RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI
12 NOVEMBRE 2021
A cura di Manlio Lo Presti
Esergo
Dio soltanto ha il privilegio di abbandonarci.
Gli uomini possono solo mollarci.
EMIL CIORAN, L’inconveniente di essere nati, Adelphi, 1991, pag. 41
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SOMMARIO
I super ricchi sono i veri colpevoli della CO2
Il Grande Liquidatore: la furia cieca delle privatizzazioni è ripresa
Reddito di cittadinanza, 9mila rumeni “fantasma” denunciati: rubati allo Stato 60 milioni di euro
Johannes Vermeer e i suoi quadri
QUESTIONE CLIMATICA
I nuovi diktat dell’Europa all’Italia “paese di camerieri e artisti”
I MIGRANTI COME ARMA DELLA NUOVA GUERRA FREDDA
Come si fabbrica un terrorista (reloaded)
Le (ambigue) radici cristiane dell’obbligo vaccinale
Baruch Spinoza (1632-1677)
Telepopulismo Il metaverso di Cairo e i peggiori istinti della nostra tv
27 miliardi nei paradisi fiscali: così le multinazionali “rubano”, ogni anno, soldi all’Italia
Codice della Strada: da oggi in vigore le nuove norme
Madre contro padre e alla fine decide il giudice: ecco come il vaccino spacca le famiglie
LA UE NON HA ETICA: DICE QUELLO CHE LE PARE
Taglio allo stipendio e alle ferie per il smartworking? Si inizia a preparare il terreno
Se lo dice Kissinger (che il mondo cambierà)
Il nuovo ordine mondiale dopo il Covid-19. Parola a Henry Kissinger
NON CHIAMATELO STATO D’EMERGENZA
DRAGHI AL QUIRINALE
IL LENTO, INESORABILE ‘SUICIDIO ASSISTITO’ DELLA NOSTRA REPUBBLICA
IN EVIDENZA
I super ricchi sono i veri colpevoli della CO2
Novembre 8, 2021 posted by Guido da Landriano
Chi impedisce di raggiungere gli “Obiettivi climatici”? Gli stessi super ricchi che vanno a proclamarne la santità coi loro jet privati, e questo è provato scientificamente. Le persone più ricche del pianeta, che rappresentano una piccola fetta della popolazione totale, stanno emettendo anidride carbonica a un ritmo che mette in pericolo la possibilità di raggiungere il famoso obiettivo di limitare il riscaldamento a 1,5 gradi entro il 2050.
Una nuova ricerca dell’Institute for European Environmental Policy (IEEP) e dello Stockholm Environment Institute (SEI) mostra che entro il 2030, la famosa impronta di carbonio dell’1% più ricco dell’umanità sono pari a 30 volte quello che sarebbe necessario per contenere l’aumento della temperatura.
Se le tendenze attuali continueranno, l’1% più ricco rappresenterà il 16% delle emissioni globali di CO2 nel 2030.
Al contrario le emissioni di carbonio della metà più povera della popolazione mondiale, nel frattempo, “sono destinate a rimanere ben al di sotto del livello compatibile con 1,5°C“, secondo l’analisi, commissionata da Oxfam International e pubblicata venerdì. Il pianeta si è già riscaldato di circa 1,1°C e gli scienziati hanno affermato che qualsiasi riscaldamento oltre 1,5°C avrebbe conseguenze distruttive in tutto il mondo.
“Le emissioni di un singolo volo spaziale miliardario supererebbero le emissioni nel corso della vita di qualcuno nel miliardo di persone più povere sulla Terra“, ha affermato in una nota Nafkote Dabi, responsabile della politica climatica di Oxfam. “Una piccola élite sembra avere un permesso gratuito per inquinare. Le loro emissioni sovradimensionate stanno alimentando condizioni meteorologiche estreme in tutto il mondo e mettendo a repentaglio l’obiettivo internazionale di limitare il riscaldamento globale“.
Ecco un grafico che spiega quanto più inquini un super ricco rispetto a un ricco normale ed a un povero:
Una persona del più ricco 1% emette 70 volte più CO2 di una persona facente pare del 50%. “Le emissioni del 10% più ricco da sole potrebbero spingerci oltre il limite concordato nei prossimi nove anni“, ha aggiunto Dabi. “Questo avrebbe risultati catastrofici per alcune delle persone più vulnerabili sulla Terra che stanno già affrontando tempeste mortali, fame e miseria“.
Quindi i super ricchi che volano a Glasgow o a Davos, con i loro super jet inquinano 70 volte un povero. Eppure i vari Bezos, Gates, Zuckerberg sono gli eroi del clima. I veri eroi, in realtà, siete voi, che sopravvivete nonostante loro!
FONTE: https://scenarieconomici.it/151489-2/
Reddito di cittadinanza, 9mila rumeni “fantasma” denunciati: rubati allo Stato 60 milioni di euro
Reddito di cittadinanza, maxi truffa da 60 milioni di euro
I cittadini rumeni, pur senza averne i requisiti, sono riusciti a risultare beneficiari del sussidio di casa Cinquestelle: è quanto è emerso dalle verifiche condotte dalla Guardia di Finanza di Cremona. In poco tempo, l’indagine si è spostata su un nutrito numero di Comuni, come Castelleone, Soresina, Annicco, Casalmorano, ove è insediata una grossa comunità di rumeni. Il Gip Teresa De Pascale, ha scritto nel suo provvedimento di «un fenomeno criminale organico e unitario, con numerose altre domande inoltrate da persone residenti in quei comuni, all’Inps di Milano, in cui i soggetti dichiaravano falsamente di risiedere in Milano». L’indagine, coordinata dal procuratore aggiunto Maurizio Romanelli e dal pm Paolo Storari, ha permesso di identificare la registrazione di residenze negli stessi palazzi: 686 in piazzale Selinunte, 618 in via Degli Apuli, 566 in via Giambellino, 553 in via Bolla, nonché in altri indirizzi.
“Sti cogl*oni…”
Particolarmente istruttive per comprendere i buchi del sistema del reddito di cittadinanza, sono state le intercettazioni disposte dai magistrati. Nelle stesse si può sentire «sti cogl.. dell’Inps hanno accettato le domande Rem dei romeni». Nel registro degli indagati sono finiti pregiudicati, soggetti gravati addirittura da provvedimenti di cattura, nonché — per non farsi mancare nulla — anche nominativi di deceduti. Il caso più eclatante, in questa ultima prospettiva, riguarda il nome di una donna uccisa nel 2013, e che invece ora risultava beneficiaria del reddito.
Codici fiscali di rumeni mai stati in Italia
La strategia messa a punto dagli indagati, ricostruita durante le indagini, era piuttosto semplice: ci si presentava al Caf con in possesso i codici fiscali di cittadini rumeni mai stati in Italia; gli impiegati compiacenti prendevano dieci euro per ogni pratica illecita lavorata o in altri casi, sotto minaccia, erano costretti a farlo gratis. Impressionante il valore complessivo della truffa: ben sessanta milioni di euro, derivanti da reddito di cittadinanza e reddito di emergenza. Parimenti impressionante il numero delle persone indagate: novemila. 16 invece gli arrestati dai finanzieri, in tutta Italia, nelle città di Cremona, Lodi, Brescia, Pavia, Milano, Andria, Barletta e Agrigento.
FONTE: https://www.ilprimatonazionale.it/cronaca/reddito-di-cittadinanza-9mila-rumeni-fantasma-denunciati-rubati-allo-stato-60-milioni-di-euro-214193/
ARTE MUSICA TEATRO CINEMA
Johannes Vermeer e i suoi quadri
Il grande pittore olandese, famoso per la “Ragazza con l’orecchino di perla”, è il protagonista del doodle di Google di oggi
12 11 2021
Johannes Vermer, pittore olandese tra i massimi esponenti del cosiddetto “secolo d’oro”, è il protagonista del doodle di Google di oggi per ricordare il 389esimo anniversario della sua nascita, avvenuta appunto nell’autunno del 1632.
Sulla vita di Johannes van der Meer, spesso abbreviato in Jan Vermeer, sappiamo pochissimo e le poche fonti ufficiali dalle quali si possono trarre informazioni contengono spesso lacune, o dati discordanti.
Vermeer nacque nella prima metà del Seicento nella città di Delft, nell’Olanda Meridionale, in una famiglia della classe media: la data precisa di nascita non è nota, ma dai registri della chiesa protestante è stato possibile ricostruire la data del suo battesimo, il 31 ottobre del 1632. Il padre fu sia mercante d’arte che gestore di una locanda, che Vermeer avrebbe poi ereditato insieme alle altre attività commerciali.
Nel 1653 Vermeer si sposò con Catherina Bolnes, una ragazza cattolica appartenente a una ricca famiglia della città, e si ipotizza che si fosse convertito al cattolicesimo prima del matrimonio. Si trasferì nella casa della suocera, che negli anni contribuì a finanziare le sue attività mentre cercava di farsi notare nel settore dell’arte.
Dopo un periodo di apprendistato, a 21 anni Vermeer divenne membro della Gilda di San Luca, importante corporazione di artisti e pittori tra Fiandre e Paesi Bassi. Entrò nelle grazie del mecenate Pieter van Ruijven, che iniziò ad acquistare numerosi dipinti consentendo a Vermeer di mantenersi e di investire maggiori risorse nelle proprie attività artistiche.
In una decina di anni, Vermeer divenne uno degli esponenti di spicco della Gilda, ma nei primi anni Settanta del Seicento subì la forte crisi finanziaria che interessò i territori dei Paesi Bassi in seguito all’invasione francese. Morì a Delft nel 1675, lasciando molti debiti alla famiglia che per ripianarli propose di vendere parte dei suoi dipinti e la casa in cui viveva.
Vermeer era specializzato soprattutto nella rappresentazione degli ambienti della vita quotidiana borghese, con personaggi che compiono gesti misurati e sono quasi sempre intenti a lavorare o a pensare alla famiglia, attraverso le faccende domestiche o la cura dei figli.
Lo stile è stato definito da numerosi critici come fotografico, con una grande attenzione ai dettagli e alla creazione di giochi di luce, tramite finestre socchiuse che illuminano la scena, creando zone di ombra e penombra in contrasto con quelle pienamente illuminate.
In molte opere il livello di dettaglio è altissimo, al punto da avere fatto ipotizzare che Vermeer ricorresse con grande frequenza alla camera oscura, strumento ottico che consentiva di proiettare una scena dal vero su una superficie, come una tela o un foglio, per tracciarne forme e dettagli che avrebbero poi costituito il quadro vero e proprio. Questo spiegherebbe l’assenza di disegni preparatori e alcuni effetti fuori fuoco inseriti nei suoi quadri, per indirizzare l’attenzione dell’osservatore verso specifiche parti della rappresentazione aiutandosi con i giochi di luce e i colori brillanti.
Nella sua intera carriera artistica, Vermeer produsse una cinquantina di opere e poco più di 30 certamente riconducibili alla sua attività sono arrivate fino a giorni nostri. Tra le più famose c’è la Ragazza col turbante o Ragazza con l’orecchino di perla, che ha avuto ulteriore fama negli ultimi anni grazie a un romanzo e a un film.
Il quadro mostra le grandi qualità da ritrattista di Vermeer, che si riflettono anche nelle rappresentazioni con più personaggi come la Fantesca che porge una lettera, dove spiccano anche le capacità di Vermeer nel gestire gli spazi e gli effetti di luce. I quadri Donna seduta alla spinetta e Suonatrice di chitarra ricorrono i temi della rappresentazione degli strumenti musicali, tipici dell’epoca, mentre nel Geografo e nell’Astronomo è evidente la scelta di mostrare strumenti e tecnologie per mappare e misurare il mondo e i corpi celesti.
La maggior parte dei quadri di Vermeer rientra a pieno nel “secolo d’oro olandese”, definizione riferita alla grande potenza economica e rilevanza che avevano assunto i Paesi Bassi nel Diciassettesimo secolo, con al centro i commerci di Amsterdam in Europa e verso le Americhe. La grande prosperità economica, per lo meno per le classi più agiate, fornì una spinta senza precedenti per la zona nello sviluppo delle scienze e delle arti.
Pittori e artisti trovarono un proprio stile, lontano da quello sfarzoso e teso all’eccesso del barocco nel resto dell’Europa di quel periodo. Divennero centrali i temi della natura morta, del paesaggio e soprattutto del ritratto, usato spesso dai committenti più agiati come segno della loro ricchezza e rilevanza in una società dedita soprattutto ai commerci.
FONTE: https://www.ilpost.it/2021/11/12/johannes-vermeer/
ATTUALITÀ SOCIETÀ COSTUME
QUESTIONE CLIMATICA
Matteo Brandi – 8 ottobre 2021
Il prossimo anno dovrete essere tutti terrorizzati a puntino sulla questione climatica.
Stanno già lavorando alacremente e con metodo, instillando questa paura prima con qualche titolo poi con le dichiarazioni robanti di Draghi, Mattarella e del “Papa”.
Usciranno film e serie TV a profusione sull’argomento, lo star system inizierà a parlare esclusivamente di questo sui palchi, negli eventi, ovunque. Ai giovani globalizzati verrà consegnato il pacchetto preconfezionato per la nuova imprescindibile battaglia: simboli, slogan e facce. Vedrete spuntare “esperti” del settore in ogni trasmissione, ad ogni ora. Appariranno i bollettini del disastro climatico, sempre più angoscianti.
Funzionerà. Come ha funzionato la narrazione terroristica sul Covid. Vi spaventerete e sarete pervasi dal senso di colpa. Chi dissentirà verrà etichettato come nemico pubblico, esattamente come oggi, e voi lo odierete.
Per “salvare il pianeta”, vi verrà chiesto di rimanere a casa, vi verrà chiesto di farvi monitorare ogni ora, vi verrà chiesto di giustificare ogni prodotto comprato, ogni azione svolta, ogni pensiero espresso. Tutto questo vi verrà chiesto, non ordinato. Perché sarete pronti a dire di sì.
