RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI
31 GENNAIO 2022
A cura di Manlio Lo Presti
Esergo
Tra i rami
il blu che appare
per magia del silenzio
è una voce del cielo
LUCIANA CAIFFA – 28 gennaio 2022
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SOMMARIO
“LE COSTITUZIONI”: LA FRANCIA (VIDEO)
L’ELEZZIONE DER PRESIDENTE
Spunta il documento che imbarazza Draghi: leggete cosa diceva da banchiere sul futuro dell’Italia
Canada, la capitale invasa dalla protesta No Pass: Trudeau costretto alla fuga
Il Dono e il Regalo: come capire la differenza se ne riceviamo uno
VI ACCUSO
Prigionieri del presente
Copasir: un caso risolto e una questione ancora aperta
Quello che potremmo diventare
Green pass per sempre, la pazzesca decisione del governo Draghi durante il voto per il Colle: come cambia il certificato
NON È IL DEBITO PUBBLICO AD AVERCI FATTO PERDERE LA SOVRANITÀ MA L’EURO
Un anno per la spartizione dei soldi pnrr
Cos’è davvero il Green Deal
Politica, miti e realtà delle privatizzazioni in Italia
L’OMBRA LUNGA DEL TRATTATO DI PACE DEL ’47
BARBARA & CLAUDIA – Concerto il 17 marzo 2022 presso Auditorium – Roma
Epicarmo Corbino, il Pietro Micca della politica italiana
Green pass illegittimo, Avv. Sinagra: “Giudice accoglie miei ricorsi e convoca Brusaferro e Bassetti”
La non rieleggibilità del Capo dello Stato a tutela dell’equilibrio costituzionale
Causa crimini in Canada
LA NEOLINGUA DI ORWELL. RIFLESSIONI SPARSE
L’Europa in trincea contro il nemico inventato
SOCING, BIPENSIERO E NEOLINGUA
Epurazioni
EDITORIALE
“LE COSTITUZIONI”: LA FRANCIA (VIDEO)
Nella nuova puntata de “Le Costituzioni” si parla di Francia.
Il primo articolo della sua Costituzione cita: “La Francia è una Repubblica indivisibile, laica, democratica e sociale. Garantisce l’uguaglianza di fronte alla legge per tutti i cittadini, senza distinzione di origine, razza o religione. Rispetta qualsiasi credo.
La sua struttura è decentralizzata (revisione del 3/2003).
La legge favorisce la parità di accesso delle donne e degli uomini ai mandati elettorali e alle funzioni elettive, come pure alle responsabilità professionali e sociali”.
VIDEO QUI: https://youtu.be/UkNlhSh9Lgw
FONTE: https://www.opinione.it/cultura/2022/01/28/manlio-lo-presti_le-costituzioni-francia-repubblica-indivisibile-laica-democratica-sociale/
IN EVIDENZA
L’ELEZZIONE DER PRESIDENTE
(Trilussa)
Un giorno tutti quanti l’animali
Sottomessi ar lavoro
Decisero d’elegge’ un Presidente
Che je guardasse l’interessi loro.
C’era la Societa de li Majali,
La Societa der Toro,
Er Circolo der Basto e de la Soma,
La Lega indipendente
Fra li Somari residenti a Roma,
C’era la Fratellanza
De li Gatti soriani, de li Cani,
De li Cavalli senza vetturini,
La Lega fra le Vacche, Bovi e affini…
Tutti pijorno parte a l’adunanza.
Un Somarello, che pe’ l’ambizzione
De fasse elegge’ s’era messo addosso
La pelle d’un leone,
Disse: – Bestie elettore, io so’ commosso:
La civirtà, la libbertà, er progresso…
Ecco er vero programma che ciò io,
Ch’è l’istesso der popolo! Per cui
Voterete compatti er nome mio… –
Defatti venne eletto propio lui.
Er Somaro, contento, fece un rajo,
E allora solo er popolo bestione
S’accorse de lo sbajo
D’ave’ pijato un ciuccio p’un leone!
– Miffarolo!… Imbrojone!… Buvattaro!…
– Ho pijato possesso,
– Disse allora er Somaro – e nu’ la pianto
Nemmanco si morite d’accidente;
Silenzio! e rispettate er Presidente!
FONTE: https://storiedicart.forumfree.it/m/?t=65113069
Spunta il documento che imbarazza Draghi: leggete cosa diceva da banchiere sul futuro dell’Italia
VIDEO QUI: https://youtu.be/PlM_Tc_JSwo
Nello spietato darwinismo sociale odierno se una persona è ignorante, non abbastanza acculturata, aggressiva, competitiva sarebbe destinata a soccombere. Il recente citato documento del Group30 che parla di distruzione creatrice richiama questo concetto. Ci si chiede se lo Stato debba ancora tentare di sostenere imprese e lavoratori che non possono più stare sul mercato ovvero se non si debba lasciarli fallire permettendo a posti di lavoro e risorse di confluire verso le imprese più meritevoli e apprezzate per restare nel mercato dopo il Covid: si tratta delle imprese Corporate naturalmente.
Questo documento si chiama “Reviving and Restructuring the Corporate Sector Post-Covid”. È un documento scritto alla fine del 2020 da 30 banchieri più importanti, tra i quali l’onorevole professore Mario Draghi, quando ancora era un banchiere. C’è un preciso ed esplicito riferimento a lui da parte degli altri per essere il factotum di questo documento nonché ideologo.
La parte centrale dell’ideologia del documento si chiama “Distruzione creativa”. Il termine “restructuring” in inglese significa taglio dei costi, spesso questi costi sono teste. Non dovete stupirvi quando oggi vedete amministratori delegati che licenziano a mezzo internet, perché quel modo è il mondo del documento “Reviving and Restructuring the Corporate Sector Post-Covid”.
È già scritto e pianificato che il disegno è quello di portare verso aziende di più grandi dimensioni, al punto che nel documento ci si chiede se non si debba intervenire lasciando morire le piccole imprese che non riescono a rimanere competitive. È scritto nel documento ed è una posizione di politica economica che io combatto da un anno ed è la mia principale critica a questo governo e la mia mancanza di approvazione per tutte le forze politiche che sostengono questo piano economico palese, documentato scritto e palesemente applicato.
FONTE: https://www.radioradio.it/2021/12/documento-imbarazza-draghi-group-30-malvezzi/
Canada, la capitale invasa dalla protesta No Pass: Trudeau costretto alla fuga
ATTUALITÀ SOCIETÀ COSTUME
Il Dono e il Regalo: come capire la differenza se ne riceviamo uno
Il Dono e il Regalo: qual è la differenza e come capire se ne riceviamo uno? La psicologia del regalo e le varie caratteristiche personali di chi dona e di chi riceve
Il dono e il Regalo quale differenza c’è (Istock)
Ricevere un regalo fa sempre piacere, specie ora che si avvicina il Natale, il regalo è onnipresente in ogni casa. Ma qual è la differenza tra ricevere un regalo o ricevere un dono? Sembrano, a primo acchito, la stessa cosa ma, non è così. Tra i due – regalo e dono – esiste una grande differenza e questa risiede nella persona che fa il regalo o il dono, cioè le sue caratteristiche personali. Ebbene sì, perché alla base del piacere di ricevere un regalo vi è un sintomo più o meno egoistico da parte della persona che, invece, fa il regalo. In base al tipo di regalo (o dono) che riceviamo si nasconde sempre, al suo interno, il tipo di personalità, di chi ha fatto il regalo. Donare non è un gesto banale, può racchiudere in sé molti significati, ci parla della relazione che abbiamo con l’altro ma anche di ciò che è importante per noi. Si può regalare un qualsiasi oggetto materiale ma si può donare anche ciò che il denaro non può comprare. Ci sentiamo in obbligo di fare regali perché sentiamo di dover ricambiare una gentilezza, una cortesia. Possiamo invece donare il nostro tempo, la nostra attenzione, la nostra energia o i nostri sentimenti. Doniamo la vita per vivere la magia di una nascita e anche per lasciare al mondo qualcosa di noi.In entrambi i casi, regalo o dono, il gesto è un segno di affetto, riconoscenza, gratitudine ma donando manifestiamo anche la nostra personalità, sveliamo parte di noi stessi, comunichiamo qualcosa, mostriamo il nostro amore, apriamo il nostro cuore.
Ma cos’è il regalo e cos’è il dono? Sappiamo la differenza? Se la vostra risposta è no, allora non vi resta che continuare ad approfondire la questione, dissolvendo ogni dubbio.
Cos’è il Dono e cos’è il Regalo: Le differenze
Dono o regalo Le differenze (Istock)
Quando doniamo agli altri, anche noi guadagniamo qualcosa, quel qualcosa che non è visibile ad occhio nudo ma che comunque riempie il cuore. Vedere la felicità negli occhi di chi riceve il nostro dono è ciò che ci rende felici. Dobbiamo sottolineare, però, una differenza importante tra regalo e dono.
- Il regalo appartiene alla sfera delle convenzioni personali o sociali ed è spesso un dare calcolato. La parola regalare deriva da “regalia”, che indica i “diritti del Re”: le prerogative della sovranità che nel Medioevo erano riservate solamente al re, all’imperatore o al sovrano in generale. La parola regalo è associata ad un significato molto sociale dello scambio dove c’è qualcuno che fa’ qualche cosa in cambio di qualcos’altro o per mettersi in mostra. Ad ognuno di noi sarà capitato di osservare che alcuni regali sono fatti con un preciso significato, in una attesa di scambio. I regali si fanno spesso (non sempre) per assolvere a obblighi, normalmente a buoni obblighi, verso famigliari, amici, colleghi, fornitori, clienti, responsabile ufficio acquisti. Se si va a casa di qualcuno, soprattutto nei giorni di festa, e non si porta un regalo, non si adempie a una sorta di obbligo, si infrange una buona convenzione sociale.
- Il dono: L’origine della parola dono deriva proprio dal verbo dare, ed indica “ciò che si da senza attesa di ricompensa”. Il dono implica la gratuità del dare, il piacere di dimostrare, con il dono, l’affetto ed il significato che quella persona o quella relazione hanno per noi. Donare, esattamente come educare, ha a che fare perciò con la reciprocità. Si dona per tanti motivi ma soprattutto per fare un tuffo negli occhi di chi riceve, occhi che si colorano di gioia, luminosi, sorpresi e immensamente riconoscenti. E’ questa la reciprocità del donare. Il dono è un atto dove il bene principale non è l’oggetto donato ma la relazione tra chi dona e chi riceve. Il dono non è previsto, a volte atteso, sempre eccedente, non legato al merito, sorprendente. È costoso, e le sue principali ‘monete’ sono l’attenzione, la cura, soprattutto il tempo.Il donatore dona per generosità, è una persona profondamente sensibile e raffinata e lo fa perché si sente un privilegiato. Sa di avere fortune che altri non hanno, sa che donando si avvicina a chi ne ha bisogno, sa che non avrà nulla indietro se non la magia del momento in cui, donando, avverte la sensazione di donare un po’ di se stesso.
Donare implica appunto dimostrare affetto, calore. Il dono si basa su una condivisione profonda ed è il simbolo di ciò che ci lega all’altro. Quando doniamo, ciò che ci preme è che la persona che riceve il dono oltre a gradirlo si ricordi che è nostro. Donare è un gesto gratuito che non si fa per ricevere qualcosa in cambio (a differenza del regalo) e che deve considerare le due persone protagoniste del dono: chi dona e chi riceve. Donare è un’azione sociale e in quanto tale è rivestita di aspetti psicologici ed è governata dalle regole sociali che qualificano le relazioni. Il dono è un messaggio personale con cui manifestiamo aspetti di personalità. La sua natura sociale ci permette di individuare dei rituali sia in chi fa il regalo, sia in chi lo riceve.
Fare un regalo è facile, se ne possono fare decine in un paio di frenetici pomeriggi di shopping. Fare un dono è difficile, per questo se ne fanno e ricevono pochi. Per il dono c’è bisogno di un investimento di tempo, di entrare in profonda sintonia con l’altro, di creatività, fatica, e rischiare anche l’ingratitudine. Quando il dono si esprime anche con un oggetto donato, quel dono incorporerà per sempre quell’atto d’amore, quel bene relazionale da cui è nato e che a sua volta fa rinascere.
Il regalo è un’azione ricca di significati. Non tutti fanno i regali, non tutti donano allo stesso modo e soprattutto i doni sono differenti anche a seconda di chi deve ricevere un presente. La psicologia si è interessata del regalo proprio in virtù degli aspetti psicologici che ci sono dietro: predisposizione personale, processo decisionale e dinamiche sociali.
Dimmi cosa regali e ti dirò chi sei: la psicologia del regalo
Che correlazione c’è tra regalo e colui che fa il regalo? La correlazione non è conscia ma solitamente ogni regalo che si fa viene scelto sempre in base al tipo di persona che siamo, insomma alla nostra personalità. Quindi, quando riceverete un regalo, la prossima volta, fate attenzione a cosa ricevete, perché potrete capire molto della persona che vi ha fatto quel regalo. La psicologia del regalo è giunta alla conclusione che è possibile conoscere le caratteristiche di una persona attraverso le informazioni che si nascondono dietro al modo in cui fa i regali.
Ciò che regalate e il modo in cui lo presentate è strettamente collegato alla vostra personalità. Nonostante ciò, bisogna anche prendere in considerazione la persona a cui è destinato il regalo, poiché non è lo stesso fare un dono per obbligo, che farlo perché ci va davvero per qualcuno che apprezziamo. Acquistate i regali con molto anticipo o li lasciate per l’ultimo minuto? State attenti anche a come li incartate o non vi sembra importante? Cercate di fare regali unici o preferite cose più semplici? Insomma, in base al tipo di regalo che fate (o ricevete) si nasconde dietro la persona in tutto il suo “splendore”. Esiste sicuramente una predisposizione personale al regalo che non deve essere confusa con l’altruismo. Gli altruisti sono coloro che compiono azioni che implicano un costo personale a favore dell’altro, mentre il generoso compra e dona, senza che ci sia necessariamente un sacrificio. Lo stesso modo di fare regali è una sorta di messaggio con cui si esprimono caratteristiche di personalità.
Il narcisistico: regalo esclusivo e poco comune
Le persone che hanno una personalità narcisista di solito fanno regali esclusivi o poco comuni. In questo modo, riescono a sentirsi unici e speciali e vogliono far sentire allo stesso modo la persona che riceve il dono. I narcisistici vogliono sottolineare che il loro regalo è speciale ed indimenticabile. Non faranno mai un dono semplice e ci rifletteranno bene in modo da lasciare un’impronta positiva nella persona che apprezzano. Per questo motivo, non pensano che un regalo poco costoso soddisferà mai nessuno. Se vi ritrovate in questo gruppo di persone non vuol dire che siete persone molto narcisiste, semplicemente avete una personalità dai tratti simili a queste.
Il negligente regala ciò che piace a lui
Le persone negligenti scelgono il regalo in base a ciò che più piace loro. Questi tipi di persone hanno poca empatia con l’altro, sono quelle che acquistano la prima cosa che trovano, non si fermano a pensare alla personalità dell’altro per regalargli qualcosa che vada bene per lui. Tendono a lasciare tutto per l’ultimo momento e poi, con la fretta, lo incartano senza curarsi dei dettagli. Non gli importa se la carta da regalo è bella o no, tanto poi viene buttata.
La persona semplice regala con il cuore
Per queste persone ciò che conta davvero non è il regalo di per sé ma “il pensiero” che vogliono trasmettere con il regalo che fanno. Le persone semplici tendono a non dare importanza al prezzo di ciò che regalano mentre il loro obiettivo è quello di mostrare il semplice e puro affetto alla persona che riceverà il regalo e per questo fanno una dedica personalizzata o regalano persino qualcosa che hanno fatto con le loro mani.
Il perfezionista: il regalo previdente
La persona che presenta tratti perfezionistici tenderà a pianificare tutto con largo anticipo. Esso è colui che acquista il regalo in anticipo, che pensa a tutto nei minimi dettagli, carta, fiocco ecc. Tenderà a regalare qualcosa di previdente, poiché così sarà sicuro che il regalo donato sarà ben apprezzato. Non è la persona che vi regalerà qualcosa di inaspettato. Tutto deve essere perfetto e un’imperfezione nell’incarto può essere un motivo valido per ricominciare tutto da capo. Ci tengono a fare agli altri regali ben presentati, perfetti e con una carta da regalo bella e ben sistemata.
