RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI  18 DICEMBRE 2021

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RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI 

18 DICEMBRE 2021

A cura di Manlio Lo Presti

Esergo

L’incoscienza dei casi crea i casi di coscienza.

ANDREA EMO, Aforismi per vivere, Mimesis, 2007, Pg. 90

 

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SOMMARIO

Dalla Bce un messaggio pericoloso per l’Italia
Dalla mafia soldi in Ue contro l’Italia: il segreto di Borsellino
L’avvio della disgregazione dell’Unione Europea
E ora si preparano a vaccinare i neonati. Il piano
L’EGUAGLIANZA DELLA TOILETTE
“Tampone anche per i vaccinati”. Locatelli (Cts) lancia la proposta che spiazza tutti
La crisi non è uguale per tutti: in piena emergenza, scatta l’aumento per gli europarlamentari
La battaglia anti-italiana della signora Igiaba Scego
Come i falchi Usa hanno creato l’asse Russia – Cina
Cina: “pericolo giallo”?
Nucleare iraniano: il dialogo necessario per evitare la guerra
“LE COSTITUZIONI”: IL SOVRANO MILITARE ORDINE DI MALTA (VIDEO)
Oriente e Occidente: confronto tra pensiero e metodo
La libertà nell’era del dominio della tecnica 
I PRODUTTORI DI ARMI DICONO AGLI INVESTITORI CHE LA TENSIONE IN IRAN ALIMENTA GLI AFFARI
La guerra civile
DUE EX DIRETTORI DELLA CIA INVITANO BIDEN A MINACCIARE MILITARMENTE L’IRAN
Perché Falcone e Borsellino saltarono in aria in quel modo
Disastro sui prezzi: costi alla produzione mai così alti. In arrivo marea di chiusure
La disuguaglianza è una scelta politica
Inflazione e dintorni
Se lasci copia del tuo Green Pass in azienda, sai che fine fa? Te lo spieghiamo noi
L’Europa beffa ancora l’Italia sui migranti: ecco come è stato riscritto Schengen
I testimoni assolvono Salvini e lanciano accuse alle Ong
Tridico lancia l’allarme sulle pensioni: “Il sistema non regge”
Se trentacinquemila vi sembran tanti
Storie di caporalato digitale: eterni stagisti
Nuovo scossone in Vaticano. Lascia Turkson, uomo chiave della riforma
Come Big Pharma finanzia e forgia la politica Usa
IL VERTICE PER LA “DEMOCRAZIA”
La pace russa è un diktat. La Nato: “Non ci ritiriamo”
Il Lancet smentisce la leggenda dell’”Epidemia dei non vaccinati”
La tentazione è ridurre la durata del green pass. Ma c’è l’ostacolo Ue
Giovanni da Pian del Carpine 
La bufala della variante Omicron.

 

 

IN EVIDENZA

Dalla Bce un messaggio pericoloso per l’Italia

 – Mauro Bottarelli

Dalle pagine del Financial Times è arrivato un messaggio poco rassicurante di Isabel Schnabel, membro del Consiglio direttivo della Bce

Tutti i quotidiani italiani ieri riportavano il Financial Times. E non per il titolo di prima pagina in cui gli Usa ordinavano di fatto alla Germania di bloccare Nord Stream 2, in caso di attacco russo all’Ucraina. Bensì per quello che è stato inteso come un messaggio nemmeno troppo in codice o velato dei mercati alla politica italiana: Mario Draghi resti Primo ministro, poiché un suo trasloco al Quirinale destabilizzerebbe il quadro delle riforme intraprese. E l’intera società del Paese.

Non è la prima volta che il quotidiano della City invia avvertimenti a mezzo stampa. E non sarà l’ultima. L’Economist andò anche oltre, camminando con gli stivali infangati dalla supposta superiorità morale sulle scelte di qualche milione di italiani e decidendo che Silvio Berlusconi era a prescindere unfit a guidare il Paese. Nulla che stupisca, insomma. E nulla che preoccupi. Si è voluta scatenare una tempesta in un bicchiere d’acqua, semplicemente perché la polemica fa comodo a livello interno tutto italiano. E la riprova è semplice: attualmente, l’unico timore di mercato per il nostro Paese si chiama Bce. Tutto il resto, è accessorio.

Stupisce quindi come, nel giorno dell’insediamento al Bundestag del governo di Olaf Scholz, l’attenzione degli avidi lettori italici del Financial Times non sia stata concentrata su un altro articolo, dal titolo decisamente poco incoraggiante: ECB executive Schnabel warns that QE is inflating asset prices. Già, Isabel Schnabel, la più colomba delle colombe all’interno del Consiglio direttivo della Bce, ha cambiato idea. E, udite udite, si è accorta proprio ora che il Qe inteso come permanente sta portando alla creazione di bolle sui prezzi dei titoli azionari. Insomma, la scoperta dell’acqua calda. Però, attenzione al timing. Proprio alla vigilia del board Bce del 15-16 dicembre che negli annunci e nelle intenzioni di Christine Lagarde doveva servire come palcoscenico all’annuncio di modi e tempi del Pepp permanente e post-pandemico. E che, invece, l’impennata dell’inflazione pare destinata a tramutare nell’ennesima riunione transitoria, nell’ennesimo calcione al barattolo. Con un rischio in più, però. Il nostro spread sta già inviando segnali di decisa tensione, da giorni. E, questione tutt’altro che secondaria a livello psicologico, dal 22 dicembre al 2 gennaio la stamperia della Bce andrà in vacanza, sospendendo tutti i programmi di acquisto. Di fatto, dieci giorni di stress test rispetto a come sarebbe il mondo senza il prestatore di ultima istanza. Roba da revisione del piano ferie sia al Tesoro che a Bankitalia.

E, tanto per non farci mancare nulla, il tutto alla luce di un particolare decisamente serio: la stessa Isabel Schnabel, a detta della quale «il programma di acquisto sta vedendo aumentare i suoi effetti collaterali negativi e in contemporanea svanire quelli benefici», a oggi pare la candidata numero uno alla successione a Jens Weidmann come Presidente della Bundesbank. E quando una candidata a quel ruolo ammette e sottolinea come «il programma di acquisto di assets ha rappresentato un importante strumento durante il periodo di tensione sui mercati e la recessione, ma oggi la sua ratio fra costi e benefici sta deteriorando, stante il miglioramento del quadro macro dell’economia», c’è poco da stare allegri, se sei un Paese stra-indebitato come l’Italia. Perché anche la strada della revisione in senso meno rigorista del Patto di stabilità appare meno scontata. O, quantomeno, bilanciata in negativo da una Bce che non sostiene più i costi di finanziamento e servizio del debito come fatto finora, comprimendo artificialmente lo spread.

Il problema? Anche qui, strettamente connesso a un calcolo di costi e benefici. Se anche il Governo Scholz accettasse una revisione del Patto di stabilità improntata a maggiore tolleranza, il processo di riforma sarebbe comunque lungo e laborioso. I risultati nefasti di una Bce non più prestatore di ultima istanza, li si pagherebbe subito. Pronta cassa. Immediati. Anzi, paradossalmente persino in anticipo, perché una Christine Lagarde che giovedì prossimo apparisse più preoccupata del previsto sul fronte dell’inflazione innescherebbe immediatamente la prezzatura preventiva del mercato di un programma di acquisto che dopo il 31 marzo potrebbe proseguire soltanto su livelli minimi. A quel punto non servirebbe nemmeno lo spauracchio dell’aumento dei tassi, il nostro spread esploderebbe comunque e immediatamente. E, particolare non da poco, lo farebbe alla vigilia proprio dello stop natalizio del Pepp, quindi con quasi due settimane di traversata del filo senza rete per il nostro differenziale.

Chiaramente, c’è da attendersi che nell’ultima settimana di operatività la stessa Bce garantirà mandato ben oltre la capital key a Bankitalia, al fine di creare un cuscinetto preventivo di deterrenza. Quindi, se fra una decina di giorni saremo più in area 100 punti base che 130 nessuno gridi al miracolo economico o di fiducia. Sarà solo frutto di acquisti extra e contestuale sospensione delle vendite da parte di chi soppesava come prevalenti in negativo i dubbi sorti all’Eurotower. Ma le tensioni già in atto sul nostro Btp decennale parlano chiaro. E le parole di Isabel Schnabel, riportate con grande enfasi dal Financial Times, ne rappresentano la giustificazione più diretta e palese. Almeno quanto questo grafico, dal quale si nota quale sia stato il benvenuto del prezzo dell’elettricità in Germania al primo giorno di insediamento ufficiale del governo Scholz: oltre 192 euro per magawatt/ora, livello destinato a regalare ai tedeschi lo sfondamento dello quota psicologica dei 200 euro entro Natale.

Anche le colombe, quando il rischio sale e il Governo che ha atteso il suo momento per 20 anni ha appena messo piede al potere, tirano fuori le unghie. Si chiama sopravvivenza. O legge della giungla. Una cosa è certa: chi pensa che l’addio di Angela Merkel abbia cancellato ogni problema di rigore e ripone fiducia cieca nell’approccio espansivo ed europeista dell’esecutivo guidato dall’ex ministro delle Finanze socialdemocratico rischia di prendere una cantonata colossale. E decisamente pericolosa. Perché le parole di Isabel Schnabel appaiono fin da ora un monito molto, troppo chiaro: a quel punto, a palazzo Chigi potrebbe sedere anche Superman. Perché a fronte di una promessa di clemenza in sede di revisione del Patto di stabilità, o partirà subito un processo concordato e draconiano di riduzione del nostro stock di debito, il cui primo atto sarà una sanguinosa manovra correttiva già a primavera, o il braccio di ferro che si scatenerà in sede Ue porterà come conseguenza finale una ristrutturazione dello stesso. Più o meno diretta.

Il grande beneficiario di uno scenario simile? La stessa nazione che sta conoscendo un ritorno ai livelli di crescita pre-pandemica da record, sia in industria che in manifattura che nei servizi. La stessa che andrà al voto in primavera per scegliere il Presidente. La stessa che ha appena firmato un Patto al Quirinale. La stessa che millanta amicizia, ma si tiene segretamente ben stretto il suo asse renano. Anzi, ancor di più. Perché ora che l’ingombrante Angela Merkel è andata in pensione, la forza primaria dell’alleanza avrà domicilio a Parigi e non a Berlino.

FONTE: https://www.ilsussidiario.net/news/spy-finanza-dalla-bce-un-messaggio-pericoloso-per-litalia/2261706/

Dalla mafia soldi in Ue contro l’Italia: il segreto di Borsellino

«Soldi della mafia a fior di politici europei». A che scopo, negli anni Novanta? Inguaiare l’Italia, già terremotata da Tangentopoli, in vista della nascita dell’Ue? Era il grande segreto di Paolo Borsellino, assassinato a Palermo il 19 luglio 1992. Chi lo dice? Gianfranco Carpeoro, saggista e osservatore privilegiato dell’attualità in virtù del suo curriculum: per trent’anni avvocato (vero nome, Pecoraro) e a lungo “sovrano gran maestro” del Rito Scozzese italiano. E come sa, Carpeoro, che Borsellino aveva scoperto l’indicibile? «Sono cose che leggo e che sento», taglia corto, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”, l’8 dicembre. Già vicino a Craxi, Carpeoro – benché fuoriuscito dal mondo delle logge – coltiva una sua riservatissima diplomazia massonica, estesa in Italia e all’estero. Nell’estate 2018 le sue affermazioni, di fatto, sventarono il complotto ordito dal francese Jacques Attali, mentore di Macron, per impedire l’elezione di Marcello Foa alla presidenza della Rai (beffando Salvini, che l’aveva candidato). Operazione, secondo Carpeoro, architettata con la collaborazione di Napolitano, Tajani e Berlusconi, ma poi sfumata dopo le esternazioni dell’avvocato, riprese dal quotidiano “La Verità” diretto da Maurizio Belpietro.

Oggi Carpeoro torna all’attacco, svelando un retroscena a dir poco allucinante: parecchi politici europei sarebbero stati (e alcuni lo sarebbero tuttora) a libro paga di Cosa Nostra, organizzazione saldamente retta dall’imprendibile Matteo Messina CarpeoroDenaro, «ancora più abile dell’abilissimo Bernardo Provenzano». Per inciso: è probabile che la primula rossa della mafia siciliana sia “tranquillamente” latitante proprio sull’isola costata la vita a Falcone e Borsellino. «Tanti anni fa – racconta Carpeoro, con il consueto humour – il capo della ‘ndrangheta della mia città d’origine, Cosenza, era chiamato ‘U Zorru: nonostante fosse un super-ricercato, a carnevale attraversava le vie del centro a cavallo, travestito da Zorro. Secondo voi gli inquirenti non lo sapevano, chi si nascondeva dietro quel costume?». Matteo Messina Denaro, dunque, avrebbe ereditato i frutti della trattativa condotta dai Corleonesi. L’uomo-chiave? «Tuttora in vita», e assolto dall’accusa. Il nome, Carpeoro non lo fa: «E’ irpino», si limita a dire, con una evidente allusione all’allora ministro dell’interno Nicola Mancino. Comunque la si veda, finora la mafia è stata percepita solo nella sua dimensione italiana, almeno rispetto ai legami con la politica. Così non è? No, infatti: la realtà è ancora peggiore di quanto si creda.

«Paolo Borsellino l’aveva capito», dice Carpeoro. Il grande magistrato aveva intuito qualcosa di impensabile: il famoso, inaccessibile “terzo livello” di cui aveva parlato Falcone non si limitava all’Italia. «La mafia pagava politici nel cuore dell’Europa: in FranciaGermania, Belgio, Olanda e Liechtenstein», scandisce l’avvocato. C’era scritto anche questo, nella famosa “agenda rossa” scomparsa alla morte del giudice? «Chi lo sa, io quell’agenda non l’ho mai vista». L’affermazione di Carpeoro su Borsellino è più che spiazzante: dà corpo a uno scenario mostruoso. Nel 1992 – l’anno della firma del Trattato di Maastricht – la Prima Repubblica stava cadendo a pezzi, sotto i colpi di Mani Pulite. «Falcone era stato messo fuori gioco dal Csm», ricorda Carpeoro. «E Craxi, che aveva deciso di fare la guerra alla mafia, aveva chiesto al ministro della giustizia, Claudio Martelli, di prenderlo con sé». A Roma, Falcone era diventato pericoloso per la Cupola palermitana anche come Paolo Borsellinoispiratore di efficaci leggi antimafia. Di qui “l’attentatone” di Capaci. «Uccidendo Falcone, la mafia ha fatto un pessimo affare», replicò Martelli. Ma di lì a poco fu travolto, insieme al Psi, dal pool di Milano. «Borsellino – aggiunge Carpeoro – perse le speranze solo di fronte alla morte di Falcone».

I due magistrati-eroi, dice ancora l’avvocato, non vengono apprezzati per quello che sono stati davvero: non solo due coraggiosi mastini antimafia, esemplari nelle loro virtù civili. Erano anche qualcosa di più: due uomini di Stato, che lottavano per cambiare l’Italia. Ed erano al corrente di retroscena letteralmente impossibili da trascrivere. La mafia? Si insinua ovunque: a Roma, se basta. E se non basta mette le mani avanti, “prenotando” i politici che poi, da Bruxelles, condizioneranno il Belpaese. Queste le deduzioni, teoricamente ineccepibili, che il “ragionamento” di Carpeoro offre. «Cosa Nostra intimidì a ricattò lo Stato a suon di bombe». Poi evidentemente qualcosa accadde, e gli attentati cessarono. Fin qui, la cronistoria della cosiddetta “trattativa”. Quello che invece non era mai emerso, finora, è l’altra metà del problema: l’Unione Europea. Dal punto di vista della mafia: se il potere si allontana da Roma, perché mai non seguirlo, là dove si trasferisce? Che ne è stato dell’Italia, poi, lo si è visto: industria Matteo Messina Denarosabotata (quella statale smantellata) e paese svenduto. Gli economisti keynesiani accusano l’élite finanziaria neoliberista. Carpeoro aggiunge anche la mafia, tra i possibili attori. Le prove? Le aveva scoperte Borsellino, dice. E sappiamo che fine ha fatto.

Autore di romanzi sui Rosa+Croce (”Il volo del pellicano”, “Labirinti”, “Il re cristiano”), Carpeoro – a lungo vicino a un prestigioso intellettuale come Francesco Saba Sardi, traduttore di Simenon, Borges, Pessoa e Garcia Marquez – sta pubblicando, in volumi distinti, la serie “Summa Symbolica”, il primo trattato sistematico che sia mai stato scritto sulla genesi dei simboli e sul loro significato, che normalmente resta nell’ombra delle segrete stanze del potere più elusivo. Ne ha parlato in modo esplicito anche nel saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, dedicato alle imprese (più massoniche che islamiche) dell’Isis: c’è una matrice simbologica esoterica dietro ogni attentato commesso in Europa, negli ultimi anni, grazie alla provvidenziale “distrazione” di servizi segreti infedeli. Ancora: in un altro saggio (”Il compasso, il fascio e la mitra”, sull’intreccio tra Mussolini, Vaticano e massoni) svela che Giacomo Matteotti fu assassinato perché aveva scoperto che sua maestà Vittorio Emanuele III di Savoia era il percettore di una maxi-tangente (sotto forma di partecipazione azionaria) da parte della Standard Oil dei Rockefeller, a cui era stata concessa l’esclusiva per la vendita del petrolio all’Italia. Ora siamo al capitolo mafia, con una esternazione sconcertante: Borsellino ucciso dopo aver scoperto che Cosa Nostra finanziava (e finanzia?) pezzi da novanta della futura politica Ue, quelli che di lì a poco ci avrebbero abituato al mantra “ce lo chiede l’Europa”.

FONTE: https://www.libreidee.org/2019/12/dalla-mafia-soldi-in-ue-contro-litalia-il-segreto-di-borsellino/

L’avvio della disgregazione dell’Unione Europea

Il Trattato del Quirinale tra Francia e Italia, come del resto l’ipotesi di governo del futuro cancelliere tedesco Olaf Scholz, sono incompatibili con la storia dell’Unione Europea. Parigi e Berlino hanno intrapreso atti concreti che possono solo condurre all’inevitabile processo di disgregazione dell’Unione Europea.

Ufficio Stampa Presidenza della Repubblica

Alla fine della seconda guerra mondiale Winston Churchill ideò un sistema che permettesse agli anglosassoni di mantenere il controllo dell’Europa Occidentale, in modo da impedirle di cadere nelle mani dell’Unione Sovietica: un mercato comune europeo dei Paesi in rovina che accettavano il Piano Marshall [1].

Stati Uniti e Regno Unito procedevano di concerto. In pochi anni gettarono le basi di quello che oggi è il nostro mondo: la NATO, alleanza militare dominata dagli anglosassoni; l’Unione Europea, organizzazione civile degli alleati. I membri di un’istituzione non fanno necessariamente parte dell’altra, ma questo non impedisce che NATO e UE, entrambe basate a Bruxelles, siano facce di una stessa medaglia. Infatti i servizi comuni delle due strutture sono installati con discrezione in Lussemburgo.

Dopo la crisi fra Washington e Londra durante la Spedizione di Suez, il Regno Unito, che stava perdendo il proprio Impero, decise di entrare in quella che sarebbe diventata l’Unione Europea. Harold Macmillan fallì nel 1958, ma Edward Heath vi riuscì nel 1973. L’equilibrio delle forze mutò di nuovo, così il Regno Unito lasciò l’Unione Europea nel 2020, volgendosi daccapo al suo vecchio Impero (Global Britain).

Tutti i documenti dell’Unione Europea sono tradotti in ognuna delle lingue ufficiali dei Paesi membri, nonché in inglese, lingua ufficiale della UE benché dal 2020 non lo sia di alcuno dei suoi membri. Il motivo non è che i britannici ne hanno fatto parte, ma che l’Unione è sotto il controllo della NATO, come recita l’articolo 42, comma 7, del Trattato di Lisbona, che è stato imposto con la forza in sostituzione del Trattato Costituzionale, respinto dalle popolazioni [2].

La Germania, occupata dai quattro vincitori della seconda guerra mondiale fino al 1990, ossia sin dopo la riunificazione, si è sempre adattata a non essere più una potenza militare. Ancora oggi i servizi segreti tedeschi sono subalterni agli USA, che li hanno riorganizzati con l’ex personale nazista; inoltre il Pentagono possiede in Germania importantissime basi militari fittiziamente extraterritoriali.

La Francia vagheggia l’indipendenza militare. Per questa ragione Charles De Gaulle, leader della Francia Libera durante la seconda guerra mondiale, nel 1966 fece uscire il Paese dal comando integrato della NATO. Ma Nicolas Sarkozy, che nell’adolescenza fu educato dal figlio del creatore della rete stay-behind della NATO (Gladio), nel 2009 lo fece rientrare. Oggi le operazioni esterne dell’esercito francese sono di fatto comandate da ufficiali statunitensi.

Per anni Germania e Francia hanno assunto la leadership dell’istituzione che ora si chiama Unione Europea. François Mitterrand e Helmut Kohl progettarono di trasformare il mercato comune in uno Stato sovranazionale – comunque vassallo degli Stati Uniti – in grado di competere con URSS e Cina: l’Unione Europea. Questa struttura – cui gli Stati Uniti pretesero che gli Stati dell’ex Patto di Varsavia aderissero e contemporaneamente raggiungessero la NATO – divenne una burocrazia colossale. Nonostante la parvenza, il Consiglio dei capi di Stato e di governo non è un super-governo, ma un organismo deputato a prendere atto delle decisioni della NATO. Ossia di risoluzioni che, prese dall’Alleanza Atlantica dominata da Stati Uniti e Regno Unito, sono poi trasmesse alla Commissione Europea, indi sottoposte al Parlamento e infine ratificate dal Consiglio.

