RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI
4 NOVEMBRE 2020
A cura di Manlio Lo Presti
Esergo
La politica è l’arte di impedire alla gente di occuparsi dei propri affari
GYLES BRANDRETH, Il libro delle citazioni politiche, Mondadori, 1996, pag. 17
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SOMMARIO
Elezioni USA: scoppiano rivolte, città barricate.
Un regime totalitario basato sulle balle: per la grande «transizione»
OMS di Tenebra
Lo sbugiardino non mi sbugiarda: peccato
Caso Feltri, Giordano censurato. Lo accusano di incauta ospitata
Inclusione forzata
Dpcm 3 novembre: le nuove misure su coprifuoco, spostamenti, trasporti e scuola
Il comunicato del Consiglio Supremo di Difesa: più soldi all’esercito
“Ce lo dissero le mosche”. Robert Fisk, nello straordinario ricordo di Alberto Negri
La penetrazione turca in Somalia
Borges alla guerra: un inedito!
Il pericoloso virus della censura
Perché l’Europa minaccia l’Italia sul Mes
LA UE E LA BCE CI VOGLIONO SOTTO RICATTO
Malvezzi: «Ci hanno tolto la Lira per riempirci di debiti»
L’economia viene prima della salute
Chi sono i nuovi azionisti di Borsa Italiana e cosa faranno
IL LATO OSCURO DELL’E-COMMERCE E I NUOVI REATI DIGITALI
“La legge sull’omotransfobia è totalitaria e discriminatoria”
Oltre 1600 migranti sbarcati a Lampedusa in 48 ore.
Lampedusa ora è fuori controllo In pochi giorni sbarcati in 1500
Clandestini: sbarchi quadruplicati nel 2020
Borghi: «Tutti i Diritti Costituzionali sono importanti, il lavoro prima di tutto»
Toti è il volto del capitale. Basta falsi moralismi
Corby e la tirannia della correttezza
La mascherina e il cane di Pavlov
Le imprese statunitensi che finanziarono Hitler
IN EVIDENZA
Elezioni USA: scoppiano rivolte, città barricate. Cosa sta succedendo
4 Novembre 2020
In attesa di scoprire chi ha vinto le elezioni USA tra Biden e Trump, cresce la tensione tra manifestazioni, scontri violenti e arresti da Washington a Los Angeles. Gli ultimi aggiornamenti.
Elezioni USA sempre più infuocate: mentre le città degli Stati Uniti si preparavano a potenziali disordini sulla scia del risultato elettorale, manifestazioni violente e scontri con la polizia sono divampati fuori dalla Casa Bianca e non solo.
L’atmosfera, già tesa, si è surriscaldata un po’ ovunque nella notte del 3 novembre: centinaia di persone hanno marciato per le strade di Los Angeles, Raleigh, Philadelphia, Portland, Seattle, Minneapolis. Gli animi si sono infiammati durante la notte elettorale anche dopo le dichiarazioni di Trump, che ha aggiunto benzina sul fuoco dicendo che le elezioni potrebbero essere truccate.
Le elezioni USA non hanno ancora un vincitore e i voti di diversi Stati chiave sono ancora da contare. Il risultato ufficiale potrebbe arrivare nei prossimi giorni.
Elezioni USA, proteste anti-Trump in vista del risultato
Non è chiaro se il commento di Trump abbia provocato l’escalation di proteste. Nei giorni scorsi i negozi e le aziende di tutto il Paese hanno chiuso per prepararsi ai potenziali disordini legati alle elezioni; le università hanno mandato email agli studenti invitandoli a restare a casa.
Da costa a costa l’ansia per le elezioni era alle stelle da giorni, e non sorprende considerando il 2020 turbolento.
A scendere in piazza, i sostenitori del movimento Black Lives Matter, naturalmente anti-Trump: i manifestanti si sono radunati a Seattle, Washington DC e nelle altre grandi città la notte del 3 novembre, chiedendo la rimozione di Donald dalla Casa Bianca.
A Philadelphia, teatro di scontri per l’uccisione di Walter Wallace Jr da parte della polizia, diverse organizzazioni progressiste stanno pianificando azioni di massa in caso di intimidazione degli elettori o annullamento del voto per corrispondenza.
Gli organizzatori di ShutDownDC pianificano azioni più aggressive nei prossimi giorni a seconda dell’esito delle elezioni, ad esempio se Trump dovesse vincere o mettere in discussione il risultato.
Il tycoon ha detto che potrebbe intraprendere un’azione legale se riterrà che le elezioni del 3 novembre siano state truccate, specialmente nello stato chiave della Pennsylvania, dove i voti per posta non sono ancora stati contati.
In caso di vittoria del repubblicano si teme quindi che le proteste si faranno più violente.
FONTE: https://www.money.it/Elezioni-USA-rivolte-contro-Trump-risultato-risultato-truccato
Un regime totalitario basato sulle balle: per la grande «transizione»
Prendiamo innanzitutto i tamponi. Ce lo hanno detto in tutti i modi che la curva dei “contagi” basata sui tamponi è fallace, e lo è perché, come dice il bugiardino, produce falsi positivi e risultati incrociati con altri patogeni.
Che dia risultati incrociati con altri patogeni, è scritto nero su bianco nelle avvertenze del reagente, il quale specifica che il tampone è semplice strumento di ricerca clinica e NON strumento diagnostico, come lo sarebbe invece l’analisi sierologica e la sintomatologia clinica. Del fatto che i tamponi PCR non riescano a distinguere il covid dalla semplice influenza A o B e il semplice raffreddore da adenovirus, ce ne parla la ricerca di un tampone per distinguerli, ad esempio da parte dello Spallanzani:
Tant’è che dell’inaffidabilità dei tamponi PCR ne parlò anche un articolo del New York Times ad agosto (cfr. https://www.nytimes.com/2020/08/29/health/coronavirus-testing.html) che aveva riferito come una serie di scienziati avessero messo in evidenza che l’amplificazione dei cicli del test, rileva pure ombre di un frammento di un virus, che non vuole dire niente.
E infatti sta circolando una denuncia, da scaricare e presentare, nella speranza che qualche procura se ne occupi, e che diventi una class action, che sottolinea tra le altre cose una dichiarazione congiunta del Dott. Fabio Franchi Medico, infettivologo Esperto di virologia, della dott.ssa Antonietta Gatti Scienziata Esperta di nanopatologie, del dott. Stefano Montanari, Farmacista Ricercatore scientifico e nanopatologo, e del Prof. Stefano Scoglio, Ricercatore Scientifico, Candidato Premio Nobel per la Medicina 2018 sull’inaffidabilità dei tamponi e della loro inattendibilità nella decisione di quarantene o lockdown vari. Essa comprende anche uno studio del Prof Scoglio, certificato dall’Istituto sanitario di Sanità, in cui si conclude che i tamponi producono fino al 95% dei falsi positivi. I dettagli della denuncia si trovano presso questo studio legale Denuncia querela.
Ci continuano a terrorizzare pertanto per un aumento dei positivi, utilizzando il tasso RT, cioè di contagiosità, come unico criterio per acuire le restrizioni mentre i contagiati NON sono malati.
Infatti per ammissione dello stesso premier Conte testé alla Camera, il 95% dei “positivi” sono asintomatici e/o paucisintomatici, possono tranquillamente curarsi a casa, mentre ci si limita a segregarli in casa, ai domiciliari. Se estrapoliamo il dato del tasso di contagio sui tamponati, significa che il tasso di positivi tra i testati è del 14%, pertanto significa che saremmo oggi su 60.244.639 quasi 8 milioni e mezzo di positivi, e questo dato rimetterebbe in prospettiva tutti gli altri dati, facendo crollare la mortalità allo 0% diario, allo 0.06% annuo!
Si, ma dice, le terapie intensive (ieri erano 1939 in totale) stanno aumentando e anche i decessi (ieri 208) come i ricoveri.
Punto primo, bisogna vedere come vengono rilevati i decessi e ricoveri intensivi Covid. Cioè, si rimanda al punto sopra. Nel senso che vogliamo conoscere la percentuale di persone con numerose malattie pregresse, o già ricoverate in ospedale, che si prendono una polmonite scambiata per Covid con il tampone, così come gli anni scorsi si prendevano il clostridium difficile. A dimostrazione del fatto che lo stato del sistema immunitario è tutto.
E dovrebbe insospettirci sulla catalogazione dei “malati” Covid, anche la dichiarazione di Bertolaso, che ogni paziente Covid frutta all’azienda ospedaliera 2000 euro per giorno.
La situazione dell’occupazione delle terapie intensive, al momento NON è critica, come spiegato pure da Conte, si vede che il brusio della verità gli è giunto alle orecchie talmente forte che ha pensato bene di riparare alle figuracce fatte nel passato. Ma certamente non esce con una bella figura perché vi è uno hiatus – una dissociazione – tra la premessa del suo discorso e le conclusioni (maggiori restrizioni economiche).
La situazione al 30 ottobre è questa (e Conte ha parlato di un totale di 10181 terapie intensive):
Significa che non vi è alcuna emergenza sanitaria? Nient’affatto. Le terapie intensive si sono regolarmente saturate nei periodi invernali, il sistema sanitario versa in uno stato obbrobrioso, prossimo al collasso, da anni, in quanto a numero di ospedali, molti dei quali vengono chiusi, e materiale e carenza di personale (centinaia di migliaia di medici e infermieri mancano). L’emergenza sanitaria vi è tutta, poiché per la scusa del Covid vengono rimandate operazioni indifferibili (700 000 operazioni essenziali secondo il Dott. Poltrone), e si moltiplicano i casi di decessi in pronto soccorso (ictus, infarti o incidenti) di persone non assistite tempestivamente perché devono aspettare l’esito del tampone. Vorremmo avere una quantificazione di questi casi non assistiti per misurare il grado di crimine contro l’umanità che si sta consumando sotto i nostri occhi.
VIDEO DA FACEBOOK
Crimine contro l’umanità che si sta perpetrando nell’impossibilità di visitare i parenti in ospedali, gli anziani nelle RSA e i moribondi negli hospice. Una barbarie inammissibile che tra l’altro mette al riparo da occhi indiscreti e amorevoli, quello che succede negli ospedali: quali protocolli vengono applicati?
La clorochina che aveva permesso al Dott Raoult di azzerare la curva dei decessi in quel di Marsiglia è stata vietata in Francia – e lui sta facendo ricorso – resa indisponibile, e anche sconsigliata in Italia. Di plasmaferesi che è una pratica che funziona, come sappiamo, e collaudata oltre che gratuita, non se ne parla più. Solo rimane il Remdesivir della Gilead, poiché l’UE ha comprato grosse quantità da smaltire solo che secondo lo stesso Dott Raoult è tossico per i reni e inefficace. Gli ospedali, da quanto mi dicono, non possono più curare in scienza e coscienza ma solo secondo protocolli calati dalle case farmaceutiche e OMS. Pure una influenza in un anziano, curata secondo un protocollo Covid, può diventare doppiamente letale, soprattutto se si è vaccinato contro l’influenza (come dimostrato in questa raccolta di studi scientifici https://childrenshealthdefense.org/news/vaccine-misinformation-flu-shots-equal-health/).
Tanto più che al personale medico viene fatto divieto dalle Asl di fornire dati e informazioni all’esterno:
E per i decessi, idem di quanto sopra, il vero dato è il raffronto tra i decessi alla stessa epoca l’anno scorso con quelli di oggi. Questo dato l’ISTAT non lo ha ancora ma possiamo fare questo raffronto per la prima parte dell’anno 2020 fino ad agosto con l’anno precedente, come spiegato da Fabio Duranti in Radio Radio.
VIDEO QUI: https://youtu.be/kvfsY_-7P1c
Le curve dei decessi sono sovrapponibili a Roma e a Napoli, ma non a Bergamo, dove sono sovrapponibili in tutti i mesi tranne il picco di mortalità al mese di marzo, poi rientrato nella norma ad aprile.
Anzi per lo stesso periodo gennaio-agosto 2020 rispetto al 2019, in città come Roma e Napoli si sono registrati meno decessi:
A Bergamo invece c’è stato un picco di decessi per tutto il mese di marzo, poi rientrato ad aprile che ha fatto aumentare il totale di decessi per il 2020:
Su una media di 1700/2000 decessi al giorno quanti sono normalmente dovuti all’influenza? Vi è una reale variazione del numero di decessi totali? E’ solo esaminando le cause e le percentuali di decessi allo stesso periodo dell’anno scorso che si potrà capire. Soprattutto sorprende il dato che l’influenza sembra sia sparita completamente al momento, perché, forse appunto, si confonde influenza e covid?
Quindi tutto questo non certo per sottovalutare la situazione, sempre e costantemente critica del sistema sanitario oggi peggiorata dai “protocolli Covid” che trascurano qualsiasi altro problema ma per evidenziare che le reazioni delle misure previste nei dpcm sono non solo del tutto spropositate, ma una vera e propria deriva dittatoriale e antidemocratica. I dati sopra, e anche quelli snocciolati da Conte, sono tali da giustificare quarantene di prossimamente milioni di cittadini, di chiusure di attività, di messa in ginocchio dei lavoratori indipendenti, dei commerci, del turismo, della ristorazione e di tutti gli altri?
Sono tali da giustificare un fermo economico generale, che ci vedrà prossimamente morti?
I dati sopra non giustificano la messa in ginocchio di questo paese, a meno che Conte non ci nasconda qualcosa che oramai è evidente a chi si è svegliato: lui sta eseguendo il programma del Fondo monetario internazionale – del resto secreta persino i verbali del comitato tecnico e scientifico alcuni dei quali non ha mai desecretato – che a noi al momento sfugge ma che deve avere a che vedere con il commissariamento dell’Italia e il suo inserimento in quel programma di cancellazione del debito pubblico in cambio di una bella raccolta patrimoniale a vantaggio dei soliti grandi creditori per cui FMI + WEF lavorano alacremente. Cioè il nostro patrimonio. Il grande Reset.
Del resto è tollerabile che mentre ci impone per legge la nostra morte economica, il governo spenda 20 milioni di euro ogni due mesi per l’accoglienza di clandestini nelle navi da crociera per la quarantena e tutto il resto?
Lui sta lavorando per la grande “transizione” come ha detto – voluta dalla mafia del mondo – peccato che non ne abbia parlato con il popolo e neanche con il parlamento, che nessuno abbia spiegato in cosa consiste questa transizione fatta non solo sulle nostre teste, ma sulla nostra pelle, il nostro sangue, il nostro “sacrificio”, parola di cui vanno pazzi. Dobbiamo accontentarci di una digitalizzazione che ci ha svenduto ai negrieri fintech moderni, tipo MSN e il suo marchio della bestia, e “green” che significa produrre meno e andare in bicicletta, per chi scamperà alle grandi vaccinazioni/massacri di massa con tanto di internamento per i dissidenti.
Un progetto criminale, mortifero, faustiano, che uccide l’Italia nel suo saper fare le cose belle e buone, come culla di umanità e di cultura, per trasformarci in schiavi digitali a casa, spiati dai sensori, ricattati, stiamo vivendo il nostro annientamento totale.
Nforcheri 02/11/2020
FONTE: https://scenarieconomici.it/un-regime-totalitario-basato-sulle-balle-per-la-grande-transizione/
OMS di Tenebra
Lo sbugiardino non mi sbugiarda: peccato
Ho letto con interesse l’articolo di bufale.net sul mio articolo Fughe dal Canada. Speravo che mi sbugiardasse. Purtroppo, ho solo letto una replica d’obbligo, stra-scontata, per confermare la narrativa ufficiale del ministro e delle autorità dell’Ontario, provincia del Canada, impiegata dal Premier dell’Ontario per rispondere al deputato che sollevava, alla Camera, dubbi e interrogazioni sulla costruzione di campi di detenzione per “tutta una serie di persone”, non solo per i malati Covid.
La narrativa sottolineata è naturalmente che tali campi sono costruiti unicamente per ospitare le persone positive che su base volontaria volessero porsi “in autoisolamento”. Lo sbugiardino mi deve spiegare come fa ad essere volontaria una quarantena obbligatoria, per via di un tampone positivo.
Ma poco importa. Questo è il meno.
L’autore mi è sembrato stanco, svogliato. Al punto che non ha capito che vi erano fondamentalmente due notizie nel mio articolo, con due fonti diverse. Ma lui si è concentrato solo sulla notizia del deputato, dalla fonte incontrovertibile, che è la ripresa diretta dell’intervento stesso del deputato alla Camera: una fonte diretta, inoppugnabile. Eppure mi attribuisce di avere utilizzato una fonte poco attendibile, “una fonte che non è una fonte”: The Canadian Report, perché, semplicemente, non è una testata giornalistica. Però io non ho utilizzato quella fonte per la notizia dell’interrogazione del deputato, bensì per l’altra notizia, o fuga di notizie, che lui ha completamente ignorato.
La fuga di notizie proviene da una fonte anonima, un deputato liberale, che aveva partecipato a una riunione del CTS canadese presso il Gabinetto del Premier e che aveva riferito, in una mail, il contenuto segreto di tale riunione: la tabella di marcia per la pantomima del Covid, con la previsione tra le altre di una mutazione artificiale del virus da Covid 19 a Covid 21 a febbraio e l’interruzione apposita delle catene di produzione, oltre che 3 lockdown da novembre fino a luglio del 2021, per poi imporre la vaccinazione obbligatoria, la detenzione nei campi e l’identità digitale con tanto di moneta digitale e di confisca delle proprietà. Un contenuto scioccante. Ma da prendere con le pinze, visto che la fonte era rimasta anonima, e l’appoggio documentale era una semplice mail ripresa dal Canadian Report, di cui si può solo presupporre, senza certezza, che sia stata autentica e ripresa nella sua integralità.
Eppure, di questa seconda notizia dal contenuto angosciante, niente è stato detto dallo sbugiardino che non ha neanche preso la briga di parlarne, semplicemente IGNORANDO la notizia, con mio grande e angosciante rammarico. Mi avesse sbugiardato ! Lo invito a farlo, volentieri!, per il bene dell’umanità.
Però, poche ore dopo avere scritto l’articolo, ho ritrovato quest’altra notizia dalla Nuova Zelanda, l’esistenza di campi di quarantena in cui detenere OBBLIGATORIAMENTE chi rifiuta i tamponi!
Una prospettiva che si avvicina pericolosamente allo scenario descritto dalla fonte anonima, ripeto, da prendere con le pinze, fino a prova contraria. E comunque, vedo che nessuno si è preso la briga neanche di sbugiardare Mons. Viganò, il quale nella sua missiva a Trump, parla degli stessi scenari: confido che il Monsignore abbia fonti altrimenti più attendibili delle mie che sono solo un piccolo segugio sul pezzo.
Amen.
Nforcheri 03/11/2020
FONTE: https://scenarieconomici.it/lo-sbugiardino-non-mi-sbugiarda-peccato/
Caso Feltri, Giordano censurato. Lo accusano di incauta ospitata
Giordano racconta il procedimento disciplinare iniziato dall’Ordine dei giornalisti per l’ospitata di Feltri a Fuori dal coro dello scorso aprile
Mario Giordano ora attacca per difendersi, per proteggere il suo lavoro e la sua libertà di espressione. Nell’articolo pubblicato oggi sul quotidiano La Verità svela di essere soggetto a un procedimento disciplinare da parte del Consiglio di disciplina dell’Ordine dei giornalisti per l’ormai nota ospitata di Vittorio Feltri nel programma Fuori dal coro, che Giordano conduce su Rete4.
Il conduttore ed ex direttore è stato sanzionato proprio per aver dato spazio Feltri e per non essersi adeguatamente dissociato dalle sue parole.
“L’Ordine dei giornalisti che, in teoria, dovrebbe battersi per la libertà di espressione, in ogni sua forma e modalità, scende invece in campo per dispensare censure, mettendo il bavaglio a chi esce dal sentiero del politicamente corretto“, scrive in attacco del suo pezzo Mario Giordano. Il motivo della sua rabbia, stavolta pacata e riflessiva e non prorompente come il suo stile di conduzione, lo spiega successivamente: “Il reato gravissimo che si configura, quasi una novità assoluta per il diritto internazionale, è quello di ‘incauta ospitata‘. Mentre lo scrivo rido per non piangere“. Il punto cruciale per Mario Giordano è il principio per il quale, dal suo punto di vista, l’Ordine dei giornalisti “arrivi al paradosso di censurare un iscritto (nel caso me medesimo, per l’appunto) non per un suo pensiero ma per il pensiero di un altro“. Il conduttore di Fuori dal coro non si tira indietro nella sua accusa e parla di censura, uno degli atti più gravi che possano essere compiuti nei confronti di un giornalista. Per di più, Giordano si sente censurato per aver dato la possibilità di espressione nel suo programma a un altro giornalista.
“L’Ordine dei giornalisti che censura un giornalista soltanto perché ha osato dare la parola a un altro giornalista (iscritto per anni all’Ordine dei giornalisti e direttore di molti giornalisti) è roba da chiamare subito l’ambulanza, sperando nella rapida riapertura dei manicomi“, prosegue Mario Giordano, prima di contestualizzare la nascita del provvedimento nei suoi confronti. Il fatto “incriminato” è l’ospitata di Vittorio Feltri a Fuori dal coro lo scorso aprile, quando l’Italia era spaccata in due dalle polemiche tra nord e sud. “Vittorio si è lasciato scappare la frase contestata: ‘Io non credo’, ha detto, ‘ai complessi di inferiorità, credo che i meridionali in molti casi siano inferiori’. In seguito ha spiegato che intendeva parlare della inferiorità economica, senza alcun riferimento, ovviamente, all’antropologia“, ha spiegato Mario Giordano nel suo articolo.
Una frase indubbiamente forte, che come spesso accade è stata decontestualizzata e fatta rimbalzare sui social, dove è nato il caso. Numerose le polemiche, “tanto che io stesso mi sono affrettato a chiedere scusa in tutti i modi (con video sui social e con ripetuti messaggi in tv), nel caso qualcuno si fosse sentito offeso. In un mondo normale la vicenda si sarebbe chiusa qui. Capita a chi fa il nostro mestiere che una frase non esca bene o venga male interpretata, e che susciti reazioni che non immaginavamo“. Invece, da come racconta Mario Giordano, la vicenda è proseguita “in questo clima da regimetto contro ogni voce dissenziente dal cloroformio unico (vedi legge Zan) si è pensato bene di approfittarne per dare una botta in testa a chi cerca di essere, almeno un po’, fuori dal coro“.
Mario Giordano, come giustamente un padrone di casa ha l’obbligo di fare, ha richiamato il suo ospite e se n’è dissociato: “Durante la trasmissione, quando Feltri ha pronunciato la famosa frase, io ho preso immediatamente le distanze. ‘Mi fai arrabbiare i telespettatori’, gli ho ripetuto due volte. E poi ho concluso: ‘Questo non lo puoi dire’. Però per l’Ordine dei giornalisti la frase ‘questo non lo puoi dire’ non era una dissociazione abbastanza netta per il fatto che l’ho detto ‘sorridendo’ e ‘ammiccando’. Giuro. Parole testuali della decisione di censura“. A questo punto, il conduttore di Fuori dal coro si chiede in che modo l’Ordine avrebbe voluto che lui agisse: “Ma cosa avrei dovuto fare? Più che interromperlo con un ‘questo non lo puoi dire’? Avrei dovuto sputargli in un occhio? Spaccare la telecamera? Insultarlo in diretta? Chiedere l’intervento dei caschi blu dell’Onu? Aspetto spiegazioni dalla prossima sentenza creativa“.
C’è un altro passaggio del suo procedimento che Mario Giordano vuole rendere pubblico: “Durante il ‘processo’ (un’udienza simile a quella dei tribunali del popolo) uno dei pubblici accusatori mi ha chiesto se io, prima di invitarlo, sapevo che Feltri è un ‘soggetto a rischio’. Domanda demenziale cui ho avuto il torto di rispondere con sincerità: Feltri non è un ‘soggetto a rischio’ ma esprime opinioni forti da sempre, è per questo che in tv funziona, è per questo che lo chiamiamo“. Ma da quanto racconta il conduttore di Fuori dal coro, la sua sincerità, stavolta, non ha pagato: “Ovviamente hanno usato la mia sincerità come corda per impiccarmi. Chiaro, no? Sapendo che Feltri esprime opinioni forti non dovevo invitarlo. O, almeno, impedirgli di parlare. Dal che deduco l’idea di giornalismo che sorregge l’Ordine dei giornalisti: una minestrina riscaldata in cui tutti ripetano a pappagallo le parole d’ordine del politicamente corretto. Guai a uscire dal seminato. Guai ad andare controcorrente. Guai ad avere opinioni forti“.
Mario Giordano, quindi, nel suo articolo difende Vittorio Feltri: “Feltri può piacere o no, e come ognuno di noi ha tanti pregi e pure qualche difetto. Ma accidenti: ha fondato giornali, li ha diretti con successo, ha segnato con i suoi titoli la storia del Paese e di questa professione, ha assunto e dato lavoro a centinaia di cronisti (compreso il sottoscritto). Possibile che l’Ordine dei giornalisti consideri una colpa invitarlo in tv?“. La conclusione del conduttore di Fuori dal coro è amara: “Viviamo in un brutto clima e tu ne sei stato testimone, pagandolo più volte sulla tua pelle, direttamente. Una volta non era così. Una volta eravamo più liberi di parlare, di esprimerci, anche di sbagliare e chiedere scusa, senza avere i censori che ti condannano soltanto perché usi la parola ‘zingaro’ o ‘clandestino’. O perché sostieni che per fare un figlio ci vogliono mamma e papà. O perché inviti qualcuno che non piace alla gente che piace. E mi fa orrore che l’Ordine dei giornalisti che dovrebbe tutelare la nostra libertà sia diventato invece un organo di questa orrenda censura“.
Il conduttore si dice orgoglioso di essere un giornalista e di avere nel taschino sempre con sé quel tesserino bordeaux che ne certifica la professione. Un traguardo che si raggiunge con tanta fatica e sudore e di cui ogni giornalista va fiero. Mario Giordano da diversi anni svolge lavori d’inchiesta nel suo programma, uno di quelli di punta del palinsesto di Rete4. I suoi giornalisti affrontano spesso situazioni di rischio e di pericolo, è capitato che venissero aggrediti, ma per loro il conduttore denuncia scarsa solidarietà: “In questi ultimi tempi molti dei ragazzi della mia trasmissione che vanno in giro a raccontare pezzi di realtà dimenticati da tutti sono stati aggrediti, minacciati, insultati. Mai una volta ho sentito una persona dell’Ordine spendere una parola per difenderli. Ora però scendono in campo per censurarmi per aver ospitato Feltri. E quel tesserino viene voglia di stracciarlo anche a me“.
