RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI 8 MAGGIO 2024

RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI 8 MAGGIO 2024

 

A cura di Manlio Lo Presti

Esergo

Perché l’uomo uccide? Uccide per il cibo.

E non solo per il cibo: spesso ci deve essere qualcosa da bere.

WOODY ALLEN, Senza piume, La nave di Teseo, 2023, pag. 10

 

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SOMMARIO

UNO SCIOPERO PER AZZOPPARE IL GOVERNO?
I RUSSI COMBATTONO CON LE PALE – 5 e 6 MARZO 2023
La versione del 7 ottobre contraddetta dalla Storia
LA CULTURA DELLA LACRIMA E DEL VITTIMISMO
TORNARE ALLA MOKA PER LA NOSTRA SALUTE E PER L’AMBIENTE
IL BLOCCO IDEOLOGICO RUSSOFOBICO
Dalla Somalia all’Ucraina passando per il “Siraq”: il boom delle “tecniche”
Ucraina, Charles Michel: “Se vogliamo la pace prepariamoci alla guerra.
LE MACCHINE SPIRITUALI
Perché ci preoccupiamo del neo nazista Navalny e lasciamo al suo destino un eroe civile come Assange?
Ritorna l’affare Kastner
Bombardare per un mondo più giusto?
Arrestatemi
Quando si parla di invasione silenziosa, alcune persone mi chiedono cosa sia.
Ecco come la Germania ha avuto 10 volte gli aiuti di Stato che ha ottenuto l’Italia
Le Corporations si stanno sostituendo alle banche commerciali nel fare credito
15 cose che non sai sull’Iran
L’ossessione antifascista
Humanitarian Imperialism: The New Doctrine of Imperial Right

 

 

EDITORIALE

UNO SCIOPERO PER AZZOPPARE IL GOVERNO?

Manlio Lo Presti (Esperto di banche e finanza)

Didascalia immagine: Il primo logo del marchio risale al 1954, quando l’architetto e pittore Erberto Carboni realizzò il primo logo ufficiale della RAI - Fonte: https://www.brandforum.it/logo_tales/rai-radiotelevisione-italiana/

Didascalia immagine: Il primo logo del marchio risale al 1954, quando l’architetto e pittore Erberto Carboni realizzò il primo logo ufficiale della RAI – Fonte: https://www.brandforum.it/logo_tales/rai-radiotelevisione-italiana/

Lo sciopero politico allestito dai giornalisti RAI offre informazioni preziose per coloro che intendono comprendere senza condizionamenti ideologici. Dalla consultazione delle pagine in rete emerge la morfologia degli schieramenti nel mondo dell’informazione nazionale. Abbiamo il gigantesco fronte di periodici governativi che plaude alla partecipazione allo sciopero con copertura dal 75 all’85%.

Qualche titolo della stampa coglie l’occasione per incolpare un altro sindacato che,  di fatto considerato di serie B. Al blocco della stampa “allineata al buonismo globalista” sfugge (volutamente?) che i sindacati sono organizzazioni pariteticamente riconosciute dalla Carta Costituzionale. Un requisito che, abilmente, sbandierano solamente quando conviene alle loro manovre. Incolpare la diffusione di alcune trasmissioni televisive ad un altro sindacato è un’operazione pericolosa, ma a questi importa solo il trituramento dei dissidenti. Essi non intendono né ora né mai iniziare un confronto veramente democratico. Scatta la solita “caccia all’uomo” mirata alla rapida individuazione dei nemici da inserire in liste di proscrizione e da sterminare quanto prima.

Nell’altro fronte, fortemente minoritario, si narra di adesioni scarse e di fallimento da parte del blocco che aveva l’intenzione di fermare l’azienda pubblica al 100%. Non sapremo mai la verità sui i numeri reali della partecipazione alla manifestazione caratterizzata da un forte carattere politico. Rimane il fatto che l’operazione messa in piedi per oscurare la comunicazione delle attività del governo in carica non è riuscita, almeno nella misura totalitaria sperata dai suoi promotori. Dal solito atteggiamento di arroganza e di supponenza, la presenza del dissenso è considerata un fastidio da estirpare e non un segnale di richiesta di apertura e di scambio di vedute. Nessun confronto: il fortino appartiene a “loro” punto e basta!

L’esame dei link presenti in Google dopo aver digitato la domanda:” Adesione allo sciopero della Rai” ha riportato una sproporzione enorme fra il numero dei periodici dichiaranti il successo dell’azione sindacale e quelli che hanno scritto di una iniziativa parzialmente fallita. L’esplorazione da me eseguita, solo sulle prime due pagine, mostra immediatamente un rapporto di 19 allineati contro 4 periodici di opposizione e 3 neutrali:

La lista indicativa, ma non esaustiva, qui:

OPPOSIZIONE

https://www.ilfaroonline.it/2024/05/07/rai-sciopero-a-meta-tg1-e-tg2-vanno-in-onda-ma-in-forma-ridotta/568891/

https://www.ilgiornale.it/news/attualit/non-ci-pieghiamo-occupa-rai-anni-flop-dello-sciopero-tv-2318412.html

www.laverità.it         Suicidio del sindacato rosso: in onda i tg Rai

https://www.lidentita.it/la-pretesa-che-il-diritto-di-sciopero-diventi-un-obbligo/

ATLANTISTI-BUONISTI-GLOBALISTI

https://www.ansa.it/friuliveneziagiulia/notizie/2024/05/06/rai-tgr-fvg-adesione-allo-sciopero-oltre-l80_b8898b2e-d24d-4241-ae35-25345b625e10.html

https://www.ansa.it/amp/friuliveneziagiulia/notizie/2024/05/06/rai-tgr-fvg-adesione-allo-sciopero-oltre-l80_b8898b2e-d24d-4241-ae35-25345b625e10.html

https://www.collettiva.it/archivio-storico/rassegnait/rai-adesione-sciopero-all85-i8fxk6dj                      Rai, adesione sciopero all’85%

https://roma.corriere.it/notizie/politica/24_maggio_06/il-nuovo-sindacato-unirai-contro-lo-sciopero-dei-giornalisti-rai-non-serve-insultarci-e-cambiato-il-vento-e-oggi-lo-vedranno-f14ff4a4-ef89-4f87-9596-1c08bde23xlk.shtml Il nuovo sindacato UniRai contro lo sciopero dei giornalisti Rai: «Non serve insultarci, è cambiato il vento e oggi lo vedranno»

https://www.fnsi.it/usigrai-ha-scioperato-oltre-il-75-dei-giornalisti-rai-la-mobilitazione-non-si-ferma                      Usigrai: «Ha scioperato oltre il 75% dei giornalisti Rai. La mobilitazione non si ferma»

https://futura.news/sciopero-usigrai-in-piemonte-l-adesione-supera-l-80-per-cento/                 Sciopero Usigrai, in Piemonte l’adesione supera l’80 per cento

https://www.huffingtonpost.it/politica/2024/05/03/news/krumirai_a_viale_mazzini_braccio_di_ferro_sullo_sciopero_di_lunedi-15788215/     Krumirai. A viale Mazzini braccio di ferro sullo sciopero di lunedì

https://www.ilmessaggero.it/televisione/rai_tg_sciopero_giornalisti_tg1_tg2_cosa_e_successo-8099980.html                     Rai, sciopero giornalisti Usigrai: ma Tg1 e Tg2 vanno lo stesso in onda

https://www.ilpost.it/2024/05/06/censura-rai-giornalisti-sciopero/                                 I molti tentativi di censura in Rai raccontati dai giornalisti in sciopero

https://www.ilsole24ore.com/art/rai-unirai-fa-breccia-sciopero-e-vanno-onda-edizioni-tg1-tg2-e-gr1-AF2R7EtD Il sindacato Unirai sfida lo sciopero e trasmette edizioni TG1, TG2 e GR1

https://www.lapresse.it/spettacoli/televisione/2024/05/07/sciopero-rai-usigrai-adesione-oltre-il-75-mobilitazione-non-si-ferma/

https://www.open.online/2024/05/07/sciopero-rai-adesioni-augias-vs-governo-meloni/     Lo sciopero Rai spacca le redazioni, la versione di Augias sulla politica nei Tg: «Così ora vogliono imporre una nuova visione del mondo»

https://www.primaonline.it/2021/12/30/341625/massiccia-adesione-allo-sciopero-dei-giornalisti-rai/                     Massiccia adesione allo sciopero dei giornalisti Rai

https://www.primaonline.it/2024/05/06/407701/giornalisti-rai-contro-giornalisti-rai-unirai-boicotta-lo-sciopero-usigrai/                 Giornalisti del Servizio pubblico contro giornalisti del servizio pubblico. Unirai boicotta Usigrai

https://www.quotidiano.net/politica/sciopero-giornalisti-rai-ma-due-tg-vanno-in-onda-621bf939               Sciopero giornalisti Rai. Ma due TG vanno in onda

https://www.repubblica.it/politica/2024/05/06/news/rai_sciopero_tg1_tg2_in_onda-422834141/              Unirai boicotta lo sciopero, in onda Tg1 e Tg2 grazie agli iscritti al sindacato di destra

https://www.triesteprima.it/cronaca/sciopero-rai-fvg.html             I giornalisti della Rai incrociano le braccia: adesioni sciopero all’80 per cento

https://www.usigrai.it/usigrai-ha-scioperato-oltre-il-75-delle-giornaliste-e-dei-giornalisti-rai/              Usigrai: ha scioperato oltre il 75% delle giornaliste e dei giornalisti Rai

https://www.virgilio.it/italia/firenze/notizielocali/grande_adesione_allo_sciopero_dei_giornalisti_della_tgr_toscana-73282394.html                    Grande adesione allo sciopero dei giornalisti della Tgr Toscana