Si pensi che la NATO s’impiccia per vocazione di tutto: dalla composizione del cioccolato (nella razione del soldato c’è appunto una barretta di cioccolato) alla costruzione di ponti (che devono essere utilizzabili dai blindati), passando per i vaccini anti-Covid (la salute dei civili condiziona quella dei militari) o i bonifici bancari (bisogna tenere sotto controllo le transazioni nemiche).

Solo la forza militare britannica e francese avevano un certo peso nell’Unione Europea; per questa ragione con i Trattati di Lancaster House del 2010 si riavvicinarono. Ma dopo la Brexit, le forze armate francesi si sono ritrovate daccapo sole, come dimostra la rottura del contratto con l’Australia per la costruzione di sottomarini, a tutto vantaggio di Londra. Alla Francia non rimaneva altra scelta che avvicinarsi alle forze armate italiane, che però sono la metà di quelle francesi: questo è quanto è stato appena deciso con il Trattato del Quirinale (2021). Un’operazione favorita dall’ideologia che accomuna Emmanuel Macron, ex banchiere di Rothschild, e Mario Draghi, ex banchiere di Goldman Sachs, nonché dalla leadership condivisa sulla risposta all’epidemia di Covid. Si noti en passant l’incredibile gergo politicamente corretto, lontanissimo dalle tradizioni latine, con cui il documento è stato redatto [3].

Si dà il caso che, contemporaneamente al Trattato del Quirinale, la cancelliera Angela Merkel lasci il posto a Olaf Scholz, cui non interessano né le questioni militari né i deficit di bilancio di Francia e Italia. L’accordo di coalizione per la formazione del governo [4] allinea la politica estera tedesca punto per punto a quella degli anglosassoni (USA più Regno Unito).

Fin qui i governi di Angela Merkel combattevano l’antisemitismo. Ora il governo Scholz va oltre, impegnandosi a sostenere «ogni iniziativa che promuove la vita ebrea e la sua specificità»: promozione di una minoranza, non più protezione.

Riguardo a Israele, che Regno Unito e Stati Uniti crearono secondo una logica imperialista [5], il nuovo accordo stipula che «la sicurezza d’Israele è interesse nazionale» della Germania e assume l’impegno di bloccare «i tentativi antisemiti di condanna d’Israele, anche all’ONU». Parimenti dichiara che la Germania continuerà a sostenere la soluzione a due Stati del conflitto israelo-palestinese (ossia si opporrà al principio “un uomo un voto”), nonché si compiace della normalizzazione delle relazioni fra Israele e Paesi arabi. In questo modo il governo Scholz affossa la tradizionale politica dell’SPD, il cui ministro degli Esteri in carica dal 2013 al 2018, Sigmar Gabriel, definiva il regime israeliano «apartheid».

Olaf Scholz è un avvocato cui sta a cuore far funzionare l’industria tedesca basandosi su un compromesso fra operai e padronato. Non si è mai interessato molto alle questioni internazionali. Ha designato ministro degli Esteri la giurista dei verdi Annalena Baerbock, che non soltanto è partigiana delle energie pulite, ma è anche persona capace di esercitare influenza per conto della NATO. Sostiene chiaro e forte la fondatezza dell’adesione dell’Ucraina alla NATO e all’Unione Europea. Avversa la Russia, perciò rifiuta il gasdotto Nord Stream 2 e incentiva i terminali per l’importazione del gas degli Stati Uniti con le metaniere, nonostante l’esorbitante costo degli impianti. Inoltre definisce la Cina «rivale sistemico» e appoggia tutti i separatismi: taiwanese, tibetano, uiguro.

È prevedibile che le politiche di Berlino e Parigi s’allontanino lentamente fino a far riemergere il conflitto che oppose i due Paesi e che dal 1870 al 1945 causò tre guerre. Diversamente da come viene reclamizzata, e come del resto ho già ricordato, l’Unione Europea non è stata creata per garantire la pace in Europa Occidentale, ma per ancorare durante la guerra fredda la sua popolazione al campo anglosassone. Il conflitto franco-tedesco non è mai stato risolto. L’Unione Europea, lungi dal favorire la pace, invece di affrontare il contrasto lo ha nascosto sotto il tappeto. Durante le guerre di Jugoslavia i due Paesi si sono scontrati militarmente: la Germania sosteneva la Croazia, la Francia la Serbia. Berlino e Parigi andavano d’accordo all’interno delle frontiere dell’Unione, ma si facevano guerra all’esterno. Gli esperti di operazioni speciali sanno che ci sono stati morti da entrambe le parti.

Le politiche estere efficaci sono quelle che esprimono l’identità della nazione. Oggi Regno Unito e Germania vanno per la loro strada, fieri della propria individualità; per contro la Francia è in crisi d’identità. All’inizio del mandato Emmanuel Macron affermava che «non esiste una cultura francese». Poi, sotto la pressione popolare, ha cambiato linguaggio, ma non modo di pensare. La Francia possiede mezzi, ma non sa più quale sia la sua specificità. Insegue la chimera di un’Unione Europea indipendente in grado di rivaleggiare con gli Stati Uniti, ma gli altri 26 Paesi non ne vogliono sapere. La Germania, tuttavia, commette un errore rifugiandosi sotto lo scudo nucleare degli Stati Uniti, ora che questa grande potenza sta disgregandosi.

È evidente che siamo entrati nella fase di dissoluzione dell’Unione Europea, struttura a tal punto sclerotizzata che sarà una fortuna per i Paesi membri recuperare la piena indipendenza. Ma la sfida potrebbe volgersi in dramma. Gli Stati Uniti imploderanno su loro stessi e l’Unione Europea perderà il suo sovrano. I Paesi membri dovranno confrontarsi gli uni con gli altri. È estremamente urgente che iniziamo a intenderci, non più come semplici partner commerciali, ma come partner a tutto campo. Non farlo ci porterà alla catastrofe, alla guerra generalizzata.

Tutti hanno potuto constatare che i membri dell’Unione Europea – tranne gl’inglesi, che però se ne sono andati – hanno elementi culturali comuni. Elementi condivisi anche dalla Russia, più vicina all’Unione di quanto sia il Regno Unito. È possibile sin da ora ricostruire l’Europa, non come una burocrazia centralizzata, ma come una rete di Stati, aprendosi a Paesi da cui siamo stati artificiosamente separati dagli anglosassoni, che volevano assicurarsi il dominio del continente durante la guerra fredda. Questo intendeva Charles De Gaulle quando, contrapponendosi a Winston Churchill, dichiarava di volere l’«Europa da Brest a Vladivostok».

FONTE: https://www.voltairenet.org/article214881.html

 

 

ATTUALITÀ SOCIETÀ COSTUME

E ora si preparano a vaccinare i neonati. Il piano

È partita la campagna vaccinale per gli under 11. In pieno stile di propaganda da regime, ad ogni bambino a cui i genitori fanno fare la punturina, in Lombardia viene regalato un ingresso gratuito a Gardaland. Non solo, gli si dà anche un “Certificato di valore” su cui c’è scritto: “Ha dimostrato il merito di aver intrapreso una missione straordinaria contro il coronavirus”. In Toscana, invece, si procede nel segno dalla Pimpa, la cagnolina a pois disegnata da Altan. A Napoli si regalano palloni per i maschietti e bambole per le bambine (alla faccia del gender! Ma qui nessuno dice niente). Ma la notizia dell’ultim’ora è che mentre il vaccino viene inoculato ai bambini 5-11 anni, c’è chi non si accontenta e pensa già a procedere alla vaccinazione dei neonati. Fake news? No, lo ha detto il sottosegretario alla salute Andrea Costa.

Intervenuto in diretta a UnoMattina su Rai1 ha detto: “Confidiamo che già entro fine marzo prossimo possa arrivare anche il vaccino per i più piccoli. Attendiamo con grande fiducia il lavoro della scienza, che ogni giorno ci mette a disposizione le armi giuste per contrastare la pandemia”. Come spiega Patrizia Roder Reitter su La Verità, però, “il sistema immunitario dei bambini è molto diverso da quello degli adulti e le loro risposte immunitarie possono variare a seconda della età, non si comprende questa frenesia di vaccinare categorie non fragili. A settembre l’amministratore delegato di Pfizer, Albert Bourla, aveva affermato che i risultati della sperimentazione peri bambini più piccoli, dai due ai quattro anni, sarebbe stato disponibile entro un paio di mesi”.

“Il quotidiano Chicago Tribune ha appena pubblicato un servizio sulle sperimentazioni in corso del vaccino Moderna nei bimbi da sei mesi a quattro anni al Lurie Children’s hospital, l’ospedale pediatrico di Chicago specializzato nelle cure di neonati, bambini, adolescenti. Elena Rosales, di tre anni, è una volontaria. Si fa per dire, l’ha messa nel trial clinico la madre, Mariaelena Lozano, e la piccola è già alla seconda dose. La donna e il suo compagno hanno contratto il Covid-19 all’inizio di agosto, entrambi erano completamente vaccinati. A tre partecipanti su quattro allo studio viene somministrato il vaccino Moderna, mentre un quarto dei vo-lontari riceve un placebo. Si tratta di circa 120 bimbi e neonati di Chicago. Lo studio è in cieco, il che significa che i partecipanti e i loro genitori non sanno se hanno ricevuto l’immunizzazione o meno”.

“L’iniezione viene fatta nelle cosce «perché non hanno tanto tessuto nella parte superiore delle braccia». Lurie ha iniziato ad arruolare bambini nello studio a febbraio e sta ancora reclutando partecipanti. Eppure «i bambini e gli adolescenti di solito mostrano sintomi minori e più lievi di infezione da Sars-Cov-2 e hanno meno probabilità degli adulti di soffrire di Covid-19 grave», ha dichiarato a fine novembre l’Oms. «Poiché i bambini e gli adolescenti tendono ad avere una malattia più lieve rispetto agli adulti», ha aggiunto «è meno urgente vaccinarli rispetto alle persone anziane, a quelle con condizioni di salute croniche e agli operatori sanitari»”.

Prepariamoci al peggio.

FONTE: https://www.ilparagone.it/attualita/piano-vaccino-neonati/

 

L’EGUAGLIANZA DELLA TOILETTE

L’eguaglianza della toilette Resto sempre più convinto che ormai l’unico Storico dell’arte degno di essere ascoltato oggi, per me, sia e resti Antonio Paolucci. Per il resto da troppi anni questo dignitosissimo ed elitario aspetto della Cultura, è diventato un modo per estendere smisuratamente la propria egolatria a un popolo d’incolti, con la giustificazione dell’arte e quindi non mi stupisce per nulla la pletora di cultori di loro stessi, affetti dal morbo del selfie pensoso o della “provocazione intellettuale” protratta all’estremo e per lo più spalmata ovunque, neanche fosse marmellata su una gigantesca fetta biscottata. Ultimo, ma ben conscio del meccanismo mediatico che ormai non soltanto trasforma chiunque – soprattutto chi non ha alcuna capacità né conoscenza, in un “critico d’arte” – in un amplificatore di pensiero, più o meno unico come in questo caso, arriva con il suo tweet Tomaso Montanarirettore dell’Università per stranieri di Siena, ad annunciare urbi et orbi che nel suo ateneo “accanto ai bagni binari, ci sono anche i bagni “inclusivi”. Dalla parte della diversità, contro ogni diseguaglianza”.

Benissimo, un’operazione “inclusiva” fondamentale, direi. Qualcuno avverta il povero Marcel Duchamp che ormai il suo “orinatoio” è diventato inutile, ma avvisi anche l’ottimo Montanari che non è certo parificando i servizi igienici che otterrà l’eguaglianza tra gli uomini (uomini intesi come genere umano). Senza contare che poi, lo sanno tutti, i “bagni” dei maschi sono sempre (o per lo meno spesso) in condizioni igieniche più precarie di quelli utilizzati dal gentil sesso. Per evidenti ragioni che mi sembra superfluo stare qua a illustrare, dovute alla vocazione naturale da “artigliere” o da “pompiere” del maschio adulto. Quindi con le toilette in comune, mi spiace per le signore, ma esse dovranno adattarsi a camminare in paludi silenziose e laghi dorati senza neanche poter ammirare la bellezza del tramonto.

Insomma, Montanari tanto profondo conoscitore dell’arte barocca, oggi si fa portatore di un’iniziativa che già nel Seicento era comune, in quanto allora le latrine pubbliche, laddove esistevano, erano assolutamente “bisex”, quindi evidenziando ancora una volta come ciò che conti sia che i media e gli organi d’informazione s’interessino alla nuova boutade, ciò che importa è far parlare di sé, perché soltanto l’ego deve affermarsi così come tra “virologi” divenuti star televisive altrettanto è per gli “storici dell’arte”. E se penso al povero Federico Zeri con le sue apparizioni dandistiche nella televisione degli anni Ottanta e al compianto Philippe Daverio non mi resta che scuotere la testa in un triste sorriso, rimpiangendoli e con l’augurio per il nuovo anno, che anche Montanari, una volta per tutte, riprenda a interessarsi d’arte Secentesca e cessi ogni altra attività extraculturale. Cessi, suvvia!

FONTE: http://www.opinione.it/societa/2021/12/18/dalmazio-frau_toilette-twitter-montanari-universit%C3%A0-stranieri-siena/

 

 

 

“Tampone anche per i vaccinati”. Locatelli (Cts) lancia la proposta che spiazza tutti

I vaccini avrebbero dovuto fermare il Covid e farci tornare alla normalità in un batter d’occhio. Lo dicevano già durante il primo lockdown di marzo 2020. Di tempo ne è passato, e di dosi anche, eppure la situazione non fa che peggiorare, almeno stando al numero di contagi. E così, mentre tutte le autorità si affrettano ad ammettere che i vaccini non bastano più per fermare il Covid (lo dicono anche per spingere l’acceleratore su un nuovo lockdown), arriva un’altra spallata al siero: la possibile introduzione dell’obbligatorietà del tampone anche per i vaccinati. Per ora il banco di prova sarà quello dei grandi eventi. Chi non ha il tampone non potrà accederci. E così si seppellisce definitivamente il senso del vaccino e anche quello del famigerato Green Pass. È una fake news? Macché, lo ha suggerito Franco Locatelli, il coordinatore del Cts e presidente del Css.

“È un’ipotesi da considerare se la situazione epidemiologica dovesse peggiorare”, ha proposto Franco Locatelli, coordinatore del Cts. Intervistato da Sky, Locatelli ribadisce che “va tutelato il vantaggio che è stato accumulato dal nostro Paese e soprattutto vanno protette le vite degli italiani. Se i numeri dovessero continuare a crescere sarebbe opportuno, prosegue, reintrodurre l’obbligo delle mascherine all’aperto durante il periodo natalizio, come già fatto da alcuni sindaci”.

“Le misure non farmacologiche – come mascherine, distanziamento e ventilazione dei locali – danno un contributo importante al contenimento della diffusione virale”. Parlando della dose booster utile per contrastare la variante Omicron, Locatelli dice che va incentivata perché dà una buona protezione. Ha quindi invitato tutti a vaccinarsi. Per quanto riguarda la vaccinazioni ai bambini, nel giorno dell’apertura alla fascia 5-11 anni, Locatelli ha detto che si tratta di una misura “orientata a proteggere la loro salute”.

Non solo, ha poi ribadito il ricatto che lo Stato sta facendo anche ai più piccoli, perché, ha detto Locatelli, il vaccino serve “a tutelare la loro frequenza scolastica nonché i loro spazi di socializzazione” e che il vaccino “è decisamente sicuro”.

FONTE: https://www.ilparagone.it/attualita/locatelli-tampone-vaccinati/

 

La crisi non è uguale per tutti: in piena emergenza, scatta l’aumento per gli europarlamentari

Nel bel mezzo di un’emergenza senza precedenti, con la pandemia che continua a terrorizzare il mondo e una crisi economica che si è accanita con violenza su tanti settori, in primis il turismo, c’è chi riesce a tirare un sospiro di sollievo. Anzi, addirittura a sorridere, scartando sotto l’albero di Natale, in leggero anticipo rispetto al 25 dicembre, un bell’aumento. Parliamo degli europarlamentari, tra i pochissimi a poter affrontare le festività imminenti con le tasche più gonfie che mai.

Gli onorevoli di Bruxelles hanno infatti ottenuto proprio in queste ore un aumento dei rimborsi di oltre il 4%, in modo da adeguare le indennità di cui già godevano alla crescita del costo della vita. Come raccontato da Carlo Nicolato sulle pagine di Libero, i dati statistici dell’Eurostat hanno fotografato un continuo ricorso ai rimborsi da parte degli europarlamentari: “L’articolo 69, paragrafo 1, delle misure di attuazione dello Statuto dei Deputati al Parlamento europeo prevede che gli importi delle spese di viaggio rimborsabili, dell’indennità giornaliera e dell’indennità per spese generali ‘possano essere indicizzati’. Ma nella pratica quel ‘possano’ diventa sempre ‘debbano’”.

Gli uffici che si occupano della materia hanno inoltre stabilito che, data l’inflazione annuale al 4,4%, è necessario un aumento dello stesso peso per i rimborsi degli eurodeputati. Con grande celerità, tra l’altro, visto che il nuovo stanziamento di risorse in favore degli onorevoli scatterà a partire già dal primo gennaio 2022. Una velocità che stona, e parecchio, con i tempi dilatati che segnano da sempre l’azione dell’Ue quando c’è da aiutare le famiglie e non i politici.

Secondo Nicolato “l’aumento sarà dell’1,9% riguardo la cifra a disposizione dei singoli parlamentari per le spese di assistenza, fino a un massimo di 26.107 euro a testa a partire dal primo luglio di quest’ anno, cioè retroattivo. L’inflazione sarà temporanea, come strombazzato anche dalla Bce, ma per sempre saranno gli aumenti relativi destinati ai parlamentari. La scala mobile di Bruxelles va sempre in su, mai in giù”.

FONTE: https://www.ilparagone.it/attualita/la-crisi-non-e-uguale-per-tutti-in-piena-emergenza-scatta-laumento-per-gli-europarlamentari/

 

 

 

BELPAESE DA SALVARE

La battaglia anti-italiana della signora Igiaba Scego

La scrittrice somala, nuovo idolo della sinistra, propone ai nostri figli testi anticolonialisti come quelli di Angelo Del Boca. Che però sono zeppi di errori, omissioni e mistificazioni

Parlare male del fascismo sta diventando un’attività sempre più redditizia. E come se non bastassero i libri pieni di strafalcioni, inesattezze e licenze poetiche (alla Scurati per intenderci), vi è un altro filone che ultimamente sta crescendo. Quello che riguarda il nostro periodo coloniale. A questo proposito desidero condividere con voi ciò che mi ha scritto Alberto Alpozzi, reporter di guerra, ricercatore storico, scrittore, curatore del sito Italia Coloniale (che vi invito a visitare). Lo spunto viene da un libro, pubblicato di recente e intitolato Figli dello stesso cielo, scritto da Igiaba Scego. Figlia di somali fuggiti in Italia dopo il golpe del 1969 (scappati in Italia, mica in Francia o Gran Bretagna…) e che collabora con alcuni quotidiani come RepubblicaIl ManifestoL’Unità e Internazionale, a dimostrazione della sua imparzialità e obiettività.

Il moralismo pruriginoso di Igiaba Scego

Mi scrive Alberto: «Vedi Caio, è singolare come una signora di origini somale nata in Italia, Igiaba Scego, si arrabbi e viva con disagio la storia. Fa riflettere come impieghi le sue energie per “cambiare” un passato che, per definizione, è immutabile, raccontando (con il suo nuovo libro) a ragazzini italiani la sua opinione sul colonialismo. Forse sarebbe più utile che la signora, con la stessa energia, si adoperasse per cambiare il futuro dei ragazzini del suo Paese d’origine. All’educazione dei nostri figli ci possiamo pensare da soli. Lei potrebbe adoperarsi per dare ai somali le possibilità che ha avuto lei. Invece di raccontare storie passate ai nostri figli, potrebbe spiegargli perché lei non vive in Somalia. Potrebbe spiegare agli adolescenti italiani, cattolici e bianchi, perché se andassero nel suo Paese di origine probabilmente rischierebbero la vita, mentre lei qui nel nostro vive serenamente.

Igiaba Scego dispensa anche consigli di lettura. Tra questi vedo i testi del giornalista, da poco scomparso, Angelo Del Boca. Ma per suggerire i testi di Del Boca, ha informato i lettori che scriveva attraverso le lenti anticolonialiste, antifasciste e che – per sua stessa ammissione – ha voluto evidenziare solo gli errori degli italiani? Prima di assumersi la responsabilità di suggerire quei testi, ha verificato le fonti e i contenuti, oppure ha accettato come un dogma quanto riportato perché corrisponde a tutti i suoi pregiudizi? Lo domando perché io le fonti e i documenti citati da Del Boca sono andato a verificarli, e ne è emerso un quadro desolante che ha portato alla luce gravi omissioni e mistificazioni. Se la signora lo sa, allora…

FONTE: https://www.ilprimatonazionale.it/cultura/battaglia-anti-italiana-signora-igiaba-scego-215782/

 

 

 

CONFLITTI GEOPOLITICI

Come i falchi Usa hanno creato l’asse Russia – Cina

“La politica estera degli Stati Uniti per l’Europa e l’Asia dalla seconda guerra mondiale può essere racchiusa in una frase: Tieni l’Europa lontana dalla Russia e la Russia dalla Cina”. Così Ted Snider  su Antiwar sintetizza in maniera mirabile le direttrici principali della politica estera americana di questi ultimi decenni e spiega quanto è avvenuto nel mondo in tali anni.

Tali direttrici hanno impedito la nascita di un centro di potere capace di competere con gli Stati Uniti, come avrebbe potuto avvenire attraverso l’unione della tecnologia europea e delle risorse russe o dalla combinazione delle risorse di due giganti geopolitici come Russia e Cina.

Queste le due linee di fondo della politica estera americana nella metà del secolo scorso e di inizio millennio, da cui si comprende come l’Unione Sovietica sia stata funzionale a tale prospettiva (tale la segreta funzione della contrapposizione Usa- Urss), distaccando in maniera netta l’Est dall’Ovest europeo.