FONTE: https://www.ilgiornale.it/news/cronache/mario-giordano-sul-caso-feltri-vengo-censurato-incauta-1900774.html
ARTE MUSICA TEATRO CINEMA
Inclusione forzata
C’erano una volta un messicano, un italiano e un tedesco. Sembra l’inizio di una classica barzelletta, ma si tratta delle nuove regole degli Academy awards: chi include di più sarà favorito rispetto a chi ha più talento. Se negli ultimi decenni il sospetto che i film con tematiche a sfondo sociale favorissero di gran lunga una nomination agli Oscar, la novità è che il sospetto è divenuto legge. Nero su bianco. E se per il Ceo Dawn Hudson e il presidente David Rubinqueste disposizioni hanno l’obiettivo di effettuare «un cambiamento epocale per il nostro settore», la domanda che sorge spontanea è: da quando gli Oscar hanno smesso di essere un premio al merito per diventare una scuola di educazione progressista?
L’obiettivo delle nuove produzioni non sarà più quello di fare bei film, ma sarà quello di fare dei bei casting. Nello specifico le nuove disposizioni prevedono (tra le altre cose) che a partire dal 2024 i film candidati all’Oscar per il miglior film dovranno rispettare tre requisiti: il film, tra i suoi protagonisti o personaggi principali, dovrà avere almeno un attore appartenente a «un gruppo etnico o razziale sottorappresentato» (asiatici, ispanici, latini, neri e afroamericani, indigeni, nativi americani, nativi dell’Alaska, mediorientali, nordafricani, nativi hawaiani o di altre isole del Pacifico o comunque appartenenti ad altre etnie sottorappresentate); oppure almeno il 30 per cento del cast (ruoli secondari) dovrà essere donna, disabile, oppure definirsi LGBTQ+. Tuttavia il 30% dovrà esser raggiunto grazie a due categorie, non solo ad una. Ad esempio un film con attori asiatici dovrà quindi avere disabili o donne o persone dichiaratesi LGBTQ+ per garantirsi l’accesso alla nomination più ambita. Una terza alternativa riguarda la trama e il suo essere in qualche modo incentrata su temi che riguardano donne, non bianchi, persone LGBTQ+ o persone con disabilità.
“Il padrino”, “II caso Spotlight”, “Il discorso del re”, “Non è un paese per vecchi”, “II gladiatore”, “A beautiful mind”, “American Beauty”, “Braveheart”, “Il paziente inglese”, “II silenzio degli innocenti”. Tutte queste pellicole e molte altre ancora non potrebbero mai vincere la statuetta con queste nuove regole e sono in molti, anche ad Hollywood, a dirsi sconcertati. Nella prassi sono già anni che quasi tutte le produzioni si attengono a queste regole che il canone ideologico hollywoodiano aveva già imposto grazie al suo soft power. Oggi essere politicamente corretti conta più di ogni qualità, conta più del merito. Cominciamo dal cinema, ma questo è solo l’inizio.
FONTE: https://www.lintellettualedissidente.it/cartucce/inclusione-forzata/
ATTUALITÁ SOCIETÀ COSTUME
Dpcm 3 novembre: le nuove misure su coprifuoco, spostamenti, trasporti e scuola
Ecco il nuovo Dpcm per mettere un freno alla diffusione del Covid. Il premier Conte ha firmato nella notte il Dpcm 3 novembre
3 Novembre 2020 – Ultimo aggiornamento 4 Novembre 2020
Ecco il nuovo Dpcm per mettere un freno alla diffusione del Covid. Il Governo ha anticipato le misure nella giornata di martedì, e dopo un lungo tira e molla con le Regioni, soprattutto sul tema del coprifuoco, è arrivata la firma del premier Conte nella notte poco dopo la mezzanotte.
Le disposizioni del nuovo decreto si applicano da giovedì 5 novembre a giovedì 3 dicembre 2020, in sostituzione di quelle del Dpcm 24 ottobre.
Lockdown “light”
L’obiettivo è non bloccare il Paese: non sarà quindi un lockdown rigido come a marzo, ma “light”, più simile al modello tedesco, ha spiegato la sottosegretaria alla Salute Sandra Zampa. “È abbastanza complicato – ha spiegato – cercare di fare una misura sartoriale basata su zone, è uno sforzo grandissimo che stiamo facendo. Il tentativo è non paralizzare il Paese”.
Il ministro della Salute Roberto Speranza, con frequenza almeno settimanale, verificherà comunque il permanere per Regioni o parti di esse la collazione in uno scenario di tipo 3 e con un livello di rischio alto, e provvederà con ordinanza all’aggiornamento.
Le ordinanze emanate sono efficaci per un periodo minimo di 15 giorni e comunque non oltre la data di efficacia del decreto. Eccole dunque le misure (per quelle relative alle attività commerciali e allo sport invece vi rimandiamo qui).
Coprifuoco
A differenza di quanto ipotizzato inizialmente, il coprifuoco nazionale non partirà alle 21 ma un’ora dopo.
Il coprifuoco scatta dalle 22.00 fino alle 5.00: in questa fascia oraria sono consentiti esclusivamente gli spostamenti motivati da comprovate esigenze lavorative, da situazioni di necessità ovvero per motivi di salute.
È in ogni caso fortemente raccomandato a tutte le persone fisiche, per tutto l’arco della giornata, di non spostarsi, con mezzi di trasporto pubblici o privati, salvo che per esigenze lavorative, di studio, per motivi di salute, per situazioni di necessità o per svolgere attività o usufruire di servizi non sospesi.
>>> Scarica qui la bozza del nuovo Dpcm <<<
Spostamenti
Nuovamente vietato ogni spostamento in entrata e in uscita dai territori ad alto rischio Covid, quelli di colore arancione e rosso, salvo che per gli spostamenti motivati da comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità ovvero per motivi di salute (qui abbiamo riassunto come viene divisa l’Italia e quali Regioni sono gialle, arancioni o rosse).
È vietato ogni spostamento con mezzi di trasporto pubblici o privati, in un comune diverso da quello di residenza, domicilio o abitazione, salvo che per comprovate esigenze lavorative, di studio, per motivi di salute, per situazioni di necessità o per svolgere attività o usufruire di servizi non sospesi e non disponibili in tale comune.
Le aree ad alto rischio sono quelle che ricadono negli scenari 3 e 4 indicati nel documento dell’Iss, quelle caratterizzate da uno scenario di elevata gravità e quelle nelle quali ci sono situazioni di massima gravità. Il divieto può però riguardare intere Regioni oppure solo parti di esse.
La differenza tra le zone che ricadono nello scenario 3 e in quelle che rientrano nel 4 sta nel fatto che in queste ultime sono vietati anche gli spostamenti “all’interno dei medesimi territori”, dunque a livello comunale e provinciale.
Sono comunque consentiti gli spostamenti strettamente necessari ad assicurare lo svolgimento della didattica in presenza nei limiti in cui la stessa è consentita. E’ comunque sempre consentito il rientro presso il proprio domicilio, abitazione o residenza.
Trasporti
La capienza dei mezzi pubblici viene ridotta al 50% per evitare assembramenti e situazioni che favorirebbero i contagi.
A bordo dei mezzi pubblici del trasporto locale e del trasporto ferroviario regionale è quindi consentito un coefficiente di riempimento non superiore alla metà, con esclusione tuttavia del “trasporto scolastico dedicato”.
Scuola
Le scuole secondarie di secondo grado, cioè le scuole superiori, e le terze medie adottano forme flessibili nell’organizzazione dell’attività didattica in modo che il 100% delle attività sia svolta tramite il ricorso alla Didattica digitale integrata.
Resta salva la possibilità di svolgere attività in presenza qualora sia richiesto l’uso di laboratori o sia necessaria in ragione della situazione di disabilità dei soggetti coinvolti e in caso di disturbi specifici di apprendimento e di altri bisogni educativi speciali, garantendo comunque il collegamento on line con gli alunni della classe che sono in Didattica digitale integrata, in modo che sia garantita una relazione educativa che realizzi l’effettiva inclusione.
L’attività didattica ed educativa per il primo ciclo di istruzione, per scuole elementari e fino alla seconda media compresa, e per i servizi educativi per l’infanzia continua invece a svolgersi in presenza, con uso obbligatorio di dispositivi di protezione delle vie respiratorie salvo che per i bambini di età inferiore ai sei anni e per i soggetti con patologie o disabilità incompatibili con l’uso della mascherina.
Solo nelle zone rosse con scenario 4 resteranno chiuse anche le classi seconde delle scuole medie, mentre le prime continueranno la didattica in presenza.
FONTE: https://quifinanza.it/info-utili/video/dpcm-3-novembre-coprifuoco-spostamenti-trasporti-scuola/429796/
BELPAESE DA SALVARE
Riportiamo il comunicato pubblicato dal Quirinale dopo il Consiglio Supremo di Difesa tenutosi martedì 27 ottobre. All’incontro hanno partecipato le più alte cariche dell’esecutivo e della difesa, oltre ovviamente al Presidente della Repubblica. Non ci sono proclami che possono far intendere direttamente un uso dell’esercito nel nostro paese, si fa solo riferimento al rischio all’emergenza sanitaria che “ha prodotto una crisi globale con conseguenze di natura sociale ed economica che rischiano di accentuare la conflittualità in diverse aree del mondo”. Cosa che comunque richiede maggiori finanziamenti all’esercito, in quanto sarebbe necessario un “processo di ammodernamento delle Forze Armate. Gli investimenti della Difesa favoriscono lo sviluppo dell’intero Sistema Paese e fungono da traino soprattutto nei settori ad elevata tecnologia”. Quindi fuori i soldi in ogni caso, e se serviranno per placare possibili futuri disordini interni, lo vedremo presto.
Quirinale.it
Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha presieduto oggi, al Palazzo del Quirinale, la riunione del Consiglio Supremo di Difesa.
Alla riunione hanno partecipato: il Presidente del Consiglio dei Ministri, Prof. Giuseppe Conte; il Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, On. Luigi Di Maio; il Ministro dell’Interno, Dott.ssa Luciana Lamorgese; il Ministro della Difesa, On. Lorenzo Guerini; il Ministro dell’Economia e delle Finanze, On.Prof. Roberto Gualtieri; il Ministro dello Sviluppo Economico, Sen. Stefano Patuanelli; il Capo di Stato Maggiore della Difesa, Gen. Enzo Vecciarelli.
Hanno altresì presenziato il Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, On. Riccardo Fraccaro; il Segretario Generale della Presidenza della Repubblica, Dott. Ugo Zampetti; il Segretario del Consiglio Supremo di Difesa, Gen. Rolando Mosca Moschini.
Il Consiglio, dopo aver espresso riconoscenza a tutte le articolazioni della Difesa, che stanno fornendo il loro prezioso contributo, con assetti sanitari, logistici e operativi, alla risposta nazionale alla pandemia da COVID-19, ha fatto un punto di situazione sulle principali aree di instabilità e sulla presenza delle Forze Armate nei diversi Teatri Operativi.
L’emergenza sanitaria ha prodotto una crisi globale con conseguenze di natura sociale ed economica che rischiano di accentuare la conflittualità in diverse aree del mondo. È indispensabile in questa fase un rilancio del multilateralismo, della solidarietà e della cooperazione in tutti i campi.
Il terrorismo transnazionale resta una minaccia, soprattutto nelle aree più fragili. La criticità dell’attuale situazione impone di non abbassare la guardia e di continuare a contribuire con decisione alle iniziative tese a contrastare il fenomeno.
L’innalzamento del livello della tensione nel Mediterraneo Orientale desta preoccupazione. Il Consiglio ha auspicato il rispetto delle convenzioni internazionali e un’azione coordinata volta a scongiurare i rischi di escalation, al fine di garantire la stabilità di un’area strategica per gli interessi nazionali.
In Libia è essenziale uno sforzo congiunto della Comunità Internazionale affinché la tregua in atto possa essere consolidata senza le ingerenze di attori terzi, permettendo una soluzione diplomatica gestita dalle Nazioni Unite che vada ad esclusivo vantaggio del popolo libico.
Il Consiglio ha espresso vicinanza al popolo libanese, duramente colpito dalla sciagura del porto di Beirut. L’Italia conferma il proprio impegno a ogni forma di collaborazione orientata a consentire una rapida risoluzione dell’emergenza e un ripristino della normalità.
In Iraq e Afghanistan si conferma il forte impegno a sostenere lo sforzo internazionale nella lotta al terrorismo. L’impiego dei contingenti nazionali dovrà avvenire con approccio condiviso e in stretto coordinamento con gli alleati.
La NATO e l’Unione Europea restano i pilastri della politica di sicurezza e difesa nazionale. L’Italia è impegnata con convinzione nel preservare e rinnovare la valenza delle due Istituzioni, fondamentali per la pace e la prosperità dei popoli. In un contesto reso più instabile dagli effetti della pandemia, la saldezza di questi Organismi costituisce un punto di riferimento per il rilancio dei Paesi membri.
Il Consiglio ha quindi analizzato il processo di ammodernamento delle Forze Armate. Gli investimenti della Difesa favoriscono lo sviluppo dell’intero Sistema Paese e fungono da traino soprattutto nei settori ad elevata tecnologia. È auspicabile coniugare la maggiore richiesta di sicurezza con le opportunità di crescita offerte dal comparto. Ciò richiede certezza nell’allocazione pluriennale delle risorse, anche per consentire una proficua sinergia con l’Industria nazionale della Difesa e dell’Aerospazio.
In tale quadro, si è infine convenuto sulla necessità di effettuare una verifica della Legge 244/2012 “Revisione dello Strumento Militare Nazionale”, al fine di individuare eventuali correttivi in relazione al mutato contesto di riferimento, e di procedere al completamento del processo di riforma della Difesa in senso unitario e interforze, in linea con i dettami della Legge 25/1997.
FONTE: https://comedonchisciotte.org/il-comunicato-del-consiglio-supremo-di-difesa-piu-soldi-allesercito/
CONFLITTI GEOPOLITICI
“Ce lo dissero le mosche”. Robert Fisk, nello straordinario ricordo di Alberto Negri
di Alberto Negri* – Il Manifesto
Ce lo dissero le mosche… Inizia così il più celebre reportage di Robert Fisk, quello sul massacro dei palestinesi a Sabra e Chatila del 1982, un ritaglio di giornale che Stefano Chiarini, con determinata gentilezza, mi mise sotto il naso qualche decennio fa per farmi capire come si fa questo mestiere. E ricordando oggi Fisk, il grande inviato dell’Independent morto il 30 ottobre di ictus a Dublino, non si può non accostarlo all’indimenticabile Steve Shrimps, compagno di scorribande mediorientali. Anche Robert ammirava Stefano per il suo coraggio e l’intelligenza e un giorno, credo, finì pure per intervistarlo. E in Iraq si incontrava spesso con Giuliana Sgrena.
Leggendo quell’attacco e quel reportage c’era dentro tutto Fisk e il suo metodo di lavoro, l’attenzione quasi spasmodica al particolare – come per ogni buon cronista – inserito nella lettura più generale degli eventi, fino a diventare quadro storico, geopolitico e, infine, anche una critica spietata al potere e alla propaganda, esercitata mettendo in fila i fatti, facendo parlare i protagonisti, quelli grandi e quelli umili, tracciando il percorso drammatico e doloroso di interi popoli. Un metodo che ha espresso brillantemente in alcuni libri come «Pity The Nation», Il martirio di una nazione, monumentale e straordinario racconto della guerra civile libanese, quasi un poema in prosa, ovviamente precisissimo nella descrizione degli eventi, sul quale si è formata una generazione intera di reporter di guerra.
Così come è un grande libro «Cronache mediorientali», dove confluiscono insieme alle sua esperienza di reporter cominciata negli anni’70 nell’Irlanda dei «Troubles», la conoscenza approfondita della storia e della lingua araba che parlava in maniera fluente. Corrispondente prima del Time e poi per l’Independent, Robert Fisk, di stanza a Beirut, aveva acquisito una chiara visione del mondo arabo e musulmano vivendo con la gente dei paesi di cui scriveva: per le strade e nelle case, in prima linea nelle trincee e nei covi dei guerriglieri. Celebri le sue interviste a Osama bin Laden e se uno avesse letto la prima che gli fece in Sudan dopo la guerra del Golfo negli anni Novanta avrebbe forse intuito qualche cosa di più su che cosa ci stava preparando il futuro.
Nel novembre 2001 è sul confine afghano quando viene assalito da un gruppo di profughi scampati alle bombe americane: rimane gravemente ferito – il suo volto rimase tumefatto a lungo in modo impressionante: così conciato lo vidi qualche tempo dopo a Teheran – ed è forse proprio questo incidente la molla che fece scattare in lui il desiderio di comprendere a fondo le ragioni di chi da sempre è vittima delle guerre che gli Stati Uniti, insieme agli altri Paesi, contribuiscono ad alimentare. Robert Fisk era convinto che i cronisti delle guerre in Medio Oriente, pur avendo documentato in modo competente i fatti, pur riportando correttamente luoghi, personaggi e tempi, avessero tradito il loro impegno con lettori mancando di chiarire il perché delle ingiustizie e degli orrori e soprattutto non avessero saputo offrire un orizzonte morale e storico in cui inserire gli eventi. Per farlo bisogna conoscere a fondo la storia e buttarsi a capofitto negli eventi: «Il nostro è un mestiere dove ci si sporcano le scarpe», disse un giorno nei Balcani a Tommaso Di Francesco.
Sì, era celebre e superpremiato, ma ha continuato a scrivere, fino all’ultimo, coinvolto anche in polemiche feroci, come quella nell’aprile del 2018 sui bombardamenti a Douma in Siria dove, andando contro a quasi tutte le asserzioni che circolavano, contestò che le vittime fossero state bersaglio delle armi chimiche di Assad. Una cosa è certa: anche allora fu tra primi cronisti, se non il primo, ad arrivare nella Ghouta orientale arrampicandosi su baluardi di sei metri ed entrando nella città sotterranea scavata sotto le fondamenta delle case e nella roccia viva.
Compariva all’improvviso sul luogo della battaglia, me lo ritrovai accanto a Baghdad nel 2003 davanti alla biblioteca nazionale in fiamme, tra saccheggiatori e miliziani armati: vidi Robert Fisk raccogliere manoscritti per terra mentre altri fogli volavano nell’aria, li inseguivamo come se cercassimo di impedire la distruzione sotto i nostri occhi. A un certo punto mi fermai mentre Robert continuava instancabile ad afferrare pezzi di carta per terra o sollevati nell’aria dal fumo dell’incendio. Quello che mi pareva un gesto vano per lui era quello che si doveva fare in quel momento.
Robert Fisk ha sempre cercato la verità anche quando a molti di noi sembrava uno sforzo inutile. L’attacco di quel reportage su Sabra e Chatila rimase tamburellante come una colonna sonora nella mia testa: «Ce lo dissero le mosche. Erano milioni e il loro ronzio era eloquente quasi quanto l’odore. Grosse come mosconi, all’inizio ci coprirono completamente, ignare della differenza tra vivi e morti». Fu inseguendo le mosche che scoprimmo così le fosse comuni irachene, i massacri seminascosti dei Balcani, del Medio Oriente e dell’Africa. Fisk ci inseguirà ancora, tallonando le nostre cronache anche dopo la morte.
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Ripubblichiamo tratto da Nenanews il reportage su Sabra e Chatila di Robert Fisk
di Robert Fisk – settembre 1982
“Furono le mosche a farcelo capire. Erano milioni e il loro ronzio era eloquente quasi quanto l’odore. Grosse come mosconi, all’inizio ci coprirono completamente, ignare della differenza tra vivi e morti. Se stavamo fermi a scrivere, si insediavano come un esercito – a legioni – sulla superficie bianca dei nostri taccuini, sulle mani, le braccia, le facce, sempre concentrandosi intorno agli occhi e alla bocca, spostandosi da un corpo all’altro, dai molti morti ai pochi vivi, da cadavere a giornalista, con i corpicini verdi, palpitanti di eccitazione quando trovavano carne fresca sulla quale fermarsi a banchettare.
Se non ci muovevamo abbastanza velocemente, ci pungevano. Perlopiù giravano intorno alle nostre teste in una nuvola grigia, in attesa che assumessimo la generosa immobilità dei morti. Erano servizievoli quelle mosche, costituivano il nostro unico legame fisico con le vittime che ci erano intorno, ricordandoci che c’è vita anche nella morte. Qualcuno ne trae profitto. Le mosche sono imparziali. Per loro non aveva nessuna importanza che quei corpi fossero stati vittime di uno sterminio di massa. Le mosche si sarebbero comportate nello stesso modo con un qualsiasi cadavere non sepolto. Senza dubbio, doveva essere stato così anche nei caldi pomeriggi durante la Peste nera.
All’inizio non usammo la parola massacro. Parlammo molto poco perché le mosche si avventavano infallibilmente sulle nostrae bocche. Per questo motivo ci tenevamo sopra un fazzoletto, poi ci coprimmo anche il naso perché le mosche si spostavano su tutta la faccia. Se a Sidone l’odore dei cadaveri era stato nauseante, il fetore di Shatila ci faceva vomitare. Lo sentivamo anche attraverso i fazzoletti più spessi. Dopo qualche minuto, anche noi cominciammo a puzzare di morto.
Erano dappertutto, nelle strade, nei vicoli, nei cortili e nelle stanze distrutte, sotto i mattoni crollati e sui cumuli di spazzatura. Gli assassini – i miliziani cristiani che Israele aveva lasciato entrare nei campi per «spazzare via i terroristi» – se n’erano appena andati. In alcuni casi il sangue a terra era ancora fresco. Dopo aver visto un centinaio di morti, smettemmo di contarli. In ogni vicolo c’erano cadaveri – donne, giovani, nonni e neonati – stesi uno accanto all’altro, in quantità assurda e terribile, dove erano stati accoltellati o uccisi con i mitra. In ogni corridoio tra le macerie trovavamo nuovi cadaveri. I pazienti di un ospedale palestinese erano scomparsi dopo che i miliziani avevano ordinato ai medici di andarsene. Dappertutto, trovavamo i segni di fosse comuni scavate in fretta. Probabilmente erano state massacrate mille persone; e poi forse altre cinquecento.
Mentre eravamo lì, davanti alle prove di quella barbarie, vedevamo gli israeliani che ci osservavano. Dalla cima di un grattacielo a ovest – il secondo palazzo del viale Camille Chamoun – li vedevamo che ci scrutavano con i loro binocoli da campo, spostandoli a destra e a sinistra sulle strade coperte di cadaveri, con le lenti che a volte brillavano al sole, mentre il loro sguardo si muoveva attraverso il campo. Loren Jenkins continuava a imprecare. Pensai che fosse il suo modo di controllare la nausea provocata da quel terribile fetore. Avevamo tutti voglia di vomitare. Stavamo respirando morte, inalando la putredine dei cadaveri ormai gonfi che ci circondavano. Jenkins capì subito che il ministro della Difesa israeliano avrebbe dovuto assumersi una parte della responsabilità di quell’orrore. «Sharon!» gridò. «Quello stronzo di Sharon! Questa è un’altra Deir Yassin.»
Quello che trovammo nel campo palestinese di Shatila alle dieci di mattina del 18 settembre 1982 non era indescrivibile, ma sarebbe stato più facile da raccontare nella fredda prosa scientifica di un esame medico. C’erano già stati massacri in Libano, ma raramente di quelle proporzioni e mai sotto gli occhi di un esercito regolare e presumibilmente disciplinato. Nell’odio e nel panico della battaglia, in quel paese erano state uccise decine di migliaia di persone. Ma quei civili, a centinaia, erano tutti disarmati. Era stato uno sterminio di massa, un’atrocità, un episodio – con quanta facilità usavamo la parola «episodio» in Libano – che andava ben oltre quella che in altre circostanze gli israeliani avrebbero definito una strage terroristica. Era stato un crimine di guerra.
Jenkins, Tveit e io eravamo talmente sopraffatti da ciò che avevamo trovato a Shatila che all’inizio non riuscivamo neanche a renderci conto di quanto fossimo sconvolti. Bill Foley dell’Ap era venuto con noi. Mentre giravamo per le strade, l’unica cosa che riusciva a dire era «Cristo santo!». Avremmo potuto accettare di trovare le tracce di qualche omicidio, una dozzina di persone uccise nel fervore della battaglia; ma nelle case c’erano donne stese con le gonne sollevate fino alla vita e le gambe aperte, bambini con la gola squarciata, file di ragazzi ai quali avevano sparato alle spalle dopo averli allineati lungo un muro. C’erano neonati – tutti anneriti perché erano stati uccisi più di ventiquattro ore prima e i loro corpicini erano già in stato di decomposizione – gettati sui cumuli di rifiuti accanto alle scatolette delle razioni dell’esercito americano, alle attrezzature mediche israeliane e alle bottiglie di whisky vuote.
Dov’erano gli assassini? O per usare il linguaggio degli israeliani, dov’erano i «terroristi»? Mentre andavamo a Shatila avevamo visto gli israeliani in cima ai palazzi del viale Camille Chamoun, ma non avevano cercato di fermarci. In effetti, eravamo andati prima al campo di Burj al-Barajne perché qualcuno ci aveva detto che c’era stato un massacro. Tutto quello che avevamo visto era un soldato libanese che inseguiva un ladro d’auto in una strada. Fu solo mentre stavamo tornando indietro e passavamo davanti all’entrata di Shatila che Jenkins decise di fermare la macchina. «Non mi piace questa storia» disse. «Dove sono finiti tutti? Che cavolo è quest’odore?»
Appena superato l’ingresso sud del campo, c’erano alcune case a un piano circondate da muri di cemento. Avevo fatto tante interviste in quelle casupole alla fine degli anni settanta. Quando varcammo la fangosa entrata di Shatila vedemmo che tutte quelle costruzioni erano state fatte saltare in aria con la dinamite. C’erano bossoli sparsi a terra sulla strada principale. Vidi diversi candelotti di traccianti israeliani, ancora attaccati ai loro minuscoli paracadute. Nugoli di mosche aleggiavano tra le macerie, branchi di predoni che avevano annusato la vittoria.
In fondo a un vicolo sulla nostra destra, a non più di cinquanta metri dall’entrata, trovammo un cumulo di cadaveri. Erano più di una dozzina, giovani con le braccia e le gambe aggrovigliate nell’agonia della morte. A tutti avevano sparato a bruciapelo, alla guancia: la pallottola aveva portato via una striscia di carne fino all’orecchio ed era poi entrata nel cervello. Alcuni avevano cicatrici nere o rosso vivo sul lato sinistro del collo. Uno era stato castrato, i pantaloni erano strappati sul davanti e un esercito di mosche banchettava sul suo intestino dilaniato.
Avevano tutti gli occhi aperti. Il più giovane avrà avuto dodici o tredici anni. Portavano jeans e camicie colorate, assurdamente aderenti ai corpi che avevano cominciato a gonfiarsi per il caldo. Non erano stati derubati. Su un polso annerito, un orologio svizzero segnava l’ora esatta e la lancetta dei minuti girava ancora, consumando inutilmente le ultime energie rimaste sul corpo defunto.
Dall’altro lato della strada principale, risalendo un sentiero coperto di macerie, trovammo i corpi di cinque donne e parecchi bambini. Le donne erano tutte di mezza età ed erano state gettate su un cumulo di rifiuti. Una era distesa sulla schiena, con il vestito strappato e la testa di una bambina che spuntava sotto il suo corpo. La bambina aveva i capelli corti, neri e ricci, dal viso corrucciato i suoi occhi ci fissavano. Era morta.