I metodi di controllo vi verranno venduti come splendidi ritrovati della tecnologia moderna, innocui strumenti per garantirvi una vita sana, comoda e tranquilla. Le parole d’ordine saranno: sostenibilità e inclusività. E le adorerete, perché le ripeteranno ogni giorno i vostri influencer preferiti, i vostri cantanti preferiti, i vostri divi preferiti.
Alla fine di questo processo, di questa lunga bollitura a fuoco lento, vi ritroverete in un incubo distopico. Un mondo senza confini, perché divenuto un’unica gabbia, senza più un luogo in cui scappare o rifugiarsi. La libertà, anche quella più innocua, sarà divenuta una magnanima concessione.
Questo accadrà. A meno che non apriate gli occhi. Ora.
FONTE: https://sfero.me/article/futuro-ci-aspetta-meno
BELPAESE DA SALVARE
I nuovi diktat dell’Europa all’Italia “paese di camerieri e artisti”
Giuseppe Masala – 10 11 2021
E l’Europa lancia il diktat della messa a bando europeo delle concessioni a partire da quelle degli stabilimenti balneari. Ben sapendo che l’Italia è un paese relativamente povero rispetto a Germania e Olanda e che non c’è alcuna possibilità di competere con quei sistemi paese. Hanno soldi a strafottere, basta guardare il NIIP (Fonte Eurostat) e si prenderanno tutto. Ovviamente questo sarà un danno rilevante per il sistema paese (lo dico per gli economari): primo perchè le catene straniere porteranno la residenza fiscale in Olanda senza remore (il piccolo italiano qui è e qui rimane, e paga tutto sull’unghia): quindi lo stato italiano guidato da torme di babbei quadagnerà cento in più dalle concessioni ma perderà mille di gettito generale a vantaggio della Regina d’Olanda che giustamente deve mangiare dai beni italiani. Senza contare il fatto che i profitti andranno all’estero impoverendo il sistema paese.
CONFLITTI GEOPOLITICI
I MIGRANTI COME ARMA DELLA NUOVA GUERRA FREDDA
Stiamo assistendo alla vicenda delle migliaia di migranti mediorientali bloccati al confine tra la Bielorussia e la Polonia. Per la precisione, sarebbero almeno diecimila le persone sospese in questo “limbo” (stima del Governo polacco), con pochissime scorte di cibo e acqua e con temperature assai rigide. Sarebbe comprovato il coinvolgimento della Bielorussia: l’autocrate di Minsk, Vladimir Lukashenko, starebbe orchestrando l’assalto migratorio all’Unione europea come ritorsione per le sanzioni comminate da quest’ultima al suo Paese, definito dalle istituzioni comunitarie “regime da gangster”, in seguito alle violazioni dei diritti umani e alla spietata repressione del dissenso nei confronti dell’attuale presidente. I migranti, infatti, partirebbero dal Medio Oriente con l’appoggio di agenzie di viaggio incaricate dal governo bielorusso di concedere i visti – questo, almeno, è quanto dichiarato dal ministro dell’interno lituano, Kestutis Lancinskas, alla Bbc e dalla testata tedesca Deutsche Welle – salvo poi, una volta giunti in Bielorussia, essere messi nelle mani dei trafficanti con l’ordine di portarli nel territorio dell’Unione, o essere condotti alla frontiera e, con l’ausilio dei militari, spinti ad attraversarla, come attesterebbero, peraltro, i filmati. Secondo le stime del Governo polacco, da quest’estate sarebbero stati oltre trentamila gli ingressi non autorizzati dalla Bielorussia.
Varsavia, tuttavia, non si limita ad accusare il presidente bielorusso, ma punta il dito anche contro il “padrino” del regime di Minsk, Vladimir Putin, che secondo il premier polacco, Mateusz Morawiecki, starebbe facilitando i contatti tra il governo bielorusso e le agenzie mediorientali incaricate di organizzare i “viaggi della speranza” e che avrebbe suggerito lui stesso al suo “protetto” di servirsi dei migranti per mettere sotto pressione l’Unione europea. Nel frattempo, la Polonia si dichiara pronta a tutto per impedire ingressi non autorizzati, ed effettivamente, oltre a schierare diverse migliaia di soldati, stando a quanto riportano le agenzie di stampa, sarebbero già una cinquantina i migranti che avrebbero tentato lo sfondamento della barriera di filo spinato e che, per questo, sarebbero stati fermati e respinti.
Naturalmente, l’Europa è in fibrillazione per quanto sta avvenendo. La Polonia, per bocca del premier Morawiecki, sollecita l’Unione a intervenire e a prendere una posizione chiara sulla questione, sottolineando come la difesa delle frontiere rispetto all’immigrazione illegale non sia solo nell’interesse della Polonia, ma dell’intera Europa: è in gioco la sicurezza e la stabilità dell’intero continente. D’accordo anche il ministro dell’Interno tedesco uscente, Horst Seehofer, ha concordato sul fatto che solo una strategia europea può essere risolutiva. Nel frattempo, il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, è volato a Varsavia, dove ha incontrato il capo del Governo polacco, al quale ha espresso solidarietà assicurando, al tempo stesso, un impegno concreto da parte delle istituzioni comunitarie per dirimere la questione. Come? È interessante notare che lo stesso Michel abbia aperto a quella che, fino a non molto tempo fa, veniva etichettata come una soluzione eccessivamente radicale, oltre che demagogica: la costruzione di muri. Infatti, secondo il presidente del Consiglio europeo, si dovrebbe cominciare a ragionare sull’opportunità, per l’Unione, di finanziare quei Paesi che, per una maggior sicurezza e per contrastare i flussi migratori irregolari, sarebbero intenzionati a erigere delle barriere fisiche ai loro confini. Legalmente è possibile – afferma Michel – ma deve decidere la Commissione. Quel che è certo è che se ne discuterà al prossimo Consiglio, in cui Michel ha assicurato che si impegnerà personalmente per il finanziamento di infrastrutture atte a proteggere meglio i confini europei e a contenere i flussi, soprattutto in quei Paesi maggiormente esposti ai flussi, come la Polonia (e si spera anche l’Italia). Secca la replica di Ursula von der Leyen, che boccia la proposta sostenendo che i fondi europei non possono essere usati a questo scopo e che la situazione va risolta attraverso strumenti diplomatici. Intanto, dopo aver sospeso lo schema di facilitazione dei visti per i diplomatici bielorussi, l’Unione europea si prepara a comminare nuove sanzioni nei confronti di Minsk.
Nella contesa intervengono anche gli Stati Uniti. L’Amministrazione di Joe Biden ha esortato la Bielorussia a non servirsi dei flussi migratori come strumento di ricatto e pressione nei confronti dell’Europa. Un monito che segue alle preoccupazioni espresse dalla Nato, la quale accusa a sua volta la Russia: i migranti sarebbero un vero e proprio ordigno posto nel cuore dell’Unione europea, piazzato da Minsk ma progettato da Mosca. L’obiettivo sarebbe quello di destabilizzare l’Europa, unendo al rincaro dei prezzi per le forniture energetiche (volute da Putin che di proposito ha tenuto bassa l’offerta a fronte dell’innalzamento della domanda in seguito alla ripartenza post-pandemia) i flussi migratori fuori controllo. Gli Stati Uniti, dal canto loro, non escludono – laddove ce ne fosse bisogno e l’Europa lo richiedesse – un invio di truppe per aiutare nel controllo dei confini e nella gestione dell’emergenza. Mosca risponde alle accuse incolpando Bruxelles, che starebbe strangolando la Bielorussia con le sanzioni commerciali e che, per conseguenza, doveva aspettarsi una qualche reazione.
Tutta questa faccenda, se non altro, è utile a dimostrare tre cose fondamentali. La prima agli euro-scettici e ai sovranisti di tutti i Paesi: per rispondere adeguatamente alle sfide globali bisogna far parte di una Comunità più grande, come quella europea. È evidente che nessun Paese può reggere per molto tempo la pressione dei grandi numeri di migranti, men che meno quella Polonia che, ultimamente, è stata piuttosto impertinente nei riguardi di quelle istituzioni alle quali ora chiede aiuto. Si tratta di un problema che può essere risolto solo in sede europea, attraverso lo sforzo coordinato e condiviso di più Paesi. Da qui la necessità di affrettare il processo di integrazione, almeno per quanto riguarda la difesa e la politica estera, che devono essere comuni.
In secondo luogo, questa vicenda è uno smacco alle “anime belle” e ai “pasionari” dell’immigrazionismo: l’immigrazione è un fenomeno che necessariamente va controllato e gestito in maniera tale da non creare disordini e da non avere un impatto destabilizzante sulla vita socio-economica delle nazioni che la ricevono. E se l’unico mezzo per controllare efficacemente questo fenomeno è la costruzione di barriere fisiche ai confini, è inutile stracciarsi le vesti per il filo spinato, visto come “segno di disumanità e di chiusura egoistica”: i muri non possono e non devono essere un tabù, se servono a rendere effettive delle regole e a rispondere a delle esigenze di ordine pubblico. L’Unione europea se ne sta lentamente rendendo conto.
Da ultimo, questo dimostra che l’immigrazione è diventata una vera e propria arma della nuova Guerra Fredda: un’arma che il mondo autoritario usa contro il mondo libero, facendo leva sul rispetto di quest’ultimo per i diritti delle persone e sulla sua sensibilità rispetto ai principi umanitari. A questo proposito, c’è da domandarsi seriamente, ora che sappiamo che l’immigrazione dal Medio Oriente è promossa e attivamente incoraggiata dalla Russia e dai suoi alleati, se dietro quella proveniente dall’Africa – che riguarda perlopiù l’Italia e la Spagna – non ci sia invece la Cina, altro grande baluardo autocratico, che sappiamo avere grandi interessi economici nel Continente nero, del quale si sta lentamente appropriando, comprandone un pezzo alla volta e costruendo delle vere e proprie enclavi.
In questo frangente, i muri o altre strategie (come i respingimenti o il contenimento dei flussi direttamente in Africa) non sono più un segno di chiusura egoistica, ma uno strumento di legittima difesa contro chi è disposto a usare ogni mezzo per distruggere la nostra civiltà liberale e democratica: una specie di nuovo “ombrello atomico”. Chi, nonostante questo, continua a pensare che sia possibile una soluzione diversa da una politica migratoria più restrittiva a livello comunitario, e che sia possibile continuare ad accogliere senza criterio e senza limiti, è dalla parte dei nemici della nostra civiltà e, anche inconsapevolmente, collabora alla sua distruzione.
FONTE: https://www.opinione.it/politica/2021/11/11/gabriele-minotti_migranti-guerra-fredda-bielorussia-polonia-ue/
Come si fabbrica un terrorista (reloaded)
Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta nel lontano 30 marzo del 2016. Non so perché sento il bisogno di riproporlo oggi, non so proprio che c’entri, davvero. Lo metto qua. Forse è inutile anzi sicuramente lo è. Comunque buona lettura.
***
Una volta a Winston capitò di accennare alla guerra contro l’Eurasia e Julia lo lasciò di stucco affermando con noncuranza che secondo lei questa guerra non esisteva. Le bombe-razzo che cadevano tutti i giorni su Londra erano probabilmente sganciate dallo stesso governo dell’Oceania, “per mantenere la gente nella paura“. Un’idea del genere non lo aveva mai neanche sfiorato. Winston aveva anche provato una specie di invidia nei suoi confronti quando Julia gli aveva detto che durante i Due Minuti d’Odio la cosa più difficile per lei era trattenersi dal ridere. (George Orwell, 1984)
In allegato a questa riflessione mi piace proporre ai lettori più pazienti il testo da me tradotto di un’inchiesta condotta dal giornalista investigativo americano Trevor Aaronson alla fine del 2011.
L’articolo è uno dei tanti in cui si descrive come l’FBI, nel condurre le proprie attività di contrasto al terrorismo islamico sul territorio degli Stati Uniti d’America, crei ad arte queste minacce selezionando, istruendo, armando e finanziando i soggetti che succesivamente si vanterà di avere arrestato.
In sintesi, funziona così. Gli agenti federali reclutano un “informatore”, preferibilmente di origini mediorientali e con carichi penali pendenti, in modo da poterlo ricattare qualora non collaborasse, e lo infiltrano in una comunità islamica con l’incarico di fingersi membro di un’organizzazione terroristica e individuare soggetti poveri, disadattati e/o psicolabili ai quali proporre un attentato. Grazie al supporto logistico e finanziario prestato dall’FBI, l’infiltrato fornisce al suo pupillo denaro, armi ed esplosivi, gli suggerisce un piano e lo mette in condizione di realizzarlo rimuovendo ogni eventuale ostacolo alla sua attuazione. Poi, subito prima che azioni il detonatore, l’FBI arresta l'”attentatore” in flagranza di reato e un tribunale federale lo condanna a decine di anni di carcere per tentato atto terroristico.
Lo schema replica fedelmente la vicenda narrata da George Orwell in 1984, dove il dirigente governativo O’Brien si finge un dissidente per conquistare la fiducia di Winston e Julia affinché si dichiarino pronti a compiere atti terroristici e giurino fedeltà al fantomatico cospiratore Emmanuel Goldstein (in un caso descritto nell’inchiesta, la talpa dell’FBI fa recitare a un sorvegliato un finto giuramento ad Al Qaeda). I due protagonisti del romanzo, credendo di avere trovato complicità e rifugio presso un antiquario – in realtà un membro della psicopolizia – finiranno per essere arrestati e torturati dallo stesso O’Brien.
Rispetto alla fantasia di Orwell, nella realtà dell’antiterrorismo americano le prede non sono cittadini politicamente consapevoli, ma soggetti indigenti, psicologicamente disturbati e cresciuti nella miseria materiale e morale dei ghetti, che nelle comunità islamiche locali cercavano forse una via di fuga dall’emarginazione e un riferimento identitario. E i loro falsi amici non sono alti dirigenti di partito, ma avanzi di galera, truffatori, spacciatori e violenti ingaggiati dallo Stato in cambio di qualche soldo o di uno sconto di pena per ingannare il prossimo e l’opinione pubblica.