Una prospettiva che era stata minata dalla meteora Gorbacev e dal suo sogno di un’Europa che respirasse a due polmoni, unita dagli Urali all’Atlantico. Una meteora spazzata via dallo strano golpe avviato dalle forze conservatrici che avrebbero dovuto sostituirlo e che invece fecero il gioco dell’allora ignoto Boris Eltsin, il quale profittò della loro follia per sostituirsi al presidente russo.

Un avvenimento dai contorni strani, sui quali potrebbero far luce le recenti dichiarazioni di Putin, che in un forum riservato ha dichiarato come l’amministrazione russa negli anni di Eltsin fu affollata da agenti della Cia.

Ma al di là dei retroscena del caso, veri o falsi che siano, resta che anche l’era esltsiniana conobbe un distanziamento della Russia dal resto d’Europa, dal momento che la superpotenza fu letteralmente incenerita dal nuovo regime e i suoi pezzi pregiati venduti per due soldi ai ricchi oligarchi legati ad altri Paesi.

Sempre nell’era Gorbacev ebbe a consumarsi l’unico vero tentativo di avvicinamento della Cina alla Russia. Benché ambedue rette da governi comunisti, e benché di fatto alleate durante la guerra coreana e quella del Vietnam, Pechino aveva conservato una sua linea di indipendenza con Mao, mentre, successivamente, con la rivoluzione culturale, si era chiusa in se stessa, riaprendosi solo con Deng Xiao Ping, che aveva posto fine a quell’epoca cruenta e trovato un appeasement con gli Stati Uniti, allontanandosi di fatto da Mosca.

Fu appunto con Gorbacev che, per la prima volta, i due giganti tentarono di trovare un connubio reale sempre sfuggito, ma il tentativo si infranse sul nascere: durante la visita del presidente dell’Unione sovietica a Pechino, le piazze di diverse città cinesi si sollevarono contro il governo.

E fu Tienanmen, che richiuse di nuovo la Cina al mondo e alla Russia. Né le cose sono cambiate di seguito, con la Cina più propensa a fare affari con Washington che a giocare in tandem con Mosca.

Così le due direttrici della politica estera americana sono state rispettate per decenni. In questi ultimi anni, spiega Snider le cose son cambiate.

Le sanzioni durissime imposte a Cina e Russia, infatti, e, più in generale, l’aggressività della politica americana nei loro confronti, hanno di fatto costretto le due potenze a far fronte comune come mai prima, mentre il gasdotto che dovrebbe portare il gas russo in Germania (il Nord Stream 2), agli occhi degli analisti americani rischia di creare un’asse tra Mosca e il resto del Vecchio continente.

Al contrario di quanto sostiene Snider, appare arduo che nel breve periodo si possa realizzare una distensione reale in Europa, sia che il Nord Stream 2 viva sia che muoia (esito che potrebbe essere prodotto dalle tensioni in Ucraina o dal cambio di regime in Germania). E, però, ha ragione Snider nel reputare che l’asse Mosca – Pechino sia ormai irrevocabile.

Anzi, tale asse sembra destinato a svilupparsi e a rendere le due potenze sempre più interconnesse, dando vita a un duopolio planetario Oriente – Occidente di nuova fattura, totalmente diverso da quello prodotto dall’egemonia Usa – Urss.

Quello pregresso, infatti, non minava la primazia globale degli Stati Uniti, non minacciandone la superiorità tecnologica e finanziaria. Superiorità che attraeva i Paesi di non stretta osservanza sovietica verso di essa e che, nel tempo, gli ha assicurato l’egemonia planetaria.

Non è più così, anche perché il centro economico del mondo si è ormai spostato in Oriente, dove si concentrano gli interessi del polo Cina – Russia.

Da cui i tanti rischi della Nuova Guerra Fredda, che seppure rende arduo come in precedenza un conflitto globale, non lo esclude del tutto. La sfida con l’Unione sovietica era, di fatto, di carta, quella contro il nuovo blocco Orientale è percepita come esistenziale perché mina nel profondo l’egemonia globale Usa.

Tutta la responsabilità di questo sviluppo, sostiene Snider, ricade sui politici americani, sia democratici  clintoniani che i falchi repubblicani, i quali, con la loro politica aggressiva verso Mosca, hanno creato un’asse orientale che poteva essere evitato.

FONTE: https://piccolenote.ilgiornale.it/53864/come-i-falchi-usa-hanno-creato-lasse-russia-cina

 

 

 

Cina: “pericolo giallo”?

Il presidente Biden ci ripete la solita solfa del “pericolo giallo”: la Cina ci ruba i brevetti, incrementa la corruzione, nonché distrugge l’ambiente, per imporci infine con la forza il suo regime totalitario. Per fortuna Stati Uniti e Nato difenderanno le democrazie e la pace. Ma allora come si spiega l’alleanza tra Mosca e Beijing? La Russia non dovrebbe condividere i nostri stessi timori? Si tratterebbe semplicemente di un’“alleanza fra dittature”.
Una narrazione che suona falsa a chiunque abbia vissuto la guerra fredda.

Il progetto cinese delle vie della seta è un successo mondiale. Nonostante le critiche (corruzione delle élite locali, indebitamento dei Paesi partner, danni all’ambiente) i Paesi che vi hanno aderito beneficiano di una fase di forte crescita.

E allora come non stupirsi che dalla decolonizzazione in poi i programmi degli Occidentali di aiuto allo sviluppo non vi sono riusciti?

Ma, soprattutto, come non meravigliarsi che, dopo aver elogiato per decenni i vantaggi largiti a tutti dagli scambi internazionali, l’Occidente denunci il successo cinese?

Le relazioni tra Occidente e Cina del XXI secolo non sono una sequela di quiproquo, ma di manifestazioni di disprezzo a senso unico. Gli Stati Uniti si rifiutano di capire la mentalità cinese e insistono a proiettare su Beijing i propri difetti.

FARE CONCORRENZA ALLE VIE DELLA SETA

Il pericolo giallo, best-seller degli anni 1910. Russi e cinesi uniti contro la civiltà cristiana (i russi però sono cristiani ortodossi).

Il presidente Joe Biden, rompendo con la politica del predecessore Donald Trump, ha annunciato che gli Stati Uniti «faranno concorrenza alla Cina». Provocando vivaci proteste a Beijing, Biden ha convinto il G7 a gettarsi nella mischia per conservare «il vantaggio delle democrazie» sul sistema «totalitario» cinese. Obbediente, l’Unione Europea comincia a dispiegare un proprio contro-progetto, il Global Gateway. Domani il presidente Biden presiederà un summit mondiale sulla democrazia, cui parteciperà Taiwan (ex dittatura di Chiang Kai-schek) per conferire contenuto ideologico allo scontro.

Nell’immaginario occidentale la guerra fredda opponeva la miscredente Unione Sovietica al religioso Occidente, oppure il comunismo al capitalismo. In realtà si voleva impedire a un blocco di cultura solidale di esercitare influenza economica su un blocco di cultura individualista, controllato dagli anglosassoni. Ora però il pretesto non è più difendere il diritto a professare una religione o a esercitare la libertà d’impresa, bensì difendere la democrazia. La strategia però è la stessa: caricaturare una potenza in grado di rivaleggiare economicamente con gli anglosassoni: ieri l’URSS, oggi la Cina.

LA “TRAPPOLA DI TUCIDIDE”

Lothrop Stoddard, giornalista che inventò il termine di subumani (Untermenchen) utilizzato dai nazisti, denuncia l’alleanza di russi e cinesi contro l’uomo bianco.

Gli anglosassoni definiscono il momento politico attuale ricorrendo alla dinamica della “trappola di Tucidide”, con riferimento allo storico dell’Antichità che raccontò le guerre del Peloponneso. Nel 2017 il celebre politologo statunitense professor Graham Allison spiegò che «Quel che rese la guerra inevitabile fu la crescita del potere ateniese e la minaccia che essa rappresentava per Sparta». Allo stesso modo lo sviluppo della Cina spaventa l’“Impero americano”, che perciò si prepara alla guerra [1]. Poco importa se il ragionamento trascura le differenze culturali e applica un concetto greco alla Cina. Washington ne è persuaso: Beijing è una minaccia.

Se negli anni Ottanta il professor Allison non fosse stato consigliere di Caspar Weinberger al Pentagono e se fosse stato più colto, avrebbe compreso che i cinesi non ragionano affatto come gli statunitensi. Avrebbe ascoltato Beijing protestare contro ogni progetto concorrenziale e auspicare accordi win-win, cioè soddisfacenti per tutti, ma non avrebbe interpretato questa formula in senso anglosassone, ossia garantire il successo degli uni senza ledere gli altri, ma in senso cinese. Un tempo l’imperatore poteva far applicare le proprie decisioni in ogni provincia solo facendo sì che tutte vi trovassero un tornaconto. Siccome taluni decreti non avevano impatto su alcune province, l’imperatore doveva escogitare un mezzo per sollecitarne l’interesse. Il suo potere poteva perpetuarsi solo se non tralasciava nessuno, anche il più insignificante dei sudditi.

Oggi, ogni volta che Washington parla di «concorrenza» con Beijing, la Cina risponde che non se ne parla affatto, che non accetta alcun antagonismo né guerra, ma aspira all’armonia generale, attraverso relazioni soddisfacenti per tutti.

LA “DOPPIEZZA” CINESE

Negli anni 1900 il giornalista britannico Sax Rohmer svela il complotto del “pericolo giallo” in una serie di romanzi polizieschi incentrati sul malefico personaggio di Fu Manchu.

Si potrebbe ritenere che gli Occidentali siano spaventati dall’improvviso sviluppo economico della Cina. L’accordo di Deng Xiaoping con le multinazionali USA ha giovato ai salari più bassi e generato un ampio movimento di delocalizzazione delle imprese occidentali in Cina. In Occidente le classi medie stanno scomparendo mentre in Cina, e ora in quasi tutta l’Asia, si espandono. La Commissione Europea, che vent’anni fa si compiaceva del fenomeno, nel 2009 ha iniziato a criticare l’organizzazione dell’economia cinese. In realtà le critiche esistevano già prima; ciò che nel 2009 è cambiato è che, in virtù del Trattato di Lisbona, esse pertengono Bruxelles. Riguardano di volta in volta il furto dei brevetti, il mancato rispetto delle norme ambientali, nonché il nazionalismo economico cinese.

L’acquisizione del know-how occidentale da parte di Beijing è perfettamente consapevole. Nel mondo i brevetti sono pratica relativamente recente. In Europa furono inventati due secoli fa. Fino ad allora si riteneva che l’invenzione non potesse appartenere all’autore perché tutti dovevano beneficiarne. I cinesi la pensano tuttora così. Senza intenzione di rubare a chicchessia, firmano accordi commerciali con trasferimento di tecnologia, se li tengono e li sviluppano.

Domani il “pericolo giallo” invaderà gli Stati Uniti (fumetto di propaganda distribuito ai soldati americani).

Negli anni precedenti gli Occidentali delocalizzavano le industrie inquinanti in Cina. Oggi si stizziscono perché la Cina ha norme di tutela dell’ambiente meno stringenti delle loro, ma di certo non hanno intenzione di riportarsi a casa le proprie industrie inquinanti. Il disprezzo culturale ha raggiunto l’apice nella conferenza COP26 di Glasgow. Gli Occidentali esigono la decarbonizzazione dell’economia mondiale, i cinesi invece vogliono combattere l’inquinamento. Ciononostante, per dimostrare di non aver intenzione di offendere gli Stati Uniti, Beijing ha firmato con Washington una dichiarazione comune [2], ove si afferma che i due Paesi sono sulla stessa linea, senza tuttavia chiarire alcunché e senza il benché minimo impegno concreto. Mai un diplomatico cinese ha detto no a qualcuno; del resto nella sua lingua il “no” non esiste. Dal punto di vista cinese, la dichiarazione comune è un “no” diplomatico; dal punto di vista degli Stati Uniti è invece la prova che il mondo intero crede alla causa antropica del riscaldamento climatico.

Riguardo alle accuse di nazionalismo economico, i cinesi non ne hanno mai fatto mistero: sono nazionalisti e non hanno mai mandato giù il colonialismo di cui sono stati vittime. Si sono sì convertiti al capitalismo negli scambi internazionali, ma rimangono nazionalisti nella produzione.

Non vi è mai stato inganno, né volontà d’ingannare, da parte dei cinesi; c’è invece la supponenza degli Stati Uniti e dei loro partner nel credere che tutti ragionino come loro, nonché nel disprezzare i discreti avvertimenti di Beijing.

L’“IMPERIALISMO” CINESE

Documento degli anni Cinquanta per la formazione degli ufficiali del Pentagono.

Il disprezzo più rilevante concerne lo sviluppo militare della Cina. In meno di una decina d’anni Beijing è riuscita a portare a livello industriale la produzione di armi molto sofisticate. L’esercito popolare, che in passato era soprattutto manodopera al servizio della collettività, è oggi corpo d’élite. Il servizio militare è obbligatorio, ma solo i migliori dei migliori possono sperare di accedere alla carriera militare e beneficiare dei vantaggi. Dal punto di vista militare alcuni anni fa la Cina contava solo per le dimensioni del suo esercito, oggi possiede la prima marina militare mondiale ed è in grado rendere sorde e cieche le forze armate della NATO polverizzandone i satelliti.

Ma cosa può farsene la Cina di tanta profluvie di uomini e mezzi? Beijing ha investito somme astronomiche all’estero per costruire le vie della seta. Deve quindi garantire la sicurezza del personale e degli investimenti in Paesi lontani. Inoltre, come nell’Antichità e nel Medio Evo, dovrà garantire in modo permanente la sicurezza di queste vie. Gli scopi delle basi militari cinesi all’estero sono soltanto questi, non sono certo rivaleggiare con gli Stati Uniti o invadere il pianeta. Per esempio, la base di Gibuti le ha permesso di rendere sicuro l’approvvigionamento marittimo contro i pirati somali. Sottolineo per inciso che Beijing e Mosca vi sono riuscite, mentre la NATO, che si era prefissa il medesimo obiettivo, ha fallito totalmente [3].

Beijing non vuole più subire lo smembramento impostole da trattati ineguali, che le sono valsi occupazione e saccheggio da parte di otto potenze straniere (Germania, Austria-Ungheria, Belgio, Stati Uniti, Francia, Italia, Giappone, Regno Unito e Russia). È perciò perfettamente legittimo che la Cina si armi in modo adeguato alla potenza militare raggiunta dalle nazioni che l’hanno colonizzata. Ciò non significa che intende agire alla loro stregua, ma che vuole proteggersi.

NOTE

[1Destined for War: Can America and China Escape Thucydide’s Trap?, Graham T. Allison, Houghton Mifflin Harcourt (2017).

[3Pirati, corsari e flibustieri del XXI secolo”, di Thierry Meyssan, Оdnako (Russia) , Rete Voltaire, 11 luglio 2010.

FONTE: https://www.voltairenet.org/article214985.html

Nucleare iraniano: il dialogo necessario per evitare la guerra

Mentre a Vienna proseguono le trattative per ripristinare l’accordo sul nucleare iraniano (JCPOA), The Joint Comprehensive Plan of Action), il governo israeliano sta facendo pressioni sugli Stati Uniti perché non si accordi, anzi la invita a prendere misure più severe contro Teheran, compreso un attacco preventivo. Ne riferiscono tanti media, tra cui l’americano Responsibile Statecraft, in una nota di Annelle Sheline e Bruce Riedel dal titolo: “Perché bombardare l’Iran è (ancora) una cattiva idea?”.

Il più grande errore di Israele

Dopo aver spiegato che la spinta per far fallire i negoziati e aggravare la pressione sull’Iran non può che portare a una guerra, Sheline e Riedel scrivono: “Il generale israeliano in pensione Isaac Ben Israel ha dichiarato a Bloomberg che ‘gli sforzi di Netanyahu per persuadere l’amministrazione Trump a rinunciare all’accordo nucleare si sono rivelati il ​​peggior errore strategico nella storia di Israele’“.

“Con questa dichiarazione, Ben Israel ha ammesso che non solo Israele ha minato la propria sicurezza spingendo Trump a rinnegare il JCPOA, ma anche che Israele ha minato la sicurezza dell’America, poiché entrambi i paesi condividono l’interesse a impedire all’Iran di acquisire un’arma nucleare”.

“Tale comportamento è inaccettabile da parte di un partner. Sfortunatamente, l’attuale primo ministro israeliano Naftali Bennett nei confronti dell’Iran sta seguendo più o meno la stessa linea del suo predecessore, e rivale politico, Benjamin Netanyahu”.

Quindi gli autori della nota analizzano la possibilità di una guerra in Iran come un vero e proprio inferno che inghiottirebbe tutto il Medio oriente, riprendendo, a tale proposito, l’ironica battuta dell’analista Kenneth Pollack: “Se ti è piaciuta la guerra in Iraq, adorerai la guerra in Iran”, che sintetizza tale tragico sviluppo. L’Iran perderebbe la guerra, ovvio, ma la lunga lotta contro la resistenza sarebbe devastante per Israele, per la regione, per l’America e per il mondo.

Quindi, dopo aver spiegato che non è la prima volta che Israele spinge per innescare un conflitto, annota un’ovvietà che pure resta indicibile (almeno dai media mainstream), cioè che “l’Iran non rappresenta un rischio esistenziale per Israele. Teheran è ben consapevole del fatto che Israele ha il proprio arsenale nucleare che può essere utilizzato da aerei di fabbricazione americana, missili francesi e sottomarini di fabbricazione tedesca“.

Non entrare in un vicolo cieco

L’America, prosegue la nota, deve “evitare di entrare in un vicolo cieco in cui le uniche due scelte sono non fare nulla o andare in guerra. Gli interessi degli Stati Uniti sarebbero perseguiti in maniera migliore impegnandosi in una discussione razionale sulle questioni che ci dividono dall’Iran piuttosto che minacciando che se Teheran non si conformerà a un accordo che abbiamo violato noi ci saranno pesanti conseguenze. Inoltre, Washington dovrebbe anche essere chiaro con Tel Aviv sul fatto che un attacco israeliano contro l’Iran o obiettivi iraniani avrebbe serie implicazioni negative sulle relazioni USA-Israele”.

E conclude: “L’amministrazione Trump, istigata da Netanyahu, ha commesso un errore enorme violando il JCPOA. Ha distrutto un iniziale dialogo tra Stati Uniti e Iran, che offriva opportunità per una distensione regionale e ha dato all’Iran una scusa per riavviare parti del suo programma nucleare che il JCPOA aveva bloccato” (ma recentemente, come annota anche RS, il capo della Cia, William Burns ha detto che l’Iran è ancora distante dalla possibilità di costruire una bomba atomica).

La violazione del JPCOA, spiega ancora la nota, “ha inoltre suscitato legittime preoccupazioni sulla buona fede dell’America riguardo i suoi impegni internazionali. Le conseguenze di questa violazione ora si sono ritorte contro di noi e tornano a perseguitarci. È tempo di aprire un dialogo onesto e ponderato tra noi e i nostri partner, evitando minacce roboanti che rischiano di avere conseguenze pericolose”.

L’assassinio del generale Soleimani

Una nota a margine a questa controversia sembra si possa dedicare a un accadimento che ha segnato il punto più acuto dello scontro tra Stati Uniti e Iran e che per poco non ha avviato un conflitto tra le due nazioni. Si tratta dell’omicidio del generale Qassem Suleimani, capo dei Guardiani della rivoluzione, avvenuto in Iraq nel gennaio del 2020.

L’assassinio fu ordinato dal presidente Trump e allora si attirò la condanna di mezzo mondo, compresa quella molto più che simbolica di uno dei giudici che officiarono il processo di Norimberga contro i nazisti (New York Times), e suscitarono altrettanto gaudio tra i tanti che reputano l’Iran una sorta di Stato terrorista.

In una nota odierna, Axios rivela parte del contenuto di un libro-intervista a Trump, che spiega come il presidente americano nell’occasione si sia adirato con il governo israeliano per il suo ruolo in quella oscura pagina di cronaca nera: “Non posso parlare di questa storia. Ma ero molto deluso dal fatto che Israele avesse a che fare con quella vicenda. … La gente ne sentirà parlare al momento giusto”. Frase sibillina, che sembra adombrare la possibilità che Trump sia stato ingannato. Ma è probabile che la verità sul retroscena di quell’assassinio non si saprà mai.

FONTE: https://piccolenote.ilgiornale.it/53905/nucleare-iraniano-il-dialogo-necessario-per-evitare-la-guerra

 

 

 

CULTURA

“LE COSTITUZIONI”: IL SOVRANO MILITARE ORDINE DI MALTA (VIDEO)

Nella nuova puntata de “Le Costituzioni” si parla del Sovrano Militare Ordine di Malta. Il primo articolo dalla sua Costituzione è formato da 4 paragrafi, il primo dei quali cita: “Il Sovrano Militare Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Gerusalemme, detto di Rodi, detto di Malta, sorto dal gruppo degli Ospitalari dell’Ospedale di San Giovanni di Gerusalemme, chiamato dalle circostanze ad aggiungere ai primitivi compiti assistenziali un’attività militare per la difesa dei pellegrini della Terra Santa e della civiltà cristiana in Oriente, sovrano, successivamente, nelle isole di Rodi e poi di Malta, è un Ordine religioso laicale, tradizionalmente militare, cavalleresco e nobiliare”.