Un’altra bambina era stesa sulla strada come una bambola gettata via, con il vestitino bianco macchiato di fango e polvere. Non avrà avuto più di tre anni. La parte posteriore della testa era stata portata via dalla pallottola che le avevano sparato al cervello. Una delle donne stringeva a sé un minuscolo neonato. La pallottola attraversandone il petto aveva ucciso anche il bambino. Qualcuno le aveva squarciato la pancia in lungo e in largo, forse per uccidere un altro bambino non ancora nato. Aveva gli occhi spalancati, il volto scuro pietrificato dall’orrore.
Tveit cercò di registrare tutto su una cassetta, parlando lentamente in norvegese e in tono impassibile. «Ho trovato altri corpi, quelli di una donna con il suo bambino. Sono morti. Ci sono altre tre donne. Sono morte.»
Di tanto in tanto, premeva il bottone della pausa e si piegava per vomitare nel fango della strada. Mentre esploravamo un vicolo, Foley, Jenkins e io sentimmo il rumore di un cingolato. «Sono ancora qui» disse Jenkins e mi fissò. Erano ancora lì. Gli assassini erano ancora nel campo. La prima preoccupazione di Foley fu che i miliziani cristiani potessero portargli via il rullino, l’unica prova – per quanto ne sapesse – di quello che era successo. Cominciò a correre lungo il vicolo.
Io e Jenkins avevamo paure più sinistre. Se gli assassini erano ancora nel campo, avrebbero voluto eliminare i testimoni piuttosto che le prove fotografiche. Vedemmo una porta di metallo marrone socchiusa; l’aprimmo e ci precipitammo nel cortile, chiudendola subito dietro di noi. Sentimmo il veicolo che si addentrava nella strada accanto, con i cingoli che sferragliavano sul cemento. Jenkins e io ci guardammo spaventati e poi capimmo che non eravamo soli. Sentimmo la presenza di un altro essere umano. Era lì vicino a noi, una bella ragazza distesa sulla schiena.
Era sdraiata lì come se stesse prendendo il sole, il sangue ancora umido le scendeva lungo la schiena. Gli assassini se n’erano appena andati. E lei era lì, con i piedi uniti, le braccia spalancate, come se avesse visto il suo salvatore. Il viso era sereno, gli occhi chiusi, era una bella donna, e intorno alla sua testa c’era una strana aureola: sopra di lei passava un filo per stendere la biancheria e pantaloni da bambino e calzini erano appesi. Altri indumenti giacevano sparsi a terra. Quando gli assassini avevano fatto irruzione, probabilmente stava ancora stendendo il bucato della sua famiglia. E quando era caduta, le mollette che teneva in mano erano finite a terra formando un piccolo cerchio di legno attorno al suo capo.
Solo il minuscolo foro che aveva sul seno e la macchia che si stava man mano allargando indicavano che fosse morta. Perfino le mosche non l’avevano ancora trovata. Pensai che Jenkins stesse pregando, ma imprecava di nuovo e borbottava «Dio santo», tra una bestemmia e l’altra. Provai tanta pena per quella donna. Forse era più facile provare pietà per una persona giovane, così innocente, una persona il cui corpo non aveva ancora cominciato a marcire. Continuavo a guardare il suo volto, il modo ordinato in cui giaceva sotto il filo da bucato, quasi aspettandomi che aprisse gli occhi da un momento all’altro.
Probabilmente quando aveva sentito sparare nel campo era andata a nascondersi in casa. Doveva essere sfuggita all’attenzione dei miliziani fino a quella mattina. Poi era uscita in giardino, non aveva sentito nessuno sparo, aveva pensato che fosse tutto finito e aveva ripreso le sue attività quotidiane. Non poteva sapere quello che era successo. A un tratto qualcuno aveva aperto la porta, improvvisamente come avevamo fatto noi, e gli assassini erano entrati e l’avevano uccisa. Senza pensarci due volte. Poi se n’erano andati ed eravamo arrivati noi, forse soltanto un minuto o due dopo.
Rimanemmo in quel giardino ancora per un po’. Io e Jenkins eravamo spaventati. Come Tveit, che era momentaneamente scomparso, Jenkins era un sopravvissuto. Mi sentivo al sicuro con lui. I miliziani – gli assassini della ragazza – avevano violentato e accoltellato le donne di Shatila e sparato agli uomini, ma sospettavo che avrebbero esitato a uccidere Jenkins e l’americano avrebbe cercato di dissuaderli. «Andiamocene via di qui» disse, e ce ne andammo. Fece capolino in strada per primo, io lo seguii, chiudendo la porta molto piano perché non volevo disturbare la donna morta, addormentata, con la sua aureola di mollette da bucato.
Foley era tornato sulla strada vicino all’entrata del campo. Il cingolato era scomparso, anche se sentivo che si spostava sulla strada principale esterna, in direzione degli israeliani che ci stavano ancora osservando. Jenkins sentì Tveit urlare da dietro una catasta di cadaveri e lo persi di vista. Continuavamo a perderci di vista dietro i cumuli di cadaveri. Un attimo prima stavo parlando con Jenkins, un attimo dopo mi giravo e scoprivo che mi stavo rivolgendo a un ragazzo, riverso sul pilastro di una casa con le braccia penzoloni dietro la testa.
Sentivo le voci di Jenkins e Tveit a un centinaio di metri di distanza, dall’altra parte di una barricata coperta di terra e sabbia che era stata appena eretta da un bulldozer. Sarà stata alta più di tre metri e mi arrampicai con difficoltà su uno dei lati, con i piedi che scivolavano nel fango. Quando ormai ero arrivato quasi in cima persi l’equilibrio e per non cadere mi aggrappai a una pietra rosso scuro che sbucava dal terreno. Ma non era una pietra. Era viscida e calda e mi rimase appiccicata alla mano. Quando abbassai gli occhi vidi che mi ero attaccato a un gomito che sporgeva dalla terra, un triangolo di carne e ossa.
Lo lasciai subito andare, inorridito, pulendomi i resti di carne morta sui pantaloni, e finii di salire in cima alla barricata barcollando. Ma l’odore era terrificante e ai miei piedi c’era un volto al quale mancava metà bocca, che mi fissava. Una pallottola o un coltello gliel’avevano portata via, quello che restava era un nido di mosche. Cercai di non guardarlo. In lontananza, vedevo Jenkins e Tveit in piedi accanto ad altri cadaveri davanti a un muro, ma non potevo chiedere aiuto perché sapevo che se avessi aperto la bocca per gridare avrei vomitato.
Salii in cima alla barricata cercando disperatamente un punto che mi consentisse di saltare dall’altra parte. Ma non appena facevo un passo, la terra mi franava sotto i piedi. L’intero cumulo di fango si muoveva e tremava sotto il mio peso come se fosse elastico e, quando guardai giù di nuovo, vidi che solo uno strato sottile di sabbia copriva altre membra e altri volti. Mi accorsi che una grossa pietra era in realtà uno stomaco. Vidi la testa di un uomo, il seno nudo di una donna, il piede di un bambino. Stavo camminando su decine di cadaveri che si muovevano sotto i miei piedi.
I corpi erano stati sepolti da qualcuno in preda al panico. Erano stati spostati con un bulldozer al lato della strada. Anzi, quando sollevai lo sguardo vidi il bulldozer – con il posto di guida vuoto – parcheggiato con aria colpevole in fondo alla strada.
Mi sforzavo invano di non camminare sulle facce che erano sotto di me. Provavamo tutti un profondo rispetto per i morti, perfino lì e in quel momento. Continuavo a dirmi che quei cadaveri mostruosi non erano miei nemici, quei morti avrebbero approvato il fatto che fossi lì, avrebbero voluto che io, Jenkins e Tveit vedessimo tutto questo, e quindi non dovevo avere paura di loro. Ma non avevo mai visto tanti cadaveri in tutta la mia vita.
Saltai giù e corsi verso Jenkins e Tveit. Suppongo che stessi piagnucolando come uno scemo perché Jenkins si girò. Sorpreso. Ma appena aprii la bocca per parlare, entrarono le mosche. Le sputai fuori. Tveit vomitava. Stava guardando quelli che sembravano sacchi davanti a un basso muro di pietra. Erano tutti allineati, giovani uomini e ragazzi, stesi a faccia in giù. Gli avevano sparato alla schiena mentre erano appoggiati al muro e giacevano lì dov’erano caduti, una scena patetica e terribile.
Quel muro e il mucchio di cadaveri mi ricordavano qualcosa che avevo già visto. Solo più tardi mi sarei reso conto di quanto assomigliassero alle vecchie fotografie scattate nell’Europa occupata durante la Seconda guerra mondiale. Ci sarà stata una ventina di corpi. Alcuni nascosti da altri. Quando mi inchinai per guardarli più da vicino notai la stessa cicatrice scura sul lato sinistro del collo. Gli assassini dovevano aver marchiato i prigionieri da giustiziare in quel modo. Un taglio sulla gola con il coltello significava che l’uomo era un terrorista da giustiziare immediatamente. Mentre eravamo lì sentimmo un uomo gridare in arabo dall’altra parte delle macerie: «Stanno tornando». Così corremmo spaventati verso la strada. A ripensarci, probabilmente era la rabbia che ci impediva di andarcene, perché ci fermammo all’ingresso del campo per guardare in faccia alcuni responsabili di quello che era successo. Dovevano essere arrivati lì con il permesso degli israeliani. Dovevano essere stati armati da loro. Chiaramente quel lavoro era stato controllato – osservato attentamente – dagli israeliani, dagli stessi soldati che guardavano noi con i binocoli da campo.
Sentimmo un altro mezzo corazzato sferragliare dietro un muro a ovest – forse erano falangisti, forse israeliani – ma non apparve nessuno. Così proseguimmo. Era sempre la stessa scena. Nelle casupole di Shatila, quando i miliziani erano entrati dalla porta, le famiglie si erano rifugiate nelle camere da letto ed erano ancora tutti lì, accasciati sui materassi, spinti sotto le sedie, scaraventati sulle pentole. Molte donne erano state violentate, i loro vestiti giacevano sul pavimento, i corpi nudi gettati su quelli dei loro mariti o fratelli, adesso tutti neri di morte.
C’era un altro vicolo in fondo al campo dove un bulldozer aveva lasciato le sue tracce sul fango. Seguimmo quelle orme fino a quando non arrivammo a un centinaio di metri quadrati di terra appena arata. Sul terreno c’era un tappeto di mosche e anche lì si sentiva il solito, leggero, terribile odore dolciastro. Vedendo quel posto, sospettammo tutti di che cosa si trattasse, una fossa comune scavata in fretta. Notammo che le nostre scarpe cominciavano ad affondare nel terreno, che sembrava liquido, quasi acquoso e tornammo indietro verso il sentiero tracciato dal bulldozer, terrorizzati.
Un diplomatico norvegese – un collega di Ane-Karina Arveson – aveva percorso quella strada qualche ora prima e aveva visto un bulldozer con una decina di corpi nella pala, braccia e gambe che penzolavano fuori dalla cassa. Chi aveva ricoperto quella fossa con tanta solerzia? Chi aveva guidato il bulldozer? Avevamo una sola certezza: gli israeliani lo sapevano, lo avevano visto accadere, i loro alleati – i falangisti o i miliziani di Haddad – erano stati mandati a Shatila a commettere quello sterminio di massa. Era il più grave atto di terrorismo – il più grande per dimensioni e durata, commesso da persone che potevano vedere e toccare gli innocenti che stavano uccidendo – della storia recente del Medio Oriente.
Incredibilmente, c’erano alcuni sopravvissuti. Tre bambini piccoli ci chiamarono da un tetto e ci dissero che durante il massacro erano rimasti nascosti. Alcune donne in lacrime ci gridarono che i loro uomini erano stati uccisi. Tutti dissero che erano stati i miliziani di Haddad e i falangisti, descrissero accuratamente i diversi distintivi con l’albero di cedro delle due milizie.
Sulla strada principale c’erano altri corpi. «Quello era il mio vicino, il signor Nuri» mi gridò una donna. «Aveva novant’anni.» E lì sul marciapiede, sopra un cumulo di rifiuti, era disteso un uomo molto anziano con una sottile barba grigia e un piccolo berretto di lana ancora in testa. Un altro vecchio giaceva davanti a una porta in pigiama, assassinato qualche ora prima mentre cercava di scappare. Trovammo anche alcuni cavalli morti, tre grossi stalloni bianchi che erano stati uccisi con una scarica di mitra davanti a una casupola, uno di questi aveva uno zoccolo appoggiato al muro, forse aveva cercato di saltare per mettersi in salvo mentre i miliziani gli sparavano.
C’erano stati scontri nel campo. La strada vicino alla moschea di Sabra era diventata sdrucciolevole per quanto era coperta di bossoli e nastri di munizioni, alcuni dei quali erano di fattura sovietica, come quelli usati dai palestinesi. I pochi uomini che possedevano ancora un’arma avevano cercato di difendere le loro famiglie. Nessuno avrebbe mai conosciuto la loro storia. Quando si erano accorti che stavano massacrando il loro popolo? Come avevano fatto a combattere con così poche armi? In mezzo alla strada, davanti alla moschea, c’era un kalashnikov giocattolo di legno in scala ridotta, con la canna spezzata in due.
Camminammo in lungo e in largo per il campo, trovando ogni volta altri cadaveri, gettati nei fossi, appoggiati ai muri, allineati e uccisi a colpi di mitra. Cominciammo a riconoscere i corpi che avevamo già visto. Laggiù c’era la donna con la bambina in braccio, ecco di nuovo il signor Nuri, disteso sulla spazzatura al lato della strada. A un certo punto, guardai con attenzione la donna con la bambina perché mi sembrava quasi che si fosse mossa, che avesse assunto una posizione diversa. I morti cominciavano a diventare reali ai nostri occhi.
FONTE: https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-ce_lo_dissero_le_mosche_robert_fisk_nello_straordinario_ricordo_di_alberto_negri/82_38039/
La penetrazione turca in Somalia
Da molto tempo la Somalia è uno dei paesi dell’Africa politicamente instabili e sottosviluppati ma ambito per la sua importante posizione strategica (situata vicino alle rotte commerciali mondiali e allo stretto di Bab-el Mandeb) e per le enormi risorse marine. Proprio per le sue peculiarità, ha attratto l’interesse di molti paesi stranieri tra cui la Turchia.
Ankara, tra i molteplici impegni in ambito internazionale, è presente nel paese con la cooperazione militare, nel settore della sanità, dell’istruzione e con altre iniziative come la costruzione di infrastrutture fondamentali per la Somalia come il rinnovamento dell’aeroporto internazionale di Aden Adde, la modernizzazione del porto di Mogadiscio e la realizzazione di uno dei più moderni ospedali del Corno d’Africa ribattezzato Erdoğan Research and Training Hospital.
Recentemente, secondo la Somalia National Television, l’operatore portuale turco Albayrak e il governo federale della Somalia avrebbero firmato un accordo che garantisce alla compagnia turca una nuova concessione di 14 anni per la gestione del porto di Mogadiscio.
Le strette relazioni tra Turchia e Somalia hanno iniziato a svilupparsi dopo la visita ufficiale del presidente Recep Tayyp Erdoğan a Mogadiscio nel 2011, in un momento difficile per il paese a causa della siccità e del conflitto contro il gruppo jihadista al-Shabaab.
Nel 2016, un memorandum d’intesa (MoU) firmato tra Turchia e Somalia sulla cooperazione energetica e mineraria era stato approvato dalla commissione per gli affari esteri del parlamento turco, una settimana dopo che il presidente Erdoğan aveva annunciato che il governo somalo aveva accettato che compagnie turche effettuassero operazioni di perforazione ed esplorazione petrolifera al largo delle coste somale dove riserve considerevoli di greggio erano già state segnalate all’inizio degli anni ’90 ma la guerra civile ne aveva impedito lo sfruttamento..
Il 30 settembre 2017, la Turchia ha aperto ufficialmente un’importante struttura militare di addestramento a Mogadiscio, Camp Turksom, dove vengono addestrati centinaia di soldati somali ogni anno da 200 consiglieri militari turchi.
La struttura militare, situata su un terreno di 400 ettari, è costata 50 milioni di dollari ed è parte dell’impegno turco per accrescere la sua influenza nel Corno d’Africa ed è stata aperta quasi in contemporanea con la base di Tariq bin Ziyad, in Qatar, che ospita 3mila militari di Ankara.
Secondo quanto dichiarato recentemente dall’Ambasciatore turco in Somalia, circa un soldato somalo su tre è addestrato dalle forze armate turche che hanno addestrato anche circa 600 agenti di polizia per le operazioni speciali. Attualmente è previsto l’addestramento di 1.000 poliziotti.
Alla fine di dicembre dello scorso anno, due ingegneri turchi sono stati vittime di un attacco a Mogadiscio. Nel maggio dello scorso anno, al-Shabaab si era assunto la responsabilità dell’uccisione di un cittadino turco in un altro attentato a Mogadiscio.
Nello scorso mese di giugno, due persone sono state uccise dopo che un attentatore suicida si è fatto esplodere fuori dalla base militare turca a Mogadiscio.
Oltre alla Turchia, gli Stati Uniti sono presenti in Somalia con circa 650-800 militari delle forze speciali con il compito di addestrare l’esercito somalo e condurre incursioni contro al-Shabaab in una operazione che il Presidente Donald Trump vorrebbe chiudere ritirando le forze presenti nel Paese africano.
L’Unione Europea schiera da anni a Mogadiscio una missione di addestramento (EUTM – Somalia) a guida italiana composta da circa 200 militari.
Il governo somalo ha fatto affidamento sul sostegno della missione delle forze dell’Unione Africana (AMISOM) per combattere gli insorti qaedisti di al-Shabab.
Il numero dei soldati dell’AMISOM è stato recentemente ridotto di 2.000 unità, da 21 mila a 19 mila circa (nella foto sopra) forniti da Uganda, Burundi, Gibuti, Ghana, Kenya, Etiopia e Nigeria, distribuiti nei diversi settori come indica la mappa qui a fianco.
La base di Mogadiscio si inserisce nella rete di punti d’appoggio militari turchi all’estero che include il porto sudanese di Suakin, una vecchia base navale di epoca ottomana oggi trasformato in porto commerciale grazie ai finanziamenti del Qatar.
Erdogan ha negato qualsiasi interesse militare specifico nell’isola sudanese nel Mar Rosso, anche se sono stati firmati una serie di accordi di cooperazione militare tra Turchia e Sudan che riguardano anche l’industria della Difesa.
L’impegno in Somalia è stato uno dei risultati di una politica turca rafforzata in Africa, dopo che il paese si è trovato alla ricerca di nuovi mercati per i suoi prodotti a seguito del tracollo economico globale nel 2007-2008 e le relazioni sempre più difficili con il mercato europeo.
L’influenza di Ankara nel Corno d’Africa è inoltre vantaggiosa per contrastare i rivali dell’asse Ankara-Doha del Golfo Persico, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti in testa.
Dal 2013 la Turchia ha assunto anche il ruolo di facilitatore nei colloqui tra il governo federale della Somalia e l’amministrazione del Somaliland.
Il volume di scambi bilaterali tra Turchia e Somalia è stato di 187,3 milioni di dollari USA nel 2018 e di 250,850 milioni di dollari nel 2019 mentre il valore totale degli investimenti turchi in Somalia ha raggiunto i 100 milioni di dollari USA.
FONTE: https://scenarieconomici.it/la-ue-e-la-bce-ci-vogliono-sotto-ricatto-ottimo-pezzo-di-liturri-su-startmag/
CULTURA
Borges alla guerra: un inedito!
4 NOVEMBRE 2020 – Davide Brullo
“La Nación” pubblica un testo finora sconosciuto del grande JLB. S’intitola “Silvano Acosta” e racconta la storia di un militare per obbligo, ribelle, ucciso dal nonno di Borges nel 1871. Il suo spettro ha tormentato la vita dello scrittore, che ora si sdebita (sognando avventure e lotte più che biblioteche).
In fondo, Jorge Luis Borges desiderava la lotta, l’avventura, i campi di battaglia e ai libri anteponeva la gloria militare. Il sortilegio dell’immaginazione gli permise di saldare un tradimento. Borges, infatti, viene da una famiglia di militari. Il nonno, Francisco Borges, fu militare d’alto rango e figura controversa. Nel 1870, guidando le truppe unioniste, sedò la rivolta ordita dal caudillo Ricardo López Jordán; quattro anni dopo fu ucciso a “La Verde”, affiancando la ribellione di Bartolomé Mitre, già Presidente argentino. La storia argentina, d’altronde, è tutta qui: fango, ambidestre ambizioni, rivolte guidate da una innata frustrazione e dalla vertebra utopica, colpi di mano, vendette, tradizioni e tradimenti. Il papà di Borges, Jorge Guillermo, nato nel Paraná, seguì le orme militari del padre, sedate, però, da un profondo amore per la letteratura – fu amico intimo del filosofo eccentrico Macedonio Fernández, tradusse le Rubaiyat di Khayyam, tentò la scrittura, istigò il figlio a scrivere. Anche la linea materna – Leonor Acevedo Suárez, donna dal talento superiore, traduttrice dall’inglese, imprigionò il figlio nella spirale delle sue vocazioni – raccontava di colonnelli (il nonno, Manuel Isidoro Suárez, fu tra i protagonisti delle guerre d’indipendenza ispanoamericane), militari, uomini d’arme. La letteratura argentina non è disgiunta dal clangore delle armi, dalla polvere, da un rivoluzionario che afferra un cavallo e se ne va, divorato dal tramonto. Domingo Faustino Sarmiento, Presidente dell’Argentina dal 1868 al 1874, inaugurò la letteratura del suo paese con il Facundo (1845), l’epopea del caudillo Juan Facundo Quiroga (contro cui aveva combattuto); la figura ipnotica del gaucho fu mitizzata nel Martín Fierro di José Hernández e in Don Segundo Sombra di Ricardo Güiraldes. Alcune fotografie di Borges degli anni Trenta lo ritraggono in pose gauchesche, da avventuriero: prima delle finzioni e delle alte teologie letterarie ci fu il fisico, il corpo. Spesso, in effetti, Borges torna, nei sogni narrativi, alla tradizione argentina: il ballo dei duellanti, l’enigma di un coltello che può mutare l’esito di un destino, lo stampo di un assassino, in un’ombra che pare carta costituzionale. Spesso, la cronologia di quelle battaglie campali, totali, che hanno fatto l’Argentina penetra nei suoi racconti.
Il primo novembre, giorno dei santi, “La Nación” ha pubblicato un testo finora inedito di Borges: dettato a María Kodama il 19 novembre del 1985 – episodio non particolare: Borges era cieco da un tot –, s’intitola Silvano Acosta. È uno degli ultimi testi di Borges, che muore a Ginevra nel giugno del 1986: approssimandosi alla morte, lo scrittore pensa alla sua nascita e all’enigma che la cinge. Il contesto del racconto, che qui traduciamo, è la “Ribellione jordanista”: ultimo atto della lotta tra gli ‘unitari’ e i ‘federali’, capitanati, questi ultimi, dal ribelle Ricardo López Jordán. Fu il nonno di Borges a stroncare la rivolta, con ferocia. Borges trova una sintonia con Silvano Acosta: un ignoto, parto di vuoti e specchi rovesciati, che, obbligato a lottare con gli unionisti, passò ai ribelli. Catturato, fu ucciso per ordine scritto del nonno di Borges, lo stesso giorno e lo stesso mese in cui, molti anni dopo, sarebbe nato il nipote del colonnello (la morte viene calibrata e sancita da una “bella scrittura”, a realizzare il potere della parola sul corpo). Questo spettro aleggia sulla vita di Borges: di lui non si sa altro che il nome, il tradimento, l’avventatezza, la morte. Silvano Acosta è l’ennesimo specchio in cui Borges vede risuonare la sua vita. In quel “disertore e traditore” il grande scrittore, che aveva reciso il carisma dei padri, vedeva se stesso. Forse non sognava altra vita che quella. L’avventura, la disobbedienza, il disonore. E una sorta di flautato oblio. Ebbe tutt’altro.
Silvano Acosta
Mio padre fu generato nella guarnigione di Junín, a una o due leghe dal deserto, era il 1874. Io fui generato nella estancia di San Francisco, dipartimento di Río Negro, Uruguay, nel 1899. Al momento della nascita, ho contratto un debito, piuttosto misterioso, con uno sconosciuto che morì la mattina di quel giorno e di quel mese, nel 1871. Quel debito mi è stato rivelato di recente, da un foglio firmato da mio nonno, venduto a un’asta pubblica. Oggi voglio saldare quel debito. Non mi costerebbe nulla fantasticare intorno alle circostanze, ma ciò che mi commuove è il filo tenue che mi lega a un uomo senza volto, di cui non conosco altro che il nome, ormai quasi anonimo, e la morte, perduta.
Assassinato Urquiza, il mucchio jordanista [ci si riferisce a Ricardo López Jordán, che uccise coi suoi Justo José de Urquiza, già Presidente della Confederazione Argentina, innescando una ribellione all’interno del paese, ndr] assediò il Paraná. Una mattina, entrarono nella piazza a cavallo, si voltarono battendosi la bocca e prendendo in giro le truppe. Non ritennero di prendere il controllo della città.
CYBERWAR SPIONAGGIO INFORMAZIONE DISINFORMAZIONE
Il pericoloso virus della censura
Che il mio collega e amico Mario Giordano giochi (con successo) a fare il mattacchione su Rete 4 è un fatto. Che il mio maestro Vittorio Feltri abbia rotto (con altrettanto successo) i freni inibitori è altrettanto vero
Che il mio collega e amico Mario Giordano giochi (con successo) a fare il mattacchione su Rete 4 è un fatto.
Che il mio maestro Vittorio Feltri abbia rotto (con altrettanto successo) i freni inibitori, arrivando a dire in tv, ospite di Giordano, a proposito della guerra sul Coronavirus tra Lombardia e Campania, che «i meridionali in molti casi sono inferiori», è altrettanto vero. Che molti italiani, meridionali e non, ascoltando quelle parole, si siano offesi è vero e legittimo; che altrettanti meridionali e non abbiano sorriso e riso divertiti è indiscutibile, ne conosco più d’uno. Ma che tale Vittorio Di Trapani, segretario del sindacato dei giornalisti Rai, detto Usigrai, e l’immancabile neo senatore pd Sandro Ruotolo chiedano di processare il direttore di Libero e il conduttore di Fuori dal Coro e di espellerli dall’Ordine dei giornalisti è la prova che in Italia come diceva Ennio Flaiano – la situazione è grave, ma non è seria.
Parlandone solo per un secondo seriamente, trovo che le bizzarre parole di Feltri escano dai canoni e dalla correttezza professionale molto ma molto meno comunque meno pericolosamente – dei faziosi servizi filogovernativi che ogni giorno ci scodellano Tg1 e Tg3, cosa che, questa sì, dovrebbe turbare ma così non è – la sensibilità dell’Usigrai. E trovo che Sandro Ruotolo, in quanto senatore del Pd, quindi di maggioranza, prima di processare gli altri dovrebbe affrontare lui il tribunale della storia per l’incapacità del suo partito di rimettere in moto e in sicurezza l’Italia azzoppata dal Coronavirus.
