RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI
18 LUGLIO 2021
A cura di Manlio Lo Presti
Esergo
Generale, raduni un reparto e faccia invadere l’Europa
(Il presidente Roosevelt al generale Eisenhower)
GINO & MICHELE, Anche le formiche nel loro piccolo si incazzano, Baldini e Castoldi, 2003, pag.442
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SOMMARIO
Caro Economist ha vinto la classe non il razzismo
Il sole di Napoli e le ombre del Grande Reset
Haiti: mercenari contro i governi progressisti
Le mani della Blackwater sull’Ucraina
L’assassinio di Jovenel Moïse
“LE COSTITUZIONI”: LA REPUBBLICA ISLAMICA DEL PAKISTAN (VIDEO)
Un’operazione sui social media fasulli dall’estero istigava gli incidenti a Cuba
Perché l’ISIS minaccia Roma e Di Maio? Parola a Andrea Cucco (Difesa Online)
Così la Cina ha rivoluzionato il suo esercito
Semplificare la vita a sfruttatori e profittatori
Il terzo polo delle banche italiane parlerà francese?
La Russia taglia di nuovo investimenti nel debito pubblico Usa: -97% dal 2018
L’arma degli Usa contro big tech e multinazionali
Aumentano gli sbarchi dalla Turchia: possibile un ricatto di Erdogan?
Putin-Trump: cosa non torna nella rivelazione del “Guardian”
La componente israeliana delle politiche statunitensi verso l’Iran
A Parigi proteste contro le nuove misure anti-Covid
Gli Stati Uniti mirano alle elezioni in Nicaragua
Quelle verità di Trump che i dem non possono ignorare
Dott. De Simone: non torneremo alla normalità con la vaccinazione di massa
Vaccini Covid, I fatti.
IL VALORE DELLA REPUTAZIONE DIGITALE
ATTUALITÀ SOCIETÀ COSTUME
Caro Economist ha vinto la classe non il razzismo
FONTE: https://it.sputniknews.com/20210717/caro-economist-ha-vinto-la-classe-non-il-razzismo–12175592.html
BELPAESE DA SALVARE
Il sole di Napoli e le ombre del Grande Reset
Special estivo da guardare tutto d’un fiato
Partendo da alcuni ricordi di Fulvio Grimaldi, che come i nostri spettatori sapranno ha vissuto durante l’infanzia nella città partenopea, affronteremo insieme temi di attualità analizzando il punto di vista di tre generazioni a confronto. Graditissimo ospite della puntata, e ponte generazionale, è infatti Jacopo Brogi, colonna portante della redazione di Come Don Chisciotte.
I 2 ospiti ed il conduttore, lasciandosi trasportare dalle sensazioni e dalle emozioni scaturite dal bellissimo panorama naturale, si confronteranno in particolare su 3 argomenti:
– Napoli: ultimo baluardo contro il globalismo
– Gender e Covid: assalto all’infanzia
– Dove passa il Capitale non cresce più l’erba
*CI SCUSIAMO IN ANTICIPO SE DAL MIN. 18:09 A 32:54 L’AUDIO È STATO LEGGERMENTE COMPROMESSO DAL VENTO FORTE*
“Sancho. Settimanale d’attualità con Fulvio Grimaldi” da un’idea di Giuseppe Russo. Conduce Massimo Cascone. Ospite Jacopo Brogi. Videoproduzione Bagony Snikett e Ruggero Arenella.
Buona Visione!
VIDEO QUI: https://youtu.be/K56psPZwAGg
FONTE: https://comedonchisciotte.org/sancho-special-fulvio-grimaldi-il-sole-di-napoli-e-le-ombre-del-grande-reset/
CONFLITTI GEOPOLITICI
Haiti: mercenari contro i governi progressisti
Blivarinfos, 14 luglio 2021
La Tabla rivelava informazioni su una società mercenaria legata all’assassinio di Jovenel Moïse ad Haiti, suggerendo l’esistenza di una cospirazione il cui scopo è seminare violenze paramilitari contro i governi progressisti. Secondo La Tabla, i capi della società mercenaria, Tony Intriago (venezuelano) e Antonio Esquivel (cubano), parteciparono agli eventi nel Paese caraibico così come l’ex-candidato al Senato di Haiti Anis Blemur, le cui azioni “si nascondono dietro ONG (organizzazioni non governative) e fondazioni riconosciute”. L’inchiesta giornalistica specifica che il loro modo di operare non è sostenere un’invasione organizzata dallo Stato ma scommettere su guerre private: “Le fondamenta sono sostenute dai falchi di Washington e da personalità politiche della Florida. Sui social network (attraverso l’attivismo digitale) espongono le loro idee e pubblicano le loro intenzioni”. Tali operazioni furono rivelate quando la procura di Haiti iniziò gli interrogatori dopo l’assassinio del presidente e due ex-parlamentari a lui contrari, gli ex senatori Youri Latortue e Steven Benoît, i magnati Réginald Boulos e Dimitri Vorbe, e quattro agenti di polizia e i soldati che avevano la responsabilità della sicurezza del presidente furono convocati dal pubblico ministero Bed-Ford Claude.
Chi sono?
La Tabla indica che Antonio Esquivel fa parte del management di almeno 12 società o organizzazioni politiche presenti negli Stati Uniti (USA), alcune collegate a Venezuela, Cuba e Haiti. Tra queste società vi sono: Venezuela somo todos Inc, Vene Courierr Express Inc, Alianza Constitucional Cubana, Haitian American National Council Inc, Consorcio Internacional para la Democracia Cipdem y Esquicargo Marketing Services. Esquivel fu anche presidente della cosiddetta “Assemblea patriottica cubana” ed è attualmente accusato di terrorismo dal governo cubano. “Esquivel è il capo del Movimento Rivoluzionario di Restaurazione che, il 17 febbraio 2006, chiese la distruzione della Rivoluzione Cubana”. “È il capo di Lulac of Florida, ONG che promuove l’influenza politica e i diritti civili degli ispanici negli Stati Uniti e molte compagnie di cui Esquivel fa parte (non a caso) sono compagnie di navigazione degli Stati Uniti per America Latina”, affermava La Tabla. Da parte sua, Tony Intriago è il capo della società CTU Security, fondata in Florida nel 2019. È una delle quattro società di mercenari degli ex-soldati che parteciparono all’assassinio di Jovenel Moïse. “Intriago è membro e tesoriere della United Latin American Foundation, un’organizzazione di destra con forte presenza politica, sociale e mediatica in Florida”, aggiunse La Tabla. E i media spiegano che Intriago ha una delle organizzazioni il cui obiettivo è promuovere la guerra: “Fa parte di una confraternita chiamata ‘Gli uomini di guerra Crisol. È una sorta di confraternita di partecipanti a un programma di addestramento guerriero e filosofico “guerriero” addestrato da ex-agenti dei Navy Seals, comandanti SWAT, mercenari d’élite ed esperti di arti marziali”.
Un altro individuo indicato in questa indagine è l’ex-candidato al Senato haitiano Anis Blemur, che è un agente immobiliare che nel 2016 fu accusato dall’ufficio del procuratore degli Stati Uniti di frode telematica. “Ha almeno due attività in Florida: Le Bourgeois Restaurant LLC e Firstchoice Nurses Unlimited Inc”. “Blemur è haitiano e ha rubato almeno 1600000 dollari alle sue vittime, per lo più compatrioti, nel sud della Florida. L’inchiesta scoprì altre frodi: usò le informazioni personali delle sue vittime per richiedere 26 carte di credito”. La Tabla conferma che Esquivel, Intriago e Blemur influenzano lo spazio multinazionale formato da aziende latine negli Stati Uniti: “Spingono e progettano piani per misure non statali da adottare con azioni false flag gestite da mercenari. Come Entriago stesso, come dimostrato ad Haiti. Tali baroni della guerra politica padronale ritengono che ci sia assenza di una risposta internazionale ai “regimi totalitari”, e che la loro “minaccia permanente” debba ricevere una risposta militare privata per ottenere “cambiamenti a favore della democrazia”, concludeva l’indagine.
Traduzione di Alessandro Lattanzio
FONTE: http://aurorasito.altervista.org/?p=18720
Le mani della Blackwater sull’Ucraina
L’Ucraina, questo luogo che la storia ha investito dell’onere-onore di essere tutto e il contrario di tutto – da culla del mondo russo (Русский мир) ad appendice della Sublime Porta –, da sette anni è la vena scoperta del Vecchio Continente, la linea di faglia tra Occidente e Oriente lungo la quale scorrono fiumi di sangue e sulla quale i due blocchi scaricano le tensioni accumulate altrove.
Strappata alla casa madre da Euromaidan, casus belli della nuova guerra fredda tra Russia e Occidente e casus foederis dell’intesa cordiale fra l’Orso e il Dragone, l’Ucraina del 2021 è un membro mancato dell’Alleanza Atlantica – perché il processo di adesione è stato congelato a tempo indefinito dall’amministrazione Biden per esigenze tattiche, ovvero la pace fredda con la Russia – ed un giocattolo già logoro per i Grandi dell’Unione Europea – la Germania, ad esempio, sembra esclusivamente interessata ad ipotecare il controllo di terreni e imprese nel nome di un Ostsiedlung 2.0 – la cui voglia di rivalsa la sta conducendo a siglare dei patti di ferro con chiunque voglia e/o possa offrirle amicizia e denaro.
Bistrattata dall’Europa che conta e costretta al basso profilo dagli Stati Uniti, l’Ucraina dell’era Zelensky ha ridotto i rischi dell’isolamento ripiegando sulla Turchia – dalla quale sta ricevendo supporto concreto e multiforme –, sull’alleanza Visegrad e sulla Romania, nonché su partenariati insospettabili con i giganti dell’Asia, ovvero Cina e India.
Le sterminate risorse dello storico granaio d’Europa, però, non stanno attraendo soltanto l’attenzione degli attori statuali. No. Perché qualcun’altro starebbe bramando all’ombra della competizione tra grandi potenze, sognando di capitalizzare economicamente il malcontento dei figli del Dnipro, mettendo le mani su infrastrutture, arsenali e uomini in armi: la Academi di Erik Prince.
L’indiscrezione del Time
Il mese di luglio si è aperto con un’indiscrezione-bomba del Time. Il prestigioso settimanale sarebbe venuto in possesso di informazioni relative ad un maxi-piano di espansione in Ucraina dell’Academi, la più nota compagnia militare privata degli Stati Uniti, altresì nota al volgo con il suo nome di battesimo poi caduto in disuso: Blackwater.
Secondo quanto riferito dal Time, Prince, il fondatore della compagnia, negli scorsi mesi avrebbe avuto degli incontri di alto livello a Kiev, avvenuti al riparo da telecamere e occhi indiscreti. Incontri da inquadrare nel contesto di un’agenda formulata nel giugno 2020 e che sarebbero stati organizzati allo scopo di persuadere il complesso militare-industriale a benedire un piano di acquisizioni e fusioni che, secondo le stime dell’Academi, potrebbe fruttare almeno dieci miliardi di dollari.
Dieci miliardi che i magnati ucraini e la dinastia Prince potrebbero guadagnare rispettando una tabella di marcia, concepita dall’Academi, comprendente rilevamenti di impianti produttivi dell’aeronautica, costruzione di stabilimenti adibiti alla fabbricazione su larga scala di munizioni e, ultimo ma non meno importante, nascita di un consorzio aerospaziale in grado di competere con Boeing e Airbus. Rilevamenti, costruzioni e fusioni che, naturalmente, avrebbero luogo in quella prateria sconfinata che è l’Ucraina, un mercato aperto al miglior offerente: che sia europeo o che sia asiatico, che sia uno Stato o che sia un ricchissimo e ambizioso privato.
Prince, ad ogni modo, non avrebbe proposto solamente rilevamenti di impianti e fusioni interaziendali ai padrini del complesso militare-industriale ucraino. Presumibilmente agente su mandato dell’amministrazione Trump, il re del nuovo mercenario avrebbe presentato un’offerta per Motor Sich – il gigante della motoristica aerea su cui grava l’ombra dei cinesi dell’AECC – ed esposto dei piani per la realizzazione di un maxi-esercito privato composto da veterani del Donbass e per l’espansione dell’Academi nella formazione dell’intelligence ucraina.
Il futuro del piano
Un piano sul punto di essere accettato, quello di Prince, anche grazie all’intercessione presso la presidenza Zelensky dell’imprenditore Andriy Artemenko e del parlamentare Andriy Derkach, ma che, poi, sarebbe entrato nel limbo con il ritorno del Partito Democratico alla Casa Bianca. Perché i Prince sono una famiglia storicamente legata ai Repubblicani, dei quali hanno appoggiato le campagne elettorali e le guerre – noto è il coinvolgimento della Blackwater in Iraq e Afghanistan ai primordi della Guerra al Terrore –, indi (teoricamente) invisa a Joe Biden e al suo entourage.
Le fonti che hanno informato il Time ne sono certe: se Trump avesse ottenuto un secondo mandato, Prince avrebbe traslato in realtà buona parte dei progetti negoziati nel corso dei lunghi mesi di difficili trattative. Con l’arrivo di Biden allo Studio Ovale, però, le cose sono cambiate: l’imprenditore deve e dovrà fronteggiare sia le diffidenze dei consiglieri del nuovo re sia il cambio di rotta dall’alto in materia di gestione del fascicolo ucraino.
Gli eventi recenti, comunque, sembrano suggerire che la blackwaterizzazione del complesso militare-industriale ucraino, più che seppellita, potrebbe essere stata semplicemente ritardata e/o ridimensionata. Perché Prince, nonostante il credo repubblicano, è e resta un imprenditore che fa gli interessi degli Stati Uniti. Perché Prince, degradato dall’amministrazione Bush dopo una serie di scandali in Iraq, era rinato a nuova vita grazie alle commesse ricevute dalle due presidenze Obama. E perché Prince è, al momento, uno dei pochi avventuristi a stelle e strisce in grado di controbilanciare efficacemente la crescente influenza della Cina nel complesso militare-industriale dell’Ucraina, la nazione che non può essere ceduta all’Oriente.