VIDEO QUI: https://youtu.be/aP4s8A2ZSGI

FONTE: https://www.opinione.it/cultura/2021/12/13/manlio-lo-presti_le-costituzioni-sovrano-militare-ordine-di-malta/

Oriente e Occidente: confronto tra pensiero e metodo

Ruggiero Capone – 16 dic 2021

Hari Simran S.K. spiega a grandi linee le basi della disciplina di meditazione del suo maestro. Quindi, parla a “Buona parola a tutti” dell’India, dove convivono religioni monoteiste e politeiste. Cerca così di chiarire il senso del Kali Yuga, l’era oscura che stiamo attraversando noi umani, e da ciechi noi occidentali. Hari Simran ci aiuta così a darci pace e ragione dei tanti conflitti e della diffusa ignoranza spirituale dell’Occidente materialistico e famelico. Perché a confronto l’India induista, buddista e sikhista? Hari Simran è Sikh, ma ci aiuta a spiegare cosa abbiamo dimenticato delle nostre origini. Quel lungo viaggio a ritroso che Mircea Eliade auspicherebbe all’uomo di oggi. Un viaggio antropologico alla ricerca della cura nel Nord dell’India, nel Rajasthan, per capire come l’uomo che venera i topi abbia sconfitto la malattia diecimila anni prima di Cristo. O approcciarci alla nostra lingua originaria, la cui anima abbiamo dimenticato. E se Alessandro Magno ebbe in quell’India a curare la propria barbarie macedone, non è escluso che un lavacro, un viaggio meditativo, non possa guarire le ansie economiche dell’uomo occidentale.

VIDEO QUI: https://youtu.be/HK30vVVI8Nk

FONTE: https://www.youtube.com/watch?v=HK30vVVI8Nk

 

 

La libertà nell’era del dominio della tecnica 

A mezzogiorno il sole picchia forte sui prati del passo Gardena, l’ultimo, il più duro dei quattro che circondano il gruppo del Sella, uno spettacolo unico al mondo nella luce d’agosto.

Ansimo, la bicicletta sembra sempre più pesante, l’aria è fredda, la maglia ormai fradicia, la borraccia vuota, come le gambe. I polmoni bruciano, il cuore ridotto a singhiozzi e la testa erratica, persa com’è nell’estasi della fatica.

D’un tratto, alle mie spalle, un ronzio sommesso si fa sempre più vicino e in un attimo mi affianca quello che, con stupore, riconosco essere un ciclista. Un signore tedesco sulla settantina, baffuto e sorridente, risucchiato nella sua tutina multicolor: “grüß gott” tuona soddisfatto, e scivola via, senza sforzo.

Mi lascia di stucco, ferito nel mio orgoglio di amatore esaurito, senza armi con cui rispondere all’affronto: è una maledetta bicicletta elettrica, una delle migliaia che in questi giorni brulicano per queste strade di montagna, un tempo impervie e per i più irraggiungibili. Un’altra di quelle diavolerie moderne che sta distruggendo il mito delle scalate impossibili, che appiattisce i sentieri impraticabili, doping meccanico per muscoli rammolliti, 500 watt di pura potenza meccanica gratuita.

Io che metto la libertà davanti ad ogni cosa, che ho profonda fiducia nelle capacità dell’uomo, nel progresso, nell’innovazione e nella scienza, mi ritrovo contrariato, e non è solo un rigurgito di testosterone per l’affronto subito, ma un malessere istintivo, come se intuissi qualcosa di sbagliato, quasi immorale. Credo che Gunther Anders si riferisse proprio a questo quando parlò di “dislivello prometeico”, descrivendo l’asimmetria tra la nostra possibilità di comprensione e la capacità di produzione della tecnica.

Siamo sicuri che questa potenza tecnica sia davvero gratuita? Oppure ha un costo nascosto?

I fatti tecnologici sfuggono spesso alla comprensione individuale, perché non sono direttamente collegati alle categorie del pensiero umano: come si può pensare di scalare lo Stelvio senza aver fatto nemmeno un’ora di allenamento? O di poter partecipare al Tour de France senza avere un briciolo di talento? Non è umano, non ha senso. Ma allora il senso dove è andato a finire? La tecnica cancella i limiti, ma senza limiti non siamo più in grado di attribuire un senso. Commetteremmo un errore enorme se pensassimo che tecnica e progresso coincidano: la tecnica, di per sé, non fa che autoalimentarsi all’infinito, mera esecutrice di una volontà di potenza estranea.

Prima che la tecnica dominasse il mondo, i limiti erano affare umano, l’orizzonte verso cui navigare muniti di talento, sacrificio, dedizione, tenacia, curiosità, immaginazione e un poco di follia. Questo viaggio umano e sociale forniva un senso, i greci direbbero un’etica che orientava il progresso. Oggi è la tecnica che stabilisce il senso e l’unico senso che è in grado di attribuire è la propria efficienza. Il resto non conta. L’uomo non è più produttore di senso, costruttore di progresso. Questo è il prezzo che paghiamo: la libertà di decidere del nostro destino.

FONTE: https://loccidentale.it/la-liberta-nellera-del-dominio-della-tecnica-di-m-saccone/

 

 

I PRODUTTORI DI ARMI DICONO AGLI INVESTITORI CHE LA TENSIONE IN IRAN ALIMENTA GLI AFFARI

Con gran parte del mondo in bilico per la tensione latente in Medio Oriente e gli Stati Uniti che minacciano la guerra con l’Iran, i dirigenti della difesa hanno parlato di opportunità.

I DIRIGENTI DELLA DIFESA DI tutto il paese si sono radunati nella scintillante torre di Goldman Sachs nel centro di Manhattan a metà maggio, desiderosi di presentare prima di una conferenza di banchieri e analisti finanziari.

Mentre gran parte del mondo era teso per la tensione latente in Medio Oriente, poiché gli Stati Uniti ei loro alleati hanno alimentato le tensioni con l’Iran, gli uomini d’affari alla conferenza hanno parlato di opportunità.

Eric DeMarco, presidente di Kratos Defense & Security Solutions, è intervenuto alla conferenza, sostenendo che la sua azienda è “molto ben allineata” per lo spostamento del budget militare dalla lotta asimmetrica alla guerra di stato nazionale.

La crescente minaccia di guerra con Iran, Russia e Cina, ha continuato DeMarco, potrebbe minacciare la potenza navale degli Stati Uniti, che potrebbe richiedere aggiornamenti alla minaccia dei missili balistici, il tipo di sistemi in cui è specializzata Kratos Defense.

Allo stesso modo, i grandi produttori di armi di tutto il settore hanno detto agli investitori che l’escalation del conflitto con l’Iran potrebbe essere positivo per gli affari.

Thomas Kennedy, l’amministratore delegato di Raytheon, è stato interrogato a gennaio sui “segnali di domanda” che potrebbero modellare il budget della difesa in futuro. Kennedy, secondo una trascrizione della chiamata, ha affermato che “la principale preoccupazione è l’Iran”. La società, ha aggiunto Kennedy, ha recentemente ottenuto l’approvazione per fornire sistemi di difesa missilistica all’Arabia Saudita, poiché il paese ha potenziato i sistemi di difesa in preparazione di una potenziale guerra.

Il mese successivo, Kennedy ha presentato alla conferenza Cowen Aerospace per gli investitori, concentrandosi nuovamente su come il conflitto con l’Iran aumenterà le entrate. Kennedy ha affermato di aver trascorso del tempo a Capitol Hill discutendo “tutte le informazioni che stiamo vedendo dalla Russia e dalla Cina e in una certa misura anche dalla Corea del Nord e poi su cosa sta facendo l’Iran”. Le discussioni a Washington, DC, ha detto, lo hanno lasciato “abbastanza ottimista sull’avanzamento del budget degli Stati Uniti”.

Anche Marillyn Hewson, CEO di Lockheed Martin, ha discusso della crescente minaccia proveniente dall’Iran durante la chiamata agli investitori della sua azienda a gennaio. La strategia di difesa nazionale del Dipartimento della Difesa, un progetto pubblicato all’inizio di quest’anno per la pianificazione militare, ha affermato Hewson, si è concentrato sulla “grande competizione di potenze con Cina e Russia, e anche altri attori come Iran e Corea del Nord”. La strategia, insieme al “sostegno bipartisan per la spesa per la difesa”, ha favorito l’avanzamento della sua azienda, ha affermato Hewson.

Le dichiarazioni agli investitori arrivano mentre gli Stati Uniti hanno apertamente minacciato di lanciare una nuova guerra. Nelle ultime settimane, l’amministrazione Trump ha discusso di  inviare  120.000 soldati in Medio Oriente in preparazione della guerra con l’Iran, una mossa che arriva dopo due anni di   sanzioni crescenti e  retorica militante  sulla minaccia rappresentata dal governo di Teheran.

Le crescenti tensioni, mentre aumentano il potenziale di conflitti catastrofici e la perdita di vite umane, potrebbero anche essere un bene per le aziende nel business della guerra.

L’industria della difesa è tutt’altro che un’osservatrice oziosa del conflitto. Le grandi aziende spendono ingenti somme in attività di lobbying per influenzare il budget del Pentagono, denaro che in primo luogo proveniva principalmente dal Congresso. L’ultimo National Defense Authorization Act include diverse disposizioni sull’Iran, tra cui una direttiva che gli alleati degli Stati Uniti “costruiscano un’architettura di difesa missilistica balistica interoperabile … per difendersi dalla minaccia missilistica della Repubblica islamica dell’Iran” e che il segretario alla Difesa sviluppi un piano per contrastare il “attività destabilizzanti dell’Iran”.

FONTE: https://theintercept.com/2019/05/28/arms-manufacturers-investors-iran-business/

 

 

 

CYBERWAR SPIONAGGIO INFORMAZIONE DISINFORMAZIONE

La guerra civile

Per fare una guerra civile, ci vogliono armamenti più o meno alla pari, e questi chiaramente mancano.

Ma ci vuole anche uno stato d’animo che vede in quello che non la pensa come te un criminale, un venduto o un imbecille.

E questo c’è tutto, e per una questione completamente nuova, qualcosa a cui un paio di ann fa, non si pensava nemmeno.

Mentre mi raccontano di famiglie che si separano, di amicizie decennali che finiscono da un giorno all’altro, di gente che rinuncia al posto di lavoro, un’artigiana mi scrive perentoria:

“cosa rispondi sul ricatto vaccinale con una sostanza sconosciuta organizzata dalla mafia dei mondialisti e imposto con il green pass?”

Che a pensarci, è una di quelle domande che contengono già la risposta obbligata.

Poi sul fronte opposto, leggo le dichiarazioni di tale Roberto Dipiazza:

“Spingeremo perché sia stabilito che il peso di eventuali nuove restrizioni gravi solo su coloro che non sono vaccinati, perché sono disertori. Se questa è una guerra, in una guerra c’è chi ha paura, non combatte, viene messo al muro e fucilato. Qui non fuciliamo nessuno, ma il peso di eventuali nuove restrizioni deve gravare esclusivamente su questi disertori, che mettono a rischio la salute di tutti. La pazienza è finita“.

Ora, Roberto Dipiazza non è un artigiano.

E’ proprietario, scopro, di un supermercato che

“grazie al suo successo imprenditoriale riceverà la Medaglia d’oro per la più alta produttività imprenditoriale a metro quadrato in Italia”

Ma soprattutto è sindaco (di destra) di Trieste.

Quando l’atmosfera è questa, riflettere sul serio diventa faticoso e ti espone all’aggressività di entrambi gli schieramenti.

E lì avviene un meccanismo fatale: su mille cose che fanno o dicono i nostri avversari, si prendono in considerazione solo le peggiori; e questo diventa la prova oggettiva della validità dei nostri pregiudizi, che poi applichiamo a tutti i nostri avversari.

Ma a pensarci, odiarsi tra bipedi (“criminali” e “disertori”) è molto umano.

Mentre il conflitto attorno al Covid – per quanto confuso, surreale, folcloristico, drammatizzato con folli complotti – è così intenso, perché nasce dall’angoscia che gli esseri umani provano per l’annientamento dell’umano.

E poi scopro che c’è qualcuno che riesce a cogliere proprio questo, in un interessantissimo saggi sul sito Il Rovescio, che apre con una citazione di Günther Anders:

Le azioni più disumane sono oggi azioni senza uomini.

 

E’ un saggio lungo, ma fondamentale e scritto in modo chiaro e non gergale.

E tocca una quantità enorme di temi.

Come sempre, non è necessario accogliere o respingere in blocco; ma certo mette in moto il cervello.

FONTE: http://kelebeklerblog.com/2021/11/08/la-guerra-civile/

DUE EX DIRETTORI DELLA CIA INVITANO BIDEN A MINACCIARE MILITARMENTE L’IRAN

“La minaccia militare che gli Stati Uniti rappresentano per l’Iran è una delle ragioni principali per cui il programma nucleare iraniano si è ampliato”, ha detto un analista, criticando la dichiarazione.

UN GRUPPO FALCO di ex funzionari della sicurezza nazionale, legislatori e diplomatici statunitensi ha lanciato una campagna pubblica per fare pressione sull’amministrazione Biden affinché minacci militarmente l’Iran. La  dichiarazione , intitolata dagli ex capi della CIA Leon Panetta e dal generale in pensione David Petraeus, nonché dall’ex alto funzionario del Pentagono dell’era Obama,  Michèle Flournoy, afferma che “è fondamentale ripristinare la paura dell’Iran che il suo attuale percorso nucleare innescherà l’uso della forza contro dagli Stati Uniti”.

La dichiarazione – firmata anche dall’ex rappresentante democratica Jane Harman e dal peso massimo diplomatico democratico Dennis Ross, e pubblicata dal Washington Institute, un think tank militarista – sostiene che l’amministrazione Biden deve “prendere provvedimenti che portino l’Iran a credere che persistendo in il suo comportamento attuale e il rifiuto di una ragionevole risoluzione diplomatica metterà a rischio la sua intera infrastruttura nucleare, costruita faticosamente negli ultimi tre decenni”. Suggeriscono che il presidente Joe Biden consideri “l’orchestrazione di esercitazioni militari di alto profilo da parte del comando centrale degli Stati Uniti, potenzialmente in concerto con alleati e partner, che simulino ciò che sarebbe coinvolto in un’operazione così significativa, compresa la prova di attacchi aria-terra su induriti obiettivi e la soppressione delle batterie missilistiche iraniane”.

L’analista iraniano Hooman Majd, autore di “The Ayatollah Begs to Differ: The Paradox of Modern Iran”, ha affermato che la lettera degli ex funzionari statunitensi “è semplicemente stupida”. Ha detto a The Intercept: “Non c’è modo di “ripristinare” la paura dell’Iran: l’ultima volta che ha temuto un attacco militare o una guerra degli Stati Uniti è stato subito dopo l’invasione dell’Iraq quando sembrava che la facile vittoria lì e in Afghanistan avrebbe forse portato a ‘veri uomini che vanno a Teheran’”. Majd sottolinea che, nonostante le ripetute minacce di azioni militari da parte di Stati Uniti e Israele, l’Iran ha costantemente “rinforzato” le sue capacità militari. “Quindi direi che l’Iran non teme l’azione militare degli Stati Uniti contro di esso ora”, ha aggiunto. “Tutte le spacconate israeliane sulla preparazione alla guerra con l’Iran non hanno cambiato i loro calcoli – e sanno che Israele ha probabilmente più probabilità di attaccare le loro strutture rispetto agli Stati Uniti

Trita Parsi, vicepresidente esecutivo del Quincy Institute for Responsible Statecraft, ha criticato la dichiarazione, dicendo a The Intercept: “La fiducia esagerata nei miracoli che le minacce militari statunitensi possono offrire non è limitata a una sola parte negli Stati Uniti, ma è intrinseco alla religione dell’establishment che la sicurezza americana si ottiene attraverso l’egemonia militare globale”.

Gli ex funzionari statunitensi hanno sostenuto che la loro strategia mira a costringere l’Iran al tavolo dei negoziati e a costringerlo a invertire qualsiasi sforzo per sviluppare armi nucleari fatto a seguito dell’abbandono da parte di Donald Trump del Piano d’azione congiunto globale, o JCPOA. “Mentre gli Stati Uniti hanno riconosciuto il diritto dell’Iran all’energia nucleare civile, il comportamento dell’Iran continua a indicare che non solo vuole preservare un’opzione per le armi nucleari, ma si sta attivamente muovendo verso lo sviluppo di tale capacità”, hanno scritto. Pur sostenendo una potenziale azione militare – e invitando apertamente Biden a fare esplicite minacce militari – gli autori della lettera affermano che il loro intento è quello di sostenere gli sforzi diplomatici. “[Noi] non stiamo esortando l’amministrazione Biden a minacciare il ‘cambio di regime’ oa sostenere una strategia di ‘cambio di regime’ sotto copertura della non proliferazione”, hanno scritto. “Non si tratta di ostilità verso l’Iran o il suo popolo”.

Parsi, analista iraniano americano e autore di “Losing an Enemy: Obama, Iran, and the Triumph of Diplomacy”, ha aggiunto: “Piuttosto che essere la soluzione alla crisi, la minaccia militare che gli Stati Uniti rappresentano per l’Iran è una ragione chiave per cui il programma nucleare iraniano si è ampliato. Più un Paese si trova di fronte a minacce militari, più richiederà una deterrenza nucleare».

Durante la campagna presidenziale del 2020, Biden ha ripetutamente criticato l’abbandono dell’accordo nucleare da parte di Trump e il suo assassinio del maggiore generale Qassim Suleimani a Baghdad il 3 gennaio. Ma a quasi un anno dalla sua presidenza, Biden non ha intrapreso alcuna azione per tornare all’accordo e ha assunto una posizione sempre più ostile nei confronti di Teheran. Alla fine di agosto, Biden sembrava mettere sul tavolo le opzioni militari. Durante un incontro con la stampa con il primo ministro israeliano Naftali Bennett alla Casa Bianca, Biden ha dichiarato: “Se la diplomazia fallisce” con l’Iran, “siamo pronti a passare ad altre opzioni”. L’amministrazione Biden ha mantenuto e, in alcuni casi, ampliato le sanzioni economiche statunitensi contro l’Iran , il che ha suscitato accuse da Teheran secondo cui gli Stati Uniti stanno già conducendo unguerra non militare contro i civili iraniani . L’Iran chiede la cessazione delle sanzioni come precondizione per tornare ai negoziati.

“L’Iran ha tutte le ragioni per voler ripristinare il JCPOA, almeno in termini di revoca delle sanzioni più onerose contro di esso. Ma difficilmente si impegnerà perché pensa che gli Stati Uniti entreranno in guerra con esso se non lo farà”, ha detto Majd.

“Le minacce militari di Donald Trump e le ampie sanzioni economiche sono proprio il motivo per cui siamo in questo pasticcio in questo momento. Credere che una condotta più trumpiana da parte degli Stati Uniti romperà lo stallo nucleare sconcerta la mente”, afferma Parsi. “L’uscita di Trump dall’accordo e la mancanza di fiducia che gli Stati Uniti rimarranno nell’accordo oltre il 2024 hanno profondamente minato il valore delle promesse americane di sgravio delle sanzioni. Gli iraniani esitano soprattutto perché non credono che i benefici economici promessi dagli Stati Uniti arriveranno. Nessuna quantità di minacce militari cambierà quella debolezza fondamentale nella posizione negoziale degli Stati Uniti”.

FONTE: https://theintercept.com/2021/12/17/iran-hawks-military-pressure-biden

Perché Falcone e Borsellino saltarono in aria in quel modo

Saltarono in aria, quei giudici, perché avrebbero fatto saltare per aria il sistema. «Con Falcone arriva il segnale della pace tra Stato e mafia, mentre con la strage di via D’Amelio in cui muore Borsellino si dà il via alle leggi che azzerano i poteri della magistratura». Sul blog “Petali di Loto”, il 19 luglio 2019 – anniversario della strage di via D’Amelio – Stefania Nicoletti richiama le analisi offerte nel corso degli anni dall’avvocato Paolo Franceschetti, con l’aiuto dell’allora collega Solange Manfredi. Già legale delle “Bestie di Satana”, Franceschetti ha dedicato studi coraggiosi al fenomeno dei delitti rituali (dal Mostro di Firenze in poi), tutti “firmati” in realtà da killer dediti a forme di esoterismo degenerate in occultismo criminale. Uomini protetti da forti coperture a livello istituzionale, a volte funzionale alla strategia della tensione o comunque alla manipolazione psicologica delle masse. «Esempio: l’individuo che viene arrestato non è mai un giudice, un politico, un notaio, un medico, un ufficiale, un docente universitario. E’ sempre un contadino semi-analfabeta, una povera madre presentata come pazza, un giovane drogato e sbandato. E’ il capro espiatorio perfetto, attraverso cui far sapere alla gente che è in buone mani e non corre pericoli, visto che il potere è pulito. Invece è vero esattamente il contrario».

Lo si è intuito, in modo atrocemente sanguinoso, osservando i retroscena inquinatissimi delle morti ravvicinate di Falcone e Borsellino. Dopo la seconda, in particolare, si cominciò a parlare di “trattativa Stato-mafia”. Affrontò il tema Vincenzo Calcara, Paolo Franceschettiuno dei pochi collaboratori di giustizia che secondo Franceschetti possono veramente essere chiamati “pentiti”. «Il dottor Borsellino – scrisse, nel suo memoriale – era in possesso di verità scomode», di fronte alle quali «in tanti si devono vergognare per averlo lasciato solo al suo destino». Calcara era stato segnato dall’incontro col magistrato, che gli aveva cambiato la vita: una vera e propria redenzione morale. C’erano due piani alternativi per uccidere Borsellino, ricorda Franceschetti: il primo prevedeva l’uso di un fucile di precisione ed era affidato proprio a Calcara, mentre nel secondo caso – un’autobomba – il futuro pentito avrebbe svolto soltanto un lavoro di copertura. «Poi però da Palermo arrivò l’ordine, direttamente da Totò Riina: prima, avrebbe dovuto essere ucciso Giovanni Falcone». Così, Calcara riuscì a non uccidere l’uomo che poi gli avrebbe salvato la vita, facendolo rinascere come essere umano. Ma Riina era veramente “il capo dei capi”, o invece era solo il “prestanome” di qualcuno molto più potente, protagonista occulto dell’infinita finita strategia delle tensione italiana?