Nel febbraio del 1960 Indro Montanelli, in una intervista a Le Figaro, ebbe a dire: «Ah! La Sicilia! Voi avete l’Algeria, noi abbiamo la Sicilia. Ma voi non siete obbligati a dire agli algerini che sono francesi. Noi, circostanza aggravante, siamo obbligati ad accordare ai siciliani la qualità di italiani». In risposta, la Sicilia venne tappezzata di manifesti a forma di necrologio: «Per le ingiurie lanciate contro l’intero popolo siciliano sarà rifiutata la vendita di giornali contenenti articoli di Indro Montanelli». E la cosa finì lì. Belli quei tempi, i tempi alla don Camillo e Peppone, liberi cazzotti e libere goliardate. Oggi ci ritroviamo con Ruotolo e Di Trapani, esposti, codici etici, giudici e tribunali. Ma piantatela lì, lasciate che siano i lettori e i telespettatori a decidere, come allora fecero i siciliani con Montanelli, se continuare o no a seguire gli sketch di Giordano e Feltri. Si chiama libertà e, tranquilli, le app-spie sul telecomando il Pd ancora non le ha previste.
FONTE: https://www.ilgiornale.it/news/cronache/pericoloso-virus-censura-1857207.html
ECONOMIA
Perché l’Europa minaccia l’Italia sul Mes
Addio ombrello Bce per chi snobba i prestiti Ue?
Le istituzioni europee quando vogliono mandare consigli “amichevoli”, non usano canali ufficiali ma hanno in genere tre canali informali a disposizione: parlare con qualche giornalista amico dell’agenzia Reuters, di Bloomberg o del Financial Times e far capire le cose a chi deve capirle.
Questa volta è toccato ai giornalisti della Reuters farsi portavoce di un messaggio nemmeno tanto vagamente minaccioso, ma invece piuttosto esplicito: la Bce fa sapere ai Paesi dell’Eurozona – che stanno emettendo titoli pubblici in libertà, nella relativa sicurezza che, una volta sul mercato, tali titoli saranno comprati a piene mani dalla Bce – che sarebbe “consigliabile” evitare di snobbare i prestiti offerti tanto generosamente dalla Ue. Per essere definitivamente convincente, La Bce potrebbe cambiare i criteri di ripartizione dei propri acquisti, fino ad oggi generosamente sbilanciati verso i titoli italiani e spagnoli (ma non solo), disincentivando così la convenienza ad emettere titoli di Stato e costringere gli Stati membri a rivolgersi invece ai prestiti che l’anno prossimo la Commissione erogherà nell’ambito del Recovery Fund o, più propriamente, Next Generation EU.
La Reuters cita ben quattro fonti interne alla Bce, secondo le quali sarebbe in corso una discussione sul potenziamento del programma APP (condotto seguendo una rigida chiave di ripartizione tra gli Stati) o il più recente programma PEPP (contraddistinto da ampia flessibilità).
Con il secondo programma, l’Italia ha potuto beneficiare di acquisti fino al 30/9 per 95 miliardi su un totale di 512 (il 18,6%, che diventa 20% escludendo i titoli emessi da istituzioni sovranazionali) che, insieme agli acquisti del programma APP (specificamente PSPP) hanno assorbito per intero le emissioni nette del Tesoro nel periodo marzo-settembre. Troppo comodo così, devono aver pensato tra Bruxelles e Francoforte.
Gli acquisti da parte della Bce hanno di fatto condotto ad un generalizzato abbassamento dei rendimenti dei titoli pubblici lungo tutte le scadenze, al punto da rendere molto più attrattivo indebitarsi sui mercati emettendo titoli che non sono gravati da alcuna condizione, anziché ricevere prestiti dalla UE condizionati all’utilizzo verso ben determinate finalità (transizione ambientale, digitale, ecc…) , oltre che al rispetto di stringenti condizioni macroeconomiche contenute nelle “Raccomandazioni Paese”.SponsorHillspet.itConosci i vantaggi di un’alimentazione senza cereali e glutine?
Nel ricordare che tra i prestiti Ue già pronti all’uso c’è anche quello del Meccanismo Europeo di Stabilità, è relativamente facile chiudere il cerchio e capire a cosa realmente si riferiscano le “fonti della Bce”.
C’è un Paese che deve pagare pegno, in termini di adesione convinta ai vincoli europei ed i prestiti (Mes in testa) hanno proprio questo scopo. In Europa mal sopportano questo presunto “pasto gratis” offerto dalla Bce all’Italia e scalpitano per metterla sotto la sorveglianza di stringenti condizioni portate dai prestiti così generosamente “offerti”.
Stanno cercando di farcelo capire, Oggi con le buone. Oppure con le cattive, quando basterà non pigiare qualche tasto del PC usato per acquisti di titoli creando moneta di banca centrale, per far partire un giro di spread.
Timeo Danaos et dona ferentes.
FONTE: https://www.startmag.it/mondo/perche-leuropa-minaccia-litalia-sul-mes-addio-ombrello-bce-per-chi-snobba-i-prestiti-ue/
LA UE E LA BCE CI VOGLIONO SOTTO RICATTO
Ottimo pezzo di Liturri su Startmag
Se non ci fosse Giuseppe Liturri per svelare le trappole ed i magheggi antidemocratici dell’Unione e della BCE bisognerebbe crearlo. Il problema è semplice: con il programma PEPP tutti i paesi anche quelli sporchi, brutti e cattivi del Mediterraneo, hanno potuto ottenere risorse finanziarie su larga scala dalla BCE senza “Condizionalità” da piano quinquennale sovietico fissate della UE. questo ha depotenziato notevolmente gli strumenti di dominio e ricatto chiamati MES e prestiti del Recovery Fund, collegati all’applicazione delle politiche di austerità o all’effettuazione di investimenti a bassa-nulla redditività e produttività. Praticamente la BCE ha permesso agli stati di tornare ad agire ed investire per il bene dei propri cittadini, Italia esclusa, dove il PD prosegue con la sua repressione . Qyuesta libertà non poteva proseguire, quindi la BCE ha intenzione di mettere come precondizione l’utilizzo dei prestiti della UE; MES e Recovery Fund, per l’accesso ai programmi APP e PEPP. Prendiamo le parole di Liturri da Startmag:
Questa volta è toccato ai giornalisti della Reuters farsi portavoce di un messaggio nemmeno tanto vagamente minaccioso, ma invece piuttosto esplicito: la Bce fa sapere ai Paesi dell’Eurozona – che stanno emettendo titoli pubblici in libertà, nella relativa sicurezza che, una volta sul mercato, tali titoli saranno comprati a piene mani dalla Bce – che sarebbe “consigliabile” evitare di snobbare i prestiti offerti tanto generosamente dalla Ue. Per essere definitivamente convincente, La Bce potrebbe cambiare i criteri di ripartizione dei propri acquisti, fino ad oggi generosamente sbilanciati verso i titoli italiani e spagnoli (ma non solo), disincentivando così la convenienza ad emettere titoli di Stato e costringere gli Stati membri a rivolgersi invece ai prestiti che l’anno prossimo la Commissione erogherà nell’ambito del Recovery Fund o, più propriamente, Next Generation EU.
La Reuters cita ben quattro fonti interne alla Bce, secondo le quali sarebbe in corso una discussione sul potenziamento del programma APP (condotto seguendo una rigida chiave di ripartizione tra gli Stati) o il più recente programma PEPP (contraddistinto da ampia flessibilità).
Con il secondo programma, l’Italia ha potuto beneficiare di acquisti fino al 30/9 per 95 miliardi su un totale di 512 (il 18,6%, che diventa 20% escludendo i titoli emessi da istituzioni sovranazionali) che, insieme agli acquisti del programma APP (specificamente PSPP) hanno assorbito per intero le emissioni nette del Tesoro nel periodo marzo-settembre. Troppo comodo così, devono aver pensato tra Bruxelles e Francoforte.
Gli acquisti da parte della Bce hanno di fatto condotto ad un generalizzato abbassamento dei rendimenti dei titoli pubblici lungo tutte le scadenze, al punto da rendere molto più attrattivo indebitarsi sui mercati emettendo titoli che non sono gravati da alcuna condizione, anziché ricevere prestiti dalla UE condizionati all’utilizzo verso ben determinate finalità (transizione ambientale, digitale, ecc…) , oltre che al rispetto di stringenti condizioni macroeconomiche contenute nelle “Raccomandazioni Paese”.
La Lagarde quindi si è piegata ai voleri di dominio della UE ed al suo desiderio di piegare le politiche nazionali a finalità oscure ed inefficienti, obbligando gli stati ad utilizzare i fondi in prestito, cifre che dovranno essere restituite, che, dato la scarsa efficienza degli investimenti collegati, si convertiranno in nuovo debito comunque, ma a quel punto più oneroso.
In questo caso probabilmente lo scarso interesse spagnolo e portoghese per i fondi in prestito del Recovery Fund è stato l’elemento che ha spinto la BCE a queste affermazioni: chi sono questi staterucoli per ribellarsi l potere della UE? Il senso di onnipotenza dei funzionari, non eletti, della UE è enorme ed assoluto, e non si faranno problema nello schiacciare gli stati nazionali. Naturalmente nei limiti in cui noi lo permetteremo.
FONTE: https://scenarieconomici.it/la-ue-e-la-bce-ci-vogliono-sotto-ricatto-ottimo-pezzo-di-liturri-su-startmag/
Malvezzi: «Ci hanno tolto la Lira per riempirci di debiti»
Novembre 4, 2020 posted by Guido da Landriano
La crisi economica è sempre un cambiamento pianificato e deliberato di sistema economico e per realizzarlo bisogna cambiare i valori morali di una società. Oggi con tutta la cultura a portata di mano, sono pochi quelli che abbinano la ricchezza al senso della caducità della vita, eppure la “Grande livella” era, storicamente, un elemento riconosciuto in ogni epoca. Questo ha portato ad una vera e propria idolatria del denaro ed a un senso di stupida eternità
Molti italiani ricordano con nostalgia l’Italia della liretta più che odiare l’Italia dell’eurone. Troppo spesso sui miei social leggo messaggi di persone che cercano di prendermi in giro con l’Italia della liretta. E’ difficile, per persone che non abbiano maneggiato quella moneta, riuscire a capire cosa fosse l’Italia della liretta. Perché l’Italia della lira aveva delle basi morali diverse da quelle di oggi, di basava sul lavoro, sul risparmio delle famiglie, sulle piccole imprese.
Un modello economico diverso, tanto per cominciare, non c’era la disoccupazione economica che c’è qui. Si stava meglio. Tutti i parametri economici lo dimostrano, soprattutto il parametro del risparmio. Hanno cambiato il sistema economico per farci indebitare. E’ aumentato il rapporto debito privato/Pil molto più di quanto è aumentato il rapporto debito pubblico/Pil. Il primo per far guadagnare le banche ed un sistema creditizio inefficiente, il secondo per poterci ricattare in eterno.
VIDEO QUI: https://youtu.be/qmxkfXZt4Co
FONTE: https://scenarieconomici.it/malvezzi-ci-hanno-tolto-la-lira-per-riempirci-di-debiti/
L’economia viene prima della salute
FONTE: http://micidial.it/2020/11/leconomia-viene-prima-della-salute/
FINANZA BANCHE ASSICURAZIONI
Chi sono i nuovi azionisti di Borsa Italiana e cosa faranno
Disco verde dall’assemblea Lse per la cessione di Borsa Italiana a Euronext. Il punto della situazione, i cambiamenti dell’azionariato e il giudizio degli analisti.
ASSEMBLEA LSE APPROVA LA VENDITA DI BORSA ITALIANA
L’assemblea dei soci del London Stock Exchange ha approvato ieri la vendita di Borsa Italiana a Euronext per 4,325 miliardi di euro.
LA TEMPISTICA DELL’OPERAZIONE
L’operazione, che secondo le previsioni sarà chiusa nel primo semestre del 2021, è soggetta al via libera degli azionisti di Euronext (l’assemblea straordinaria si terrà il 20 novembre) e all’ok delle Autorità antitrust competenti.
COME CAMBIA L’AZIONARIATO
L’acquisto sarà finanziato con 300 milioni di liquidità che Euronext ha già in cassa, 1,8 miliardi di nuovo debito e 2,4 miliardi di aumento di capitale che sarà sottoscritto per circa 700 milioni da Cdp equity e Intesa Sanpaolo. A seguito della ricapitalizzazione Cdp avrà il 7,3% di Euronext, alla pari con la Caisse des depots et consignations francese, mentre Intesa avrà l’1,3%, una quota analoga a quella di Bnp Paribas (pre-aumento al 2,2%). I nuovi soci italiani faranno parte dell’azionariato di riferimento di Euronext, che continuerà a riunire circa il 23% del capitale comprendendo anche Euroclear (che oggi ha l’8%), la Sfp (la “Cdp” belga, che attualmente detiene il 4,5%) e Abn Amro (oggi allo 0,6%): il patto parasociale impegnerà l’azionariato stabile per un periodo di tre anni.
VANTAGGI SIGNIFICATIVI PER GLI AZIONISTI
L’aggregazione offrirà vantaggi significativi agli azionisti. Si stima che l’operazione comporti un aumento dell’Eps adjusted (pre-sinergie) immediatamente, e che realizzi una crescita a doppia cifra nel terzo anno post-sinergie.
FONTE: https://www.startmag.it/economia/chi-sono-i-nuovi-azionisti-di-borsa-italiana-e-cosa-faranno/
GIUSTIZIA E NORME
IL LATO OSCURO DELL’E-COMMERCE E I NUOVI REATI DIGITALI
DALLA TRUFFA ONLINE ALLA FRODE INFORMATICA
Sommario: 1. I nuovi confini del mercato digitale: luci e ombre – 2. L’esegesi degli elementi caratterizzanti la truffa online… – 3. …e della frode informatica – 4. Il discrimen tra le due fattispecie
1. I nuovi confini del mercato digitale: luci e ombre
Le esigenze di celerità, speditezza e semplicità da parte dei consumatori hanno rappresentato il muro portante su cui, odiernamente, poggia il c.d. e-commerce. Non è infrequente, infatti, che il consumatore si rivolga a piattaforme telematiche che offrano beni e servizi, spesso anche a prezzi inferiori rispetto a quelli al dettaglio, per poter soddisfare le proprie esigenze.
Questo tipo di mercato telematico, peraltro, consente di mettere in contatto il consumatore con imprese localizzate a diverse migliaia di chilometri di distanza, al fine di acquistare una gamma di prodotti unici, spesso non presenti sul mercato tradizionale. La ormai consolidata globalizzazione dei mercati, dunque, unita alle innegabili semplicità che l’e-commerce presenta, ha determinato, eziologicamente, una corsa sempre più frenetica verso queste modalità di scambio[1]. Nondimeno, pur a fronte di questi notevoli vantaggi, il mercato degli scambi telematici possiede in nuce dei profili problematici, legati essenzialmente all’incognita sulla persona del venditore e l’assenza, nella maggioranza dei casi, di trattative precontrattuali.
Di fianco a queste preliminari considerazioni critiche, sviluppate ampiamente dalla dottrina e dalla giurisprudenza civile, l’e-commerce presenta un ulteriore, seppur indiretto, profilo critico. Si osserva, in particolare, che la maggiore diffusione di questa tipologia di mercato ha determinato una crescita esponenziale delle fattispecie criminose informatiche, tra le quali: la truffa cd. “on line” e la fattispecie di frode informatica.
Il commercio telematico, infatti, ha posto le basi per un nuovo tipo di scambio nel mercato, notevolmente vantaggioso per le imprese delocalizzate rispetto ai consumatori; tuttavia, paradossalmente, proprio questo vantaggio ha determinato l’emersione di una criminalità nuova e digitale, che avvantaggia il potenziale soggetto agente. Quest’ultimo, infatti, attraverso identità digitali fittizie, modalità di scambio rapidi e poco prudenti per l’acquirente, firewall spesso inadeguati, riesce a schermare molto più facilmente la propria identità o a penetrare all’interno dei sistemi telematici.
Le due fattispecie appena richiamate, nate per sanzionare le ipotesi sopra riportate, in apparenza potrebbero sembrare simili, se non addirittura identiche; nondimeno, ad un’attenta analisi, si potrà notare che vi sono notevoli differenze: tanto sul versante processuale quanto sul versante sostanziale.
2. L’esegesi degli elementi caratterizzanti la truffa online…
Prima di addentrarsi nell’analisi comparativa dei reati in esame, per una maggiore comprensione degli elementi discretivi tra i due reati, si ritiene opportuno ricostruire brevemente gli elementi caratterizzanti di entrambe le fattispecie. In particolare, iniziando dal delitto di truffa online, si evidenzia che la fattispecie di cui si discorre non è positivizzata all’interno del codice penale vigente. Essa, invero, costituisce il frutto di un’ortopedia ermeneutica dell’art. 640 c.p., teleologicamente orientata a tutelare i potenziali acquirenti dalle condotte capziose e fraudolente dei finti venditori nelle piattaforme telematiche.
La fattispecie della c.d. truffa online, in particolare, nasce dall’incontro degli elementi costitutivi della fattispecie di truffa semplice, di cui all’art. 640 c.p., nell’ambito dei rapporti negoziali informatici. Giova, infatti, ricordare che il delitto di truffa è un c.d. reato in contratto, ovvero, una fattispecie criminosa che incrimina una condotta fraudolenta, caratterizzata da artifizi e raggiri, che precede la stipula di un contratto. In questo senso, il contratto non è altro che lo strumento attraverso il quale il soggetto agente persegue i propri intenti criminosi; esso è, in altri termini, il frutto degli artifizi e raggiri che hanno indotto in errore la persona offesa, portandola a stipulare un contratto non voluto.
Sul punto, inoltre, giova ricordare che la fattispecie delittuosa della truffa, si caratterizza come reato in contratto. Quest’ultima, in particolare, rappresenta una categoria delittuosa che ricomprende <<le fattispecie in cui il legislatore attribuisce rilevanza penale alla condotta tenuta dal soggetto nel procedimento di formazione del contratto o nella fase di esecuzione del programma negoziale. I reati in contratto, appartenenti alla categoria dei reati c.d. plurisoggettivi impropri, non coincidono, quindi, con la stipulazione del contratto in sé>>[2].
Pertanto, essendo un reato in contratto, ad assumere rilevanza penale non sarà la fattispecie negoziale stipulata, che potrebbe essere formalmente e contenutisticamente esente da vizi, ma la procedura prodromica alla formazione del contratto.
Nel caso in esame, il contratto concluso tra le parti è puramente telematico; così come il rapporto negoziale che precede la stipula e che si articola su un piano puramente digitale, è caratterizzato dalla presenza di artifizi e raggiri, ad opera del venditore telematico, volte ad indurre l’acquirente in errore e conseguire, così, un ingiusto profitto con altrui danno. Nel dettaglio, la pubblicazione sui siti e-commerce di un annuncio avente ad oggetto la messa in vendita di un prodotto che in realtà non si possiede, al solo fine di captare l’interesse dei potenziali acquirenti, integra gli artifizi e raggiri richiamati dall’art. 640 c.p. In quanto, la pubblicazione dell’annuncio di vendita, a fortiori se il prezzo del prodotto ivi indicato è notevolmente inferiore a quello di mercato, è in grado di alterare la percezione della realtà del potenziale acquirente, inducendolo ad approfittare dell’offerta apparentemente conveniente, pagandone il relativo prezzo.
Si ritiene, a questo punto, tautologico rilevare che il bene pubblicizzato e pagato dall’acquirente non verrà mai consegnato a quest’ultimo; dal momento che il bene potrebbe anche non essere mai stato nella disponibilità del venditore; oppure, potrebbe non essere mai stato spedito. In entrambi i casi, come confermato dalla prassi, il venditore si rende irreperibile. Dunque, sulla scorta delle considerazioni fin qui svolte, emerge che il reale disvalore penale delle condotte di truffa online si rinviene proprio all’interno di questa fase che antecede la conclusione del negozio telematico. Le condotte prodromiche rispetto al perfezionamento del contratto, in particolare, ledono i principali beni giuridici salvaguardati dalla norma in esame: patrimonio e autodeterminazione del contraente.
In relazione a quest’ultima osservazione, si ritiene opportuno richiamare alcune interessanti pronunce della Suprema Corte di Cassazione che, in relazione alla condotta truffaldina realizzata con modalità telematica, ha ritenuto integrata l’aggravante della minorata difesa di cui all’art. 61, comma 1, n. 5 c.p. In particolare, ad avviso dei giudici di legittimità, la fattispecie della truffa online deve considerarsi aggravata rispetto all’ipotesi semplice, dal momento che l’agente ha <<profittato di circostanze di tempo, di luogo o di persona, anche in riferimento all’età, tali da ostacolare la pubblica o privata difesa>>[3].
Si ritiene, infatti, sussistente l’aggravante di cui all’art. 640, c.2., n. 2 bis in relazione all’art. 61, comma 1, n.5 c.p., trattandosi di truffa commessa mediante la vendita di prodotti “on line”. In particolare, chiarisce la Suprema Corte: <<proprio la distanza tra il luogo di commissione del reato, ove l’agente si trova ed il luogo ove si trova l’acquirente del prodotto on line – che ne abbia pagato anticipatamente il prezzo, secondo quella che rappresenta la prassi di simili transazioni – è l’elemento che consente all’autore della truffa di porsi in una posizione di maggior favore rispetto alla vittima, di schermare la sua identità, di fuggire comodamente, di non sottoporre il prodotto venduto ad alcun efficace controllo preventivo da parte dell’acquirente; tutti vantaggi che non potrebbe sfruttare a suo favore, con altrettanta comodità, se la vendita avvenisse de visu>> pertanto <<la rilevata distanza tra i luoghi prima individuati… serve a connotare l’aggravante di cui si discute>>[4].
Sul punto si consideri, altresì, che con un’ulteriore pronuncia, i giudici di legittimità hanno evidenziato che: <<la distanza, connessa alle particolari modalità di vendita con utilizzo del sistema informatico o telematico, di cui l’agente consapevolmente si approfitta e cui si aggiunge di norma l’utilizzo di clausole contrattuali, che prevedono il pagamento anticipato del prezzo del bene venduto, configura l’aggravante in oggetto, che connota la condotta dell’agente quale elemento ulteriore, peculiare e meramente eventuale, rispetto agli artifizi e raggiri tipici della truffa semplice>>[5].
In altri termini, viste le peculiarità di questa modalità di acquisto telematica di beni, che mette in contatto persone sconosciute anche notevolmente distanti tra loro, in cui le regole civilistiche della proposta e dell’accettazione, ex art. 1326 ss. c.c., sono suscettibili di stravolgimento[6], si ritiene che questa distanza costituisca un decisivo punto di forza per il venditore. Peraltro, come accuratamente sottolineato nell’ultima pronuncia richiamata, nell’e-commerce le modalità di acquisto del prodotto prevedono che l’acquirente versi anticipatamente il prezzo, spesso tramite ricariche su carte prepagate[7] o bonifici bancari, rispetto alla spedizione.
Orbene, la presenza di tutte queste incognite negli acquisti, unita alla innegabile posizione di vantaggio del potenziale truffatore telematico, ha spinto una parte consolidata della giurisprudenza a sussumere nell’alveo della fattispecie di truffa aggravata ex art. 640, comma 2, n. 2bis c.p., anche la truffa online.
3. …e della frode informatica
Diversamente, invece, la fattispecie delittuosa della frode informatica ricorre allorquando taluno <<alterando in qualsiasi modo il funzionamento di un sistema informatico o telematico o intervenendo senza diritto con qualsiasi modalità su dati, informazioni o programmi contenuti in un sistema informatico o telematico o ad esso pertinenti, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno>>[8].
Quest’ultima ipotesi delittuosa, invero, è posta a salvaguardia non solo del bene giuridico “patrimonio”, ma anche della <<regolarità di funzionamento dei sistemi informatici e la riservatezza che deve accompagnarne l’utilizzazione, nonché, in parallelo con la truffa comune, la libertà negoziale del danneggiato>>[9]. La norma in esame, infatti, è stata introdotta allo scopo di preservare l’integrità e il buon funzionamento dei sistemi informatici, sempre più utilizzati nel mercato contemporaneo e, purtroppo, sempre più presi di mira da attacchi provenienti dai c.d. hacker.
Alla base di questa seconda fattispecie delittuosa, invero, si pone una condotta realizzabile attraverso precise modalità, essendo un reato a forma vincolata[10], teleologicamente rivolte ad alterare o intervenire “senza diritto” su un sistema informatico. È stato evidenziato, sul punto, che <<entrambe le modalità sono riconducibili alla alterazione, posto che l’intervento costituisce un’operazione necessariamente preparatoria ad influenzare il funzionamento della macchina>>[11].
Merita, altresì, osservare che la dottrina si è interrogata sul significato da attribuire all’espressione “senza diritto”, richiamata dalla norma in esame. Si potrebbe ritenere che quest’ultima, riferendosi alla totale assenza di qualsivoglia diritto che autorizzi l’agente a penetrare all’interno del sistema, rafforzi ulteriormente il disvalore della condotta. La dottrina, tuttavia, osserva che <<la locuzione che qualifica l’intervento “senza diritto”, cioè senza il consenso dell’avente diritto, si ritiene sostanzialmente pleonastica, in quanto implicita nello stesso carattere d’ingiustizia che connota il profitto[12]>>.
Ed invero, proprio l’intromissione nel sistema informatico rappresenta: da un lato l’elemento specializzante della fattispecie; dall’altro, il confine che segna il momento in cui il reato viene a consumarsi. In altri termini, come ha sottolineato la dottrina << l’intervento sul sistema in guisa da alterarne il funzionamento rispetto a quanto possibile sino al momento della condotta segna il momento consumativo del reato>>[13].
4. Il discrimen tra le due fattispecie
Chiariti, dunque, i presupposti e le peculiarità di ciascuna fattispecie, è ora possibile evidenziare le differenze che intercorrono tra le due, alla luce dei criteri offerti dalla giurisprudenza e dalla dottrina. In primo luogo, si sottolinea che entrambi i delitti hanno una identità di evento tipico, ovvero il procurare <<a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno>>[14], ciò in quanto il delitto di frode informatica segue il medesimo schema tipico della truffa comune, anche sotto il profilo sanzionatorio.
Nondimeno, questo punto di contatto sull’evento tipico non consente di sovrapporre entrambe le fattispecie, che restano sostanzialmente e processualmente diverse tra loro. In particolare, nel delitto di frode informatica, a differenza della truffa online, manca l’elemento dell’induzione in errore, dal momento che, nel delitto di cui all’art. 640ter c.p., la condotta ricade su un sistema informatico e non su un soggetto[15]. Nessuna macchina o sistema informatico, per quanto evoluto possa essere, può essere rapportato ad un uomo, quale essere pensante e senziente, suscettibile di essere indotto in errore.