NEUTRALI

https://www.ilfattoquotidiano.it/2024/05/06/giro-ditalia-la-terza-tappa-in-onda-su-rai-2-senza-commento-per-lo-sciopero-le-ragioni/7537633/

https://www.lastampa.it/politica/2024/05/07/news/rai_sciopero_a_meta_sconfitto_fortino_rosso-14281735/#google_vignette

https://www.rainews.it/tgr/lombardia/articoli/2023/11/sciopero-saltano-alcuni-programmi-rai-botta-e-risposta-tra-usigrai-e-azienda-d39662d3-d6d6-4d13-a31e-607019be08f7.html

Come era prevedibile, i dati sono contrastanti ma con titanica presenza di elogiatori del successo sindacale dei giornalisti Rai. Per evitare la solita polemica sui dati non bastava acquisire i dati dello sciopero elaborati dall’ufficio del personale della Rai che ha il compito di segnalare i dipendenti in sciopero? Non si tratta di segreto di Stato. Il fine, quindi, è quello di creare caos che si aggiunge al caos.

Un dislivello di tali proporzioni certifica che la Rai non è stata fascistizzata e che, anzi, continua ad essere il fortino di certa cultura di progressismo al caviale. Continua ad essere il punto di riferimento egemonico dei padroni del discorso di parte atlantista e globalista. Una parte continua a fingere di tutelare 1) una popolazione italiana che nei fatti è stata abbandonata a sé stessa, e meno male che la ex-italia è stata definita un “Paese di media potenza”; 2) di non aver minimamente pensato in modo coordinato ad una dignitosa collocazione lavorativa della marea di immigrati.

Il fronte atlantista presente nell’azienda pubblica continua a svolgere la sua attività nella stessa misura presente nei governi precedenti. Altro che patriarcato, altro che censura fascista, altro che blocco delle opinioni, altro che “imporre una nuova visione del mondo” a detta di un noto giornalista ora passato ad altra rete non certo buonista globalista e con quali vere motivazioni…

È risaputo che le roccaforti delle sinistre allo champagne sono presenti nella magistratura, nel sistema scolastico in permanente collasso e nell’industria dell’informazione, ma appaiono crepe sempre più numerose al loro monolitismo. Un segnale da non ignorare. Perseguitare il dissenso con insulti e minacce, come si può leggere in alcuni titoli sopra elencati, inasprisce i toni, fa dilagare la propaganda che non viene valutata falsa informazione perché irrogata dall’alto dai “padroni del discorso”. Non è più un mistero per nessuno che, in questi casi, i verificatori (fact checkers) pagati da strutture di oltre Atlantico e da certi giornali del nord Italia non muovono un dito, inerti.

Esaspera il conflitto continuare a descrivere il mondo con la lente puramente conflittuale ed ideologica della doppia verità, del bis-pensiero, della gestione dei diritti ad orologeria, dell’uso del martello giudiziario, del bastone mediatico ben saldo in certe mani. Uno scambio fruttuoso non è previsto. Siamo in piena guerra ibrida che da decenni affligge il nostro Paese che non deve avere il diritto di progettare una propria via alla democrazia.

Lo sciopero Rai rientra in questa strategia di stritolamento delle opinioni-non-conformi, con il palese scopo di oscurare la visibilità dell’attuale governo. Notare la data: casualmente a ridosso del confronto elettorale europeo, con la previsione di una sua ripetizione ad oltranza.

Per gli stessi motivi aziendali, ancora irrisolti, nel passato le organizzazioni sindacali de’ noantri sono rimaste inerti. Conosciamo questo copione. Le maggiori organizzazioni confederali saranno ricordate per il loro totale silenzio durante i massacri sociali pre e post covid realizzati dai governi tecnici sponsorizzati dal Colle e in appalto alle compagini buoniste-globaliste-ecologiste-con-le-treccine-elettriche. In pieno collateralismo politico, nessun sindacato – prima di questo governo – si è mai mosso per opporsi duramente ai titanici finanziamenti in miliardi di euro destinati al conflitto ucraino ponendo in secondo piano le priorità del lavoro, dell’impoverimento degli italiani, di cinque milioni di bambini che non riescono a cenare la sera, di edifici scolastici che stanno crollando sulla testa degli studenti, degli ospedali che sembrano quartieri di Beirut, dei terremotati ancora nel fango da un decennio.  Infine, nessuna reazione dei confederali a questa operazione puramente corporativa delle strutture sindacali dell’azienda pubblica: tutti zitti perché questa manovra va bene.

Gli ideologi globalisti-buonisti non intendono fare prigionieri. Frenare i danni enormi della loro dittatura è la vera Resistenza …

 

IN EVIDENZA

I RUSSI COMBATTONO CON LE PALE – 5 e 6 MARZO 2023

Fonte immagine: https://www.lindipendente.online/2023/03/09/i-russi-che-combattono-con-le-pale-e-le-altre-bufale-del-mainstream-sulla-guerra/

https://www.bing.com/search?q=Mancano+munizioni%2C+russi+all%27assalto+del+nemico+con+le+pale.+I+Wagner%3A+proiettili+o+perdiamo+Bakhmut+testo&qs=n&form=QBRE&sp=-1&lq=1&pq=mancano+munizioni%2C+russi+all%27assalto+del+nemico+con+le+pale.+i+wagner%3A+proiettili+o+perdiamo+bakhmut+testo&sc=0-106&sk=&cvid=5E2945F6005C4409AA6F86FFCF17AD8A&ghsh=0&ghacc=0&ghpl=

Ricerca: I russi combattono con le pale … per mancanza di munizioni!

LINK

https://www.lindipendente.online/2023/03/09/i-russi-che-combattono-con-le-pale-e-le-altre-bufale-del-mainstream-sulla-guerra/

https://www.huffingtonpost.it/esteri/2023/03/05/news/gb_i_russi_combattono_in_ucraina_anche_con_le_pale-11503227/

https://www.fanpage.it/esteri/le-truppe-russe-allassalto-degli-ucraini-con-le-pale-finite-le-munizioni-si-combatte-corpo-a-corpo/

La versione del 7 ottobre contraddetta dalla Storia

Pubblichiamo il testo della conferenza tenuta da Thierry Meyssan il 4 maggio a Boulogne-sur-mer. Nel suo intervento Meyssan spiega che l’attuale conflitto in Palestina non è imputabile alle popolazioni arabe ed ebree. Fu organizzato già nel 1915 dalla potenza coloniale dell’epoca, con l’idea che lo Stato o gli Stati futuri non dovessero mai essere in grado di garantire la propria sicurezza. A loro insaputa e a loro danno, i palestinesi e gli israeliani, con l’attacco del 7 ottobre e la conseguente reazione, stanno semplicemente attuando questa politica. Non fermando la pulizia etnica degli abitanti di Gaza, gli anglosassoni non mostrano che sono insensibili, ma che considerano i massacri semplici variabili di aggiustamento.

DEUTSCH ΕΛΛΗΝΙΚΆ ENGLISH ESPAÑOL FRANÇAIS NEDERLANDS РУССКИЙ

Benché i massacri in Sudan e in Congo siano molto più letali di quelli in Palestina, è di questi ultimi che vi parlerò oggi. È la prima volta che assistiamo a una pulizia etnica in diretta sui nostri telefoni cellulari. Vorrei tornare su alcune informazioni che ho già trattato in molti articoli, ma di cui, evidentemente, alcuni media non vogliono tenere conto nelle loro analisi. Vorrei dirvi che in questo conflitto non c’è alcuna fatalità comunitaria: non è stato provocato dal popolo della Palestina, sia esso ebreo, cristiano o mussulmano, ma da potenze esterne che, da un secolo, vogliono negare la pace a chi popola questa terra.

 

 

Dietro il paravento, il principe di Galles (protettore dei Fratelli Mussulmani) vede Dio e diventa re Carlo III.

I BRITANNICI CREANO ISRAELE

Per essere chiaro, inizierò parlandovi del Regno Unito. Avrete forse visto l’incoronazione di re Carlo III. Nel mezzo della cerimonia il principe di Galles si è liberato dei sontuosi abiti e si è vestito con un telo di lino. I paggi l’hanno nascosto con un paravento affinché il pubblico non venisse abbagliato. Quando il paravento è stato rimosso il principe era diventato re. Gli sono stati consegnati i simboli del suo potere: lo scettro e il globo. Cosa è accaduto nei brevi istanti in cui il principe è stato sottratto alla vista del pubblico? Dio si è manifestato al principe di Galles, come a Mosè davanti al roveto ardente [1]. Probabilmente questa spiegazione vi sembrerà assurda e vi chiederete come possano i sudditi credere a una storia che non sta né in cielo né in terra. In realtà, a partire da Giacomo VI, nel XVI secolo, i sovrani britannici si dichiarano re di Israele [2]. Fu contro la concezione del diritto divino che Oliver Cromwell rovesciò Carlo e proclamò il Commonwealth. Tuttavia, il Lord Protettore era altrettanto illuminato: professava la necessità di radunare tutti gi ebrei in Palestina per costruirvi il tempio di Salomone [3]. Le successive dinastie tennero vivo questo mito. Vi aggiunsero vari riti e altri ne imposero ai propri sudditi, come la circoncisione ebraica, che nel XIX secolo veniva praticata automaticamente nei reparti maternità su tutti i neonati maschi del Regno Unito al momento della nascita.