L’assassinio di Jovenel Moïse
Yves Engler, Orinoco Tribune 9 luglio 2021
Jovenel Moïse era un tiranno violento e corrotto. Anche se la sua scomparsa potrebbe non suscitare molta simpatia, non andrebbe celebrata. Sostenuto da Washington e Ottawa, Moïse sembra sia stato ucciso da elementi del suo violento partito politico PHTK. L’operazione ben organizzata fu probabilmente finanziata dagli oligarchi dalla pelle chiara del Paese e quasi certamente condotta col sostegno dal governo. La polizia controllava la strada per casa sua, ma un video mostrava un convoglio di uomini armati muoversi metodicamente su per la collina verso la residenza del presidente. I presunti assassini annunciarono di far parte di un’operazione della Drug Enforcement Agency statunitense. Incredibilmente, il presidente e la moglie furono gli unici colpiti nell’operazione. Nessuno della sicurezza diretta di Moïse fu colpito. Né c’erano poliziotti. Secondo quanto riferito, una dozzina di proiettili ne crivellò il corpo. Moïse era estremamente impopolare. Poco conosciuto prima che l’ex-presidente Michel Martelly lo consacrasse candidato presidenziale del PHTK, importanti segmenti dell’oligarchia si ribellarono a Moïse. Così fece la maggior parte della dirigenza politica haitiano di destra. Durante il suo mandato Moïse nominò sette diversi primi ministri, incluso l’ultimo. Il precedente primo ministro ad interim, Claude Joseph, ora afferma di essere responsabile del governo, contestato dal primo ministro neonominato (anche se non insediato) Ariel Henry. Il giorno dopo l’assassinio Joseph incontrò il “Core Group”, ambasciatori stranieri (di USA, Canada, Spagna, Francia, Germania, Brasile, ONU e OAS) che esercita un immenso potere ad Haiti. Successivamente l’inviata speciale delle Nazioni Unite per Haiti, Helen La Lime, ex-funzionaria del dipartimento di Stato nordamericano, disse che Joseph guiderà il Paese fino alle elezioni previste per settembre. Mentre gran parte della dirigenza si era rivoltato contro Moïse, pochi tra la massa impoverita l’avevano mai sostenuto. Da quando nel luglio 2018 iniziarono le massicce proteste contro la corruzione, la netta maggioranza di haitiani volle che Moïse se ne andasse. I manifestanti erano infuriati per lo scandalo sulla corruzione Petrocaribe in cui le amministrazioni Moïse e Martelly derubarono centinaia di milioni di dollari. Tra la metà del 2018 e la fine del 2019 Moïse affrontò diversi scioperi generali, incluso quello che chiuse Port-au-Prince per un mese.
Per un anno e mezzo Moïse governò per decreto e la sua già limitata legittimità costituzionale decadde il 7 febbraio. In risposta iniziò una nuova ondata di proteste di massa. Durante il mandato ci fu una serie di orribili massacri sostenuti dallo Stato. A fine aprile l’International Human Rights Clinic di Harvard e L’Observatoire Haïtien des crimes contre l’humanité pubblicarono un rapporto intitolato “Uccidere con impunità: massacri sanzionati dallo Stato ad Haiti”. Documentava tre “attacchi brutali” da bande sostenute dal governo che causarono 240 morti in quartieri noti per la resistenza a Moïse. La portata di violenze ed illegalità peggiorò nelle ultime settimane. La violenza delle bande travolse interi quartieri di Port-au-Prince, sfollando migliaia di donne e bambini. Il 29 giugno il giornalista Diego Charles, l’attivista Antoinette Duclair e altre 13 persone furono uccise da un violento attacco. È improbabile che il Canada abbia avuto un ruolo diretto nell’assassinio di Moïse. In effetti, i funzionari canadesi erano probabilmente scontenti dell’omicidio. Ma questo non significa che mani canadesi non siano sulla scena del crimine. Ottawa rafforzò gli elementi più regressivi e omicidi della società haitiana. Nel 2004 il governo canadese sabotò le elezioni più democratiche della storia di Haiti. 7000 funzionari eletti furono rovesciati quando Stati Uniti, Francia e Canada destabilizzarono e poi estromisero il presidente eletto. Dopo aver sostenuto un governo golpista per 26 mesi che uccise migliaia di persone, Stati Uniti e Canada cercarono di impedire al candidato socialdemocratico René Préval di diventare presidente. Fallirono. Ma sconfissero Préval quando tentò di aumentare il salario minimo e aderì al programma petrolifero sovvenzionato venezuelano di Petrocaribe. Dopo il terribile terremoto del 2010 approfittarono della debolezza del governo per mettere da parte Préval e imporre il PHTK in una “elezione” affrettata.
A febbraio scrissi del ruolo del Canada nel favorire corruzione e violenze haitiane dopo che si seppe che il senatore del PHTK Rony Célestin nascose 5 milioni di dollari nelle proprietà di Montreal. La storia citava l’autore haitiano-canadese Jean “Jafrikayiti” Saint-Vil che spiegava: “Il regime PHTK guidato da Michel Martelly e il suo autodefinitosi ‘bandi legal’ (banditi legali), salì al potere grazie ai brogli elettorali organizzati, finanziati e controllate dalle forze di occupazioni straniere imposte ad Haiti dal colpo di Stato del febbraio 2004. L’incontro per la pianificazione del colpo di Stato e la messa sotto amministrazione fiduciaria di Haiti fu organizzato dal ministro canadese per la Francofonia Denis Paradis. L’Iniziativa di Ottawa per Haiti [31 gennaio-1 febbraio 2003] rovesciò il legittimo presidente e 7000 funzionari eletti dal Paese più povero della regione. I funzionari eletti furono sostituiti da banditi come il “senatore” Rony Célestin”. Offrendo un modo ancora più chiaro di comprendere il rapporto del Canada con le violenze ad Haiti Saint-Vil chieste: “Riuscite ad immaginare [il capi degli Hells Angels] Maurice ‘Mom’ Boucher e [la serial killer] Carla Homolka nominati senatori in Canada con elezioni fraudolente guidate da una coalizione di diplomatici haitiani, giamaicani ed etiopi ad Ottawa?” Pochi canadesi sarebbero contenti di un tale risultato, ma è una descrizione preoccupantemente appropriata della politica statunitense, canadese e francese ad Haiti.
Potrebbe risultare che la CIA o un altro braccio del governo degli Stati Uniti abbia avuto un ruolo nell’assassinio di Moïse. Ma è probabile che Moïse sia stato ucciso in una lotta interna al PHTK per il potere politico, la droga, il saccheggio delle risorse statali, ecc. O forse ci fu una disputa su qualche alleanza tra bande o violenze. Un assassinio presidenziale nel cuore della notte col probabile coinvolgimento di altri elementi del governo riflette deterioramento e natura criminale dello Stato haitiano. Di conseguenza Stati Uniti e Canada danno potere agli attori più corrotti e violenti di Haiti. Washington e Ottawa sostengono gli elementi più retrogradi della società haitiana in gran parte per paura dell’alternativa: un governo riformista, a favore dei poveri, che cerca accordi regionali alternativi. I funzionari canadesi “sostengono consapevolmente i trafficanti di droga, i riciclatori di denaro e gli assassini ad Haiti”, twittava Madame Boukman a febbraio. “Questo è l’unico modo in cui gli avvoltoi minerari canadesi possono depredare le enormi riserve auree di Haiti”. Può essere difficile crederlo, ma questa descrizione non è sbagliata.
FONTE: http://aurorasito.altervista.org/?p=18666
CULTURA
“LE COSTITUZIONI”: LA REPUBBLICA ISLAMICA DEL PAKISTAN (VIDEO)
Nuova puntata con “Le Costituzioni”. Questa volta si parla di Pakistan: “Una repubblica federale riconosciuta come Repubblica Islamica del Pakistan”.
VIDEI QUI: https://youtu.be/mamF856UXGE
FONTE: http://opinione.it/cultura/2021/07/14/manlio-lo-presti_le-costituzioni-repubblica-islamica-del-pakistan/
CYBERWAR SPIONAGGIO INFORMAZIONE DISINFORMAZIONE
Un’operazione sui social media fasulli dall’estero istigava gli incidenti a Cuba
Orinoco Tribune, 13 luglio 2021
Il famoso analista spagnolo Julián Macías Tovar analizzava la campagna sui social media contro la rivoluzione cubana negli ultimi giorni. Fu lanciato al di fuori di Cuba e uno dei suoi direttori era l’argentino Agus Antonelli, operatore politico di destra che partecipò a diverse campagne contro i movimenti di sinistra in America Latina. L’operazione fece largo uso di bot, algoritmi e account creati per l’occasione, destinati ad amplificare i messaggi lanciati dai direttori della manipolazione. Il primo account che utilizzò l’hashtag #SOSCuba per commentare la situazione COVID nel Paese era situato in Spagna. Pubblicò più di mille tweet il 10 e 11 luglio, coll’automazione di cinque retweet al secondo. L’account indicato da Tovar, @kisabel20092013, è ora sospeso. Antonetti fa parte della Fundación Libertad di destra (Fondazione Libertà, della Rete Liberale per l’America Latina). Antonetti partecipò attivamente a bufale utilizzando bot sui social network, come quelle contro l’ex-presidente della Bolivia Evo Morales e l’attuale presidente del Messico Andrés Manuel López Obrador, come rivelato da precedenti indagini, portando a restrizioni che facebook applicò a numerosi account. Nell’indagine, Tovar rivelò che furono condotte campagne per la partecipazione di artisti utilizzando un tweet coll’hashtag #SOSCuba, attirando l’attenzione sulle morti causate da COVID e presunta mancanza di risorse mediche. Ciò che colpiva delle scoperte di Tovar è che i retweet iniziali provenivano da account appena creati o che meno di un anno. Più di 1500 account che partecipavano all’operazione utilizzando l’hashtag #SOSCuba furono creati tra il 10 e l’11 luglio.
I media internazionali quindi s’incaricarono di dare visibilità alla campagna, e fecero riferimento agli artisti che vi partecipavano. Domenica 11 luglio, con centinaia di migliaia di tweet e la partecipazione di numerosi account di artisti, l’hashtag divenne argomento di tendenza in diversi Paesi. Al tempo, la prima manifestazione a San Antonio de Los Baños, Cuba, fu negli Stati Uniti dall’account di un utente twitter chiamato Yusnaby con migliaia di RT. Come scrisse Tovar: “Curiosamente Yusnaby (US Navy) è di gran lunga l’account che compare di più nei thread perché fa parte dei modelli di account falsi automatizzati che diffondono bufale e campagne di odio”. “Cosa succede a Cuba?” scrisse Tovar su twitter. “Ho analizzato oltre due milioni di tweet utilizzando l’hashtag #SOSCuba, avviato da artisti e migliaia di account e bot di nuova creazione che chiedevano aiuti umanitari e menzionavano morti per COVID, e si conclusero con una protesta per le strade”. Tovar rivela che quando si analizza l’hashtag della campagna, la cosa più evidente fu la ripetizione di tweet esatti, denotando l’esistenza di schemi automatici con centinaia di migliaia di tweet. Un altro elemento evidente dell’operazione era l’uso massiccio di account automatizzati, simili alle campagne sui social media utilizzate durante il colpo di Stato in Bolivia.
Tovar anche denunciò l’uso di immagini manipolate di eventi in altri Paesi e le evidenti connessioni tra la campagna sui social media e vari media di destra. L’inchiesta conferma le accuse delle autorità cubane, che affermavano che #SOSCuba era un’operazione online intenzionale a cui “sono dedicate risorse considerevoli, non qualcosa di improvvisato”, secondo il Ministro degli Esteri cubano Bruno Rodríguez. “È qualcosa di ben progettato [da] strutture e agenzie degli Stati Uniti con laboratori dedicati alla creazione di tali condizioni e al raggiungimento di tali obiettivi”.
FONTE: http://aurorasito.altervista.org/?p=18707
Perché l’ISIS minaccia Roma e Di Maio? Parola a Andrea Cucco (Difesa Online)
Così la Cina ha rivoluzionato il suo esercito
L’Esercito Popolare di Liberazione è il nome ufficiale attribuito alle forze armate della Cina. L’Epl, questa la sua abbreviazione, è controllato dal Partito Comunista cinese (Pcc) attraverso la Commissione Militare Centrale, un organo statale attualmente presieduto dal presidente del Paese Xi Jinping. Possiamo affermare che il Partito-Stato e l’esercito sono legati da una relazione simbiotica, visto che il primo dipende dal secondo per il mantenimento della stabilità interna e l’immagine della Cina come potenza internazionale, mentre l’Epl è connesso al Pcc per quanto concerne il suo programma di modernizzazione e tecnologizzazione.
Tra passato e futuro
Fatte queste importanti premesse, è importante sottolineare quale sia l’obiettivo di Pechino: trasformare l’Epl in una “moderna forza di combattimento” entro il 2027 e in un esercito “di livello mondiale” entro il 2050. Il primo step, dunque, coincide con la completa modernizzazione delle forze armate cinesi, per un traguardo da conseguire giusto in tempo per celebrare il centenario della fondazione dello stesso esercito. L’avventura dell’Epl, infatti, è iniziata nel 1927 con una rivolta armata lanciata dal Partito Comunista contro i nazionalisti del Kuomintang in quel di Nanchang, provincia del Jiangxi.
Nacque così la leggenda dell’Armata Rossa, inizialmente formata da comunisti, contadini, disertori del Kuomintang e semplici banditi. All’epoca non esistevano gradi né catene di comando formali. I soldati adottavano tattiche di guerriglia per contrastare un nemico numericamente molto più grande e meglio armato. Soltanto nel 1949, nella fase successiva della guerra civile cinese, questa accozzaglia di uomini divenne più organica e fu ribattezzata con il nome di Esercito di Liberazione Popolare.
Sfoltimento e riorganizzazione
Rispetto agli anni ’80 l’Epl ha subito ingenti modifiche. Innanzitutto dal punto di vista numerico, visto che nel 1980 le forze armate ammontavano a 4.5 milioni di unità, scese a 3 milioni nel periodo 1989-1993 e a 2.8 nel 2003. Oggi la Cina può comunque contare sul più grande esercito al mondo, con oltre 2 milioni di uomini all’attivo, anche alla luce dei più recenti sforzi di sfoltimento.