La persona avventurosa: il regalo fuori dagli schemi
Agli antipodi del perfezionista risiede la persona avventurosa, attiva. Questo genere di persona sarà colui che non ama particolarmente la quotidianità ed è per tale motivo che non farà mai (o quasi) come regalo un oggetto. La persona avventurosa tenderà a regalare qualcosa che va fuori dagli schemi classici del regalo, qualcosa di inaspettato come un viaggio, un’esperienza sensoriale, un’avventura fuori dal comune. Cercano un regalo innovativo che sorprenda l’altra persona, come una sessione personalizzata dal parrucchiere o dall’estetista, una giornata alla spa o alle terme, una cena al ristorante, ecc.
Chi dona e chi riceve: due facce della stessa medaglia?
Dobbiamo ricordare che chi dona e chi riceve siamo sempre noi. Una volta siamo i donatori, altre siamo coloro che ricevono il dono. Alla luce di questo, come ci comportiamo da riceventi? E come da donatori? Una differenza sostanziale oppure la stessa faccia della medaglia? Anzitutto dobbiamo fare una distinzione tra chi dona e chi riceve:
- Chi dona infatti, può volere come “ricompensa”, la soddisfazione dell’altra persona e quindi cerca non solo un pensiero che rifletta i gusti di chi lo riceve ma che rechi anche l’impronta di chi dona, perché quel dono sia riconoscibile in mezzo agli altri. In questo senso il dono porta con sé l’impronta personale di chi dona e allo stesso tempo il riconoscimento del ricevente (desideri, gusti ecc.) e del legame tra chi dona e chi riceve. Spesso i doni più apprezzati sono quelli che fanno riferimento alla relazione o al vissuto di condivisione tra uno o più persone.
- Chi riceve ha delle aspettative, può nel dono riconoscere lo stile dell’altro e di contro, considerando la gratuità del dono può essere difficile criticare quanto ricevuto, per la filosofia che “è il pensiero che conta”. Inoltre alcune persone possono sentirsi in debito se ricevono un dono e nella condizione di dover ricambiare a tutti i costi, anche se questo non è previsto dall’atto di donare (perché è un gesto gratuito).
La psicologia sociale si è interessata alle regole sociali, spesso non dette e apprese fin dalla tenera età, circa il donare e il saper ricevere regali. Donare è un’azione sociale ed in quanto tale è investita di aspetti psicologici ed è governata dalle regole sociali che qualificano le relazioni. Nell’offrire un dono, soprattutto quando lo si deve dare ad una persona cara, si condensano un insieme di attese e di aspettative cariche emotivamente.
Nell’offrire un regalo, soprattutto quando lo si deve dare ad una persona cara, si condensano un insieme di attese e di aspettative emotivamente cariche. Innanzitutto si tratta di un gesto gratuito che non si fa per ricevere qualcosa in cambio e che quindi anche a livello simbolico deve condensare le due persone protagoniste del dono: chi dona e chi riceve.
Mentre, il ricevente può sperare in un dono anche molto diverso o perché il regalo non lo rispecchia o perché la relazione viene vissuta in modo differente. Si pensi alla delusione che si può provare se qualcuno a cui tiene regala qualcosa di assolutamente impersonale. Ovviamente la gratuità del dono implica che non ci si può permettere di criticare il regalo: è il pensiero che conta. Un secondo elemento da considerare è che il non poter ricambiare questo gesto, da alcune persone può essere vissuto negativamente.
“Regalare è un atto volto a riconoscere un merito o a compensare un debito. A volte solleva da un’incombenza, altre volte colma vuoti affettivi di una quotidianità distratta. Donare, invece, è dare in modo incondizionato, un omaggio ai sentimenti, è dire “ti amo perché sei tu”, non perché è Natale o perché festeggi il tuo compleanno. Il regalo è quantitativo, il dono é qualitativo. Un dono è un simbolo che trasmette amore, stima e amicizia. E’ come dire “sei importante per me”. (Enrico Maria Secci)
Se ci soffermiamo un momento sul significato etimologico dei termini “dono” e “regalo” ne ricaviamo informazioni molto interessanti. Se il donare rimanda ad una matrice più altruistica del dare incondizionatamente senza chiedere nulla in cambio; il regalare allude più specificatamente ad uno scambio di onorificenze che sancisce un reciproco riconoscimento fra i diversi attori sociali. Fare regali, quindi, sarebbe tutt’altro che un’offerta disinteressata, ma un atto che va a soddisfare i desideri di due persone; essendo da un lato un sostituto simbolico di sé stessi e dall’altro un modo per riconoscere e onorare l’altro: un vero e proprio rituale, quello dello scambio di regali, volto a celebrare i rapporti che ci uniscono agli altri. Se vuoi scoprire di più sulla psicologia e le relazioni umane CLICCA QUI!
Quando il regalo diventa un rito “obbligato”
BELPAESE DA SALVARE
VI ACCUSO
Marco Galice 29 22 2021
Condivido l’accusa del prof Marco Galice… ce ne metterei tanti altri… nonostante sia di un mese fa, mi risuona talmente tanto che ve la condivido comunque!!!
#IO #VI #ACCUSO
Barbara D’Urso, Maria De Filippi, Alfonso Signorini, Alessia Marcuzzi e tutta la schiera della vostra bolgia infernale… io vi accuso.
Vi accuso di essere tra i principali responsabili del decadimento culturale del nostro Paese, del suo imbarbarimento sociale, della sua corruzione e corrosione morale, della destabilizzazione mentale delle nuove generazioni, dell’impoverimento etico dei nostri giovani, della distorsione educativa dei nostri ragazzi.
Voi, con la vostra televisione trash, i vostri programmi spazzatura, i vostri pseudo spettacoli artefatti, falsi, ingannevoli, meschini, avete contribuito in prima persona e senza scrupoli al Decadentismo del terzo millennio che stavolta, purtroppo, non porta con sé alcun valore ma solo il nulla cosmico.
Siete complici e consapevoli promotori di quel perverso processo mediatico che ha inculcato la convinzione di una realizzazione di se stessi basata esclusivamente sull’apparenza, sull’ostentazione della fama, del successo e della bellezza, sulla costante ricerca dell’applauso, sull’approvazione del pubblico, sulla costruzione di ciò che gli altri vogliono e non di ciò che siamo.
Questo è il vostro mondo, questo è ciò che da anni vomitate dai vostri studi televisivi.
Avete sdoganato la maleducazione, l’ignoranza, la povertà morale e culturale come modelli di relazioni e riconoscimento sociale, perché i vostri programmi abbondano con il vostro consenso di cafoni, ignoranti e maleducati. Avete regalato fama e trasformato in modelli da imitare personaggi che non hanno valori, non hanno cultura, non hanno alcuno spessore morale.
Rappresentate l’umiliazione dei laureati, la mortificazione di chi studia, di chi investe tempo e risorse nella cultura, di chi frustrato abbandona infine l’Italia perché la ribalta e l’attenzione sono per i teatranti dei vostri programmi.
Parlo da insegnante, che vede i propri alunni emulare esasperatamente gli atteggiamenti di boria, di falsità, di apparenza, di provocazione, di ostentazione, di maleducazione che diffondono i personaggi della vostra televisione; che vede replicare nelle proprie aule le stesse tristi e squallide dinamiche da reality, nella convinzione che sia questo e solo questo il modo di relazionarsi con i propri coetanei e di guadagnarsi la loro accettazione e la loro stima; che vede lo smarrimento, la paura, l’isolamento negli occhi di quei ragazzi che invece non si adeguano, non cedono alla seduzione di questo orribile mondo, ma per questo vengono ripagati con l’emarginazione e la derisione.
Ho visto nei miei anni di insegnamento prima con perplessità, poi con preoccupazione, ora con terrore centinaia di alunni comportarsi come replicanti degli imbarazzanti personaggi che popolano le vostre trasmissioni, per cercare di essere come loro. E provo orrore per il compiacimento che trasudano le vostre conduzioni al cospetto di certi personaggi.
Io vi accuso, dunque, perché di tutto ciò siete responsabili in prima persona.
Spero nella vostra fine professionale e nella vostra estinzione mediatica, perché solo queste potranno essere le giuste pene per gli irreparabili danni causati al Paese.
FONTE: https://www.facebook.com/1119313279/posts/10218946373786540/
CULTURA
Prigionieri del presente
di Davide D’Alessandro per Huffingtonpost
Scrive anche sulla Verità, ma sa di non possederla. È troppo intelligente, Marcello Veneziani, per ritenere la sua parola ultima e definitiva. Eppure, la sua parola continua a essere illuminante perché giunge dal disincanto, da un mondo altro, da chi ha passione civile e dolore per ciò che vede, per ciò che abbiamo irrimediabilmente perduto. Nella politica e nella vita, nella politica della vita.
- Stai per uscire, da Marsilio, con “La Cappa. Per una critica del presente”. Insomma, questo mondo continua a non piacerti?
“Ne La Cappa sostengo che l’uomo abita cinque mondi: il presente, il passato, il futuro, il favoloso e l’eterno. Vive male se ne perde qualcuno, è folle se ne abita solo uno. E noi da tempo viviamo piegati ‘nell’infinito presente globale’ e non abbiamo altro orizzonte. L’unico modo per pensare il presente è viverlo criticamente, sapendo talvolta immergersi e talvolta emergere dal presente, e ripensarlo con distacco”.
- Hai nostalgia degli dei e di cos’altro?
“Gli dei a cui facevo riferimento in un libro di qualche anno fa non erano gli dei del paganesimo ma i principi intramontabili che danno un senso e un destino alla nostra vita. Proprio perché siamo di passaggio sulla terra abbiamo bisogno di proiettarci in stelle che non tramontano. Gli dei sono proiezioni e protezioni di cui abbiamo bisogno per compiere il cerchio della vita, per non dissiparla, per dedicarla, giacché ‘vivere non basta’ ”.
- Siamo il Paese di Machiavelli, ma dov’è finita la politica?
“Da troppo tempo la politica ha perso il suo regno. Non produce decisioni né partecipazione perché non trova motivazioni oltre gli interessi momentanei e individuali. Non ha convinzioni ma convenienze. Da tempo la politica è commissariata dall’economia finanziaria e dalla tecnocrazia. Eppure, con tutti i suoi limiti e i suoi errori/orrori del passato, la politica resta pur sempre il campo in cui si rappresentano i valori, i bisogni e gli interessi generali, sia quelli condivisi sia quelli conflittuali. La perdita della politica non riguarda, come pensiamo, solo i politici di professione; è una perdita per tutti. Vituperiamo Machiavelli per il suo cinismo al servizio del potere; ma lui ha teorizzato che il principe, il politico, deve sacrificare all’amor patrio anche l’amor di sé, inclusa la sua anima”.
- Angelo Panebianco sostiene che con governi istituzionalmente deboli, senza organizzazioni di partito forti, che abbiano solide culture politiche e un buon radicamento sociale, alla democrazia italiana servono, eccome se servono, i cosiddetti intrusi. Che stiano al Quirinale o a Palazzo Chigi. Concordi?
“Come si fa a non essere d’accordo? Il problema è che si sono essiccate le fonti della politica e della democrazia: se non c’è motivazione e visione, se non c’è formazione e selezione del ceto politico, poi nulla si oppone alla colonizzazione della politica da parte di figure tecnocratiche o antipolitiche, comunque estranee alla ricerca del bene comune, che solitamente rispondono ad altre molle e ad altri poteri non trasparenti, non rappresentativi a livello popolare. È una conseguenza inevitabile”.
- So che sei poco interessato alla destra come targa, come icona. Eppure, è fuor di dubbio che un sentimento popolare forte, sui contenuti politici associati alla destra, esiste e resiste ma senza trovare una guida che lo incarni e rappresenti. Quali sono le ragioni profonde che fanno della destra italiana la grande incompiuta?
“La destra politica in Italia è sempre partita dalle piazze e in piazza poi ha concluso il suo percorso. Non tenta strategie di respiro più ampio, non dà peso alla cultura politica, non ha mai cercato di incidere sulla mentalità e sui luoghi in cui si forma il consenso e la visione della gente. Ha tentato la via breve di rappresentare le emozioni e le istanze del momento o si è appellata a nobili repertori antichi, senza lo sforzo di rielaborarli nel presente e renderli calzanti. Continuo a pensare che sia preferibile questa destra al resto, ovvero all’antipolitica, ai tecnici e al mainstream politically correct di sinistra, ma non riesco ad andare oltre questa preferenza preliminare. Anche perché temo che una volta al governo della nazione, non avrebbe la forza, la determinazione e la strategia per opporsi o affrontare i cosiddetti poteri forti; sarebbe soccombente, accondiscendente o spazzata via in breve tempo”.
- Silvio Berlusconi è stato più un problema o una risorsa giocata male?
“Berlusconi ha avuto il gran merito di polarizzare la nostra democrazia, fino a generare le basi per l’alternanza; ha rimesso in gioco gli outsider, la destra e la Lega, e ha respinto il giochino ricattatorio che viene di solito imposto ai moderati: rompi con i radicali del tuo schieramento; così indebolito, perdi la partita con l’establishment. Berlusconi è andato avanti. Ma i suoi risultati politici sono stati deludenti e il suo universo politico è puramente egocentrico. Resta un Monarca, in cui lo Stato si riduce a Fatto Personale”.
- Gianfranco Fini ha mancato l’occasione o non l’ha mai avuta?
“Fini non ha mai avuto capacità di grande leader ma solo di grande speaker. In tv era credibile, affidabile, anche nelle sue ovvietà, che riflettevano il livello medio della popolazione. ‘Ovviamente’ era il suo intercalare più frequente, e più indicativo. Fino a che qualcuno lo guidava – Almirante, Tatarella o la subalternità a Berlusconi – è cresciuto. Quando si è messo in proprio e ha pensato di poter attaccare Berlusconi e nello stesso tempo disfarsi della sua destra, compiacendo il mainstream e la sinistra, ha mostrato i suoi limiti ed è sparito”.
- Giorgia Meloni ha il quid per durare o la consideri di passaggio?
“Meloni è oggi il leader politico più in forma e più incisivo. L’opposizione le ha giovato, ma la lungodegenza all’opposizione può logorarla. Grande leader sul piano della comunicazione e della vis tribunizia, ma non scommetterei sul suo partito e sui suoi ranghi per governare il paese”.
- Una volta c’erano i consiglieri che sussurravano ai politici, oggi rischiano di non trovare a chi sussurrare?
“Oggi il politico non vuole consiglieri ma truccatori, incantatori di serpenti, ghost writer, social manager, insomma figure che non concorrono a fondare e indirizzare la sua linea ma a potenziare il suo effetto nel teatrino. Non c’è spazio per Platone e Aristotele, ma manco per Richelieu e Mazarino, bastano La Bestia e Casalino”.
- Quale dev’essere, senza scomodare Julien Benda, il ruolo dell’intellettuale nella società contemporanea?
“L’intellettuale dovrebbe essere colui che ci spinge a non accontentarci di quel che passa il convento, andare oltre il presente e la sua dominazione, far capire che esistono anche altri mondi, come quelli che citavo agli inizi; e altri modi di vedere e capire la realtà. È colui che sa leggere dentro la realtà, come dice l’etimo di intelligenza. Ma spesso intellettuale è la caricatura iperbolica di intelligente, è il kitsch dell’intelligenza”.
- Quanto ti appassiona la corsa verso il Quirinale? Anche tu hai un nome da proporre?
“Mi appassiona poco, avrei preferito il Re… Ho proposto Draghi, pur respingendo quasi tutto quel che è, pensa e rappresenta, perché è il più autorevole e credibile a livello internazionale e la sua figura può bilanciare e persino ‘coprire’ un governo politico più audace. Con realismo dico che anziché avere premier finto-populisti, che poi vanno col cappello in mano e strisciano davanti ai poteri forti e alla finanza, meglio avere al posto di un inserviente avventizio, uno della Casa, che almeno non tratta dal basso con i suoi Pari”.