Due anni prima della Dichiarazione di Balfour (del 1917), che annunciò la creazione di un nucleo nazionale ebraico in Palestina, un diplomatico ebreo e futuro ministro degli Esteri, Lord Herbert Samuel, redasse un memorandum sul Futuro della Palestina (1915) in cui sosteneva la necessità di uno Stato ebraico che mettesse l’intera diaspora al servizio dell’impero. Poco dopo specificò che questo nuovo Stato non avrebbe mai dovuto essere in grado di garantire la propria sicurezza, ma dovesse essere eternamente dipendente dalla Corona britannica. È esattamente ciò a cui assistiamo oggi. È la maledizione del popolo palestinese.

Alla Dichiarazione di lord Arthur Balfour seguirono i 14 punti in cui il presidente Woodrow Wilson descrisse gli obiettivi raggiunti dagli Stati Uniti durante la prima guerra mondiale. Il punto 12 era formulato in modo strano, ma durante la Conferenza di Parigi in cui fu redatto il Trattato di Versailles, Balfour ne precisò per iscritto il significato: la creazione dello Stato di Israele in Palestina (e del Kurdistan in Turchia). La guerra mondiale aveva prodotto un riequilibrio del potere: ora Washington lavorava a fianco di Londra per difendere i comuni interessi.

Nel periodo tra le due guerre, l’immigrazione ebraica nella Palestina mandataria procedette senza intoppi. I proprietari terrieri arabi vendettero senza problemi agli ebrei parte delle loro terre. Tuttavia, dal 1920 terroristi arabi iniziarono a uccidere ebrei. Cito Mohammed Amin al-Husseini, che i britannici condannarono a dieci anni di carcere, che però non gli fecero mai scontare. Anzi, lord Herbert Samuel (colui che scrisse che in Palestina non ci sarebbe mai dovuta essere sicurezza), divenuto Alto commissario britannico per la Palestina, lo graziò e lo nominò Gran Mufti di Gerusalemme, pretestando la necessità di mantenere un equilibrio tra le due grandi popolazioni locali.

Poi arrivò un salafita (mussulmano che vive come vivevano i compagni del Profeta nel VII secolo), Izz al-Din al-Qassam, che in Siria aveva già organizzato una rivolta contro i francesi, che divenne imam ad Haifa. Decise di condurre la jihad non contro l’occupante britannico, ma contro gli immigrati ebrei. Seguirono attentati e pogrom contro gli ebrei. Per mantenere la pace civile, i britannici uccisero al-Qassam, che oggi dà il nome alle brigate al-Qassam di Hamas.

La morte di al-Qassam non risolse nulla. I britannici, fedeli al loro motto coloniale Divide et impera, hanno sempre alimentato con una mano ciò che con l’altra combattevano. Nel 1936 Lord William Peel, capo di una commissione ufficiale, sostenne che la pace poteva essere ristabilita solo separando le popolazioni arabe ed ebraiche in due Stati distinti. È quella che oggi viene chiamata «soluzione a due Stati».

Durante la seconda guerra mondiale il Gran Mufti di Gerusalemme si alleò con il cancelliere Adolf Hitler. In particolare, mobilitò i mussulmani dai Balcani per arruolarli nelle SS, e sostenne anche la «soluzione finale della questione ebraica». Da parte loro, i fascisti ebrei (i “sionisti revisionisti”) dell’ucraino Vladimir Jabotinsky, combatterono a fianco dell’Asse contro i britannici. I sionisti si batterono invece a fianco degli Alleati, pur contestando i limiti che i britannici imponevano, teoricamente, all’immigrazione ebraica; solo in teoria.

Lo storico fascista Benzion Netanyahu e suo figlio Benjamin Netanyahu.
Fonte: Ufficio del primo ministro.

I sionisti si riunirono all’Hotel Baltimora di New York, sotto la presidenza di David Ben Gurion. Fissarono i principi del futuro Stato di Israele. Ben Gurion ci è stato finora presentato come uomo di buona volontà. Tuttavia, nel periodo tra le due guerre, fu compagno di Jabotinsky e si espresse a favore della pulizia etnica della Palestina. In un libro in ebraico, pubblicato due settimane fa in Israele da una grande casa editrice, si legge che Ben Gurion fu tenuto al corrente dei negoziati tra l’ungherese Rezso Kasztner, Heinrich Himmler e Adolf Eichmann, che durarono fino alla caduta del Reich. Kasztner affermò di aver comprato la fuga di un milione di ebrei ungheresi. In realtà salvò solo la propria famiglia e i suoi amici. Soprattutto, estorse 8,5 milioni di franchi svizzeri in oro (somma colossale all’epoca) alle facoltose famiglie ebraiche ungheresi facendo loro credere che sarebbero potute fuggire [4]. Se i documenti citati nel libro sono esatti, anche Ben Gurion sarebbe un truffatore, avendo ingannato il suo stesso popolo

Le Nazioni unite proposero:
• di non dividere la Palestina (respingendo quindi la soluzione a due Stati di Peel);
• d’instaurare un regime repubblicano, democratico e rappresentativo;
• di garantire le culture delle minoranze;
• di garantire la libertà religiosa di ebrei, cristiani e mussulmani.

Conferenze e negoziati si susseguirono invano. Il 29 novembre 1947 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite (che allora aveva solo 56 Stati membri) approvò un piano di spartizione elaborato da una commissione speciale [5]. Il piano fu immediatamente respinto da tutti i Paesi arabi.

Il 14 maggio 1948 (cioè due mesi e mezzo prima della fine del mandato britannico) Ben Gurion interruppe le discussioni proclamando unilateralmente l’indipendenza dello Stato di Israele. Il giorno successivo a questo colpo di mano, mentre i 100 mila soldati britannici iniziavano a ritirarsi, Egitto, Giordania, Iraq, Siria, Libano, Arabia Saudita e Yemen del Nord inviarono le loro truppe per difendere gli arabi di Palestina. Anche i Fratelli Mussulmani egiziani inviarono un gruppo di combattenti, comandato da Said Ramadan (genero del fondatore della Confraternita, Hassan el-Banna e padre di Tariq Ramadan). All’epoca nessuno di questi Paesi aveva un esercito degno di questo nome, per cui furono rapidamente sconfitti: nacque così il mito dell’invincibilità di Tsahal.

Ma, come mi ha raccontato l’amico libanese Hassan Hamad, questa narrazione è una menzogna. In realtà, i capi di Stato arabi erano già proni a Israele e gli ebrei non erano più forti degli arabi. L’emiro Majid Arslan, ministro della Difesa libanese, condusse senza incontrare troppa resistenza le sue truppe fino a Betlemme, che liberò. Ma il presidente libanese, Bechara El Khhoury, gli ordinò immediatamente di abbandonare il campo di battaglia. Majid Arslan si rifiutò di eseguire l’ordine e fu destituito; continuò tuttavia a combattere come ufficiale ordinario. Alla fine le sue truppe furono sconfitte, non dagli ebrei di Palestina, ma dall’esercito “giordano”, comandato dal generale britannico, John Bagot Glubb (detto Glubb Pasha) e da un centinaio di ufficiali britannici. In realtà la Giordania non aveva soldati, ma la Legione Araba, formata dai britannici durante la seconda guerra mondiale, dal primo giorno di guerra cambiò il proprio nome in Esercito Giordano, mantenendo intatta la struttura di comando britannica. Furono gli inglesi e i giordani a salvare sin dall’inizio Israele, come lo hanno salvato di nuovo quando l’Iran lo ha attaccato il mese scorso,
Questa guerra non fu un tentativo di annientare Israele, ma la prima manifestazione del sionismo arabo.

Le Nazioni Unite, preoccupate da questi sviluppi, mandarono in Palestina, come inviato speciale, lo svedese Folke Bernadotte, per ristabilire la situazione dopo il colpo di mano israeliano e la guerra arabo-israeliana. Appena arrivato Bernadotte si rese conto che la Commissione speciale che aveva elaborato il piano di spartizione ignorava la realtà demografica: gli israeliani rivendicavano un territorio sproporzionato rispetto al loro numero e avevano il sostegno di governi arabo-sionisti che avevano prima finto d’interporre i propri buoni uffici, poi avevano fatto la guerra.

Il 17 settembre 1948 i “sionisti revisionisti” (ossia i fascisti ebrei) uccisero Bernadotte e il capo degli osservatori dell’Onu, il colonnello francese André Serot. Mio nonno materno, Pierre Gaïsset, si trovava nella vettura successiva. Non fu ferito e sostituì il colonnello Serot. L’assassino, Yehoshua Cohen, non venne perseguito. Due anni dopo divenne la guardia del corpo ufficiale del primo ministro Ben Gurion. Il capo dei “sionisti revisionisti”, Yitzhak Shamir, fu immediatamente nominato capo di un dipartimento del Mossad. Compirà azioni segrete per conto del Regno Unito e degli Stati Uniti durante tutta la guerra fredda, dal Guatemala al Congo, e diventerà primo ministro (1983-84 e 1986-1992).