La giurisprudenza, sul punto, ha chiarito che <<il reato di frode informatica si differenzia dal reato di truffa perché l’attività dell’agente investe non la persona (soggetto passivo), di cui difetta l’induzione in errore, bensì il sistema informatico di pertinenza della medesima, attraverso la manipolazione di detto sistema>>[16]. Dunque, il destinatario della condotta fraudolenta nel delitto di frode informatica è unicamente il sistema informatico, pur se pertinente ad una persona (fisica o giuridica), che viene alterato con svariate modalità[17], procurando così un danno ingiusto alla persona offesa[18]. Dunque, ad ulteriore conferma della differenza che intercorre tra i due delitti si pone, non solo la mancanza dell’induzione in errore; bensì, anche, un diverso destinatario della condotta: il sistema informatico o telematico.
Si aggiunge, altresì, che la fattispecie delittuosa delineata all’art. 640ter c.p. rientra tra i reati per i quali la competenza per le indagini, ai sensi dell’art. 51 c.p.p., spetta all’ufficio del Pubblico Ministero presso il tribunale del capoluogo del distretto nel cui ambito ha sede il giudice competente. In altri termini, in presenza di questa fattispecie, la competenza territoriale per lo svolgimento delle indagini[19] e per lo svolgimento del processo, spetta al giudice del tribunale del capoluogo ove ha sede la Corte d’Appello.
Pertanto, in deroga al principio che fissa la competenza in capo al giudice naturale, nel caso in esame l’organo giudicante chiamato ad esprimere il proprio giudizio sarà quello indicato nell’art. 51 c.p.p.
NOTE
[1] Cfr. A. Bonfanti, “Customer shopping experience. Le sfide del retail tra spazio fisico e digitale”, Giappichelli, XII ed., Torino, 2018
[2] R. Garofoli, “I nuovi MANUALI SUPERIORI diretti da G. ALPA e G. GAROFOLI – MANUALE DI DIRITTO PENALE PARTE GENERALE”, Nel Diritto Editore, ed. XV 2018/2019, Molfetta, 2018, p. 1279
[3] Art. 61, comma 1, n. 5 c.p.
[4] Cass., pen., Sez. II, 29/09/2016, n. 43705
[5] Cass., pen., Sez. VI, 10/4/2017, n. 17937
[6] Giova ricordare, infatti, che le regole civilistiche appena richiamate prevedono che la proposta sia revocabile, da parte del proponente, fino al momento in cui non perviene l’accettazione del destinatario della proposta. Tuttavia, essendo all’interno di un mercato informatico, dove la celerità dello scambio delle informazioni e delle notizie costituisce un punto di forza, spesso avviene che il proponente non possa materialmente revocare la propria proposta, stante l’accettazione quasi immediata del destinatario. Si evidenzia, peraltro, che per le medesime ragioni, spesso vi è una totale assenza di trattative da parte dei paciscenti sulle modalità e sul prezzo di acquisto. L’acquirente, infatti, si trova ad accettare hic et nunc, il prodotto cosi come prospettato nell’annuncio. Sul punto, si veda F. Gazzoni, “MANUALE DI DIRITTO PRIVATO”, Edizioni Scientifiche Italiane, Ed. XIX, Napoli, 2019
[7] Sul punto, occorre precisare che, in presenza di una truffa online caratterizzata da una ricarica su carta prepagata, muta radicalmente il luogo di consumazione del reato e, pertanto, l’organo giudicante territorialmente competente. La giurisprudenza, chiamata ad intervenire sulla questione, ha chiarito che: <<sono quelli in cui la persona offesa ha proceduto al versamento del denaro sulla carta, poiché tale operazione ha realizzato contestualmente sia l’effettivo conseguimento del profitto da parte dell’agente…sia la definitiva diminuzione patrimoniale in danno della vittima>> (Cass., pen., 24/01/2018, n. 3329)
[8] Art. 640ter, comma 1 c.p.
[9] R. Garafoli, “Compendio di Diritto Penale – Parte Speciale. Con il Coordinamento di Stefano Cavallini”, Nel Diritto Editore, Ed. 2017/2018, Molfetta, 2017, p. 631
[10] Cfr. R. Garofoli, op. cit., p. 632; nonché F. Mantovani, “Diritto Penale. Parte Speciale II: Delitti contro il patrimonio”, CEDAM, ed. VII, Padova, 2018, p. 232 ss.
[11] R. Garofoli, op. cit., p. 632
[12] Ibidem
[13] Ibidem
[14] Art. 640, comma 2, n. 2bis c.p.; art. 640ter, comma 1 c.p.
[15] Sul punto, si rinvia a: Cass., pen., Sez. II, 30/09/2015, n. 41777
[16] Cass., pen., Sez. III, 24/05/2012, n. 23798
[17] Sulla condotta del reato di frode informatica, in relazione al delitto di indebito utilizzo di carte di credito, si rinvia a Cass., pen., Sez.II, 13/10/2015 n.50140
[18] Per un’applicazione casistica della fattispecie in esame, si richiama a Cass., pen., Sez. IV, 13/09/2017, n. 41767 ove è possibile leggere che <<Integra il reato di frode informatica l’utilizzazione di sistemi di blocco od alterazione della comunicazione telematica tra apparecchi da gioco del tipo “slot-machine” e l’amministrazione finanziaria, trattandosi di alterazione dell’altrui sistema telematico, finalizzato all’indebito trattenimento della quota di imposta sulle giocate>>
[19] Nel caso in cui le indagini siano svolte dal pubblico ministero ove è avvenuto il fatto naturale, e non quello individuato dall’art. 51 c.p.p., sarà cura della pubblica accusa trasferire gli atti presso l’ufficio dell’organo inquirente competente ex art. 54 c.p.p. Qualora, invece, l’incompetenza si palesi nel corso del processo, stante il disposto di cui all’art. 21 c.p.p., si potrà eccepire in ogni stato e grado del processo, anche d’ufficio, la suddetta incompetenza dell’organo giudicante.
Pubblicato 11 June 2020 | by Ernesto Maletta | in Penale
FONTE: http://www.salvisjuribus.it/il-lato-oscuro-delle-commerce-e-i-nuovi-reati-digitali-dalla-truffa-online-alla-frode-informatica/
“La legge sull’omotransfobia è totalitaria e discriminatoria”
Pubblichiamo l’appello contro il disegno di legge Zan, primo firmatario Marcello Pera, sottoscritto da molti amici dell’Occidentale e rivolto a deputati e senatori (per questo non firmato da parlamentari in carica)
Introducendo il nuovo reato di “violenza e discriminazione per motivo di orientamento sessuale e identità di genere”, la proposta di legge Zan e altri, attualmente all’esame del Parlamento, produce, a catena, una serie di conseguenze perniciose. In primo luogo, (1) limita la libertà di espressione di coloro che hanno opinioni meditate contrarie a tali nozioni e comportamenti. Quindi, (2) censura convincimenti morali e religiosi in materia di etica sessuale. In tal modo, (3) trasforma in reati opinioni largamente diffuse nella nostra civiltà e cultura, in particolare quella biblica giudaico-cristiana del Dio che creò l’uomo e la donna. Oltre a ciò, poiché la fattispecie del nuovo reato è vaga, anziché essere ben definita, e generica, anziché essere precisamente determinata, come richiede il diritto penale, il disegno di legge (4) finisce con l’assegnare all’arbitrio personale del giudice un potere coercitivo illimitato, compreso l’uso di mezzi invasivi come le intercettazioni e le misure cautelari. Accade così che, con lo scopo di combattere le discriminazioni, la proposta di legge Zan e altri (5) introduce essa stessa una discriminazione di opinioni e viola il principio fondamentale della libertà di espressione del pensiero, che è proprio del nostro regime liberale e democratico. Il risultato finale è che, all’insegna della tutela della libertà della sfera privata di alcuni, si comprime la libertà della sfera pubblica di tutti.
Un recente manifesto di 150 intellettuali liberali e progressisti come essi stessi amano definirsi ha già denunciato che cosa significhi spingere oltre ogni limite ragionevole la libertà individuale. Neppur essi avevano immaginato ciò che pure era chiaro ai più, che si cominciava col censurare opinioni in nome del pluralismo e si finiva con la dittatura del pensiero morale unico che non tollera alcun pluralismo. Solo gli Stati totalitari pretendono di fissare la morale con la legge e di imporre la legge con la forza. Solo essi abbattono le statue, distruggono i monumenti, riscrivono i libri di storia, mettono il bavaglio alle coscienze. La proposta di legge Zan è totalitaria.
Persino negli anni delle controverse legge speciali contro il terrorismo, in Italia fu ipotizzato, e comunque mai fu stabilito, che opinioni giustificazioniste o di radicale contestazione di personaggi pubblici fossero sanzionate penalmente. È nostro orgoglio essere consapevoli che la libertà vale di più. Solo essa con i suoi strumenti tipici — il confronto delle idee, il dibattito delle opinioni, la ricerca scientifica, l’argomentazione, anche la contestazione — può sconfiggere gli intolleranti. Invece, l’intolleranza nel nome della tolleranza produce violenza e, essa sì, discriminazione. Chiediamo ai membri del Parlamento di meditare su questo punto cruciale: ciò che è all’esame della loro coscienza non è un pensierino buonista, bensì la permanenza di un pilastro della nostra democrazia.
Marcello Pera
Francesco Agnoli
Andrea Bollino
Eugenio Capozzi
Gaetano Cavalieri
Cesare Cavalleri
Ginevra Cerrina Feroni
Pietro De Marco
Mario Esposito
Francisco Fernandez
Dario Fertilio
Marco Gervasoni
Carlo Giovanardi
Francesco Giubilei
Riccardo Lucarelli
Alfredo Mantovano
Domenico Menorello
Assuntina Morresi
Corrado Ocone
Stefano Parisi
Angelo Maria Petroni
Aurelio Tomassetti
Eugenia Roccella
Maurizio Sacconi
Alessandro Sansoni
Giorgio Zauli
FONTE: https://loccidentale.it/la-legge-sullomofobia-e-totalitaria-e-discriminatoria/
IMMIGRAZIONI
Oltre 1600 migranti sbarcati a Lampedusa in 48 ore.
Piano operativo di controlli in mare antiterrorismo tra i governi italiano e tunisino
di Alessandra Ziniti – 3 NOVMEBRE 2020
Imprescindibili esigenze di sicurezza nazionale sui migranti irregolari che sbarcano in Italia, le ha definite il comitato cui hanno partecipato il viceministro Matteo Mauri, i vertici delle Forze di polizia e degli organismi di informazione di sicurezza, il Sottocapo di Stato maggiore della Difesa e il capo del Dipartimento amministrazione penitenziaria.
Il Comitato, anche alla luce della riunione del Comitato analisi strategica antiterrorismo svoltasi nella giornata di lunedì, ha aggiornato il monitoraggio degli obiettivi sensibili, l’intensificazione dei controlli ai valichi di frontiera anche con l’impiego dei militari dell’Esercito.
Non sono giorni come gli altri. I 1600 sbarchi di migranti a Lampedusa nelle ultime 48 ore e le cinque barche con altre 300 persone che chiedono aiuto a poche decine di miglia dall’isola preoccupano non poco il Viminale dove la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese ha convocato per le 13 il Comitato nazionale ordine e sicurezza per valutare l’innalzamento dello stato di allerta attorno agli obiettivi sensibili in Italia dopo gli attentati di Nizza e Vienna.
Un clima di rialzata tensione in cui l’incrementarsi repentino dei flussi migratori provenienti dalla Tunisia crea particolare allarme. Da Lampedusa, come è noto, è arrivato in Italia un mese e mezzo fa il tunisino che ha ucciso tre persone nella chiesa di Notre Dame a Nizza. E con lui era un altro tunisino che è stato arrestato. Passati dai controlli della polizia italiana e lasciati andare con un foglio di via perché i loro nomi erano assolutamente sconosciuti all’intelligence e non segnalati dalle autorità tunisine.
Foglio di via che oggi dovrebbe, secondo la stessa prassi, lasciare liberi una settantina di migranti sbarcati a Palermo dalla nave Rhapsody alla fine del periodo di quarantena mentre la stessa nave verrà subito reindirizzata a Lampedusa dove l’hotspot è di nuovo in sofferenza. Sovraffollato di quasi mille immigrati sbarcati nelle ultime ore in una sequela di arrivi che non si vedeva così da mesi, proprio da quel 20 settembre in cui sbarcò a Lampedusa Brahim Aouissaui.
Un’altra notte di sbarchi
È stata una notte di sbarchi l’ultima a Lampedusa dove si sono registrati, da dopo la mezzanotte, nove approdi. Complessivamente sono stati 287 migranti arrivati. La prima imbarcazione è arrivata al molo Madonnina poco prima della mezzanotte. A soccorrerla, a due miglia e mezzo da Lampedusa, una motovedetta della Capitaneria di porto. A bordo c’erano 78 persone di varie nazionalità. Un’ora dopo è arrivato, soccorso a 7 miglia dal porto dalla Guardia costiera, un barchino con 15 tunisini. Prima delle 2,30, una motovedetta della Guardia di finanza aveva intercettato a 4 miglia dalla costa un natante con a bordo 14 tunisini fra cui un minorenne.
I carabinieri di Lampedusa, nel frattempo, rintracciavano – vicino al molo Madonnina – 16 tunisini, compreso un minorenne. L’imbarcazione utilizzata per la traversata in questo caso non è stata trovata. Alle 4 sono giunti 64 tunisini che erano a bordo di un’imbarcazione alla deriva e pochi minuti dopo altri sei loro connazionali tunisini che erano stati trasbordati dai soccorritori. All’alba, una motovedetta della Guardia di finanza ha sbarcato a molo Favarolo 94 immigrati di diversa nazionalità. Erano stati soccorsi a 3 miglia a Sud di Lampedusa mentre si trovavano su un’imbarcazione di circa 10 metri che è stata sequestrata.
L’appello di Alarm Phone
E altre cinque imbarcazioni, secondo il centralino di soccorso Alarm Phone, viaggiano verso l’isola in difficoltà. A bordo ci sarebbero 364 migranti. Su una barca, secondo quanto riferisce Alarm Phone, ci sarebbero 80 persone e su altre due imbarcazioni 87 e 65 migranti “con cui abbiamo perso i contatti”.
Su un altro natante ci sarebbero 67 persone “che hanno perso l’orientamento” e su un’altra “65 persone alla deriva”. “Guardia Costiera, soccorrete ora!”.
E Carola accusa l’Europa
Appello rilanciato sui social da Carola Rackete. La ex capitana della Sea Watch accusa l’Europa: ” La Ue – scrive su Twitter – abbandona ogni missione di soccorso in mare e blocca tutte le navi umanitarie in porto”.
Lampedusa ora è fuori controllo In pochi giorni sbarcati in 1500
Considerando anche i migranti in difficoltà attorno all’isola, sono 1.434 le persone indirizzate dai trafficanti di esseri umani verso Lampedusa negli ultimi giorni: numeri record che rischiano di creare allarme nella più grande delle Pelagie
Si continua a partire dalle coste nordafricane e Lampedusa è sempre più in emergenza. Questo mese di novembre per gli abitanti dell’isola sta riservando la brutta sorpresa di assistere a flussi migratori paragonabili a quelli visti in estate.
Gli allarmi di Alarm Phone
Nelle ultime ore sarebbero almeno cinque i barconi prossimi ad avvicinarsi alla più grande delle Pelagie. A segnalarlo sul proprio canale Twitter è il network Alarm Phone, il quale ha raccolto le allerte lanciate direttamente dai mezzi in avaria. In un barcone sono presenti 80 migranti, poco più distante stanno viaggiando assieme verso Lampedusa altre due piccole imbarcazioni con 87 e 65 persone a bordo.
Un’altra barca sarebbe entrata da poco in acque di competenza italiane, dopo essere rimasta a lungo in quelle maltesi, con 67 persone segnalate da Alarm Phone alla deriva in quanto avrebbero perso l’orientamento. Infine, poco più distante, è stato individuato un gommone con 65 migranti. In totale sono 364 le persone che a breve potrebbero raggiungere le coste italiane.
E a Lampedusa si temono nuove crisi innescate dai prossimi sbarchi. È probabile infatti che tutti i migranti in questione verranno fatti approdare sull’isola.
Più di mille i migranti sbarcati nelle ultime ore
Se tutte e cinque le imbarcazioni arriveranno a Lampedusa, allora il totale degli sbarchi da domenica ad oggi sarà di 27. Ieri sono stati contati infatti 15 barconi sbarcati, di cui 3 in modo autonomo e 12 trainati dalle motovedette di Guardia Costiera e Guardia di Finanza. Gli ultimi 3 sono arrivati lunedì mattina, gli altri 12 invece nel cuore della notte tra domenica e lunedì.
Complessivamente sono stati 870 i migranti sbarcati: 670 nella notte e 200 con i mezzi arrivati con la luce del mattino. A questi vanno aggiunti poi i barconi entrati nel porto di Lampedusa nella giornata di domenica. Grazie alle condizioni favorevoli del mare, sono infatti stati 7 i mezzi che hanno portato sull’isola complessivamente 400 persone. La somma quindi degli sbarchi delle ultime 48 ore ha portato a un totale di 1.070 migranti arrivati in territorio italiano.
Se i 364 presenti nei cinque barconi in prossimità di Lampedusa dovessero sbarcare a breve, il numero complessivo di migranti che hanno messo piede sulle Pelagie salirà quindi a 1.434. Una cifra importante per il mese di novembre, dove tradizionalmente i flussi migratori iniziano a scemare.
Emergenza nell’hotspot
Il locale centro di accoglienza di contrada Imbriacola può ospitare un massimo di un centinaio di migranti, ben si comprende quindi la situazione molto grave attualmente in corso nella struttura. La pressione migratoria sta mettendo nuovamente in difficoltà sia l’hotspot che Lampedusa in generale, con gli abitanti preoccupati anche dai risvolti sanitari legati al coronavirus.
Ieri 129 migranti sono stati fatti salire a bordo della nave Suprema, una di quelle usate per la quarantena di chi sbarca. Altri potrebbero seguirli nelle prossime ore, il problema però è che il continuo flusso di migranti sta generando una corsa contro il tempo difficile da gestire per trovare posti disponibili all’accoglienza.
FONTE: https://www.ilgiornale.it/news/cronache/cinque-barconi-364-migranti-largo-lampedusa-sempre-pi-1900772.html
Clandestini: sbarchi quadruplicati nel 2020
I dati sui flussi illegali via mare relativi al solo 2020 sono allarmanti e al tempo stesso disarmanti perché mostrano il rapido disfacimento dello Stato italiano di fronte a un’immigrazione illegale che, pur con l’aggravante dell’emergenza Covid, non raggiunge per ora numeri paragonabili a quelli degli anni dei governi a guida PD.
Dall’inizio dell’anno al 30 agosto sono sbarcati 19.194 clandestini contro i 5.135 dello stesso periodo del 2019, quindi quasi il quadruplo: solo tra il 26 e il 30 agosto ne sono sbarcati 1.500. da navi delle Ong, velieri, barchini e barconi.
Tra i clandestini giunti in Italia quest’anno via mare vi sono per lo più tunisini (7.885), bengalesi (3.041), ivoriani (911), algerini (858), pakistani (667), sudanesi (643) e marocchini (569).
Migranti economici illegali che non fuggono da guerre o carestie e che non avrebbero diritto a nessun trattamento diverso dal respingimento o dall’espulsione immediata.
Invece vengono tutti accolti e ci va ancora bene, finché dura, perché la Guardia Costiera libica, che ha inizio agosto ha ricevuto da Roma altre 4 motovedette appartenute alla Guardia di Finanza (2 unità navali da 27 metri, classe Corrubia e 2 vedette veloci V5000) ha reso noto il 24 agosto di aver bloccato dall’inizio dell’anno oltre 7.500 clandestini diretti a Malta e in Italia.
Flussi che hanno visto un’ampia presenza di persone positive al Covid-19 (in Sicilia il 13 agosto su 562 positivi al coronavirus il 40% erano migranti illegali) e sbarchi che, per questa ragione soprattutto, sono stati condannati, ma solo a parole, da diversi esponenti del governo e delle istituzioni.
Il ministro dell’Interno, Lamorgese, il 29 luglio aveva definito gli sbarchi a Lampedusa “inaccettabili” ma da allora sono sbarcati più di 6.661 clandestini.
Da quando Conte ha detto il 5 agosto che sull’immigrazione illegale “saremo duri e inflessibili” ne sono sbarcati oltre 4.362.
Il 12 agosto anche il Capo della Polizia, Franco Gabrielli, ha detto pubblicamente che “le persone che non sono legittimamente nel nostro Paese, e a maggior ragione quelle che delinquono, devono tornare nel loro Paese” ma da quel giorno sono stati rimpatriati solo poche decine di tunisini mentre sono sbarcati e sono stati accolti altri 4mila clandestini.
Il 29 agosto dopo che tre nigeriani hanno devastato l’ospedale militare romano del Celio aggredendo il personale in uniforme il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, ha parlato di un un fatto “grave e inammissibile”. Nessuno però ha cacciati i clandestini dalla struttura militare, quindi situazioni simili potrebbero verificarsi di nuovo anche domani.
Tutte parole pronunciate e riprese dai media ma che nessuno nel governo sembra determinato a dare seguire con fatti concreti. Anzi, Lamorgese ha annunciato a Ferragosto che anche le caserme, compresi gli spazi aperti, potrebbero essere utilizzate per accogliere i migranti e ieri ha noleggiato altre tre navi quarantena (per un costo di milioni di euro) per i clandestini sbarcati a Lampedusa.
Oltre alle due navi attualmente utilizzate, dove “abbiamo reparti Covid, stiamo cercando dei luoghi temporanei, fino al 15 ottobre, data termine per l’emergenza, che possono essere anche caserme, da utilizzare. Attrezzeremo anche le parti esterne con moduli abitativi per consentire i 14 giorni di quarantena”.
Più recentemente le navi quarantena noleggiate dallo Stato sono salite a tre e in un’intervista a Repubblica pochi giorni fa il ministro Lamorgese ha affermato che ci sarà un “autunno caldo” per gli sbarchi: quindi o questi flussi sono diventati ora “accettabili” oppure il ministro si contraddice.
Con annunci simili i flussi “inaccettabili” vengono in realtà ulteriormente incoraggiati e in effetti la “ferrea determinazione” espressa dai nostri vertici istituzionali contro l’immigrazione illegale non sembra aver impressionato molto trafficanti, clandestini, scafisti e Ong.
La Tunisia, che ci prende in giro da anni facendo periodicamente aumentare i flussi migratori illegali per chiedere nuovi aiuti economici e in seguito replicare lo stesso schema mentre anche i trafficanti sono attenti agli equilibri politici interni all’Italia e ai relativi mutamenti.
Di fronte a continue fughe dai centri di quarantena e aggressioni alle forze di polizia (che confermano come stiamo accogliendo in buona parte delinquenti e balordi che non contribuiranno allo sviluppo dell’Italia né a pagarci le pensioni) non regge neppure la scusante umanitaria, da sempre “asso nella manica” del fronte immigrazionista che raccoglie tanti adepti dalle sedi di alcuni partiti ai centri sociali, dalle case del popolo agli oratori.
L’Italia del resto non ha mai fatto una vera politica di accoglienza umanitaria, che è un atto che si compie verso un popolo in stato di necessità ma dal 2013 ha accolto oltre 750 mila immigrati clandestini che avevano in comune un’unica caratteristica: aver pagato organizzazioni criminali per raggiungere l’Italia.
Evidentemente non c’è nulla di umanitario nell’arricchire trafficanti senza scrupoli e il carrozzone italico che riunisce la lobby dei soccorsi (le navi delle Ong) e dell’accoglienza, per lo più enti, coop e associazioni cattoliche e di sinistra.
Occorre poi comprendere che ciò che i nostri leader dicono e fanno ha un impatto che va ben oltre i confini nazionali.
I vertici del governo italiano trattano la politica estera e migratoria guardando esclusivamente agli equilibri interni alla maggioranza. Ogni annuncio sembra rivolgersi a una corrente dei 5 Stelle o del Pd ma ha un impatto ben più ampio sui nostri interlocutori e avversari. L’errore non è politico, è strategico e lede gli interessi nazionali.
Anche nel Nord-Est la situazione non sembra migliorare con decine di clandestini pachistani e afghani che entrano quasi ogni giorno dal confine con la Slovenia.
Terminati i periodi di quarantena dopo gli sbarchi effettuati in Italia in luglio, anche le navi delle Ong hanno ripreso a sbarcare clandestini in Italia e solo in Italia. che spalanca i porti a tutti in barba ai decreti Sicurezza di Matteo Salvini che molti nel governo attuale vorrebbero abrogare ma che l’esecutivo si limita per ora a non applicare.
Non viene applicato neppure il decreto del 7 aprile firmato da quattro ministri dell’attuale governo e legato al permanere dell’emergenza Covid che è stata rinnovata fino a ottobre e che dispone, causa Covid, che i nostri porti restino chiusi alle Ong e alle navi che vogliano sbarcare in Italia persone soccorse fuori dalle aree Sar (Search and rescue) di competenza italiana.
In base a quel decreto dell’attuale governo nessuna nave delle Ong avrebbe dovuto avere il permesso di sbarco. Invece già ad aprile, una settimana dopo l’emanazione del decreto, le navi delle Ong, che battono per lo più bandiera tedesca o di paesi del nord Europa, entrano ed escono tranquillamente dalle nostre acque e hanno ripreso tranquillamente a sbarcare clandestini.
Una situazione che si presta a molte interpretazioni inclusa quella più maliziosa secondo la quale per ottenere dalla Ue le condizioni richieste per il Recovery Fund (come già successo in passato secondo le note dichiarazioni dell’ex ministro degli Esteri Emma Bonino), il governo di Roma abbia accettato che quelli italiani siano gli unici “porti sicuri” per lo sbarco dei migranti illegali.
Rinunciando a difendere i confini e con essi la sicurezza anche sanitaria dei cittadini e ogni forma concreta di sovranità nazionale, il governo Conte 2 ha perso qualsiasi credibilità. Anche perché mettendo a confronto le dichiarazioni dei vertici governativi e istituzionali sopra riportate, tutte di condanna agli sbarchi dei clandestini, con “l’invasione” in atto e l’accoglienza assicurata a tutti le considerazioni possibili sono solo due: o il governo e i suoi esponenti mentono spudoratamente rilasciando dichiarazioni contrarie ai loro reali proponimenti.
Oppure il governo italiano non ha la capacità, l’autorità e soprattutto non detiene la sovranità necessaria per concretizzare ciò che afferma, per chiudere porti e confini ai clandestini (neppure in condizioni di emergenza sanitaria), per contrastare il crimine internazionale che gestisce i flussi e per opporsi alle potenti lobby delle Ong internazionali e delle organizzazioni politiche e religiose italiane che rappresentano peraltro parte consistente dell’elettorato delle forze che sostengono l’attuale esecutivo.
Il rapporto di Ferragosto del Viminale
Venendo ai dati su base annua resi noti a metà agosto si è registrata una forte crescita degli arrivi in Italia di migranti illegali dalle coste nordafricane: erano sbarcati 21.618 tra il ‘1° agosto 2019 ed il 31 luglio 2020 contro gli 8.691 del periodo 1°agosto 2018-31 luglio 2019 (+148,7%).
In aumento anche i minori non accompagnati sbarcati, ben 2.886 (+157,9%) anche se, come è noto, si tratta in molti casi di minorenni autodichiaratisi tali per sfuggire ai rimpatri.