- Un elettore su tre nel 2018 ha votato M5S. Il Movimento ha rappresentato l’ultima delusione della (non) politica italiana?
“Era un bluff facilmente prevedibile: non si possono costruire castelli di rabbia, non bastano l’odio e il rancore a fondare una linea politica, a saper governare un paese e saper resistere alle inevitabili tentazioni corruttive del potere. All’opposizione magari potevano anche servire da stimolo, ma al governo è stato un disastro, e costoso. In realtà sono stati l’antipolitica dal basso, che ha legittimato da una parte il rimpianto della vecchia politica (la prima repubblica) e dall’altro l’avvento dell’antipolitica dall’alto, come dominio dei tecnici. Grillo fa rimpiangere Andreotti e fa invocare Draghi”.
- Roberto Esposito, riflettendo su pandemia e immunità, si è soffermato sulla morte che sembra stringerci da tutte le parti. Ma la pandemia può essere una buona opportunità per riconsiderare il nostro modo di vivere o, fra un po’, ce la lasceremo alle spalle ricordandola ogni tanto?
“Ho molti dubbi che la lasceremo alle spalle. Ne La Cappa mi sono soffermato sulla Commutazione, ovvero sulla traslazione di atteggiamenti, posizioni e mentalità restrittive indotti dal regime sanitario nella vita pubblica corrente. Vedo una pericolosa restrizione del nostro orizzonte, delle nostre libertà primarie, vedo l’incombere di una cappa soffocante, sorta sempre con l’alibi della paura e della sicurezza, per proteggere i cittadini. Quando l’orizzonte supremo è la vita a ogni prezzo, tutti i compromessi sono possibili, tutte le mortificazioni. Di fatto viviamo ormai da due anni la Mezza Vita, perché sono dimezzate le nostre possibilità, i nostri spazi, i nostri diritti, le nostre relazioni”.
- Qualche anno fa hai scritto una lettera agli italiani. Ma, in fondo, hai capito chi sono, chi siamo?
“Non solo, feci anche 80 comizi d’amore all’Italia in tutta la penisola e qualcuno all’estero. Oggi sono ancora più sconsolato, ho qualche esitazione persino ad appellarmi agli ‘italiani’. Siamo in ritirata: demografica, civile, sociale – Spopolo d’Italia – ma anche culturale, spirituale e morale. La pandemia è riuscita perfino a peggiorare la nostra decadenza. Più morti che nati, più vecchi che giovani, più pensionati e assistiti che lavoratori”.
- Ho nel cuore il tuo “Imperdonabili. Cento ritratti di maestri sconvenienti”. Hai diviso i capitoli in giganti, idee che mossero il secolo, intelligenze pericolose, spiriti inquieti, sismografi di un’epoca, maestri veri e controversi, penne che lasciano il segno, presenze oniriche e assenze profetiche. Ammetti di avere un debole, tra loro, per Giuseppe Prezzolini?
“No, non ho un debole per Prezzolini, semmai con Prezzolini scopro il mio lato debole: con lui scopro il disincanto, il non nutrire fiducia negli italiani, nel presente, nel mondo circostante. Si diventa conservatori per disillusione, per salvare il salvabile, che è poi la civiltà. Gli Imperdonabili li amo tutti, o quasi, come direbbe Filomena Marturano dei suoi figli, e ti dirò di più: amo ancor più i neonati, una ventina di nuovi imperdonabili, già ritratti, che attendono di aggiungersi ai cento fratelli maggiori”.
E noi li aspettiamo con impazienza, per nascere a nuova vita.
FONTE: http://www.marcelloveneziani.com/lo-scrittore/interviste/prigionieri-del-presente/
CYBERWAR SPIONAGGIO INFORMAZIONE DISINFORMAZIONE
Copasir: un caso risolto e una questione ancora aperta
Quello che potremmo diventare
di Claudia Cipriani
Sono in tanti a considerare il green pass come la sintesi di tutta la strategia che il governo ha adottato dall’inizio della pandemia: addossare le responsabilità ai cittadini. Per questo c’è chi si chiede come mai molti a sinistra lo hanno giustificato senza avere neanche la curiosità di osservare da vicino un movimento complesso che si oppone al governo Draghi. «Bisognerebbe guardare positivamente al fatto che persone che non si sono mai occupate di politica sentono oggi il bisogno di prendere posizione – scrive Claudia Cipriani, documentarista – Ammetto che io stessa spesso in quelle piazze mi ci sono ritrovata un po’ a disagio perché accanto a chi teneva un cartello con la scritta “Ora e sempre resistenza”, c’era magari quello con l’icona di un santo. Per la prima volta però ho vissuto cortei eterogenei, dove persone di provenienza culturale e politica diversa si sono trovate insieme. È una cosa che non avevo mai visto e mi ha fatto riflettere…». Per chi protesta il re è nudo. Per dirla con Foucault, oggi l’obiettivo non è scoprire che cosa siamo ma rifiutare quello che siamo e «immaginare e costruire ciò che potremmo diventare».
* * * *
In questi ultimi due anni mi tormenta una domanda che non ho mai fatto a mia nonna. Lei fu un’adolescente durante gli anni del fascismo, della guerra, e mi raccontò di come fosse spesso triste, cupa, di come tutto ciò che le accadeva intorno le sembrasse assurdo e ingiusto. “Ma gli altri, quelli che invece andavano avanti come sempre, come facevano?”. Ecco, è questa la domanda che vorrei farle, adesso che purtroppo non c’è più. So che i paragoni con quel periodo fanno arrabbiare molti, ma d’altronde viviamo da più di due anni in uno stato d’emergenza e abbiamo subito per mesi il coprifuoco, provvedimento che non si aveva dai tempi della seconda guerra mondiale. Io più che altro, ancora oggi, dopo tanti mesi, mi chiedo come facciano molte persone a far finta che sia tutto normale.
Che sia normale, come in passato, esibire un lasciapassare per fare qualsiasi attività, pur sapendo che questo dispositivo non salvaguardia la salute pubblica, al contrario di ciò che è stato dichiarato da chi l’ha imposto, e che viola la Costituzione. Sono mesi che è obbligatorio esibire un QR code per motivi di lavoro e di svago, che molti ragazzini, già penalizzati da due anni di una scuola che non può più chiamarsi tale, piena com’è di divieti e limitazioni, non possono più nemmeno fare sport di squadra o entrare in una biblioteca. Sono giorni in cui milioni di italiani non possono prendere l’autobus o un treno, in cui molti hanno perso il lavoro per aver scelto di non vaccinarsi. È un periodo di controlli e militarizzazione crescente (e forse non è un caso che le spese militari siano aumentate del 20 per cento negli ultimi tre anni). Un periodo in cui le persone che scendono in piazza per protestare vengono denunciate e malmenate dalle forze dell’ordine e ignorate o criminalizzate dai media. E soprattutto sono mesi che abbiamo un governo che ha creato tutta questa situazione invocando ragioni sanitarie e intanto ha programmato un “piano nazionale di ripresa” in cui proprio alla sanità vanno le briciole. La cura dei malati d’altronde pare essere l’ultima delle preoccupazioni del governo, che ha sempre e solo puntato su una massiccia campagna vaccinale, omettendo completamente qualsiasi ausilio e rinforzo alla medicina territoriale e alle strutture sanitarie. Pure l’Oms ha ammesso che i vaccini hanno fallito nella loro funzione di contenimento del Covid. Il nostro governo, lungi dall’ammettere i propri errori, persevera in provvedimenti inutili e persecutori.
A me quello che fa paura è che tutto questo diventi la normalità e che per molti sia già considerato tale. Il green pass è la sintesi di tutta la strategia che il governo ha adottato fin dall’inizio della pandemia: addossare le responsabilità ai cittadini. Credo dunque che nei confronti di questo strumento puramente politico e discriminatorio, che non ha nessuna utilità e finalità sanitaria, l’unica possibile risposta sia ignorarlo e combatterlo. Alcuni già lo fanno: negozianti, liberi professionisti, studenti. Atti di disobbedienza civile diventano più frequenti di giorno in giorno. Gli universitari contro il green pass hanno deciso di salire sui mezzi pubblici senza lasciapassare per denunciare la violazione di un diritto fondamentale. I tabaccai minacciano di scioperare perché ritengono ingiusto dover chiedere ai loro clienti di esibire un QR code per entrare. Persino un sindaco della Valsusa ha dichiarato che di fronte a leggi ingiuste si deve disobbedire. Bisogna essere in tanti a opporsi perché il ricatto, la minaccia delle multe, è forte. Per questo la risposta deve essere massiccia e costante deve essere la ricerca di nuove soluzioni.
È dal 6 agosto, giorno in cui è entrato in vigore l’obbligo del green pass nei luoghi pubblici, che non presento i miei film documentari nei luoghi in cui viene chiesto questo lasciapassare. “È un peccato”, mi dicono spesso, “il pubblico ama incontrare i registi”. Io però in realtà ho continuato a incontrare il pubblico. In luoghi dove non chiedono il green pass, dove possono entrare tutti, senza discriminazione. All’inizio è stato più semplice perché era estate e di luoghi all’aperto ce n’erano di più (non moltissimi, perché spesso anche in quelli all’aperto veniva richiesto il lasciapassare). Con l’arrivo del freddo ha cominciato a diventare più difficile, ma sono riuscita ugualmente a trovare realtà che sceglievano di garantire la visione a tutti. Sono particolarmente orgogliosa di aver cercato e creato occasioni di proiezione e dibattito con alcune realtà, come quella degli Studenti contro il green pass. A dicembre, in occasione del 52mo dalla strage di Piazza Fontana e dell’uccisione di Giuseppe Pinelli abbiamo proiettato il mio documentario su di lui discutendo sul filo diretto che ci lega a quel periodo.
Viviamo in un’epoca oscura, punto di arrivo di un percorso in cui governo dopo governo si sono erosi i diritti e lo stato sociale. Da noi, in Italia, i tempi sono più bui che altrove. Siamo d’altronde il Paese che ha inventato il fascismo, che ha patito le stragi di stato e le strategie della tensione, in una linea ideale che va da Scelba alla Lamorgese. Siamo terreno di conquista, il cuore strategico delle sperimentazioni neoliberali. Siamo il Paese perfetto dove banchettare coi capri espiatori. I “diversi” sono da sempre i nemici, che siano i capelloni, gli anarchici, i tossici, i migranti, i novax. E contro questa discriminazione non c’è, forse non c’è mai stata, una reale opposizione. Questi “diversi”, questi reietti, non avranno mai un’adeguata rappresentanza istituzionale perché sono funzionali al mantenimento di uno status quo. Ma se già si sapeva che nelle istituzioni non si possono riporre molte speranze, quello che intristisce di più è constatare come l’opinione pubblica, compatta, sia solidale con il discorso del potere. E di questa opinione fanno parte anche coloro che si definiscono antifascisti e antagonisti. Fa impressione vedere come anche ambienti della sinistra considerata “radicale” giustifichino strumenti di potere come il green pass, come si uniscano al coro di regime che criminalizza le piazze, che a detta loro sarebbero fasciste. Senza aver avuto la benché minima curiosità di osservare da vicino un movimento che si oppone al governo Draghi e ai suoi ministri, costoro hanno ridicolizzato e insultato chi partecipava a queste piazze, reggendo la propaganda governativa, invece di cercare di capire le ragioni della protesta (leggi anche Sottrarre alle destre la protesta contro il Gp di Guido Viale, ndr). Al contrario, in altri Paesi, come Francia e Regno Unito, sindacati e rappresentanti di sinistra sono scesi in piazza insieme ai lavoratori per contestare i provvedimenti dei governi. Penso che anche da noi bisognerebbe guardare positivamente al fatto che persone che non si sono mai occupate di politica sentono oggi il bisogno di prendere posizione. Ammetto che io stessa spesso in quelle piazze mi ci sono ritrovata un po’ a disagio perché accanto a chi teneva un cartello con la scritta “ora e sempre resistenza”, c’era magari quello con l’icona di un santo. Per la prima volta però ho vissuto cortei eterogenei, dove persone di provenienza culturale e politica diversa si sono trovate insieme. È una cosa che non avevo mai visto e mi ha fatto riflettere. Piazze che vedevano vicini lavoratori autonomi, statali, studenti, precari. Tutti uniti nel nome della Costituzione. Quelle persone sono state accusate di essere complottiste. Per molti di loro sicuramente è vero, perché chi critica il governo è piuttosto scontato che sia complottista. Perché è abituato a vivere in un Paese che da sempre complotta per nascondere scomode verità. Un Paese che ha sempre criminalizzato il dissenso politico, che ha creato capri espiatori per nascondere i propri progetti reazionari, che garantisce affari alle solite lobby e congreghe famigliari.
Ridicolizzare e criminalizzare le nuove piazze dicendo che tutto quello che è diverso da ciò che comunemente si individua come “popolo di sinistra” è fascista, è a mio parere indice di miopia rispetto allo sguardo sul presente. Piuttosto ci si dovrebbe chiedere perché tanta gente che non è mai scesa in piazza, adesso lo fa e con caparbietà. Io credo che sia perché, mai come adesso, il re è nudo, e impone con la coercizione ciò che gli conviene di più. È come si fossero accumulate tante contraddizioni e ingiustizie fino a far tracimare il vaso. Le istituzioni governative, con provvedimenti e leggi sempre più inique, in un costante lavorio che va avanti da decenni, stanno arrivando al punto di toglierci tutto, perfino la scelta sui nostri corpi e quelli dei nostri figli. A questo punto non ci rimane davvero più nulla. Il nostro lavoro e il nostro tempo libero non gli bastano più. È per questo che forse molte persone hanno deciso di dire basta. E sono le persone che più hanno visto venir meno i loro diritti, che vivono situazioni di grave precarietà, che hanno perso il lavoro o la propria attività. Da quando sono state vietate le manifestazioni, il movimento contro il green pass ha avuto un momento di forte rallentamento: i fermi, i daspo, le denunce sono state un forte deterrente. Eppure le iniziative vanno avanti. Il nocciolo duro di chi non si è piegato al ricatto governativo è ancora integro e prosegue sulla sua strada di eludere l’esibizione del pass. Per molti insomma rimane assurdo ciò che sta accadendo e c’è la necessità di opporsi e trovare soluzioni alternative. Per fortuna cominciano ad aumentare le prese di posizioni contro il green pass, l’obbligo vaccinale e i provvedimenti del governo. Dopo Sol Cobas anche Usi denuncia un dispositivo che ricatta e punisce in nome del controllo sociale e del profitto, non certo della salute pubblica che continua a essere smantellata. Speriamo siano segnali di risveglio e invito a una nuova stagione di lotte che unisca queste rivendicazioni a quelle contro licenziamenti, privatizzazioni, delocalizzazioni, agroindustria e caporalato, multinazionali e per la sicurezza sui luoghi di lavoro.
A marzo del 2020 scrissi su questa testata una riflessione sulla gestione della pandemia che accompagnava una petizione che io e Rossella Schillaci avevamo promosso per permettere ai bambini di poter uscire di casa (L’ora d’aria). Eravamo in pieno lockdown e in pratica era possibile uscire solo per fare la spesa e portare giù il cane. Gli unici lavoratori che potevano, anzi dovevano, uscire erano quelli dei grossi comparti produttivi, perché le fabbriche dovevano andare avanti, mentre tutto il resto poteva essere dimenticato. A noi sembrò un nonsenso che i bambini non potessero andare nei parchi o semplicemente uscire a prendere aria. Finiti i lockdown, pensavo ingenuamente che i nonsensi sarebbero diminuiti e invece non fanno che aumentare, di pari passo con l’aumentare dell’iniquità dei provvedimenti e il calpestamento dei diritti.
Non si può rischiare che cresca l’indifferenza verso queste nuove forme di discriminazione. Scriveva Gramsci: “L’indifferenza è il peso morto della storia. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che strozza l’intelligenza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, avviene perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia promulgare le leggi che solo la rivolta potrà abrogare, lascia salire al potere uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. Tra l’assenteismo e l’indifferenza poche mani, non sorvegliate da alcun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa; e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia altro che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto del quale rimangono vittime tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo? Odio gli indifferenti anche per questo: perché mi dà fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti”.