Il 29 novembre 1948 il governo di Ben Gurion, che sosteneva di ricercare gli assassini di Folke Bernadotte e di André Serot, presentò domanda di adesione alle Nazioni Unite, accompagnata da una lettera in cui si affermava «che lo Stato di Israele accetta, senza alcuna riserva, gli obblighi derivanti dalla carta delle Nazioni Unite e s’impegna a rispettarli dal giorno in cui diventerà membro delle Nazioni Unite». Convinta, l’11 maggio 1949 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite accolse la richiesta [6]. Considerate le sue sistematiche violazioni di questo impegno, oggi molti Stati chiedono la «sospensione» dell’adesione di Israele.

L’Operazione Diluvio di Al-Aqsa

Veniamo ai nostri giorni. Il 7 ottobre 2023 la Resistenza palestinese, su iniziativa di Hamas, ha lanciato una vasta operazione contro una base militare israeliana e anche contro i civili. Secondo il diritto internazionale, gli arabi di Palestina sono un «popolo occupato»; quindi, ai sensi delle Convenzioni di Ginevra, hanno il diritto di attaccare Israele. Purché colpiscano solo obiettivi militari, non già i kibbutz né i rave party. L’obiettivo dell’operazione era catturare militari, ed eventualmente anche civili, per negoziare il rilascio di ostaggi palestinesi in Israele, cioè di prigionieri non di guerra. Non sappiamo quanti prigionieri e quanti ostaggi siano stati presi, né tantomeno la ripartizione tra civili e militari. Hamas sostiene di detenere oltre 30 ufficiali.

L’operazione Diluvio di Al-Aqsa è stata preparata negli ultimi tre anni alla luce del sole [7]. Sono stati scavati centinaia di chilometri di tunnel con macchine perforatrici, che potevano entrare a Gaza solo con il consenso della dogana israeliana. Almeno un milione di metri cubi di terra e di macerie è stato asportato sotto gli occhi dei servizi di sicurezza israeliani. Sono stati costruiti diversi centri di addestramento e sono stati fatti addestramenti con i deltaplani. Queste operazioni sono state osservate dalle intelligence non solo israeliana ma anche di altre potenze come Egitto e Stati Uniti. Molti rapporti sono stati inviati al primo ministro Benjamin Netanyahu, che tuttavia non ha reagito. Peggio ancora, ad agosto ha destituito il ministro della Difesa, generale Yoav Galland, che in consiglio dei ministri si era lamentato di questa mancanza di reazione. Tuttavia, vista la reazione dell’opinione pubblica al siluramento, Netanyahu ha preferito reintegrarlo piuttosto che doverne spiegare il motivo.

Israele ha accusato il giornalista che ha pubblicato fotografie del 7 ottobre molto prima dell’intervento dei servizi di sicurezza di essere membro di Hamas.

Alle 4.30 del 7 ottobre le diverse fazioni palestinesi (Jihad islamica, FPLP e Iniziativa nazionale) sono state allertate da Hamas per partecipare all’operazione, che ha avuto inizio alle 6.30 (cioè prima dell’alba). L’operazione è iniziata con la distruzione di tutti i robot che monitorano il Muro di separazione. Quindi l’allarme è stato lanciato alle 6.30. Alle 8.00 le agenzie di tutto il mondo hanno iniziato a diffondere le immagini dell’attacco [8]. Ciononostante le forze di sicurezza israeliane sono intervenute solo alle 9.45.

Fin dall’inizio del loro intervento, le Forze di Difesa Israeliane (FDI) hanno applicato la “direttiva Hannibal”, che ordina di uccidere i propri militari piuttosto che consentire che vengano fatti prigionieri dal nemico. I dati delle vittime israeliane diffuse dal governo di Netanyahu non distinguono tra attaccanti e difensori. Inoltre il governo israeliano ha denunciato violenze che, in linea di principio, i combattenti non dovrebbero avere il tempo di commettere in un attacco a sorpresa. La mauriziana Pramila Patten, relatrice speciale delle Nazioni Unite sulle violenze sessuali, ha ascoltato vittime e testimoni dell’operazione Diluvio di Al-Aqsa, concludendo che potrebbero essere stati commessi alcuni abusi sessuali, ma che le accuse più gravi (in particolare la castrazione di soldati) non erano credibili [9]. I rapporti sulla decapitazione di neonati sono stati ritirati dopo un’inchiesta di Al Jazeera.

In Israele l’opposizione si rifiuta per il momento di affrontare la questione del possibile ruolo del primo ministro nell’organizzazione dell’operazione. Tuttavia il problema va posto: Netanyahu è figlio del fascista Benzion Netanyahu, segretario particolare di Vladimir Jabotinsky (alleato di Benito Mussolini, morto all’inizio della seconda guerra mondiale) e ha sempre espresso ammirazione per i due uomini.

Benjamin Netanyahu ha sempre sostenuto Hamas come alleato tattico nella lotta contro Fatah di Yasser Arafat. Tuttavia, fino al 2017, Hamas si definiva «ramo palestinese della Confraternita dei Fratelli Mussulmani». Questa organizzazione fu ristrutturata nel 1949 dai servizi segreti britannici, sul modello della Gran Loggia Unita d’Inghilterra [10]. Nel 1950 fu inglobata nell’apparato britannico della guerra fredda. In quel momento Sayyed Qutb, il teorico della jihad, ne divenne l’esponente più in vista. Nel 2017 dei gazesi che aspiravano a difendere il proprio Paese certamente vi aderirono, ma pretesero che Hamas rompesse con i Fratelli Mussulmani e con i britannici. Alla fine, le due correnti hanno coesistito [11]. Il 19 ottobre 2022 il presidente siriano Bashar al-Assad ha ricevuto Khalil Hayya, leader della corrente rivoluzionaria di Hamas, ma ha rifiutato di incontrare Ismael Haniyeh e Khaled Meshal, i leader della corrente di Hamas che si richiama alla Fratellanza [12]. Dal punto di vista arabo non esiste un solo Hamas, ma ce ne sono due. Infatti, durante tutta la guerra in Siria Hamas ha combattuto a fianco di Al-Nusra (branca siriana di Al Qaeda), delle FDI e delle forze speciali della Nato, contro la Repubblica araba siriana. Il 9 dicembre 2012 elementi di Hamas assassinarono a Yarmuk (periferia di Damasco) alcuni leader del Fronte per la liberazione della Palestina (FPLP), tra cui un mio amico [13].

Non solo è sbagliato attribuire l’attacco del 7 ottobre unicamente ad Hamas, ma è anche sbagliato ignorare che ci sono due Hamas. Queste menzogne permettono di presentare l’operazione Diluvio di Al-Aqsa come un vasto pogrom antisemita, secondo le parole del presidente francese Emmanuel Macron; si è trattato invece di un atto della Resistenza, come ha sottolineato Francesca Albanese, relatrice dell’Onu sui diritti dell’uomo nei territori palestinesi occupati.

GLI ANGLOSASSONI E IL MASSACRO DI GAZA

Siamo stati testimoni del massacro di 35 mila persone, della scomparsa sotto le macerie di altre 13 mila, nonché delle gravi lesioni di altre 120 mila. Chiunque abbia sentimenti umani non può che esserne inorridito. Non per l’identità delle vittime, ma per una questione di umanità.

Secondo il primo ministro Benjamin Netanyahu si tratta di un’operazione di polizia, per arrestare gli assalitori del 7 ottobre, ma tutti hanno capito che non c’è alcun rapporto tra questo attacco e la reazione israeliana, che mira solo a rendere la vita insopportabile agli abitanti di Gaza finché non se ne andranno di loro spontanea volontà. Questo era il programma di Vladimir Jabotinsky e del suo segretario, Benzion Netanyahu, convalidato dal negoziatore con i nazisti, tuttavia fondatore di Israele, Ben Gurion.

Per tutta la durata del massacro, e anche oggi, gli anglosassoni forniscono a Israele le armi per compierlo.

Tuttavia, quando nelle università statunitensi sono cominciate manifestazioni contro lo sparimento di sangue, diffondendosi in tutto il Paese e in Francia, l’amministrazione Biden ha preso in considerazione la possibilità di far dimettere Benjamin Netanyahu e sostituirlo con Benny Gantz. Certo la decisione non spetta legalmente a Washington, ma gli Stati Uniti hanno una lunga tradizione di colpi di Stato e di rivoluzioni colorate. Il segretario di Stato Antony Blinken ha perciò invitato Gantz per «discutere la situazione». Gantz ha accettato e ha nel contempo organizzato una tappa nel viaggio di ritorno per incontrare l’amministrazione Sunak. Ma le cose non hanno funzionato [14]: Benny Gantz ha capito perfettamente che Washington gli chiedeva di fermare il massacro, obiettivo da lui condiviso, ma ha voluto informare gli statunitensi che è sua volontà proteggere Israele distruggendo Hamas. I suoi sbalorditi interlocutori hanno capito che non era «un figlio di puttana, ma il nostro figlio di puttana», per riprendere le parole del presidente Franklin D. Roosevelt, e hanno immediatamente informato il primo ministro britannico, Rishi Sunak. Quando Benny Gantz è arrivato a Londra per incontrare il consigliere speciale per la Sicurezza, Sunak si è autoinvitato al loro incontro. Il primo ministro britannico ha cercato di spiegare a uno sbalordito Gantz che il «figlio di puttana» Hamas è intoccabile, perché alcuni dei suoi membri sono «i nostri figli di puttana». Per questa ragione gli anglosassoni non hanno rovesciato Netanyahu.