I “terroristi” incastrati e arrestati dall’FBI non sono evidentemente tali, neanche se lo volessero. Disadattati che sopravvivevano ai margini di una società diseguale e iperclassista, genericamente arrabbiati col mondo, avrebbero ingrossato al più le fila della piccola criminalità e “non avrebbero fatto nulla se gli agenti governativi non ce li avessero spinti a calci nel sedere” (Aaronson, pag. 4). Essi appaiono piuttosto vittime sacrificali che il governo ha utilizzato per vantare successi nella lotta al “terrorismo” interno, mantenendo al contempo alta l’attenzione del pubblico verso quella presunta minaccia. Coniugando così la distopia orwelliana con il fanatismo di epoche lontane, quando emarginati, storpi e ritardati mentali erano indotti a confessare relazioni col diavolo (che è il nome antico – e più onesto – di Goldstein e Bin Laden) e immolati per appagare la paura e l’ignoranza dei benpensanti, cementandone la fiducia nell’autorità.
Sarebbe fin troppo facile – ma giusto – osservare che le risorse impiegate per incastrare quei disgraziati avrebbero potuto essere spese per alleviare le piaghe che li hanno partoriti – disoccupazione, negato accesso all’assistenza sanitaria, bassa scolarità, degrado materiale ecc. – e per bonificare un sottobosco dove, se non il terrorismo, covano disagio, esclusione e rabbia sociale.
Ma qual è lo scopo di questa pantomima? Perché il governo americano “crea crimini per risolvere crimini” (ibid.)? La risposta è suggerita dalla citazione che apre questa pedanteria: mantenere viva la paura. E non certo allo scopo di tutelare gli stipendi e i livelli occupazionali dell’FBI, che dubito figuri tra le priorità odierne del governo americano.
Sui modi in cui la sedicente “guerra al terrore” abbia allargato il potere e la ricchezza di poche élites, nonché il terrorismo stesso, sottraendo libertà e sicurezza al restante 99% della popolazione, sono stati scritti articoli e libri. Se ne è anche accennato su questo blog a proposito di socialismo dei ricchi. Un popolo impaurito è più agevole da controllare e meno propenso a mettere in discussione gli atti di un governo percepito come unico presidio possibile contro la furia de-civilizzante dei “cattivi”. Come la pecora con il suo pastore, quel popolo si lascerà condurre verso qualsivoglia esito gli sia presentato come salvifico e risolutivo rispetto all’emergenza che incombe. Lo si è visto dopo i recenti fatti di Bruxelles, all’indomani dei quali rappresentanti politici e giornalisti hanno invocato, con inquietante sincronia, un’accelerazione del processo di unificazione politica e militare degli stati europei. Un non sequitur totale, il cui tempismo e la cui accettazione diffusa dimostrano come la paura serva gli obiettivi del dominus preservandoli dal vaglio critico delle masse.
Sicché non stupisce che, se gli eventuali sceicchi del terrore battono la fiacca, il compito di mantenere vivi l’allarme e il pungolo dello spavento possa toccare direttamente ai governi che vogliano operare in deroga al compromesso democratico.
L’inchiesta di Trevor Aaronson ha il pregio di presentare il fenomeno con rigore documentale, calandolo nel suo contesto storico e giuridico. Dopo gli eventi di Parigi e Bruxelles, il fatto che il nostro alleato più importante – lo stesso che si è intitolato il ruolo di difendere l’occidente dai terroristi – impieghi le proprie forze dell’ordine per escogitare piani terroristici, reclutarne gli esecutori, indottrinarli, armarli e metterli in condizione di operare, è un dettaglio che penso ci debba riguardare. Come minimo, segnala che il rapporto tra governi occidentali e terrorismo islamico è molto più complesso e simbiotico di quanto non emerga dal mortificante manicheismo delle narrazioni mediatiche.
In quanto poi al dubbio che, una volta confezionato l’attentato e l’attentatore, i burattinai governativi possano “dimenticarsi” di fermare la mano di chi aziona la bomba, è questione non documentabile che lascio alla fiducia che ciascun lettore ripone nel buon senso e nelle buone intenzioni di chi ci governa.
FONTE: http://ilpedante.org/post/come-si-fabbrica-un-terrorista
CULTURA
Le (ambigue) radici cristiane dell’obbligo vaccinale
Pubblicato il 22 agosto 2021
Si polemizza spesso su presunte analogie fra la gestione dell’emergenza sanitaria e le dittature del Novecento. A me pare invece più interessante un’analogia-filiazione delle attuali politiche sanitarie con la religione cristiana. Non a caso si tratta di politiche sanitarie prevalentemente occidentali, che dunque riguardano il cosiddetto mondo sviluppato, che è quello in cui il cristianesimo ha messo più profonde radici. Anche nel cristianesimo c’è un virus che contamina e uccide, ed è il peccato. Il rimedio a questo virus è il battesimo, vero e proprio vaccino dell’anima. Il richiamo, diciamo la seconda dose, è la cresima, o anche la confessione periodica. Chi rifiuta questo rimedio si perde. E mette in pericolo anche gli altri, nella misura in cui peccando li induce a peccare. Nessun uomo è un’isola. Ci si perde e ci si salva insieme. Sia per il cristianesimo sia per l’OMS.
“Vaccinarsi è un atto di amore”, ha detto non a caso papa Francesco, facendo eco vaticana al “dovere civico e morale” a cui invita il Quirinale, nell’ennesima conferma che i Patti Lateranensi non conoscono crisi. E non può che essere così. La cultura occidentale, in cui è nata quella particolare impresa che è la scienza moderna, è infatti irrimediabilmente cristiana. Diversamente non si spiegherebbe come mai la scienza abbia oggi potuto prendere il posto della religione conservandone le due principali caratteristiche di rimedio alla paura e di garanzia di salvezza. Nel quadro storico di una religiosità sponsorizzata dalla politica perché ampiamente diffusa nella maggioranza del volgo, a ritenere la religione come “oppio dei popoli”, e dunque come inganno, è sempre stata una minoranza. Da Senofane, il primo complottista, a Freud, l’ultimo.
Qui non è certo la scienza in quanto tale a essere un inganno, ma la tendenza, appunto religiosa, ad attribuirle un’assolutezza salvifica, che non tollera quegli stessi dubbi che pure hanno contribuito alla sua nascita e al suo sviluppo. I gruppi religiosi sono nati, storicamente, dalla paura della morte e dalla conseguente esigenza di purificarsi da agenti contaminanti. In un perfetto parallelismo fra l’anima e il corpo, anche la medicina ha seguito la stessa strada, ma senza poter esibire la divina infallibilità vantata dai riti sacri. Finché la salute del corpo non ha avuto una superiore importanza rispetto alla salvezza dell’anima, questo non ha rappresentato un problema. Ma quando la cura del corpo è divenuta più vitale di quella dell’anima, ecco che anche la medicina, nel frattempo divenuta scientifica, ha cominciato ad alimentare le stesse aspettative salvifiche associate alla religione. La questione è di sorprendente attualità: cosa significa “scienza” in una cultura che, a motivo della paura, tende ad assorbirla nella religione? Significa essenzialmente ricerca aperta, dubbio e distacco critico dai propri stessi risultati. Significa laicità di un’impresa le cui conquiste, lungi dall’imporsi come un assoluto, si espongono al confronto e alla smentita.
Non è esattamente ciò a cui stiamo assistendo. E l’intervento di papa Francesco ne è una dimostrazione. Erede secolarizzata del proselitismo cattolico, la campagna vaccinale assomiglia sempre di più a una versione laica dell’evangelico compelle ad intrare. È facile ironizzare di fronte a una simile analogia, ma un minimo di senso storico aiuta a capirne l’imbarazzante pertinenza. Se un tempo il principale bene da preservare era infatti la salvezza dell’anima, oggi è quella del corpo. Non si spiegherebbe, diversamente, l’assolutizzazione dei rispettivi strumenti con cui ottenere l’una e l’altra, né la criminalizzazione di chi osi dubitarne o non avvalersene. Non sei battezzato? Meriti l’inferno. Non sei vaccinato? Non meriti le cure. Non sei battezzato? Contamini i battezzati. Non sei vaccinato? Contagi i vaccinati. Non sei battezzato? Non benefici dell’amore di Dio. Non ti vaccini? Non stai amando il prossimo. E così via demonizzando.
Se il green pass del vecchio mondo era il battesimo, unico lasciapassare per la salvezza, oggi è il vaccino per tutti, inclusi i bambini. Anche in questo la nuova scienza replica le strategie politiche della vecchia religione. Come quest’ultima ha aggirato l’ostacolo del blasfemo rifiuto battezzando chi non poteva opporlo, e cioè appunto gli infanti, così la nuova fede nella scienza immunizza l’innocente a tradimento, prevenendo, oltre che la sua malattia, anche la sua possibile opposizione. L’urgenza della causa non può attardarsi in faticose opere di persuasione: compelle ad intrare, recita appunto il Vangelo. Non si chiede il permesso di salvare chi sta per rovinarsi. Lo si salva e basta. Da qui l’invito, tanto dell’antica religione quanto della moderna medicina, a fidarsi dell’autorità costituita. Non ragionate. Battezzatevi! Non dubitate. Vaccinatevi e basta! Dum Romae consulitur Saguntum expugnatur!
Eppure la storia è piena di eroici esempi di chi ha opposto un fiero rifiuto di fronte a questa ottusa prepotenza. Chi conosce il caso Galileo sa che la stessa scienza moderna nasce da un atto di disobbedienza nei confronti di chi avrebbe voluto censurarla in nome della scienza ufficiale del momento (il geocentrismo) e dell’ordine pubblico (l’unità della Chiesa e la salvezza delle anime). Le superiori ragioni della salvezza, sia essa dell’anima o del corpo, non tollerano alcun contraddittorio. Chi non è con noi è contro di noi. E va ricondotto all’ordine per il suo bene. Tertium non datur.
Questa premura liberticida è sintomo dello stesso disagio di sempre. Ed è il disagio che ogni potere sperimenta di fronte alla libertà di chi non si sottomette al ricatto della paura. Le continue minacce di rendere obbligatorio il vaccino nascono, in questi giorni, dalla consapevolezza che i giochetti ricattatori non stanno funzionando. E non c’è reazione più nervosa di quella che scaturisce dallo scoprire che le paure dell’altro non sono le nostre stesse paure. Perché le paure non sono tutte uguali. Ciò che spaventava a morte i cardinali dell’Inquisizione non era ciò che temeva Giordano Bruno. E se oggi non c’è più il rogo, rimangono i ricatti e le sanzioni, gli obblighi e la pubblica riprovazione. In una logica antica e sempre nuova, che rimane violenta e intollerante al di là della forma convenzionalmente religiosa o sanitaria che assume, perché pur sempre incapace di accettare l’altro, l’estraneo, il diverso, e di coltivare quel dubbio di cui ogni scienza che si rifiuta di essere religione si alimenta.
FONTE: https://sfero.me/article/ambigue-radici-cristiane-obbligo-vaccinale
Baruch Spinoza (1632-1677)
di Giovanni Licata – 29-01-2009
Spinoza nasce ad Amsterdam il 24 novembre 1632 da famiglia ebrea di origine portoghese. I suoi avi erano “marrani”: subirono, in quanto ebrei, la conversione forzata al cristianesimo (1497), pur continuando a professare nell’intimo il credo ebraico. Michael de Spinoza, il padre di “Bento” – questo è il nome con cui era chiamato in famiglia; Baruch, invece, era il nome ebraico; Benedictus, la traduzione latina – si trasferisce verosimilmente ad Amsterdam intorno al 1622-3. Egli, mercante di frutta esotica, era probabilmente attirato dallo splendore della città più ricca del XVII sec., nella quale si stava costituendo una fiorente comunità ebraica, a maggioranza sefardita, ben integrata con la popolazione locale.
Nel 1639, Bento si iscrive nella scuola Talmud Torah (“studio della Legge”). La comunità sefardita, assicurava un’educazione elementare gratuita a tutti i bambini dai sette ai quattordici anni, fornendo le basi religiose, culturali e letterarie che ogni buon ebreo doveva possedere. Secondo le testimonianze dell’epoca vi si studiava la lingua ebraica e le preghiere, si imparava a memoria la Bibbia in ebraico e la si traduceva nella lingua colta della comunità, lo spagnolo (la lingua colloquiale era, invece, il portoghese). Successivamente, chi continuava gli studi nelle classi superiori era destinato probabilmente a intraprendere la carriera rabbinica. Qui ci si dedicava allo studio del Talmud, sia della Mishnà che della Ghemarà, e ai commenti del Talmud; si approfondiva la grammatica e forse anche la filosofia ebraica. Al tempo di Spinoza vi insegnavano il sapiente Menasseh ben Israel e il rabbino capo Saul Levi Mortera. Tuttavia, da ricerche d’archivio, risulta che Spinoza ha smesso di frequentare la scuola ebraica al termine della formazione elementare, o poco dopo: a differenza di quello che per molto tempo si è creduto, Spinoza non era destinato a diventare rabbino. È probabile che il padre lo costrinse a interrompere gli studi, subito dopo le elementari – cioè tra il 1646 e il 1649 – per avere aiuto dal figlio nella sua attività commerciale. Nella comunità sefardita, tuttavia, l’attività di mercante – professione che Spinoza certamente intraprese prima assieme al padre e, in seguito alla sua morte nel 1654, per proprio conto assieme al fratello Gabriel – non era incompatibile con l’approfondimento dei propri studi: per la religione ebraica la convivenza dell’attività intellettuale con quella manuale era addirittura una mitzvàh, un precetto. Per facilitare il rispetto di questo precetto venivano organizzate diverse yeshivòt, dei gruppi di studio che si concentravano sull’approfondimento degli studi religiosi e letterari. Spinoza, forse, ha frequentato la yeshivà diretta proprio da Rabbi Mortera, che si chiamava Keter Torah, dove di studiava letteratura (Talmud e commenti rabbinici alla Toràh) e filosofia ebraica (Maimonide, Saadya Gaon e Gersonide). Si riabiliterebbe così la possibilità che Mortera sia stato maestro di Spinoza, rendendo verosimile il racconto del primo biografo, Lucas, secondo cui il rabbino capo rimase sconvolto dall’allontanamento di un allievo promettente come Spinoza dalla religione ebraica. In ogni caso la frequentazione della yeshivà, che consisteva in un incontro settimanale, non deve far pensare ad un impegno gravoso quanto quello che implicava la frequentazione della scuola rabbinica. Per tale ragione Van Dias e Van der Tak descrivono Spinoza con la felice espressione di “mercante autodidatta”. Il giovane Baruch aveva iniziato, infatti, una strada autonoma, che lo porterà probabilmente ad intraprendere già dal 1654, se non prima, una svolta decisamente laica: l’ampliamento dei propri orizzonti intellettuali attraverso la conoscenza della lingua e della cultura latina presso la scuola privata di Franciscus Van den Enden. Spinoza rimarrà un grande appassionato dei classici della letteratura (Cicerone, Seneca), gli storici (Tacito, Sallustio, Livio) e il teatro (Terenzio). In seguito amplierà la propria cultura – già permeata di pensiero ebraico – anche alla filosofia scolastica e moderna, alla matematica (si pensi agli Elementi di Euclide), alla fisica meccanicistica e alla nuova cosmologia. Descartes – di cui tuttavia non bisogna esagerare l’influenza, come spesso accade con una certa manualistica – resterà un punto di riferimento costante del suo pensiero.