I non vaccinati sono stati definiti “disertori”, “nemici”. È di qualche giorno fa la dichiarazione di Pierpaolo Sileri (sottosegretario di Stato al ministero della salute) che si rivolge ai non vaccinati e ai contrari al green pass così: “Vi renderemo la vita difficile come stiamo facendo perché il non vaccinato e chi non rispetta le regole è pericoloso”.
Non si può continuare ad accettare la logica del capro espiatorio e stare zitti di fronte alle dichiarazioni di decisori che incentivano divisioni tra i cittadini per nascondere le loro responsabilità. E non si può rischiare che il green pass diventi permanente, uno strumento di punizione con funzioni diverse che possono essere via via adattate alle esigenze del governo.
Che fare? Come suggerisce Agamben, non è più tempo di convegni ma di pratiche. Io lavoro in ambito culturale e sono stata sempre sensibile ai discorsi che per anni si sono portati avanti sulla necessità di un’autogestione del tempo libero e della cultura. Si è cercato di creare un sistema alternativo di fruizione dell’arte e della cultura contro la mercificazione, il direzionamento e il controllo del tempo libero. Adesso, ai tempi del lasciapassare, questa scelta diventa ancor più necessaria. Diventa vitale e fondativa. Si tratta di creare un sistema parallelo di socialità, di produzione culturale e della sua circolazione. Un sistema basato sull’auto-organizzazione e sull’autogestione. Un sistema orizzontale, privo di gerarchie e di selezione. Stanno pian piano crescendo nuove forme di lotta e di vita culturale: gli universitari hanno organizzato lezioni in piazza, stanno aumentando le scuole parentali e libertarie, nascono piccole comunità agricole di autosostentamento, si organizzano nuovi modi di fare sport, si creano nuove occasioni di convivialità, svago e dialogo. I luoghi storici dell’autogestione devono tornare ad essere punti di riferimento per la costruzione di circuiti alternativi e situazioni di incontro e fruizione culturale che non prevedono l’esibizione di alcun lasciapassare. Anch’io vado avanti nel mio piccolo, con le mie proiezioni aperte a tutti e con la ricerca di luoghi in cui produrre e fruire cultura in maniera diversa e autogestita. Perché, come scriveva Michael Foucault, “forse oggi l’obiettivo principale non è di scoprire che cosa siamo, ma piuttosto di rifiutare quello che siamo. Dobbiamo immaginare e costruire ciò che potremmo diventare”.
FONTE: https://www.sinistrainrete.info/societa/22160-claudia-cipriani-quello-che-potremmo-diventare.html
Green pass per sempre, la pazzesca decisione del governo Draghi durante il voto per il Colle: come cambia il certificato
26 gennaio 2022
Green pass illimitato dopo la terza dose. Il governo ha ufficialmente deciso, abolendo il termine del certificato verde per tutti coloro che ricevono la terza dose del vaccino contro il Covid. Questo almeno fino a quando non ci saranno ulteriori indicazioni sulla quarta dose da parte delle agenzie regolatorie Ema e Aifa. Il decreto attualmente in vigore prevedeva che dal 1° febbraio il green pass rafforzato – rilasciato ai vaccinati e ai guariti – avesse validità sei mesi.
Per molte certificazioni verdi, però, suventrava il problema delle scadenze, visto che la terza dose era stata autorizzata a metà settembre. Sul tavolo del governo anche l’ipotesi di riconoscere il Green pass ai turisti stranieri che vogliono trascorrere un periodo di vacanza sulle Alpi. Una proposta avanzata dal presidente della Regione autonoma del Trentino-Alto Adige, Maurizio Fugatti.
Ma non è tutto. In questi concitati giorni a causa della partita per il Quirinale, l’esecutivo guidato da Mario Draghi dovrà ragionare anche sulle richieste arrivate dalle Regioni. In particolare quelle che riguardano la scuola. La richiesta è sempre la stessa: lasciare in classe gli studenti positivi vaccinati e asintomatici. Al momento l’idea di alcuni governatori sembra destinata a essere bocciata. Al governo non va giù la contraddizione di alcuni presidenti di Regione che volevano tenere le scuole chiuse per tutto gennaio a causa dei tanti casi tra bambini e ragazzi e ora chiedono di allentare le regole sulle quarantene.
FONTE: https://www.liberoquotidiano.it/news/italia/30236831/green-pass-per-sempre-decisione-governo-mario-draghi-durante-voto-quirinale.html
ECONOMIA
NON È IL DEBITO PUBBLICO AD AVERCI FATTO PERDERE LA SOVRANITÀ MA L’EURO
Thomas Fazi 29 01 2022
Draghi ha recentemente dichiarato che «un paese con un debito troppo alto perde la propria sovranità».
Curioso, visto che in un recente studio proprio della BCE leggiamo invece che «in uno Stato che dispone della propria moneta fiat, l’autorità monetaria e quella fiscale sono in grado di garantire che il debito pubblico denominato nella propria valuta nazionale non sia soggetto al rischio di default, nella misura in cui i titoli emessi dal governo sono sempre monetizzabili in modo equivalente».
Il concetto è stato ribadito anche da Benoît Cœuré, membro del consiglio esecutivo della BCE, in un suo recente intervento:
«Nella maggior parte delle economie avanzate, come anche nella maggior parte dei modelli macroeconomici, il debito governativo è sempre percepito come sicuro. Esiste (di fatto) un pieno consolidamento tra il bilancio della banca centrale e quello dell’autorità fiscale, rendendo il debito governativo assente da rischi in termini nominali. La banca centrale può sempre garantire il pagamento del debito governativo in contanti e in pieno in tutti gli Stati del mondo. Pertanto non esiste un rischio di credito relativo ai titoli sovrani».
Da ciò che ne consegue che per un paese che emette debito nella propria valuta non può esistere alcun livello di debito pubblico oltre il quale un paese “perde la propria sovranità”. D’altronde l’esempio del Giappone e di altri paesi lo conferma.
Quand’è che invece il debito pubblico può comportare una perdita di sovranità? Ovvio: quando un paese emette debito in una valuta che non controlla e questo non è garantito dall’istituto di emissione della valuta, cioè dalla banca centrale.
Questo è esattamente quello che avviene nella zona euro.
Come si legge nel succitato rapporto della BCE, infatti, il discorso di cui sopra – cioè l’impossibilità per uno Stato sovrano di fare default – non si applica ai paesi dell’eurozona: «sebbene l’euro sia una moneta fiat, le autorità fiscali degli Stati membri della zona euro hanno rinunciato alla possibilità di emettere debito esente dal rischio di insolvenza».
Questo – ha commentato qualche anno addietro l’economista Paul De Grauwe – pone gli Stati membri «nella stessa condizione di quelle economie emergenti che sono costrette a contrarre prestiti in una valuta estera».
Come aveva preconizzato nel lontano 1992 Wynne Godley: «Se un paese rinuncia al potere di emettere la propria moneta, di fare ricorso alla propria banca centrale, acquisisce lo status di ente locale o di colonia».
Per concludere, non è il debito pubblico troppo alto ad averci fatto perdere la sovranità ma l’euro. Parola di BCE.
FONTE: https://www.facebook.com/thomasfazi/posts/2043617469064714
Un anno per la spartizione dei soldi pnrr
Romana Mercadante Di Altamura – 30 01 2022
Supersintesi:
Stipendi dei parlamentari garantiti per un altro anno, democrazia semi sospesa fino alla spartizione dei miliardi del PNRR, ancora un anno per fare accordi e impicci e lobby e, si spera, per trovare un nome non scomodo per il Quirinale.
Siamo inaiutabili, prima di altri 15 anni e una seria e rifondante riforma costituzionale e della legge elettorale, non si avrà mai stabilità. E, se si avrà, sarà di stampo europeista socialista poraccista statalista assistenzialista accoglientista. Chi puó emigri.( Ovviamente fuori dall’UE). L’Italia sarà solo il pascolo per le vacanze, chiaramente comprato in svendita preordinata e scientifica , di tedeschi russi cinesi e americani. Complimenti vivissimi a chi ci ha portati fin qui, gli stessi politici da oltre trent’anni. Una nazione che elegge due volte un ottantenne – per due volte in trent’anni- e il cui presidente del Consiglio ( seppur stimabile, a parer mio) è un ultra settantenne, è chiaramente finita senza alcuna speranza.
* Ha un senso politico l’accaduto? ( La riconferma di Mattarella). Sì, purtroppo lo ha. E non è nemmeno sbagliato.
FONTE: https://m.facebook.com/story.php?story_fbid=10227391607203764&id=1469315800
Cos’è davvero il Green Deal
Lisa Stanton 14 01 2022
Il Green Deal (GD) è un’evoluzione del vincolo esterno, concetto teorizzato da Guido Carli nel 1993. Considerando l’Italia un caso disperato, una società retrograda in cui gli istinti animali prevalgono (sic), Carli pensava che fosse necessario legare il nostro paese a una struttura sovranazionale che vincolasse l’Italia a parametri di bilancio stringenti e a politiche economiche rigorose. Dunque l’Unione €Uropea con la sua moneta unica e le sue regole era il salvifico argine alla dissennatezza italiana.
Si tratta di una versione alta del topos culturale dell’Italietta provinciale, furbetta e corrotta, in cui trova agio tutto il lessico moralistico e retrivo del discorso pubblico degli ultimi trent’anni: casta, cricca, familismo amorale, poltrona, clientelismo, bamboccioni, sino all’immortale assioma popolare “se so’ magnati tutto”.
Un apparato ideologico rilanciato per decenni a ciclo continuo dai media e dagli stessi politici, che ha avuto l’effetto di indebolire la democrazia, favorire l’alienazione di molte prerogative statali all’Unione Europea e generare movimenti acchiappavoti in nome della lotta alla casta. Ora che abbiamo regalato a Bruxelles ampi spazi di autodeterminazione e che abbiamo visto i fustigatori di costumi divenire a loro volta casta (corrotta), siamo alle prese con ciò che resta del confuso trentennio post-Maastricht. Resta il vincolo esterno, più forte che mai e che da monetario, fiscale e istituzionale, si allarga ora sino a diventare industriale.
Il Green Deal lanciato in gran pompa dalla Commissione Europea è il tentativo di realizzare un nuovo terreno di competizione economica in cui l’€Uropa a trazione tedesca possa primeggiare. La creazione di un salto tecnologico quale è la transizione ecologica (auto elettrica in primis) impone una selezione all’interno dell’industria, una distruzione dell’esistente in favore di un nuovo paradigma.
Frans Timmermans, Commissario europeo per il clima, ha parlato proprio di vera e propria rivoluzione industriale. La prima vittima è il settore italiano dell’automotive. Il vincolo esterno industriale europeo, imposto attraverso il Green Deal e il NGEU, comincia ad operare da lì.
Ecco perché è importante contrastare in tutte le sedi le posizioni di ingenuo europeismo, che ci ricordano le parole di Giorgio Gaber:
“Qualcuno era europeista perché glielo avevano detto. Qualcuno era europeista perché non gli avevano detto tutto”.
FONTE: https://www.facebook.com/100000248554468/posts/5031233646894871/
Politica, miti e realtà delle privatizzazioni in Italia
di Matteo Di Lauro
Il milieu ideologico delle privatizzazioni
Dagli anni ‘90 il clima culturale si è fatto ostile alle ideologie politiche e alle posizioni di parte. La democrazia non andrebbe più intesa come scontro tra ideali diversi, ma si ridurrebbe a un presunto “governo dei migliori”, dove le uniche qualità che contano sono la competenza e l’onestà.
Inutile dire che una persona può essere competente ed onesta, fermo restando il carattere politico delle sue idee. Dietro una scelta squisitamente tecnica si nasconde comunque una visione del mondo, degli obiettivi di lungo periodo e una qualche gestione di parte del conflitto distributivo.
Come sappiamo, in economia politica non esistono scelte squisitamente tecniche, ma sempre delle policy a favore o a sfavore di una certa classe sociale. In politica non esistono scelte neutre: è per questo che il tentativo, sia mediatico sia accademico, di ricondurre qualsiasi presa di posizione politica ad un presunto criterio tecnico scientifico ha fatto degenerare profondamente il dibattito pubblico in questo paese.
Ne è un esempio la riforma dell’IRPEF di Draghi, che, per quanto vanti un carattere tecnico scientifico, nasconde dietro di sé intenti chiaramente politici: una politica di classe.
Per questo, applicare un criterio puramente tecnico all’analisi delle riforme ha poco senso, senza prima aver esplicitato la propria posizione circa i possibili conflitti distributivi che scaturiscono dalla riforme stesse. Da qui, l’impossibilità di avere un esito win-win: qualcuno ci perde sempre.
Inoltre, si constata in modo del tutto singolare che, da quando la politica ha iniziato ad essere pervasa dal mito dell’onestà e della competenza, chi ha perso di più sono state le classi subalterne. Strano. Non sarà mai che gli onesti e competenti alla Draghi siano classe dominante e seguano una propria agenda politica a difesa dei propri interessi?
La fase storica
Questo clima culturale ha delle radici profonde: inizia a prendere forma durante la Prima Repubblica, per poi entrare prepotentemente nel dibattito politico di questo paese con il superamento del sistema partitico e la fase di privatizzazioni e liberalizzazioni degli anni ’90.
Ad ogni modo, anche volendo vestire i panni del tecnocrate senza preferenze politiche ed utilizzare un criterio puramente analitico, l’analisi costi-benefici delle privatizzazioni è particolarmente difficile.
Ad esempio, la variazione del livello di produttività delle aziende privatizzate e il livello dei prezzi al consumo può dipendere da fattori assolutamente indipendenti dalle privatizzazioni in sé, come ad esempio shock esogeni della domanda, oppure cambiamenti radicali nella disponibilità di tecnologie. Perciò un’analisi in cui si tenga conto di un solo fattore, come i prezzi al consumo, è sempre insufficiente ai fini delle valutazioni delle privatizzazioni (Florio, 2007).
Questi sono alcuni dei motivi per cui è fuorviante parlare di successo o di fallimento delle privatizzazioni, perché pressoché ogni processo di riforma politica ha dei vincitori e dei vinti. Nel caso specifico, il processo di riorganizzazione del nostro sistema produttivo ha avuto certamente degli effetti positivi: minimi e trascurabili sui consumatori e lavoratori, enormi sul volume di affari della finanza, sui salari dei manager, sull’aumento delle diseguaglianze.
L’impatto delle privatizzazioni sul livello dei prezzi e sulla produttività delle imprese è stato positivo, ma molto piccolo, tanto da far ipotizzare che potrebbe essere paragonabile a quello che avviene in qualsiasi altro processo di riorganizzazione aziendale, ad esempio quando un’azienda acquisisce un’altra azienda o quando un’azienda viene nazionalizzata (Florio, 2007).
L’agenda politica
Il governo italiano aveva una specifica agenda politica nello svolgere le privatizzazioni: come dichiarato nel “Libro verde sulle partecipazioni dello stato”, l’idea alla base del progetto italiano di privatizzazioni era quella di: “i) aumentare la competitività del sistema produttivo
ii) promuovere lo sviluppo dei mercati finanziari
iii) aumentare l’internazionalizzazione delle imprese in prospettiva della globalizzazione e della maggiore integrazione europea” (Bortolotti, 2005).
Più in generale, si voleva creare un ambiente economico più competitivo tra aziende, eliminando i cosiddetti monopoli pubblici e riducendo la supposta inefficienza delle imprese pubbliche. L’idea era quella di creare, dallo smantellamento delle industrie pubbliche, 10 o 12 gruppi industriali in grado di competere a livello europeo (Barucci, 2007). La competizione tra aziende avrebbe portato a maggiore efficienza, alla fuoriuscita dal mercato delle aziende inefficienti e ad un calo dei prezzi per i consumatori.
Sicuramente abbiamo assistito ad una crescita del volume di affari nella finanza e ad una maggiore internazionalizzazione delle imprese, ma in questi anni non abbiamo assistito né a benefici evidenti per i lavoratori, né a un chiaro vantaggio per i consumatori, specie per quanto riguarda il settore delle utility, dove per il consumatore mediano non vi è stato un vantaggio dal processo di privatizzazioni (Florio, 2014). Inoltre, la competitività delle aziende italiane è stagnante proprio perché il processo di liberalizzazioni non ha aumentato gli investimenti come invece si pensava avrebbe fatto.