Lo stesso Riina affermò che Borsellino non sarebbe stato “condannato” dalla mafia, ma probabilmente da uomini dello Stato. E nel caso, perché mai? «Forse perché aveva capito che la cosiddetta “trattativa” non era altro che un accordo per realizzare un piano eversivo di destabilizzazione dello Stato, condotta da un “sistema criminale” composto da mafia, massoneria deviata e servizi segreti deviati?». Riguardo alla possibile manovalanza, alternativa o contigua a quella strettamente mafiosa, Solange Manfredi cita le dichiarazioni rese da un ex paracadutista della Folgore, Fabio Piselli, coinvolto nelle indagini sul rogo della nave “Moby Prince”. Una ricostruzione scioccante, che mette insieme la strage di Capaci e quella di via D’Amelio, l’autobomba fiorentina di via dei Georgofili e la bomba romana di via Fauro. Italia fragilissima, all’epoca: Tangentopoli e passaggio cruciale Vincenzo Calcaradalla Prima alla Seconda Repubblica, sotto le forche caudine di Bruxelles, dopo aver spazzato via – a colpi di inchieste – l’intera classe politica. Decisivo, secondo Solange Manfredi, il ruolo nefasto di una sigla-fantasma ma onnipresente, in quegli anni: la Falange Armata.

Esisteva dal 1985, sembra, ma compare per la prima volta soltanto il 4 gennaio 1991, quando a Bologna vengono uccisi tre carabinieri nel quartiere del Pilastro. L’ultima apparizione mediatica è del 27 novembre 1994, con il seguente comunicato: “Di Pietro è un uomo morto”. Di mezzo ci sono Falcone e Borsellino, le minacce a Di Pietro per le indagini su Craxi, un’autobomba scoperta a Roma in via dei Sabini a cento metri da Palazzo Chigi, il palagiustizia di Padova dato alle fiamme. Il 19 luglio ‘92, la Falange Armata rivendica l’attentato costato la vita a Borsellino. Un anno dopo, il 16 settembre del ‘93, la Procura di Roma individua in 16 ufficiali del Sismi i telefonisti che rivendicarono le azioni della fantomatica sigla terroristica. Cos’era, la Falange Armata? Secondo l’ex parà Fabio Piselli, «è stata una operazione modello, continuata e mai inquinata, compartimentata e soprattutto posta in sonno e mai disattivata da parte di un organo inquirente o ispettivo». In questo modo «ha raggiunto i propri obiettivi». Dopodiché “l’operazione” «è stata semplicemente conclusa», e i suoi “operativi”, di fatto, «hanno continuato a fare il proprio lavoro», Fabio Pisellidedicandosi ad altre mansioni e lasciando gli inquirenti impegnati a inseguire una falsa pista, cioè «una “organizzazione”, e non una semplice “operazione”».

Risultato scontato: indagini finite in un nulla di fatto, «o con l’arresto di mere, ignare pedine, o di qualche povero innocente sacrificato per confondere gli inquirenti, il quale si è fatto qualche mese di galera ingiustamente e la cui vita è stata rovinata». Omicidi, rapine, attentati, sequestri. E poi: infiltrazioni in attività militari e politiche, trafugamento di armi dello Stato, addestramento di civili in attività militari. Ancora: spionaggio politico e militare, intercettazioni illegali, violazione e utilizzo del segreto d’ufficio, peculato, attentato alla democrazia. «E’ ciò che l’operazione Falange Armata ha posto in essere fra il 1985 ed il 1994 attraverso gli operatori, attivati singolarmente o in piccole squadre», dice Piselli. E’ tutto? No, certo. Sulla “trattativa”, la prima indagine fu archiviata nel 2000 per decorrenza dei termini, ricorda Franceschetti, prima che Antonio Ingroia riaprisse il caso, su cui ormai si sono scritti fiumi di inchiostro. Quello di cui invece Franceschetti è rimasto l’unico a parlare, invece, è un dettaglio sfuggente: il ricorrere – veramente impressionante – delle stesse modalità simboliche che costellano i fatti di sangue “mediatici”, sia gli attentati terroristici che molti delitti in apparenza comuni, destinati alla semplice cronaca nera.

Dopo anni di ricerche, Franceschetti ha individuato una “firma” ancora più elusiva di quella della Falange Armata: è la Rosa Rossa, specializzata in delitti rituali anche eccellenti, come quelli del cantante Rino Gaetano e del ciclista Marco Pantani. Personaggi da “punire” secondo lo schema – dantesco – della “legge del contrappasso”, attraverso modalità maniacalmente simboliche, a partire dai nomi dei luoghi (mai casuali) e delle date in cui i delitti si consumano. La morte come tragico cerimoniale, in cui si mette in scena – capovolgendolo – ciò che il malcapitato aveva rappresentato, in vita. Gaetano? Vittima di uno stranissimo incidente stradale, soccorso da una strana ambulanza e morto dissanguato dopo esser stato rifiutato da quattro diversi ospedali – esattamente come nella “Canzone di Renzo”, uscita postuma, in cui saranno gli stessi assassini a portare a spalle la bara. Pantani?  Ucciso al residence “Le Rose” di Rimini. Accanto al corpo, un biglietto: “Oggi le rose sono Rino Gaetanocontente, e la rosa rossa è la più contata”. A chi dava fastidio, Pantani? Al business del doping, che coinvolge potenti ambienti massonici: droghe prodotte nei laboratori di Big Pharma, testate sui ciclisti e poi immesse sul mercato (anche quello della guerra, destinate ai soldati).

E Rino Gaetano? Nel brano “Nuntereggae più” cita Vincenzo Cazzaniga, storico percettore dei fondi neri Usa indirizzati alla Dc, mentre nella canzone “Mio fratello è figlio unico” menziona “il rapido Taranto-Ancona”, che poi le indagini sugli anni di piombo avrebbero rivelato essere “il treno delle spie”, usato dai servizi deviati per trasportare gli esplosivi destinati alle stragi nelle piazze. Secondo Franceschetti, neppure Falcone e Borsellino sono sfuggiti al lugubre copione simbolico del “contrappasso”: riferendosi all’inferno della Divina Commedia, «la persona da eliminare morirà secondo la logica di far patire alla vittima il “peccato” che questa avrebbe commesso». Un classico: «Molti dei testimoni del disastro di Ustica, il Dc-9 dell’Itavia abbattuto, moriranno in un incidente aereo». Lo stesso Fabio Piselli, testimone dell’incendio della “Moby Prince”, è caricato su un’auto che poi viene incendiata: doveva quindi morire in un rogo, anche lui. Oppure il caso del perito Luciano Petrini: stava facendo una perizia sulla strana fine del colonnello Mario Ferraro, del Sismi, trovato impiccato all’asciugamani del bagno. Ebbene, Petrini morirà a colpi di portasciugamani».

La casistica esaminata da Franceschetti è davvero vasta. L’antropologa Cecilia Gatto Trocchi, che smascherava crimini di matrice esoterica, volò dal balcone: «Chi sale troppo in alto, viene gettato dall’alto». Le vie dei killer sono pressoché infinite: «Qualcuno può morire fulminato dalla corrente elettrica come il giovane contestatore siciliano Giuseppe Gatì, perché il fulmine simboleggia la folgore di Zeus che punisce la persona che ha osato troppo». E la chiave simbolica della spaventosa morte di Falcone e Borsellino, entrambi dilaniati dall’esplosivo? Tragicamente semplice: «Li hanno fatti letteralmente saltare in aria, perché quei due stavano per far saltare in aria il sistema parallelo che collega la mafia alla parte oscura del potere ufficiale». Falcone, innanzitutto, «doveva morire in Sicilia – e non a Roma, dove sarebbe stato più facile assassinarlo – perché proprio sull’isola si erano svolte le sue indagini: la regola del contrappasso esigeva quindi che morisse nella stessa terra ove aveva “peccato”». Inoltre, aggiunge Franceschetti, «doveva saltare in aria in modo eclatante, proprio perché voleva far saltare La strage di Capaciil sistema». Attenzione: «Falcone aveva capito che il fulcro del sistema criminale in Italia non è la mafia. E’ lo Stato. E sono le banche. Quindi doveva saltare in aria perché l’esplosione con cui muore fa da contrappasso all’esplosione che lui voleva assestare al “sistema”».

Non è casuale neppure la scelta del luogo dell’agguato: «Falcone è morto a Capaci, a simboleggiare che chiunque sia “capace”, deve morire». La cosa può suonare ridicola, ammette Franceschetti, ma suggerisce di riflettere sul fatto che «stiamo parlando di un’associazione che non lascia nulla al caso, neanche i nomi delle persone che vengono messe in determinate posizioni di vertice politico, finanziario, o amministrativo». C’è anche dell’altro, dietro al nome Capaci: la cittadina prese il nome dalla parola “pace” (Capaci, “cca-paci”) per siglare la fine di una leggendaria punizione, la reclusione sulla vicina Isola delle Femmine di 13 fanciulle. Scoppierà una “pace”, dopo “l’attentatone” costato la vita a Falcone e alla sua scorta? «Esatto: non a caso, come risulta dalla sentenza sulla strage di via dei Georgofili (che riuniva in un solo processo ben sette stragi, commesse a Firenze, Milano e Roma) e dalla sentenza sul Capitano Ultimo, dopo la strage di Capaci venne avviata la famosa trattativa tra Stato e mafia, di cui si fece portavoce il generale Mario Mori, per raggiungere, appunto, la pace». Probabilmente, aggiunge Franceschetti, la morte così eclatante di Falcone «segna anche, simbolicamente, uno spartiacque tra il vecchio metodo di eliminazione dei magistrati (ucciderli) e quello nuovo (delegittimarli). Non più attentati, quindi, ma le cosiddette “armi silenziose per una guerra tranquilla”».

La morte di Falcone simboleggia quindi una storica tregua? Fateci caso: dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, la mafia siciliana sembra quasi non esistere più: finiscono in carcere Riina e Provenzano, imprendibili per decenni, dopodiché cala il silenzio. «Addirittura, l’allora procuratore antimafia Pietro Grasso è andato al “Maurizio Costanzo Show” a declamare gli immensi successi dello Stato sulla mafia», ormai ridotta – secondo lui – al lumicino. Ricapitolando, il simbolismo della strage di Capaci è: auto, esplosione, Isola delle Femmine, Capaci. «Il probabile significato: Falcone voleva far saltare il sistema (esplosione), quindi dal cielo (auto) arriva la punizione che lo fa saltare in aria; dopodiché dovrà scendere la pace, tra lo Stato e la mafia (Capaci). Così muoiono le persone capaci di arrivare al cuore del sistema». Non è tutto: «A firmare la strage, ci sono due elementi: il gruppo di mafiosi si era posizionato sulla collina vicino Capaci; e la collina si chiama “Raffo Rosso“, ove raffo La strage di via D'Amelioin ebraico significa “Dio che guarisce”. RR, firma della Rosa Rossa». L’organizzazione di cui parla Franceschetti si ispirerebbe – in modo deformato e deviato – alla confraternita sapienziale inziatica dei Rosa+Croce? Eccola: «La moglie di uno degli agenti di scorta, la donna straziata che fece il famoso discorso ai funerali, si chiama Rosaria Costa: le iniziali, RC).

E Borsellino? «Fu ucciso nello stesso modo, anzitutto perché aveva seguito le orme dell’amico. Poi perché anche lui, col Memoriale Calcara, aveva avuto notizie che erano in grado di far saltare il sistema». Non mancano ulteriori indizi simbolici: «Credo che un aspetto della simbologia della sua morte vada trovata anche nella via dove avvenne l’esplosione, via Mariano D’Amelio: un politico che fece leggi sulla magistratura. Chiaro il messaggio: la magistratura deve essere azzerata». Dopo quelle orrende mattanze, «inizialmente sembrò che la magistratura acquistasse più poteri, e che lo Stato volesse realmente fare la guerra alla mafia». Nacque infatti lo strumento del 41 bis, il carcere duro per i mafiosi, e ci furono alcuni ritocchi al codice di procedura penale. «Ma poco dopo – aggiunge Franceschetti – arrivarono leggi che, di fatto, azzerarono il potere della magistratura riducendolo ad un formalismo vuoto, cosicché oggi l’80% dei reati cade in prescrizione, e per reati gravissimi vengono comminate pene ridicole». Sparì di fatto il reato di falso in bilancio, scomparve l’ergastolo per il reato di “attentato agli organi costituzionali”, si cercò di limitare le intercettazioni. Di fatto, dopo la morte di Borsellino, scattò «un’opera sistematica di demolizione dei poteri dei magistrati». Fantasie? Non esattamente, purtroppo.

FONTE: https://www.libreidee.org/2019/07/perche-falcone-e-borsellino-saltarono-in-aria-in-quel-modo/

 

 

 

ECONOMIA

Disastro sui prezzi: costi alla produzione mai così alti. In arrivo marea di chiusure

Novembre 29, 2021 posted by Leoniero Dertona

 

Oggi sono giunti i dati sui prezzi alla produzione per il sistema economico italiano, e i dati sono da disastro biblico. I prezzi alla produzione in Italia sono aumentati del 20,4 percento su base annua nell’ottobre del 2021, dal 13,6 percento del mese precedente e molto al di sopra delle previsioni di mercato di un aumento del 15 percento. È stata la lettura più alta mai registrata, accentutata dai bassi aumenti dei costi causati dalla pandemia nel periodo precedente. Su base mensile, i prezzi alla produzione sono aumentati del 7,1 percento, anche il più alto mai registrato, da un aumento dell’1,6 percento a settembre.

Un vero disastro perché accompagnato da un mercato al dettaglio che non ha una forza e una domanda tale da tollerare questo aumento di prezzi. L’inflazione al dettaglio è stata solo del 3%.

Dato che manda la domanda le aziende non possono scaricare l’aumento dei costi sui prezzi al consumo. Se lo fanno cala la domanda. Quindi possono solo ridurre i margini lodi, finché possono, e tagliare sui costi non essenziali. Quindi, quando non ci saranno più margini da tagliare, piuttosto che andare in perdita, le aziende chiuderanno. Se va bene sino alla riduzione dei costi, per qualche mese, soprattutto se la fonte dell’aumento dei costi è l’energia. Altrimenti, e molto più probabilmente, per sempre.

Certo una pare di questo enorme disastro, che se non coretto porterà dei anni produttivi e occupazionali a lungo termine, è dovuto a shock sul lato dei costi energetici, ma non dimentichiamo che una parte di questi costi è esplosa per la volontà, sbagliata e pericolosa, di far coincidere la transizione verde con la crisi del Covid-19, il tutto senza una vera e adeguata politica industriale e energetica. Se a Roma e Bruxelles si gioca con i “Piani quinquennali” sulla carta, qualcuno ne paga le conseguenze, a partire dai percettori di reddito fisso, gli operai e gli imprenditori.

Che si può fare? Un po’ di supply side economics (*), tagliando tutti i costi energetici impropri, almeno per un certo termine, le tasse al carbonio, anche a costo di denunciare temporaneamente i trattati. Altrimenti al verde ci resterà il nostro sistema produttivo, prima di morire.

FONTE: https://scenarieconomici.it/disastro-sui-prezzi-costi-alla-produzione-mai-cosi-alti-in-arrivo-marea-di-chiusure/

 * ECONOMIA DAL LATO DELLA DOMANDA – Nota redazione Dettiescritti

La disuguaglianza è una scelta politica

Il 7 dicembre scorso è stato rilasciato il World Inequality Report per il 2022un rapporto che traccia il quadro della disuguaglianza di reddito e ricchezza a livello internazionale. La situazione che emerge è quella di un mondo caratterizzato da diseguaglianze feroci, sia tra Paesi che all’interno dei Paesi. In altre parole, le disparità di reddito e ricchezza sono forti e persistenti sia tra Nord e Sud del mondo, sia tra individui all’interno di ciascuna economia nazionale. Niente di nuovo sotto il sole, purtroppo.

Partiamo da una prima fotografia globale, facendo tuttavia una preliminare distinzione. Con il termine ‘ricchezza’ intendiamo l’ammontare di risorse che, in un determinato momento, un soggetto possiede. Con il termine ‘reddito’ intendiamo invece l’ammontare di risorse che, in un preciso intervallo di tempo (generalmente, un anno), giunge nelle mani di un soggetto per effetto del proprio apporto al processo produttivo: un lavoratore, ad esempio, riceverà come reddito il salario derivante dal proprio lavoro; un capitalista riceverà il profitto derivante dalla propria attività d’impresa; il proprietario di un immobile locato percepirà come reddito i canoni di affitto dell’inquilino. Certo, seppur stiamo parlando di due concetti differenti, è facile immaginare che le due grandezze si parlino: un basso livello reddito non contribuirà ad accrescere in misura rilevante la ricchezza di un individuo (perché questi non potrà permettersi di risparmiare risorse in ammontare considerevole), e soprattutto non gli permetterà di godere nel presente di un buon tenore di vita, in quanto potrà permettersi un ammontare più basso di beni e servizi.

Bene, il report in questione analizza la disuguaglianza attraverso le lenti di entrambe le dimensioni appena introdotte: reddito e ricchezza. Se, tornando al rapporto (Figura 1), consideriamo la distribuzione dei redditi e della ricchezza su scala mondiale, scopriamo che la metà più povera dei cittadini del mondo (bottom 50% nella figura, in blu) arriva a raggranellare solo l’8% del reddito totale, e a possedere appena il 2% della ricchezza complessiva. Dalla parte opposta, il 10% più ricco (top 10% nella figura, in rosso) è oggi in grado di accaparrarsi il 52% del reddito mondiale, e addirittura possiede il 76% della ricchezza. Dati che fotografano una situazione di fortissima disuguaglianza.

Figura 1. Fonte: Global income (reddito) and wealth (ricchezza) inequality 2021.

A un livello di analisi più specifico, il documento indica che i livelli di disuguaglianza non sono gli stessi nelle diverse aree del mondo. L’Europa, per esempio, mostra ancora una distribuzione del reddito meno diseguale rispetto agli Stati Uniti e, soprattutto, rispetto alle aree più povere del pianeta, come il Medio Oriente (MENA), il Nord Africa e l’Africa Sub Sahariana (Figura 2). Nonostante la crisi che stiamo vivendo sulla nostra pelle, la situazione è molto peggiore in altre parti del mondo, e parte di questa tendenza è attribuibile alla sopravvivenza di qualche residuo di stato sociale e di tutela del lavoro che in altre parti del globo non sono mai esistite o sono completamente scomparse.

Figura 2. Distribuzione del reddito in varie aree del mondo. Fonte: ibid.

Tuttavia, la vicenda si fa ancora più interessante una volta che si sposta il focus sul livello nazionale delle disuguaglianze, e soprattutto sulle macrotendenze storiche che hanno caratterizzato la dinamica delle disuguaglianze di reddito e ricchezza in Italia.

Partiamo dal primo punto. Anche in questo campo, il Belpaese primeggia. Per quanto concerne la distribuzione del reddito, la metà più povera degli italiani riesce a racimolare appena il 20% del reddito prodotto, mentre il 10% più alto ne raccatta un cospicuo 32%. Passando alla distribuzione della ricchezza, la metà che sta in basso detiene una quota che non supera il 10%, mentre al top 10% è riconducibile il 48% della ricchezza complessiva. Quasi la metà! Senza contare che il top 1% (l’uno percento più ricco della popolazione) detiene il 18% della ricchezza nazionale.

Figura 3: distribuzione del reddito in Italia (1900/2020). Fonte: ibid.

Come è stato possibile? Questo è l’aspetto più interessante del rapporto, che consente di cogliere in una singola immagine la storia che ci ha condotto verso questa situazione drammatica. Nella Figura 3 è riportato l’andamento, in Italia, della quota di reddito riconducibile al 10% più ricco e al 50% più basso della distribuzione nel corso del secolo scorso e fino al 2020. Come si può osservare, fino agli anni ’70, l’andamento è decrescente per i redditi più alti e crescente per la metà più bassa della distribuzione, tanto che in questo decennio avviene un sorpasso, comunque non entusiasmante, con la quota riconducibile al 50% più basso dei redditi che supera quella del top 10%. Viceversa, dai primi anni ’80 questa tendenza convergente si inverte in maniera permanente e, dopo il contro-sorpasso, la distanza continua ad aumentare fino ai giorni nostri. In altri termini, fino agli anni ’70 la parte meno agiata della popolazione era riuscita ad accaparrarsi fette sempre più ampie del prodotto sociale, mentre dagli anni ’80 in poi i più ricchi hanno visto sempre più aumentare i loro redditi.

L’andamento della distribuzione della ricchezza va ancora peggio (Figura 4) e questo è bene sottolinearlo, anche in considerazione del fatto che l’Italia è uno dei primissimi Paesi al mondo per rapporto tra ricchezza privata e reddito nazionale. Tale indice è esploso dal 250% del 1970 al 650% del 2010 (oggi siamo intorno al 700%) e sta ad indicare che la distribuzione della ricchezza è particolarmente importante per valutare la distribuzione complessiva e dunque le disuguaglianze nel nostro Paese.

Figura 4: Distribuzione della ricchezza in Italia (1995-2021). Fonte: ibid.