Dal 1654 al 1656, è probabile che Spinoza abbia conosciuto alla Borsa di Amsterdam quei mercanti che animeranno il circolo che si riunirà attorno alla sua figura, come Jarig Jelles, Pieter Balling e Simon de Vries. Gli amici di Spinoza sono dei cristiani liberali e eterodossi, appartengono a quelle frange di “cristiani senza Chiesa” – secondo il titolo di un prezioso saggio di L. Kolakowski – che si battono, contro il clero clavinista, per uno Stato pienamente repubblicano e simpatizzano per la nuova filosofia cartesiana.
Nel marzo 1656, Spinoza viene denunciato a presentarsi di fronte ai capi della comunità ebraica, probabilmente per due ragioni: da un lato, per le sue opinioni eterodosse (negazione dell’immortalità dell’anima, della legge orale, dell’elezione del popolo ebraico) influenzate probabilmente dall’averroismo sefardita del marrano Uriel da Costa, e dalla frequentazione di un altro marrano, Juan de Prado; dall’altro, per il legame con cristiani eterodossi. Spinoza – a differenza di Juan de Prado che ritratta le proprie tesi – non si presenta nemmeno in sinagoga. Il 27 luglio, così, viene espulso con un feroce bando di scomunica (herem): “[…] Che egli sia maledetto di giorno e sia maledetto di notte, sia maledetto quando si sdraia e sia maledetto quando si alza, maledetto quando esce e maledetto quando rientra. Il Signore non lo risparmierà […] Nessuno comunichi con lui, nemmeno per iscritto, né gli accordi alcun favore, né stia con lui sotto lo stesso tetto, né si avvicini a lui più di quattro cubiti; né legga alcun trattato composto o scritto da lui”.
Dopo l’espulsione dalla sinagoga Spinoza scrive in spagnolo un’Apologia para justificarse de su abdication de la sinagoga. Sebbene non fu stampato né ritrovato, diverse fonti, tra cui Bayle, ce ne confermano l’esistenza. Forse il suo contenuto avrebbe costituito alcune tematiche della prima parte del Tractatus theologico-politicus.
Nel 1657 entra in contatto con esponenti quaccheri e traduce, forse, due pamphlet di Margaret Fell dal nederlandese all’ebraico, che si proponeva la conversione degli ebrei al cristianesimo. Ce ne è rimasto uno solo, Un’amorevole saluto al seme di Abramo, pubblicato recentemente (R. H. Popkin e M. A. Signer, Spinoza’s Earliest Publication?, Van Gorcum, Assen, 1987). Si tratterebbe dell’unico libro di Spinoza scritto interamente in ebraico. Tuttavia, la sua attribuzione rimane dubbia.
Tra la fine del 1656 e il 1659 (in base alla datazione proposta da Filippo Mignini) compone il Tractatus de intellectus emendatione. Si tratta di un trattato sul “metodo”, rimasto incompiuto, con qualche influenza baconiana e cartesiana. Nel 1660-1, lavora al Korthe Verhandeling (Breve trattato), rimasto inedito fino al 1862, che costituisce il primo abbozzo del suo pensiero, confluito poi nell’Ethica. Nell’estate del 1661 – dal piccolo borgo di Rijnsburg, vicino Leida, dove da poco si era trasferito – invia ad Oldenburg un piccolo testo dimostrato secondo il metodo geometrico: sono i primi passi verso la composizione dell’Ethica.
Nel 1663 pubblica i Renati Des Cartes Principiorum Philosophiae pars I et II assieme ai Cogitata Metaphysica. È un’esposizione della filosofia di Cartesio redatta more geometrico, cui si aggiungono questioni di filosofia scolastica, criticate dal punto di vista cartesiano. Non è un’opera, quindi, da cui si può evincere il pensiero genuino di Spinoza. Nello stesso anno si trasferisce a Voorburg, piccola cittadina vicino L’Aia.
Nel 1665, in una lettera ad Oldenburg, Spinoza scrive: “Sto componendo un trattato sul mio modo di comprendere la Scrittura. A farlo mi muovono le seguenti ragioni: 1. I pregiudizi dei teologi. So infatti che essi costituiscono il massimo ostacolo che impedisce agli uomini di dedicarsi alla filosofia […] 2. L’opinione che il volgo ha di me, poiché non cessa d’accusarmi d’ateismo […] 3. La libertà di filosofare e di dire ciò che sentiamo, che desidero affermare in ogni modo.” (trad. O. Proietti). Questo “trattato” prenderà il nome di Tractatus theologico-politicus: Spinoza lo pubblica nel 1670, anonimo, senza editore e senza città. L’editore è il suo amico Rieuwertsz di Amsterdam. Scoppiano furiose polemiche e attacchi personali, che sfoceranno nella messa al bando dell’opera da parte delle Corti d’Olanda il 19 luglio 1974.
Tra il 1670 e il 1675 si dedica alla composizione di una grammatica ebraica, il Compendium grammatices linguae Hebraeae, un’indagine del tutto originale sulle strutture logico-linguistiche dell’ebraico antico, ricostruite e spiegate con l’ausilio della ragione, superando in tal modo il corpus limitato e eterogeneo dell’ebraico dell’Antico Testamento. L’opera si prefigge una cognitio universalis della lingua ebraica, punto di partenza imprescindibile per una comprensione laica e scientifica del testo biblico. Il Compendium, purtroppo incompiuto, doveva forse fare il paio con la traduzione in olandese del Pentateuco, che – secondo la biografia di Colerus – diede alle fiamme prima di morire.
Nel 1675, dopo quattordici anni di lavoro, termina l’Ethica. Nel mese di agosto si reca ad Amsterdam con l’intento di pubblicarla, ma è costretto, per la propria incolumità, ad interrompere il progetto a causa dell’intervento di alcuni teologi che ne denunciano il tentativo ai magistrati. Nel 1676, inizia a comporre il Tractatus politicus, ultima opera, anch’essa incompiuta. A L’Aja, dove si era trasferito dal 1669, muore in serenità il 21 febbraio 1677, arrendendosi alla tisi che lo affliggeva da diversi anni. Dobbiamo lodare lo zelo dei suoi amici, tra cui i fedeli Lodewijk Meyer e Jarig Jelles, se i manoscritti inediti e una parte della corrispondenza siano stati pubblicati da Rieuwertsz – senza editore e luogo di stampa, con le sole iniziali B. d. S. – soltanto dopo nove mesi dalla sua morte. Nell’ordine, il volume in-quarto degli Opera posthuma, che consta di ben 808 pagine, contiene il capolavoro della sua vita, l’Ethica, ma anche il Tractatus politicus, il Tractatus de intellectus emendatione, le Epistolae e, infine, il Compendium grammatices linguae Hebraeae.
I punti cardine della filosofia spinoziana sono espressi chiaramente nell’Etica. Il Trattato teologico-politico e il Trattato politico sono tuttavia importanti perché approfondiscono, su tutti, il pensiero politico marcatamente democratico; il rapporto fede-ragione; la critica alla religione rivelata e al testo “sacro” che fonda il giudaismo e il cristianesimo, la Bibbia. Spinoza, emancipando la filosofia dall’immaginario mitico-religioso, segna forse più che Cartesio – come comprenderà Hegel – una svolta all’interno del pensiero occidentale. Con coerenza e senza ambiguità, costruisce un sistema radicalmente alternativo alle tradizioni religiose monoteistiche e alle filosofie che, a partire dai Padri della Chiesa fino a Descartes, hanno cercato di giustificare o di armonizzare la rivelazione cristiana con la ragione. Nell’Ethica propone, infatti, un concetto di “Dio” inteso come assoluto, immanente all’universo e alle leggi necessarie e eterne che lo costituiscono (Deus sive Natura: le due realtà, non sono separate, ma si identificano); un Dio, perciò, che non ha nulla in comune con il Dio personale e antropomorfo che crea il mondo a vantaggio dell’uomo e dei suoi bisogni o che ha il potere di modificare “dal di fuori” la concatenazione necessaria delle cause con eventi “miracolosi”. In campo psicologico, inoltre, Spinoza nega l’immortalità individuale dell’anima, pur riconoscendo l’eternità della mente. Secondo la sua antropologia, decisamente anti-antropocentrica, l’uomo non ha alcun ruolo privilegiato nell’universo infinito, è una piccola parte del tutto, il tutto essendo assolutamente indifferente ai fini e ai desideri umani. La sua etica, più che un compendio di doveri, vuole essere, come nelle filosofie ellenistiche, una guida al raggiungimento razionale del proprio utile, ovvero della felicità terrena e della tranquillità dell’animo. La suprema felicità o beatitudine dell’essere umano, nonché la conquista della libertà (intesa come autonomia rispetto alla forza condizionante degli eventi esterni), consiste nel raggiungimento del terzo genere di conoscenza, ovvero nella consapevolezza dell’unione tra uomo e Dio, in quanto l’individuo umano, come ogni altra cosa, altro non è che un’infima parte dell’infinita potenza di Dio o della Natura.
Bibliografia primaria
– Benedictus de Spinoza, Opera posthuma, Amsterdam, 1677 [Riproduzione fotografica integrale a cura e con prefazione di Filippo Mignini e nota introduttiva di Pina Totaro, Quodlibet, Macerata 2008].
– Spinoza, Opera, Im Auftrag der Heidelberger Akademie der Wissenschaften herausgegeben von Carl Gebhardt, Carl Winter, Heidelberg, 1925, voll. I-IV [edizione critica completa di tutte le opere].
– Spinoza, Œuvres, vol. III, Tractatus theologico-politicus / Traité théologico-politique, téxte établi par F. Akkerman, traduction et notes par J. Lagrée et P.-F. Moreau, Puf, Paris, 1999.
– Spinoza, Tractatus theologico-politicus/Trattato teologico-politico,a cura di P. Totaro, Bibliopolis, Napoli, 2007.
– Spinoza, Œuvres, vol. V, Tractatus politicus / Traité politique. Texte établi par Omero Proietti, Traduction, présentation, notes, glossaires, index et bibliographie par Charles Ramond, avec une notice de Pierre-François Moreauet des notes de Alexandre Matheron, Presses Universitaires de France, Paris 2005.
– Spinoza, Opere, a cura di F. Mignini e O. Proietti, Mondadori, Milano, 2007 [contiene tutte le traduzioni in italiano delle Opere di Spinoza, tranne il Compendium. Ricco di informazioni bibliografiche e critiche].
– Spinoza, Etica. Dimostrata con metodo geometrico, a cura di E. Giancotti, Editori Riuniti, Roma, 2002.
– Spinoza, Abrégé de grammaire Hébraïque, introduction, traduction française et note Joël Askénazi et Jocelyne Askénazi-Gerson, Vrin, Paris, 1968 (3ème ed. augm., 2006).
Bibliografia secondaria ragionata
La bibliografia su Spinoza è imponente. Tuttavia, per un primo approccio critico consigliamo: F. Mignini, Introduzione a Spinoza, Editori Laterza, Roma-Bari, 2006 (ed. riveduta); P.-F. Moreau, Spinoza, Editions du Seuil, Paris, 1975 [trad. in italiano col titolo: Spinoza, La ragione pensante. Una guida alla lettura di Pierre-François Moreau, Editori Riuniti, Roma, 1998]. Una buona biografia è quella di S. Nadler, Baruch Spinoza e l’Olanda del Seicento, Einaudi, Torino, 2002. Tra i testi di fondamentale importanza apparsi nel XX sec. ricordiamo: i commentari di M. Gueroult, Spinoza. I. Dieu (Ethique, I), Aubier-Montaigne, Paris, 1968 e Spinoza. II. L’âme (Ethique, II), Aubier-Montaigne, Paris, 1974; le monografie di A. Matheron, Individu et communauté chez Spinoza, Les Editions de Minuit, Paris, 1969 (2ª ed. 1988); G. Deleuze, Spinoza e il problema dell’espressione, Quodlibet, Macerata, 1999; G. Deleuze, Spinoza. Filosofia pratica, Guerini e Associati, Milano, 1998. Un sito serio e affidabile, dove si può consultare on-line anche il Bulletin de Bibliographie Spinoziste,è quello dell’Association des Amis de Spinoza (www.aspinoza.com).