Accanto alla riduzione delle truppe, ha evidenziato il South China Morning Post, l’Epl ha dovuto fare i conti con una riforma strutturale. Tutto è avvenuto nel 2015, quando i quattro dipartimenti generali (inerenti a personale, logistica, politica e armamenti) sono stati riorganizzati in 15 agenzie sotto la Commissione militare centrale. Non solo: i sette comandi di area militare sono stati fusi e sostituiti da soli cinque comandi di teatro. Che cosa sono questi teatri? I cinque teatri non sono altro che aree geografiche coincidenti con le zone più calde in cui la Cina potrebbe fronteggiare una guerra o una minaccia da un momento all’altro.
I (nuovi) cinque comandi di teatro
Il Comando orientale ha sede a Nanchino ed è pronto a occuparsi di un eventuale scontro armato con Taiwan e Giappone; quello occidentale – il più esteso territorialmente – si trova a Chengdu ed è pronto a fronteggiare l’India e la piaga terroristica nei pressi dello Xinjiang; quello meridionale, a Guangzhou, tiene sotto controllo la situazione nel Mar Cinese Meridionale e nel Sud Est Asiatico; quello settentrionale, a Shenyang, controlla la situazione nella penisola coreana e in Russia; infine quello centrale, situato a Pechino, amministra la capitale.
In seguito a questo cambiamento, l’agenzia cinese Xinhua ha scritto che la Commissione detiene la responsabilità dell’amministrazione generale delle forze armate, mentre i singoli comandi del teatro si concentrano sulle operazioni e sullo sviluppo delle truppe. A detta di alcuni analisti, tale riorganizzazione sarebbe avvenuta anche per consentire il maggiore consolidamento del controllo del Pcc sui militari.
In ogni caso Pechino ha dovuto modernizzare un colosso formato da circa 2.5 milioni di soldati tra militari e riservisti, così da renderlo adatto all’attuale contesto geopolitico (un contesto che non premia più chi ha l’esercito più grande). Il Dragone ha sostanzialmente ridotto le forze terrestri e, al tempo stesso, rinforzato i settori specializzati, tra cui aviazione e marina. È stata inoltre adottata una gestione più snella nel rapporto tra i vari settori. Giusto per fare un esempio, nel recente passato i comandanti dell’esercito e della marina dovevano rivolgersi per i loro rapporti ai rispettivi uffici di servizio, ognuno situato in una delle sette vecchie regioni militari. Ebbene, dal 2016 Xi Jinping ha introdotto i cinque teatri congiunti, ciascuno sotto un unico comandante.
La chiave del successo
La Cina non si è limitata soltanto a sfoltire e riorganizzare i ranghi dell’Epl. Il governo ha varato minuziose politiche capaci di garantire alle forze armate tutte le risorse necessarie per ottenere armi all’avanguardia. Come ha scritto l’Economist, le spese militari della Cina nel periodo compreso tra il 2009 e il 2018 sono aumentate dell’83%. Tra l’altro, anche se Pechino ribadisce a gran voce di non avere alcuna intenzione di combattere una guerra – se non per difendersi da eventuali intrusioni – e di investire militarmente meno denaro rispetto ad altri Paesi – su tutti gli Stati Uniti -, le suddette spese militari del Dragone sono passate dai 19 miliardi di yuan del 1980 ai 247 (budget della difesa) del 2005. Nel 2020 è stato invece annunciato un budget pari a 1.27 trilioni di yuan (circa 193 miliardi di dollari), ossia pari al + 6.6% rispetto al 2019. Tutti questi soldi sono stati (e vengono tutt’ora) investiti in tecnologie intelligenti (un ruolo chiave è affidato all’intelligenza artificiale), nella modernizzazione delle teorie militari, nella formazione del personale e nella gestione strategica dell’intero apparato bellico.
Il grande salto, se così possiamo definirlo, è arrivato intorno al 2015, quando la Power Projection cinese è passata dal presidiare il territorio nazionale, le istituzioni e l’area più o meno coincidente con il Mar della Cina, al guardare oltre i confini nazionali. Già, perché a differenza del passato gli interessi politico-economici del governo cinese non sono più localizzati in un’area circoscritta o nel continente asiatico, quanto piuttosto nel mondo intero (basta citare il caso emblematico della Belt and Road Initiative). Diciamo che la vecchia struttura sovietica dell’Epl è ormai archiviata. Le forze armate della Cina, adesso, ricordano sempre di più l’esercito americano. Nessuno lo dice apertamente ma l’intenzione di Xi, del resto, è rendere le truppe del Dragone efficaci ed efficienti proprio come quelle statunitensi. Pechino sta quindi proseguendo a grandi passi verso il suo obiettivo finale, anche se la strada da fare è ancora piuttosto lunga.
FONTE: https://it.insideover.com/guerra/cosi-la-cina-ha-rivoluzionato-il-suo-esercito.html
ECONOMIA
Semplificare la vita a sfruttatori e profittatori
C’è una parola, un concetto che meglio di ogni altro descrive il funzionamento del cosiddetto Recovery Fund: la condizionalità. È un termine che è sempre stato al centro delle nostre analisi, un principio che torna e riemerge ad ogni occasione, e che ci permette di contrastare la favola di un’Europa solidale, pronta a riversare fiumi di milioni sul nostro Paese. Condizionalità vuol dire che ogni euro concesso è subordinato all’adempimento di una serie di obblighi, all’attuazione di riforme stabilite dalle istituzioni europee e all’adesione al progetto politico dell’austerità, in maniera tale che a fronte dell’euro ricevuto oggi si paghi un prezzo, politico ed economico, ben più caro nei prossimi anni in termini di ulteriore austerità.
Nelle prime occasioni in cui si è parlato di Recovery Fund, sulla scia del mito dell’Europa del progresso, la condizionalità poteva apparire un concetto astratto, difficile da mettere a fuoco. Ma oggi, il Governo Draghi ha iniziato a dargli forma e sostanza con il Decreto-legge 31 maggio 2021, n. 77, noto anche come Decreto Semplificazioni. Nelle settimane che hanno preceduto l’approvazione, avvenuta la sera del 28 maggio, a fronte di partiti della coalizione di Governo che cercavano di mettere bocca e avanzare obiezioni o proposte di modifiche, la risposta immutabile di Draghi è stata sempre la stessa: abbiamo un impegno esplicito con l’Europa ad approvare, entro la fine di maggio, interventi di semplificazione legislativa e delle procedure per i lavori pubblici, oltre che a definire la ‘governance’ legata al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNNR). O lo facciamo in fretta, o non riceveremo la prima tranche di aiuti del Recovery Plan.
Come dicevamo, il Decreto Semplificazioni si occupa di due aspetti distinti.
- Il primo riguarda una feroce deregolamentazione, che nella neolingua in voga nel Governo viene presentata eufemisticamente come una semplificazione, delle procedure di conferimento e assegnazione degli appalti per lavori pubblici. L’impronta ideologica è esplicita nella sua sfacciataggine. Vengono prorogate fino al 30 giugno 2023 una serie di deroghe al Codice degli Appalti che erano state approvate nei mesi della pandemia con lo scopo, almeno quello dichiarato, di poter intervenire con rapidità e urgenza nel pieno dell’emergenza: in particolare viene alzato l’importo massimo sotto al quale si possono assegnare lavori pubblici senza fare nessuna gara, ma procedendo con un’assegnazione diretta o con una snella ‘procedura negoziata’, condotta in privato tra la centrale pubblica appaltante e una cerchia ristretta di ditte; oltre a questo, si prolunga anche la validità delle deroghe che mettono al riparo il padrone vincitore di un appalto da accuse di danno erariale ed abuso d’ufficio. Nonostante la tanto sbandierata rivoluzione verde e sostenibile, i tempi concessi alle autorità preposte per effettuare una Valutazione di Impatto Ambientale, prerequisito necessario per valutare se una determinata opera pubblica devasta la natura circostante o meno, vengono dimezzati con l’accetta; inoltre, si predispone un binario blindatissimo e di fatto al di sopra di ogni controllo per otto grandi opere, tra cui linee di alta velocità e interventi sulle infrastrutture portuali. Ciliegina sulla torta, si liberalizza, di fatto incentivandolo, il ricorso al sub-appalto. Con tale nome si intende la procedura per la quale l’azienda X, che risulta vincitrice di un appalto per un lavoro pubblico, affida una parte delle proprie incombenze e dei lavori da svolgere all’azienda Y, scelta dall’azienda X in sostanziale libertà. Il sub-appalto – una pratica che storicamente ha permesso ad aziende dalla trasparenza discutibile e spesso con connessioni con il mondo criminale di mettere le mani su porzioni sostanziose di finanziamenti pubblici – è anche uno strumento grazie al quale le imprese risparmiano sui costi, attraverso peggiori condizioni per i lavoratori coinvolti e una minore qualità nei lavori realizzati. La percentuale massima di lavoro che può essere sub-appaltata aumenterà gradualmente fino al 1° novembre, quando cesserà di esistere del tutto. Ciò implica che non esisterà più alcun vincolo per le imprese a ricorrere all’opaca pratica del sub-appalto.
- Il secondo pilastro del Decreto Semplificazioni riguarda la gestione e l’attuazione del PNNR, con la definizione esplicita di chi dovrà fare cosa. L’elemento cardine è l’accentramento dei poteri decisionali presso la Presidenza del Consiglio, che avrà la facoltà di sostituirsi e commissariare le amministrazioni che ritardano nell’applicazione delle misure previste dal PNRR o che si rifiutano per ragioni di dissenso sui contenuti. Si prevede inoltre la creazione di una Segreteria Tecnica, con funzioni di supporto alla cabina di regia deputata all’attuazione del PNRR, che rimarrà in carica anche dopo la fine della legislatura, fino al 2026. In altri termini, questo organo vigilerà sui prossimi governi per evitare che l’esecutivo di turno faccia scelte diverse da quelle intraprese dall’attuale governo.
Il legame evidente e rivendicato tra il Decreto ‘semplificazioni’ e il Recovery Fund mostra in maniera evidente quali siano i veri scopi degli ‘aiuti’ europei. Si parte ora con le semplificazioni, si continuerà domani con la riforma delle pensioni e del mercato del lavoro, come abbiamo più volte mostrato. Infatti, a fronte di un ammontare di risorse assolutamente insufficiente per la ripresa economica, il Recovery Fund rappresenta un fortissimo strumento di pressione e di ricatto, una clava che viene usata per dare l’assalto ai residui di protezione sociale e regolamentazione del mercato presenti in Italia.
Il Governo Draghi, in questo scenario, svolge in maniera estremamente efficiente e competente il ruolo che gli è stato ritagliato addosso fin dal momento del suo insediamento. Imbevuto di una visione economica fortemente liberista, in virtù della quale l’intervento pubblico si deve limitare a rimuovere tutti i vincoli all’operato delle fantomatiche forze di mercato, l’esecutivo continua metodicamente, un provvedimento dopo l’altro, a curare meticolosamente gli interessi di una piccola minoranza di privilegiati, mentre i molti soccombono, tra pandemia e crisi economica.
FONTE: https://coniarerivolta.org/2021/06/03/semplificare-la-vita-a-sfruttatori-e-profittatori/
FINANZA BANCHE ASSICURAZIONI
Il terzo polo delle banche italiane parlerà francese?
Nel contesto del mondo bancario italiano c’è un attore in continua e inesorabile ascesa che sta diventando sempre più protagonista nel tessuto finanziario nazionale: la filiale italiana di Credit Agricole. Il colosso transalpino in Italia è forte di una consolidata presenza che è stata certificata nel 2019 dalla ridenominazione della storica Cariparma, fondata nel 1860, in Credit Agricole Italia e dall’annessione sotto la sua amministrazione degli istituti acquisiti negli anni dal gruppo di Montrouge, come FriulAdria e Carispezia. Credit Agricole cresce e di recente con un’Opa volontaria ha completato la scalata al 100% di FriulAdria, ampliando il perimetro delle sue partecipazioni.
La storia della presenza della finanza francese in Italia è consolidata, e si manifesta sia attraverso il sostegno alle acquisizioni nel tessuto produttivo nazionale sia attraverso la conquista di quote di debito pubblico. Ma Credit Agricole va un passo oltre e riesce a coniugare, oltre a questi dati, anche uno sviluppo di diversa matrice. In primo luogo passando attraverso la conquista di competenze e know-how in settori ben precisi. La recente scalata su Creval, banca dinamica con sede a Sondrio, in grande salute e protagonista nella rivoluzione fintech, ha ampliato il portafoglio di competenze e la presenza di Credit Agricole nei settori più innovativi della finanza.
In secondo luogo, Credit Agricole porta avanti una strategia di inserimento territoriale che i casi Parma e Sondrio testimoniano, ma che va oltre. “Banca universale di prossimità” è stata la definizione adottata da Valerio Bottazzoli, responsabilie della Direzione Retail e Crescita del gruppo, in un’intervista al Giornale di Brescia per sottolineare lo stretto legame tra la banca commerciale e le filiali locali, le società prodotto, le imprese clienti che nella città lombarda ha una delle sue nuove e più recenti manifestazioni.
Questo, e veniamo al terzo punto, si somma alla spinta di Credit Agricole per sfruttare i legami internazionali del gruppo e della casa madre in funzione della creazione di un ecosistema finanziario capace di garantirle una presa forte nella gestione delle rotte di export e dell’internazionalizzazione delle imprese. Recente è ad esempio la notizia della sinergia tra Credit Agricole Italia e Sace per un’assicurazione da 8 milioni di euro a Lumson, azienda specializzata in packaging nel settore della cosmetica, per garantire il suo export, e a Milano al centro Le Village continuano le attività di sostegno al venture capital e alle imprese.
Queste dinamiche segnalano che Credit Agricole sa come giocare la partita italiana e in prospettiva, date le notizie che hanno accostato in passato il gruppo transalpino all’acquisizione di attori come Mps, aprono uno scenario interessante. In contesti in cui si discute molto di un possibile terzo polo bancario dopo i due colossi, Unicredit e Intesa San Paolo, non va esclusa la possibilità che a realizzarlo possa esserlo proprio Credit Agricole Italia. La succursale italiana della banca di Montrouge, ottava istituzione finanziaria in Italia per dimensione, ha alla guida il terzo gruppo europeo per asset maneggiati.