Purtroppo, in questi processi si è spesso dimenticata una nozione economica elementare: non tutti i mercati sono perfettamente concorrenziali. Se da un lato potrebbe avere senso liberalizzare un settore con libero accesso delle imprese al mercato, dall’altro è opinabile la liberalizzazione di un settore dove non si farebbe altro che passare da un monopolio/oligopolio pubblico ad uno privato.
Il compito di un monopolio pubblico, specie dove non vi è libero accesso delle aziende al mercato, come nel settore dell’energia, è quello di generare dei prezzi bassi per il consumatore, e, ancora più importante, stipulare con i colossi dell’energia dei contratti favorevoli ai consumatori. Inutile specificare che tutto ciò non ha nulla a che fare con la libera concorrenza (Florio, 2012).
Alla radice
Come siamo arrivati a questo punto? Negli anni ’80 si impose, nei paesi anglosassoni e poi in tutti i paesi occidentali, l’idea per cui facendo agire spontaneamente il mercato si sarebbe raggiunto un equilibrio economicamente efficiente.
In Europa occidentale il processo di privatizzazione e liberalizzazione seguì di pari passo quello di integrazione europea e di integrazione monetaria. Infatti, fu proprio l’apertura al mercato internazionale e la liberalizzazione dei capitali che impose un’agenda di politica liberista.
Le stesse direttive della Commissione europea vietavano di sussidiare le aziende di Stato, in quanto queste avrebbero avuto una posizione di privilegio rispetto alle altre aziende, distorcendo in questo modo il naturale funzionamento del mercato. Veniva chiesto all’Italia di rinunciare al sistema economico che l’aveva portata a passare nel giro di 40 anni da un paese prevalentemente agricolo alla seconda manifattura d’Europa, in quanto considerato inefficiente e particolarmente incline a fenomeni di corruzione e ingerenze della politica nell’economia.
La maggior parte delle privatizzazioni in Italia avvenne negli anni ’90, in particolar modo dopo gli attacchi speculativi alla lira, l’entrata dell’Italia nel trattato di Maastricht, le stragi di mafia e Tangentopoli. Un periodo di assoluto caos politico, in cui la fiducia nelle istituzioni era molto bassa e si credeva che il mercato e il vincolo esterno avrebbero finalmente disciplinato l’economia italiana.
La fede nel mercato era una convinzione estremamente diffusa nell’opinione pubblica italiana: basti guardare il risultato del referendum sull’abolizione del Ministero delle partecipazioni statali, in cui una schiacciante maggioranza del 90% votò a favore dell’abolizione del Ministero. È questo il periodo, precisamente dal 1992 al 2000, in cui l’Italia si colloca al primo posto nella classifica delle privatizzazioni (Privatization Barometer, 2005).
Quello che era prima
Ma facciamo un passo indietro. Prima della fase di liberalizzazioni e privatizzazioni, in Italia vigeva un sistema economico misto, in cui lo Stato era proprietario di gran parte del settore bancario (3/4) e circa di 1/3 delle 50 più grandi aziende di proprietà pubblica.
Tre grandi holding detenevano le aziende pubbliche italiane: ENI, IRI e EFIM. Le infrastrutture, i servizi pubblici, la manifattura, l’energia, le banche e le assicurazioni erano di buona parte di proprietà statale. In questo sistema, il controllo era svolto da manager autonomi con pieni poteri di controllo (Barca, 2015).
Come scrive Ugo Pagano, “il capitalismo italiano si presenta nel dopoguerra con un ampio settore di grandi imprese pubbliche che garantiscono una separazione estrema fra proprietà e controllo” (Pagano, 2019).
La narrazione
Ma come si consolidò la ferma convinzione che il sistema economico italiano fosse un sistema fallimentare e da riformare completamente? Come si arrivò alla sicurezza di dover smantellare le aziende pubbliche nel giro di così pochi anni?
Veniva ripetuto in molte sedi che l’Italia, per giocare alla pari con le altre potenze europee, doveva seguire le regole di integrazione europea, una ricetta fatta di privatizzazioni, liberalizzazioni e flessibilizzazione del mercato del lavoro.
Veniva anche ripetuto come il sistema misto italiano fosse inefficiente, ed in particolare le aziende private italiane fossero più produttive di quelle pubbliche.
Molti dei dati forniti a sostegno di questa tesi sono un aggregato sugli utili e sulla produttività delle aziende pubbliche rispetto a quelle private. Questo dimostra molto poco, ma comunque ci porta a riflettere sul fatto che le imprese pubbliche non nascono unicamente con il compito del profitto, ma anche con finalità di tipo sociale e sono portate ad operare al fine di erogare servizi ai cittadini laddove il mercato non riesce a farlo.
Inoltre, i loro azionisti di riferimento sono tutti i cittadini, a differenza di un’impresa privata, dove gli azionisti di riferimento sono pochi privati. Quindi anche se il paragone “naïve” tra produttività di aziende pubbliche e aziende private fosse motivato da considerazioni metodologiche, comunque non terrebbe conto del fatto che le aziende pubbliche alle volte devono operare in condizioni di utili negativi. Senza contare l’enorme varianza di produttività tra diversi settori pubblici in Italia: infatti, in alcuni ci vantavamo delle eccellenze in ambito internazionale, in altri casi aziende poco competitive erano mantenute in vita.
In questa prima parte dell’analisi abbiamo descritto brevemente il funzionamento del sistema economico italiano pre-privatizzazioni e le finalità politiche ed economiche delle privatizzazioni, mentre nella seconda parte metteremo luce sulla differenza tra gli esiti reali delle privatizzazioni in Italia e le mistificazioni operate dalla stampa mainstream sulle privatizzazioni.
“L’Italia è un Paese statalista”
È un’opinione ancora estremamente diffusa che l’Italia sia un Paese profondamente statalista e che molti dei suoi problemi siano riconducibili a questo. Per crescere dovremmo dunque ridurre l’ingerenza dello Stato, come negli altri Paesi europei. Tuttavia, questa narrazione non è esatta.
Secondo l’Istituto Bruno Leoni, un think tank di orientamento liberista, l’Italia si colloca sesta su ventotto Paesi dell’Unione Europea nell’indice delle liberalizzazioni, superando di netto molti Paesi considerati virtuosi, come la stessa Germania. Un risultato notevole, il quale conferma che il mito per cui l’Italia è un Paese con un enorme settore pubblico inefficiente e dove lo Stato esercita un controllo invasivo sull’economia è privo di fondamento fattuale.
Quello che possiamo dire con certezza è che il nuovo modello economico adottato dall’Italia a partire dagli anni ’90, fatto di flessibilizzazione del mercato di lavoro, privatizzazioni delle aziende pubbliche, liberalizzazioni e compressione dei salari, non ha portato i risultati sperati in termini di crescita.
Purtroppo, i risultati raggiunti, come la maggiore internazionalizzazione delle imprese, l’aumento del giro di affari dei mercati azionari, la maggiore finanziarizzazione dell’economia e la riduzione del debito pubblico nella fase delle privatizzazioni non sono riusciti a migliorare la condizione complessiva del Paese né tantomeno quella dei lavoratori.
“In Italia non si è privatizzato abbastanza”
Si potrebbe ribattere che in Italia si è privatizzato sì, ma solo in modo fittizio. Infatti, lo Stato, attraverso la golden share, controlla ancora buona parte dell’economia italiana. Dunque, occorrerebbe spingere ancora di più il pedale delle privatizzazioni e liberalizzazioni.
In realtà, abbiamo privatizzato molto più di Francia e Germania. Come riporta l’Osservatorio per i conti pubblici, il valore delle partecipazioni pubbliche in percentuale al PIL nel 2019 è circa la metà di quello di tali Paesi. D’altro canto, se guardiamo nello specifico cosa è avvenuto allo strumento della golden share durate la fase delle privatizzazioni, questo potere di controllo senza proprietà dell’azienda è stato estremamente depotenziato.
Il caso delle banche
Per quanto riguarda il comparto bancario, esso è stato sottoposto fin da subito ad una privatizzazione più radicale rispetto agli altri settori e con la legge del 30 luglio 1994, “viene a cessare ogni vincolo di controllo sulle imprese bancarie risultanti dalla trasformazione delle banche pubbliche”, ovvero il cosiddetto golden share (Cassese, 1997). La nostra proprietà di banche pubbliche si è pressoché azzerata, mentre Francia e Germania hanno ancora una certa parte del settore bancario di proprietà pubblica.
Le intenzioni del legislatore erano quelle di mantenere una presa maggiore sulle società con partecipazione pubblica in via di privatizzazione: a tal proposito, la legge del 30 luglio 1994 chiariva che lo Stato doveva mantenere dei poteri speciali che consistevano nel “veto alle delibere di scioglimento, trasferimento, fusione, scissione, trasferimento della sede all’estero, cambiamento dell’oggetto sociale; nomina di almeno un amministratore o di un numero di amministratori non superiore a un quarto dei membri del consiglio e di un sindaco.” (Cassese, 1997).
Dunque, la legge del 30 luglio 1994, in combinazione con l’articolo 2449 del Codice civile, permetteva allo Stato di avere ancora un certo controllo sulle società con partecipazione pubblica attraverso la golden share. Tuttavia, questo combinato disposto contrastava con l’ex art. 56 CE (art. 63 TFUE) per cui “sono vietate tutte le restrizioni ai movimenti di capitali tra Stati membri, nonché tra Stati membri e paesi terzi”.
A seguito di una sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, il combinato della legge del 30 luglio 1994 e dell’articolo 2449 venne ridimensionato, riducendo così il potere dello Stato nelle partecipate, in quanto giudicato dalla Corte sproporzionato rispetto alla sua partecipazione azionistica. In seguito, l’articolo 2449 del Codice civile è stato modificato con la Legge n. 34 del 25 febbraio 2008, introducendo un criterio di proporzionalità e depotenziando notevolmente i poteri di controllo senza proprietà che lo Stato deteneva.
“Le privatizzazioni hanno reso più efficiente il sistema”
Se gli effetti positivi delle privatizzazioni sono dubbi, esse sono state almeno attuate in modo trasparente e a un prezzo equo per lo Stato, generando maggiore efficienza?
No. Come evidenzia la Corte dei Conti, le procedure di privatizzazione sono state in larga parte eseguite in modo poco trasparente e a prezzi bassi, a danno della crescita del nostro sistema economico. Tale danno si è tradotto sia in termini di mancato incasso da parte dello Stato, sia, ancor peggio, nel fornire un incentivo agli investitori ad acquistare un’azienda ad un prezzo molto basso non pagando il cosiddetto premio di controllo, trasformando così, come sostiene Fabrizio Barca, i capitalisti da innovatori a rentier, non avendo più incentivo economico ad innovare un’azienda che possono rivendere ad un prezzo molto più alto.
Conclusione
Tutto questo ci insegna quanto sia estremamente ideologizzato l’approccio all’analisi delle privatizzazioni in Italia, e quanto lavoro ci sia da fare per consegnare al nostro Paese una narrazione veritiera di quanto accaduto in quegli anni. È importante valutare gli esiti delle privatizzazioni rispetto agli interessi della classe lavoratrice, che dal processo di privatizzazione non ha avuto pressoché alcun beneficio.
Le valutazioni delle policy hanno sempre un carattere di classe, per questo è del tutto naturale che buona parte del sistema dei media e della politica, espressione diretta degli interessi della classe dominante, tessa lodi delle privatizzazioni: sanno che le élite finanziarie ci hanno guadagnato enormemente e si rallegrano del fatto che la sparuta minoranza che domina il nostro sistema economico abbia vinto. Per tutti gli altri, non vi è nulla di cui rallegrarsi.
FONTE: https://www.sinistrainrete.info/politica-italiana/22159-matteo-di-lauro-politica-miti-e-realta-delle-privatizzazioni-in-italia.html
EVENTO CULTURALE
L’OMBRA LUNGA DEL TRATTATO DI PACE
DEL ’47
Il 10 febbraio 2022 ricorrerà il 75esimo della firma di Parigi al Trattato di Pace: una ricorrenza storica di grande portata che non può essere ignorata. L’Istituto Studi Politici Giorgio Galli propone un ciclo di conferenze dedicato al Trattato di Pace del 1947 e le conseguenze politiche e economiche sull’Italia e il Mediterraneo. Due incontri si sono già svolti a novembre e dicembre ’21. Il prossimo incontro in videoconferenza si svolgerà il 3 febbraio 2022.
giovedì 3 febbraio 2022, ore 21.00
AGENDA
Le questioni territoriali, militari e di geopolitica
La questione del Trentino Alto Adige: l’accordo De Gasperi – Gruber
Felice C. Besostri avvocato, costituzionalista
Spazio per interventi programmati
La questione militare
Giovanni Fantasia generale divisione (r)
L’ombra lunga del Trattato di Pace (conclusioni)
Sergio Vento ambasciatore, presidente V&Associati
Coordina: Vinicio Serino consigliere ISPG
Introduce: Daniele V. Comero presidente ISPG
Informazioni:
La partecipazione è gratuita – Prenotazione tramite mail:
istitutostudipoliticigg@gmail.com
Comitato organizzatore: Daniele V. Comero, Luciano Garibaldi e Vinicio Serino
https://www.istitutostudipolitici.it/
Istituto Studi Politici Giorgio Galli
BARBARA & CLAUDIA – Concerto il 17 marzo 2022 presso Auditorium – Roma
LUOGO: https://www.auditorium.com/evento/barbara_cattabani_claudia_agostini-25113.html
FINANZA BANCHE ASSICURAZIONI
Epicarmo Corbino, il Pietro Micca della politica italiana
La Sicilia è prodiga di uomini indimenticabili e di loro imprese memorabili. Ad Augusta, vivace e nobile cittadina portuale e militare, tocca il pregio di avere donato alla storia due fratelli di assoluta rilevanza non soltanto nazionale. Invero, allorquando si pone mente al cognome Corbino, è gara nel porre in luce la grandezza di Orso Mario (cui dedicammo qualche tempo fa la nostra attenzione) o di Epicarmo. Nato ad Augusta nel 1890, in un’umile famiglia siciliana, Epicarmo Corbino, con il suo impegno politico e il suo fulgido pensiero poliedrico, ha enormemente contribuito allo sviluppo economico degli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso. Trascorse gran parte della sua vita a Napoli e qui insegnò politica economica dal 1923 al 1961, presso l’Università “Federico II”, una delle più antiche del mondo. L’ateneo della città di Partenope fu fondato nel 1224 dal re di Sicilia Federico II di Svevia, figura basilare per la Trinacria, terra sicuramente al centro dei suoi interessi. Proprio al sovrano, stupor mundi, si deve la fondazione, nel 1232, di Augusta, non lontano dal sito di Megara Hyblaea, antica città dorica. Il Nostro si chiama Epicarmo proprio in onore dell’illustre commediografo Epicarmo, che visse a Megara dal 524 al 435 a.C.
Di recente, il 30 aprile 2019, un’epigrafe commemorativa dedicata a Epicarmo Corbino è stata affissa nella sua casa natale, in via Principe Umberto. L’evento ha coinvolto Alberto Corbino, nipote di Epicarmo e Presidente della Fondazione “Cariello – Corbino”, che ha già realizzato diversi progetti benefici nel Congo e a Napoli. Il nome Corbino non può che essere associato alla solidarietà. Ad Alberto Corbino, visibilmente commosso, il compito di scoprire l’epigrafe affissa in onore di nonno Epicarmo, mentre, contestualmente, gli alunni del Secondo Istituto comprensivo “Orso Mario Corbino” di Augusta cantano l’Inno d’Italia alla presenza di un folto pubblico. Presenti alla cerimonia, tra le altre autorità, alcuni Parlamentari, il Sindaco e il dirigente scolastico del Corbino, Maria Giovanna Sergi. Quasi un secolo prima, sempre un 30 aprile ma del 1922, la cittadinanza dedicò qualcosa di analogo al fratello Orso Mario, famoso scienziato (leader di studiosi, quei “ragazzi di Corbino” poi forse troppo frettolosamente ribattezzati “ragazzi di via Panisperna”) e anche lui, come Epicarmo, fu più volte ministro, ma nel periodo della monarchia e in un differente settore. Due fratelli, due eccellenze. Uniti non solo dal legame familiare ma anche dalla passione, dalla capacità, dalla positiva incidenza sulla collettività. L’unione è osservabile pure in qualcosa di curioso: ad Augusta, la sede principale dell’Istituto Comprensivo “Orso Mario Corbino” è proprio in viale Epicarmo Corbino n. 48.
