenti di negoziazione che ha a sua disposizione per avere forme di sostegno dalla finanza internazionale. Ma il rischio di fallire è alto: Fmi e Ue non sembrano essere particolarmente solerti nel venire in soccorso del presidente e i rapporti con gli Stati Uniti sono, come detto, incerti non meno di quelli con la Russia e la Cina. Pechino, poi, che dopo il 2008 aveva elargito prestiti a profusione, per investimenti, opere pubbliche, costruzioni, etc., appare ora molto più cauta, per il timore di un’eccessiva esposizione finanziaria.
Inoltre, un altro motivo per cui Erdoğan non troverà nella Cina un alleato disposto a concedere prestiti, è la concorrenza della Turchia in Africa, che alla Cina non piace affatto. Insomma, una perfetta tempesta politico-finanziaria è dunque servita e non è facile immaginare che sarà Erdoğan a portare la Turchia fuori da essa.
FONTE: https://www.policymakermag.it/dal-mondo/la-crisi-turca-e-il-crollo-erdogan/
SCIENZE TECNOLOGIE
FONTE: https://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/Amazon-via-libera-a-licenza-per-droni-Si-punta-a-consegna-in-30-minuti-3467145d-a479-4c3a-aef6-44a61a53b4fa.html
AccessCo, tutti i dettagli sulla (futura) società della rete unica fra Tim, Cdp, Open Fiber e Fastweb
Fatti, numeri, tempi e scenari su AccessCo, l’annunciata società della rete unica nazionale da parte di Tim e Cdp (che con Enel controlla Open Fiber)
Via libera da Tim e Cassa depositi e prestiti (Cdp, controllata dal Mef) al percorso per creare una rete unica nazionale di tlc su spinta del governo, mettendo insieme l’infrastruttura del gruppo telefonico ex Telecom Italia con Open Fiber (la società di Enel e Cdp per la fibra ottica). Ecco tutti i dettagli sulla futuribile AccessCo.
CHE COSA HANNO APPROVATO I CDA DI TIM E OPEN FIBER
Ieri i consigli d’amministrazione di Tim e Cdp hanno approvato il «memorandum of understanding», la dichiarazione di intenti, per creare AccessCo, la società per la rete unica nazionale, in cui confluirà la società FiberCop costituita da Tim con Kkr e Fastweb. I consigli nomineranno ora gli advisor per stabilire il valore delle attività che verranno trasferite.
IL RUOLO DI ENEL
Comunque per il progetto di rete unica nazionale di tlc serve l’accordo con l’Enel, che ha l’altro 50% di Open Fiber (l’altro 50% è di Cdp), per portare la Cassa depositi e prestiti in maggioranza e consentire al gruppo guidato da Francesco Starace di vendere la partecipazione residua in Open Fiber, per la quale si è fatto avanti il fondo Macquarie e su cui comunque la Cdp ha diritto di prelazione. Cdp potrà ottenere l’opzione fino al 50% della quota di Kkr in FiberCop, per aggiustare i pesi nell’azionariato di AccessCo: i negoziati a riguardo sono già in corso.
IL COMUNICATO DI TIM
Il gruppo guidato da Gubitosi «deterrà almeno il 50,1% di AccessCo e attraverso un meccanismo di governance condivisa con Cdp Equity sarà garantita l’indipendenza e la terzietà della società. Sono previsti meccanismi di maggioranze qualificate e regole di controllo preventivo», ha spiegato il gruppo telefonico.
LA NOTA DI CDP
«Il progetto prevede che la società della Rete unica — ha aggiunto Cdp — sia controllata congiuntamente da parte di Cdp Equity e Tim, sia aperta al co-investimento di altri operatori e caratterizzata dall’assenza di legami di integrazione verticale rispetto ai servizi di accesso alla Rete».
COME SARA’ LA GOVERNANCE DI ACCESSCO
Tim deterrà – come detto – almeno il 50,1% della società della rete unica nazionale e attraverso un meccanismo di governance condivisa con Cdp sarà garantita l’indipendenza e la terzietà della società. Sono previsti inoltre meccanismi di maggioranze qualificate e regole di controllo preventivo. Tra i nodi da scogliere c’è la valutazione degli asset destinati a confluire in AccessCo e le relative quote di partecipazione nella società. Al lavoro ci saranno gli advisor (Rotschild e Vitale continueranno ad affiancare Tim) che avvieranno i relativi processi di due-diligence su FiberCop e Open Fiber.
I PASSI DI TIM CON FIBERCOP
Prima della fusione, è previsto che Tim conferisca in FiberCop (qui l’approfondimento di Start Magazine) un ulteriore ramo d’azienda che consiste nella rete primaria funzionale alle attività operative di FiberCop. Se l’operazione rete unica andrà in porto l’incumbent apporterà ad area comune anche quella parte della rete di accesso che va dalla centrale al cabinet.
COME SARA’ IL BOARD DI ACCESSCO
Il board di AccessCo avrebbe una composizione “proporzionale”, con il maggior numero di consiglieri (ma non la maggioranza assoluta) a Telecom, ha scritto il Sole 24 Ore: “Presidente e ad sarebbero scelti di comune accordo tra Telecom e Cdp, a Telecom spetterebbe di indicare l’ad, a Cdp il presidente. Sarebbero previsti poi meccanismi di maggioranze qualificate e controlli preventivi per assicurare un vaglio sul piano investimenti.Tabella di marcia stringente: entro fine anno valutazione degli asset con due diligence su FiberCop e Open Fiber; entro il primo trimestre 2021 la firma della fusione. L’iter autorizzativo richiederà però tempo: almeno sei mesi per l’Agcom che dovrà rifare l’analisi di mercato, e si dovrà passare anche dalle autorità Antitrust, italiana e europea”.
I TEMPI
“Ci vorrà tempo per incastrare i tasselli – ha scritto il Corriere della Sera – Per arrivare all’accordo di fusione Tim e Cdp si sono date tempo fino a marzo dell’anno prossimo”.
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FONTE: https://www.startmag.it/innovazione/accessco-tutti-i-dettagli-sulla-futura-societa-della-rete-unica-fra-tim-cdp-open-fiber-e-fastweb/
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