FONTE: http://www.giornaledifilosofia.net/public/scheda_fil.php?id=19
CYBERWAR SPIONAGGIO INFORMAZIONE DISINFORMAZIONE
Telepopulismo Il metaverso di Cairo e i peggiori istinti della nostra tv
L’ultima caso di fuori di testa televisivo è quello del vescovo Viganò che da Floris ha comiziato di omicidi mirati per imporre lockdown e mascherine, ma ogni sera va in onda una pantomima che non merita di essere alimentata da chi ha a cuore il paese
Il comizietto del vescovo Viganò su La 7 a proposito dei morti Covid uccisi intenzionalmente non si sa da chi ha destato quei consueti cinque minuti di quotidiana indignazione, pronti a essere soppiantati da altri cinque minuti di attivismo social su una qualche altra stronzata detta in tv da qualche altro imbecille in abito talare o no, togato o no, del Fatto o no.
Ma se lo stolto guarda Viganò o la compagnia di saltimbanchi che occupa gli schermi televisivi, il saggio in realtà indica Urbano Cairo e gli irresponsabili mestatori nel torbido della società italiana che guidano e gestiscono e conducono i programmi di La7 con l’obiettivo consapevole o no, ma certamente preciso, di mandare il paese a carte quarantotto appellandosi in nome dello sharing ai peggiori istinti della natura umana.
I programmi di La7 non sono gli unici responsabili della devastazione del dibattito pubblico italiano, perché di show altrettanto ridicoli è pieno il palinsesto Mediaset e ce ne sono anche in Rai.
Con l’eccezione dell’informazione seria e puntuale di Skytg24, che gli altri definiscono noiosa, e di qualche altro sporadico programma o tg qua e là come Che tempo che fa, il panorama televisivo nazionale esprime e rappresenta perfettamente lo stile complottistico della politica italiana e produce un racconto criminale dell’economia e della società contemporanea che diventa terreno di coltura per ogni tipo di populismo. In questo contesto, è ovvio che Dibba e i novax, Scanzi e i noeuro si trovino a loro agio, e che i neo, ex, post fascisti digitali e analogici siano poi la maggioranza del paese. Del resto, ripensiamo a come si sono chiamate le trasmissioni televisive di questi anni: Piazzapulita, La gabbia, L’aria che tira, Annozero, Bersaglio mobile, Virus, Ballarò, L’Arena, Agorà, Quarto grado. Basta mettere i nomi in fila uno dietro l’altro e non serve nemmeno accendere la tv per individuare le origini del populismo giustizialista e della gigantesca truffa della democrazia diretta.
Le trasmissioni di La7 hanno però qualcosa in più, perché nella loro diversità sembrano progettate per rispondere a un medesimo disegno populista intanto per ottimizzare il conto economico, costruendo programmi a basso costo con ospiti che pagherebbero di tasca propria pur di essere chiamati in tv ed essere riconosciuti dal pizzicagnolo sotto casa e quindi con focus sulle più improbabili e strampalate e pericolose argomentazioni su qualsiasi argomento dello scibile umano perché anche in tv, come sui social, prevale la logica premiante della rabbia e del risentimento.
Ma oltre a quella degli affari, legittima, c’è anche una motivazione politica o, meglio, antipolitica nel puntare editorialmente sempre sul peggio di noi stessi, ed è quella di fare tabula rasa del panorama politico per preparare una sempre-possibile-ma-sempre-rimandata discesa in campo sul modello di Berlusconi.
Cairo dispone anche del Corriere della Sera, il più importante e storico e popolare quotidiano italiano, il cui declino in termini di autorevolezza, nonostante gli sforzi della redazione, va ben oltre gli effetti fisiologici della crisi del settore tanto che non mi stupirei se a un certo punto in via Solferino diventasse direttore Fedez o altro analfabeta democratico.
Un editore privato è libero di fare quello che vuole, e va difeso nella libertà di fare le sue scelte e di indirizzare le sue aziende, ma i politici e gli intellettuali che poi si lamentano del declino del discorso pubblico non sono più credibili se continuano ad alimentare la messinscena quotidiana e poi a lagnarsi degli effetti nocivi.
Da qualche tempo va di moda alzarsi dallo sgabello e abbandonare lo studio, o solo minacciare di farlo, quando si reputa che la misura delle enormità dette in diretta sia colma.
Ecco, le trasmissioni televisive quotidiane sono colme di improbabili novax, no euro, complottisti, mozzorecchi, fascisti, livorosi e squilibrati di ogni estrazione e grado che parlano di cose che non conoscono. È il modello di business della tv politica italiana, con acrobati e mangiatori di fuoco.
Provare a ribattere, più che impossibile, è inutile. Meglio mantenere il distanziamento sociale, spegnere la tv, interrompere per sempre l’emozione. Lasciare che se la vedano tra loro. Le elezioni e le battaglie culturali si perdono lo stesso, ma non si rischia il contagio e si vive meglio.
FONTE: https://www.linkiesta.it/2021/11/metaverso-cairo-tv-la7/
ECONOMIA
27 miliardi nei paradisi fiscali: così le multinazionali “rubano”, ogni anno, soldi all’Italia
20 Agosto 2021
Operazioni intragruppo per spostare, senza che nessuno abbia troppo da ridire, profitti realizzati in determinati Stati altrove, in altri Paesi, dove il Fisco è più clemente. Continua imperterrito, nell’Europa delle diseguaglianze, l’odioso trend che vede le multinazionali impegnate nella ricerca dello stratagemma più astuto per pagare meno tasse. Spiegato oggi da uno studio che mostra come e dove i grandi colossi riescono a muovere i propri soldi, sempre a proprio vantaggio.
La ricerca, realizzata da tre economisti delle università di California, Copenaghen e Berkley e pubblicata dal Fatto Quotidiano, spiega come siano proprio alcuni Stati europei, facendosi concorrenza fiscale a vicenda, a rendere possibile il fenomeno, con la compiacenza di un’Unione Europa sempre più attenta a bastonare i cittadini che le multinazionali. Con conseguenze note: mentro entrate fiscali per gli Stati ai quali spetterebbero, concorrenza sleale, statistiche inaffidabili e via dicendo. Tra le vittime, ovviamente, c’è anche l’Italia.
Dati alla mano, nel 2015 il nostro Paese perdeva poco meno di 20 miliardi di euro di profitti realizzati dalle multinazionali sul suo territorio, diventati oltre 27 nel 2018 a conferma di un fenomeno in costante crescita. La perdita del gettito fiscale è di circa 6,6 miliardi di euro, volati altrove. Dove? Principalmente in Lussemburgo (11,5 miliardi di profitti provenienti dall’Italia dei 27 totali), Irlanda (6 miliardi), Paesi Bassi (4,1 miliardi), Belgio (1,6 miliardi) e in misura minore Cipro e Malta.
Stando al database elaborato dai ricercatori, l’Europa sarebbe complessivamente la principale vittima dell’elusione fiscale da parte della grandi compagnie. Con richieste continue di nuove forme di tassazione, pensate per mettere fine a questa profonda ingiustizia, che finiscono puntualmente per arenarsi, intrappolate nelle maglie della burocrazia europea. A Bruxelles, evidentemente, la questione non interessa poi così tanto.
FONTE: https://www.ilparagone.it/economia/27-miliardi-nei-paradisi-fiscali-cosi-le-multinazionali-rubano-ogni-anno-soldi-allitalia/
GIUSTIZIA E NORME
Codice della Strada: da oggi in vigore le nuove norme contenute nella legge di conversione del Decreto infrastrutture e trasporti
10 novembre 2021 – Divieto di uso di tablet e pc portatili, oltre che di telefoni cellulari mentre si è alla guida di un veicolo, norme per aumentare la sicurezza dei pedoni, multe più salate per chi occupa i posti riservati al parcheggio delle auto utilizzate per il trasporto delle persone con disabilità e, a partire dal primo gennaio 2022, sosta gratuita per i veicoli al servizio delle persone con disabilità sulle strisce blu, stalli ‘rosa’ riservati al parcheggio delle donne in gravidanza e dei genitori di bambini fino a due anni, aumento delle sanzioni per chi getta dal finestrino dell’auto rifiuti o altri oggetti. Con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale del decreto legge infrastrutture e trasporti, convertito in legge dal Parlamento, entrano in vigore da oggi le novità introdotte nel codice della strada che è stato modificato anche nei suoi principi ispiratori: non più soltanto la sicurezza ma anche la tutela della salute delle persone e la tutela dell’ambiente rientrano tra le finalità primarie di ordine sociale e economico perseguite dallo Stato attraverso la disciplina della circolazione stradale.
Tra le principali novità introdotte dalla legge di conversione del decreto vi è la nuova regolamentazione dei monopattini elettrici.
– Divieto dell’uso di tablet mentre si guida: il divieto, ora espressamente previsto per i telefonini, si estende all’uso di computer portatili, notebook, tablet e qualunque altro dispositivo che comporti anche solo temporaneamente l’allontanamento delle mani dal volante. Confermate le sanzioni per chi non rispetta questa regola che vanno da un minimo di 165 euro a un massimo di 660 euro. Si applica la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida da uno a tre mesi se la stessa persona commette un’ulteriore violazione nel corso di un biennio.
– Persone con disabilità: raddoppiano le multe per chi parcheggia senza avere il contrassegno nelle aree riservate ai veicoli delle persone disabili. La multa va da un minimo di 168 ad un massimo di 672 euro. Dal primo gennaio 2022 i veicoli per il trasporto delle persone con disabilità possono essere parcheggiate gratuitamente nelle aree a pagamento qualora i posti riservati risultino occupati.
– Stalli rosa e altri posti riservati: il sindaco con propria ordinanza può disporre parcheggi riservati per le donne in gravidanza e i genitori con figli di età non superiore a due anni, muniti di contrassegno speciale. Il sindaco inoltre ha la facoltà di riservare posti per il parcheggio di veicoli elettrici, mezzi adibiti al carico e scarico delle merci a determinati orari e adibiti al trasporto scolastico.
– Aree dedicate alla ricarica dei veicoli elettrici: il divieto di sosta, con le relative sanzioni, si estende alle aree dove si trovano le colonnine per la ricarica elettrica dei veicoli. Il divieto vale anche per gli stessi veicoli elettrici che non stanno effettuando la ricarica o se hanno completato da oltre un’ora l’operazione
– Sicurezza dei pedoni: arrivano norme per aumentare la sicurezza dei pedoni che attraversano una strada priva di semafori, introducendo più puntualmente obblighi di cautela per gli automobilisti. In corrispondenza degli attraversamenti pedonali, chi è alla guida di veicoli è obbligato a dare la precedenza, rallentando o fermandosi, non solo ai pedoni che hanno iniziato l’attraversamento, ma anche a chi si accinge a farlo.
– Multe salate per chi getta i rifiuti dal finestrino: raddoppiano le sanzioni per chi getta rifiuti dal finestrino dell’auto in sosta o in movimento insozzando la strada, da un minimo di 216 ad un massimo di 866 euro; sanzioni raddoppiate anche per chi getta dai veicoli in movimento un qualsiasi oggetto: si va da un minimo di 52 ad un massimo di 204 euro.
– Stop pubblicità sessiste o con messaggi violenti: è vietata qualsiasi forma di pubblicità su strade e veicoli con contenuto sessista o che proponga messaggi violenti o discriminatori. La violazione del divieto comporta la revoca dell’autorizzazione all’uso dello spazio pubblicitario e l’immediata rimozione della pubblicità.
– Patente di guida: la validità del ‘foglio rosa’ passa da sei mesi a un anno. Durante il periodo di validità del foglio rosa è possibile effettuare la prova pratica di guida per tre volte (la prima più ulteriori due), anziché due volte come prevedeva la norma precedente. Coloro che si esercitano senza istruttore incorrono in una sanzione da un minimo di 430 ad un massimo di 1731 euro e nella sanzione accessoria del fermo amministrativo del veicolo per tre mesi.
– Ricorsi contro le multe: il ricorso al prefetto per atti di contestazione di infrazioni del codice della strada può essere effettuato anche per via telematica, attraverso la posta elettronica certificata.
Nel corso dell’esame parlamentare sono state introdotte norme sull’uso dei monopattini elettrici con l’obiettivo di aumentarne la sicurezza e favorirne il corretto uso senza scoraggiare il ricorso a questa forma di mobilità dolce diventata sempre più diffusa soprattutto nei grandi centri urbani a seguito della pandemia. Sono previsti la riduzione del limite di velocità da 25 a 20Km/h (resta invece a 6km/h all’interno delle aree pedonali), il divieto di circolare sui marciapiedi, salvo la conduzione a mano, e il divieto di parcheggiare sui marciapiedi al di fuori delle aree individuate dai Comuni. Per evitare la sosta selvaggia, i noleggiatori di monopattini elettrici devono prevedere l’obbligo di acquisire la foto al termine di ogni noleggio per verificarne la posizione sulla strada. Confermato l’obbligo del casco per i minorenni. Dal primo luglio 2022 i nuovi monopattini devono essere provvisti di segnalatore acustico e di un regolatore di velocità. Quelli già in circolazione prima di questo termine devono adeguarsi entro il primo gennaio 2024. Prevista la confisca del mezzo per chi circola con un monopattino manomesso.
Madre contro padre e alla fine decide il giudice: ecco come il vaccino spacca le famiglie
11 Novembre 2021
“Io sono un po’ indeciso sul vaccino proprio perché i miei genitori mi dicono cose diversissime e mi spaventano” ha spiegato ai giudici un 12enne di Milano che, però, ha poi detto: “Per meglio chiarire la mia posizione preciso che le mie idee sono come quelle di mia madre, perché parlando con lei, e riferendole le cose che mi ha detto papà, capisco che le cose che mi dice mio padre non hanno moltissimo senso”. E adesso il giudice di di una causa insorta tra i genitori separati che fino ad ora avevano serenamente condiviso l’affido congiunto dei due figli, definisce “le preoccupazioni paterne espresse nella memoria difensiva non sono supportate dalla scienza medica nazionale e internazionale, sono in contrasto con i dati raccolti dalle ampie sperimentazioni effettuate nel mondo, e trascurano di considerare le indicazioni delle autorità regolatorie del farmaco nazionali e internazionali, nonché le indicazioni del governo italiano”.