Il liceo classico “Megara” di Augusta, dirigente scolastico prof. Renato Santoro, ha realizzato, nel 2019, una interessante pubblicazione dal titolo “Orso Mario & Epicarmo Corbino”. Una ventina gli studenti coinvolti coordinati dalle professoresse Rita Pancari, Simona Scala e Domenica Solano. È stato un modo per metterli “faccia a faccia”, in una ipotesi di intervista a loro, figli di una famiglia normale. I giovani è bene che non disperdano la preziosità della presenza di coloro che hanno assunto in passato il ruolo di Maestri, affinché siano essi sempre guida per le generazioni future, tra scienza, conoscenza, coscienza e legalità.
Ha affermato Epicarmo Corbino: “Ogni studente, pur essendo uno dei componenti di una massa, è stato sempre per me un caso umano, e perciò mi sono sempre sforzato di giudicare non solo lo studente, ma l’uomo, e di conservare verso tutti una identica quasi paterna equanimità”. Il docente che ognuno vorrebbe avere nel proprio percorso culturale!
La sua esistenza è stata quella di un uomo mirabile in più ambiti. È stato ufficiale delle Capitanerie di porto, docente universitario, ministro dell’Industria e del Commercio, deputato della Costituente, ministro del Tesoro, deputato nella prima legislatura, presidente del Banco di Napoli, accademico dei Lincei, storico, conferenziere e giornalista. Una carriera brillantissima, certamente. Eppure, a voler esser franchi, si potrebbe dire che la sua sostanzialità grandissima non si è forse tradotta nell’attribuzione di incarichi ancor più prestigiosi, invece riferiti a chi, a ben meditare, non ha poi lasciato un segno indelebile come il suo. Lui, invece, è ricordato e andrà sempre ricordato.
Epicarmo Corbino, mai schiavo del potere politico o della propria ambizione, lo merita per la sua virtus così come per la sua virtus la storia ha accolto Pietro Micca. Muratore e poi soldato minatore nell’esercito dei Savoia, Micca, piemontese di Sagliano, diede la sua vita, il 30 agosto 1706, per salvare Torino dall’assedio francese. Nel 1864, a pochi anni dalla raggiunta unità d’Italia, per volere della monarchia sabauda fu modificato il nome del paese natio dell’eroe, sì da aversi Sagliano Micca. Può forse stupire che, trattando del siculo Corbino, si ponga mente al piemontese Micca. Nessuna bizzarria e nessun “fuori tema”, invece: l’accostamento ha una sua ratio. Sandro Pertini, innegabile avversario politico di Epicarmo, lo definì“Il Pietro Micca della politica italiana”, per come contrastò, nel 1953, quella che pittorescamente fu definita “legge truffa”, anche a costo di scomparire dall’agone politico. Pertini non poteva ovviamente aggiungere il nome Corbino alla città natale, come è avvenuto per Micca nel periodo monarchico; ma tanti anni dopo, nel 1982, invitò il novantenne siciliano al Quirinale per omaggiarlo. Un gesto di alto valore simbolico.
Com’è noto, per le elezioni politiche del 1953, la Democrazia Cristiana concordò con il Partito Socialdemocratico, il Partito Liberale e il Partito Repubblicano, di assegnare per legge, alle liste apparentate che avessero ottenuto la maggioranza assoluta, il 65% degli eletti. Corbino, pur facendo parte della coalizione di partiti che ne avrebbe usufruito, era assolutamente contrario, reputando che tale previsione normativa confliggesse con lo spirito della Costituzione. Perlomeno, cercò di mediare, proponendo il cosiddetto “Ponte Corbino”, cioè l’abbassamento del premio di maggioranza a 50 deputati, onde evitare che la Democrazia Cristiana, quindi un solo partito, potesse vantare la maggioranza assoluta. La presa di posizione dell’augustano echeggiò nella stampa. Così “L’Unità” del 10 dicembre 1952, in prima pagina: “Il liberale Corbino attacca la legge truffa con un discorso che scuote l’Assemblea”. E all’interno dell’articolo: “Appena Corbino si avvicina al microfono l’aula si riempie di nuovo di deputati i quali lo ascolteranno nel più assoluto silenzio, profondamente colpiti dalle osservazioni penetranti, talvolta spiritose, accorate e a volte commosse che egli esporrà all’assemblea”. In effetti, il discorso impressionò positivamente pressoché tutti, compresi gli avversari di sempre. “Un lungo e caloroso applauso dei deputati comunisti, socialisti, e di molti socialdemocratici, liberali e indipendenti conclude l’eccezionale discorso dell’on. Corbino. Moltissimi deputati, tra cui Togliatti, si recano al suo banco per congratularsi con lui. Anche deputati democristiani vanno a stringergli la mano”.
Le “battaglie” parlamentari non ebbero l’esito augurato da Corbino. La “truffa” si cristallizzò nella promulgazione della legge n. 148 del 31 marzo 1953, approvata dalla Camera il 21 gennaio e dal Senato il 29 marzo 1953. Lo scontro politico si accese quindi nelle piazze, nella contrapposizione aspra di due movimenti: l’Alleanza Democratica Nazionale e l’Unione Popolare, con leader rispettivamente Corbino e Parri, ex capo del Governo, che si era dimesso dal Partito Repubblicano. L’obiettivo era sottrarre un numero di voti tali da non fare scattare il premio di maggioranza, nel ritenuto rispetto della Costituzione Italiana. L’Alleanza di Corbino riportò circa 120.000 voti. L’Unione di Parri, circa 400.000 voti. L’obiettivo era stato raggiunto! Alla coalizione dei partiti apparentati mancarono circa 60.000 preferenze per ottenere il “premio”. Ciò causò la fine politica di De Gasperi che, nel luglio 1954, lasciò la Segreteria politica della Democrazia Cristiana ad Amintore Fanfani. Poco dopo, il 19 agosto 1954, De Gasperi, si spense in Sella di Valsugana, dopo aver visto, il 31 luglio 1954, l’abrogazione della “legge truffa”. Da notare che anni prima, alla presentazione del suo Governo, De Gasperi aveva manifestato in Parlamento la sua assoluta stima in Corbino, affermando “Se Corbino non ci fosse, bisognerebbe inventarlo”. Siamo sicuri che De Gasperi ha continuato sempre ad ammirarlo anche se il siciliano ha contribuito al suo declino politico.
Insomma, Corbino era stimatissimo pure da chi non la pensasse come lui. Era controcorrente, libero, svincolato dai lacciuoli della convenienza e, pertanto, ha perso il potere ed è stato mal visto, tante volte, da chi deteneva egemonia. Ma la sua gloria è eterna.
Dall’autobiografia “Racconto di una vita”: “Ero così sereno sulla fine certa della mia attività parlamentare che non volli spostare la data fissata per la mia conferenza su Beethoven”. Non era legato alla poltrona, guardava oltre e altrove.
Escluso dal Parlamento, Corbino intensificò l’attività giornalistica collaborando con “L’Europeo” e con il “Corriere della Sera”. Dopo aver contribuito a creare le condizioni per il “miracolo economico” post-bellico, si allontanò a poco a poco dalla politica. Inviò il suo testamento politico al giornale “La Stampa”, che lo pubblicò il 4 agosto 1955. Ne riportiamo poche frasi: “Starsene lontani dalla politica può diventare una necessità, specialmente quando si comincia ad esser anziani come me. Purtroppo molti degli uomini politici attuali più in vista erano dei littori, dei giovani fascisti o dei balilla quando io, dalla cattedra, rischiavo ogni giorno la perdita della libertà personale”. Corbino, a Napoli, frequentava assiduamente i salotti napoletani di Benedetto Croce e di Giustino Fortunato, dove si riunivano molti antifascisti. Invece di approfittare dell’enorme prestigio di cui godeva il fratello Orso Mario, all’epoca senatore e già ministro nel governo Bonomi e nel primo governo Mussolini, non mancò di esplicitare nettamente le proprie idee, pagandone le conseguenze. Così, il 30 aprile 1925, mentre Orso Mario festeggiava il compleanno, egli firmò il famoso manifesto degli intellettuali antifascisti in risposta al manifesto di Giovanni Gentile, filosofo siciliano (di Castelvetrano) a parere del quale il fascismo non aveva soppresso la libertà in Italia. A seguito di ciò, e per altri episodi simili, fu emarginato per diversi anni, dalla vita politica e culturale del Paese. Come scrisse Epicarmo nella sua autobiografia, non ebbe guai peggiori solo grazie agli interventi del fratello Orso Mario, che non era iscritto al partito fascista ma godeva di sacrale considerazione. Ma anche gli studenti facevano quadrato. “I giovani – ebbe a sostenere – capivano benissimo che spesso correvo il rischio di essere allontanato dalla cattedra, ma quando qualche volta il rischio diventava pericolo concreto, ho sempre trovato nei nuovi e negli antichi alunni i miei più stretti difensori, esempio tipico di quel senso d’equilibrio che è caratteristica superiore delle genti meridionali”.
Ironico e intellettivamente esplosivo, sdrammatizzò il suo essere stato avversato e discriminato dal regime fascista e, appunto, fece emergere, con senso del paradosso, qualcosa di positivo. Come solo i grandi san fare. E come faceva anche l’antico commediografo greco Epicarmo. E così, nell’immediato dopoguerra, ebbe a raccontare al giornalista Indro Montanelli, riferendosi al dittatore: “Gli debbo due decenni di assoluta pace, il che vuol dire tutta la mia cultura, che in quella pace si maturò. I cinque volumi di ‘Annali dell’economia italiana’ non avrei certo potuto scriverli, se ci fosse stata la democrazia e di conseguenza io avessi dovuto fare il deputato o il ministro. E il pianoforte dove lo mette? Mi diedi a studiarlo quando avevo trentacinque anni, cioè nel ’25, all’indomani del delitto Matteotti, quando fu chiaro che ne avremmo avuto per una generazione” (da Corriere della Sera, 21 giugno 1950). Studiava con un maestro fascistissimo e, fatalmente, storpiava “Giovinezza”.
Sempre Montanelli ricorda un curioso episodio, legato a una disavventura: “Corbino cadde e si lussò un braccio. Lo portarono in ospedale e gli ingessarono l’arto (il braccio) in modo da tenerlo immobile e disteso, rivolto verso l’alto, in una specie di saluto romano permanente… Il principe Umberto venne a trovarlo. “Come! – ridacchiò – proprio lei, Corbino, che per vent’anni …?”, “Appunto, Altezza – rispose il Ministro –. È la giusta nemesi!” (ancora Corriere della Sera del 21 giugno 1950).
Sembra utile riportare alcune frasi che “Il Mattino” ha dedicato, il 12 marzo 1961, alla cerimonia di consegna a lui, da parte dell’Università “Federico II” di Napoli, della laurea honoris causa in economia e commercio. Così nell’articolo “Vita di Maestro” a firma di Giovanni Ansaldo: “A differenza di tante altre cerimonie del genere … quella di ieri è stata viva, sentita cordiale … per fare onore ad un uomo per cui avevano stima … vi si palesò per intero l’uomo e soprattutto vi si palesò per intero il maestro … E poi parve spiegare a se stesso, più che ai suoi uditori, e perché egli fu sempre tanto seguito dai suoi scolari, e perché ne fu difeso nelle ore difficili, e perché ne resta amato. Erano perché essenziali, che dovrebbero essere meditati da tutti coloro che insegnano; e di cui il pubblico sottolineò la portata con gli applausi… Le lacrime sono rare nelle cerimonie accademiche; e specie in quelle in cui l’onorato è un economista e il Presidente di un grande Istituto Bancario. Noi non ne abbiamo vedute mai. Ieri le abbiamo vedute”.
Negli ultimi anni della sua vita, Corbino si interessò molto al tema dell’ambientalismo. Nei recenti convegni che si sono svolti in suo onore, nel 2018 e nel 2019, ad Augusta, Solarino e Siracusa, è stata ricordata una delle sue ultime conferenze sulle energie alternative, nel 1982 a Caserta. In particolare, è stata evidenziata, da un testimone che ha assistito alla conferenza, la massima attenzione che l’uditorio riservava al novantenne oratore. Si respirava e si sentiva anche il rispetto e l’affetto del pubblico. Tanti applausi alla fine, tanta commozione e anche qualche occhio lucido. Probabilmente, molti erano stati suoi allievi all’Università di Napoli e ne ricordavano il coraggio, il senso del dovere, l’amor di Patria, la professionalità e la grande umiltà.
Per meglio conoscerne la personalità e per comprendere un “pezzo” della storia d’Italia, è consigliabile qualche lettura. In “Epicarmo Corbino: docente, ministro e pubblicista. Frammenti di una figura complessa” di Francesco Balletta (2012, Franco Angeli Editore) si possono trovare alcune relazioni presentate al convegno “Epicarmo Corbino: economista, ministro, politico”, tenutosi dal 2 al 5 giugno 2010, presso l’Istituto Italiano degli Studi Filosofici di Napoli, per iniziativa di Piero Barucci (dal 1992 al 1994 Ministro del Tesoro nei Governi Amato I e Ciampi). Immancabile è l’autobiografia di Corbino: “Racconto di una vita”, 1972 Edizioni Scientifiche Italiane, dedicata ai nipotini Andrea e Alberto. Non si può dimenticare il saggio monografico dell’ingegnere augustano Giovanni Vaccaro, dal titolo “Epicarmo Corbino autodidatta”, nel quale è anche descritto l’incontro a Megara Hyblaea tra Epicarmo e i famosi archeologi francesi Francois Villard e George Vallet.
L’ultimo treno per il continente Epicarmo lo prese nell’autunno del 1983. Ricorda il figlio Sergio: “Ritornai ad Augusta con papà che aveva compiuto da pochi mesi ben 93 anni … a rivedere ogni strada, ogni viuzza della cittadina … chiesi se si fosse stancato. ‘No, per niente, e poi era necessario che lo facessi. Sono molto soddisfatto di quanti ho potuto incontrare e di quanto ho potuto rivedere; sono così riuscito a rinfrescare tutti i miei ricordi. Sai sono certo che questo è l’ultimo mio viaggio che faccio con te! Il prossimo, ma di solo andata e un po’ più lungo, lo farò per ricongiungermi con la mia Ida; ormai sono quasi tre anni che lassù mi aspetta!’. Un terribile groppo alla gola mi impedì di replicare: e puntuale e preciso come sempre in tutte le sue previsioni, la raggiunse serenamente il 25 aprile del 1984. E fummo in tanti a piangerlo!”
Andrea Vaccaro e Camillo Beccalli
FONTE: https://www.internationalwebpost.org/contents/LE_VITE_CHE_FANNO_LA_STORIA_24619.html
GIUSTIZIA E NORME
Green pass illegittimo, Avv. Sinagra: “Giudice accoglie miei ricorsi e convoca Brusaferro e Bassetti”
Il giudice del tribunale di Massa ha accolto i ricorsi presentati dal prof Augusto Sinagra. I due esperti “dovranno riferire in particolare sulla efficacia e sulla sicurezza dei “vaccini” attualmente in commercio”. Secondo il giurista “ci sono profili di incostituzionalità nei famigerati Decreti Legge in questione e della contrarietà di questi al diritto dell’Unione europea”. Traballa il certificato discriminatorio
Il giudice del tribunale di Massa, accogliendo i ricorsi presentati dal prof. Avv. Augusto Sinagra in merito ai decreti che introducono il Green pass semplice e rafforzato, ha disposto la convocazione del Presidente dell’Istituto Superiore di Sanità, Dott. Silvio Brusaferro e del Prof. Matteo Bassetti.
Lo fa sapere lo stesso giurista, citato dall’avvocato Renate Holzeisen su Telegram. Sinagra è Professore ordinario di diritto delle Comunità europee presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” e Avvocato patrocinante davanti alle Magistrature Superiori, in Italia ed alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, a Strasburgo.