Questi i dati diffusi dal Viminale in occasione della tradizionale conferenza stampa di Ferragosto del ministro dell’Interno, Luciana Lamorgese (qui il dossier completo). Un bilancio che inevitabilmente si presta a valutazioni politiche poiché il periodo di riferimento agosto 2018-luglio 2019 coincide con il governo giallo-verde, quando al Viminale sedeva Matteo Salvini, a confronto con il primo anno di Governo Conte 2.
I dati diffusi tengono conto solo degli ingressi illegali via mare e non dei flussi clandestini che penetrano in Italia dal confine sloveno (per lo più afghani, pakistani, bengalesi e iracheni).
La maggioranza dei migranti sono arrivati con sbarchi autonomi (16.347), mentre quelli soccorsi nell’Area SAR (Ricerca e Soccorso) italiana sono stati 5.271 (4.066 recuperati da navi ong). Tunisia (8.984) e Libia (8.746) i principali Paesi di partenza e poi Turchia Albania Grecia ed Egitto.
Tunisina (34,3%) e bengalese (11,9%) le nazionalità più numerose tra gli sbarcati, seguono Costa d’Avorio, Algeria, Pakistan, Iraq, Sudan, Marocco e Somalia.
Dal 5 settembre 2019 al 31 luglio 2020 sono stati invece 622 i richiedenti asilo ricollocati in altri paesi europei contro 233 dell’anno precedente, + 167 per cento rispetto all’anno precedente.
Crollo verticale dei rimpatri invece, complice anche il confinamento imposto dal Covid, scesi da 6.862 a 4.408 (meno 35,8%) mentre sono aumentati da 17.531 a 23.226 gli stranieri espulsi o respinti (più 32,5%) anche se all’interno di questo dato positivo si registra un calo degli stranieri respinti alla frontiera, scesi da 9.203 a 6.613 anche a causa dell’emergenza Covid.
Infine, i migranti giunti illegalmente in Italia e inseriti nel circuito dell’accoglienza sono 86.330, in calo del 17% rispetto allo scorso anno.
Nel rapporto del Viminale manca il dato sui cosiddetti “dublinanti”, clandestini sbarcati in Italia ma poi stabilitisi in altri Stati della Ue, per lo più Francia e Germania che in base agli accordi di Dublino vengono riportati in Italia.
Col precedente governo i flussi di rientro dai paesi Ue erano stati bloccati ma sono ripresi col Governo Conte 2: dal settembre 2019 i “dublinanti” riportati in Italia sarebbero circa 3 mila, di cui un migliaio nel 2020 (895 tra gennaio e febbraio e 39 dopo l’emergenza Covid riferiva un comunicato del Viminale).
FONTE: https://www.analisidifesa.it/2020/08/immigtazione-illegale-clandestini-quadruplicati-nel-2020/
LAVORO PENSIONI DIRITTI SOCIALI
Borghi: «Tutti i Diritti Costituzionali sono importanti, il lavoro prima di tutto»
Il presidente del Consiglio parla di “Diritto costituzionale alla salute”. Però questo non è il solo diritto costituzionale, ce ne sono ben altri, come il diritto al lavoro, che è fondante nella costituzione “L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro”, come il diritto alla democrazia “La sovranità appartiene al popolo”.
Se il presidente del Consiglio vuole concertarsi e confrontarsi con le opposizioni non c’è altro luogo che il parlamento: prima il CTS informa le commissioni sanità dei risultati, quindi il parlamento vota una mozione di indirizzo, quindi il governo agisce per Decreto legge, non per DPCM, rispondendo quindi alla camere per la sia approvazione. Perchè è ora di finirla con le stranezze giuridiche, con gli stati d’emergenza che non esistono, ma deve iniziare a rispettare Costituzione e democrazia.
Ringraziamo Inriverente per l’appoggio tecnico
VIDEO QUI: https://youtu.be/wJwe0WrRPls
FONTE: https://scenarieconomici.it/borghi-tutti-i-diritti-costituzionali-sono-importanti-il-lavoro-prima-di-tutto/
PANORAMA INTERNAZIONALE
POLITICA
Toti è il volto del capitale. Basta falsi moralismi
di Paolo Desogus*
Le parole di Toti sono miserabili e vanno condannate, non c’è dubbio. Ma al di là di questo poveraccio della politica e del suo vergognoso tweet, mi pare importante sottolineare che l’ideologia da cui nascono quelle considerazioni sulla vita degli anziani al tempo del Covid è condivisa anche da molte anime oggi scandalizzate. Toti non ha fatto altro che affermare che nel nostro mondo vale solo ciò che concorre a produrre ricchezza. Il resto è inutile.
Da questo punto di vista Toti non è diverso da molti altri. L’idea che debba essere sostenuto solo ciò che è produttivo ha plasmato l’intero immaginario politico: è il metro dei programmi dei principali partiti italiani con il quale è stato giustificato il taglio alla cultura, alla sanità, alla scuola, ai servizi. Persino il taglio dei parlamentari, votato vergognosamente dal più di due terzi dei elettori, è figlio di questa ideologia che misura tutto col metro della ricchezza.
Toti non ha allora fatto altro che levare l’ultimo velo ipocrita del capitale, il quale ha del resto da sempre cercato di mercificare la vita umana. L’idea di un capitalismo buono e governabile è solo una sciocca illusione. Poche balle allora: chi si indigna per le sue parole dovrebbe uscire dalla semplice dimensione moralistica e dire una volta per tutte che l’economia di mercato e la sua ideologia sono disumane.
*Professore alla Sorbona di Parigi
FONTE: https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-Toti_%C3%A8_Il_Volto_Del_Capitale_Basta_Falsi_Moralismi/33397_38025/
Corby e la tirannia della correttezza
Gilad Atzmon
gilad.online
Il regista liberale Michael Moore, che nel 2016 aveva predetto la vittoria elettorale di Donald Trump, sta nuovamente interferendo con le celebrazioni anticipate per la vittoria di Biden.
Ieri, a cinque giorni dalle elezioni, Moore ha lanciato l’allarme, mettendo in guardia sul fatto che i sondaggi che mostrano Biden in netto vantaggio su Trump potrebbero non essere veritieri.
In un’intervista televisiva Moore ha detto: “Il voto in favore di Trump è sempre stato sottostimato. I sondaggisti, quando intervistano un elettore di Trump, [non sanno che] l’elettore di Trump è molto sospettoso e ha paura che lo ‘Stato Profondo’ lo chiami e gli chieda per chi avrà intenzione di votare.”
Moore è sconvolto dalla prospettiva che Trump possa continuare a risiedere allo stesso indirizzo per altri quattro anni, ma questo non inficia la validità della sua osservazione. In questo particolare mondo, un’ampia percentuale di Americani è riluttante ad ammettere il proprio sostegno al presidente eletto. Questo non è solo un fenomeno americano. Molti Britannici non ammetteranno mai di aver votato la Brexit anche se, probabilmente, voterebbero di nuovo per la Brexit.
Molti Britannici non ammetterebbero di aver sostenuto i conservatori, ma, al momento del voto, avevano assestato al Partito Laburista la più grande batosta della sua storia elettorale. La stessa cosa è avvenuta nelle recenti elezioni israeliane. Netanyahu ha avuto un risultato elettorale assai migliore delle previsioni dei sondaggisti. La spiegazione in Israele è stata che i suoi elettori non avevano detto la verità ai sondaggisti.
La storia ci offre innumerevoli esempi in cui le masse avevano fatto finta di sostenere il regime, il partito al potere o un tiranno. Quello che vediamo attualmente in Occidente è l’opposto. Un ampio settore del pubblico è, in realtà, timoroso dell’opposizione, di quelli che sono impegnati a “liberarli” dai loro governanti “criptofascisti” in nome dei “valori liberali” e della “libertà.”
Gli Americani non hanno paura di Trump, del suo partito, dei servizi di intelligence, della NSA, dell’FBI o della CIA. In realtà, temono i social media multinazionali “progressisti” e i loro “standard comunitari.” Negli Stati Uniti, la maggior parte dei media mainstream non esita a schierarsi in modo unilaterale e a nascondere in maniera spudorata le notizie che potrebbero creare un’impressione negativa dello sfidante alla presidenza. È ancora più preoccupante il fatto che molti Americani sembrino avere paura dell’opposizione e dei poteri che essa ha su di loro. Questo suggerisce che l’America non è nemmeno lontanamente una nazione libera. In America, come in Gran Bretagna, l’opposizione si è trasformata in una forza oscurantista e autoritaria.
Cosa c’è al centro di questo cambiamento autoritario? La cosiddetta Sinistra, i “liberali” e i “progressisti” sono ormai totalmente distaccati da quei fondamentali valori culturali e politici che avevano fatto della Sinistra un fenomeno significativo. Il livello di estraneità è così grave che la maggior parte della Sinistra, dei progressisti e dei liberali non ricorda nemmeno quali siano questi valori. La cosiddetta Sinistra non è riuscita ad adattarsi alla nuova realtà. Cercano evidentemente il potere politico, ma non sono in grado di fornire un progetto in grado di rendere il mondo un posto anche solo leggermente migliore. Non bisogna essere dei geni per capire quanto sia disfunzionale l’operato di Trump, perché è altrettanto facile trovare comico il gabinetto di Boris Johnson. Cosa offre invece l’opposizione? Avrei voluto dire “non molto,” ma, in realtà, la risposta è “assolutamente nulla.”
L’umiliante caduta di Jeremy Corbyn è probabilmente il segnale più chiaro dell’evaporazione della politica di sinistra e progressista su entrambe le sponde dell’Atlantico. Quando Corbyn era stato eletto alla guida del Partito Laburista, nel settembre 2015, era considerato l’icona ideologica e incorruttibile della Sinistra, un uomo che aveva sostenuto gli oppressi durante tutta la sua carriera politica; anche quelli che non lo sostenevano erano d’accordo sul fatto che Corbyn fosse il primo degli anti razzisti. A pochi giorni dalla sua nomina a candidato laburista per la carica di Primo Ministro, Corbyn aveva tutte le caratteristiche di una rock star. Milioni di giovani inglesi e altri in tutto il mondo lo consideravano un eroe della giustizia e si erano offerti di fargli da avanguardia nella sua battaglia per la giustizia e contro l’austerità.
Ieri, lo stesso Corbyn ha subito l’ultimo, umiliante colpo. È stato sospeso da quello stesso partito che aveva guidato fino a pochi mesi prima. Cos’era successo tra il 2015 e il 2020?
Appena Corbyn aveva assunto la guida del Partito Labusta, sia lui che il suo partito erano stati soggetti a continui attacchi da parte della lobby israeliana e delle istituzioni ebraiche britanniche. Uno dopo l’altro, tutti i più stretti alleati di Corbyn erano stati presi di mira. Corbyn non aveva difeso nessuno di loro o, se lo aveva fatto, lo aveva fatto in modo da nascondere il proprio intervento. Migliaia di membri laburisti erano stati sospesi ed espulsi dal partito per aver criticato Israele, la sua lobby o per aver fatto notare qualche caratteristica eccezionalista della cultura politica ebraica. Per tutta la durata della caccia alle streghe, Corbyn è sempre rimasto in silenzio. E, quando si è trattato di politica, Corbyn non è riuscito a prendere una posizione ferma sulla Brexit o su una qualsiasi altra questione. Corbyn ha impiegato solo quattro anni per sprecare l’enorme sostegno che aveva avuto all’inizio e per trasformare il suo partito in una tragicommedia. In quei quattro anni, il Partito Laburista britannico ha utilizzato ogni possibile metodo autoritario. Ha molestato e raccolto informazioni private sui suoi membri, ha persino spiato gli account dei propri tesserati sui social media. Ha operato di concerto con la polizia e la lobby israeliana contro i suoi stessi uomini. Per tutto il tempo in cui Corbyn è rimasto leader del partito, non una volta ha agito da leader e si è alzato in piedi per porre fine a tutta questa follia.
Ieri Corbyn è stato sospeso a seguito della sua reazione ad un verdetto della Commissione per l’Uguaglianza e i Diritti Umani (EHRC), secondo cui il Partito Laburista avrebbe violato la normativa sulla gestione delle denunce di antisemitismo durante il periodo in cui era in carica lo stesso Corbyn.
Nessuno sulla perfida stampa britannica ha osato parlarne, ma il significato di questa sospensione è che neanche un ex leader del Partito Laburista, che lo scorso dicembre era addiritttura candidato alla carica di Primo Ministro, è autorizzato ad esprimere le proprie opinioni personali. Tutto ciò che gli è consentito di fare è seguire il copione. Chiaramente, non sono solo le masse ad essere terrorizzate dalla tirannia della correttezza, anche il Partito Laburista e la sua leadership sono soggetti alle proscrizioni più autoritarie. L’ordine è quello di seguire il copione. L’unica domanda da fare è: chi scrive la sceneggiatura e chi la traduce in inglese?
Ma l’assurdità è ancora maggiore. L’EHRC era stato istituito dal governo laburista nel 2007. Il suo compito non ufficiale era quello di combattere il razzismo della Destra, nel tentativo di mettere i bastoni tra le ruote al Fronte Nazionale Britannico. Fin dagli esordi, l’EHRC era stato progettato per controllare il pensiero e la parola. Guardando Corbyn e il danno che il Partito Laburista si è autoinflitto, possiamo solo dire che tutti i nodi sono venuti al pettine. Il Partito Laburista è stato sconfitto dallo stesso apparato dittatoriale che aveva inventato per vigilare sui propri nemici politici.
Non sappiamo ancora chi vincerà le elezioni presidenziali statunitensi. Ma, anche se vincerà Biden, è impossibile negare il fatto che, in pratica, un elettore americano su due crede che Trump sia l’uomo migliore per guidare il paese. Lo stesso vale per la Gran Bretagna: anche se i Laburisti avessero vinto le ultime elezioni, un Inglese su due sarebbe stato del parere che la Brexit era la strada giusta.
Credo che se c’è rimasto qualcosa dello spirito ateniese e dell’etica cristiana che avevano reso l’Occidente una civiltà preziosa e ispiratrice è il fatto che dobbiamo ‘amare il nostro prossimo’. Nel 2020 amare il prossimo significa accettare di non essere d’accordo e cercare di vedere l’essere umano e l’umanità l’uno nell’altro. Amare il prossimo è cercare ciò che ci unisce e resistere con fermezza a quelli che vorrebbero dividerci in segmenti identitari e biologici, separati da sesso, colore della pelle, orientamento sessuale ecc. Amare il prossimo nel 2020 è cercare l’armonia.
La Sinistra, nella sua forma autoritaria attuale, non può guidarci verso questo obiettivo. È una zona occupata. La Sinistra ha bisogno di un reset, ha bisogno di approfondire la sua origine metafisica, in quell’istinto unificante che è anche universale. Corbyn era una star quando la gente credeva che a lui importassero veramente i “molti” e non i “pochi.” Si è dissolto politicamente quando i molti hanno capito che lui e il suo partito erano solo burattini manovrati dai veramente pochi.
Gilad Atzmon
Fonte: gilad.online
Link: https://gilad.online/writings/2020/10/30/corbyn-and-the-tyranny-of-correctness
30.10.2020
Scelto e tradotto da Markus per comedonchisciotte.org
FONTE: https://comedonchisciotte.org/corby-e-la-tirannia-della-correttezza/
SCIENZE TECNOLOGIE
di Zory Petzova, ComeDonChisciotte.org
La Pandemia è la nuova Ideologia dominante, che ha prepotentemente annullato dal discorso pubblico ogni altra categoria del sapere, ogni confronto, tema o sentimento che non abbiano qualcosa da dire sulla sua emergenza. Non importa se in chiave confermativa o sottrattiva, perché quello che si evince è il monopolio del discorso, che per riflesso diventa ordinatore sociale, criterio della ragione pratica, anche quando non ha nulla a che vedere con la ragione critica.
La semiotica della pandemia si configura nella triade dei nuovi simboli-feticcio che rischiano di penetrare e di imprimersi nella memoria dell’inconscio collettivo per generazioni a venire, determinando un nuovo linguaggio e una nuova antropologia, e facendo sbiadire contenuti essenziali non più funzionali e cogenti alla ‘nuova normalità’. La triade è composta dal tampone come mezzo diagnostico del tutto inidoneo e inaffidabile, dalla mascherina falsamente protettiva e dannosa per la salute, e dal vaccino inutile e pericoloso: una relazione a tre fra lo pseudoscientifico, il superstizioso e l’esoterico di ultima generazione. D’altronde, una ideologia per imporsi non deve convincere gli adepti con prove e argomentazioni scientifiche, bensì deve saper adoperare i meccanismi del condizionamento secondario, quello sperimentato da Pavlov, con la giusta dose di dogmatismo e di suggestione al contempo – quel inestricabile miscuglio fra vero, vago e fraudolento.
Se la mascherina è l’attributo omologato che copre la parte con cui ci presentiamo e comunichiamo con il mondo, cioè il viso, imposta dalle autorità ma benaccetta dalle maggioranze spaventate, bisogna chiedersi se in effetti non fosse l’incoronazione meritata di una evoluzione anomala, durata centinaia di migliaia di anni per giungere a questa deriva, e se tale processo avesse potuto andare diversamente. Un’evoluzione declinata verso una sempre crescente fragilità psico-fisica della specie, verso una ‘psicotizzazione’ della paura egoica, degenerata in auto-asfissia, privazione d’aria, separazione dal mondo, autolesionismo cerebrale.
Vediamo alcuni punti rilevanti della sperimentazione scientifica sulla mascherina come presidio medico, ossia quello a cui è preposta come obbligatoria nell’attuale contesto pandemico, trama sperimentale non certo priva di contraddizioni e di dettagli che pochi conoscono, un oscuramento di conoscenza che si iscrive senz’altro alle logiche di una medicina modificabile secondo interessi corporativi, di cui è sufficiente ricordare con poche righe le origini.
Negli inizi del 1900 il magnate del petrolio John Rockefeller prende il controllo su ogni giornale e mezzo di informazione, ma, non soddisfatto, decide di mettere mano sull’industria farmaceutica, influenzando, attraverso i lobby, le politiche e le norme legislative del sistema sanitario americano, rendendole progressivamente sempre più funzionali all’enorme potenziale commerciale del settore farmaceutico. Questo comporta il tramonto della medicina classica come approccio olistico alla salute psico-fisica dell’individuo e l’inizio dell’imposizione di protocolli di cura omologati e depersonalizzati, favorendo le carriere accademiche e professionali di chi promuove la nuova visione della medicina – quella che considera la salute non più un bene da proteggere, ma una risorsa su cui speculare e realizzare enormi profitti. Grazie a questa tendenza oggi in quasi tutto il mondo la medicina è nelle mani non dei medici che si comportano secondo il giuramento di Ippocrate, ma di affaristi titolati la cui unica preoccupazione è il profitto, o l’insano personalismo carrieristico con cui condizionare le norme medico-sanitarie.
Fra medici e ricercatori dediti al riscontro empirico, ci sono stati sempre quelli che hanno cercato di mettere luce su usi e protocolli accettati come necessari senza una prova di utilità, e fra tali verifiche risultano anche quelle svolte sulla mascherina chirurgica, considerando che finora il suo uso è stato ritenuto esclusivo all’ambiente ospedaliero. La letteratura medica degli ultimi 45 anni è comunque coerente e inequivocabile: le maschere sono inutili nel prevenire la diffusione di malattie e infezioni, sono elementi decisamente antigenici che diffondono esse stesse batteri e virus. Il punto che sorprende è proprio questo – che la gran parte degli esiti della ricerca non registrano la semplice indecisione fra si e no, fra utilità e inutilità dell’accessorio medico, ma una prevalenza di conclusioni che vedono la maschera un fattore di relativa utilità e addirittura negativo per lo status di salute del portatore, eccetto pochi casi di effettiva protezione. Ma andiamo con ordine:
1) Il primo gruppo di studi riguarda il livello di protezione delle maschere chirurgiche, indossate dal personale medico, nei confronti di pazienti operati, essendo quest’ultimi i soggetti più fragili ed esposti a infezioni- sia per le ferite chirurgiche che riportano, che per un sistema immunitario compromesso:
– il primo studio eseguito sulla maschera chirurgica è quello di Ritter et al del 1975, intitolato “The operating room environment as affected by people and the surgical face mask”, che arriva alla conclusione che: “I conteggi microbiologici sono stati determinati in una sala operatoria di 8 stanze e un corridoio. La conta batterica in una sala operatoria vuota è balzata statisticamente da 13 CFU / ft2 / ora (+/- 31) a 24,8 (+/- 58,8) quando le porte sono state lasciate aperte (persone nei corridoi) e 447,3 (+/- 186,7 ) quando sono state presentate 5 persone. L’uso di una mascherina chirurgica non ha avuto effetto sulla contaminazione ambientale complessiva della sala operatoria e probabilmente funziona solo per reindirizzare l’effetto proiettile del parlare e del respiro. Le persone sono la principale fonte di contaminazione ambientale in sala operatoria.” (1) Quindi lo studio afferma che dove ci sono esseri umani che respirano, lì ci sono batteri e virus che circolano, e le mascherine non cambiano la concentrazione di patogeni nell’aria.
– negli studi di Tunevall del 1991 il team chirurgico non indossa maschere per metà delle sue operazioni per due anni. Dopo 1537 operazioni eseguite con maschere, il tasso di infezione della ferita è del 4,7%, mentre dopo 1551 operazioni eseguite senza maschere, il tasso di infezione della ferita è solo del 3,5%. Quindi il risultato è perfino contrario a quello aspettato, anche se lo studio dice che tali differenze non sono statisticamente rilevanti, tuttavia conclude che: “Questi risultati indicano che l’uso di maschere facciali potrebbe essere riconsiderato. Le maschere possono essere utilizzate per proteggere il team operativo da gocce di sangue infetto, ma non è stato dimostrato che proteggano il paziente operato da un team operativo sano.” (oggi si direbbe asintomatico, ndr) (2)
–nel 1997 un team di Cambridge esegue un apposito studio sul nuovo modello di maschera chirurgica e conclude che: “man mano che la tecnologia ha sviluppato nuovi materiali e design, la loro efficienza di filtraggio è gradualmente migliorata. Tuttavia, non esiste un metodo di test standard per valutare tale capacità, e la sua influenza sui tassi di infezione della ferita chirurgica deve ancora essere dimostrata. Al contrario, studi sia in vitro che in vivo indicano che una maschera potrebbe non essere universalmente necessaria nell’ambiente chirurgico.” (3)
– nel 2001 uno studio di Lahme et al, eseguito sulle maschere dei pazienti conclude che: “Le maschere chirurgiche indossate dai pazienti durante l’anestesia regionale, non hanno ridotto la concentrazione di batteri presenti nell’aria nel campo operatorio nel nostro studio. Quindi sono superflue. Una maggiore concentrazione di germi nell’aria è stata rilevata nei pazienti durante l’anestesia generale. Le ragioni di questo risultato sono sconosciute, ma si può discutere come risultato di una maggiore attività e numero di personale coinvolto durante l’anestesia generale che causa più turbolenza dell’aria.” (4)
– nel 2009 Z. Bahli conduce una revisione sistematica della letteratura intitolata “Does evidence based medicine support the effectiveness of surgical facemasks in preventing postoperative wound infections in elective surgery?” e conclude che: “non vi è alcuna differenza significativa nell’incidenza di infezione della ferita postoperatoria tra gruppi con maschere e gruppi operati senza maschere”. (5)
– nel 2010 i chirurghi del Karolinska Institute in Svezia, riconoscendo la mancanza di prove a sostegno dell’uso di maschere, smettono di richiederle nel 2010 per anestesisti e altro personale di sala operatoria. “La nostra decisione di non richiedere più maschere chirurgiche di routine per il personale “impuro” che non esegue direttamente un intervento chirurgico è un allontanamento dalla pratica comune. Ma non ci sono prove a sostegno di questa pratica”, scrive la dottoressa Eva Sellden. (6)
– nel 2010 J. Webster et al esamina interventi chirurgici di vario genere eseguiti su 827 pazienti, dove tutto il personale ‘impuro’ indossa maschere in metà delle operazioni e nessuno dei membri del personale ‘impuro’ indossa maschere in metà delle operazioni e conclude che: “Le infezioni nel sito dell’intervento si sono verificate nell’11,5% del gruppo mascherato e solo nel 9,0% del gruppo non mascherato.” Di nuovo abbiamo un risultato inverso a quello atteso. (7)
-fra 2014 e 2016 vengono effettuati diversi studi e revisioni (Lip and Edwards, Carøe, Salassa e Swiontkowski, Zhou et al, Vincent ed Edwards e altri) e tutti pervengono unanimemente che non ci sono prove che le maschere possono ridurre il rischio di infezione sulle ferite chirurgiche o sul trattamento postoperatorio dei pazienti.
2) Vediamo invece gli studi che riguardano il livello di protezione delle mascherine per il personale medico esposto a pazienti portatori di infezioni:
– nel 2015, all’Università di Oxford (Dipartimento di Scienze chirurgiche) si svolge probabilmente lo studio più dettagliato, intitolato “Unmasking the surgeon: the evidence base behind the use of facemasks in surgery”, sull’utilità e il grado di protezione delle maschere chirurgiche, sia per il paziente esposto al contatto con il personale medico, che per il personale medico esposto a infezioni di vario ordine provenienti dai pazienti. Le conclusioni dello studio sono le seguenti: “Le maschere hanno un ruolo chiaro nel mantenere la pulizia sociale del personale chirurgico, ma mancano prove che suggeriscano che conferiscono protezione dalle infezioni ai pazienti o ai chirurghi che le indossano”. Però, visto che la percezione pubblica è a favore delle maschere e “dato che non ci sono prove che causino alcun danno, i sostenitori preferirebbero essere prudenti e incoraggiare il loro uso continuato… Nella psiche pubblica, le maschere sono diventate così fortemente associate a pratiche chirurgiche sicure e corrette che la loro abolizione potrebbe causare inutili sofferenze al paziente.” Lo studio riconosce l’effetto psicologico della maschera sia per il paziente che per il chirurgo, per il quale indossare la maschera è spesso una questione di rispettabilità, ma per quanto riguarda gli effetti empirici, lo studio riconosce che l’unica utilità accertata della maschera è fungere da barriera fisica contro il rischio di schizzi di sangue e fluidi corporei, un rischio maggiore per il chirurgo operante, “ma le maschere non conferiscono alcun grado di protezione dalle infezioni microscopiche che possono interessare il personale.” (8)
-nel 2019 è stato svolto uno studio randomizzato di Radonovich et al che mette in confronto maschere chirurgiche e maschere N95 come gradi di protezione dall’influenza, intitolato “N95 respirators masks for preventing influenza among health care personal”. La domanda che lo studio si pone è “se respiratori N95 o maschere mediche sono più efficaci nel prevenire l’infezione influenzale tra il personale sanitario a stretto contatto con pazienti con sospetta malattia respiratoria?” Lo studio parte dalla premessa che: ”benché sia i respiratori monouso N95 che le maschere mediche sono entrambi indossati dall’operatore sanitario per l’autoprotezione, tuttavia, queste maschere hanno diversi usi previsti: i respiratori N95 sono progettati per impedire a chi li indossa di inalare piccole particelle sospese nell’aria, devono soddisfare i requisiti di filtrazione, e adattarsi perfettamente al viso di chi li indossa, limitando la perdita di tenuta del viso; mentre le maschere mediche, chiamate maschere chirurgiche, hanno lo scopo di prevenire la trasmissione di microrganismi da chi le indossa al paziente (qualcosa che è stato confutato da tutti gli studi citati nel punto 1) ndr.). Le maschere mediche non si adattano perfettamente al viso e non impediscono in modo affidabile l’inalazione di piccole particelle sospese nell’aria. Tuttavia, le maschere mediche prevengono il contatto corpo a corpo e il contatto facciale con goccioline e spray di grandi dimensioni”.