Come si spiega questo andamento? Quali politiche si sono consolidate e rafforzate in particolare a partire dagli anni ’80? Il documento esaminato afferma che la disuguaglianza – e la sua crescita – è una precisa scelta politica e non è inevitabile. Non a caso, in Italia (e in molti altri Paesi a dire il vero) prende il via da quegli anni un preciso percorso di deregolamentazione del mercato del lavoro e di libera circolazione su scala mondiale di merci e capitali, un copioso processo di finanziarizzazione, un progressivo smantellamento dello stato sociale e una sostanziale riduzione dei diritti dei lavoratori. Tali strumenti hanno rappresentato un formidabile dispositivo per le classi dominanti per invertire la tendenza di convergenza nella distribuzione del reddito e della ricchezza, instaurando una nuova fase caratterizzata dalla crescente precarizzazione del lavoro e dall’indebolimento delle organizzazioni sindacali. Si tratta di deliberate scelte politiche che hanno contribuito a ridurre la quota del prodotto che va al lavoro, ossia la porzione di reddito che i salariati riescono a portare a casa nel conflitto distributivo, e, in tal modo, ad aumentare anche le disuguaglianze di reddito e di ricchezza: esiste infatti una precisa correlazione tra la quota di reddito che va ai percettori di profitto e quella che va alle fasce più agiate della popolazione (in altri termini, non lo scopriamo oggi che i capitalisti sono di norma più benestanti dei lavoratori). Risultato: alla riduzione della quota salari si è accompagnata la parallela crescita della quota profitti, che è stata il motore vero e proprio dell’esplosione delle disuguaglianze a livello internazionale. Questo ragionamento vale specialmente per l’Italia, unico paese tra quelli dell’OCSE, dove dal 1990 al 2020 dove si è registrata una diminuzione (-2,9%) dei salari reali.

Davanti a questo quadro a tinte fosche, che fare? Politiche di redistribuzione (come, ad esempio, aumentare la tassazione su redditi alti e grandi ricchezze per finanziare la fornitura di servizi pubblici ai meno benestanti) sono senz’altro necessarie, ma potrebbero rivelarsi non sufficienti alla luce delle mostruose disuguaglianze esistenti. Occorre, pertanto, intervenire sulla la distribuzione primaria dei redditi, ossia garantire ai lavoratori un salario reale più elevato. Solo in questo modo verrebbero sostanzialmente intaccati gli enormi margini di profitto e le rendite che hanno contribuito, negli ultimi 40 anni, a polarizzare la ricchezza nelle mani di pochi. Per concludere, il miglioramento delle condizioni di vita per le classi subalterne passa in primo luogo per un aumento dei salari, e, in secondo luogo per forme di redistribuzione ex-post (da sole però non sufficienti), ma soprattutto, specie in un’ottica di lungo periodo, per una trasformazione del sistema economico nella direzione di una pianificazione e di una trasformazione in senso collettivo della proprietà. L’esatto contrario di quanto sta accadendo sotto la gestione Draghi, alfiere di un Governo di impronta liberista che mira a privatizzare quel poco che resta dei servizi pubblici, a tagliare la spesa sociale e a promuovere una riforma fiscale i cui frutti più prelibati saranno raccolti dalle classi medio-alte.

FONTE: https://coniarerivolta.org/2021/12/13/la-disuguaglianza-e-una-scelta-politica/

 

 

Inflazione e dintorni

DI MARCO PALOMBI – ECONOMIA –  18 DICEMBRE 2021

In molti (non il sottoscritto) hanno augurato il ritorno all’inflazione, considerando che nessun imprenditore investe oggi nella produzione di qualcosa che domani vende ad un prezzo inferiore o quasi uguale a quello di oggi. La vision di un aumento del prezzo del prodotto al consumatore è considerato un incentivo alla produzione.

Questo era vero fino a qualche anno fa, quando le aziende avevano scorte di semilavorati e materie prime  (e non ragionavano in termini di just-in-time): il décalage temporale di produzione tra acquisizione materie e vendita, forniva un vantaggio di bilancio in termini numerici. Ma ora ha molto meno senso.
Il problema vero, infatti, è che questa inflazione è esogena, e deriva proprio dalla difficoltà di reperire semilavorati e materie prime (per non parlare delle politiche fiscali associate alla spinta verso il green, che penalizzano Paesi come il nostro, senza nucleare).
Intanto ci sono problemi di carattere logistico. Come ho già avuto modo di narrare, la Cina ha acquisito partecipazioni importanti in quasi tutte le compagnie di navigazione e di trasporto a livello mondiale, e, avendo aumentato di molto il traffico navale verso i propri porti, un semplice blocco di un giorno (con la scusa del Covid, ad esempio) di un suo porto, fa mettere in coda e perdere giorni a milioni di TEU.
Un’altra azione “ostile” è stata lo spegnimento dei sistemi elettronici automatici di tracciamento dei vascelli, che si interfacciavamo con le piattaforme logistiche dei porti di approdo, consentendo l’ottimizzazione dei tempi di carico, scarico, sgombro piazzale, traffico su ruota eccetera. Questo ha penalizzato la catena di approvvigionamento delle materie prime e semilavorate di tutto il mondo occidentale.
La conseguenza? Il costo medio di spedizione di un container di 40 piedi, da Shanghai a New York, che Nel 2019 sarebbe stato di 2.500 dollari, oggi è quasi 15.000 dollari, per le spedizioni pianificate con tempo, altrimenti oltre 20.000.
Altra conseguenza è la scarsità di prodotti grezzi e semilavorati sul mercato, che in alcuni settori ha fatto aumentare il costo degli stessi quasi del 50%.
Questo ha fatto aumentare lo sbilanciamento tra domanda e offerta di beni e servizi, tanto da portare l’inflazione al 6.8% su base annua (nov/nov).
Ora, questo tipo di inflazione esogena e da costo va a cozzare con le politiche monetarie espansive della BCE e della FED che rischiano di aumentare l’inflazione ed innescare una spirale simile a quella della fine degli anni 70 (successiva allo shock petrolifero) che ci ha coinvolto fino agli anni 80.
Il sistema Italia è in grado di assorbire tale inflazione?
Dipende dal punto di vista. Nel breve sicuramente sì, dato l’elevato livello di risparmio delle famiglie italiane, ma nel medio no: verrebbero meno le risorse necessarie a finanziare le spese correnti col debito, e quindi le politiche di sostegno alla popolazione.
Ecco che un problema economico diventa un problema politico.
Questa è la bilancia su cui peseremo Draghi.
(Fonti dei dati: the Economist; ufficio statistico del dipartimento lavoro degli Stati Uniti, rapporto PPI nov 2021; cbs news e altri)
FONTE: https://www.nuovogiornalenazionale.com/index.php/italia/economia/4783-inflazione-e-dintorni.html

 

 

 

GIUSTIZIA E NORME

Se lasci copia del tuo Green Pass in azienda, sai che fine fa? Te lo spieghiamo noi

Dal 21 novembre o meglio da lunedì 22, è possibile consegnare copia del Green Pass in Azienda. Analizziamo gli obblighi di conservazione a carico dei datori di lavoro.

Ennesima legge, o meglio dovremmo dire ennesimo testo di legge in conversione a un decreto – legge, quello sul Green Pass obbligatorio nei luoghi di lavoro, per accedervi. E nella conversione del testo, questa volta il Legislatore ha introdotto delle novità recependo degli emendamenti di semplificazione che si pongono in netto contrasto con quanto finora si era consolidato: i controlli all’ingresso.

Oggi, e lo capiamo leggendo l’articolato, sussiste infatti la possibilità per il lavoratore, di “richiedere di consegnare al proprio datore di lavoro copia della propria certificazione verde da Covid-19”.

Alcuni commenti a caldo sono doverosi. Si tratta di una mera facoltà, rimessa alla libera scelta del lavoratore (sia esso dipendente, collaboratore, consulente, ecc.). In realtà, ad un’attenta lettura, se da un lato è rimessa alla discrezionalità del lavoratore, i problemi che ne discendono non sono pochi.

Specie di carattere organizzativo; infatti, nel rimettere al singolo lavoratore tale opzione, si verrebbero a determinare tutta una serie di ulteriori adempimenti nella gestione in materia di Green Pass.

Andando in netta controtendenza rispetto a quanto finora è accaduto: controlli manuali o automatizzati del certificato verde, senza conservazione alcuna dei dati in esso contenuti.

Ma vediamo nel dettaglio alcune delle più rilevanti conseguenze.

Se da un lato, la consegna di copia del Green Pass semplificherebbe l’accesso riducendo i controlli, dall’altro implicherebbe tutta una serie di gravosi oneri a carico del datore di lavoro, specie con la lente del titolare del trattamento, il quale dovrebbe come minimo prevedere:

  • un aggiornamento dell’informativa dovendo indicare, come l’art. 13 del GDPR impone, se non il periodo di conservazione dei dati personali, quanto meno il criterio;
  • una modifica dei registri;
  • l’adozione di misure di sicurezza stringenti per la raccolta e la conservazione dei certificati relativi al Green Pass. In pratica, se e come conservarli (in formato cartaceo o elettronico); chi autorizzare al trattamento di tali dati; se, come e dove raccogliere tali dati personali, peraltro particolari (ex sensibili);
  • una valutazione di impatto sul processo di verifica dei green pass, visti i nuovi trattamenti emergenti a seguito della novità normativa.

Ma non è tutto qui.

Un vero problema resta di fondo: quale base giuridica supporta l’attività del trattamento?

Il consenso all’interno del contesto lavorativo non è una base giuridica adeguata e anzi è invalida per il difetto di libertà di prestazione dello stesso da parte del lavoratore, e richiederebbe – in casi eccezionali e specifici – la predisposizione di specifiche garanzie poste a tutela della libera prestazione dello stesso. Ma trattandosi di dati di categoria particolare il consenso deve essere esplicito e per l’effetto tale ipotesi diventa ancora meno perseguibile.

C’è chi arrischia l’art. 9.2 lett. e), ai sensi del quale si tratta di “dati personali resi manifestamente pubblici dall’interessato”. Ebbene, pur apprezzando il carpiato di interpretazione normativa, è bene precisare che la fattispecie non può ricorrere in quanto non si tratta di una diffusione del dato ma di una comunicazione, e soprattutto perché si andrebbe a giustificare mediante una ricostruzione formalistica quello che nella sostanza altro non è che un consenso invalido.

Nel caso in cui si voglia infine perseguire il tentativo di fondare la liceità sulla necessità per assolvere gli obblighi ed esercitare i diritti specifici del titolare del trattamento o dell’interessato in materia di diritto del lavoro e della sicurezza sociale e protezione sociale, o altrimenti per perseguire motivi di interesse pubblico rilevante sulla base del diritto dell’Unione o degli Stati membri, pur ricorrendo una legge nazionale mancano nel suo interno le misure di garanzia per la tutela dei diritti fondamentali e gli interessi dell’interessato. Non solo. È di chiara evidenza il contrasto con il Regolamento (UE) 2021/953 riguardante il rilascio, la verifica e l’accettazione di certificati interoperabili di vaccinazione, di test e di guarigione in relazione alla COVID-19, e nello specifico con il considerando n. 48 ai sensi del quale “Laddove il certificato venga utilizzato per scopi non medici, i dati personali ai quali viene effettuato l’accesso durante il processo di verifica non devono essere conservati, secondo le disposizioni del presente regolamento.”.

A ciò si aggiunga che già al palesarsi i soli emendamenti nel merito, l’Autorità Garante per la Protezione dei Dati, nella persona del Presidente Pasquale Stanzione, ebbe cura di segnalare al Parlamento, per tempo, le criticità che una condotta del genere avrebbero comportato in termini di privacy, peccato che sia stato del tutto disatteso, come abbiamo modo di apprezzare nell’articolato normativo. Restano anzi tutti i dubbi circa il fondamento di liceità, e si nota un assordante silenzio circa i criteri di conservazione, con tutti i problemi derivanti dalla creazione di tali database.

Le criticità individuate sono tali in quanto dalla non conformità al dettato normativo deriva un grave e diffuso problema di sicurezza. L’Authority aveva infatti anche ricordato che l’obbligo di adozione di misure tecniche e organizzative di sicurezza avrebbe comportato un “non trascurabile incremento degli oneri”, ma sul piano operativo ciò che più preoccupa sarà l’esito di una prevedibile e diffusa trascuratezza nella corretta adozione delle misure di sicurezza. Salvo poi – altrettanto prevedibilmente – trovarsi di nuovo di fronte a incidenti di sicurezza che comporteranno ulteriori diffusioni di database con tutte le implicazioni del caso.

Articolo scritto in collaborazione con Stefano Gazzella

FONTE: https://www.infosec.news/2021/11/24/news/riservatezza-dei-dati/se-lasci-copia-del-tuo-green-pass-in-azienda-sai-che-fine-fa-te-lo-spieghiamo-noi/

 

 

IMMIGRAZIONI

L’Europa beffa ancora l’Italia sui migranti: ecco come è stato riscritto Schengen

Nonostante Mario Draghi sembri (o debba) essere una figura centrale nello scacchiere geopolitico, con grande gioia del governo e dei partiti che hanno deciso di seguirlo in questa ‘avventura’, sul tema migranti per l’Italia non sembra essere cambiato granché. Nel discorso in Parlamento in vista del Consiglio europeo di oggi, il premier non ha illustrato grandi novità: l’Italia continuerà a chiedere una gestione condivisa, solidale, umana e sicura dei migranti, l’Europa deve dimostrarsi all’altezza dei propri valori, è essenziale promuovere i corridoi umanitari e non è sufficiente che sia solo l’Italia ad attuarli, serve una gestione condivisa dei rimpatri e via dicendo. I ritornelli che conosciamo.

Ma i numeri che lo stesso Draghi premier ha fornito ieri alle Camere rappresentato una realta molto diversa diversa: da luglio gli sbarchi mensili non sono mai scesi sotto quota 6.900, con un picco di oltre diecimila ad agosto, e al 14 dicembre le persone sbarcate quest’anno in Italia sono state 63.062, contro le 11.097 del 2019 e le 32.919 del 2020. E causa Covid, le ridistribuzioni tra Paesi europei dei migranti sono cessate. Il quadro peggiore è per l’Italia: a quanto pare, nemmeno il ‘salvifico’ Draghi sui migranti è riuscito a smuovere l’Europa. La riforma di Schengen appena proposta dalla Commissione, inoltre, peggiorerà la situazione: inserisce i movimenti secondari tra i motivi per cui uno Stato membro è autorizzato a reintrodurre i controlli alle frontiere interne. Clausola voluta da Macron, che ne ha fatto addirittura una delle priorità della sua presidenza Ue. E che rema contro i Paesi di primo approdo – come appunto l’Italia. Non solo non viene modificato il regolamento di Dublino (che impone all’Italia tutti gli oneri dell’accoglienza dei richiedenti asilo), non solo i meccanismi di redistribuzione dei migranti sono di fatto inutili ma ora si rischia addirittura la sospensione da Schengen. La risoluzione di maggioranza che impegna il governo “a riaffermare la centrale importanza di incentivare un maggiore impegno dell’Ue nella gestione migratoria” rischia di essere un altro tentativo a vuoto.

Il trattato di Schengen e la sua relativa sospensione nel 2015 per la crisi dei rifugiati siriani non ha mai toccato sei Paesi (tra i quali Germania e Francia) che non hanno mai sospeso i controlli alle frontiere. Adesso che l’Italia ha deciso di correre ai ripari per arginare i danni della variante Omicron (con quarantene e tamponi per chi arriva dagli altri Paesi U), la Commissione europea ha immediatamente chiesto a Draghi di “giustificarsi” …

FONTE: https://www.ilparagone.it/attualita/leuropa-beffa-ancora-litalia-sui-migranti-ecco-come-e-stato-riscritto-schengen/

I testimoni assolvono Salvini e lanciano accuse alle Ong

Guardia costiera e Guardia di finanza ammettono: “La Open Arms puntò l’Italia in maniera arbitraria”

 

 

 

LAVORO PENSIONI DIRITTI SOCIALI

Tridico lancia l’allarme sulle pensioni: “Il sistema non regge

Il presidente dell’Inps analizza anche le questioni relative al salario minimo ed al reddito di cittadinanza

Il numero degli italiani che lavorano e pagano le tasse sarebbe troppo esiguo: con una situazione del genere, secondo Pasquale Tridico, il sistema delle pensioni non è più sostenibile.

L’apparato previdenziale“non si può reggere su 23 milioni di lavoratori su una popolazione di 60 milioni”, dichiara il presidente dell’Inps nel corso di un’intervista concessa a “24 Mattino” su Radio 24“Nel nostro Paese mancano circa 10 milioni di lavoratori tra inattivi, scoraggiati, donne e giovani, che non lavorano”, prosegue Tridico.“Se li avessimo avremmo una sostenibilità del sistema pensionistico diverso”. Tra le cause principali di una situazione del genere, secondo il presidente dell’Inps, ci sarebbero sia la scarsa occupazione nel Mezzogiorno che l’elevato tasso di lavoro in nero che contraddistingue tutto lo Stivale. Il mercato del lavoro è attualmente caratterizzato da una trend positivo, ma al contempo risulta ancora troppo afflitto dalla precarietà. “Si contano circa 700 mila rapporti di lavoro in più rispetto al 2020 ma la nuova occupazione è trainata da lavoro a termine”, spiega infatti Tridico. “Quelli a tempo determinato sono circa la metà dei nuovi rapporti di lavoro. L’occupazione è trainata principalmente da precari”. Ciò nonostante, comunque, “si registra una forte crescita delle entrate contributive, pari a +7% rispetto all’anno scorso, segnale positivo per la ripresa dell’economia. Si è ancora sotto dell’1% rispetto alle entrate del 2019, ma chiuderemo il gap a fine 2021”. Il “decreto dignità”, sospeso durante la pandemia, dovrebbe riprendere la sua piena funzionalità, secondo il presidente dell’Inps, “altrimenti non ci dobbiamo lamentare quando diciamo che il lavoro è prevalentemente a termine”.

Salario minimo e RdC

Nessun passo indietro sulla questione relativa al salario minimo, assolutamente necessario, secondo Tridico:“Tutta la comunità scientifica, giuristi, economisti, concordano sul fatto che il binomio contrattazione sindacale – salario minimo è un binomio possibile, uno non esclude l’altro”. In Germania, dove il salario minimo è stato introdotto già nel 2015, si sta ora addirittura determinando un suo incremento fino a 12 euro, precisa il presidente dell’Inps durante l’intervista:“Il mercato e quindi la disoccupazione che preoccupa la parte datoriale, non è stata spiazzata da un salario che si pone al 60% del reddito mediano e al 50% del reddito medio”. E comunque “un salario minimo di 9 euro non avrebbe le caratteristiche di spiazzare il mercato e creare disoccupazione”. Una situazione che dal 1992 in poi non ha fatto altro che precipitare: “Se non siamo ipocriti e riconosciamo il fatto che dal 1992 i nostri salari sono stagnanti, questo lo si deve anche dal fatto che il dumping salariale ha fatto una pressione verso il basso. La contrattazione non è stata capace di trainarli verso l’alto, i guadagni di produttività non si sono distribuiti”.

Un accenno anche alla questione relativa al reddito di cittadinanza ed ai suoi percettori, proprio in un momento in cui la manovra è travolta da un mare di polemiche in ambito politico. “Il lavoro fatto dalla Commissione Saraceno cui anche l’Inps ha contribuito è stato un lavoro serio fatto sui dati e da persone competenti che se ne occupano da anni ma non è stato sufficientemente ascoltato”, lamenta Tridico.“Gli oltre tre milioni di persone che prendono il reddito sono persone non rappresentate che non hanno voce in capitolo”, aggiunge. “Basti pensare a quando c’è un ritardo nel pagamento del reddito di cittadinanza. È un problema che non interessa a nessuno. Quando, invece, un’altra prestazione è in ritardo o c’è qualche problema si scatena il putiferio anche da un punto di vista mediatico”, conclude il presidente dell’Inps.

FONTE: https://www.ilgiornale.it/news/economia/tridico-lancia-lallarme-sulle-pensioni-sistema-non-regge-1996654.html

Se trentacinquemila vi sembran tanti

Ad ascoltare le cronache, parrebbe che l’Italia sia diventata improvvisamente ed inaspettatamente la locomotiva d’Europa, la prima della classe, l’esempio da seguire. La Commissione europea ha addirittura rivisto al rialzo le stime della crescita del PIL, dal 5% al 6,2%. Si tratta tuttavia di una crescita di natura squisitamente aritmetica, in quanto figlia del tonfo di 10 punti registrato lo scorso anno. Per giunta, questa ripresa non è nemmeno in grado di riportare i livelli di attività alla situazione di fine 2019. Se non si ancora è recuperato ciò che si è perso vuol dire che le politiche macroeconomiche messe in campo sono state insufficienti, e, nonostante ciò, una nuova stretta di austerità è alle porte. Cattivi presagi, che diventano ancora più minacciosi se si guarda al mercato del lavoro.

Vi è infatti una domanda da porsi: quali sono gli effetti di tale crescita del PIL sul mercato del lavoro? L’occupazione sta aumentando? E se sì, come e quanto? Un’analisi del bollettino mensile dell’ISTAT “Occupati e disoccupati” fornisce interessanti spunti di riflessione che dovrebbero rappresentare un campanello d’allarme per un governo interessato alle sorti del mondo del lavoro, o quantomeno aprire gli occhi alle forze politiche intenzionate a migliorare la condizione di lavoratrici e lavoratori.

Come al solito, al fine di evitare facili entusiasmi, è bene procedere a una lettura di questi rapporti statistici con un minimo di attenzione. Leggendo Repubblica, infatti, saremmo tentati di tirare un bel respiro di sollievo al grido di “ad ottobre ben 35 mila occupati in più”. Tutto vero, ma oltre a queste cifre c’è di più. Infatti, se è vero che dall’ultimo trimestre del 2020 il numero di occupati è cresciuto, passando da 22,4 milioni a quasi 23 milioni nel terzo trimestre del 2021, è anche vero che il dato di 35 mila occupati in più, relativo alla variazione tra settembre e ottobre, rappresenta, come è evidente, una goccia nel mare di milioni di disoccupati. 