Il primo ministro britannico, Rishi Sunak, comunica a Benny Gantz che il “nostro” Hamas è intoccabile.

Visti da Londra e Washington, i massacri dei civili sono deplorevoli, ma sono solo variabili di assestamento. Così com’è, Israele è uno Stato indispensabile. Se venisse pacificato e diventasse normale non servirebbe più a nulla. Come la Repubblica dei Corsari del XVIII secolo, Israele consente le più grandi operazioni di riciclaggio di denaro e offre rifugio ad alcuni dei più grandi criminali del pianeta.

Un funzionario dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) mi ha raccontato di aver fatto il cameriere al bar dell’Hotel King David di Gerusalemme. Un giorno ha assistito all’ingresso di alcuni commercianti di diamanti, arrivati senza passare dalla dogana e accompagnati da una scorta militare. Questi uomini e alcuni clienti hanno scambiato diamanti contro contanti, poi sono ripartiti in incognito. Un commercio del genere non potrebbe avvenire in alcun altro Stato.

Traduzione
Rachele Marmetti
BIBLIOGRAFIA E FITOGRAFIA

[1Due mondi vanno in scena il 6 e il 9 maggio”, di Thierry Meyssan, Traduzione Rachele Marmetti, Rete Voltaire, 9 maggio 2023.

[2«Stratégies de gouvernance britanniques: sectes religieuses», Leonid Savin, Geopolilika, 10 avril 2024.

[3Chi è il nemico? ”, di Thierry Meyssan, Traduzione Matzu Yagi, Megachip-Globalist (Italia) , Rete Voltaire, 5 agosto 2014.

[4Ritorna l’affare Kastner”, Traduzione Rachele Marmetti, Rete Voltaire, 3 maggio 2024.

[5« Plan de partage de la Palestine », Onu (Assemblée générale) , Réseau Voltaire, 29 novembre 1947.

[6« Admission d’Israël à l’Organisation des Nations Unies », Réseau Voltaire, 11 mai 1949.

[7Cosa si nasconde dietro le menzogne di Benjamin Netanyahu e le simulazioni di Hamas”, di Thierry Meyssan, Traduzione Rachele Marmetti, Rete Voltaire, 28 novembre 2023.

[9«Mission report. Official visit of the Office of the SRSG-SVC to Israel and the occupied West Bank. 29 January – 14 February 2024», Office of the special representative of the secretary general on sexual violence in conflicts.

[10In un mio libro, Sotto i nostri occhi, ho ripercorso la storia internazionale della Confraternita. È disponibile gratuitamente in internet, suddivisa in sei parti.

[11A Document of Genéral Principles and Policies, Hamas, May 2017.

[12Netanyahu distorce la cronaca”, di Thierry Meyssan, Traduzione Rachele Marmetti, Rete Voltaire, 21 novembre 2023.

[14Washington, Londra e Tel-Aviv invischiate in Palestina”, di Thierry Meyssan, Traduzione Rachele Marmetti, Rete Voltaire, 19 marzo 2024.

FONTE: https://www.voltairenet.org/?lang=it

 

 

 

 

ATTUALITÀ SOCIETÀ COSTUME

LA CULTURA DELLA LACRIMA E DEL VITTIMISMO

Manlio Lo Presti

Fonte: quotidiano La Verità 24 04 2024

Non è del tutto errato definire il momento presente CULTURA DELLA LACRIMA. L’entusiasmo, l’iniziativa, la capacità di progetto, di ipotizzare un futuro migliore da costruire insieme sono banditi totalmente.

Il Potere vuole umani soli, precari e ricattabili costantemente malati, spaventati, che lanciano la loro rabbia contro il prossimo.

Gente che è sempre più indotta a comprare i farmaci senza avere mali conclamati e certificati sul modello Wallgreens USA, tanto per cambiare!

Non ci sono più idee e un dissenso organico contro gli Alti Comandi teleguidati da oscuri tecnologi del terrorismo psicologico che lavorano in università private, centri di ricerca, università, strutture angloamericane. Si parla (adesso con minore intensità) di Resilienza che significa

quotidiano La Verità 24 04 2024

quotidiano La Verità 24 04 2024

 

 

TORNARE ALLA MOKA PER LA NOSTRA SALUTE E PER L’AMBIENTE

Elio Lannutti 25 032024

 

Sono una capsula di allumino con dentro 4 grammi di caffè.

4 grammi di caffè a 0,40 euro, fanno 100 euro al kg.

Per una tonnellata di alluminio vengono prodotte quattro tonnellate di residui sotto forma di arsenico, titanio, cromo, piombo, vanadio, mercurio.

Sostanze che vanno ad inquinare l’ambiente.

Grazie ad una produzione di una tonnellata di caffè a settimana sono la regina del mercato!

Il caffè che uso è quello che costa di meno.

Quando le polveri tradizionali vengono torrefatte a 200/220° in 20 minuti per me la torrefazione è a 1000°C per 90 secondi.

Anche questo per risparmiare.

Però il mio caffè è schiumoso e buono.

Semplicemente perché non contengo solo caffè ma anche un po’ di grassi animali, e additivi top secret.

In più le macchine che vengono utilizzate hanno enormi costi economici ed ambientali per la loro produzione e per il loro smaltimento.

E non dimenticare l’energia elettrica che usano.

Ma attento, ti dono non solo caffeina ma anche furano che ingoi con piacere.

Il furano è una sostanza organica (prodotto intermedio utilizzato nell’industria chimica come solvente per le Resine durante la produzione di lacche e come agglomerante nella fonderia).

È volatile, lipofilo e CANCEROGENO per il fegato.

Contento tu…

(testo tratto da “Mouvement pour la Terre”, tradotto e rielaborato)

Smettetela di usare capsule in alluminio e ritornate alla caffettiera tradizionale, non inquina e fa bene alla vostra salute. Inoltre il residuo del caffe lo potete spargere nei campi coltivati come concime.

Fonte: https://www.facebook.com/share/p/JoWyR1KBmi7fq37d/

 

 

 

BELPAESE DA SALVARE

IL BLOCCO IDEOLOGICO RUSSOFOBICO

Questo ragazzo è coraggioso ma il suo gesto è una iniziativa isolata che evidenzia la vastità del blocco ideologico antirusso sia nella ex-italia che in Europa.

Sul piano economico, al contrario, tutti i Paesi europei, TUTTI, continuano a commerciare di nascosto con Mosca utilizzando una serie di “tramiti commerciali” quali Singapore, Hong Kong, Sudafrica, Samoa americane, Anguilla, Bahamas, Isole Vergini Britanniche, Costa Rica, Figi, Guam, Isole Marshall, Palau, Panama, Samoa, Trinidad e Tobago, Isole Turks e Caicos, Isole Vergini americane e Vanuatu, per citarne alcuni. Immaginiamo cosa potrà accadere se i beni russi congelati saranno usati per finanziare l’Ucraina.

Sarà la Russia a rallentare progressivamente le transazioni mondiali occulte con l’UE. I russi adotteranno la strategia dello stritolamento lento fino al blocco totale. Per questo, si è solo parlato di uso dei beni ma nessuno si è fatto avanti concretamente. Come dire che PARTONO CENTO TRENI MA NE ARRIVANO DUE O TRE. Rimane da fare una riflessione sul perché questa iniziativa del ragazzo sia isolata sapendo che il numero di cittadini che non credono alla favolistica atlantica è molto più vasta. Un’evidenza della potenza della censura di terra di mare e di aria che sussiste nella ex-italia che ha silenziato TUTTO…

Altro che democrazia. Altro che Italia nazione di “media potenza” ✍👁

Il video completo del rapper italo-olandese Jorit è disponibile anche su questo link con video scaricabile prima che sia cancellato: https://youtu.be/ZHiRz0juCjY

 

 

 

CONFLITTI GEOPOLITICI

Dalla Somalia all’Ucraina passando per il “Siraq”: il boom delle “tecniche”

 

 

In più di due anni di Operazione Militare Speciale russa l’Ucraina ha ottenuto dall’Occidente miliardi di dollari – e di euro! – in armamenti: missili terra-aria Stinger e Patriot, anticarro Javelin, lanciarazzi multipli HIMARS con relativi missili ATACMS, carri armati Leopard ed Abrams, veicoli da combattimento per la fanteria Bradley, caccia multiruolo F-16 ecc.

Eppure, a colonne portanti delle Forze Armate ucraine paiono essere assurte forniture ben più modeste e dai nomi decisamente meno altisonanti: le tecniche. Sostanzialmente pick-up, SUV ed altri veicoli civili o commerciali con quattro ruote motrici che vengono dotati di mitragliatrici pesanti, missili anticarro, cannoni antiaerei o altro armamento di supporto.