Secondo quanto comunicato dal prof. Sinagra, Brusaferro e Bassetti “dovranno riferire in particolare sulla efficacia e sulla sicurezza dei “vaccini” attualmente in commercio e in inoculazione obbligatoria attraverso uno strumento legislativo estorsivo”.
“Questo – spiega ancora il giurista – al fine di valutare i profili da me evidenziati di incostituzionalità dei famigerati Decreti Legge in questione e della contrarietà di questi al diritto dell’Unione europea”.
“Con la conseguenza che il giudice nazionale è tenuto a disapplicare la legge nazionale. Nella sconfortante prova che su questi temi che riguardano una scelta di vita o di morte, sta dando larga parte della magistratura ordinaria e amministrativa, la decisione presa dal Tribunale di Massa apre uno spiraglio di speranza”.
“Non tutti i Giudici – commenta Sinagra – tendono a compiacere il potere governativo o altri poteri interni ed esterni, per coltivare le loro indebite speranze”.
FONTE: https://www.secondopianonews.it/attualita/2022/01/27/green-pass-illegittimo-avv-sinagra-giudice-accoglie-miei-ricorsi-e-convoca-brusaferro-e-bassetti.html
La non rieleggibilità del Capo dello Stato a tutela dell’equilibrio costituzionale: l’insegnamento del Presidente Sergio Mattarella
Causa crimini in Canada
Francesco Miglino – 31 01 2022
INIZIATA la causa globale per crimini contro l’umanità presentata ed accettata dalla Corte Superiore di Giustizia del Canada.
Un gruppo di oltre 1.000 legali e oltre 10.000 esperti medici guidato dal tedesco Reiner Fuellmich, uno dei più potenti avvocati d’Europa, ha avviato la più grande azione legale della storia definita “Norimberga 2” contro l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) e il Gruppo di Davos (World Economic Forum guidato dall’ultraottantenne Klaus Schwab) per crimini contro l’umanità.
Il Dottor Reiner Fuellmich è un avvocato tedesco americano, è colui che vinse cause multi-milionarie contro le frodi di Deutsche Bank e quella contro la Volkwagen per la frode Dieselgate. È membro fondatore del “Comitato Investigativo Corona tedesca”.
Fuellmich e il suo team hanno raccolto migliaia di prove scientifiche che attestano la totale inattendibilità dei test PCR e la frode che si nasconde dietro di essi.
FONTE: https://www.facebook.com/1656011171/posts/10222949594282440/
IMMIGRAZIONI
LA LINGUA SALVATA
LA NEOLINGUA DI ORWELL. RIFLESSIONI SPARSE
1. La neolingua di Orwell (nell’originale Newspeak, ossia “nuovo parlare”) è una lingua artificiale che il potere impone a tutta la società, di cui George Orwell parla nel suo romanzo 1984 (pdf) (qui in originale). Per capire bene di cosa si tratta è sufficiente leggersi questa scheda di Wikipedia. Qui si vogliono fare altre riflessioni. La neolingua è un fenomeno ancora attuale, in quanto serve per uniformare il pensiero. I significati delle parole sono predefiniti e cambiano solo quando lo vuole il potere. Quindi il processo va dall’alto al basso. I gerghi (giovanili, malavitosi, militari ecc.) nascono dal basso e lì si fermano, a meno che il fenomeno non sia molto esteso (come p.es. quello della tossicodipendenza): in tal caso il gergo viene alla ribalta e lo si vede usare nei mass-media e, con più difficoltà, nell’insegnamento scolastico, dove però l’italiano scritto domina ancora incontrastato. Chi compila i dizionari della lingua italiana arriva ad accettare taluni vocaboli o espressioni di questi gerghi, ma senza dar loro molto peso, in quanto sono molto soggetti alle mode. La lingua ufficiale del nostro paese è quella che, grazie ai dizionari della Crusca, alle scuole e ai mass-media, ha quasi completamente distrutto i tanti bellissimi dialetti che avevamo. In questo senso s’è imposta come una neolingua e chi parla il dialetto lo fa come se fosse un gergo ad uso interno.
2. Il pensiero si atrofizza anche se si hanno delle parole per esprimersi. Bisogna vedere quali sono le condizioni dell’espressione, cioè in che senso, in che contesto, con quali finalità usiamo le parole. P.es. le parole che usiamo nei luoghi di lavoro sono sicuramente più standardizzate di quelle che usiamo con partner e amici. Le parole che sentiamo ai telegiornali sono incredibilmente sempre uguali a se stesse. Le parole che sta usando Wikipedia, con la sua mania del “politicamente corretto”, stanno rischiando di diventare vuote, cioè di trovarsi anche nei manuali scolastici, i quali, nelle parole essenziali, son sempre tutti uguali, pur essendoci decine di editori. Non abbiamo nessuno fisicamente che c’impone una neolingua, ma è come se l’avessimo: è la cultura dominante, così piatta, così burocratica, così priva di simbolismo e di poeticità… E noi abbiamo il compito di svecchiarla, di renderla più pregnante, più aderente alla realtà. Ai limiti di renderla più eversiva. 3. Padre e Madre vogliono dire poco e nulla. Sul piano biologico la differenza esiste soltanto perché in principio era il due e non l’uno, nel senso che tutto esiste in quanto vi è una diversità tra uomo e donna. Sul piano culturale, che è nettamente prevalente sul biologico, tutto invece dipende dal maschilismo imperante nelle civiltà dominate dagli antagonismi sociali. Probabilmente prima della nascita delle civiltà urbanizzate non solo non si faceva differenza (se non appunto sul piano biologico, il che è un nulla) tra padre e madre, ma neppure tra famiglia e comunità, nel senso che i figli venivano allevati-educati da un intero collettivo, tutti i giorni, e non a compartimenti stagni come oggi, dove persone e luoghi, criteri e metodi sono sempre diversi e sui quali è molto difficile incidere: nidi-materne-elementari-medie-superiori-università-lavoro-associazionismo e ovviamente i legami di parentela. Perché questo discorso? Perché noi oggi non abbiamo neanche le parole per dire che la paternità può essere anche femminile e la maternità maschile. Siamo abituati a “dividere” e a “dividerci”, perché così c’impone la cultura razionalistica, e non a unire, come invece c’imporrebbe una cultura simbolica. 4. La burocratizzazione del linguaggio è una caratteristica di tutte le società basate sulla dominanza degli Stati e relative istituzioni, che non a caso hanno avuto bisogno d’imporre una lingua unica e nazionale, che tagliasse tutte le lingue dialettali, che oggi al massimo possiamo ascoltare nelle commedie di compagnie dilettantesche, le cui trame sono ambientate negli anni Cinquanta, cioè proprio nel momento della sconvolgente e repentina transizione dal mondo patriarcale-contadino a quello consumistico della famiglia nucleare (che poi è proprio questa drammaticità di mutamenti negli stili di vita a rendere quelle commedie dialettali così esilaranti). 5. Il Manzoni è il principale artefice della neolingua che tutti noi siamo costretti a scrivere (anche se per il parlato nazionale si dovranno attendere i discorsi del duce, la filmografia e soprattutto la nascita della televisione). Ancora oggi i Promessi Sposi sono, insieme alla Commedia dantesca, un testo base di tutte le superiori, con grandissimo tedio dei nostri ragazzi, che avvertono molto lontane dalle loro quelle problematiche. 6. La neolingua o è una lingua massificata che elimina le particolarità locali (e la si vede benissimo quando parlano p.es. i carabinieri, i quali, non avendo una grande istruzione, usano un linguaggio stereotipato, burocratico, simil-giuridico, che, lo si intuisce facilmente, è assai lontano dal loro originario ed è stato appreso con molta fatica) e quindi è una lingua che tende a spersonalizzare, a non far capire la propria provenienza. Oppure è una lingua d’élite, di una cerchia ristretta d’intellettuali, quella che in Italia s’è voluta far passare come lingua nazionale, usandola per discriminare chi non la possedeva, e ancora oggi in tutte le scuole la prova scritta d’italiano fa testo su ogni altra prova. 7. Quando scrisse 1984 Orwell aveva in mente lo stalinismo, ma se l’avesse scritto oggi si sarebbe accorto che il Socing è una caratteristica di qualunque Stato, anche democratico: basta vedere quanto “Socing” ci stanno facendo digerire gli americani con la questione di Assad “piccolo chimico”, loro che di uranio impoverito, napalm, fosforo e atomiche ne sanno giusto un tantino di più. 8. Neolingua forse vuol dire anche questo, nei forum del web, generalmente intesi: dare l’impressione che, pur nell’inevitabile presunzione di conoscere la verità, non si sia disposti a rivedere le proprie posizioni o a confrontarsi alla pari. Che ognuno di noi abbia idee o principi è scontato: non deve però esserlo il volerli imporre e tanto meno un qualsivoglia attacco di tipo personale (che peraltro in questi luoghi virtuali subisce sempre inaspettate enfasi). Ciò tuttavia non toglie l’uso d’una dialettica serrata, né il dovere d’andare al di là di certi toni, specie tra adulti. Dico questo perché anche se si usassero frasi molto semplici, non è detto che si eviterebbe il rischio di “fare socing”: Stalin era un maestro nell’usare argomentazioni elementari per contestare i propri avversari e sappiamo poi com’è finita. 9. Se c’è una cosa che in teoria non si potrebbe fare è proprio quella d’essere dogmatici nei confronti della lingua, come invece lo sono tutte le dittature, siano esse esplicite o mascherate, come in molte democrazie, dove la lingua ufficiale è quella dei mass-media audiovisivi, molto standardizzata, di facile comprensione, simile alla pubblicità (dove le subordinate quasi non esistono, essendo sufficiente soggetto e predicato). In questo gli americani sono degli autentici campioni: son riusciti a fare, attraverso cinema e tv, del loro inglese una lingua facilmente traducibile in qualsiasi altra lingua, proprio perché basata su frasi fatte, luoghi comuni, espressioni molto semplici e dirette (basta vedere i loro serial televisivi, che nei modi espressivi son tutti uguali, pur trattando argomenti molto diversi). Lingue troppo complicate nel lessico, nella sintassi, nella grammatica e anche nella grafia, sono destinate, in un sistema sociale mondiale basato sul profitto, a restare emarginate, cioè utilizzabili in aree geografiche ristrette, per quanto sovraffollate siano, a meno che non vengano imposte con la forza ad aree più estese, diverse da quelle originarie, come facemmo noi col latino o gli ellenici col greco. 10. Nel Socing di 1984 non c’era nulla di sicuro sul piano linguistico, in quanto tutto poteva essere modificato in qualunque momento, a seconda delle esigenze del potere dominante. 11. Il trotzkista Orwell odiava lo stalinismo perché quando andò a combattere in Spagna a favore dei repubblicani non sopportava la direzione centralizzata delle operazioni militari che i comunisti volevano imporre, e si sa poi come andò a finire. 12. Se interpretiamo la neolingua solo come l’interpretava Orwell, ci precludiamo la possibilità di usare questo termine in maniera estensiva e metaforica, e non faremo, rispetto alla sua analisi, alcun passo avanti. 13. Perché la neolingua dei politici prescinde dal Trattato di Wittgenstein, che pur si presterebbe benissimo a un uso totalitario? Semplicemente perché per la moderna neolingua il potere non sta nella coerenza ma nell’incoerenza. Cioè le frasi che si dicono, persino le singole parole possono voler dire qualunque cosa: quante volte in questi ultimi 20 anni il potere della destra ci ha detto: “Non ci avete capito”, “Ci avete frainteso”, “Ci fate dire cose che non abbiamo mai detto”? Questa forma di neolingua è molto moderna, che Orwell non poteva certo prevedere, in quanto, ingenuamente, faceva coincidere neolingua con dittatura esplicita. Oggi la dittatura si chiama “democrazia formale” (o parlamentare) e la neolingua che parlano i suoi esponenti viene usata in modo da far credere che le scelte del potere vengono compiute dal popolo. Un po’ come quando Pilato disse, dopo aver fatto fustigare Gesù, in maniera tale che il popolo si convincesse che uno ridotto così non avrebbe potuto compiere alcuna rivoluzione: “Chi volete che vi liberi?”. 14. Chi prova a leggere Marxismo e linguistica di Stalin, difficilmente troverà aspetti non condivisibili. E’ un testo del 1950. Orwell scrisse il suo due anni prima. Stalin, tra le altre cose, prende a bacchettate i comunisti che non capiscono come la lingua non possa essere considerata una semplice sovrastruttura dell’economia. Chi pensa che i russi comunisti siano stati degli idioti a non capire che stava dicendo delle assurdità, ha, come minimo, dei pregiudizi di tipo etnico o ideologico. Quando è stata avviata la destalinizzazione, quel testo non è mai stato smentito. 15. Che il latino abbia svolto la funzione di una neolingua è pacifico. E’ stato responsabile della distruzione o emarginazione forzata di una miriade di lingue italiche pre-romane. L’ha fatto con la Roma imperiale e con la chiesa teocratica. Il tedesco è riuscito a sopravvivere, senza contaminazioni latine, solo perché Roma non riuscì mai a oltrepassare militarmente il Reno. E nel Medioevo mi chiedo cosa sarebbe successo allo slavo se non avessero fermato le crociate latine dei cavalieri Teutonici nei Paesi baltici. Per la chiesa romana greco o slavo voleva dire ortodosso, cioè rivale in fatto di religione latina. Quando Scoto Eriugena tradusse dal greco al latino le opere dell’Areopagita, papa Nicola I se avesse potuto l’avrebbe ammazzato: infatti in Europa occidentale, a quel tempo, era ormai l’ultimo che conosceva bene il greco. 16. Quando si parla di lingua non si può essere illuministi: la vita è un’altra cosa, la lingua è solo uno strumento espressivo. Anzi, sarebbe meglio parlare di comunicazione, di cui la lingua è un mezzo fra tanti. La vita non nasce dal linguaggio, ma solo da se stessa, anche se il linguaggio può influenzarla. E’ impossibile condividere la vita altrui, limitandosi all’uso della lingua. Se la lingua fosse indispensabile per capirsi, il silenzio renderebbe alienati e i trappisti sarebbero degli zombie. 17. Nel socing di Orwell le parole cambiano di continuo proprio perché la vita non cambia mai; anzi la vita è così statica che le parole possono essere ridotte all’osso. 18. Un esempio tipico di neolingua alla occidentale l’ha offerto molte volte Berlusconi, che indubbiamente è stato un vero genio della comunicazione televisiva, soprattutto là dove scandisce ritmicamente concetti molto semplici ed efficaci, dichiarando, con estrema serietà, guardando fisso la telecamera, quasi giurando davanti a dio, d’essere innocente di tutto, attribuendo la responsabilità di una catastrofe imminente alla magistratura politicizzata e alla sinistra che lo odia e lo invidia. Ha voluto toccare, insieme, sensi e pregiudizi, paure ataviche e istinti primordiali. Quando si arriva a questi livelli, non vi è molta differenza tra follia e narcisismo. Ci vuole una buona dose di autismo per fare “socing” e di spregiudicatezza nell’attribuire l’autismo ai nemici politici. La realtà viene completamente deformata da un’ideologia che le si sovrappone. Sono 20 anni che milioni di persone credono in questa caricatura del vero “grande fratello”. Perché caricatura? Perché è patetico pensare di poterlo impersonare individualmente. Il “grande fratello” funziona bene proprio in quanto è un’astrazione, non esiste materialmente, non ha “figura umana”. Berlusconi è semplicemente ridicolo quando fa la vittima del sistema e nello stesso tempo agisce come se fosse un figlio di questo stesso sistema. Ecco un’altra cosa che Orwell non aveva capito, perché fondamentalmente ingenuo: lo stalinismo è spirito, non persone. Il “grande fratello” è invisibile e Berlusconi rappresenta il vecchio, qualcosa che va superato da un’illusione più sofisticata, che non coincida esattamente con un leader carismatico, ma con qualcosa d’impalpabile, d’immateriale. Ma come potrà venir fuori dalla nostra civiltà occidentale, così schiacciata sulle determinazioni individualistiche e narcisistiche? Non potrà. Ci vuole altro. Qualcosa p.es. di “cinese”, dove l’individuo è una mera astrazione, un nulla inghiottito dalla natura, dallo Stato, da un’ideologia di partito talmente fluida che riesce ad essere, nello stesso tempo, capitalista e comunista. Che genialità questi cinesi! Ecco il nostro prossimo “grande fratello”! Non ci chiederanno più di credere in un leader, ma in un sistema senza volto, dove sarà più facile identificarsi, proprio perché non avrà lineamenti visibili, chiaramente distinguibili. Ognuno potrà rispecchiarsi nel sistema e ritrovare se stesso, e non s’accorgerà neppure d’essere anche lui senza volto. 19. Del concetto di “neolingua” bisogna dare un’interpretazione simbolica o traslata, perché quella letterale serve soltanto a qualcuno che fa professione di anticomunismo ad oltranza. Non è sbagliata la lettura letterale, ma bisogna darla per scontata (anche perché “1984” è molto datato) e cercare di fare un passo avanti. La supponenza, p.es., è sempre “neolingua”, induce a fare crociate, ad allestire tribunali inquisitori, a pretendere patenti di conformità allo status quo. Su questo Orwell m’avrebbe dato ragione, se non altro perché, essendo inglese, evitava di prendere le cose di petto. Questo senza nulla togliere al fatto ch’egli, per me, resta sempre un grande ingenuo. Infatti il campione della neolingua ce l’aveva proprio in casa: si chiamava Churchill, quello che scatenò la guerra fredda subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, che aveva procurato 50 milioni di morti. 20. L’esperanto non mi ha mai convinto: è una lingua a tavolino, una forzatura intellettualistica, in cui s’è cercato di prendere il meglio o il più facile da varie grammatiche, nella speranza che chi, come lingua madre, parlava una di quelle grammatiche, trovasse più facile accostarsi a una nuova lingua che della sua grammatica avesse almeno qualcosa. Dicono che chi studia esperanto apprende più facilmente altre lingue, ma vorrei vederlo coi miei occhi. 21. Neolingua sopraffina è anche quella offerta dai socialnetwork, che illudono di poter creare una democrazia alternativa a quella formale del potere costituito. Parlarsi a distanza dà l’impressione di una prossimità con cui in apparenza si pensa di poter fare qualunque cosa (si pensi p.es. alle tante petizioni che firmiamo), ma che in realtà si riduce a una bolla di sapone. Questa neolingua telematica è un effetto del globalismo del capitale, i cui poteri effettivi sono del tutto spersonalizzati, ma incredibilmente reali, anche se noi non li vediamo che attraverso occhiali filtrati, quelli appunti dei socialnetwork, in cui si può discutere di tutto senza sentirsi veramente coinvolti in prima persona. |
Testi di George Orwell
- Romanzi e saggi
Orwell George, 1999, Mondadori - Letteratura palestra di libertà
Orwell George, 2013, Mondadori - 1984
Orwell George, 2013, Mondadori - Nel ventre della balena e altri saggi
Orwell George, 2002, Bompiani - La fattoria degli animali
Orwell George, 2001, Mondadori - Giorni in Birmania
Orwell George, 2006, Mondadori - Maiali
Rauch Andrea; Orwell George, 2005, La Biblioteca - Omaggio alla Catalogna
Orwell George, 2002, Mondadori - Ricordi della guerra di Spagna
Orwell George, 2007, Datanews - Diari di guerra
Orwell George, 2007, Mondadori - Romanzi e saggi
Orwell George, 2006, Mondadori - La figlia del reverendo
Orwell George, 2005, Mondadori - La strada di Wigan Pier
Orwell George, 2000, Mondadori - Una boccata d’aria
Orwell George, 1997, Mondadori - Fiorirà l’aspidistra
Orwell George, 1997, Mondadori
FONTE: https://www.homolaicus.com/letteratura/neolingua.htm
PANORAMA INTERNAZIONALE
L’Europa in trincea contro il nemico inventato
di Manlio Dinucci
Il Dipartimento di Stato, «quale misura precauzionale contro una possibile invasione russa dell’Ucraina», ha ordinato l’evacuazione dei familiari e di una parte del personale dall’Ambasciata Usa a Kiev, che con 900 funzionari è tra le maggiori in Europa, e ha elevato a livello 4 di rischio, il massimo, l’avvertimento ai cittadini statunitensi di non andare in Ucraina. Subito dopo il Foreign Office ha annunciato, con la stessa motivazione, il ritiro del personale dall’Ambasciata britannica a Kiev. Queste operazioni di guerra psicologica, miranti a creare allarme su una imminente invasione russa dell’Ucraina e delle tre repubbliche baltiche, preparano una ulteriore e ancora più pericolosa escalation Usa-Nato contro la Russia.