IMMIGRAZIONI
LA UE NON HA ETICA: DICE QUELLO CHE LE PARE
Tonio De Pascali 9 11 2021
L’Italia è pressata sui suoi confini meridionali da decine di migliaia di clandestini che giungono sui canotti con la connivenza delle organizzazioni criminali e la “distrazione” dell’Europa?
Coro unanime della Ue: “SPORCHI ITALIANI RAZZISTI DOVETE ACCOGLIERE CHI SOFFRE”
La Polonia è pressata sui suoi confini orientali con la Bielorussia da migliaia di clandestini giunti, appunto, in Bielorussia attraverso le rotte balcaniche e che cercano di bypassare il muro di filo spinato?
Coro unanime della Ue: “TUTTI DOBBIAMO AIUTARE LA POLONIA A CACCIARE I CLANDESTINI CHE VOGLIONO ENTRARE DAL CONFINE DELLA BIELORUSSIA”
https://www.facebook.com/100015824534248/posts/1096446274226180/
LA LINGUA SALVATA
LAVORO PENSIONI DIRITTI SOCIALI
Taglio allo stipendio e alle ferie per il smartworking? Si inizia a preparare il terreno
Savino Balzano 10 novembre 2021
Secondo i sondaggi riportati in questo articolo, pur di lavorare da remoto, le persone sarebbero disposte a rinunciare a parte della retribuzione. Con punte del 50%: avete capito bene, lasciando a casa metà della busta paga.
La ragione? Semplice, solita storia: con la crisi sanitaria il mondo del lavoro è mutato e sarà impossibile tornare indietro. Con la filosofia dell’immutabilità, dell’ineluttabilità, ormai si giustificano le peggiori nefandezze.
Savino Balzano, nato a Cerignola nel 1987, ha studiato Scienze Politiche presso l’Università degli Studi di Perugia. Autore di “Contro lo Smart Working” (Laterza, 2021) e di “Pretendi il Lavoro! L’alienazione ai tempi degli algoritmi” (GOG, 2019). Sindacalista, si occupa di diritto del lavoro, collabora con diverse riviste.
FONTE: https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-taglio_allo_stipendio_e_alle_ferie_per_il_smartworking_si_inizia_a_preparare_il_terreno/43173_43839/
PANORAMA INTERNAZIONALE
Se lo dice Kissinger (che il mondo cambierà)
Henry Kissinger, rifugiato ebreo tedesco negli Stati Uniti, veterano della Seconda Guerra Mondiale, punto di riferimento per molti teorici delle relazioni internazionali, segretario di Stato per Richard Nixon e Gerald Ford, premio Nobel per la pace, si è espresso pochi giorni fa – in un editoriale per il Wall Street Journal – sull’attuale situazione globale. Il ruolo storico di Kissinger nella politica internazionale è ancora molto dibattuto, a tratti controverso, ma le sue capacità di lettura, di analisi e di influenza sono ancora estremamente rilevanti.
Il peso del politico e dello studioso Kissinger sta facendo sì che in tutto il mondo si stiano analizzando le sue considerazioni su come la pandemia di Covid-19 influenzerà la politica internazionale. Il titolo dell’articolo è come un manifesto, dove Kissinger vuole essere estremamente chiaro su due aspetti: in primis, che il mondo cambierà per sempre a causa della pandemia; e, come secondo punto, che gli Stati Uniti si devono attrezzare non solo per proteggere i propri cittadini ma anche per “pianificare una nuova epoca“.
Nello specifico, il quasi centenario guru repubblicano ci dice che a cambiare, a causa degli effetti della crisi, sarà l’ordine globale. Dunque, Kissinger, ancora prima di iniziare il suo ragionamento, si rivolge esplicitamente alla necessità di mantenimento della leadership globale statunitense.
A divided country
In apertura, la suggestione è molto forte. Kissinger ricorda una delle esperienze più drammatiche della sua esistenza, quando rientrato in Europa da soldato di fanteria americano, si trovò sul fronte occidentale a dover rispondere all’ultima offensiva tedesca sulle Ardenne, prima della disfatta del Reich.
Un senso di pericolo incipiente, vicino ma invisibile. La similitudine con la fase storica attuale è aggravata dal rimarcare una differenza: al tempo la resistenza americana era cementata da uno scopo condiviso, nazionale. Kissinger, poi, ci tiene a precisare che comunque ritiene che l’attuale amministrazione stia fronteggiando bene la crisi, ma lo fa senza nominare direttamente il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Se esista un vero rapporto tra i due non lo sappiamo ma fu lo stesso Trump, appena eletto, a volere un colloquio col maestro della Realpolitik.
Ciononostante, l’ex segretario di Stato parla di una frattura che potrebbe incidere a lungo termine sulla ripresa del Paese. Parla di un paese diviso, “a divided country“, e ne espone i rischi: un paese cui manca la solidarietà sociale, la fiducia tra cittadini e verso i governanti, impedisce che lo sforzo collettivo muova in una stessa direzione. Su tale fiducia sociale si fondano anche la comprensione e la cooperazione tra società diverse e, dunque, il cosiddetto ordine globale. Ora, per dire che l’ordine mondiale cambierà bisogna presupporre innanzitutto che un ordine esista e Kissinger si riferisce all’egemonia statunitense, in atto proprio dalla fine del secondo conflitto mondiale.
Usa in prima linea e Illuminismo
Partendo dalle considerazioni sugli Stati Uniti, Kissinger sottolinea quelle che ritiene essere le caratteristiche del sistema mondiale costruito sulle basi liberali, la natura profonda degli Stati democratici. Per Kissinger, se si vuole evitare ulteriore disordine, gli Usa dovranno guidare l’uscita dalla crisi a livello globale. Sebbene, la maggioranza dei paesi stiano affrontando l’emergenza a livello nazionale è d’estrema importanza che le risposte di lungo periodo vengano coordinate a livello globale, poiché è dal commercio internazionale e dal movimento delle persone che vengono garantiti il benessere economico e la pace.
Il richiamo ai valori dell’Illuminismo – un richiamo che sembra indirizzato in questo caso anche agli interlocutori europei – è finalizzato a sottolineare un altro concetto essenziale e cioè che le democrazie o esistono per garantire sicurezza, benessere economico e giustizia, oppure perdono il loro senso. Per Kissinger, quando la pandemia sarà finita – a ragione o a torto non importa – molti cittadini del mondo si ritroveranno a pensare che alcune istituzioni – nazionali e internazionali – abbiano fallito il loro compito di proteggerli.
Le conseguenze politiche ed economiche della crisi di fiducia nei confronti di tali istituzioni potrebbero essere catastrofiche, d’instabilità globale, e potrebbero durare per generazioni. Superata l’emergenza, per Kissinger ci sarà bisogno di lavorare su tre fronti principali: sviluppo in ambito sanitario di nuove tecnologie per proteggere la popolazione mondiale; tutelare l’economia globale e con essa anche il benessere delle popolazioni più vulnerabili; salvaguardare quei principi di democrazia e libertà su cui si fonda l’ordine liberale mondiale.
Il messaggio di Kissinger
Kissinger, infine, delinea il suo pensiero in maniera chiara: o si gestisce la situazione oppure potrebbe generarsi il caos. Il suo è un appello agli Stati Uniti, cui chiede di prepararsi a farsi carico di tale gestione altrimenti potrebbero essere i primi a subirne le conseguenze negative. Facendo riferimento direttamente al piano Marshall e al progetto Manhattan, un investimento che portò prosperità e progresso agli Usa una volta usciti dal campo di battaglia nelle Ardenne.
Il richiamo alle responsabilità statunitensi è sonoro. Nell’anno delle elezioni presidenziali, con una pandemia globale in corso che sembra dar ragioni patrocinatori dei confini solidi e del sovranismo, Kissinger fa appello ai valori liberali che sembrano ormai sopiti sotto le ceneri dell’ultima presidenza.
Per ora le politiche messe in atto da Trump hanno come orizzonte la rielezione, tamponando l’economia facendo ricorso alla potenza di fuoco delle casse dello Stato. Mentre fino a oggi, sul fronte occidentale, il presidente in carica è stato soprattutto fonte di fratture, arrivando persino a sostenere la Brexit. Vedremo se Trump saprà ascoltarlo, ribaltando la propria strategia.
FONTE: https://www.affarinternazionali.it/2020/04/se-lo-dice-kissinger-che-il-mondo-cambiera/
Il nuovo ordine mondiale dopo il Covid-19. Parola a Henry Kissinger
Di –
Per dinamiche epocali, servono firme epocali. È ciò che deve avere pensato il Wall Street Journal, ospitando una riflessione densa, profonda e ad ampio raggio di Henry Kissinger sulla crisi del coronavirus e il futuro dell’ordine mondiale. Questa riflessione non è solo analisi; è anche un richiamo perentorio al proprio Paese, gli Stati Uniti, al non perdere di vista il dopo e, soprattutto, rendersi conto che l’America non può – e non deve – abdicare al ruolo che ha avuto in questi decenni di architrave dell’ordine internazionale liberale.
LA SURREALE PAURA DI UN PERICOLO INCIPIENTE E SENZA LOGICHE (RI)CONOSCIUTE
L’ex Segretario di Stato inizia la sua riflessione con un ricordo personale: giovane soldato, arruolato nell’84a Divisione di Fanteria ai tempi dell’offensiva delle Ardenne (The Battle of the Bulge), l’atmosfera di oggi gli ricorda il “senso di pericolo incipiente” che ha conosciuto all’epoca, i cui contorni sfuggono ad una definizione netta essendo intrinsecamente dinamici e sconosciuti. Senso di pericolo “rivolto non ad una persona in particolare, ma bensì capace di colpire a caso e in maniera devastante.”
Il richiamo a l’offensiva delle Ardenne è suggestivo, per svariati motivi. Quello fu uno degli atti conclusivi della trentennale guerra civile europea che consegnerà il mondo all’ordine bi-polare e, nelle società ad Ovest del muro, ad un’era di prosperità materiale mai vissuta prima. Di quel mondo bi-polare, Kissinger sarà sia chiaro – discusso e per certi aspetti controverso – protagonista, ma anche picconatore, visto che ne inizierà a scardinarne le fondamenta, a colpi di ping pong prima e di distensione poi.
Kissinger, in quegli anni, diede linfa e forma all’idea espressa da Nixon di non poter lasciare la Cina per sempre al di fuori della famiglia delle nazioni. A voler metter gli eventi di oggi in prospettiva storica, la centralità geo-economica che la Cina ha assunto in questi anni – e di cui, in un certo senso, la crisi del Coronavirus è uno dei prodotti – è figlia di quell’apertura. Allargando l’orizzonte storico ulteriormente, quello fu probabilmente l’ultimo sigillo alla globalizzazione completa delle relazioni internazionali: dinamica, iniziata nel 1905 e sublimata dalla Guerra Fredda e dalla crisi di Suez del 1956, e che ha sancito la fine della centralità europea rispetto al sistema internazionale.
Questo senso di pericolo, però, oggi si declina in un clima diverso: Kissinger nota, riflettendo sugli Stati Uniti, la mancanza di uno “scopo nazionale definitivo” e la presenza di un “Paese diviso”. In un contesto del genere, Kissinger considera la presenza di un governo efficiente e lungimirante come conditio sine qua non, necessaria ma non sufficiente, per gestire degli ostacoli “senza precedenti, per magnitudine e portata globale”. In un clima del genere allora “sostenere la fiducia del pubblico è cruciale per (preservare) la solidarietà sociale, le relazione tra un società e l’altra, e la pace e la stabilità internazionali.”
Qui, Kissinger mette sul tavolo tre temi fondamentali che, in un modo o nell’altro e a seconda di come verranno declinati e integrati tra loro, andranno a forgiare le caratteristiche del nuovo ordine mondiale post-Covid-19: la fiducia nelle nazioni di prevedere e gestire le calamità; la percezione sulle performance delle istituzioni che non dipende necessariamente da quanto bene esse abbiano realmente fatto; la necessità di evitare di recriminare sul passato, pratica considerata come ostacolo rispetto al lavoro di gestione del futuro.
LA MATERIALITÀ DELLE PERCEZIONI
Fiducia e futuro dipendono da queste percezioni: ed è su queste percezioni che la partita globale si sta giocando in questi momenti. Percezioni di efficienza. Percezioni di tempismo. Percezioni di solidarietà. Non necessariamente ciò che è reale, nei numeri e nelle dinamiche, sia ciò che poi nella percezione delle opinioni pubbliche e, per una sorta di proprietà transitiva la cui fluidità varia a seconda dei contesti, in coloro che prendono decisioni. In Italia questa dinamica l’abbiamo conosciuta bene: a guardare i numeri, il supporto europeo o americano probabilmente resta molto più solido rispetto a quello di altri Paesi che hanno – rumorosamente – aiutato l’Italia. Ma le incertezze nella tempistica; la debolezza e la stanchezza delle narrative; in qualche modo anche l’idea che questo supporto sia dovuto mentre quello di altri non lo sia necessariamente fa si che le percezioni di solidarietà siano diverse da come questa solidarietà si sia poi declinata nella realtà.
Lo stesso vale per l’efficienza: vi sono tantissime analisi di gestori di crisi col senno di poi che sottolineano carenze, ritardi e mancanze, in realtà con un focus particolare sulle carenze delle libere democrazie nel gestire questa crisi. Che, indubbiamente, ci sono state. Ma queste analisi dimenticano i fattori politici e sociali che certamente non vanno visti come delle giustificazioni, ma che – se presi in considerazione – danno un quadro più realistico del tipo di contesto decisionale in cui queste inefficienze sono avvenute, ad ogni latitudine e indipendentemente dai gradienti di democrazia e apertura dei vari Paesi: la necessità della Cina di coprire l’epidemia iniziale per paura della ricadute economiche e d’immagine; la difficoltà italiana nell’imporre zone rosse iniziali quando la minaccia era ancora poco visibile o di avere un’azione coerente in un contesto indebolito da anni di austerità e da vent’anni di federalismo troppo spesso à la carte; le incertezze americane iniziali, dettate da una presidenza che, se da un lato si convinceva del pericolo in arrivo, dall’altro continuava a ragionare in termini di necessità di tenere l’economia viva, vera cifra politica del primo mandato Trump e wild card per la sua rielezione. Tre esempi di tre Paesi diversissimi per culture politiche e dinamiche storiche nella gestione della res publica che, però, per motivi diversi, hanno necessitato di tempo per forgiare una risposta efficiente a questa crisi. Ed è sulla preparazione a gestire in futuro crisi del genere che parte della stabilità del sistema si gioca.