E se da un lato la presenza di Credit Agricole come attore centrale in Italia ha indubbie ricadute in termini di crescita, rilancio di determinati territori e sistemizzazione di istituti che, isolati l’uno dall’altro non potrebbero sviluppare le stesse economie di scala, dall’altro essa segnala una debolezza endemica del sistema Paese. Che di fronte alla sfida francese si vede sempre più spesso terra di conquista per capitali stranieri. Non vi è chiaramente nulla di illecito né men che meno nulla di dannoso per l’economia nazionale dalle attività di Credit Agricole Italia, a cui va anche dato di fatto il merito di aver evitato a marchi storici un vero e proprio terremoto finanziario. Ma vi è un fondamentale problema politico legato all’equilibrio dei rapporti finanziari Italia-Francia. E future aggregazioni tra banche italiane e istituti stranieri porranno sicuramente un problema e un dilemma sulla capacità del Paese di esser protagonista nell’agone finanziario europeo senza prescindere necessariamente dai due campioni nazionali.
FONTE: https://it.insideover.com/economia/il-terzo-polo-delle-banche-italiane-parlera-francese.html
La Russia taglia di nuovo investimenti nel debito pubblico Usa: -97% dal 2018
GIUSTIZIA E NORME
L’arma degli Usa contro big tech e multinazionali
Il tema dominante nel dibattito pubblico negli Usa è oggigiorno quello della regolamentazione del big tech, ovvero della possibilità per l’autorità federale di imporre nuove normative suscettibili di cambiare i rapporti di forza industriali, tecnologici e finanziari che permettono a un ridotto manipolo di imprese altamente innovative stanziate soprattutto sulla costa Ovest di dettare le leggi della competizione in materia e di dominare la creazione di standard accettati a livello globale.
Lina Khan, la giovane e agguerrita portavoce della lotta agli oligopoli recentemente posta da Joe Biden a capo dell’antitrust Usa, è vista come una rivale dal big tech (Amazon, Facebook, Google, Apple e via dicendo) e una potenziale fautrice dell’applicazione di regole stringenti sulla riduzione delle posizioni dominanti delle compagnie del settore, potenzialmente in grado di arrivare fino allo smantellamento stesso degli oligopoli.
La base legislativa che gli Usa, supposta patria del libero mercato fine a sé stesso, si sono dati per contrastare gli abusi di posizione dominante è estremamente datata ma ha ricevuto diversi richiami nel corso della storia. Lo Sherman Antitrust Act del 1890 è infatti il presidio strategico più importante per definire il perimetro della regolamentazione degli oligopoli e dei monopoli e per affidare allo Stato, in potenza, il potere di procedere al loro smantellamento.
Ai tempi del decollo degli Usa come potenza industriale e commerciale, della rivolta populista contro lo strapotere dei robber barons e del rafforzamento dei poteri federali al termine dell’onda lunga della Guerra Civile lo Stato americano si trovò di fronte alla necessità di porre con sicurezza sé stesso al di sopra dell’influenza dei finanzieri d’assalto e delle eccessive concentrazioni di ricchezza. Ritenute fattore di deperimento per lo sviluppo nazionale. Lo Sherman Act, che prese il nome dal senatore repubblicano che ne fu il maggiore promotore, creò una situazione secondo cui il governo Usa non proibisce a un’azienda di raggiungere, sul campo, una situazione di monopolio in un dato settore o a un ristretto gruppo di dividersi il mercato, ma punisce duramente ogni tentativo di ricorrere a pratiche illecite per difendere de facto la posizione dominante acquisita. Alzando le barriere all’entrata, creando condizioni impareggiabili di costo, manipolando il mercato per formare un cerchio chiuso entro cui limitare la competizione economica.
In oltre un secolo, più volte governi e amministrazioni si sono rivolti allo Sherman Act. Il più celebre apologeta della legge fu Theodore Roosevelt, che a inizio secolo si conquistò la nomea di trust buster per il suo continuo rilancio della legge contro i grandi monopoli della famiglia Morgan (la Northern Securities Company contro cui Roosevelt si mosse nel 1907); in seguito nel 1911 fu la volta del colosso petrolifero Standard Oil, di proprietà di John D. Rockfeller, smembrata in trentaquattro distinte società ciascuna con un proprio distinto management. Anche il presidente William Howard Taft utilizzò la legge per colpire il monopolio della American Tobacco Company; tra i soggetti che hanno subito nel corso dei decenni investigazioni per posizioni possibili di punizioni ad opera dello Sherman Act si segnalano General Electric (colpita dalla Corte Suprema e costretta a smantellare il cartello con Westinghouse nel 1926), At&T (scorporata nel 1981) e Microsoft (sfuggita alla scure dell’antitrust nel 2001). I precedenti storici non mancano e, anzi, per eventuali azioni contro il big tech si potrebbero ipotizzare due scenari d’intervento.
Il primo è quello della regolamentazione dei colossi statunitensi su base geografica. Amazon, conglomerato fortemente integrato che ha il suo core business nella gestione di data center e nella logistica, risulterebbe maggiormente suscettibile di manovre paragonabili a quella portata avanti contro la Standard Oil, smembrata su base regionale e territoriale.
Il secondo è quello della destrutturazione di cartelli e monopoli in modo tale da promuovere l’innovazione aperta e la vera crescita della concorrenza. Lo Sherman Act potrebbe guidare eventuali azioni volte a definire la liceità dell’integrazione Facebook-Instagram-WhatsApp, ad esempio, o valutare il peso dei sistemi operativi o di Google tra i motori di ricerca. Oppure vagliare la possibilità che esistano accordi di prezzo per la gestione di prodotti informatici, hardware e via dicendo.
Rispetto all’epoca dei Rockfeller e dei Morgan il cambio più importante è sicuramente rappresentato dalla postura globale delle aziende del big tech e dalla loro proiezione mediatica e sociale su scala internazionale. A cui va aggiunta l’immaterialità dei dati il cui controllo reale rappresenta il maggior frutto di guadagni e la vera posta in gioco nella contesa tra governo federale e giganti del web.
In sostanza, lo Sherman Act è stato pensato per regolamentare la proprietà di brevetti, asset industriali, risorse naturali, reti di trasporto; centotrenta anni dopo, l’immateriale può comprensibilmente sfuggirgli. E questo segnala la crescente importanza che le cinque proposte bipartisan di cui su Inside Over abbiamo dato evidenza e che sono diretta a regolamentare il big tech acquisiscono per l’economia a stelle e strisce.
David Cicilline, 70enne dem del Rhode Island e presidente dell’Antitrust della Camera dei Rappresentanti, nel presentare le leggi che prevedono un ridimensionamento della possibilità di gestione dei dati degli utenti e un blocco alle integrazioni e all’acquisizione tra concorrenti ha segnalato che i giganti del tech hanno “troppo potere non regolato nella nostra economia” e si trovano in una posizione unica per “decidere vincitori e perdenti” della competizione di mercato, “distruggere le piccole attività, aumentare i prezzi sulle attività, estromettere le persone dal mercato del lavoro“. Per questo gli Usa potrebbero presto avere una nuova legislazione adatta ai tempi che corrono. La cui ispirazione sarà sempre quella normativa così anticipatoria delle problematiche dell’economia globalizzata che centotrenta anni fa diede a Washington la capacità di stabilire ordine nel tessuto economico. E leggendo le parole dei promotori delle iniziative anti-oligopoli come le nuove leggi sul big tech si capisce che razionalmente gli obiettivi sono gli stessi dei tempi di Roosevelt e Taft: rimettere i settori più strategici e critici al servizio del benessere dell’intera popolazione americana e non di una ristretta cerchia di finanzieri.
FONTE: https://it.insideover.com/economia/larma-degli-usa-contro-big-tech-e-multinazionali.html
IMMIGRAZIONI
Aumentano gli sbarchi dalla Turchia: possibile un ricatto di Erdogan?
Due scafisti ucraini che provano la fuga nel Mediterraneo a bordo di un’imbarcazione partita dalla Turchia. Quest’ultimo episodio, registrato a inizio luglio, testimonia la crescente preoccupazione relativa alla rotta turca. I numeri sono sempre più in aumento e stanno mettendo in allarme la diplomazia. Il perché è presto detto: aleggia lo spettro di un nuovo ricatto di Erdogan verso l’Italia. Non sarebbe del resto la prima volta che il leader turco usa l’immigrazione come arma politica. Cosa sta succedendo?
La rotta turca diventa un campanello d’allarme
Ci sono dei dati del Viminale che esprimono molto bene la situazione sul fronte migratorio. Tra gli arrivati delle ultime settimane, ad emergere è in particolare l’alto numero di cittadini bengalesi e iraniani. I primi, con 3890 presenze, sono dietro soltanto ai tunisini nella classifica dei gruppi di migranti arrivati in Italia nel 2021. I secondi, quasi mille, rappresentano un flusso crescente in maniera sempre più esponenziale. Sia i bengalesi che gli iraniani seguono tradizionalmente la rotta turca. Ecco quindi un primo elemento che certifica la crescente preoccupazione riguardante questa tratta. Ci sono poi alcuni episodi di cronaca a raccontare meglio l’attuale contesto. Negli ultimi giorni sono stati registrati approdi nelle coste calabresi. Qui gli sbarchi coinvolgono quasi esclusivamente mezzi partiti dalla Turchia.
Anche la Sicilia di recente è stata luogo di arrivo per chi ha seguito questa rotta. Ultimo episodio, quello di Siracusa. Qui il 10 luglio scorso sono arrivati 32 migranti di origine iraniana e irachena. A bordo di un veliero partito dalla penisola anatolica, gli stranieri hanno navigato per cinque giorni prima di essere trasferiti su un tender nei pressi della costa. L’imbarcazione madre si è poi allontana con a bordo gli scafisti, due uomini di origine ucraina, sottoposti a fermo di indiziati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina: “Non stiamo assistendo a un esodo di massa di migranti partiti dalla Turchia – hanno fatto sapere su InsideOver alcune fonti diplomatiche – ma i numeri pur limitati di queste settimane bastano per dare il sospetto di una mano turca sull’immigrazione”.
Il ricatto della Turchia dietro gli sbarchi?
Eppure la Turchia è una delle nazioni designata come destinataria di un’ingente somma di denaro per frenare le partenze verso l’Europa. Lo stanziamento è stato approvato dal consiglio europeo del 24 e 25 giugno scorsi. Sono circa 8 i miliardi di euro messi a disposizione per tutti i Paesi da cui si generano i flussi migratori. Denaro che verrà prelevato dal fondo europeo per il vicinato, lo sviluppo e la cooperazione internazionale (Ndci). Di questi 8 miliardi, ben 6 sono stati destinati ad Ankara. Obiettivo dello stanziamento è dare continuità agli accordi stipulati con la Turchia nel 2016. In quell’occasione gli assegni staccati da Bruxelles hanno contribuito a frenare la fuga dei siriani presenti in Anatolia. Oggi la storia, secondo le intenzioni europee, si vorrebbe far ripetere.
Ed allora quale potrebbe essere la chiave interpretativa dell’impennata della rotta turca? Dietro a questo fenomeno potrebbe celarsi una minaccia implicita di Erdogan. È possibile che, in vista di quei fondi promessi ma non ancora elargiti, il presidente turco voglia mettere pressione al Vecchio Continente. Far cioè intuire che lui può staccare e attaccare l’interruttore dell’immigrazione. E quei fondi promessi devono in qualche modo arrivare ad Ankara.
La strategia turca sui migranti
In Europa non sono mancate le voci contrarie al finanziamento promesso ad Erdogan. In Italia è stata l’opposizione guidata da Fratelli d’Italia a rimarcare perplessità. Per molti l’Ue altro non ha fatto che dare nuovamente potere ricattatorio alla Turchia sui migranti. E del resto gli ultimi precedenti parlano chiaro. Dopo la crisi del 2016 in altre occasioni il governo di Ankara ha minacciato allentamenti dei controlli ai confini in caso di divergenze con l’Europa. Tra i casi più clamorosi quello del febbraio 2020, alla vigilia dell’emergenza coronavirus. Da Bruxelles non è arrivata solidarietà alla Turchia per le vittime militari dall’esercito di Ankara ad Idlib, in Siria. E così il presidente Erdogan ha allentato i controlli dai confini terrestri e marittimi, favorendo un vero e proprio esodo verso la Grecia.
In quel caso però il governo di Atene ha reagito presidiando le frontiere ed evitando il passaggio di migliaia di persone. Lo spettro di nuove crisi migratorie causate dal comportamento delle autorità turche non ha mai abbandonato il Vecchio Continente. La minaccia di Erdogan è sempre latente. Ma a questo punto è difficile pensare che un nuovo ricatto sia riconducibile esclusivamente all’Europa. Non è difficile immaginare una Turchia impegnata a dare maggiori grattacapi all’Italia.
Perché l’Italia potrebbe essere nel mirino di Ankara?
I rapporti tra Italia e Turchia non stanno vivendo il loro migliore periodo. Il presidente del consiglio Mario Draghi ha definito Erdogan un dittatore poco dopo il suo insediamento, il leader turco ha risposto dando del “maleducato” all’ex capo della Bce. Screzi personali dietro cui si cela una progressiva tensione generale tra Roma e Ankara: “É un po’ come quando due faglie accumulano tensione – fanno sapere ancora fonti diplomatiche – c’è attrito e non si sa cosa può accadere da qui in avanti”.
Del resto sono molti i dossier in cui le due parti appaiono divergenti. A partire da quello libico. Qui la Turchia dal novembre 2019 è principale partner militare di Tripoli, circostanza non certo gradita dall’Italia. C’è poi la questione del gas cipriota, rivendicato anche da Ankara a dispetto delle legittime pretese dell’Eni. Nel 2018 la nave Saipem 12000, impegnata a largo di Cipro, è stata fatta tornare indietro da un mezzo della marina di Ankara. Così come c’è il discorso sulle Zee del Mediterraneo, ridisegnate dalla Turchia in modo da favorire i propri interessi. Più in generale allora, con la volontà italiana di tornare protagonista nello scacchiere mediterraneo, è chiaro che tra Roma e Ankara il rischio di un braccio di ferro su più fronti è sempre più in agguato. Un duello politico in cui potrebbero non mancare segnali turchi lanciati a suon di migranti fatti approdare nel nostro Paese.