Grazie soprattutto ad iniziative private, infatti, Kiev riceve continuamente veicoli fuoristrada che officine meccaniche locali, con grande motivazione e creatività, allestiscono con armamenti, blindature improvvisate ed adeguate livree. Le tecniche così realizzate costituiscono per i militari ucraini veri e propri moltiplicatori di forze: con esse si muovono lungo l’intera linea del fronte, attaccano il nemico, ingaggiano i suoi velivoli, distribuiscono rifornimenti, evacuano i feriti e altro ancora.

L’impiego di veicoli civili nelle ostilità, però, non è un espediente esclusivo di questo conflitto. Si tratta, bensì, di una pratica consolidata nelle guerre convenzionali ed – ancor di più – asimmetriche che hanno insanguinato il XX° secolo e i primi decenni del XXI°.

Guerriglieri, terroristi ed anche truppe regolari con scarse possibilità cercano, in questo modo, di colmare sempre più il gap con nemici meglio equipaggiati. Insomma, le tecniche come soluzioni rapide, economiche e versatili per i moderni campi di battaglia!

 

Terminologia e peculiarità

 

“Tecnica” è un neologismo – ormai, non proprio recente – che identifica un veicolo da combattimento leggero improvvisato. Il termine sarebbe stato coniato ad inizio anni 90, durante la guerra civile somala.

Impossibilitate a portare armi – per garantirsi uno status di neutralità – o ad impiegare compagnie di sicurezza private per proteggere i propri operatori ed assetti, le ONG occidentali presenti nel Paese hanno dovuto rivolgersi a banditi locali: i Mooriyaan. I compensi per i loro servigi venivano indicati nelle note spese come “assistenza tecnica”; da cui, appunto, “tecnica”. Il significato si è, poi, esteso fino ad includere gli stessi miliziani ed i loro veicoli armati.

Un’altra versione, invece, ne ricondurrebbe le origini sempre alla travagliata storia della Somalia, ma degli anni 80: nella fattispecie, al montaggio di armamenti sui veicoli del Movimento Nazionale Somalo da parte dei tecnici della – fantomatica? – società sovietica Tekniko, durante la guerra d’indipendenza del Somaliland. L’inglesizzazione della denominazione sociale avrebbe, quindi, portato a “Technical” (tecnica).

Truppe della missione ONU MINISMA in Mali

Tuttavia, gli americani preferiscono ancora ufficialmente le sigle NSTV o NTV – Non-standard Tactical Vehicle o Veicolo Tattico Improvvisato – all’ormai popolare, ma informale “tecnica”.

Sostanzialmente si tratta di pick-up, SUV o altri veicoli civili o commerciali con quattro ruote motrici – in particolare Ford Ranger, Mitsubishi Triton e, soprattutto, Toyota Hilux e Land Cruiser – che, nella versione più comune, vengono armati con una mitragliatrice pesante (DShK da 12,7 mm o M2 Browning calibro .50).

Allestimenti alternativi possono prevedere mitragliatrici leggere o medie (RPD, FN Minimi e MG 42/59), cannoni antiaerei (ZPU o ZU-23), missili anticarro (BGM-71 TOW, MILAN, AT-3 Sagger o 9M133 Kornet), mortai (da 60 mm, da 82 mm o gli improvvisati Barrack Buster[1]), lanciagranate (MK-19 o AGS 17, 30 o 40), lanciarazzi multipli (Tipo 63 o M-63 Plamen), cannoni senza rinculo (SPG-9 o M-40) o altro armamento di supporto.

Nel luglio 2018, addirittura, sono circolate immagini di un Toyota Hilux dei ribelli yemeniti Houthi che montava un cannone rotativo a 6 canne M-167 Vulcan. Non da meno gli ucraini che, nel maggio 2022, hanno realizzato una variante di tecnica con missili antinave Brimstone sul telaio di un minibus Gazelle russo.

Frequente anche il montaggio di intere torrette (di un veicolo BMP-1 con cannone da 73 mm) o pod[2]lanciarazzi (UB-32 per razzi S-5) cannibalizzati da corazzati fuori uso o elicotteri abbattuti. La caratteristica fondamentale affinché un mezzo possa essere definito “tecnica” è che sia stato inizialmente progettato e realizzato come veicolo civile. Perciò i VTLM (Veicoli Tattici Leggeri Multiruolo come il Lince o l’Hummer) non vengono considerati tali.

Milizie libiche

Allo stesso modo, si tende ad escludere dalla classificazione anche veicoli blindati e cingolati; questo seppur sempre più esemplari di tecniche vengano dotati di blindature leggere od improvvisate – dette hillbilly[3]– come piastre d’acciaio saldate o grate per contrastare una gamma – alquanto ristretta – di munizioni e droni. Gli SVBIED[4] (Ordigni Esplosivi Improvvisati su Veicoli Suicidi) tipo ISIS e i super blindati dei narcos messicani, quindi, non possono essere catalogati come tecniche.

L’equipaggio di una tecnica è costituito essenzialmente da un conduttore e da un addetto all’arma, in piedi, sul pianale posteriore del veicolo. Si tratta di un esiguo gruppo di uomini in grado di fornire ampi volumi di fuoco ed importanti capacità di manovra. Le tecniche, per esempio, consentono il cosiddetto “Tank Desant”[5]; il trasferimento di truppe in combattimento sul tetto o nel cassone del veicolo, per farle appiedare, poi, nelle fasi finali dell’assalto. Tattica di derivazione sovietica e dei Paesi della sua sfera d’influenza, differisce dal trasporto di fanti con mezzi dedicati per la sua improprietà.

Al fine di facilitare la sopraccitata tattica, così come la movimentazione di carichi o il brandeggio di armamenti particolarmente voluminosi, a tali veicoli vengono spesso asportati – letteralmente segati – tetto e relativi montanti.

 

Cenni storici

Sebbene abbia acquisito notorietà tra i trenta e quaranta anni fa con la guerra civile somala, l’impiego di veicoli da combattimento improvvisati ha, ormai, più di un secolo; praticamente, dall’invenzione dell’automobile. I primi esemplari di “proto-tecniche” hanno fatto la loro comparsa nella Grande Guerra. Sul Fronte orientale – Ucraina e Russia meridionale – i Tachanka, carri trainati da cavalli con mitragliatrici sul pianale, consentivano di tendere imboscate al nemico e disimpegnarsi rapidamente.

In Palestina, nel frattempo, l’Esercito britannico utilizzava automobili Ford Model T su cui montava mitragliatrici Vickers o Lewis. I canadesi, invece, allestivano camion civili con mitragliatrici ed una leggera blindatura; i cosiddetti autocarri blindati. Nel bombardamento di Papeete da parte della Marina imperiale tedesca il 22 settembre 1914, i francesi rafforzarono le difese della città caricando cannoni da 37 mm su camion Ford.

Milizie libiche

Allo stesso modo, nella guerra civile spagnola si realizzavano cannoni semoventi fissando pezzi d’artiglieria a dei camion. Durante la Seconda guerra mondiale l’ LRDG[6], il SAS[7] ed altre unità britanniche e del Commonwealth si sono rese famose per le letali incursioni nei deserti del Nord Africa, condotte con camion di pattuglia Chevrolet WB 30 e  jeep Willys MB armati di mitragliatrici.

L’impiego di questi veicoli da parte del SAS – Land Rover Serie 1 e Serie 2A 109, in particolare – è continuato dopo il conflitto mondiale, con la ribellione del Dhofar (1963 – 1976). Il caratteristico colore rosa con cui venivano verniciati, dimostratosi particolarmente efficace per la mimetizzazione nel deserto, è valso loro il soprannome di Pinkies o Pantere Rosa.

Nella Guerra civile libanese (1975 – 1990) tutte le fazioni in lotta, OLP[8] in primis, impiegavano le tecniche. Sulla falsariga dei pick-up armati schierati dai palestinesi nella striscia di Gaza a fine anni 60 – ancora semplici veicoli civili con uomini armati nel cassone, a Beirut nacque il concetto di tecnica; in particolare il suo impiego in ambiente urbano.

Rispetto ai mezzi corazzati militari, infatti, queste risultavano molto più agili tra le strade irte di barricate e macerie. In aggiunta, grazie ad un maggior angolo di elevazione dei propri armamenti, consentivano di ingaggiare bersagli anche ai piani più elevati degli edifici della “Parigi del Medio Oriente”.

Milizie Stato Islamico in Libia

I primi guerriglieri ad utilizzarle con travolgente successo, però, sono stati quelli dell’Esercito di Liberazione Popolare Saharawi, in lotta per l’indipendenza dalla Mauritania (1975 – 1979) e Marocco (1975 – presente). Con armi e Land Rover forniti dall’Algeria, i Saharawi hanno condotto raid a lungo raggio nel deserto, contro forze convenzionali più potenti, ma meno agili.

Lo stesso Esercito marocchino ha dovuto creare velocemente i propri reparti di tecniche per poter contrastare gli attacchi mordi e fuggi del nemico; rivisitazioni in chiave moderna delle loro incursioni tribali di epoca precoloniale con cammelli e cavalli. Ancora oggi, le tecniche rappresentano una componente fondamentale degli arsenali del Fronte Polisario.