Kissinger ha iniziato questa sua riflessione partendo dall’offensiva delle Ardenne. Senza voler fare voli pindarici, questo richiamo è ulteriormente stimolante se visto anche dal punto di vista dell’efficienza e della preparazione alla risposta. Non sappiamo se ci sia un riferimento voluto in tale senso, ma non possiamo fare a meno di notare come l’offensiva delle Ardenne sia considerata come caso da manuale, nei libri di strategic warning, di fallimento dell’intelligence, al pari di Pearl Harbour. Di un fallimento dell’intelligence dove però i segnali di warning si accumulavano rispetto alla tentazione tedesca del colpo a sorpresa, segnali che venivano però sistematicamente ignorati. Alcuni analisti hanno apertamente parlato della crisi del coronavirus come di uno dei fallimenti peggiori, se non il peggiore, nella storia dell’intelligence americana. A riprendere la letteratura, questo non è necessariamente un problema nuovo: fior fiore di analisti hanno spiegato in passato come l’analisi strategica non sempre venga assorbita nelle scelte americane. Probabilmente, però, questa inefficienza va allargata e non riguarda solo gli americani, ma tutti i Paesi che si sono confrontanti – e si stanno confrontando – con questa minaccia. Al netto dei fattori delineati sopra che aiutano a comprendere le circostanze politiche legate alle titubanze iniziali nelle reazioni di molti leader – vi è stata un’incapacità di trasformare l’informazione disponibile in azione efficace sia per preoccupazioni di tipo politico, sociale ed economico, sia perché la natura di questo virus è largamente sfuggente e ferocemente subdola.
Questa logica delle percezioni è importante, anche e soprattutto, per capire la portata della sfida prossima venuta. È in questo dominio delle percezioni che la Cina sta cercando di forgiare il proprio messaggio: di efficienza; di tempismo; di solidarietà. In definitiva: di attore che può fornire beni pubblici internazionali nel vuoto lasciato da altri. Un tema che richiama la teoria della stabilità egemonica: passaggio su cui torneremo nelle conclusioni.
Con una narrazione supportata in maniera più coerente dai diversi livelli della propria piramide politica, dove le incertezze iniziali sono diluite nell’ondata dirompente di efficacia del modello di gestione successiva; nel know-how che i propri medici hanno costruito mentre il mondo si domandava che succedesse a Wuhan; nella prontezza nel suo offrire sostegno esterno. Quest’ultimo elemento è intimamente connesso anche nel cogliere questa crisi come opportunità per dare lustro al progetto della Belt and Road, come dimostrato dall’idea della Via della Seta sanitaria o l’epopea video degli aiuti via terra portati in Spagna. Ed è un punto, importante, per riprendere il discorso di Kissinger sulla necessità di guardare al futuro: la Bri, da progetto geo-economico e logistico, e sempre di più un progetto geo-culturale con una chiara visione di centralità politica della Cina rispetto al mondo. Centralità politica che si deve stabilizzare e definire entro il 2049, anno del centenario, ma che ha in sé un sapore di antico, e cioè un richiamo al sistema internazionale pre-europeo. Dove la Cina era fulcro economico essenziale e la cui centralità era, ed è ancora, rappresentata vivamente nella cartografia cinese. Non a caso, dire Cina significa dire Zhōngguó: Impero di Mezzo.
Ed è qui che la riflessione di Kissinger cambia scala: “Lo sforzo di (gestione della) crisi, per quanto vasto e necessario, non deve escludere l’urgente compito di avviare un’impresa parallela per il passaggio all’ordine post-coronavirus”. Kissinger è conscio di come la magnitudo politico-economica di tale crisi sarà destinata a rilasciare le proprie vibrazioni molto a lungo, anche più a lungo rispetto all’impatto del virus sulla nostra salute. L’onda lunga di tale evento può durare per generazioni. Kissinger riflette quindi apertamente sulla natura intrinsecamente globale di tale virus.
Con buona pace di un certo sovranismo dal respiro corto che vede nelle limitazioni di queste settimane la prova di come i confini siano necessari, da declinare addirittura in funzione di comunità il cui raggio d’azione si riduce fino a combaciare con quello del focolare domestico. Kissinger riconosce che “la risposta dei leader nel gestire tale problema è stata modulata su basi puramente nazionali”. Bene, o meglio, male: questo approccio è destinato a fallire. Per Kissinger “nessuno stato può affrontare ciò da solo”. Tanto meno gli Stati Uniti. L’ex Segretario di Stato richiama tutti ad un atto di responsabilità globale: “Affrontare le necessità del momento alla fine deve essere associato a una visione e un programma collaborativi globali. Se non possiamo fare entrambi insieme, affronteremo il peggio di ciascuno”.
PRESERVARE L’ORDINE LIBERALE
In questo senso, Kissinger offre uno sguardo alla storia, ma non come campo per recriminare sul passato, rischio da cui ha messo in guardia in precedenza, ma come ad un inventario da cui trarre soluzioni per il futuro. Quindi, lo sguardo alla storia serve per riprendere gli insegnamenti che i successi passati possono offrire come bussola per il domani. Le lezioni dello sviluppo del Piano Marshall o del Progetto Manhattan devono obbligare gli Stati Uniti a sobbarcarsi uno sforzo significativo in almeno tre ambiti.
Il primo: rafforzare la resilienza globale alle malattie infettive. I trionfi medici del passato e il progresso tecnologico hanno paradossalmente abbassato la nostra tenuta rispetto alla gestione di questi problemi. Ci siamo cosi “cullati in un pericoloso compiacimento”. Kissinger disegna quindi uno sforzo di sviluppo di nuove “tecniche e tecnologie per il controllo delle infezioni e vaccini commisurati tra le grandi popolazioni”. Tale sforzo ha natura transcalare: “Le città, gli stati e le regioni devono costantemente prepararsi a proteggere il loro popolo dalle pandemie attraverso lo stoccaggio, la pianificazione cooperativa e l’esplorazione alle frontiere della scienza”.
In secondo luogo, bisogna compiere un nuovo sforzo per “sanare le ferite per l’economia mondiale”. Certamente, I leader globali hanno imparato importanti lezioni dalla crisi finanziaria del 2008 ma l’attuale crisi economica ha una carica virale, per rimanere in tema, ben più significativa, complessa e multiforme, e quindi sfuggente. Kissinger mette in prospettiva storica la contrazione economica scatenata dal coronavirus, rimarcando come “nella sua velocità e scala globale, essa sia diversa da qualsiasi cosa mai conosciuta nella storia.” Le scelte che giustamente Kissinger definisce “necessarie” di sanità pubblica per gestione della crisi nel breve-termine, come l’allontanamento sociale e la chiusura di scuole e imprese, avranno effetti duraturi su questa sofferenza economia. I programmi di risposta, allora, devono cercare di mitigare “gli effetti dell’imminente caos sulle popolazioni più vulnerabili del mondo.”
Il terzo punto è il punto in cui si condensa la vera sfida globale per i prossimi decenni. Kissinger non è solo stato uno dei politici più importanti del secolo scorso, ma è pur sempre un politologo di formazione, con un sostanziale e cruciale substrato di storico, figura ibrida dominante nella scienza politica fino alle virate teoriche degli anni ’60 e ’70. Inevitabilmente, il riferimento al futuro riprende le radici sui cui il presente si è sostanziato nel corso degli ultimi decenni e secoli. Per Kissinger, quindi, gli Stati Uniti devono necessariamente “salvaguardare i principi dell’ordine mondiale liberale”. L’ordine moderno è nato e si è evoluto con comunità politiche fortificate per difendersi contro nemici esterni gestite da sovrani, a volte dispotici, a volte benevoli. Questa arbitrarietà si è andata diluendo in concomitanza con la rivoluzione – e la lezione – valoriale dell’Illuminismo, cesura storico-ideologica che ha permesso una rielaborazione di tale concetto di difesa della comunità: lo scopo dello stato legittimo si è quindi evoluto nel provvedere ai “bisogni fondamentali delle persone: sicurezza, ordine, benessere economico e giustizia” tutti elementi che gli individui, da soli, non sono in grado di proteggere. Kissinger offre un’altra bordata alle tentazioni sovraniste che animano tanti circoli al di qua e al di là dell’Atlantico, criticando il ritorno dell’evidente anacronismo della rinascita di una “città fortificata in un’epoca in cui la prosperità dipende dal commercio globale e dal movimento delle persone”.
Per Kissinger, le democrazie del mondo sono quindi chiamate a “difendere e sostenere i loro valori illuministici”. Il prezzo da pagare qualora ciò non avvenga è alto, anzi, altissimo: “La disgregazione del contratto sociale, sia a livello nazionale che internazionale”. In questo ambito, Kissinger suggerisce una metodologia di azione: la plurisecolare diatriba su legittimità e potere non può essere risolta mentre l’umanità cerca di superare la pestilenza di Covid-19. Il restrainment, che potremmo tradurre come parsimonia in questo caso, deve essere necessario da parte di tutti, sia nella politica interna che nella diplomazia internazionale.
IL DECLINO: NON INELUTTABILE, MA I CUI SINTOMI SONO PRESENTI
L’offensiva delle Ardenne che Kissinger richiama nell’incipit del suo articolo era uno degli ultimi attimi politici di un mondo destinato a sparire per far spazio ad un altro, in cui prosperità e rispetto della dignità umana crescevano di pari passo. Per Kissinger, la fase che stiamo vivendo rappresenta un “periodo epocale”. La sfida, per i leader globali, è quella di “gestire la crisi mentre si costruisce il futuro.” Il fallimento non è consentito perché “potrebbe incendiare il mondo”.
Quest’ultima nota va letta nel rischio insito nella disintegrazione dell’attuale ordine internazionale. La crisi causata dal Covid-19 rischia di essere per l’America ciò che è stata Suez per gli imperi europei fiaccati dai trenta anni di guerra civile europea e che hanno dominato il mondo per secoli, come ripetuto spesso da Nathalie Tocci nelle ultime settimane. Questa nota si lega quindi al richiamo fatto in precedenza alla teoria della stabilità egemonica, approccio teoricamente eclettico promosso da Robert Gilpin in cui gli Stati Uniti rappresentavano l’egemone benevolo fornitore di beni internazionali pubblici. Secondo Gilpin, la crisi degli anni ’70 aveva sancito l’inizio del declino dell’egemone benevolo, declino scritto nelle regole del sistema visto che i costi da affrontare e il comportamento dei free riders alla lunga erodono il dominio dell’egemone.
E se la crisi del Covid-19 fosse l’atto conclusivo di questo percorso iniziato negli anni ‘70? Kissinger, quando chiede agli Stati Uniti uno sforzo per rimodellare il sistema internazionale, chiede un colpo di reni per combattere questa dinamica di un declino che non è destino geopolitico ineluttabile – non ancora, almeno – anche se alcuni dei sintomi esistono e sono visibili. Rispetto a questa crisi, la Cina si è posta come fornitore globale di beni pubblici globali, dal materiale sanitario – di cui dispone un controllo significativo gestendo larga parte delle catene di produzione nel settore – al know-how per affrontare una pandemia che loro sono stati i primi ad affrontare. Questa dinamica si è dispiegata chiaramente a varie latitudini. L’Italia ne è stata uno dei teatri principali: le incertezze della leadership americana nella gestione globale di questo dramma ha dato spazio ad un’azione ad alta efficienza dal un punto di vista dei costi/benefici della Cina che ha si trovato sponde importanti in Italia, ma al tempo stesso ha avuto la prontezza di cogliere l’esistenza di crepe in cui insinuarsi.
Kissinger, nelle ultime occasioni pubbliche in cui ha avuto modo di parlare, ha messo in guardia dalle “conseguenze catastrofiche” di avere un sistema in cui Stati Uniti e Cina si scontrassero apertamente. La crisi del Covid-19 può accelerare una dinamica del genere: un egemone declinato contro un gigante demografico e geopolitico che trasforma una crisi interna potenzialmente dirompente in occasione per elargire beni pubblici internazionali che comunità impaurite da un virus al momento intelligibile necessitano per affrontare la minaccia. Questa è, probabilmente, la sfida a cui Kissinger si riferisce: sta ora al suo Paese, gli Stati Uniti, decidere come rispondere.
FONTE: https://formiche.net/2020/04/kissinger-ordine-mondiale-coronavirus/
POLITICA
NON CHIAMATELO STATO D’EMERGENZA
Siamo parecchio turbati. La causa del disagio non è più il Covid in sé, né lo sono i potenziali effetti catastrofici della malattia. Ciò che allarma è l’uso strumentale che il potere fa del probabile rischio di una ripresa consistente del contagio. Badate bene: il potere, non la politica. Già, perché quest’ultima, almeno in Italia, ha deciso di ritirarsi a vivere in un’altra dimensione, dove alberga il Ddl “Zan”, lasciando i comuni mortali a sbrigarsela da soli con gli accidenti della vita quotidiana. La politica: malconcia divinità di un wagneriano Götterdämmerung (Crepuscolo degli dei).