Tuttavia, fermarsi a questo livello di analisi non renderebbe giustizia alla situazione di difficoltà in cui l’economia e il mercato del lavoro italiani versano. Ad esempio, anche solo guardando la figura 1 del rapporto, salta all’occhio un’evidenza spaventosa: ad ottobre del 2021, il numero di occupati totali (22 milioni e 900 mila) è ben lontano da quello di fine 2019 (23 milioni e 200 mila circa). Inoltre, il rallentamento registrato nell’ultimo semestre lascia ben intendere che il distacco rimarrà pressoché tale per il resto dell’anno: dopo due anni, dunque, si contano circa 300 mila occupati in meno. Per trovare un così basso numero di persone occupate bisogna ritornare indietro addirittura al primo trimestre mese del 2017, più di quattro anni fa. Se è vero, come è vero, che sin dai primi mesi della crisi pandemica le lancette del mercato del lavoro sono tornate indietro di più di quattro anni – il numero di occupati nel giugno del 2020, infatti, era pari a quello di gennaio 2016 (circa 22, 4 milioni) – è altrettanto vero che il recupero che si è verificato dopo non è stato affatto sufficiente. A distanza di un anno e mezzo dallo scoppio della pandemia, infatti, la quota 23,2 milioni registrata a inizio 2020 è ancora lontana. La situazione appare ancora più critica se facciamo un ulteriore passo indietro. Se è vero che la pandemia ha assestato un colpo drammatico all’occupazione, è anche vero che una caduta del numero di occupati inizia ben prima: il numero più alto di occupati registrato negli ultimi anni, infatti, è quello del secondo trimestre del 2019 (23 milioni e 400 mila), ben 200 mila in più dell’inizio del 2020 e ben mezzo milione in più dell’ultimo dato disponibile: altro che locomotiva d’Europa.

Se, dunque, rispetto ai periodi più cupi della crisi abbiamo assistito ad una ripresa dell’occupazione, questa è stata lenta e discontinua. Non solo, è stata anche una crescita di pessima qualità, fondata sul precariato e che ha riguardato quasi esclusivamente gli uomini. Nell’ultimo anno, infatti, il numero assoluto di occupati è aumentato dell’1,7%. Di questi 390 mila occupati in più, tuttavia, ben 271 mila sono stati uomini e solo 119 mila le donne. Una differenza abissale che diventa ancora più evidente se si guarda alla variazione verificatasi tra settembre e ottobre del 2021, quando il numero di occupati è aumentato solo dello 0,2% e ha riguardato esclusivamente gli uomini. A fronte di 35 mila nuovi occupati maschi, infatti, nemmeno una è stata donna.

Ma questi pochi fortunati, godranno almeno di un contratto stabile? Nemmeno per sogno. Nell’ultimo mese, tra i nuovi 44 mila dipendenti, quasi la metà (ben 20 mila) hanno sottoscritto un contratto a tempo determinato. Si tratta dunque di nuovi precari. Se inoltre continuiamo a guardare il fenomeno su un lasso di tempo più lungo il quadro non solo non migliora, ma addirittura peggiora. Rispetto all’ottobre del 2020, infatti, alla cifra di 390 mila nuovi occupati si arriva considerando la riduzione di 132 mila lavoratori indipendenti e l’aumento di 520 mila dipendenti. Di quest’ultimi, ben 384mila sono dipendenti a tempo determinato (con un aumento del 14,3% rispetto agli occupati a tempo determinato dell’anno precedente) e solo 137 mila sono lavoratori con contratti regolari.

Quello che questi dati ci dicono dunque è che non solo la crescita del reddito e dell’occupazione si è finora rivelata molto parziale e insufficiente ma che, influenzata dalle nefaste politiche di deregolamentazione che hanno interessato il mercato del lavoro negli ultimi decenni, essa ha continuato a penalizzare le fasce meno tutelate dei lavoratori e sta determinando un nuovo drammatico aumento della precarietà, arma potentissima in mano ai datori di lavoro per gestire facilmente una fase turbolenta come questa, garantendosi produzione e profitti e scaricando tutte le difficoltà sui lavoratori.

Una tendenza, questa, che il Governo in carica non sembra essere neanche minimamente intenzionato a invertire, impegnato com’è a portare avanti quelle riforme che sono la contropartita di quei fondi “generosamente” offerti dall’Unione europea per il piano di ripresa. Riforme che, come ci hanno insegnato decenni di applicazione delle ricette richieste dalle istituzioni europee e dai principali organismi finanziari internazionali, hanno una sola finalità: quella di rendere la vita più facile agli imprenditori a scapito dei lavoratori, condannati a un futuro di sfruttamento e precarietà.

FONTE: https://coniarerivolta.org/2021/12/08/se-trentacinquemila-vi-sembran-tanti/

 

 

Storie di caporalato digitale: eterni stagisti

Il mondo di incertezza che rende impossibile l’indipendenza economica

Nel mese delle speranze natalizie e buoni propositi per l’anno nuovo proseguono le storie di caporalato digitale, stavolta con il racconto degli eterni stagisti. Al di là di offerte di lavoro fin troppo vaghe nella richiesta di competenze, c’è un mondo di incertezza con l’offerta di continui stage che alimenta l’eterno precariato cui sono condannati la maggior parte delle nuove leve del Paese. E nel mondo digitale questo fattore di facile ricambio e frequente è un elemento tanto comune da essere sdoganato con un semplicistico “funziona così”.

Certo, c’è chi fece roboanti annunci che proclamavano la restituzione della dignità ai lavoratori per decreto. Illusionismo politico, che ben pensava che con una riduzione dei contratti a termine ad un massimo di 24 mesi anziché 36 si potesse creare una speranza per i newcomers. La realtà, però, è più dura di qualsiasi propaganda e per quanto possa essere negata o distorta, semplicemente continua ad esistere e produrre i propri effetti.

Chi sono gli eterni stagisti del digitale? Nient’altro che gli schiavi delle moderne piramidi di società o studi di consulenza, sviluppo o progettazione ad esempio. Al di fuori dell’interesse dei sindacati o del facile voto di scambio proveniente dalla gran parte dell’attuale offerta politica.

Sul lato della retribuzione, l’eterno stagista è tenuto su quella fascia di reddito che rende impossibile un’indipendenza economica, e spesso fra le domande di colloquio viene anche chiesta la sua situazione abitativa. Insomma: se è o può essere ancora a carico dei genitori, o se ha una convivenza in atto. E a quanto dicono i professi esperti HR su LinkedIn, in Italia sembra addirittura un errore fatale per il colloquio chiedere prima a quanto ammonti la retribuzione. Mi viene riferito che altrove vi sia invece l’uso di pubblicare un range di RAL onde evitare che tanto il recruiter quanto il candidato perdano tempo, ma forse è qualcosa di ben lungi dalla tradizione di padronato nostrana.

Nel nome di una visione distorta arriva anche l’ausilio di una narrazione trendy: non si parla di abitare precariamente, ma diesperienze di co-living. Insomma: quando non ci si può permettere da soli una casa e si deve optare per il coabitare con degli sconosciuti oggi non è più un problema di precariato, bensì raccontato addirittura come un’esperienza.

Ulteriore problema è il tempo. Gli stage cessano, e il personale viene ricambiato con estrema frequenza. Non si provvede alla formazione dal momento che spesso si tende a pretendere già all’accesso competenze ben superiori rispetto all’offerta formulata. Con gran perdita di tempo per il lavoratore che – pur di non essere additato come choosy dal boomerone di turno – accetta condizioni e poi si ritrova a contemplare il termine del proprio periodo di stage, cessare, dunque cercarne un altro. E beninteso: sia mai che venga riconosciuto finalmente che abbia qualche esperienza. Ad ogni assunzione sarà sempre un dover ricominciare da zero.

FONTE: https://www.infosec.news/2021/12/14/news/risorse-umane/storie-di-caporalato-digitale-eterni-stagisti/

 

 

 

PANORAMA INTERNAZIONALE

Nuovo scossone in Vaticano. Lascia Turkson, uomo chiave della riforma

17/12/2021

Il cardinale ghanese ha guidato il dicastero-chiave, quello dello sviluppo umano integrale, ma concluderà l’incarico il 31 dicembre

Come Big Pharma finanzia e forgia la politica Usa

Le Case farmaceutiche Usa, tra cui le aziende produttrici di vaccini, sono entrate a gamba tesa nelle elezioni presidenziali americane del 2020, con lauti finanziamenti ad alcuni candidati, in particolare democratici.

A rivelarlo è The Intercept, che spiega come tale forma di lobbismo sia sempre esistita in America – da noi si chiamerebbero tangenti ma là va così -, ma era sempre stata limitata a donazioni tramite i Pac (Political action comitee) che hanno l’obbligo di renderle pubbliche.

Nelle ultime elezioni, invece, sono fluite attraverso i gruppi “dark money”, che drenano denaro privato per conto di partiti e candidati nel più assoluto anonimato. È quanto emerge dalle “ultime dichiarazioni fiscali della Biotechnology Innovation Organization (BIO), che fa opera di lobbyng per conto di Moderna, Pfizer, Johnson & Johnson e altre importanti aziende biotecnologiche coinvolte nell’attività di trattamento del virus Covid-19″.

“BIO – dettaglia The Intercept – è da lungo tempo l’organismo con cui l’industria biotecnologica influenza Capitol Hill e più recentemente è diventata il volto pubblico dell’industria dei vaccini durante la crisi di Covid-19”.

The Intercept, spiega che non è possibile sapere quanto tali aziende abbiano dato in tasca ai politici Usa, ma si sa per certo che Pfizer, Moderna e Johnson & Johnson hanno elargito pecunia, dato che a dichiararlo sono state le stesse aziende (senza specificare però le cifre).

“BIO ha dato $ 500.000 a Majority Forward, un’organizzazione senza scopo di lucro che lavora per eleggere i Democratici del Senato e ha donato $ 250.000 all’American Bridge 21st Century, un sito Web di fact checking di ambito democratico”.

Il Center Forward, che si è opposto decisamente alla campagna per ridurre i prezzi dei vaccini, ha ricevuto $ 35.000 da BIO. Diversi politici giubilati dalle donazioni si sono opposti alle proposte per liberalizzare la proprietà intellettuale dei vaccini, che toglierebbe alle attuali Case farmaceutiche il monopolio della produzione e ne minerebbe la gestione della pandemia…

Non si tratta di noccioline: BIO, che è appunto l’interfaccia tra Big Pharma e i politici Usa, riceve donazioni annuali e non, e lo scorso anno ha raccolto 77 milioni di dollari che ha usato per questo lucroso lavorio sulla politica, che evidentemente gli assicura benefici molto più lucrosi.

“Negli ultimi due anni – prosegue The Intercept –  BIO ha plasmato e difeso le politiche sui vaccini in favore delle aziende. L’organizzazione gestisce COVIDVaccineFacts.org [organismo al quale si abbeverano tanti media ndr.] e si è ferocemente opposta [con successo ndr.] a proposte politiche volte a limitare il potenziale di profitti dalle vendite di vaccini e a limitare i prezzi dei farmaci”.

“Le pubblicazioni mostrano che nei primi mesi della diffusione di Covid-19 negli Stati Uniti, i lobbisti di BIO si sono mossi per plasmare un’ampia gamma di questioni relative allo sviluppo del vaccino, ai prezzi, alla responsabilità legale e alla trasparenza. Il gruppo ha esercitato pressioni su tutte le misure di stanziamento volte a finanziare la ricerca e la produzione di vaccini e terapie usate per curare il Covid-19″.

“Il successo del vaccino è stato una manna finanziaria senza precedenti per i produttori di vaccini”. Conclude The Intercept. “Un recente rapporto della People’s Vaccine Alliance, un gruppo che favorisce la creazione di un vaccino generico, ha scoperto che Pfizer, BioNTech e Moderna stanno guadagnando profitti combinati di $ 65.000 ogni minuto. La sola Pfizer ricaverà $ 33,5 miliardi dal suo vaccino quest’anno, rendendolo uno dei prodotti farmaceutici più venduti mai prodotti”.

The Intercept non va più in là, essendo un media alquanto severo con i cosiddetti no-vax, ma è più che plausibile che BIO abbia contribuito non poco a forgiare la leggenda nera dei no-vax, che schiaccia chiunque abbia un ragionevole dubbio sulla gestione della pandemia e ponga domande altrettanto ragionevoli sulla campagna di vaccinazione (e altro) su posizioni non solo non accettabili dal sistema, ma anche irricevibili.

Si dimenticava: ovviamente BIO non è attiva solo in tempi di elezioni, dispiegando la sua funzione di influenza in maniera diuturna e “aggressiva”, per usare un aggettivo adoperato da The Intercept.

FONTE: https://piccolenote.ilgiornale.it/53896/come-big-pharma-finanzia-e-forgia-la-politica-usa

 

 

 

IL VERTICE PER LA “DEMOCRAZIA”

Europei e statunitensi non hanno “valori comuni”

Il summit virtuale per la democrazia organizzato da Washington è un gigantesco malinteso. Molti commentatori hanno rilevato come lo scopo non sia promuovere un regime politico, ma consolidare l’alleanza militare al seguito degli Stati Uniti; un mutamento foriero di nuove guerre. Thierry Meyssan dimostra che, lungi dall’essere ipocrita, Washington è stata viceversa molto chiara sugli obiettivi. L’errore è dei partner, che fingono d’ignorare che le parole usate da Biden non hanno per lui lo stesso significato che per loro.

Realizzata dallo scultore Auguste Bartholdi, dall’architetto Eugène Viollet-le-Duc e dall’ingegnere Gustave Eiffel, la Statua della Libertà che illumina il mondo fu donata al popolo degli Stati Uniti dal popolo francese nella ricorrenza del centesimo anniversario dell’indipendenza. Ma francesi e statunitensi non hanno affatto lo stesso concetto di libertà.

Il 9 e 10 dicembre 2021 il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha organizzato un summit virtuale per la democrazia [1]. Non è sfuggito ad alcuno che l’obiettivo fosse non solo migliorare le democrazie, ma soprattutto bipartire il mondo: da una parte le «democrazie», che vanno sostenute, dall’altra «i regimi autoritari», che devono essere combattuti. I primi Paesi sotto tiro, Russia e Cina, hanno immediatamente chiamato in causa l’ipocrisia di Washington, nonché esposto la propria concezione di democrazia [2].

Non vogliamo riassumere le critiche russa e cinese, ma esaminare, da un punto di vista occidentale, la credibilità della pretesta statunitense di essere il «faro della democrazia»; o, in termini biblici, la «luce che brilla sulla collina». Il concetto russo di democrazia è identico a quello degli altri Stati dell’Europa continentale. Quello della Cina è molto diverso, ma qui non lo analizzeremo.

È nostra intenzione dimostrare che, nonostante la propaganda della NATO, non ci sono «valori comuni» tra Stati Uniti ed Europa continentale. Si tratta di culture fondamentalmente diverse, sebbene le élite dell’Unione Europea non siano più culturalmente europee, ma ampiamente “americanizzate”.

Gli Stati Uniti hanno organizzato il vertice per la democrazia aperto non a tutti gli Stati, bensì solo agli alleati obbedienti.

OSSERVAZIONI SULLA FORMA

Innanzitutto, se lo scopo era «perfezionare le attuali democrazie», il summit non avrebbe dovuto essere presieduto dalla Casa Bianca, ma dalle Nazioni Unite. La partecipazione avrebbe dovuto essere consentita a tutte le nazioni, anche a quelle che manifestamente non sono democrazie, ma che cercano di diventarlo.

Secondariamente, se gli Stati Uniti fossero davvero «faro della democrazia» non avrebbero presieduto il vertice, distribuendo buoni e cattivi voti, ma vi avrebbero partecipato su un piano di perfetta uguaglianza con gli altri.

Questo vertice è stato invece, anche nella forma, una manifestazione dell’“eccezionalismo americano” [3], ossia della convinzione religiosa che gli Stati Uniti sono una potenza a parte, «uguale a nessun’altra», «benedetta da Dio perché illumini il mondo».

ENORMI FRAINTENDIMENTI

I Diritti dell’Uomo di Thomas Paine, segretario agli Esteri del Congresso durante la Guerra d’America (1776): una risposta agli attacchi di Edmund Burke alla Rivoluzione francese.

All’inizio del vertice, il presidente Biden ha riconosciuto che nessun Paese è veramente democratico; che la democrazia è un ideale cui tendere. Ha affermato che tutti possiamo vedere come nella realtà ci siano arretramenti, quali l’attacco al Campidoglio del 6 gennaio 2021, imputabili probabilmente all’ingresso di una nuova generazione. E che quindi bisognava rimettersi al lavoro di buona lena per riassorbire questi «arretramenti della democrazia». Ebbene, questo bel discorso permette innanzitutto di dare un’impressione di consenso e così evitare di chiarire i termini del dibattito.

Tutti concordano che il presidente Abraham Lincoln ha dato un’eccellente definizione di democrazia: «Il governo del popolo, dal popolo, per il popolo». Lincoln però non ha mai avuto intenzione di riconoscere la “sovranità popolare”. Gli Stati Uniti non hanno mai fatto il benché minimo sforzo verso questo ideale. L’azione politica di Lincoln è consistita innanzitutto nel promuovere il diritto di fissare i dazi (causa della guerra di Secessione) come pertinenza esclusiva del presidente federale, poi l’abolizione della schiavitù (mezzo per vincere la guerra). Per questa ragione nella cultura statunitense oggi la parola “democrazia” viene intesa esclusivamente nel senso di “uguaglianza politica”. Così come l’espressione “diritti civili” non designa affatto i “diritti dei cittadini” in sé, ma l’assenza di discriminazione razziale nell’accesso a questi diritti. Espressione che oggi si applica per estensione alle discriminazioni nei confronti di tutte le minoranze.

Un malinteso che ha una lunga storia. Il giornalista Thomas Paine, il cui pamphlet Senso comune, 1776, causò la guerra d’Indipendenza degli Stati Uniti, si entusiasmò per la Rivoluzione francese. Scrisse un violento pamphlet per spiegare la differenza tra le inconciliabili concezioni di Stati Uniti, Regno Unito e Francia dei diritti dell’uomo (I diritti dell’uomo, 1792). Fu l’opera più letta in Francia durante la Rivoluzione. Gli valse la cittadinanza onoraria francese e l’elezione alla Convenzione. Per gli anglosassoni, l’espressione “diritti dell’uomo”, significa diritto delle persone a non subire la Ragione di Stato e, per estensione, ogni forma di violenza dello Stato. La Francia invece ha adottato la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, che fa di ogni cittadino un protagonista della vita politica nazionale e, di conseguenza, lo protegge dagli abusi del potere.

Quando parliamo di “democrazia”, nonché di “diritti dell’uomo”, non intendiamo tutti la stessa cosa.

La definizione di “libertà di espressione” degli Stati Uniti è, riconosciamolo, superiore alla nostra: deve essere totale per consentire alle idee di esprimersi affinché dal dibattito emerga la migliore. Nei Paesi latini invece non si riconosce libertà di espressione ai vinti. Si criminalizza l’espressione delle idee soggiacenti al razzismo nazista. E dal 1990 si vieta per estensione anche la manifestazione di tutte le idee naziste condannate dal processo di Norimberga. Passo dopo passo si è arrivati al divieto odierno non solo di uccidere in massa i nemici usando le camere a gas come gli Einsatzgruppen delle SS, ma anche di contestare che questo sia stato il mezzo utilizzato in alcuni campi di concentramento.

Anche la libertà di religione è un tema sul quale ci si scontra. Gli Stati Uniti la ritengono un valore assoluto e non riconoscono il diritto di rifiutare qualsiasi religione. Gli europei invece parlano di libertà di coscienza, inclusa ogni forma di spiritualità, anche l’ateismo. Si tratta di una differenza dalle enormi conseguenze pratiche: alcuni Paesi non europei continentali riconoscono diritti individuali solo attraverso l’appartenenza a una comunità confessionale. Gli Stati Uniti, fondati da una setta puritana, sono diventati il paradiso delle sette. Di fatto, un adepto non può ribellarsi alla propria Chiesa che lo manipoli o abusi di lui. In Europa invece ci sono mezzi legali per combattere gli abusi di autorità commessi in contesto religioso.

Si noti bene che la diversa concezione dei diritti dell’uomo implica un corollario. Negli Stati Uniti, in ragione dell’esperienza della dittatura britannica di re Giorgio III e della Costituzione Usa, che istituisce una monarchia senza re né nobiltà, il Popolo deve poter disporre di una forza armata per difendersi da possibili abusi del Potere. Per questa ragione il commercio delle armi da guerra negli Stati Uniti è libero, mentre è considerato sedizioso in Europa continentale.

L’imperatore Biden tiene lezione di “democrazia” e di “diritti dell’uomo” ai vassalli.

OSSERVAZIONI SULLA SOSTANZA

Veniamo al cuore della questione. Pur ammettendo di essere imperfetti, gli Stati Uniti pretendono essere il “faro della democrazia”. Ma sono davvero una democrazia?

Se intendiamo democrazia nel senso statunitense di “uguaglianza politica”, non si può non constatare che non è affatto così. Esistono enormi disparità politiche, soprattutto fra Bianchi e Neri, che la stampa non manca di rilevare. Il presidente Biden ha intrapreso un immenso cantiere. Abbiamo già spiegato che il suo modo di affrontare il problema, invece che risolverlo, non fa che aggravarlo [4].

Se intendiamo democrazia nel significato che assume altrove di “sovranità popolare”, non si può non riconoscere che la Costituzione degli Stati Uniti non è assolutamente democratica, nonché che gli Stati Uniti non sono mai stati una democrazia. La Costituzione accorda infatti sovranità ai governatori degli Stati federali e unicamente a loro. Elezioni a suffragio universale possono esistere a livello di Stati federati, ma sono facoltative sul piano federale. Ricordiamo tutti l’elezione del presidente George W. Bush nel 2000: la Corte suprema degli Stati Uniti giustificò il rifiuto di ricontare le schede in Florida perché la volontà degli elettori della Florida non contava, dal momento che il governatore di quello Stato (fratello del sedicente vincitore) aveva deciso.

Ricordiamo inoltre che negli Stati Uniti i partiti politici non sono associazioni di cittadini come in Russia, bensì istituzioni degli Stati federati, com’era il partito unico in Unione Sovietica. Infatti le elezioni primarie per selezionare il candidato di un partito non sono organizzate dai partiti politici, ma dagli Stati federati, che le finanziano.