Se il Libano ha fatto da sfondo alla nascita delle moderne tecniche, il Ciad e la sua guerra contro la Libia ne hanno decretato la maturità. Dopo che nel 1983 il colonnello Gheddafi aveva occupato la striscia di Aozou nel Ciad settentrionale, la Francia ha armato ed equipaggiato le truppe di N’Djamena per liberarla. Circa 400 tra Toyota Hilux e Land Rover, con missili guidati anticarro MILAN, hanno consentito ai ciadiani di condurre pesanti attacchi in profondità, in territorio nemico.

Nella battaglia per la roccaforte di Fada (02/01/1987) i libici hanno perso ben 800 uomini, 92 carri armati e 33 veicoli da combattimento per la fanteria, rispetto a soli 3 veicoli e 18 uomini per i ciadiani. Le tecniche hanno avuto un ruolo così determinante che il Time ha ribattezzato le fasi finali della guerra libico-ciadiana la “Grande Guerra delle Toyota”.

Milizie libiche

Una delle maggiori organizzazioni terroristiche a fare ampio uso di tecniche è stata la Provisional IRA[9]. Numerosi veicoli, soprattutto furgoni e camion, sono stati equipaggiati con mitragliatrici, lanciafiamme o mortai improvvisati per attaccare elicotteri, pattuglie e caserme dell’Esercito britannico e del RUC[10] – Polizia federale dell’Irlanda del Nord.

Chiamate dalla PIRA “piattaforme mobili per armi”, le tecniche hanno trovato spazio anche in azioni di grande impatto mediatico e propagandistico nel Regno Unito: l’attacco a colpi di mortaio del 7 febbraio 1991 a Downing Street, sede del Governo britannico e quelli del 9, 11 e 13 marzo 1994 all’aeroporto londinese di Heathrow.

I mezzi del PIRA erano spesso camuffati da veicoli commerciali, ad esempio, di ditte di impianti elettrici, idraulici o di agenzie governative per passare inosservati. Il più celebre impiego di tecniche si è avuto in Somalia, immortalato nelle scene di Black Hawk Down (2001). Nel film di Ridley Scott, infatti, le forze speciali americane combattono centinaia di miliziani somali, armati fino ai denti e di tecniche, per salvare gli equipaggi di due elicotteri abbattuti.

In realtà, solo alcuni dei summenzionati veicoli avevano preso parte alla battaglia di Mogadiscio del 3 e 4 ottobre 1993. Da quando gli uomini del signore della guerra Mohamed Farah Aidid avevano attaccato elicotteri statunitensi nel dicembre 1992, questi erano stati autorizzati a sparare a vista alle tecniche. Perciò, i somali preferivano tenerle nascoste o usarle con parsimonia.

Oltre all’utilità in combattimento, infatti, esse erano – e sono – considerate uno status symbol: il potere di un signore della guerra somalo si misura in tecniche possedute. Alla sua morte, nel 1996, il feretro di Aidid è stato portato in corteo su di un pick-up Toyota.

L’impiego di tecniche in Somalia è continuato con le Corti islamiche e oggi con gli al-Shabāb. Quando i talebani sono entrati per la prima volta a Kabul il 27 settembre 1996, i giornalisti hanno parlato di “carri e Toyota Hilux armati e pieni di munizioni” imperversare nelle strade della capitale afghana.

Milizie libiche

Scene che si sono ripresentate nell’agosto 2021, quando gli studenti coranici hanno rapidamente ripreso il controllo del Paese dopo vent’anni di presenza NATO.

Addirittura, sarebbe esistita una vera e propria scala gerarchica e preferenziale di marchi e modelli di pick-up e tecniche tra talebani e membri di al-Qaeda. Il Mullah Omar, guida suprema dei talebani, si spostava su di un Chevrolet Suburban con vetri oscurati, mentre Osama bin Laden, così come il suo luogotenente Muhammad Atef ed altri comandanti di al-Qaeda preferivano i Toyota Land Cruisers, dotati eventualmente di lampeggianti. I militanti ordinari, invece, Toyota Hilux, decisamente meno sobri: con armamenti ben in vista, scritte colorate e cerchioni e roll bar cromati.

Proprio come in Somalia, la schiacciante superiorità aerea della NATO ha portato ad un ridottissimo impiego di tecniche in battaglia da parte dei talebani. Tuttavia, nel 2009, un loro pick-up armato con un cannone ZPU-1 avrebbe abbattuto un elicottero Chinook della RAF[11] a nord di Sangin, Helmand.

In Afghanistan le stesse forze speciali americane e paramilitari della CIA avevano impiegato massicciamente le tecniche dal 2001, sia perché in grado di affrontare il terreno accidentato che per il loro basso profilo che consentiva di passare inosservati durante le operazioni. E ancora, prima di loro, gli spetsnaz[12] sovietici ne avevano sottratto alcuni esemplari ai mujaheddin – chiamati appunto “veicoli trofeo” – per impiegarli, successivamente, in azione.

Milizie ISIS in Libia

Nell’imminenza di Desert Storm i Berretti Verdi americani hanno allestito sul campo, in Kuwait, dei Land Cruiser per incrementare il parco veicoli a loro disposizione: li hanno armati di mitragliatrici e lanciagranate e hanno dipinto una V rovesciata sui fianchi per ridurre il rischio di incidenti di fuoco amico.

Nel 2003 la Guardia Repubblicana e, in particolare, i Fedayeen di Saddam Hussein hanno cercato di replicare gli attacchi dei Saharawi e dei ciadiani per fermare gli americani di Iraqi Freedom, ma con scarso successo. Durante i soli raid nel centro di Baghdad – ribattezzati Thunder Run[13] – la cavalleria americana ha eliminato una ventina di tecniche.

Inoltre, la difficoltà di distinzione tra veicoli militari improvvisati e civili – entrambi prevalentemente di colore bianco – ha provocato numerosi “danni collaterali”.[14]  Gli insorti del secondo dopoguerra iracheno hanno utilizzato le tecniche per attaccare le ricostituite forze di sicurezza locali, nonché le truppe occidentali.

Veicoli commerciali armati sono stati consegnati anche alla Polizia irachena, contractors e truppe della coalizione per proteggere i propri convogli di rifornimenti. Le guerre civili libiche (2011 e 2014 – 2020) hanno visto un considerevole dispiegamento di tecniche da parte di tutti i contendenti; tanto da rendere difficile ai velivoli della NATO discriminare tra amici e nemici da ingaggiare.

Ragguardevoli anche le innovazioni introdotte, in particolare in fatto di armamenti visto la gran quantità di depositi militari che i ribelli hanno potuto saccheggiare. In Donbas ucraini, separatisti e reparti speciali russi hanno tutti schierato veicoli militari “fatti in casa” fin dal 2014.

Milizie libiche (foto sopra e sotto)

Nell’aprile 2021 gli osservatori dell’OSCE[15] avevano individuato 15 veicoli russi UAZ-23632-148 Esaul – versione modificata del commerciale UAZ Patriot – vicino ad Oleksandrivska, oblast[16] di Donetsk; a 21 chilometri dalla linea di contatto. La presenza di tali mezzi tra le fila dei separatisti, secondo gli analisti palesava già le intenzioni della Federazione Russa di escalare la situazione.

Con l’avvio dell’Operazione Militare Speciale, il 24 febbraio 2022 gli spetsnaz russi sono stati avvistati a Gomel, Bielorussia muovere verso il territorio ucraino a bordo di tecniche. Un altro video, circolato sui social poco più tardi, mostrava un convoglio di 6 pick-up – tra Mitsubishi e Toyota – dotati di mitragliatrici pesanti e dell’ormai celeberrima “Z” nelle vicinanze di Mariupol.

 

Le tecGli stessi ucraini, nelle fasi iniziali della guerra, grazie alla mobilità e potenza di fuoco delle tecniche hanno inflitto pesanti perdite ai russi, respingendo la loro avanzata verso Kiev. Successivamente, i combattimenti si sono spostati nella parte orientale del Paese, sotto forma di guerra tradizionale.niche, tuttavia, continuano a dimostrarsi soluzioni valide ed efficaci: dall’ingaggio di velivoli e carri armati al bombardamento di posizioni nemiche con lanciarazzi multipli, passando per la consegna di rifornimenti ed evacuazioni di feriti. Il tutto, mentre fabbriche ed officine meccaniche dedicate al loro allestimento continuano a sorgere e ad operare ininterrottamente, sia sul proprio territorio che all’estero.

Infine, le tecniche sono state utilizzate anche dalle milizie Janjaweed in Darfur, dai ribelli Houthi e milizie pro-Hadi in Yemen, dai vari gruppi della galassia jihadista (Stato Islamico, al-Qaeda ed altri a loro affiliati) e dagli uomini di Assad in Siria, nonché dai Peshmerga curdi contro l’ISIS.

Una scomoda pubblicità

Dalle montagne dell’Afghanistan ai deserti del Siraq i fuoristrada Toyota, in particolare gli Hilux e i Land Cruiser, sono da tempo i preferiti dei gruppi terroristici di matrice islamica. Come non ricordare le immagini dei convogli di nuovissimi pick-up dell’ISIS che imperversavano per le strade di Raqqa e Mosul o quelle dei talebani che entravano a Kabul nell’agosto 2021!