Il potere, oggi impersonato da Mario Draghi, uomo solo al comando, ha superato la fase di surroga del decisore politico per assurgere al ruolo, più consono a un monarca assoluto, di regolatore di tutte le cose. Anche di quelle finora gelosamente custodite nelle sacre Tavole del Pactum societatis, che sono le libertà individuali (un tempo) incomprimibili. Com’è stato possibile che ciò accadesse, quando vi era la diffusa convinzione che la forma di Governo democratica fondata su un solido impianto costituzionale d’ispirazione liberale non fosse in alcun modo scalfibile? La parola di passo che è servita a spalancare le porte a un nuovo ordine sociale è “stato d’emergenza”.
La speciale condizione, che spinge una comunità a vivere per un tempo breve in quella che giuridicamente si potrebbe definire la “terra di nessuno”, tra la legge e la sospensione della sua validità, è stata giustificata dal diffondersi della pandemia e, nella fase acuta, dal crescere a dismisura della contabilità dei morti. Poi però il “tempo breve”, requisito inderogabile per legittimare la compressione delle libertà, ha tradito se stesso trasformandosi, di proroga in proroga, in “tempo perenne”. Si è cominciato il 31 gennaio 2020 con la prima delibera del Consiglio dei ministri che dichiarava lo stato d’emergenza sanitaria per 6 mesi “in conseguenza del rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili”. Siamo quasi alla fine del 2021 e, con l’approssimarsi il prossimo 31 dicembre della scadenza dell’ennesima proroga, dalle stanze del Palazzo fuoriescono voci che ne danno per scontato il prolungamento fino alla primavera del 2022. Eppure, le stesse fonti assicurano che la campagna vaccinale sta funzionando bene; i dati sulla pandemia forniti dalle istituzioni preposte delineano un quadro confortante sulla capacità del Sistema sanitario nazionale di fare fronte ai contagi circolanti; le attività lavorative sono totalmente riprese, sebbene con qualche limitazione circoscritta al comparto produttivo dell’intrattenimento e dello spettacolo artistico e sportivo; le scuole sono state riaperte in ogni ordine e grado; le università idem; il traffico aereo è ripreso con regolarità; i trasporti pubblici non hanno smesso di funzionare fino al massimo della capienza consentita, anche quando non avrebbero dovuto. Perché mai si avverte il bisogno di prorogare lo stato d’emergenza?
La verità è che esso non è più tale, già da molto. La verità, che nessuno osa ammettere pubblicamente ma che tutti conoscono a cominciare da coloro che quel potere straordinario se lo sono preso, è che siamo immersi – meglio: sprofondati – nello “stato d’eccezione” di schmittiana memoria. La differenza tra la condizione generata da quest’ultimo rispetto a quella che si configura con lo “stato d’emergenza” non è roba di poco conto. Al contrario: ci cambia la vita. Ricorrendo alla diversificazione formulata da un noto giurista (Gustavo Zagrebelsky quotidiano La Repubblica del 28 luglio 2020): “All’emergenza si ricorre per rientrare quanto più presto è possibile nella normalità (salvare i naufraghi, spegnere l’incendio). All’eccezione si ricorre invece per infrangere la regola e imporre un nuovo ordine”. La nostra Comunità nazionale sta scivolando gradualmente nella nuova condizione che assicura agli individui protezione in cambio di libertà, un pacifico conformismo nell’agire collettivo al posto dell’urticante confronto democratico; l’ortodossia del pensiero unico, politicamente corretto, contro le fughe e le deviazioni dell’eterodossia; pensiero convergente che scaccia dal campo delle interazioni umane ogni forma di pensiero divergente.
Al concetto di stato d’eccezione si associa la figura del sovrano al quale è attribuito il potere supremo della decisione. Ora, domandiamoci: non è così che siamo messi in Italia? Non è forse vero che qualsiasi cosa faccia il premier Draghi o, su sua delega, il Governo sia giusta e incontestabile essendo la decisione presa non in nome ma per il bene del popolo sovrano rimasto tale solo sulla carta? Opporvisi è da negazionisti, da credenti d’una religione o di una setta che non oscillano di fronte alle smentite della realtà (Zagrebelsky). Ciò non è soltanto sbagliato ma è velleitariamente antiscientifico, antitetico alla linea di flusso del divenire della Storia. Scioperare, protestare pacificamente, disubbidire in forma non violenta, violano il nuovo ordine. Su un punto Zagrebelsky ha ragione: “L’emergenza non è l’eccezione e l’eccezione non è il grado ultimo dell’emergenza. Sono due cose diverse”.
Ma da noi quello steccato è stato saltato da un pezzo. La gente comune, asfissiata dagli affanni quotidiani, neanche se n’è resa conto. Non bada a certe sottigliezze da intellettuali. Se si sente dire dai megafoni di Stato (i media) a ogni ora del giorno e della notte che le cose funzionano e il Pil cresce come mai accaduto prima, ci crede. Forse si dirà che da quando c’è Draghi i treni arrivano in orario. Ma lo si diceva anche di qualcun altro che, per un ventennio lo scorso secolo, ha sequestrato la libertà degli italiani. A breve si terrà l’elezione del presidente della Repubblica e c’è chi ipotizza un approdo di Mario Draghi al Quirinale per essere capo dello Stato con poteri rafforzati: un modo ipocrita per non definirlo monarca assoluto. C’è da gestire fino al 2026 il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), finanziato dall’Unione europea con oltre 200 miliardi di euro. C’è la controversa transizione ecologica da realizzare entro il 2050. Ci sono le grandi riforme strutturali il cui compimento è atteso da decenni. Sussurrano a mezza voce i cantori dello stato d’eccezione: “Per queste cose servono uomini forti, credibili presso la comunità internazionale e i mercati finanziari, che prendano decisioni rapide. Non serve il chiacchiericcio inconcludente dei partiti”. Mario Draghi, con un pugno di uomini e donne fidati, guiderebbe lo Stato dal Colle in una sorta di presidenzialismo de facto; lascerebbe a Palazzo Chigi un suo plenipotenziario; surrogherebbe con il proprio carisma la funzione legislativa finora attribuita dalla norma fondamentale a quel reperto archeologico che è il Parlamento. E le leggi non si limiterebbe a firmarle ma le detterebbe. E al diavolo la Carta costituzionale. Ma non era la più bella del mondo?
La cosa sorprendente è che i più convinti assertori della prosecuzione dello stato d’eccezione stiano nel centrosinistra. D’altro canto, perché stupirsi? È da dieci anni che, in un modo o nell’altro, i “compagni” stazionano al potere a dispetto dei verdetti elettorali. Al riguardo: perché sprecare denaro pubblico in quelli che il qualcuno di cui sopra chiamava spregiativamente “ludi cartacei”, visto che c’è tanta gente che alle urne neanche ci va più? Perché infastidire i sudditi con inutili liturgie partecipative? C’è Draghi e, presumibilmente, nel 2023 vi sarà da qualche parte in Italia un malato di Covid o si troverà un’altra variante del virus in circolazione tale da giustificare la prosecuzione dello stato d’eccezione. Conveniente allora sospendere le elezioni: lasciamo tutto com’è adesso. Saranno contenti i parlamentari grillini che continueranno a ricevere lo stipendio. E saranno contenti quegli italiani che apprezzeranno il fatto che i treni arrivino in orario e che non vi siano più scioperi in strada a turbare la pace, dal discutibile retrogusto cimiteriale, delle persone perbene. Tutto giusto e perfetto. Ma a una sola condizione: che ci venga risparmiata la pagliacciata, tutta di sinistra, delle manifestazioni contro il fascismo che torna.
https://www.opinione.it/editoriali/2021/11/10/cristofaro-sola_stato-emergenza-proroga-covid-draghi-governo/
DRAGHI AL QUIRINALE
ARRIVA IL SEMI-PRESIDENZIALISMO ALLA FRANCESE SENZA CHE LA COSTITUZIONE CAMBI
Tonio De Pascali – LOGGIANEWS – 6/11/21
Che si voglia portare Draghi al Quirinale è storia vecchia. Non è una novità.
Quello che è importante capire sono i dettagli della vicenda, dettagli importantissimi per i prossimi 50 anni, se ci saranno, della nazione.
La Costituzione della Repubblica, eccetto alcuni dettagli, è rimasta inalterata dal ’46 ad oggi e racconta di un Presidente della Repubblica che viene eletto da entrambe le Camere e che, ascoltati i partiti, designa il Presidente del Consiglio e può sciogliere le Camere stesse. Che presiede, per esempio, il Consiglio superiore della Difesa, organo importantissimo mai sufficientemente conosciuto, e che “firma le leggi”, operazione, quest’ultima, senza la quale le stesse non “passano”. Oltre a tante altre cose discrezionali: Pertini, per esempio, nominò un generale quale consulente per i problemi del terrorismo e questo militare girava l’Italia, le procure e le caserme, mettendo il naso, per conto di Pertini,quando voleva, sui fatti della violenza politica di quegli anni.
Un ruolo, quello del Presidente, che è sempre stato “notarile” fin quando tutto passava per le stanze di Casa Dc. Il Presidente certificava decisioni prese in Piazza del Gesù e basta. Mai una parola, mai un discorso, mai un intervento politico. Una figura esclusivamente rappresentativa che ascoltava quello che voleva la maggioranza parlamentare e silenziosamente eseguiva.
La Politica era forte ed era tutta in mano ad una solida Dc. Soprattutto, pur scivolando tra le logge democristiane e sovraniste, si faceva nei corridoi e nei salotti delle Camere.
Oggi, com’è noto a tutti, non è più così: la politica è cambiata anche se la Costituzione è rimasta praticamente la stessa.
Una Costituzione che vuole che deve essere il Parlamento a scegliere la maggioranza, al di là dei risultati elettorali (trattasi infatti di Repubblica parlamentare), e la maggioranza designa il Presidente del Consiglio, che poi viene segnalato al Presidente della Repubblica il quale lo incarica di formare il Governo che poi va alle Camere per la fiducia.
Con Berlusconi che spariglia le carte e da Berlusconi in poi, con il nome del leader candidato Presidente sulla scheda elettorale, è il popolo a scegliere de facto il Presidente del Consiglio, non il Parlamento, che lo sceglie solo de iure, e lo propone al Presidente della Repubblica.
Berlusconi imprime un cambio radicale alla vita politica dove tutto cambia pur rimanendo identica a prima la Costituzione. Il Parlamento diventa secondario anche se la Repubblica è parlamentare.
Che diventa, con un semplice escamotage politico, semi-presidenziale, con un Presidente del Consiglio, eletto praticamente dal popolo, e non il Presidente della Repubblica, eletto dal Parlamento.
Cambia la legge elettorale, che in Italia non è prevista nella Costituzione. Da proporzionale diventa maggioritaria. Il Presidente del Consiglio è ancora più potente.
Si passa così dalla Prima Repubblica, dove tutto si decideva in casa Dc e chi fosse il Presidente della Repubblica e il Presidente del Consiglio poco contava, e dove tutto si impantanava nelle paludi del Parlamento, alla Seconda Repubblica, dove un grande imprenditore crea un partito e cambia la politica.
Il Premier lo nomina il popolo ed il Presidente della Repubblica deve accettare il dictat.
Berlusconi viene fatto fuori e le Sinistre, eredi della Dc, sempre padroni delle paludi, riformano nuovamente la legge elettorale e si passa alla Terza Repubblica. Che è peggio della Prima. Il popolo elegge un Parlamento ma le paludi danno vita ad un’altra maggioranza, che non è quella voluta dall’elettorato.
Cosa legittima ed opportuna quando c’era la Dc, che tra l’altro aveva un grande senso dello Stato, legittima ma inopportuna da quando comandano le Sinistre, che il senso dello Stato e l’etica della politica non sanno cosa vogliano dire.
La politica non si fa più in Parlamento ma nella loggia. Il Parlamento deve solo obbedire. E su comando elegge anche il Presidente della Repubblica, che da oltre 15 anni è il vero motore ed il vero fulcro della vita della nazione.
Forte del potere che gli conferiscono le loggie – e le cosche – da 15 anni il Presidente della repubblica nomina i premier oltrepassando i partiti, che appena appena vengono “sentiti”, ed interviene a gamba tesa sulle vicende della politica (chi ricorda quando Napolitano obbligò Berlusconi a far entrare l’Italia in guerra contro la Libia?).
E se il potere di cui si fregia non viene dal Parlamento ma abbiamo visto da “dove” e se quel “dove” è così forte da mettere in ginocchio i partiti e la politica, il gioco è fatto.
Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio, impone le strategie politiche e sceglie i ministri, con un Parlamento costituito da partiti burletta e da politici deficienti e inetti oltre che banditi e criminali.
Questo a raccontare quanto avverrà nei prossimi mesi.
Le loggie, che hanno in mano i partiti, e che prendono ordini dalle grandi massonerie mondiali, hanno designato Draghi e deciso le strategie politiche ed economiche.
Chi si dovrebbe opporre? Salvini ?, che lo stanno cacciando di casa, Meloni ?, che ancora si sta leccando le ferite della batosta elettorale, Berlusconi?, che politicamente non c’è più.
Non si opporrà nessuno perchè tutti vogliono godere del magna magna dei soldi del Recovery, soldi che le grandi loggie mondiali hanno deciso per l’Italia e che hanno deciso pure chi dovrà decidere come gestirli e come dividerli tra i partiti.
Non si opporrà nessuno.
Avremo così una Costituzione che non cambia, una legge elettorale che non cambia, ma “là dove si puote ciò che si vuole”, diceva Dante, la classe dirigenziale sarà eletta con nuove regole, che sono poi le vecchie, decise altrove. Non è cambiato nulla.
Draghi, super Presidente della Repubblica, eletto da un Parlamento di inetti ma tanto “magnoni”, nominerà un Presidente del Consiglio di sua fiducia ed un Governo di sua fiducia e chi non è d’accordo si accomodi fuori.
La storia italiana ha così, alla fine della Terza Repubblica, evidenziato tutti i limiti della Repubblica Parlamentare. Una Repubblica fantoccio, in mano a lobby, cosche e loggie che dal Parlamento non passano ma in Parlamento pascolano.
FONTE: https://www.facebook.com/100015824534248/posts/1093359454534862/
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