La Casa Bianca ha annunciato che il presidente Biden sta considerando di «dispiegare diverse migliaia di soldati Usa, navi da guerra e aerei nei paesi Nato del Baltico e dell’Europa Orientale». Si prevede che inizialmente arriveranno 5.500 soldati Usa che, unendosi ai 4.000 già in Polonia e seguiti da altre migliaia, estenderanno al Baltico il loro schieramento permanente, come ha richiesto la Lettonia.
Speciali convogli ferroviari stanno già trasportando carrarmati Usa dalla Polonia all’Ucraina, le cui forze armate sono da anni addestrate, e di fatto comandate, da centinaia di consiglieri militari e istruttori Usa affiancati da altri della Nato. Washington, che l’anno scorso ha fornito a Kiev armi per l’ammontare ufficiale di 650 milioni di dollari, ha autorizzato Estonia, Lettonia e Lituania a trasferire all’Ucraina armamenti Usa in loro possesso, in particolare missili Javelin. Altri armamenti sono forniti dalla Gran Bretagna e dalla Repubblica Ceca.
La Nato comunica che i paesi europei dell’Alleanza stanno mettendo le loro forze armate in stato di prontezza operativa e inviando altre navi da guerra e aerei da combattimento agli schieramenti in Europa Orientale. L’Italia, con i cacciabombardieri Eurofighter, ha preso il comando della missione Nato di «polizia aerea potenziata» in Romania. La Francia è pronta a inviare truppe in Romania sotto comando Nato. La Spagna sta inviando navi da guerra nelle forze navali Nato e cacciabombardieri in Bulgaria. L’Olanda si prepara a inviare caccia F-35 in Bulgaria. La Danimarca invia caccia F-16 in Lituania. Ieri è iniziata nel Mediterraneo la grande esercitazione navale Nato Neptune Strike ’22 sotto il comando del viceammiraglio Eugene Black, comandante della Sesta Flotta con quartier generale a Napoli Capodichino e base a Gaeta. All’esercitazione, che dura 12 giorni, partecipa la portaerei nucleare Usa Harry Truman col suo gruppo di battaglia, comprendente 5 unità lanciamissili pronte all’attacco nucleare per «rassicurare gli Alleati europei soprattutto sul fronte orientale minacciato dalla Russia».
Subito dopo la Nato Neptune Strike ’22, si svolgerà in febbraio l’esercitazione Mission Clemenceau 22 che vedrà impegnate, in una «Operazione di tre portaerei», la francese Charles de Gaulle a propulsione nucleare col suo gruppo di battaglia, comprendente anche un sottomarino da attacco nucleare, che entrerà nell’Adriatico; la Harry Truman col suo gruppo di battaglia e la portaerei italiana Cavour con a bordo gli F-35. Anche questa esercitazione, ovviamente, è diretta contro la Russia.
Mentre la Nato intima alla Russia di «de-escalare», avvertendola che «qualsiasi ulteriore aggressione comporterà un alto costo per Mosca», i ministri degli Esteri dell’Unione Europea (per l’Italia Pietro Benassi in sostituzione di Luigi Di Maio) – riuniti a Bruxelles e collegati in teleconferenza col segretario di stato Usa Blinken – hanno decretato ieri altre misure contro la Russia. L’Unione Europea dei 27, di cui 21 appartengono alla Nato sotto comando Usa, riecheggia l’avvertimento Nato alla Russia, dichiarando che «qualsiasi ulteriore aggressione militare contro l’Ucraina avrebbe pesantissime conseguenze per la Russia». In tal modo la UE partecipa alla strategia della tensione, attraverso cui gli Usa creano fratture in Europa per mantenerla sotto la loro influenza.
FONTE: https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/22158-manlio-dinucci-l-europa-in-trincea-contro-il-nemico-inventato.html
POLITICA
SOCING, BIPENSIERO E NEOLINGUA
«Nell’intero corso del tempo, forse a partire dalla fine del Neolitico, sono esistiti al mondo tre tipi di persone: gli Alti, i Medi e i Bassi». – Emmanuel Goldstein
Ricorderete certamente l’incipit di uno dei più famosi libri della teoria del complotto: Teoria e prassi del collettivismo oligarchico, di Emmanuel Goldstein. Ne parleremo meglio dopo. Per il momento voglio concentrarmi su altri due autori: George Orwell e David Icke. Nel suo celebre 1984, George Orwell ci presenta un mondo diviso in tre superpotenze continentali che si distinguono fra loro più dal nome e dai colori della bandiera che dai contenuti e dai mezzi di coercizione adottati per inibire le libertà individuali. Per spiegare i pericoli verso cui un mondo impazzito come il nostro potrebbe marciate in futuro, Orwell adopera tre parole: socing, bipensiero e neolingua.
Cos’è il socing? Secondo Orwell è una dottrina politico-sociale attraverso la quale si nega l’uguaglianza fra gli individui, si promuove un’organizzazione della società rigidamente piramidale e si annulla qualsiasi forma di libero pensiero. Sempre secondo Orwell, il socing è la naturale evoluzione del socialismo e di ogni movimento intellettuale e politico di sinistra. Il mondo, diceva Orwell nel 1949 – data di pubblicazione del romanzo, va verso una divisione geopolitica in tre superpotenze: l’Oceania, l’Eurasia e l’Eustasia. Tre continenti che si combattono senza prevalere mai, in una perenne guerra di confine, con risvolti a volte fortunati altre sfortunati, perché in fondo: «La guerra è pace».
Anche se forse il collegamento lo nobilita un po’, svilendo dall’altra parte un pilastro della letteratura mondiale, non possiamo evitare di tirare in causa l’erede di facto del cospirazionismo mondiale: David Icke. Rispetto a Orwell, Icke aggiunge un ulteriore tassello secondo me parecchio interessante: la direzione presa dal mondo non è naturale – come sosteneva Orwell, e quindi inevitabile – ma voluta e progettata. Certo Icke, dobbiamo ammetterlo, un po’ strano lo è, e quando gli si chiede chi muove le fila degli eventi, chi è tanto intelligente e lungimirante da progettare questa straordinaria truffa che stiamo vivendo, egli tira in causa i Rettiliani, la regina Elisabetta e una sfilza di star sotto mentita spoglia – ovvero alieni travestiti da umani.
Tuttavia, benché io non sia un fautore del cospirazionismo e non creda che ci sia al mondo qualcuno in grado di coordinare gli eventi così come vorrebbero farci credere, non si può negare che il denaro, ad esempio, non sia altro che una truffa perpetrata a danno dei più poveri, cioè della maggioranza. Si badi bene, una truffa che ha avuto e tuttora ha un senso e un utilità sociale. Senza il denaro a fare da motore non saremmo mai giunti sulla luna né avremmo mai tagliato i traguardi che negli ultimi due secoli hanno reso l’umanità quello che è. Tuttavia bisogna essere consapevoli del fatto che il denaro, in quanto tale, non è altro che un gioco di società non troppo diverso dal più semplice Monopoli. Domandatevi, ad esempio, cosa ve ne fareste di una cassa zeppa di banconote da 500 € soli su un isola deserta privati di acqua o cibo… La risposta è scontata.
Come sempre, si cede qualcosa per ottenerne un’altra. Così è se pensiamo alla società come a un’organizzazione politico-amministrativa. L’uomo, che per definizione nasce libero e dotato di libero arbitrio – a dirlo sono altri due libri: la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e la Bibbia – cede una parte della propria indipendenza per un corrispettivo altrettanto indispensabile: sicurezza, ordine e stabilità. Per avvantaggiarsi dei numerosi benefici derivanti dall’unirsi in gruppo, cioè in società, si cede un po’ di quei diritti inalienabili che sono propri dell’essere umano: libertà di pensiero, individualismo e felicità.
Non è forse questo l’inizio di una forma di socing? Se la società domina sull’individuo al punto che se si diventa semplici numeri, allora si può anche essere sacrificati sull’altare dell’interesse comune. Tuttavia, se un uomo nasce libero e si unisce in società per libera scelta, allora in qualsiasi momento dovrebbe poter decidere di abbandonarla e viverne al di fuori. Dove e come? Non c’è più spazio per fare l’eremita, e comunque non verrebbe permesso. Non è questo forse l’inizio del bipensiero? Credi di essere libero ma in realtà non lo sei, e non lo puoi neanche essere. Perfino le ribellioni non sono altro che tentativi pilotati di rovesciare un ordine precostituito con un altro. Per quanto riguarda la neolingua, fatevi un giro sui vari social network: la troverete.
Dunque aveva ragione Orwell? Le denunce di David Icke, per quanto fantasiose, hanno un fondo di verità? Quando mi capita di parlare di queste cose con uno della generazione di mio nonno, la risposta che inevitabilmente ricevo è: «Allora? È sempre stato così…» Lo sguardo inquisitore di chi osserva con poca pazienza un ingenuo mi infilza al terreno. La vecchia generazione lo sapeva che siamo vittime del nostro stesso sistema, e che le rivoluzioni sostituiscono solo un tiranno con un altro tiranno. L’uguaglianza? Una mera utopia che serve ad alimentare la corrente socialista. Forse anche le teorie cospirazioniste sono premeditate e hanno uno scopo… Dunque qual è allora la conclusione di tutto questo? Semplice, in questa vita c’è un’unica libertà possibile: ragionare con la propria testa.
P.S. Naturalmente non esiste alcun manuale di Teoria e prassi del collettivismo oligarchico, e neppure un Emmanuel Goldstein. È il modo in cui George Orwell in 1984 decide di dare una spiegazione e una forma a un certo tipo di pensiero: quello complottista. Il manuale di Goldstein, e il suo stesso autore, non sono altro che un’astuta invenzione di quella oligarchia che in 1984 tira le fila dell’ordine sociale. Lo scopo è quello di stanare tutti quegli individui che un giorno potrebbero diventare dei dissidenti. Come dire: anche il complottismo è pilotato. David Icke, purtroppo, invece esiste davvero.
FONTE: https://salvatoreanfuso.com/2017/05/12/socing-bipensiero-neolingua/
STORIA
Epurazioni
Sisto Ceci 28 01 2022
Ricordare fa bene. Ma senza tralasciare nulla! ….: “Giancarlo Lehner 25 m ·Nel giorno della Memoria ricordiamo.
L’artista Mario Mafai, autore di una testa di “Balilla” e di una “Via dell’Impero”, si salva improvvisando lodi alla Resistenza.
I giornalisti Paolo Monelli e Guido Piovene, che avevano aderito alla campagna antisemita del ’38, si salvano dicendosi antifascisti.. Il fascistissimo Guido Manacorda evita il processo iscrivendosi al Pci. Non vengono epurati Davide Lajolo, Giorgio Bocca, Vittorio Veltroni, Guido Piovene, Paolo Monelli, lesti a cambiare partito, chi col Pci come Davide Lajolo, già volontario in Spagna dalla parte dei falangisti; chi con la Dc fanfaniana come Vittorio Veltroni, il padre di Walter, incaricato nel 1938 della radiocronaca della visita di Hitler in Italia.
Il razzista Nazareno Padellaro, zio di Antonio Padellaro, autore dell’Inno delle scuole al Duce, viene presto riabilitato.
Enzo Santarelli, firmatario del manifesto della razza, la fa franca, chiedendo la tessera del Pci, diventando storico del partito. Si salva anche Romano Bilenchi, grazie alla tessera del Pci.
Si salva anche Alba De Cespedes, protagonista della campagna di stampa fascista a favore delle leggi razziali.
Mi fermo qui, tralasciando migliaia di nominativi, perché la memoria mi produce una dolorosissima indignazione.
FONTE: https://www.facebook.com/100031860510496/posts/642566196815392/
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