FONTE: https://it.insideover.com/migrazioni/aumentano-gli-sbarchi-dalla-turchia-possibile-un-ricatto-di-erdogan.html
PANORAMA INTERNAZIONALE
Putin-Trump: cosa non torna nella rivelazione del “Guardian”
La “bomba” arriva dal solito Luke Harding – insieme Julian Borger and Dan Sabbagh – e dalle colonne del prestigioso Guardian: secondo alcuni documenti esclusivi pubblicati dalla testata britannica, il presidente russo Vladimir Putin avrebbe autorizzato personalmente un’operazione di spionaggio segreta per sostenere un Donald Trump “mentalmente instabile” alle elezioni presidenziali statunitensi del 2016 durante una sessione riservata del Consiglio di sicurezza nazionale della Federazione russa. L’incontro chiave si sarebbe svolto il 22 gennaio 2016, alla presenza del presidente russo e dei suoi capi dell’intelligence oltre che di alcuni ministri. I vertici della Federazione russa avrebbero concordato sul fatto che l’ingresso di Trump alla Casa Bianca avrebbe aiutato a raggiungere gli obiettivi strategici di Mosca, tra cui il “tumulto sociale” negli Stati Uniti e un indebolimento della posizione negoziale del presidente americano.
Alle tre agenzie di spionaggio russe sarebbe stato ordinato di trovare modi pratici per sostenere Trump, in un atto che sembra portare la firma di Putin. Il Guardian osserva che le agenzie di intelligence occidentali sarebbero a conoscenza dei documenti da alcuni mesi e li avrebbero fatti esaminare con attenzione e spiega di aver mostrato i documenti a esperti indipendenti i quali ritengono che si tratti di materiale autentico. “È assolutamente necessario usare tutta la forza possibile per facilitare la sua [di Trump] elezione alla carica di presidente degli Stati Uniti”, afferma il documento diffuso dalla testata britannica. Secondo il Cremlino, Donald Trump sarebbe un “individuo impulsivo, mentalmente instabile e squilibrato che soffre di un complesso di inferiorità”.
Il portavoce di Putin ha criticato lo scoop del Guardian. “Questa è finzione totale”, ha osservato Dmitry Peskov. “A rigor di termini, è una totale assurdità. Naturalmente, questo è il segno distintivo di una pubblicazione di qualità assolutamente bassa. O il giornale sta cercando di aumentare in qualche modo la sua popolarità o si attiene a una linea rabbiosamente russofoba”. Russia Today accusa inoltre Luke Harding di aver pubblicato in passato falsi scoop, come quello relativo un presunto incontro a Londra fra Julian Assange e e il lobbista americano Paul Manafort che, in realtà, non si è mai verificato.
Veniamo poi al merito dei documenti pubblicati dal Guardian. Premessa: difficile se non impossibile stabilire con assoluta certezza se si tratti di materiale autentico o meno. Detto questo, alcuni esperti esprimono dei dubbi. Secondo il giornalista moscovita e madrelingua Ivan Tkachev il testo pubblicato dalla testata inglese sarebbe molto sospetto per alcuni errori di sintassi e grammatica contenuti in esso. “Ho contato 4 errori linguistici e un paio di casi dubbi sull’uso delle parole” osserva su Twitter. “Quindi, con un notevole grado di sicurezza, posso presumere che si tratti di un testo tradotto da Google da una lingua straniera al russo o di un testo composto con l’aiuto di un russo non istruito, o entrambe le cose. Sarebbe interessante osservare altri documenti originali”. Secondo altri utenti, invece, si tratterebbe di un tipico “documento burocratico russo”, ma anche qui le certezze scarseggiano.
Le agenzie d’intelligence non hanno aiutato Trump
Va sottolineato che se anche la documentazione resa nota dal Guardian fosse autentica, non ci sono prove che le agenzie di intelligence russe – come ordinato da Putin – abbiano poi effettivamente dato una mano a Donald Trump a sconfiggere Hillary Clinton nel 2016. Facciamo un passo indietro e a quanto già evidenziato in più occasione da InsideOver in merito al dossier Russiagate. Come sottolineato da Aaron Maté su The Nation, nel rapporto redatto dall’ex procuratore speciale Robert Mueller, il governo russo avrebbe “interferito nelle elezioni presidenziali del 2016 in modo radicale e sistematico”. Alcuni paragrafi dopo, Mueller spiega che l’interferenza russa si è verificata “principalmente attraverso due operazioni”.
La prima di queste le operazioni consisteva in “una campagna sui social media che favoriva il candidato alla presidenza Donald J. Trump e denigrava il candidato alla presidenza Hillary Clinton”, condotto da una fabbrica di troll russi conosciuta come Internet Research Agency (Ira). Eppure la squadra di Mueller è stata costretta ad ammettere in tribunale che questa era una falsa insinuazione: un giudice federale ha infatti rimproverato l’ex procuratore e il dipartimento di Giustizia per aver “suggerito erroneamente un collegamento” tra l’Ira e il Cremlino. Il giudice distrettuale americano Dabney Friedrich ha osservato che l’accusa di Mueller del febbraio 2018 “non collega l’Ira al governo russo” e sostiene che si tratta di un’iniziativa privata “condotta da privati”. Non solo, dunque, non c’è stata alcuna “collusione” fra Donald Trump e la Russia, come stabilito dallo stesso Mueller, ma un giudice americano smentisce anche vi sia un collegamento fra la citatissima Internet Research Agency (Ira) e il governo di Vladimir Putin. Come se non bastasse, la maggior parte dei contenuti dei social media russi non aveva nulla a che fare con le elezioni (solo il 7% dei post su Facebook dell’Ira menzionava Trump o Clinton). Se non con le fake news sul web, allora il Cremlino si è servito dell’enigmatico professor Joseph Mifsud per aiutare Donald Trump? Come già approfondito da InsideOver, il docente scomparso nulla aveva legami molto più stretti con l’intelligence occidentale – in particolare con i servizi inglesi – che non con il Cremlino. Benché, infatti, l’ex direttore dell’Fbi James Comey abbia definito Mifsud “un agente russo”, nemmeno il Procuratore speciale Mueller si è mai azzardato a definirlo tale.
Trump duro con la Russia. Più di Biden
Veniamo infine alla prova dei fatti: durante la sua presidenza Donald Trump non ha fatto assolutamente nulla per avvantaggiare il Cremlino. Anzi. Trump ha portato avanti una politica estera spesso aggressiva nei confronti della Federazione Russa – che certamente non ha fatto piacere a Putin, come la decisione di ritirare gli Usa dal trattato Inf (Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty), siglato a Washington l’8 dicembre 1987 da Ronald Reagan e Michail Gorbacev, a seguito del vertice di Reykjavík. Sotto Trump, il Congresso ha inoltre approvato una legge che autorizza 250 milioni di dollari di assistenza militare, comprese armi letali, all’Ucraina. Il Congresso aveva votato per due volte il sostegno militare a Kiev durante gli ultimi anni dell’amministrazione di Obama, ma la Casa Bianca ne aveva bloccato l’attuazione. L’amministrazione Trump lo ha invece approvato. Durante l’amministrazione dell’ex presidente Trump, il gasdotto Nord Stream 2 è stato uno dei principali punti di conflitto con Mosca e Berlino: Washington aveva previsto di introdurre misure contro tutte le società europee che collaborano con la Russia alla costruzione del Nord Stream 2: il Presidente Usa Joe Biden, al contrario, ha deciso di risparmiare dalle sanzioni la Nord Stream Ag, la principale azienda impegnata nella costruzione del gasdotto.
FONTE: https://it.insideover.com/politica/putin-trump-cosa-non-torna-nella-rivelazione-del-guardian.html
La componente israeliana delle politiche statunitensi verso l’Iran
Viktor Mikhin, New Eastern Outlook 13.07.2021
Coi colloqui sul nucleare di Vienna arrivati tremolanti al sesto round, durante cui Israele fu isolato dall’influenza dell’Iran e che ora non sa influenzare i negoziati, gli astuti israeliani decisero di provare un nuovo trucco militare per scuotere gli Stati Uniti, mentre i media israeliani osservavano, “allineano i colloqui di Vienna ai nostri interessi”. Durante il suo ultimo viaggio a Washington, il capo di Stato Maggiore israeliano, Aviv Kochavi, secondo quanto riferito, trasmise “segnali chiari” all’amministrazione di Joe Biden sulla possibilità di un ritorno degli Stati Uniti all’accordo nucleare iraniano del 2015. Questi messaggi includevano minacce di attacco militare all’Iran. In tale occasione, il generale israeliano ebbe riunioni a porte chiuse con molti alti funzionari nordamericani, tra cui il segretario alla Difesa Lloyd Austin, il presidente dei capi di Stato Maggiore congiunti Mark Milley, il consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan, il direttore della CIA William Burns e il vicedirettore della DIA Susan White. In questi incontri, Kochavi affermò che Israele ha deciso di “smantellare” il programma nucleare militare iraniano un anno prima delle elezioni presidenziali statunitensi del 2020 e dell’inizio del clamore a un ritorno all’accordo nucleare, ufficialmente noto come Piano d’azione globale congiunto (PACG). Secondo i rapporti israeliani, Kochavi disse ai suoi interlocutori nordamericani che l’esercito israeliano aveva sviluppato almeno tre piani militari per fermare il programma nucleare iraniano e che il precedente governo israeliano, guidato da Benjamin Netanyahu, stanziò fondi per tali piani, mentre l’attuale governo , guidata da Naftali Bennett,promise di aggiungere importi ancora maggiori per “colmare le lacune nella preparazione militare israeliana” il più rapidamente possibile.
Tale rumore di sciabole avveniva nella guerra diplomatica di parole tra Iran e Stati Uniti dopo il sesto round dei colloqui di Vienna, che portò a scarsi progressi rispetto ai round precedenti. Gli Stati Uniti chiesero impegni dall’Iran nel discutere altre questioni urgenti e non nucleari, come il programma missilistico di Teheran e la sua influenza regionale, respingendo le legittime richieste iraniane di revocare le sanzioni dell’era Trump e fornire assicurazioni che Washington non si ritiri di nuovo dall’accordo rinnovato. In effetti, le differenze tra essi sono così profonde che la ripresa dei negoziati è ora appesa a un filo, con molti politici che suggeriscono con forza che i colloqui possano essere ripresi, ma non a breve.
Tale atmosfera tesa portava Israele ad aumentare notevolmente i contatti diplomatici e le pressioni sugli Stati Uniti nella speranza che tali richieste possano influenzare la posizione dell’amministrazione Biden sui colloqui di Vienna. Ma allo stesso tempo, gli stessi israeliani ammettevano con ansia di non poter influenzare drammaticamente la politica di Washington nei confronti di Teheran e della sua leadership. L’influente quotidiano israeliano Haaretz riferì che Tel Aviv non poteva più influenzare il nuovo corso dell’amministrazione Biden nei negoziati cogli Ayatollah nel tentativo di espandere l’attuale JCPOA. Tuttavia, gli israeliani non sembravano abbandonare la crociata contro il JCPOA e i colloqui di Vienna. Evidentemente, erano tornati al loro vecchio sogno di convincere gli Stati Uniti a fare il lavoro per loro con “sangue e spese colossali dei nordamericani”: un potente attacco militare all’Iran, che non solo distruggerebbe il programma nucleare, ma ucciderebbe molti iraniani. Tuttavia, agli israeliani non importa molto ciò. Il quotidiano Haaretz riferì, citando circoli militari e diplomatici a Tel Aviv, che i funzionari cercavano di convincere gli Stati Uniti a proporre un’opzione militare contro l’Iran se continuerà le attività nucleari, sperando che tali dichiarazioni ostili dissuadano l’Iran dal perseguire le armi nucleari. Allo stesso tempo, i diplomatici ritenevano che l’amministrazione Biden abbia meno probabilità di attaccare l’Iran se viola i termini dell’accordo, perché i nordamericani non vogliono un conflitto militare quale priorità, tanto meno con un avversario forte come la macchina da guerra iraniana. Inoltre, non va dimenticato che c’è più di una base nordamericana in questa regione a portata dei missili iraniani e, per inciso, secondo i media iraniani, tutte sono sotto il controllo dell’esercito e della Marina iraniani.
Durante la presidenza di Trump, gli Stati Uniti lanciarono varie dure minacce all’Iran, dall’attacco ai siti culturali, a fame e divieto dei vaccini contro il Covid-19 al popolo iraniano. Ma non funzionarono. A peggiorare le cose, gli stessi israeliani lanciarono quella che chiamano “campagna tra le guerre”: dottrina militare volta a confrontarsi con le sfere di influenza dell’Iran nella regione, mantenendo lo scontro al di sotto della soglia della guerra totale per eliminare l’influenza regionale di Teheran e minarne il programma nucleare. Ma non raggiunsero il loro obiettivo, poiché il programma nucleare iraniano continua a svilupparsi e l’influenza del Paese continua ad espandersi e la nuova leadership israeliana semplicemente non sa cosa fare o come contrastare Teheran. Inoltre, anche la nuova amministrazione Biden non è all’altezza delle speranze di Tel Aviv. Washington decise di sospendere il mega fondo d’investimento che avrebbe dovuto rafforzare i legami regionali dopo la firma degli accordi di Abraham lo scorso anno, secondo il quotidiano economico Globes, citando fonti statunitensi e israeliane. Il Fondo Abraham fu istituito subito dopo che Israele firmò lo storico accordo per normalizzare le relazioni con Emirati Arabi Uniti e Bahrayn nel settembre 2020. Doveva essere pagato circa 3 miliardi di dollari dal governo degli Stati Uniti e dalle istituzioni finanziarie private per “promuovere la cooperazione economica e incoraggiare la prosperità in Medio Oriente e oltre”. Dopo il lancio, l’approvazione di più di 10 progetti in aree come energia e finanza, e considerandone centinaia di altri, tutto si fermò improvvisamente quando Joe Biden vinse le elezioni presidenziali. Il capo della fondazione, nominato dall’ex-presidente Trump, scomparve e non è stato ancora scelto il successore. Secondo il Globes, l’amministrazione disse a Israele che la Fondazione è “in fase di revisione”. Il giornale citava anche una “fonte di alto rango degli Stati Uniti” che affermava che mentre la Casa Bianca vuole che gli accordi di Abraham abbiano successo, aiuterà solo la parte diplomatica e “congela il Fondo a tempo indeterminato”. Almeno una delle ragioni dichiarate per tale decisione era che l’amministrazione Biden vuole concentrare la spesa a livello nazionale per far uscire gli Stati Uniti dalla crisi economica causata dalla pandemia di Covid-19. Il Congresso attualmente discutendo un piano di spesa per le infrastrutture da quasi 1 trilione di dollari per tale sforzo.