I risultati finali dello studio sono piuttosto sorprendenti: “In questo pragmatico studio clinico randomizzato a cluster che ha coinvolto 2862 personale sanitario, non vi era alcuna differenza significativa nell’incidenza dell’influenza confermata in laboratorio tra il personale sanitario con l’uso di respiratori N95 (8,2%) rispetto a maschere mediche (7,2%).” Quindi i due tipi di maschere sono equiparabili nel (non)contrastare virus infettivi e micro patogeni. (9) JM
– altri studi precedenti sulle maschere chirurgiche concludono che: “La maggior parte delle maschere chirurgiche non sono certificate per l’uso come dispositivi di protezione delle vie respiratorie (RPD). In caso di una pandemia influenzale, le implicazioni logistiche e pratiche come la conservazione e il fit test limiteranno l’uso degli RPD a determinate procedure ad alto rischio che potrebbero generare grandi quantità di bioaerosol infettivi. Gli studi hanno dimostrato che in tali circostanze viene indossato un numero maggiore di maschere chirurgiche, ma la protezione offerta a chi indossa una maschera chirurgica contro gli aerosol infettivi non è ben compresa.” (10) Quindi, affinché ci sia una significativa efficacia contro virus infettivi, bisogna indossare almeno due mascherine una sopra l’altra, il che ridurrebbe notevolmente l’apporto di ossigeno al cervello e all’organismo.
-con l’evento della pandemia Covid, nel mese di giugno 2020 è stato prodotto su richiesta di OMS e pubblicato su The Lancet il famoso Meta-studio sull’uso generalizzato e universale delle maschere anche in ambienti extra ospedalieri, di socializzazione, come mezzo di contrasto al contagio virale, insieme al distanziamento sociale. Questo studio non produce nulla di sana pianta, ma accumula 172 studi osservazionali in 16 paesi e sei continenti, senza studi controllati randomizzati, e 44 studi comparativi rilevanti in contesti sanitari e non sanitari (n = 25.697 pazienti). E conclude che: “la trasmissione dei virus era inferiore con una distanza fisica di 1 m o più; la protezione è stata aumentata con l’allungamento della distanza. L’uso della maschera facciale potrebbe comportare una notevole riduzione del rischio di infezione (n = 2647; aOR 0,15, IC 95% da 0,07 a 0,34, RD −14,3%, da −15,9 a −10,7 ; bassa certezza), con associazioni più forti con N95 o respiratori simili rispetto a maschere chirurgiche usa e getta. La protezione degli occhi era anche associata a una minore infezione (n = 3713; aOR 0,22, IC 95% da 0,12 a 0,39, RD −10,6%, IC 95% da -12,5 a -7,7; bassa certezza).” (11)
-il Meta-studio solleva una seria di critiche e confutazioni da parte di scienziati indipendenti, fra cui quelli del Centre for Evidence-Based Medicine, University of Oxford- Tom Jefferson e Carl Heneghan, che contestano i parametri di distanza introdotti dalla Meta-studio come scientifici, dichiarando che: “Non ci sono prove scientifiche a sostegno della disastrosa regola dei due metri. La ricerca di scarsa qualità viene utilizzata per giustificare una politica con enormi conseguenze per tutti noi.” Gli scienziati smontano diverse imprecisioni nell’estrazione dei dati per la revisione Lancet e una serie di punti di dati non plausibili, confermando che i parametri del Meta-studio non sono basati su studi concreti, ma volti a giustificare il distanziamento sociale e il lock down. (12)
– ma visto che parliamo di maschere chirurgiche, vi è un altro punto ancora più compromettente nel Meta-studio (sollevato da Wang et al): per giustificare l’uso universale e indifferenziato di maschere mediche, lo studio di Lancet cita uno studio falsandone i dati, ribaltando i risultati dello studio stesso. Lo studio originale, fatto a Hubei, è uno dei pochi, se non l’unico, ad aver esaminato l’utilità delle maschere mediche in condizioni ospedaliere di epidemia covid, e le sue conclusioni sono sorprendenti: “I membri del personale medico nei centri che ricevevano pazienti COVID-19 avevano un rischio maggiore di contrarre l’infezione rispetto a quelli nei centri che non ricevevano pazienti COVID-19 (rischio relativo: 19,6; intervallo di confidenza al 95%: 12,6-30,6). Il contatto con pazienti COVID-19 (62,5%, 75/120) o colleghi infetti (30,8%, 37/120) era la modalità di trasmissione più comune. Circa il 78,3% (94/120) dei casi infetti indossava maschere chirurgiche, mentre il 20,8% (25/120) non ha utilizzato la protezione quando esposto alla fonte dell’infezione.” (13) Quindi chi indossava le maschere nel momento di esposizione ha contratto l’infezione con una percentuale molto maggiore. E questo fatto conferma non solo la ‘relativa’ funzione antivirale della maschera, ma ci collega con il punto cruciale – quello degli effetti collaterali di questo accessorio, il quale potrebbe essere la causa per cui la maggior parte dei medici che porta la maschera rimane infettato.
3) Sarebbe insufficiente discutere sull’utilità delle mascherine mediche senza fare un bilancio complessivo, tenendo conto degli effetti negativi che esse provocano sulla salute, anche perché sull’incertezza della funzione protettiva della maschera prevale senz’altro la certezza netta e dimostrabile dei suoi effetti dannosi. A differenza dei punti 1) e 2), qui sarebbe sufficiente citare uno degli ultimi studi fatti su questo argomento: è lo studio dell’epidemiologo Lazzarino dell’University College of London prodotto in tempi di pandemia, nel mese di aprile 2020. (14) Esso dice che: “Le maschere facciali rendono la respirazione più difficile; una frazione di CO2 espirata in precedenza è innalata a ogni ciclo respiratorio. I due fenomeni aumentano frequenza e profondità della respirazione, quindi la quantita di aria inalata ed espirata, ma la qualità dell’aria è fortemente peggiorata. Ciò può aumentare la diffusione di virus e batteri, fra cui sars-cov-2, perchè le mascherine diffondono aria contaminata” . Al netto di problemi dermatologici e di allergia, le maschere rallentano lo scambio fra anidride carbonica e ossigeno, ma tali problemi aumentano pericolosamente nel momento in cui si svolgono attività fisiche sportive o attività quotidiane che causano naturalmente un affanno maggiore (con la mascherina l’affanno spinge l’aria espirata verso gli occhi, il che potrebbe infiamarli). Ma benchè questi effetti si manifestano a tempo breve e in modo inconfondibile, bisogna sapere che a lungo andare l’indossare ossequioso della mascherina può causare danni irrecuperabili, portando perfino alla morte, come già tristemente accaduto a ragazzi in età infantile. Inoltre, è appurato che a medio e lungo termine la maschera provoca: confusione e incapacità di concentrazione, inadeguatezza cognitiva, vertigini, emicrania, depressione, attachi di panico, aritmia cardiaca, apatia, problemi con la memoria, infezioni polmonari, sindrome respiraroria acuta, ipossia cronica a livello cerebrale e di tessuti dell’organismo, la quale a sua volta è uno dei fattori per la diffusione di cellule tumorali.
E’ curioso il fatto che il Ministero della salute italiano nel mese di aprile 2020 fa raccomandazioni sull’uso delle mascherine facciali nella comunità, avvertendo di “tenere attentamente conto delle lacune delle prove di efficacia, della situazione dell’offerta e dei potenziali effetti collaterali negativi”, ma in ottobre rende le maschere universalmente obbligatorie.
Con la cognizione degli effetti collaterali disastrosi per la salute, sorge il dubbio se con l’imposizione obbligatoria della mascherina non si volesse instaurare una funzione non protettiva bensì induttiva all’addestramento delle persone, mirata al loro assoggettamento alle autorità, una disciplina che viene usata nella educazione di cani e altri animali domestici, per cui è stata oggetto di sperimentazione nella pratica scientifica di Pavlov. Un addestramento sociale nell’abituare alla privazione di aria, e quindi di vitalità, conducendo le persone verso una stato di salute sempre più precario, abbinato a un comportamento sempre più remissivo, amorfo e acritico.
Pavlov si era accorto di come con uno stimolo naturale (cibo) si è in grado di provocare una reazione involontaria (risposta), che in quel caso era la salivazione del cane. Ma associando per un certo numero di volte l’erogazione del cibo con un suono di campanello, alla fine è stato sufficiente solo il suono del campanello per determinare la salivazione del cane. In questo caso la salivazione è indotta come riflesso condizionato prodotto artificialmente, in mancanza di uno stimolo reale. Procedendo per analogia, la paura di inalare un virus sarebbe lo stimolo naturale per proteggersi con una mascherina; nel momento in cui subentra però la sanzione da parte delle autorità in funzione dell’obbligo universale della mascherina, la paura della sanzione diventa lo stimolo secondario che dopo un breve periodo inizia a funzionare anche in assenza della paura primaria (quella del contagio), provocando lo stesso comportamento, cioè l’indossare della maschera, come riflesso condizionato.
E’ curioso il fatto che sono state proprio le autorità cinesi ad accorgersene di questo condizionamento autolesivo, notando come, una volta abolito l’obbligo della mascherina, una gran parte delle persone continuavano a portarla anche all’aperto, non più per la paura del contagio quanto per la paura di essere sanzionati e giudicati male dagli altri, in particolar modo da chi continuava a portare la mascherina. Quindi le autorità, per sbloccare tale condizionamento e per dissuadere più efficacemente le persone dalla sopravvenuta abitudine riflessa, si sono viste costrette a mettere nei luoghi pubblici cartelli con la scritta “strongly not recommended”.
Questo senz’altro è stato l’unico momento in cui i governatori cinesi si sono veramente preoccupati per lo stato di salute dei propri sudditi al netto di ogni propaganda. Forse perché gli affari con le maschere stanno fruttando bene nell’Occidente, o forse perché sono passati ad addestramenti più edificanti.
Note:
(1) = https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/1157412/
(6) = https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/21068655/
(8) = https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/26085560/
(9) = https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/31479137/
(10) = https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/23498357/
(14) = https://www.bmj.com/content/369/bmj.m1435
3 novembre 2020
FONTE: https://comedonchisciotte.org/la-mascherina-e-il-cane-di-pavlov/
STORIA
Le imprese statunitensi che finanziarono Hitler
Una delle più importanti pagine di storia del XX secolo non raccontate nei libri di scuola occidentali, è quella che tratta i rapporti tra i grandi gruppi industriali statunitensi e la Germania nazista. Essenzialmente sono due i motivi per cui si omette di affrontare questa parte fondamentale di storia. Primo motivo consiste nel fatto che furono la finanza e le grandi aziende statunitensi a consentire alla Germania di risollevarsi dalla crisi socio-economica in cui versava per via delle condizioni capestro inflitte alla Germania alla fine della Prima Guerra Mondiale mediante il Trattato di Versailles. Il secondo motivo consiste nel fatto che fu proprio il sostegno economico e finanziario statunitense a consentire ad Hitler di armarsi, e che addirittura quando scoppiò la Seconda Guerra Mondiale, le grandi imprese statunitensi continuarono a fare affari con la Germania nazista tanto da consentirgli di poter mantenere il suo apparato bellico. Ciò è confermato anche dalle parole del presidente degli Stati Uniti Franklin D. Roosevelt, il quale in un discorso effettuato a Washington nel novembre del 1941 affermò: “L’andamento complessivo della nostra grande produzione industriale, non deve essere ostacolato dal comportamento egoista, di un pericoloso gruppo di imprenditori che pensano soltanto a realizzare eccezionali profitti. Costoro continuano a curare i propri affari come se niente fosse“.
Nel 1941 in Germania prosperavano ancora 553 aziende statunitensi, tra le quali Standard Oli, General Motors, Ford, IBM, Kodak, Coca Cola. Queste società mantenevano intensi rapporti commerciali con i nazisti, mentre i dirigenti dei quattro grandi colossi statunitensi (Standard Oil, General Motors, Ford, IBM) e delle relative affiliate tedesche potevano essere considerati addirittura amici di Hitler. Senza di essi infatti, il Führer non avrebbe potuto fare la sua guerra.
Standard Oil
Negli anni Trenta, la Standard Oil era il più grande gigante petrolifero degli Stati Uniti. Il potente gruppo che diventerà la “Esso”, portò avanti la sua politica economica in tutto il mondo senza distinguere tra regimi democratici e dittature. Il suo obiettivo consisteva nel creare un monopolio. La compagnia petrolifera Standard Oil faceva parte dell’impero Rockefeller e la sua sede centrale era a New York.
Il presidente della Standard Oil era il manager Walter Clark Teagle.
Teagle contribuì in maniera determinante allo sviluppo industriale della Germania nazista, sia prima che durante la Seconda Guerra Mondiale, anche attraverso il suo coinvolgimento con la società chimica tedesca IG Farben. A guidare il gruppo chimico tedesco concorrente della Standard Oil, c’era un altro dirigente spregiudicato, Hermann Schmitz. IG Farben aveva messo a punto un procedimento per creare la benzina sintetica, in modo tale che in caso di carenza di petrolio, il titolare del brevetto sarebbe diventato il padrone del mercato mondiale. Ma nel 1938 la Germania era ancora costretta ad importare l’80% del proprio fabbisogno di greggio.
Hitler voleva la guerra, ma per motivi strategici necessitava a qualunque costo della benzina sintetica. Era cosciente che in caso di conflitto la Germania si sarebbe vista chiudere gli approvvigionamenti petroliferi. Era stata progettata la costruzione di un oleodotto, poi la creazione di una flotta di petroliere, ma tutte queste idee erano state bloccate sul nascere da Hitler che invece aveva un piano molto chiaro, la Germania doveva vincere unicamente con l’autarchia.
Dal discorso di Hermann Göring, tenuto a Berlino nell’agosto del 1936: “Sapevamo di non avere carburante ed abbiamo costruito le fabbriche che dovevano fornirci il carburante, sapevamo che non potevamo procurarci il caucciù ed abbiamo costruito le fabbriche di caucciù, gli americani pensavano di avere il monopolio, ma la scienza tedesca ha spezzato questi monopoli e oggi siamo in possesso di tutti i mezzi necessari per sconfiggere il nemico“. Chi era Hermann Göring? Occorre ricordare che con il titolo di Maresciallo del Reich, era il numero due del regime nazista. Inoltre era anche il capo della Luftwaffe (aviazione militare tedesca) e questa carica gli forniva già di per sé un importante ruolo economico, ma ad aumentare il suo peso contribuì ulteriormente la nomina avvenuta alla fine del 1936 a Responsabile del Piano Quadriennale Economico della Germania. Altresì Göring vantava una fitta rete internazionale di pubbliche relazioni con personaggi di alto spessore economico.
Ma il potente comandante della Luftwaffe sottovalutò un elemento fondamentale: il piombo tetraetile. Si tratta di un additivo per benzina, senza il quale i motori supercompressi dell’aviazione militare tedesca non potevano decollare, e Hitler aveva necessità di una Luftwaffe pronta ed efficiente per realizzare i suoi piani di conquista a Est. Fu così che Göring invitò i dirigenti della IG Farben a mettersi in contatto con gli amici statunitensi. La Standard Oil infatti, era la prima produttrice al mondo di piombo tetraetile. I tedeschi avevano bisogno del know-how di Standard Oil per la costosa produzione del nuovo carburante sintetico. L’accordo tra Standard Oil e IG Farben fu realizzato in breve tempo. Walter Clark Teagle ed Hermann Schmitz realizzarono in breve tempo la costruzione in Germania di due impianti per la produzione di piombo tetraetile.
Ma nel luglio del 1938, la produzione era ancora insufficiente. Un approvvigionamento rapido e diretto avrebbe potuto mettere al sicuro da pericolosi imprevisti. La filiale della Standard Oil a Londra consegnò immediatamente ai nazisti l’antidetonante per un valore di 20 milioni di dollari. In quel momento Hitler era in grado di procedere all’annessione dei Sudeti e preparare l’attacco alla Cecoslovacchia.
Poco prima dell’invasione della Polonia, la filiale britannica della Standard Oil consegnò altro piombo tetraetile per un valore di 15 milioni di dollari. Durante la Battaglia d’Inghilterra, i primi bombardamenti aerei su Londra furono possibili proprio grazie alla disponibilità e all’utilizzo di questo composto chimico.
Per la sua guerra Hitler aveva estrema necessità di petrolio, ma in Germania la produzione del combustibile sintetico copriva appena la metà del fabbisogno. Ancora una volta era necessario ricorrere all’aiuto degli amici industriali negli Stati Uniti.
Standard Oil possedeva quasi la metà dei diritti sui giacimenti petroliferi rumeni di Ploiești, la fonte di greggio più importante in quegli anni per la Germania. Nell’archivio militare di Friburgo sono raccolte lettere e documenti che testimoniano che i nazisti avevano urgente bisogno di bright stock, l’olio pesante. Solo gli Stati Uniti erano in grado di rifornirli di questo materiale determinante per la realizzazione della guerra di Hitler ed anche durante tutta la guerra le imprese statunitensi fornirono bright stock alla Germania in quantità sufficiente per soddisfare le proprie esigenze belliche. Il bright stock è un derivato molto pregiato del petrolio, che tra l’altro veniva usato per alimentare i motori dei carri armati.
Il Terzo Reich dunque continuava ad avere bisogno della benzina e del gasolio degli Stati Uniti. Le navi degli amici statunitensi di Hitler nascondevano il petrolio nel Mar dei Caraibi e di norma le petroliere che li trasportavano battevano bandiera panamense. Ma nell’Oceano Atlantico stazionavano le navi da guerra britanniche che cercavano mediante il blocco navale di tagliare i rifornimenti petroliferi destinati a Hitler.
Il comandante supremo della marina militare tedesca, l’ammiraglio Karl Dönitz, riuscì ad ottenere un finanziamento di 500 mila dollari. Il diesel era un carburante molto costoso e Hitler voleva dominare l’Atlantico con i suoi sommergibili. Le consegne del diesel avvenivano mediante l’aiuto di industriali statunitensi della Standard Oil e soprattutto della Texaco di Torkild Rieber, un manager di origine norvegese fidato amico di Hitler. Rieber aveva anche rapporti con i servizi segreti tedeschi e sul suo conto gli informatori del Reich stilarono giudizi lusinghieri, tanto che fu definito “un vero sostenitore della Germania e sincero ammiratore di Hitler“.
Passando per Tenerife e altri porti spagnoli, le petroliere consegnavano il petrolio destinato ai tedeschi che in questo modo eludevano il blocco navale degli inglesi. Le navi cisterne rifornivano i sommergibili tedeschi direttamente in mare, davanti alle coste spagnole.
Il 7 dicembre 1941, con un attacco aereo alla base militare di Pearl Harbor il Giappone allargò la guerra nel Pacifico e interruppe i collegamenti tra gli Stati Uniti e la Malaysia, il principale fornitore di caucciù dell’esercito statunitense. Ma le due società, Standard Oil e IG Farben si erano accordate per mantenere relazioni d’affari anche nel caso di un coinvolgimento degli Stati Uniti nel conflitto. I dirigenti di Standard Oil e IG Farben stipularono un patto segreto. La IG Farben voleva impedire la confisca dei suoi brevetti nei paesi nemici e per questo intendeva metterli nelle mani fidate del gruppo statunitense. I chimici tedeschi avevano già realizzato la buna, una gomma sintetica ottenuta da carbone e calcio. Oltre che a Hitler, questi brevetti facevano gola anche alla Standard Oil, che fiutava la possibilità di assicurarsi un mercato redditizio anche negli Stati Uniti. Nel contratto di cessione del brevetto della buna (gomma sintetica), la Standard Oil su disposizione del Ministero dell’Economia del Reich, si impegnava ad utilizzare il brevetto solo previa autorizzazione tedesca. Malgrado la crisi della gomma, Standard Oil tenne fede all’accordo stipulato con i tedeschi. Il procedimento per la produzione della buna non doveva finire nelle mani di industrie concorrenti come la Goodyear.
Il potente senatore Bernard Baruch, incaricato di un’indagine dal presidente Roosevelt, nel gennaio del 1942 si rivolse così durante un discorso alla nazione: “Siamo del parere che l’attuale crisi possa aggravarsi a tal punto che in assenza di provvedimenti immediati, il Paese rischia il tracollo militare e sociale“.
Dopo Pearl Harbor, la Standard Oil e le sue affiliate continuarono a fornire benzina i nazisti. Nel frattempo negli Stati Uniti, il governo fu costretto a prendere provvedimenti per razionare la benzina.
Molti cittadini statunitensi, fra cui anche alcuni membri del Congresso, diedero la colpa alle compagnie petrolifere che continuavano a rifornire i nazisti e non consegnavano i brevetti del caucciù. Il senatore Harry Truman, futuro Presidente degli Stati Uniti, costretto dall’opinione pubblica ordinò un’inchiesta del Senato sulla situazione della difesa nazionale. Lo affiancò Thurman Arnold, esperto finanziario del Ministero della Giustizia. Dall’inizio della guerra, Standard Oil e potenti dirigenti come Teagle, erano controllati da Arnold e dai suoi collaboratori. In una precedente indagine avevano già tentato di infliggere al gruppo una sanzione amministrativa di 50 mila dollari per aver avuto rapporti d’affari con il nemico. Ma visto il ruolo fondamentale ricoperto da Standard Oil per gli Stati Uniti in guerra, il colosso del petrolio e il suo potente manager erano riusciti ad ottenere una riduzione della multa a mille dollari. Durante l’audizione al Senato, Thurman Arnold accusò Standard Oil che si rifiutava di consegnare il brevetto di caucciù, di complotto reiterato a favore dei nazisti. Successivamente, in una conferenza stampa, Thurman Arnold usò persino la parola “tradimento“.
Il congresso deliberò che i brevetti della buna venissero liberalizzati in tutti gli Stati Uniti. Il potere di Walter Clark Teagle era finito. Il top manager si dimise dai vertici del gruppo.
General Motors
All’inizio degli anni Trenta, la Opel, affiliata del gruppo statunitense General Motors, intraprese la costruzione di automezzi militari pesanti.
Nella primavera del 1935 a Brandeburgo, con la collaborazione della Wehrmacht, furono attrezzate nuove officine per mezzi pesanti. I manager della Opel, nel cui consiglio di amministrazione sedevano anche gli statunitensi, fiutarono subito il colossale affare rappresentato dalle commesse delle forze armate.
Realizzato secondo i nuovi sistemi di produzione statunitensi, l’impianto era il più moderno d’Europa e produceva ogni giorno 120 autocarri “Opel Blitz”, che costituivano la spina dorsale della Wehrmacht.
Senza l’Opel Blitz, Hitler non sarebbe riuscito ad entrare trionfalmente a Vienna, infatti durante le manovre militari per l’annessione dell’Austria, numerosi mezzi pesanti di altre marche si guastarono lungo la strada. Hitler dimostrò subito la sua riconoscenza: visitò personalmente lo stabilimento di Brandeburgo e ordinò altri duemila Opel Blitz.
Dall’avvento del nazismo fino allo scoppio della guerra, nella General Motors fu fondamentale il ruolo di un brillante manager statunitense. Il suo nome era James D. Mooney. In qualità di vicepresidente della General Motors in Germania, per i meriti acquisiti nella trasformazione della Opel in una delle maggiori aziende del settore militare, ricevette da Hitler l’Ordine dell’Aquila, la massima onorificenza conferita dal Partito Nazionalsocialista ad uno straniero.
Ogni volta che fu impiegato, l’Opel Blitz superò brillantemente le prove più ardue. L’avanzata ad Oriente, l’annessione dei Sudeti e l’aggressione alla Cecoslovacchia. Poi seguirono i successi della guerra lampo ad Ovest. Nel 1940, in poche settimane Olanda, Belgio e Francia furono travolte. Questi camion risultarono fondamentali anche per l’invasione dell’Unione Sovietica. Senza l’Opel Blitz, l’esercito tedesco non avrebbe mai potuto trasportare i suoi soldati per migliaia di chilometri all’interno dell’Unione Sovietica.
Negli stabilimenti Opel, la produzione di vetture utilitarie fu quasi del tutto abbandonata. Gli investimenti erano diminuiti e il personale si era assottigliato per la chiamata alle armi. Le officine interruppero questo tipo di produzione e la Luftwaffe pensò ad un nuovo utilizzo degli impianti di produzione di vetture utilitarie. Fu così che in quegli stabilimenti la Opel iniziò a produrre parti di fusoliera e motori per gli Junker-88, i più potenti bombardieri di Hitler. L’accordo firmato tra la Luftwaffe e la Opel fu possibile grazie al ruolo fondamentale svolto dal vicepresidente James D. Mooney, il quale viveva a Berlino, intratteneva rapporti epistolari con i vertici del partito nazista e nell’autunno del 1939 ebbe modo di incontrare più volte Hermann Göring, il capo della Luftwaffe, l’aviazione militare nazista.
Nei colloqui con Göring, Mooney espresse una forte solidarietà con i politici nazisti. Anche lui riteneva che dopo la Prima Guerra Mondiale, la Germania fosse stata trattata in modo troppo duro da Francia e Inghilterra. Göring incoraggiò Mooney a svolgere un’opera di mediazione. Mooney si rivolse al presidente statunitense Roosevelt, il quale si dichiarò disponibile a fare da mediatore. Roosevelt in persona augurò un buon successo alla missione di Mooney.
E qui risulta del tutto evidente la russofobia statunitense. Roosevelt con un embargo sul commercio avrebbe potuto impedire questo fondamentale sostegno alla mobilità dell’esercito nazista, ma non lo fece. Utilizzò invece gli industriali e i banchieri statunitensi per sviluppare e consolidare i rapporti diplomatici tra gli Stati Uniti America e la Germania nazista, in modo da potenziare quanto più possibile la macchina bellica tedesca al fine di renderla in grado di aggredire e invadere prima o poi l’Unione Sovietica.
Grazie alle continue adulazioni, nel febbraio del 1940 Mooney ebbe modo di incontrare Hitler nella nuova sede della Cancelleria. In un diario rimasto per decenni inedito per volere della General Motors, Mooney descrisse il colloquio estremamente amichevole avuto con il Führer. In una lettera indirizzata a Roosevelt, Mooney descrisse Hitler come una persona cordiale e amichevole. In seguito, Messersmith il Sottosegretario del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, definì Mooney: “un fascista“.