Acquisito che gli Stati Uniti non sono una democrazia nel senso corrente del termine, ma un’oligarchia, nonché che la loro lotta si limita ai “diritti civili”, è naturale che all’estero combattano la sovranità popolare attraverso colpi di Stato, “rivoluzioni colorate” e guerre. I loro valori sono perciò diametralmente opposti a quelli degli europei continentali, Russia compresa.

La posizione statunitense ha tuttavia una conseguenza positiva. Lottare per i diritti civili presuppone lottare contro certe forme di corruzione. Washington ritiene del tutto normale versare in segreto compensi a politici stranieri e finanziarne le campagne elettorali. Con la coscienza a posto, il dipartimento di Stato stila liste di esponenti stranieri da sostenere e non capisce come questi leader possano essere considerati corrotti nei loro Paesi. Viceversa, gli Stati Uniti combattono la cleptocrazia, ossia la sottrazione di denaro pubblico da parte dei dirigenti stranieri (ma non da parte dei dirigenti USA, dispensati in virtù dell’“eccezionalismo americano”). In questo modo aiutano talvolta la “democrazia” intesa in senso europeo continentale.

NOTE

[1«Allocution d’ouverture de Joe Biden au Sommet pour la démocratie», par Joseph R. Biden Jr., Réseau Voltaire, 9 décembre 2021.

[3L’ONU fatto a pezzi dall’“eccezionalismo” statunitense”, di Thierry Meyssan, Traduzione Rachele Marmetti, Rete Voltaire, 2 aprile 2019. Per approfondire si leggano gli Atti del colloquio organizzato dal Carr Center for Human Rights Policy: American Exceptionalism and Human Rights, Michael Ignatieff, Princeton University Press (2005).

[4Joe Biden reinventa il razzismo”, di Thierry Meyssan, Traduzione Rachele Marmetti, Rete Voltaire, 11 maggio 2021.

FONTE: https://www.voltairenet.org/article215070.html

 

 

 

La pace russa è un diktat. La Nato: “Non ci ritiriamo”

Mosca propone agli Usa un’intesa che vieta aiuti ai Paesi dell’Est. Ipotesi di summit Biden-Putin

 

 

 

SCIENZE TECNOLOGIE

Il Lancet smentisce la leggenda dell’”Epidemia dei non vaccinati”

Dicembre 15, 2021 posted by Guido da Landriano

 

Uno dei miti più duraturi nei Mass Media è che quella in corso sia “L’epidemia dei non vaccinati”, che siano questi soggetti a diffondere il contagio. Negli Stati Uniti e in Germania, funzionari di alto livello hanno usato questo termine, suggerendo che le persone che sono state vaccinate non siano rilevanti nell’epidemiologia di COVID-19. L’uso di questa frase da parte dei funzionari potrebbe aver incoraggiato uno scienziato a sostenere che “i non vaccinati minacciano i vaccinati per il COVID-19”. Ma questa visione è troppo semplice.

Vi sono prove sempre maggiori che gli individui vaccinati continuano ad avere un ruolo rilevante nella trasmissione. In Massachusetts, USA, sono stati rilevati un totale di 469 nuovi casi di COVID-19 durante vari eventi nel luglio 2021 e 346 (74%) di questi casi riguardavano persone completamente o parzialmente vaccinate, di cui 274 (79%) erano sintomatici. I valori di soglia del ciclo erano similmente bassi tra le persone che erano completamente vaccinate (mediana 22,8) e le persone che non erano vaccinate, non completamente vaccinate o il cui stato vaccinale era sconosciuto (mediana 21,5), indicando un’elevata carica virale anche tra le persone che erano completamente vaccinati.

Negli Stati Uniti, entro il 30 aprile 2021 sono stati segnalati un totale di 10 262 casi di COVID-19 in persone vaccinate, di cui 2725 (26,6%) erano asintomatici, 995 (9,7%) sono stati ricoverati e 160 (1 ·6%) sono morto.

In Germania, il 55,4% dei casi sintomatici di COVID-19 in pazienti di età pari o superiore a 60 anni riguardava individui completamente vaccinati e questa percentuale aumenta ogni settimana. A Münster, in Germania, si sono verificati nuovi casi di COVID-19 in almeno 85 (22%) delle 380 persone completamente vaccinate o guarite dal COVID-19 e che frequentavano una discoteca.

Le persone vaccinate hanno un minor rischio di malattie gravi ma sono ancora una parte rilevante della pandemia. È quindi sbagliato e pericoloso parlare di pandemia dei non vaccinati. Storicamente, sia gli Stati Uniti che la Germania hanno generato esperienze negative stigmatizzando parti della popolazione per il colore della pelle o la religione. Invito i funzionari di alto livello e gli scienziati a fermare la stigmatizzazione inappropriata delle persone non vaccinate, che includono i nostri pazienti, colleghi e altri concittadini, e a fare uno sforzo maggiore per riunire la società.

Una ricerca del Prof Gunter Kampf (uno con oltre 320 articoli scientifici all’attivo…) in un paper apparso su Lancet  afferma quanto segue:

Dati recenti, tuttavia, indicano che la rilevanza epidemiologica degli individui vaccinati contro il COVID-19 è in aumento. Nel Regno Unito è stato descritto che i tassi di attacco secondario tra i contatti familiari esposti a casi indice completamente vaccinati erano simili ai contatti familiari esposti a casi indice non vaccinati (25% per i vaccinati vs 23% per i non vaccinati). 12 di 31 infezioni in contatti familiari completamente vaccinati (39%) sono derivate da casi indice collegati all’epidemiologia completamente vaccinati. La carica virale di picco non differiva dallo stato di vaccinazione o dal tipo di variante . In Germania, il tasso di casi sintomatici di COVID-19 tra i completamente vaccinati (“infezioni rivoluzionarie”) è segnalato settimanalmente dal 21 luglio 2021 ed era del 16,9% a quel tempo tra i pazienti di età pari o superiore a 60 anni [2]. Questa proporzione sta aumentando di settimana in settimana ed era del 58,9% il 27 ottobre 2021 (Figura 1), fornendo una chiara evidenza della crescente rilevanza dei soggetti completamente vaccinati come possibile fonte di trasmissione. Una situazione simile è stata descritta per il Regno Unito. Tra la settimana 39 e la 42, sono stati segnalati un totale di 100.160 casi di COVID-19 tra i cittadini di età pari o superiore a 60 anni. 89.821 si sono verificati tra i completamente vaccinati (89,7%), 3.395 tra i non vaccinati (3,4%) . Una settimana prima, il tasso di casi COVID-19 per 100.000 era più alto nel sottogruppo dei vaccinati rispetto al sottogruppo dei non vaccinati in tutte le classi di età.

Ecco un grafico esplicativo

Qualcuno parlerà ancora di “Epidemia dei non vaccinati”?

FONTE: https://scenarieconomici.it/il-lancet-smentisce-la-leggeda-dellepidemia-dei-non-vaccinati/

 

 

La tentazione è ridurre la durata del green pass. Ma c’è l’ostacolo Ue

17/12/2021

La curva cresce ancora, toccato il record di contagi nel 2021. Salgono i ricoveri under20, 55 casi Omicron. Salgono a 7 da lunedì le aree in zona gialla

AM POOL VIA GETTY IMAGES
ROME, ITALY – NOVEMBER 24: Italian Prime Minister Mario Draghi and Italian Minister of Health Roberto Speranza attend a press conference about new Covid-19 health pass rules, at Palazzo Chigi, on November 24, 2021 in Rome, Italy. Today the Italian government introduced a “Super Green Pass” system that will exclude people who are not vaccinated for COVID-19 from many activities. (Photo by AM POOL/Getty Images)

Sarà un Natale in giallo per gli abitanti di cinque regioni e due province autonome. Mentre la curva del contagio sale ancora, con oltre 28mila casi nelle ultime 24 ore – come dato assoluto il più alto del 2021 – il ministro Roberto Speranza ha firmato un’ordinanza per il cambio di colore di Marche, Liguria, Veneto e provincia autonoma di Trento. Queste zone si aggiungono alla lista delle aree più a rischio Covid, nella quale finora comparivano Friuli Venezia Giulia, provincia autonoma di Bolzano e Calabria. Rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, lo ha ricordato il presidente dell’Iss Silvio Brusaferro, i casi sono numericamente simili, ma i ricoveri e i decessi di molto inferiori. Grazie al vaccino. La terza dose – è il messaggio che manda – è quanto mai necessaria. E prende piede l’idea di ridurre la durata del green pass. Proprio per incentivare il booster e aumentare la protezione generale.

La situazione sul fronte del contagio, dati alla mano, è in peggioramento e la variante Omicron – ormai prevalente in Gran Bretagna, dove i casi si avvicinano sempre più a quota 100mila al giorno – impensierisce non poco. In Italia sembra ancora rara, ne risultano sequenziati appena 55 casi, ma la sua alta trasmissibilità è ormai cosa certa e il rischio che nelle prossime settimane si diffonderà su larga scala anche nel nostro Paese è concreto. Per adesso, però, la variante Delta la fa da padrona. Il fatto che sia meno contagiosa della mutazione rilevata per la prima volta in Sudafrica fa tirare un sospiro di sollievo solo a metà, ed è per questo che gli esperti invitano a stare molto attenti nel periodo di Natale. ”È bene, in vista delle vacanze natalizie, cercare di evitare grandi aggregazioni, mantenere comportamenti prudenti ed effettuare la dose di richiamo di vaccino per aumentare la nostra protezione”, ha detto Gianni Rezza, direttore della prevenzione del ministero della Salute.

 

Le percentuali restituite dall’ultimo monitoraggio settimanale aiutano a comporre il ritratto di un Paese che certamente sta meglio del resto dell’Europa, ma che si trova lo stesso in piena quarta ondata: “Continua ad aumentare il tasso di incidenza di casi di Covid-19, che raggiunge i 241 casi per 100mila abitanti. Osserviamo invece una leggera flessione dell’Rt che comunque si fissa intorno a 1,13 e dunque ben al di sopra dell’unità”, ha spiegato ancora Rezza. Per quanto riguarda il tasso di occupazione di area medica e terapia intensiva, “siamo rispettivamente al 12,1 e al 9,6%, quindi a livello nazionale siamo di poco al di sotto della soglia critica che viene però superata in ben sette regioni”.

Un invito a stare attenti durante le feste arriva anche dal commissario all’emergenza, Francesco Paolo Figliuolo: “Il Natale è un momento di compere e assembramenti, ma dobbiamo continuare a essere responsabili”, detto visitando l’ospedale pediatrico Meyer di Firenze. Questa mattina Figliuolo aveva annunciato l’arrivo di altri cinque milioni di dosi di vaccino, indispensabili per proseguire la campagna per il richiamo, che prosegue a ritmo serrato: “Sta crescendo rapidamente – ha rilevato Silvio Brusaferro – la copertura vaccinale con la terza dose e negli over 80 ha raggiunto il 64%. Un incremento significativo della prima dose c’è inoltre stato nella fascia più giovane 12-19 anni, dove il 78,5% ha fatto almeno la prima dose”.

Da ieri è iniziata la campagna di immunizzazione dei bambini dai 5 agli 11 anni: “C’è un solo motivo per cui bisogna vaccinare i bambini contro Covid-19 ed è la loro salute e il loro benessere. Nient’altro che questo”, ha detto Guido Rasi, consulente scientifico del commissario Figliuolo, che ha anche proposto di ridurre ancora la durata della certificazione verde. “Dopo 5 mesi il Green pass perde ogni giorno un po’ di validità rispetto alla circolazione del virus. Se fossimo in una situazione di bassa circolazione non sarebbe un problema, ma in un momento di alta circolazione come questo bisogna anche pensare di ridurre la durata del pass”. L’ipotesi, ventilata ieri sera dal sottosegretario alla Salute Pierpaolo Sileri, è stata messa sul tavolo anche dal consulente del ministro Speranza, Walter Ricciardi: “Bisogna adeguare il passaporto verde
alla protezione. Se questa diminuisce ed è necessario fare la terza dose, bisogna dare il Green pass solo a chi fa la terza dose. Oppure deve essere ridotto il tempo per cui viene rilasciato e la sua validità”, ha detto.

FONTE: https://www.huffingtonpost.it/entry/la-tentazione-e-ridurre-la-durata-del-green-pass-ma-ce-lostacolo-ue_it_61bcbc9be4b0bf37033ae0b8

 

 

La bufala della variante Omicron.

“Sintomi lievi e nessuna emergenza”: dal Sudafrica arriva la verità

28 Novembre 2021

Ancora una volta il (tele)giornale unico italiano prova a costruire la fake news perfetta per giustificare una sospensione dei diritti e delle libertà dei cittadini che da eccezionale è ormai divenuta normale. L’occasione è data dalla nuova (ma a voler usare la ricerca google neanche poi tanto nuova) variante Omicron. Sarebbe questa ennesima mutazione del Covid-19 nata in Sudafrica a minacciate nuovamente l’umanità ed in particolare gli italiani. Lo schema è lo stesso della finta emergenza Covid in Gran Bretagna: si prende un Paese estero e s’ingigantisce una notizia in grado di turbare l’instabilissima quiete delle provate menti dei telespettatori italici. Ma ormai, ai tempi della comunicazione globale, le bugie hanno le gambe cortissime… E così a smentire tutto il teatrino ci pensa Angelique Coetzee, presidente della South African Medical Association, l’istituzione che si occupa ufficialmente della salute dei sudafricani.

La Coetzee va dritta al punto: “La nuova variante del B.1.1.529 provoca sintomi lievi senza conseguenze importanti: dolori muscolari e stanchezza per un giorno o due. Finora, abbiamo rilevato che le persone infette non soffrono la perdita del gusto o dell’olfatto. Potrebbero avere una leggera tosse. Delle persone infette, alcune sono attualmente in cura a casa”. Ma non basta, a chi gridava all’emergenza sanitaria paventando terapie intensive e ospedali allo stremo, risponde che “gli ospedali in questo momento non sono in sofferenza per la presenza di pazienti portatori di questa variante. Lo sapremo solo fra due o tre settimane.”

“Confermiamo che la variante è trasmissibile – aggiunge la presidente della South African Medical Association – ma per ora, come medici, non capiamo perché ci sia così tanto clamore “. Infine una dura critica a quelle Nazioni che hanno messo un divieto di viaggio dopo aver appreso della nuova variante: “Ho sottoposto il caso del Sudafrica a Johnson che ha capito molto bene”.
FONTE: https://www.ilparagone.it/senza-categoria/la-bufala-della-variante-omicron-sintomi-lievi-e-nessuna-emergenza-dal-sudafrica-arriva-la-verita/

 

 

 

STORIA

Giovanni da Pian del Carpine 

https://www.travelgeo.org/giovanni-pian-del-carpine/

(nato a Pian del Carpine in Umbria nel 1182 circa e morto ad Antivari, nel Montenegro, nel 1250) era frate francescano, proprio uno tra i primi discepoli di san Francesco. Ricoprì la carica di Provinciale in Germania, nel 1228, e in Spagna nel 1230. La “Cronica” di Salimbene Parmense lo elogia come “Familiaris homo et spiritualis et litteratus et magnus prolocutor”.

Nei primi decenni del 13° secolo l’espansionismo dei Mongoli destò nel papa Innocenzo IV serie preoccupazioni. Nel 1241, infatti, i Mongoli avevano espugnato Cracovia (in Polonia) e Breslavia; avevano sgominato un esercito a Liegnitz, nel 1242 avevano saccheggiato Spalato e Cattaro.

Per fermare tale espansionismo – reso ancor più pericoloso dalle continue discordie tra i Principi cristiani – il Papa inviò due ambascerie tra i Mongoli per conoscerne le intenzioni, per allearli con i cristiani contro i musulmani e per convertirli.

La prima e più importante di queste ambascerie fu quella affidata a Fra Giovanni da Pian del Carpine che parti da Lione (in Francia) nel 1245, attraversò Germania e Polonia e arrivò fino all’accampamento imperiale di Sira Ordu (presso Karakorum) nell’agosto 1246, in tempo per assistere alla “kuril tay” (= assemblea) che elesse il Gran Khan Guyuk (1246-1248). Ripercorriamo il viaggio nei suoi particolari.

Partito nell’aprile 1245 alla volta della Boemia e della Polonia, il frate si fermò qualche mese alla Corte di quei Signori; raggiunse poi Kiev dove comprò – per sé e per Frate Benedetto di Polonia che gli si era accompagnato a Cracovia in qualità di interprete – cavalli tartari abituati a cercare il loro nutrimento sotto la neve.

Da Kiev i due religiosi andarono verso sudest e poi a est attraverso la sconfinata pianura coperta di neve “equitando quanti equi poterant ire trotando… de mane usque ad noctem, immo de notte saepissime” (stando a cavallo quanto i cavalli potevano andare al trotto… dalla mattina fino alla notte e spesso anche di notte), cibandosi per lo più soltanto di miglio con acqua e sale.

Il 4 aprile 1246 arrivarono così all’accampamento di Batu Khan del Capciac, in riva al fiume Volga, poco a monte della moderna città di Astrakan.

I due frati furono ammessi alla presenza del Khan Batu (che era il Principe più importante dopo il Gran Khan) solo dopo che furono passati tra due roghi ardenti, cerimonia che aveva lo scopo di togliere ogni potere alle sostanze venefiche o malefiche che i frati nascondessero sotto il saio.

La prima accoglienza del Khan fu rude e diffidente, ma poi Batu fu benigno al punto che i due frati quattro giorni dopo poterono riprendere il cammino verso est, scortati da una piccola torma di Tartari.

In tre mesi e mezzo di rapidissimo viaggio a cavallo attraverso un paese disseminato di ossami, di rovine di castelli e di ville, percorsa la steppa dei Chirghisi,varcati i fiumi Sir Daria e Ili, attraversata la Zungaria ancora coperta di nevi, arrivarono alla fine, il 22 luglio, alla residenza del Gran Khan Guyuk, non lontano dalla città di Caracorum che sorgeva sulle pendici settentrionali dei Monti Changai, presso m affluente del fiume Selengà, a sudovest dell’odierna città di Urga.

Colà si trattennero per circa quattro mesi di disagi e privazioni durante i quali però, in occasione della solenne incoronazione del Gran Khan, i frati ebbero l’opportunità di assistere alla fastosa sfilata delle ambascerie barbariche arrivate al campo tartaro, quasi una rassegna di tutte le popolazioni dell’Asia.

I frati alla fine furono ammessi alla presenza del Gran Khan e poterono consegnare a un ufficiale della Corte la missiva del Papa.

Qualche giorno dopo ricevettero (per interposta persona) la risposta del Gran Khan Guyuk, e senza por tempo in mezzo e rinunciando a prendere con loro un inviato mongolo come era stato consigliato, si rimisero in cammino: era il 13 novembre.

Tra infiniti stenti,dormendo spesso al riparo di un mucchio di neve o di una fossa,rifecero la via che avevano già percorsa fino al campo del Khan Batu; ci arrivarono il 9 maggio. Dal campo si diressero verso Kiev e da qui fu per loro relativamente facile raggiungere la Francia.

Il risultato immediato della missione di Fra Giovanni da Pian del Carine era nullo. Nella sua risposta al Papa,il Gran Khan Guyuk invece di accedere all’ invito di accogliere il cristianesimo, si dichiarava imperatore di tutti i credenti e invitava il Papa a recarsi da lui per conoscere la sua volontà, se voleva mantenere la pace. E diceva anche: “Voi abitanti dell’Occidente credete di essere i soli ad essere nella fede e disprezzate gli altri; ma in che modo sapete a chi Dio si degnerà di conferire la sua grazia?”

Tuttavia, nell’insieme, il risultato dell’impresa di Fra Giovanni non dissuase ogni tentativo ulteriore. L’accoglienza del Gran Khan Guyuk alla missiva del Papa era stata più superba e indifferente che ostile: e presso la sua stessa Corte vigeva, in fatto di religione, una certa tolleranza. Inoltre Fra Giovanni aveva assistito alla celebrazione degli uffizi divini in una cappella cristiana (di Nestoriani, esattamente) che sorgeva proprio di fronte alla tenda del Gran Khan. E due ministri del Gran Khan erano cristiani (cioè, nestoriani).

Tutte queste considerazioni incoraggiavano l’invio di altre missioni, e infatti ben presto altri generosi si misero in cammino per la strada che Fra Giovanni aveva aperta e che egli ebbe cura di descrivere nella sua “Historia Mongolorum” (Storia dei Mongoli). Parlò del suolo,del clima, dei costumi, dei riti, delle abitazioni, delle vesti, delle guerre dei Mongoli e anche di altre genti (Russi, Bulgari, Baschiri, Cinesi, Samoiedi). Questa può essere considerata la più antica descrizione storico-geografica dell’Asia Centrale ricca di notizie relative alle tecniche di guerra, ai nomi delle armi, e di indicazioni sulla religione animistica di quei popoli. Secondo Fra Giovanni i Mongoli si interessavano solo di conquiste.

Giovanni da Pian del Carpine non fu l’unico religioso italiano che il Papa spedì con la missione di acquistare i Tartari alla fede di Cristo. Quasi contemporaneamente a Giovanni, frate minore, il domenicano Ascelino lombardo si trasferì per ordine del Papa ad Acri, con l’intento di raggiungere anche egli, per altra via, il campo dell’Orda d’Oro. Partito da Acri, poté infatti raggiungere, attraverso l’Armenia e la Georgia, il campo del Khan Batu. Ma non poté andare oltre e dopo due mesi di umiliazioni dovette tornare ad Acri (autunno o inverno del 1247).

Anche l’impresa di Marco Polo sarebbe stata impossibile, se questi arditi frati non gli avessero aperto la strada…

FONTE: http://www.fmboschetto.it/didattica/fra_giovanni_da_pian_del_carpine.htm

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