Inoltre, non è un segreto che i democratici vogliano annullare tutto ciò che fece l’odiato predecessore repubblicano Trump. Non appena Biden giurò, congelò l’accordo miliardario sulle armi agli Emirati Arabi Uniti che includeva 50 avanzati velivoli F-35, incentivo concreto per Trump nel convincere Abu Dhabi a sedersi al tavolo dei negoziati con Israele. L’accordo non ebbe il via libera fino ad aprile, con data di consegna programmata dal 2025 o dopo. Il principe ereditario Muhamad bin Zayad degli Emirati Arabi Uniti annunciò a marzo che il suo Paese avrebbe stabilito un’altra fondazione in Israele cogli stessi obiettivi dichiarati del Fondo Abraham. Disse che saranno necessari 10 miliardi di dollari per investire nel settore privato in molte aree, tra cui assistenza sanitaria, spazio, energia e industria. Ma tutto questo sono solo parole. Al momento il fondo esiste solo sulla carta, e Globes riferiva che il nuovo governo israeliano non ha realizzato nemmeno altre opportunità economiche. Quando il ministro degli Esteri Yair Lapid andò all’inaugurazione della nuova ambasciata israeliana ad Abu Dhabi, firmò un accordo commerciale ed economico globale coll’omologo degli Emirati Abdullah bin Zayad al-Nahyan. Ma nessuno sa esattamente come verrà realizzato, data la complessa e instabile situazione nella regione. Ebbe anche il tempo per incontrare influencer online, ma annullò l’incontro coi leader aziendali, anche se affermò che il rafforzamento dei legami commerciali era in cima alle priorità della sua visita. In tale occasione, uno degli Emirati offesi, esprimendo le opinioni di molti uomini d’affari, dichiarò: “Il ministro degli Esteri israeliano ha preferito incontrare personalità influenti su internet che hanno decine di migliaia di abbonati, piuttosto che uomini d’affari che potrebbero investire miliardi in Israele”. Quindi ora il destino del nuovo fondo, che doveva essere creato negli Emirati Arabi Uniti, è in discussione.
Naturalmente, i leader di Stati Uniti, Israele e Iran devono negoziare in una forma o nell’altra, piuttosto che limitarsi ad agitare le armi, minacciando di cancellarsi a vicenda dalla faccia della terra mediorientale. Non servirà a nulla, né nella regione né nel mondo. Ma se questi leader supereranno ambizione, arroganza e superbia e sapranno tornare alla normale pratica diplomatica è una grande domanda. Finora, la fiducia nella guerra e forza ha prevalso nelle menti di politici miopi.
Viktor Mikhin, corrispondente della RANS, in esclusiva per la rivista online “New Eastern Outlook”.
Traduzione di Alessandro Lattanzio
FONTE: http://aurorasito.altervista.org/?p=18725
A Parigi proteste contro le nuove misure anti-Covid
Gli Stati Uniti mirano alle elezioni in Nicaragua
Roger D. Harris, Interantionalist 360°, 14 luglio 2021
Prima che Henry Kissinger diventasse amico di Clinton, i liberali lo condannarono per aver detto: “Non vedo perché dobbiamo restare a guardare un Paese diventare comunista a causa dell’irresponsabilità della sua gente. Le questioni sono troppo importanti perché gli elettori cileni siano lasciati a decidere da soli”. Seguì il colpo di Stato e il bagno di sangue in Cile del 1973, sostenuti dagli Stati Uniti. Ora lo Zio Sam ha un problema in Nicaragua, dove i sondaggi indipendenti indicano la vittoria schiacciante della sinistra sandinista di Daniel Ortega nelle elezioni presidenziali del 7 novembre. Il governo degli Stati Uniti e i suoi media adulatori lavorano per impedire la rielezione di Ortega. Il 12 luglio, gli Stati Uniti imposero divieti sui visti a funzionari legislativi nicaraguensi, magistrati e famigliari per “aver minato la democrazia”. Un mese prima l’amministrazione Biden impose sanzioni alla figlia del Presidente Ortega, insieme a un generale, al capo della banca centrale e un legislatore eletto. Queste e altre azioni statunitensi illegali sul Nicaragua promuovono il cambio di regime e si basano sull’accusa ridicola che questa nazione povera e minuscola sia una “minaccia straordinaria e insolita per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti”, quando è il contrario. Il NICA Act 2018, di Trump impose sanzioni e blocco dei prestiti da istituzioni finanziarie internazionali controllate dagli Stati Uniti. Nell’agosto 2020 fu rivelato il piano Responsive Assistance in Nicaragua (RAIN) , strategia multiforme golpista con cui gli Stati Uniti incaricarono l’agenzia di rovesciare il governo del Nicaragua. RAIN chiede un governo di “transizione improvvisa e imprevista” per vincere quella che ammettono altrimenti una vittoria sandinista nelle libere elezioni. In un passaggio continuo da Trump all’amministrazione Biden, il RENACER Act in sospeso estenderà le “sanzioni mirate”. L’intervento statunitense in Nicaragua e, di fatto, in America Latina sotto la Dottrina Monroe del 1823 ha una lunga storia che continua fino ai giorni nostri. Nel 1856, il cittadino nordamericano William Walker cercò di imporsi come capo di uno Stato schiavista in Nicaragua, solo per essere assassinato quattro anni dopo. Nel 1912, gli Stati Uniti iniziarono l’occupazione del Nicaragua, costringendo il Paese a divenire un protettorato statunitense. Gli Stati Uniti furono estromessi nel 1933 dalla guerra guidata dall’eroe nazionale Augusto C. Sandino, dal quale prese il nome l’attuale partito rivoluzionario. Negli anni ’80, gli ascari del governo degli Stati Uniti, i Contra, combatterono i sandinisti dopo aver rovesciato la dittatura di Somoza appoggiata dagli Stati Uniti.
Premesse problematiche
In passato, la maggior parte dei progressisti nordamericani si oppose all’imperialismo del loro governo. Ma di recente, come Jeremy Kuzmarov di CovertAction Magazine osservava : “gli Stati Uniti guerrafondai sono diventati così abili nella propaganda, che non solo possono condurre una guerra di aggressione senza suscitare proteste; possono anche costringere i liberali a denunciare gli attivisti per la pace usando un linguaggio che ricorda il mccarthismo”. Una recente Lettera Aperta al Governo del Nicaragua dei Lavoratori della Solidarietà degli Stati Uniti 1979-1990 riflette la propaganda imperialista nordamericana. A tale lettera aperta statunitense, datata 1 luglio, si aggiungono gli europei , già attivi della solidarietà coil Nicaragua, e una di accademici internazionali, principalmente nel campo degli studi latinoamericani. (I collegamenti a tutte e tre le lettere possono essere dubbi.) e le tre lettere lettere, probabilmente coordinate, usano un linguaggio simile nel formulare critiche e richieste. Mentre altri attivisti internazionali dagli anni ’80 danno priorità al non intervento e alla solidarietà col governo sandinista, le dichiarazioni espresse nella lettera aperta dovrebbero essere valutate con rispetto. La lettera aperta si basa sui seguenti presupposti problematici:
1. La lettera aperta afferma che il “regime” di Ortega è colpevole di “crimini contro l’umanità”. In effetti, il Nicaragua è di gran lunga il Paese più progressista dell’America centrale col governo sandinista. A differenza dei guatemaltechi, honduregni e salvadoregni in questi Stati clienti degli Stati Uniti, i nicaraguensi non fuggono negli Stati Uniti in cerca di una vita migliore. La povertà e la povertà estrema furono dimezzate in Nicaragua e fu raggiunto l’Obiettivo di Sviluppo del Millennio delle Nazioni Unite di ridurre la malnutrizione. L’assistenza sanitaria di base e l’istruzione sono gratuite e l’analfabetismo praticamente eliminato, pur vantando il massimo livello di uguaglianza di genere nelle Americhe. Il Nicaragua, che gode del tasso di omicidi più basso dell’America Centrale, ha anche la minore forza di polizia col budget più basso della regione. Queste non sono caratteristiche di una dittatura.
2. La lettera aperta afferma che il tentativo di colpo di Stato del 2018 fu semplicemente una “dimostrazione di autodeterminazione”, sebbene la lettera aperta noti correttamente che gli eventi del 2018 riflettevano del malcontento popolare, occulta i milioni di dollari e gli anni di sovversione sponsorizzata dagli Stati Uniti in Nicaragua. Le campagne sui social media di false informazioni orchestrate da gruppi sponsorizzati dagli Stati Uniti alimentarono proteste brutali. Secondo l’attivista della solidarietà Jorge Capelán : “chi rapì, torturò, derubò, assassinò e violentò cittadini qui in Nicaragua nell’aprile 2018 furono i promotori del colpo di Stato. Loro stessi registrarono tutto coi loro cellulari. Persino diedero fuoco ai compagni sandinisti assassinati per strada”. Benjamin Waddell, un firmatario della Lettera Aperta, ammise “è sempre più chiaro che il sostegno degli Stati Uniti ha svolto un ruolo nel nutrire le attuali rivolte [2018]”. Dan La Botz, altro nemico di Ortega, dipinse lo sfondo: “Organizzazioni statunitensi come USAID e National Endowment for Democracy (NED), e senza dubbio la CIA lavorano da decenni in Nicaragua come ovunque nel mondo”. Alcuna alternativa sostanziale progressista fu offerta dall’opposizione nel 2018, secondo William Robinson, altro firmatario della lettera aperta. Piuttosto, il 2018 fu un tentativo di ottenere con mezzi violenti ciò che non poteva essere raggiunto democraticamente alle urne.
3. La lettera aperta afferma che il governo nicaraguense “non rappresenta in alcun modo valori, principi e obiettivi della rivoluzione sandinista”. Tale posizione arroga agli stranieri il diritto di dire al popolo nicaraguense come sottovaluta la propria rivoluzione. Il processo elettorale in Nicaragua chiarisce che i nicaraguensi la pensano diversamente. Dopo aver rovesciato il dittatore Somoza appoggiato dagli Stati Uniti e aver combattuto la guerra controrivoluzionaria contro i Contras sostenuti dagli Stati Uniti, i sandinisti persero le elezioni del 1990. In particolare, il presidente uscente Ortega obbedì senza esitazione al mandato elettorale, la prima volta nella storia del Nicaragua che il governo passò pacificamente a un altro partito politico. Dopo 17 anni di austerità neoliberista, Daniel Ortega vinse le elezioni presidenziali del 2006 col 38% dei voti e vinse nel 2011 col 63% e il 72,5% nel 2016. I margini elettorali sempre crescenti di Ortega suggeriscono che la maggioranza dei nicaraguensi lo sostiene come leader legittimo della rivoluzione sandinista.
Proposte problematiche
Usando lo stesso linguaggio volgare del governo degli Stati Uniti, la lettera aperta invita il “regime Ortega-Murillo” a rilasciare i prigionieri politici detenuti, inclusi “precandidati” dell’opposizione e “cpai storici” della rivoluzione sandinista; abrogare la legge sulla sicurezza nazionale in base a cui costoro furono arrestati; e negoziare riforme elettorali. Il Nicaragua approvò due leggi recenti: la legge sugli agenti stranieri e la legge per la difesa dei diritti del popolo all’indipendenza, sovranità e autodeterminazione per la pace. Queste leggi, che la lettera aperta vuole abrogare, criminalizzano la promozione dell’interferenza straniera negli affari interni del Nicaragua, la ricerca dell’intervento militare straniero, l’organizzazione del terrorismo e la promozione di misure economiche coercitive contro il Paese. Si tratta di attività, va notato, ugualmente vietate nel FARA Act degli Stati Uniti, dal quale furono modellate le leggi nicaraguensi. Le recenti azioni del governo nicaraguense che perseguono le persone che infrangono le leggi sono una normale funzione di governo. Il fatto che alcuni imputati possono avere aspirazioni politiche non li immunizza dall’arresto per attività illecite. La lettera degli accademici afferma che tra i suddetti detenuti ci sono i “più importanti candidati presidenziali dell’opposizione”. Alcuno dei 17 partiti politici del Nicaragua, infatti, ha scelto i propri candidati, e “la maggior parte degli indagati non appartiene a nessun partito legalmente registrato”. In effetti, Stephen Sefton risponde dal Nicaragua che “nessuna figura di spicco dei partiti politici d’opposizione del Nicaragua è stata colpita dagli arresti di persone di organizzazioni che hanno sostenuto il tentativo di colpo di Stato del 2018”. Uno dei più importanti tra gli arrestati è la direttrice dell’ONG Cristiana Chamorro, accusata di riciclaggio di denaro per aver ricevuto milioni di dollari dall’USAID, da altre agenzie governative statunitensi e da fondazioni alleate per il cambio di regime. In sua difesa, affermò incredula che il dipartimento di Stato nordamericano l’aveva sentita e aveva trovato tutto di loro gradimento. I “capi storici” della rivoluzione sandinista sono proprio questo; persone che avevano rotto con la rivoluzione molto tempo fa e dal 1994 collaborano coll’opposizione di destra e le ONG alleate degli Stati Uniti. Più precisamente, sono accusati di collusione illegale con potenze straniere. La lettera aperta chiede di “negoziare le riforme elettorali”, ma la legge elettorale in Nicaragua come negli Stati Uniti è garantita dal processo legislativo e non dai negoziati tra vari blocchi di potere. Il Nicaragua ha attuato alcune, ma non tutte, le riforme richieste dall’Organizzazione degli Stati americani. Il quarto ramo del governo, il Consiglio Supremo Elettorale (CSE), sovrintende le elezioni. Un terzo dell’attuale Cse è composto da rappresentanti di partiti diversi dal partito di governo, anche se i sandinisti detengono la maggioranza nella legislatura.