Ma questo episodio non cambiò i rapporti tra la General Motors e la Opel, che continuò a costruire veicoli militari per la Germania nazista. Per consentirgli di invadere l’Unione Sovietica, la Opel nei primi anni di guerra fornì all’esercito tedesco più di centomila mezzi militari.
Il 15 maggio 1941 il generale nazista Adolf von Schell, responsabile della fornitura di automezzi militari, conferì alla Opel un attestato nel quale dichiarava che senza l’aiuto dell’azienda non sarebbe stato possibile continua la guerra. Sempre nel 1941 la General Motors rifiutò una proposta d’acquisto per la Opel, preferì non vendere la casa automobilistica e rimanere in Germania. In una lettera al commissario del Reich per i patrimoni del nemico, la General Motors fece sapere di essersi ormai identificata con le sorti della Germania.
Al contempo, la General Motors partecipò al riarmo statunitense con molto zelo. L’organizzazione fu affidata allo stesso James D. Mooney. Il presidente della General Motors Alfred Sloan dichiarò: “Un’impresa multinazionale presente in tutto il mondo, è tenuta a gestire le proprie attività in base a rigidi criteri economici, incurante delle idee politiche del paese in cui opera. Non siamo un ente assistenziale, noi realizziamo profitti per i nostri azionisti“.
Il 6 agosto 1944, lo stabilimento di Brandeburgo fu quasi completamente distrutto dai bombardieri statunitensi. Anni dopo però, la General Motors ottenne dal fisco degli Stati Uniti un nuovo indennizzo di ben 32 milioni di dollari.
Ford
Nel 1939 nella cittadina di Riverdale, nel New Jersey, membri della Lega Tedesco-Americana (German-American Bund) marciarono durante uno dei loro campi estivi.
Il leader del movimento, del movimento Fritz Julius Kuhn, un chimico delle industrie Ford, era stato già membro del partito nazista in Germania. I 30 mila membri del German-American Bund promuovevano politiche razziste e antisemite filo hitleriane. Avevano simpatizzanti altolocati, come il datore di lavoro Fritz Kuhn.
Infatti, nel 1921 era stata pubblicata l’edizione tedesca del libro scritto da Henry Ford “L’ebreo internazionale. Un problema mondiale“. Fin dall’inizio, tra il leggendario costruttore di automobili Henry Ford e Adolf Hitler, c’era un elemento di forte comunanza spirituale: l’antisemitismo. Il libro di Ford rafforzò in Hitler l’odio antiebraico e lo indusse ad elementi di riflessione per la stesura del suo “Mein Kampf“.
Inoltre alcuni industriali statunitensi e membri della finanza, vedevano in Hitler e nelle dittature fasciste europee una possibile soluzione ai problemi che incontravano con i movimenti dei lavoratori e con i sindacati. Agli occhi di Henry Ford i sindacati erano opera del diavolo. L’azione brutale di Hitler contro i sindacati piacque a Ford che presidiava le sue fabbriche con milizie armate. Prima che Hitler salisse al potere, Ford lo sostenne con ingenti finanziamenti, tanto che un’immagine del benefattore statunitense era appesa nella sede del partito nazista a Monaco di Baviera.
Ogni giorno tantissimi tedeschi scrivevano lettere di ammirazione a Ford, il fordismo divenne l’ideologia degli industriali tedeschi. Per costoro ogni azione doveva essere realizzata proprio come l’aveva già realizzata Ford.
Nel 1930 Ford si recò in Germania, nella città di Colonia dove partecipò alla posa della prima pietra per la costruzione di un proprio stabilimento industriale. All’inizio gli affari non andarono bene, le Ford erano care e dovevano fare i conti con l’avversione di molti tedeschi verso i prodotti stranieri. Dal discorso di Hitler tenuto a Monaco il 16 febbraio 1935: “L’acquirente medio che oggi acquista un’auto straniera, non può dire di aver fatto questa scelta a causa della qualità superiore del prodotto, ormai le nostre autovetture tedesche non hanno più nulla da invidiare a quelle estere“.
All’inizio degli anni Trenta la produzione di autovetture negli stabilimenti Ford aveva subito una netta flessione. Edsel Ford, il figlio di Henry Ford assunse la direzione degli stabilimenti di Colonia e Detroit. Tramite informazioni riservate, Edsel Ford apprese che in Germania era in atto una battaglia economica in cui le commesse statali assumevano sempre maggiore importanza. Per Henry Ford non ci furono problemi, il motore otto cilindri Ford poteva essere venduto come motore per i fuoristrada militari. Fu così che la conversione dello stabilimento Ford di Colonia fu immediata.
Henry Ford impose che gli altri produttori d’auto stranieri non ricevessero più caucciù per pneumatici, né valuta per importarlo. Furono obbligati a procurarsi la gomma attraverso scambi merce e a destinare il 25% alla produzione bellica. Il dittatore tedesco si mostrò riconoscente verso il potente industriale statunitense. Finalmente, i veicoli prodotti a Colonia poterono fregiarsi del marchio: “prodotto tedesco”.
Gli affari con il regime nazista si intensificarono. Nel 1938 Ford e Opel furono introdotte nel programma di pianificazione della Wehrmacht. L’esercito tedesco in breve tempo commissionò alla Ford un ordine 100 mila autocarri, inclusi quelli pesanti a tre assi e i veicoli con trasmissione a catena. Ma i nazisti avevano fretta, stavano per effettuare l’annessione dei Sudeti e intendevano ricevere immediatamente dalla Ford mille automezzi pesanti, ma lo stabilimento di Colonia non era in grado di produrli in tempi così brevi.
La filiale statunitense offrì subito una soluzione. Furono spediti il giorno stesso da Detroit motori, telai e le cabine degli autoarticolati e appena giunti a Colonia furono assemblati di notte in tutta segretezza. Fu così che in brevissimo tempo la Wehrmacht ritirò gli autocarri richiesti e procedette immediatamente all’invasione della Cecoslovacchia. Quando ci si scandalizza per l’aggressività di Hitler, per il suo cinismo, per aver causato la guerra in Europa, si dimentica sempre che senza il sostegno delle imprese statunitensi non avrebbe potuto fare nulla. Nel caso specifico, si è davvero così ingenui da credere che alla Ford non sapessero a cosa servissero quei mille camion, da consegnare immediatamente e tutti insieme? Quanta ipocrisia!
Alla fine del 1938, Hitler dal canto suo insignì Ford della più alta onorificenza militare nazista concessa a uno straniero: l’Ordine dell’Aquila. Ford si fece appuntare con orgoglio l’onorificenza sulla giacca dal viceconsole tedesco a Detroit.
Ma anche Henry Ford si dimostrò riconoscente per i buoni affari conclusi. Così, il 20 aprile del 1939, in occasione del cinquantesimo compleanno di Hitler, la Ford versò 35 mila reichsmark sul conto personale del Führer.
Nei più nei primi anni di guerra aumentò in modo massiccio la produzione di mezzi pesanti ed Henry Ford se ne rallegrò. Poi, quando venne a sapere che un suo stabilimento in Gran Bretagna avrebbe dovuto costruire seimila motori per la Royal Air Force (l’aviazione militare britannica), Henry Ford si oppose. Scrisse al Daily Mail di Londra che poteva accettare solo commesse militari per la difesa degli Stati Uniti. Al contrario, l’industriale statunitense non aveva nulla da obiettare sul fatto che nella Francia occupata dai nazisti, gli impianti Ford lavorassero a pieno regime per la Wehrmacht, producendo mille mezzi pesanti al mese.
Dal 1942 ormai scarseggiava la manodopera nelle industrie tedesche. Lo sforzo militare, soprattutto quello sostenuto contro l’Unione Sovietica, impose il reclutamento di tutti gli uomini abili. Così, nello stabilimento di Colonia, la Ford poteva garantire i rifornimenti alla Wehrmacht solo ricorrendo al lavoro forzato e alla schiavitù. I prigionieri furono alloggiati in un apposito campo di baracche adiacente allo stabilimento industriale. Negli ultimi anni del conflitto, Ford affittò anche migliaia di detenuti nei lager, soprattutto sovietici. Per ogni detenuto pagava alle SS 4 marchi al giorno. Le condizioni di vita e di lavoro erano disumane.
“Curioso”, si fa per dire, il fatto che nel 1942 la città di Colonia fu bombardata a tappeto dagli angloamericani e nonostante la quasi completa distruzione della città, lo stabilimento industriale Ford non fu mai volutamente colpito. Così, nel corso dell’intera Seconda Guerra Mondiale, lo stabilimento Ford di Colonia produsse indisturbato per la Wehrmacht 78 mila mezzi pesanti e 14 mila mezzi con trasmissione a catena.
Solo nel 1944, alcune bombe caddero nei pressi dello stabilimento della Ford a Colonia, causando lievi danni. Di contro, con faccia tosta, nel 1965 la Ford chiese ad una commissione del governo statunitense circa 7 milioni di dollari di risarcimento per i danni di guerra. La commissione quantificò questo risarcimento in mezzo milione di dollari.
International Business Machines (IBM)
L’ascesa al potere di Hitler coincise con un vero e proprio boom della filiale tedesca della IBM. I calcolatori erano usati in quasi tutte le grandi industrie, ma da quel momento fra i grandi committenti figurò anche il governo tedesco.
Nel 1935 la Dehomag, l’affiliata della IBM in Germania, costruì un uovo grande stabilimento alla periferia di Berlino. Mediante schede perforate, le macchine prodotte dalla Dehomag in collaborazione con la IBM, lavoravano rapidamente dati per statistiche, registrazioni e calcoli, di cui producevano degli stampati.
Anche il fondatore e presidente della IBM Thomas Watson, rimase impressionato dai successi della Dehomag e per questi motivi si recava spesso in Germania. Thomas Watson era riconosciuto come un estimatore e ammiratore di Hitler, dimostrazione stava nel fatto che sia moralmente che materialmente e finanziariamente lo aveva sempre sostenuto, ancor prima che salisse al potere.
Nell’estate del 1937 la Camera di Commercio Internazionale organizzò a Berlino il suo congresso mondiale. Watson riuscì a farsi eleggere presidente. Un articolo del New York Times illustrò la cerimonia al Teatro Kroll (Krolloper): Watson era tra gli stranieri che presenti all’ingresso del teatro alzarono la mano destra in segno di saluto verso Adolf Hitler. Il giorno dopo fu addirittura ricevuto dal Führer. Thomas Watson dichiarò alla stampa: “Hitler con i suoi progetti ha imboccato la strada giusta. Tutto andrà nel migliore dei modi!“
Anche Watson fu insignito dell’Ordine dell’Aquila. A consegnargli l’onorificenza fu Hjalmar Schacht, all’epoca ministro delle finanze del Terzo Reich.
La Dehomag e la IBM divennero uno strumento indispensabile per la realizzazione del piano di sterminio degli ebrei. Infatti i loro calcolatori gestirono il grande censimento del 1939 mediante il quale le SS intendevano scoprire quanti ebrei vivessero in Germania, nella regione dei Sudeti e in Austria. In una seconda scheda, la cosiddetta carta supplementare veniva chiesto il nome, l’indirizzo, la razza e la discendenza anche di genitori e dei nonni. In questo modo, l’ufficio per la razza delle SS intendeva registrare tutti gli ebrei purosangue, mezzosangue e quarto di sangue.
Il 1° settembre 1939 l’aggressione alla Polonia segnò l’inizio della “Politica di annientamento ad Est”. Cracovia divenne la capitale della Polonia occupata, trasformata in governatorato. Nella Rocca di Cracovia si insediò Karl Hermann Frank, il brutale governatore di Hitler. Frank istituì a Cracovia un grande ufficio statistico nel quale giunsero per lavorare molti collaboratori di fiducia di Thomas Watson. Molti altri stretti collaboratori di Watson giunsero in altre città polacche, tanto che la rappresentanza della IBM a Varsavia fu ribattezzata “Watson Business Machines“.
In seguito, per attuare lo sterminio degli ebrei, tutte le cariche degli uffici anagrafici e statistici in Polonia, in Austria e in Francia, furono ricoperte da personale della IBM.
Nell’autunno del 1943 la carenza di manodopera rallentava la produzione bellica, così anche i detenuti dei campi di concentramento dovevano essere schedati in base alle competenze professionali e mandati a lavorare in modo forzato in tutto il territorio del Reich. In tutti i lager nazisti furono istituiti dei centri di rilevamento.
Tutti i dati elaborati dalla IBM venivano inviati alla sede delle SS a Berlino. Si stima che i prigionieri dei campi di concentramento schedati dalla IBM e ritenuti abili al lavoro forzato furono oltre un milione. Gran parte di questo archivio è stato immediatamente distrutto pochi giorni prima della caduta di Berlino, ma circa 140 mila schede della IBM sono ancora conservate presso l’Archivio Militare di Berlino.
Nel 1940, il giovane socio tedesco Willy Heidinger, il quale insieme ad altri due azionisti tedeschi deteneva il 15% della Dehomag, cercò di ridimensionare il ruolo degli statunitensi. Inoltre, il potere esclusivo della Dehomag all’interno del sistema tedesco cominciò a destare preoccupazione e sospetto. Il comandante di brigata delle SS Edmund Wiesmaier, da tempo consigliere di Hitler, si ispirava al vecchio detto “tutto ciò che giova al popolo tedesco è giusto!” e cominciò a parlare di nazionalizzazione.
Ma Thomas Watson non intendeva arrendersi così facilmente. Nel 1940 inviò a Berlino un collaboratore fidato e risoluto, il quale doveva trattare non solo con Heidinger ma anche con il comandante delle SS. Watson che si trovava a New York veniva tenuto informato tramite messaggi cifrati trasmessi dall’ambasciata degli Stati Uniti in Germania. Nel corso dei negoziati Wiesmaier risultò più conciliante. I nazisti infatti avevano bisogno dell’IBM per gestire la complessa macchina bellica, ma se la IBM voleva evitare la nazionalizzazione avrebbe dovuto accettare la riduzione della partecipazione azionaria. Tramite il suo emissario, Watson rifiutò anche questa offerta. Così, per l’intero periodo della guerra la IBM restò proprietaria della Dehomag.
Kodak
Anche l’azienda statunitense Kodak fu una stretta collaboratrice del regime nazista e giocò un ruolo importante durante la Seconda Guerra Mondiale.
Infatti, i nazisti continuarono non solo ad importare dalla Kodak bobine e materiali chimici per la realizzazione di filmati, ma le filiali della Kodak presenti in Germania fabbricavano inneschi, detonatori e altro materiale militare. Ciò ha davvero dell’incomprensibile in quanto il governo statunitense non attuò mai un embargo nei confronti della Kodak.
Inoltre la Kodak, nei suoi stabilimenti presenti in Germania, su richiesta del governo tedesco dapprima licenziò tutti i dipendenti ebrei e poi in seguito utilizzò più di 250 prigionieri dei campi di concentramento nazisti, facendoli lavorare in stato di schiavitù.
Coca Cola
La Coca Cola fu una delle prime aziende a collaborare con il regime nazista. Durante le Olimpiadi di Berlino nel 1936 infatti fu uno degli sponsor ufficiali.
La Fanta, la famosa bibita analcolica all’arancia, fu ideata in Germania nel 1940. La bibita nacque come sostitutivo della bevanda Coca Cola che dopo l’embargo della Seconda Guerra Mondiale non venne più importata in Germania. L’ideatore della bibita all’arancia fu Max Keith che, prima di allora, dirigeva le diverse fabbriche della Coca Cola Company sul suolo tedesco.
Il nome “Fanta” deriva dalla parola tedesca “Fantasieden” (in italiano “immaginazione”) e altro non era che un composto di fibra di mela da sidro e siero di latte.
Quindi all’inizio della sua storia, per la Fanta niente agrumi. Infatti ad inizio anni ’40, nella Germania nazista di agrumi non ve ne erano abbastanza.
Le banche statunitensi
Tutto iniziò alla vigilia del primo conflitto mondiale, quando la Banca Morgan spinse il neutralista Woodrow Wilson a spedire le truppe in Europa. La Morgan (che in seguito diventerà la JP Morgan) era la più potente banca del tempo e aveva raccolto oltre il 75% dei finanziamenti per le forze anglo-americane. Voglia di guerra, non importa su che fronte: la National City Bank, che pure lavorava a fianco della Morgan nel rifornire inglesi e francesi, non si faceva problemi a finanziare anche i tedeschi, come anche fece la Chase Manhattan Bank.
La banca Morgan, inoltre, aveva acquisito il controllo dei 25 principali quotidiani statunitensi. Obiettivo: propagandare l’opinione pubblica statunitense pilotandola in favore dell’entrata degli Stati Uniti nella Prima Guerra Mondiale.
Il legame tra il comparto militare-industriale e gli oligarchi di Wall Street è una connessione che risale agli inizi del Novecento. Le banche hanno sempre tratto profitto dalla guerra, perché il debito creato dalle banche si traduce in un enorme bottino di guerra per la grande finanza. E anche perché le guerre sono state utilizzate per aprire i paesi esteri agli interessi corporativi e bancari degli Stati Uniti. Ammise William Jennings Bryan, segretario di Stato durante il primo conflitto mondiale: “C’erano grandi interessi bancari legati alla Prima Guerra Mondiale poiché grandi erano le opportunità di profitto“. Il problema: tutelare gli interessi commerciali degli statunitensi, che avevano fortemente investito negli alleati europei. Almeno due miliardi e mezzo di dollari dell’epoca, prestati a francesi e inglesi a partire dal 1915. “I banchieri ritennero che, se la Germania avesse vinto la guerra, i loro prestiti agli alleati europei non sarebbero stati rimborsati“.
Il più grande banchiere statunitense dell’epoca, John Pierpont Morgan, fece di tutto per trascinare gli Stati Uniti in guerra a fianco dell’Inghilterra e della Francia, finendo per convincere il presidente Wilson. Obiettivo: proteggere gli investimenti delle banche statunitensi in Europa. Non a caso il marine più decorato nella storia, Smedley Butler, dichiarò: “Io ho combattuto essenzialmente per le banche americane“.
Nel periodo antecedente la Seconda Guerra Mondiale fu anche creato un piano per gettare le basi per gli investimenti statunitensi in Germania. La strategia, ideata da Hjalmar Schacht della Dresdner Bank, si basava sulle istruzioni del capo della Banca d’Inghilterra e dell’amministratore della banca Morgan; il politico statunitense repubblicano John Foster Dulles, divenuto poi il segretario di Stato nell’amministrazione Eisenhower, ordinò di redigere questa politica. Il piano impiegò un anno per diventare effettivo, ma alla fine del 1923 Schacht divenne il Presidente di Reichsbank. Questo è il modo in cui il sistema finanziario anglo-americano è stato fuso con l’equivalente tedesco. Nell’estate del 1924 il progetto fu reso noto al pubblico come “Piano Dawes”, chiamato cosi dal nome dell’amministratore della banca Morgan. Il piano prevedeva di ridurre della metà la somme dei risarcimenti tedeschi e risolse inoltre il problema di accesso al capitale per la Germania. La priorità era quella di stabilizzare la moneta per poi spianare la strada al processo di investimenti in Germania. Il piano stanziò 200 milioni di dollari di credito per la Germania e la metà di questa somma proveniva da Chase Bank e Morgan. L’importo può sembrare irrilevante, ma allora, nel 1924, 200 milioni di dollari erano pari al 2% dei ricavi complessivi del governo degli Stati Uniti.
Il rimborso del debito tedesco, francese e britannico avvenne attraverso uno schema ben preciso: il ciclo di Weimar. L’oro utilizzato dalla Germania per pagare la somma di risarcimento di guerra fu spedito negli Stati Uniti e “scomparve” subito dopo. Il metallo tornò poi in Germania, sotto forma di un “piano di aiuti” e fu inviato in Francia e in Gran Bretagna come una rata della somma dovuta. Questi paesi poi utilizzarono questo denaro per pagare i propri debiti verso gli Stati Uniti. Ciò rese la Germania dipendente dal debito. Qualsiasi possibilità di tagliare flussi di capitale avrebbe sicuramente gettato il Paese in bancarotta. Formalmente, il credito era stato concesso per garantire il pagamento. In realtà, esso portò alla ricostruzione dell’industria militare tedesca. Il vero pagamento fu realizzato con azioni di società tedesche che erano state trasferite in mani statunitensi.
Tra il 1924 e il 1929 il valore complessivo degli investimenti esteri tedeschi valeva 15 miliardi di dollari. Nel 1929 l’industria tedesca divenne la seconda più grande al mondo, ma il tutto sotto il controllo del settore finanziario degli Stati Uniti.
La cooperazione statunitense-tedesca era così stretta che persino Deutsche Bank, Dresdner Bank e la Donat Bank erano controllate dagli Stati Uniti.
Dal 1923 ad Adolf Hitler furono concesse considerevoli somme di denaro provenienti dalla Svezia e dalla Svizzera. Nel primo paese, la famiglia Wallenberg era la principale fonte di finanziamento.
Dopo alcuni anni Hitler era pronto a svolgere il suo ruolo, ma a causa dell’economia sana, il suo partito non vinse la gara politica. Questo fu il motivo per cui da Wall Street fu assunta la decisione di avviare la crisi economica. La FED e la banca Morgan sospesero il credito per la Germania e spinsero l’Europa centrale alla recessione. La Gran Bretagna abbandonò il gold standard e fu travolta dal caos nel sistema finanziario internazionale. All’inizio del 1932 avvenne un incontro in cui fu deciso il piano di finanziamento “NSDAP”. Un anno dopo il piano di Hitler fu approvato e nel 1933 Adolf Hitler divenne cancelliere tedesco. Egli non aveva bisogno di un colpo di stato ma di una situazione economica di crisi, durante la quale milioni di tedeschi riposero la propria fiducia nel Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori (NSDAP).
I Tedeschi che desideravano l’uscita dalla crisi economica diedero la propria fiducia ad Hitler, perché questo disse loro esattamente quello che volevano sentirsi dire.
Ma il coinvolgimento delle banche anglo-americane in Europa continuò, e dopo la Prima Guerra Mondiale molte grandi banche anglo-americane finanziarono i nazisti. Nel 1998, la BBC riportò la seguente notizia: “La Barclays Bank accettò di pagare 3,6 milioni di dollari a favore degli ebrei i cui beni erano stati sequestrati dai rami francesi della banca britannica durante la Seconda Guerra Mondiale“.
Anche la Chase Manhattan Bank ammise di aver sequestrato, sempre durante il secondo conflitto mondiale, circa cento conti intestati ad ebrei nella sua filiale di Parigi. Come scrisse il “New York Daily News”: “A quanto pare i rapporti tra la Chase e i nazisti erano piuttosto amichevoli, a tal punto che Carlos Niedermann, capo della filiale Chase Bank di Parigi, scrisse al suo supervisore di Manhattan che la banca godeva «di molta stima presso i funzionari tedeschi» e vantava «una rapida crescita dei depositi»“. Occorre notare che la lettera di Niedermann fu scritta addirittura nel maggio del 1942, ovvero cinque mesi dopo che i giapponesi avevano bombardato Pearl Harbor e che gli Stati Uniti erano entrati in guerra contro la Germania.
Dopo la guerra, una commissione governativa francese, indagando sul sequestro dei conti bancari ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale riferì che erano coinvolte cinque banche statunitensi: Chase Bank, Morgan, Guaranty Trust Co. di New York, la Banca della città di New York e l’American Express. Secondo il quotidiano britannico “The Guardian”, il senatore Prescott Bush (padre di George Bush e nonno di George W. Bush), “era amministratore e socio in società che trassero largo profitto dal loro coinvolgimento nel finanziare la Germania nazista“. La società di “nonno Bush”, aggiunge il “The Guardian” sulla base di fonti d’archivio statunitensi, era “direttamente coinvolta con gli architetti finanziari del nazismo“. E i suoi rapporti di affari continuarono fino a che il patrimonio della società fu sequestrato nel 1942 nell’ambito del “Trading with Enemy Act”, la legge statunitense che sequestrava i beni di chi aveva fatto affari col nemico in tempo di guerra, ma che come abbiamo notato nel corso di questo articolo, in molti casi non fu applicata.
Attraverso la BBH (Brown Brothers Harriman), Prescott Bush agì come supporto statunitense per l’industriale tedesco Fritz Thyssen, che contribuì a finanziare Hitler nel 1930 prima di cadere con lui alla fine del decennio. Fritz Thyssen scrisse anche un libro dal titolo “I paid Hitler” (“Io finanziai Hitler”) nel quale descrisse come elargì 25 mila dollari (allora una cifra molto ingente) per finanziare il neo costituito Partito Nazionalsocialista Tedesco e riuscì a diventare il primo e più importante finanziatore nella presa del potere del Führer.
Il “The Guardian” sostiene di poter provare che lo stesso Bush sia stato il direttore della UBC, la Union Banking Corporation di New York, che rappresentava gli interessi di Thyssen negli Stati Uniti, e continuò a lavorare per la banca anche dopo che gli Stati Uniti entrerono in guerra. L’UBC (Union Banking Corporation) era stata fondata da Harriman e dal suocero di Bush per mettere una banca statunitense al servizio dei Thyssen, la più potente famiglia di industriali della Germania operante principalmente nel mondo delle acciaierie. Alla fine del 1930, la Brown Brothers Harriman, che si considerava la più grande banca privata d’investimento del mondo, e la UBC, avevano acquisito e trasferito milioni di dollari in oro, petrolio, acciaio, carbone e buoni del tesoro statunitensi alla Germania, alimentando e finanziando l’ascesa di Hitler fino alla guerra. L’economista statunitense Victor Thorn ha dichiarato: “La UBC divenne la via segreta per la protezione del capitale nazista che usciva dalla Germania verso gli Stati Uniti, passando per i Paesi Bassi. Quando i nazisti avevano bisogno di rinnovare le loro provviste, la Brown Brothers Harriman rimandava i loro fondi direttamente in Germania“.
Tra il 1931 e il 1933 la UBC acquisì più di 8 milioni di dollari in oro, di cui 3 milioni inviati all’estero. Anni dopo, la banca fu colta in flagrante a gestire una società di comodo statunitense per la famiglia Thyssen, anche dopo che gli Stati Uniti erano entrati in guerra, e si scoprì che era questa la banca che aveva finanziato in parte l’ascesa di Hitler al potere.
Secondo la BBC, Prescott Bush e la banca Morgan, unitamente ad altri investitori importanti, avrebbero anche finanziato un colpo di Stato contro il presidente Roosevelt, nel tentativo di “attuare un regime fascista negli Stati Uniti“.
Ecco quindi, che quando si parla dei Bush, occorre sempre ricordare che una parte importante delle fondamenta finanziarie della loro famiglia fu costituita grazie all’appoggio e all’aiuto forniti ad Adolfo Hitler. Quindi i presidenti degli Stati Uniti appartenenti alla famiglia Bush giunsero al vertice della gerarchia politica statunitense grazie al fatto che il nonno e il padre, e la famiglia in generale, aiutarono finanziariamente i nazisti.
Purtroppo nelle scuole occidentali non insegnano che durante la Seconda Guerra Mondiale, sia lo schieramento anglo-americano che quello nazista furono entrambi finanziati dalla stessa fonte.
Luca D’Agostini
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Fonti
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