Il diritto della rivoluzione nicaraguense a difendersi
Pur riconoscendo “la lunga e vergognosa storia dell’intervento del governo degli Stati Uniti”, la lettera aperta non riconosce il diritto della rivoluzione nicaraguense di difendersi. Al contrario, la sua implicita approvazione del tentativo golpista del 2018 è un appello al cambio di regime con mezzi non democratici e implicito sostegno dell’interferenza degli Stati Uniti. La conclusione della lettera aperta secondo cui “i crimini del governo degli Stati Uniti, passati e presenti, non sono la causa, né giustificano o scusano” il comportamento dell’attuale governo in Nicaragua è una porta che gira in due direzioni. Qualunque siano i presunti illeciti del governo Ortega, ciò non giustifica la campagna di cambio di regime del governo degli Stati Uniti. La lettera aperta tace clamorosamente sull’intervento degli Stati Uniti, in particolare le leggi punitive NICA e RENACER. Il governo del Nicaragua ha dato priorità ai bisogni dei poveri e dei lavoratori e ha compiuto progressi sorprendenti su più fronti. Questo è il motivo per cui è preso di mira dal cambio di regime e perché i nicaraguensi hanno preso misure per contrastare l’intervento degli Stati Uniti. L’amministrazione Trump prese di mira specificamente la cosiddetta “Troika della tirannia”, Cuba, Venezuela e Nicaragua, con sanzioni illegali repressive volte al cambio di regime. Tale politica di dominio statunitense non è iniziata con Trump, né si concluderà con la nuova amministrazione statunitense. Gli imperialisti sono chiari su chi prendono di mira come nemico; alcuni a sinistra sono meno chiari su chi sia amico e se il Nicaragua abbia il diritto di difendersi. Se i firmatari della lettera aperta, come affermano, “nel diritto nicaraguense all’autodeterminazione… dal popolo sovrano del proprio destino”, allora le elezioni di novembre 2021 dovranno essere protette, libere dall’interferenza da Stati Uniti e loro alleati internazionali e ONG da loro finanziate.
Roger D. Harris fa parte dell’organizzazione per i diritti umani Task Force on the Americas, fondata nel 1985.
Traduzione di Alessandro Lattanzio
FONTE: http://aurorasito.altervista.org/?p=18717
POLITICA
Quelle verità di Trump che i dem non possono ignorare
Due volte messo sotto impeachment, escluso da tutte le piattaforme social dopo l’assalto di Capitol Hill da parte dei suoi più accaniti sostenitori, additato dagli avversari come mentalmente instabile, omofobo, donnaiolo e razzista: non esiste, nella storia degli Stati Uniti d’America, un Presidente più divisivo e forse controverso di Donald J. Trump. Anche se nemici e avversari non lo ammetteranno mai, tuttavia, ci sono alcuni temi che il 45esimo Presidente americano ha centrato durante la sua tormentata presidenza. E non si tratta di argomenti di poco conto, tutt’altro, ma di questioni cruciali per la sicurezza nazionale della superpotenza americana e non solo. Dalla guerra commerciale con la Cina all’origine del Covid-19, passando per l’immigrazione illegale e il ritiro delle truppe Usa dall’Afghanistan, sono numerosi i temi sui quali il suo successore, Joe Biden, ha dovuto dar obtorto collo ragione o comunque dare continuità alle azioni di The Donald.
Cina e dazi
Sulla Cina, ad esempio, c’è piena continuità fra Trump e Biden. Come sottolinea il presidente e fondatore di Eurasia Group Ian Bremmer sul Corriere della Sera, il presidente Biden vede nella Cina la principale minaccia alla democrazia e alle libertà individuali, oltre che alla sicurezza nazionale americana. Il suo governo non ha fatto passi indietro nella guerra commerciale avviata da Trump. Dazi e sanzioni imposti da The Donald restano al loro posto, osserva Bremmer, per sfruttare al massimo la forza negoziale degli Usa con la Cina in altri settori, e per alzare la posta in gioco sono stati introdotti anche i controlli sulle esportazioni. Fra Donald Trump e Joe Biden, dunque, c’è continuità nella strategia con Pechino. Come nota peraltro l’Economist, ora Joe Biden “sta convertendo l’enfasi trumpiana in una dottrina che contrappone l’America alla Cina, una lotta tra sistemi politici rivali che, dice, può avere un solo vincitore”.
Secondo Biden e il suo team, infatti, la Cina è “meno interessata alla convivenza e più interessata al dominio”. Durante la sua presidenza, Trump ha imposto tariffe per 250 miliardi di dollari di beni cinesi per fare pressione su Pechino affinché fermasse il furto di proprietà intellettuale e i trasferimenti forzati di tecnologia, migliorasse l’accesso al mercato per le aziende statunitensi e tagliasse il suo programma di sussidi industriali ad alta tecnologia. Tutto ebbe inizio l’8 marzo 2018 quando Trump annunciò tariffe del 25% sulle importazioni di acciaio e del 10% sull’alluminio da diversi paesi nel tentativo di ridurre l’enorme deficit commerciale degli Stati Uniti. L’approccio di Trump con Pechino fu attaccato da tutti, dagli avversari dem, dalla grande stampa – come il New York Times – mentre ora Biden prosegue nel solco di quella strategia.
L’origine del Covid-19: il laboratorio di Wuhan
Aprile 2020. Donald Trump, parlando alla Casa Bianca con la stampa, affermava di “aver un alto livello di fiducia nell’ipotesi che l’origine del coronavirus sia legata ad un laboratorio di Wuhan“, in Cina. “Lì deve essere successo qualcosa di terribile. Può essere stato un errore, qualcosa che si è sviluppato inavvertitamente, oppure qualcuno lo ha fatto di proposito” spiegava, scatenando gli attacchi degli avversari. Una teoria complottista, secondo la stragrande maggioranza della stampa “liberal”. Ora che c’è Joe Biden alla Casa Bianca, tuttavia, la narrativa è radicalmente cambiata e l’ipotesi del laboratorio non è più una semplice suggestione o una teoria strampalata. Di recente, infatti, Wall Street Journal ha pubblicato un rapporto secondo cui tre dipendenti dell’Istituto di virologia di Wuhan hanno manifestato sintomi simil-influenzali o Covid nel novembre 2019 e hanno cercato di curarsi in ospedale. E dopo che il dottor Anthony Fauci ha dichiarato di “non essere convinto” dell’origine naturale di Covid-19, nonché a seguito della lettera pubblicata su Science nella quale 20 accademici hanno sottolineato la necessità di un’ulteriore indagine sull’origine del coronavirus, il Presidente Joe Biden ha chiesto di allargare l’inchiesta sulla pandemia.
La guerra a Big Tech
Donald Trump è stato il primo a chiedere di regolamentare lo strapotere dei social media e delle aziende Big Tech, esattamente ciò che sta facendo il suo successore, seppur con motivazioni diametralmente opposte. Se secondo i conservatori le piattaforme social non garantiscono la sacrosanta libertà d’espressione sancita dal Primo emendamento e puniscono principalmente gli utenti di destra, per i democratici, al contrario, i social media non sono abbastanza efficaci nel contrastare la diffusione delle cosiddette “fake news”. Da qui, la “stretta” varata nelle scorse settimane contro i post che, secondo l’amministrazione Biden, farebbero disinformazione sul Covid-19 e sarebbero dannosi per la salute della nazione. Come riporta Newsweek, i funzionari della Casa Bianca stanno segnalando a Facebook i post che presumibilmente diffondono disinformazione sul Covid-10: la portavoce della Casa Bianca, Jen Psaki, ha affermato che parte della nuova campagna dell’amministrazione Biden consiste nel chiedere alle società di social media di essere “più attive nella lotta alla disinformazione” e di “condividere pubblicamente i risultati dei loro sforzi”. Questo contraddice in pieno la tesi di quelli che affermavano che i social media non si possono regolamentare perché si tratta di “società private”.
Il ritiro delle truppe dall’Afghanistan
Il 17 settembre 2020 il segretario alla Difesa, Christopher Miller, su mandato dell’ex Presidente Trump, annunciava ufficialmente il ritiro di migliaia di soldati americani entro il 15 gennaio. A seguito dell’accordo di pace con i talebani del 29 febbraio 2020, Mark Esper – poi licenziato da The Donald e sostituito proprio da Miller – aveva già ridotto di due terzi il dispiegamento militare in Afghanistan, portandolo a 4.500 effettivi. La decisione non fu accolta da tutti in maniera positiva, anche fra gli stessi repubblicani. L’ex leader della maggioranza al Senato Mitch McConnell avvertiva che sarebbe stato un “errore” lasciare precipitosamente l’Afghanistan ed esortava l’amministrazione Trump a non apportare grandi cambiamenti alla difesa o alla politica estera per il resto dell’anno. Dello stesso avviso il repubblicano ex presidente della commissione Forze Armate Mac Thornberry e la senatrice dem Tammy Duckworth. Secondo Bloomberg, il ritiro delle truppe dell’Afghanistan voluto da Trump era un “regalo per i talebani”. La decisione di Trump, ancora una volta, è stata confermata dal suo successore: come spiega Paolo Mauri su InsideOver, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha annunciato giovedì scorso che la missione militare in Afghanistan terminerà il 31 agosto, affermando contestualmente che il rapido abbandono delle posizioni serve a proteggere le truppe statunitensi dagli attacchi dei Talebani.
Russia: Trump più duro di Joe Biden
Dopo anni di martellante isteria sul Russiagate, fa quasi sorridere dirlo: ma la verità è che Donald Trump – ad oggi – è stato molto più duro di Joe Biden nei confronti di Mosca, con buona pace di chi definiva il magnate un “pupazzo di Putin”. Come ricorda sempre Ian Bremmer sul Corriere della Sera, infatti, durante gli anni di Trump, le sanzioni sono state inasprite. “L’ex presidente – scrive – si è opposto al progetto del gasdotto russo Nord Stream 2, di grande rilevanza strategica. Trump ha inoltre rafforzato la presenza di truppe statunitensi in Europa orientale, un favore particolare fatto al presidente polacco Andrzej Duda, da sempre schierato con Trump contro Putin”. Senza contare che sotto Trump, il Congresso ha inoltre approvato una legge che autorizza 250 milioni di dollari di assistenza militare, comprese armi letali, all’Ucraina. Lo stesso Congresso aveva votato per due volte il sostegno militare a Kiev durante gli ultimi anni dell’amministrazione di Obama, ma la Casa Bianca ne aveva bloccato l’attuazione, un passo in dietro arrivato ben prima dell’arrivo di Trump, che invece lo ha approvato. Al di là della retorica e delle accuse dei democratici, dunque, l’amministrazione Trump ha messo in campo una politica molto aggressiva nei confronti di Mosca rispetto a quella attuata, fino ad oggi, da Biden, che sembra invece concentrarsi sulla Cina.
Immigrazione: il confine meridionale
Sull’immigrazione le posizioni rimangono ovviamente diverse ma una cosa è certa: una volta arrivati al potere, i dem hanno capito che l’immigrazione incontrollata è un problema – come ha sempre sostenuto Trump – tanto da invitare i migranti a non emigrare verso gli Stati Uniti. “Aiutiamo i migranti a casa loro, non venite negli Usa”. Questo è il sunto del discorso pronunciato nientemeno che dalla vicepresidente Usa, Kamala Harris poco prima del suo arrivo in Messico dopo la visita in Guatemala, nel suo primo viaggio all’estero della numero due della Casa Bianca dall’assunzione dell’incarico. La vicepresidente Usa ha spiegato che “l’obiettivo del nostro lavoro è aiutare i guatemaltechi a trovare speranza a casa loro. Allo stesso tempo voglio essere chiara con coloro che stanno pensando di intraprendere quel pericoloso viaggio verso il confine Messico-Stati Uniti: non venite, non venite”. Parole che nulla hanno a che fare con la retorica open borders di certa sinistra liberal che ha pesantemente attaccato The Donald durante il suo mandato presidenziale.
FONTE: https://it.insideover.com/politica/quelle-verita-di-trump-che-i-dem-non-possono-ignorare.html
SCIENZE TECNOLOGIE
Dott. De Simone: non torneremo alla normalità con la vaccinazione di massa
Sempre più medici ed esperti fanno sentire la loro voce contro una vaccinazione di massa che si sta rivelando inutile e dannosa
Nell’ultimo periodo stiamo assistendo ad una campagna mediatica senza precedenti: spot televisivi , primari e ed “esperti” che minacciano segregazioni e ulteriori restrizioni per i non vaccinati, giornalisti che continuano senza sosta a portare avanti un’unica narrazione.
Nessun dubbio è tollerato nel perseguire la vaccinazione di ogni individuo.
Non è però del tutto chiaro quanto questa pressione stia ottenendo i risultati auspicati dal sistema: molti cittadini che non hanno avuto dubbi fino a questo momento sono stanchi di sentir parlare solo di Covid-19 e vaccini, e d’altronde hanno deciso di vaccinarsi proprio per mettersi questa storia alle spalle.
Coloro che invece hanno manifestato nell’ultimo anno e mezzo preoccupazioni e perplessità più o meno accentuate potrebbero essere indotti a vedere questa accelerata senza precedenti, affiancata e rinforzata dalla questione delle varianti, come il primo segnale di difficoltà da parte delle istituzioni.
Molti si aspettavano un’estate relativamente libera da pressioni, necessaria per far fiatare i cittadini in vista del prossimo inverno. Eppure le cose stanno andando diversamente.
Delirio di onnipotenza oppure fretta di concludere prima che si spostino gli equilibri? Il tempo ce lo dirà.
In questo quadro desolante abbiamo i medici e gli operatori sanitari, molto spesso criticati per le scelte compiute come categoria. Proprio questi cittadini, tuttavia, stanno levando sempre più forte la loro voce.
Tra questi abbiamo il dottor Loris De Simone, medico di Pistoia, specialista in Endocrinologia e Ginecologia, che da tempo sta curando i suoi pazienti con le terapie domiciliari in aperto contrasto al protocollo ministeriale adottato dal Governo italiano.
In un recente video, dal titolo “I giovani e l’inganno“, il dottor De Simone ha voluto affrontare due tematiche essenziali: la necessità o meno di una vaccinazione di massa contro la Covid-19, e la modalità con cui secondo il dottore stiamo ingannando i nostri giovani, spingendoli ad un “sacrificio completamente inutile se non dannoso“.
E’ noto come i virus a RNA siano soggetti a continue mutazioni. In genere in natura assistiamo a variazioni più infettive ma meno patogene, in modo da garantire la sopravvivenza del virus stesso.
Sotto pressione vaccinale è tuttavia possibile che si creino varianti resistenti al vaccino stesso, secondo un meccanismo di selezione spiegato dal dott. De Simone in modo molto semplice ed intuitivo: paragonando le varianti a diverse tipologie di erbe e ipotizzando di trattarle in modo massiccio con un diserbante/vaccino risulta evidente come, alla fine del processo, rimarranno ed eventualmente si riprodurranno soltanto le erbe/varianti resistenti e/o insensibili al trattamento.
D’altronde è esattamente quello che “sta succedendo in Cile e Inghilterra dove, con una vaccinazione che comincia a rasentare il 50/60% della popolazione generale, si stanno sviluppando varianti che sono insensibili al trattamento, e quindi in inghilterra su 40 morti la metà sono tra i soggetti vaccinati“. [1]
Per il dottor De Simone quindi “abbassare l’età di vaccinazione sotto i 40 anni non è assolutamente utile per controllare una pandemia“.
A maggior ragione se consideriamo che, tra gli oltre 23 milioni di under 40 in Italia, il numero di decessi “Covid” in quasi un anno e mezzo ammonta ad un totale di 296 persone di cui soltanto 41 senza patologie apparenti. Questo rende di fatto completamente illogico ogni discorso relativo al famoso rapporto tra rischi e benefici in questa fascia d’età. [2]
L’appello viene quindi rivolto direttamente ai giovani: “vi hanno letteralmente imbrogliato, vi hanno convinto che il vostro è un atto di civiltà perchè vaccinando voi probabilmente andrete a proteggere le persone più anziane“. Ma non solo, “vi hanno illuso della libertà di poter girare, di andare in discoteca e di tornare ad una normalità. Non torneremo alla normalità con la vaccinazione di massa“, conclude senza giri di parole il dott. De Simone.
Il discorso si sposta quindi sulle cure domiciliari precoci, la cui efficacia è garantita in prima persona dallo stesso De Simone. Egli lavora infatti con i gruppi di medici contrari al protocollo ministeriale di “tachipirina e vigile attesa” che, a suo avviso, “ha provocato molte migliaia di morti in più rispetto a quelli che la pandemia avrebbe fatto se gestita bene, e di questo il signor Speranza prima o poi risponderà.”
Se una certa dose di confusione era prevedibile e giustificabile nelle fasi iniziali dell’emergenza, “una volta che abbiamo visto che i protocolli usati dai medici delle terapie domiciliari funzionavano e riducevano drasticamente mortalità e ricoveri ospedalieri” non si ha nessuna giustificazione per il prolungarsi delle misure emergenziali.
Non viene risparmiato nemmeno il pass vaccinale, non avendo “nessuna logica che un vaccinato, che può ancora trasportare nella sua gola il virus, possa essere considerato libero da vincoli in quanto non più contagiante. Non è assolutamente vero.”
In conclusione per il dottor De Simone quello che stiamo vivendo è “un grave inganno al quale ci dobbiamo ribellare in massa, a prezzo di ogni sacrificio, visto che l’establishment che gestisce questa situazione ha ormai perso ogni questione morale“.
Per chi volesse approfondire il video completo dell’intervento è disponibile al seguente link.
Buona visione
NOTE
[1] Il dottor De Simone fa riferimento ai documenti del governo inglese “SARS–CoV–2 variants of concern and variants under investigation in England“, disponibili al link https://www.gov.uk/government/publications/investigation-of-novel-sars-cov-2-variant-variant-of-concern-20201201
[2] La mortalità per fasce d’età e sesso è stata recentemente analizzata anche dal dottor Maurizio Rainisio. Qui il video completo dell’intervento su RadioRadio.it
FONTE: https://comedonchisciotte.org/dott-de-simone-non-torneremo-alla-normalita-con-la-vaccinazione-di-massa/
Vaccini Covid, I fatti.
Un breve video che parla della cosiddetta pandemia, dei vaccini, della censura, e tanto altro. Sarcastico e piacevole da seguire.
Introduzione al video e Trascrizione Italiana del traduttore Giulio Bona.
Introduzione
Prima di parlare del video in questione, vorrei esprimere un concetto semplice, che penso da tanto tempo.
Se questa pandemia fosse un edificio, il test PCR sarebbe le fondamenta ed i pilastri portanti dello stesso, ben scavati nella terra che reggono l’intera struttura.
Indagando approfonditamente, si scopre che il test PCR non e’ mai stato adeguato al suo scopo, probabilmente perche’ il creatore stesso, Kary Mullis, lo disse al suo tempo: “Non vi dira’ mai se quello che trova vi fara’ stare male o no. Ergo, non serve a trovare malattie.”, in parole povere lo fanno scattare sia virus attivi… che solo frammenti morti innocui, ed oggi e’ utilizzato come standard aureo che regola le nostre liberta’ individuali. Mi devono anche spiegare perche’ mettiamo il bavaglio (mascherina) perche’ la nostra saliva e’ infetta, ma per il PCR ti devono scavare nel cranio dal naso. Scusate ma “Le micidiali goccioline” citate da plurime autorevoli fonti “orofecali” (per citare l’ottimo Roberto Quaglia) della stampa Italiana, cosi’ “micidiali” da non riuscire a fare scattare il test… vabbe.
Quindi, che cosa devo pensare delle fondamenta dell’edificio ipotetico di poco fa? Le fondamenta di quell’edificio per me diventano fatte di ottimi grissini Torinesi. Per me tutto crolla facendo un grande botto, per pura e semplice logica. Io credo che il COVID esista, ma credo che sia una sorta di influenza, che fa (forse) scattare un test, e basta. Anche perche’ l’influenza non puo’ essere scomparsa dal pianeta ed il nostro amico covid ha sintomi quasi identici. Come la sua cugina Influenza, se una persona e’ fragile, puo’ essere letale, come e’ stato tutti gli anni, in certi periodi dell’anno sin dalla notte dei tempi.
Test non funziona >> Numero dei morti assolutamente inaffidabile >> Emergenza dichiarata non necessaria >> Vaccino non serve >> Lockdown e Social Distancing inutili, anzi pesantemente dannosi. (la Svezia ci ha dimostrato che lockdown e social distancing non hanno fatto diminuire le morti da COVID neanche un po’, anzi, la gente muore di piu’ nei paesi “virtuosi” per cosi’ dire sarcasticamente. Li in Svezia hanno tanti “CASI” … si trovati col solito test, che sono veri come i sintomi degli asintomatici.)
Questo ha poi scatenato:
Intervento di “PROTEZIONE” da parte degli stati che affossa le cure e distrugge l’economia >> Cessione e morte della liberta’ individuali >> Criminale ricatto di un vaccino sperimentale per i sanitari >> vietare PER LEGGE l’analisi dei vaccini, che si comprano a scatola chiusa e poi si iniettano alla gente >> vietare di fare causa alle compagnie creatrici per effetti collaterali >> se uno muore e scatta il test, non importa di cosa sia morto, e’ morto di covid >> Se uno sanissimo si fa il vaccino e subito dopo muore senza spiegazione, subito si pubblica: “Nessuna correlazione col vaccino.” >> CONFLITTO D’INTERESSE dei politici, dei giornali e dei media mainstream >> Gran parte dei politici e giornalisti fanno di tutto per spacciare solo VACCINI sperimentali >> CENSURA … devo continuare?
Mi trovate una, solo una cosa che in questi mesi i governi hanno fatto ed ha aiutato in qualsiasi senso i cittadini Italiani?
Tornando al video, girando online, ovviamente stando alla larga dal “farmaceutico/integralista” YouTube, ho trovato questo video che fa un riassunto della pandemia e mette al centro l’oscuro argomento di questi nuovi vaccini, che tra il mistico ed il religioso, oggi sono spacciati come cura universale, che mette da parte tutte le cure, anche quelle vere e che funzionano. Il video ha un taglio leggero ed estremamente piacevole, ovviamente l’argomento trattato e’ molto controverso e spaventoso, con questo piccolo ossimoro, il creatore del video ha voluto marcare il punto che la scelta di vaccinarsi dovrebbe essere libera, sempre.
Questo video, fa un eccellente riassunto di quello che sta succedendo oggi, con una panoramica sui pericoli a cui i nostri governi ci stanno esponendo con la scusa di questa pandemia. Il continuo mantra che “le cure non funzionano contro il COVID” quando dottori in tutto il mondo hanno dimostrato che non e’ vero, mentre e’ il vaccino sperimentale e sempre sicuro, non succede solo in Italia. Come si vede da questo video chiaramente, negli Stati Uniti il governo sta facendo le stesse manovre sporche di soppressione delle cure, dettate chissa’ da cosa… probabilmente, dai lobbisti e dalla capacita’ di riempire i loro conti in banca. Perche’ lo sappiamo bene che se ci sono delle cure valide… il vaccino non puo’ essere “spinto”!
Il video va abbastanza svelto, se scrollate in basso in questa pagina ho messo anche la completa trascrizione italiana del parlato del video. Chiedo scusa se alcune parti non funzionano bene senza il video di supporto o se qualche punteggiatura non corrisponde 100%, ho copiato letteralmente i sottotitoli del video. Ho fatto una piccola ricerca sull’origine del video, per capire chi l’ha creato, ma mi e’ risultato difficile trovare qualcosa di concreto. Il video postato su Odysee nel link 1 viene da questo sito che sembra essere un sito Australiano correlato ad un partito anti-obbligo vaccinale dell’Australia Occidentale. Non credo che il video l’abbiano creato loro: https://readsection158.exposed/
Dall’accento del parlato, dalla citazione del VAERS e del PREP ACT ed FDA, ho dedotto che venga dagli Stati Uniti. Non sono riuscito a trovare il creatore di questo video, prego chiunque sia a conoscenza del creatore di questo video, di farmelo sapere nei commenti. Saro’ ben felice di citarlo per la sua splendida opera.
In conclusione In questo video vedrete similitudini con i nostri cari media, tante, spero possa darvi una prospettiva corretta sulla questione, soprattutto sulla volonta’ chiara di questi ‘politici’ e giornalisti ed altri, a cui non interessa chi vive e chi muore, ma solo di spacciare il vaccino. Il fatto che sta accadendo anche dall’altro lato del mondo dovrebbe farci riflettere non sulle sincronicita’, ma sulla regia. Purtroppo oggi farsi domande e’ da complottisti. Forse dobbiamo stare tutti “Zitti e Buoni” come recita una violenta e stomachevole canzone del momento.
Spero mi perdoniate l’espressione, ma io rispondo: “Zitti e buoni… COL CAVOLO!”
Buona Visione.
Giulio Bona.
FONTE: https://comedonchisciotte.org/vaccini-covid-i-fatti/
IL VALORE DELLA REPUTAZIONE DIGITALE
La prima qualità del libro Web reputation di Angelo Deian è la chiarezza espositiva spesso assente nella trattazione di questo complicato argomento in altre pubblicazioni. Il testo di centonovantaquattro pagine è suddiviso in cinque capitoli. Ogni capitolo è lo sviluppo logico e teorico del precedente. Molto significativo è l’uso sagace di aforismi all’apertura del libro e in premessa di ogni capitolo che anticipano lo spirito del contenuto del tema trattato. Il primo capitolo analizza lo scenario enfatizzando la crescente importanza della conoscenza digitale e culturale come motore e come fondamento della reputazione digitale. Il secondo analizza la morfologia della struttura distributiva delle informazioni: i social media, le app, le reti corte, le piattaforme e l’irruzione dei cosiddetti influencer.
Il capitolo valuta con attenzione l’importanza e gli aspetti positivi di una reputazione digitale ben costruita e, soprattutto, mantenuta credibile nel corso del tempo sia in ordine alle decisioni individuali, sia rispetto alle strategie delle organizzazioni private e pubbliche nazionali o internazionali. Il terzo capitolo approfondisce gli aspetti del sistema comunicativo entrando nel dettaglio della web reputation come strumento previsionale, come livello di affidabilità (employability) e come metro di gestione del mercato e del posizionamento di mercato del singolo e della organizzazione aziendale e/o istituzionale.
L’esergo del quarto capitolo è emblematico: “In un mondo alluvionato da informazioni irrilevanti, la semplicità è potere”. Semplificare non significa quindi banalizzare come molti temono nascondendosi nelle narrazioni complicate ed infarcite di inglesismi per conferire al libro un contenuto intellettivo spesso risibile o del tutto assente! Si fa analisi utilizzando contestualmente dati e strumenti diversi, cioè si procede ad una analisi congiunta (conjoint analysis) per la realizzazione di prodotti e servizi mirati grazie anche alla crescente raffinatezza degli studi sui comportamenti socioeconomici della clientela. Il quinto capitolo illustra con chiarezza l’uso sincronizzato dell’analisi congiunta, della occupabilità e della affidabilità. Il testo spiega come usare l’intelligenza artificiale per la gestione ottimale della piattaforma di Rete.
Un ultimo elogio è quello di aver usato l’inglese per il minimo indispensabile! Altre pubblicazioni di settore sono redatte con una specie di itanglish che appesantisce la fruibilità del testo credendo di infarcirlo di modernità e frantumando la fondamentale cooperazione fra il lettore e l’autore. Si tratta di un ottimo libro che reca moltissime informazioni e utilissime chiavi di lettura di un mondo in evoluzione permanente. Un libro che va letto con attenzione per comprendere l’importanza e il livello della propria posizione individuale e reputazionale nel mare aperto del web, senza perdersi nel cammino.
Angelo Deiana, Web reputation, Giacomelli Editore, 2021, 194 pagine, 16 euro
FONTE: http://opinione.it/web/2021/07/15/manlio-lo-presti_web-reputation-angelo-deian-giacomelli-editore-social-media-app-rete-piattaforme-influencer/
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