Tutto ciò, oltre a mettere in risalto l’estrema affidabilità e versatilità dei veicoli del marchio nipponico, lo ha legato – quasi – indissolubilmente al jihadismo transnazionale. Dopo che le prime immagini dei talebani alla guida di Land Cruiser avevano iniziato a circolare l’11 Settembre, Toyota era stata costretta a dichiarare di aver esportato ufficialmente in Afghanistan solo ed esclusivamente un veicolo nei cinque anni precedenti – nel 1997 – e di non avere un canale di distribuzione nel Paese.

Per cercare, comunque, di cavalcare l’onda mediatica Wade Hoyt, portavoce di Toyota a New York, se n’era uscito affermando che “anche se non è il nostro product placement[17] di cui andiamo più fieri, […] dimostra che i talebani sono alla ricerca delle stesse qualità di qualsiasi acquirente di autoveicoli: durata e affidabilità”.

Nell’ottobre 2015, addirittura, il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti ha chiesto ufficialmente spiegazioni al colosso giapponese sul come e perché i gruppi terroristici di tutto il Medio Oriente avessero a disposizione flotte di suoi veicoli freschi di fabbrica.

Toyota ha per l’ennesima volta ribadito il suo impegno ad osservare leggi e regolamenti di ogni Paese e regione in cui opera, così come la sua totale disponibilità a collaborare ad indagini sulle catene di approvvigionamento internazionali che consentono alle organizzazioni terroristiche di ottenere, convertire ed impiegare in combattimento i suoi veicoli. Precauzioni che ha imposto di adottare anche ai propri distributori.

Inoltre, in occasione del lancio di una delle ultime versioni di Land Cruiser, Toyota ha imposto agli acquirenti l’obbligo a non rivenderli prima di un anno. Questo per evitare che finiscano – immediatamente, perlomeno – in mani sbagliate, attraverso Paesi e regioni con confini porosi.

Oltre a questioni morali e di sicurezza internazionale, infatti, ciò potrebbe arrecare ulteriori danni d’immagine o, addirittura, far scattare sanzioni nei confronti della casa costruttrice. La stessa, però, ha lamentato l’impossibilità di controllare i molteplici canali attraverso i quali questi veicoli possono essere trasferiti ed impropriamente utilizzati.

L’ISIS, per esempio, grazie alle considerevoli possibilità economiche, poteva acquistarli sul mercato nero senza troppi problemi. Si pensi, ad esempio, alla preoccupante impennata di furti di Toyota Hilux nel Nuovo Galles del Sud, Australia nell’estate del 2015: ben 473 veicoli su 834 non sono mai stati ritrovati. Grazie a reti criminali transnazionali questi pick-up possono aver raggiunto le aree di conflitto mediorientali passando per la Turchia o il Pakistan.

Per non parlare, inoltre, dei 43 veicoli Toyota che il Dipartimento di Stato USA ha donato ai ribelli siriani nel 2014 e che, invece, sono finiti allo Stato Islamico; così come quelli abbandonati senza colpo ferire dalle Forze armate irachene in fuga dall’avanzata dell’ISIS su Mosul nel giugno 2014.

Da non trascurare, infine, i pick-up abbondantemente impiegati dalle organizzazioni umanitarie come Croce Rossa e Nazioni Unite in molti Paesi instabili. Questi possono, infatti, essere rubati direttamente dai terroristi o finire per l’ennesima volta sul mercato nero.

Una vicenda decisamente tanto singolare quanto tragicomica è quella che ha visto protagonista Mark Oberholtzer, idraulico di Galveston, Texas a partire dal dicembre 2014. Il suo Ford F-250 del 2005 è finito nelle mani dei miliziani islamici ad Aleppo, Siria con ancora ben visibili logo e numero di telefono della sua azienda: la Mark-1 Impianti Idraulici.

Un militare francese con truppe maliane

Oberholtzer, accusato fortuitamente di simpatizzare per e sostenere i terroristi, ha perso contratti e ricevuto centinaia di minacce. Tanto che ha chiesto più di 1 milione di dollari come risarcimento danni ad AutoNation Ford Gulf Freeway, concessionario di Houston a cui aveva dato in permuta il veicolo “incriminato” per l’acquisto di uno nuovo.

Il suo Ford F-250, infatti, è stato venduto all’asta nel novembre 2013 ed è stato esportato a Mersin, Turchia il mese successivo; senza rimuovere adesivi e recapiti per non rovinare la vernice. ​ Da lì sarebbe, poi, finito ai jihadisti in Siria che l’hanno equipaggiato con un cannone antiaereo e l’hanno messo in bella mostra sui social.

 

Iniziative private e creatività al servizio di Kiev

Uno dei principali donatori di tecniche all’Ucraina è l’associazione benefica scozzese P4P – Pickups for Peace. Da quando è stata fondata nel febbraio 2023 dall’agricoltore britannico Mark Laird, Pickups for Peace ha organizzato dodici convogli per trasferire ai militari di Kiev qualcosa come 338 tra fuoristrada, ambulanze, quad e tutta una serie di materiali – generatori, carburante, pneumatici, ricambi, batterie, attrezzi, medicinali, abbigliamento invernale – e donazioni per un totale di 3 milioni di sterline.

L’ultimo convoglio di 38 fuoristrada è giunto a destinazione ad aprile, grazie ad agricoltori e volontari dell’associazione che si sono cimentati in un viaggio di oltre 2.500 km: treno, nave e strada attraverso Gran Bretagna, Paesi Bassi, Germania e Polonia fino alla città ucraina di Leopoli.

Riflettori e mitragliatrici antidroni – Esercito Ucraino

Ad attenderli uomini dell’Amministrazione Militare Regionale che hanno provveduto poi a ridistribuire i fuoristrada – secondo le rispettive richieste – alle varie unità e reparti. Altra iniziativa privata è Car4Ukraine di Ivan Oleksii e Ivan Karbashevsky.

Esentato dal servizio militare per motivi di salute, Oleksii ha trovato comunque il modo di contribuire in modo significativo allo sforzo bellico del suo Paese: riunendo un gruppo di volontari provenienti da Europa, America ed Ucraina ha raccolto, allestito e consegnato ben 404 veicoli all’Esercito ucraino per un valore di 3,28 milioni di dollari.

Si tratta, generalmente, di mezzi di seconda mano, a trazione integrale, con motori da 2,0 litri o più, con un costo unitario di circa € 5.500. Tra i modelli preferiti Toyota Hilux/Tundra, Mitsubishi L200, Ford Ranger, Nissan Navara/KingCab, Isuzu D-Max, Маzda BT-50/Mazda B2500 e Jeep Gladiator.

Nella maggior parte dei casi vengono importati da Germania, Polonia, Lituania, Paesi scandinavi o Regno Unito grazie a denaro proveniente dal crowdfunding.[18]   Una volta giunti in Ucraina, i veicoli vengono modificati da meccanici ed ingegneri volontari che ne rinforzano la carrozzeria per garantire almeno una minima protezione all’equipaggio ed aggiungono supporti per mitragliatrici o altre armi anticarro o antiaeree. In tale ambito, poi, la creatività ucraina si sbizzarrisce!

Sistema antidrone L3Harris Vampire su 4×4 per l’Esercito Ucraino

Sarebbe stata realizzata e montata, infatti, una torretta con mitragliatrice a controllo remoto sul retro di una berlina di era sovietica; nella fattispecie una mitragliatrice pesante KPVT da 14,5 mm su di una GAZ-24-10 Volga. Sulla precisione di tiro, però, non si sono avuti riscontri.

Ad essere convertito in mezzo militare pronto per il combattimento anche un Porsche Cayenne. Un veicolo high-tech – con telecamera per la visione notturna, alloggiamenti per armi, connessione satellitare ad internet – allestito e consegnato, in prima linea, al comandante della 24° Brigata meccanizzata; unità protagonista dei sanguinosi combattimenti di Bakhmut.

Addirittura, ad una BMW Serie 6 è stato rimosso lo sportello del bagagliaio per montare il supporto per una mitragliatrice pesante; molto probabilmente una NSV sovietica.

Esercito ucraino

La Serie 6, pur non essendo certamente la miglior auto da cui ricavare una tecnica (non è blindata, richiede una manutenzione significativa, è bassa ed ha trazione posteriore) dimostra la determinazione del popolo ucraino a resistere in qualunque modo e con qualunque mezzo.

 

Qualche considerazione

La monopolizzazione – mediatica e non – delle forniture militari all’Ucraina da parte dei cosiddetti “game changers”[19] come HIMARS e compagnia bella, ritenuti in grado di stravolgere le sorti del conflitto, ha fatto passare in secondo piano necessità meno articolate, ma altrettanto – se non addirittura più – critiche.

Si pensi ai proiettili d’artiglieria, kit medici, droni, veicoli da combattimento per la fanteria e veicoli multiruolo come, appunto, le tecniche.

Pertanto, volontari ucraini e non, sono alla costante raccolta di fondi per acquistare vecchi pick-up civili da allestire e consegnare alle varie unità militari: per spostarsi velocemente lungo l’intera linea del fronte, condurre attacchi mordi e fuggi, disporre di capacità antiaeree, distribuire rifornimenti ed evacuare i feriti. Tutto ciò in zone dove il tasso di perdita è nettamente superiore a quanto si possa immaginare.

 Milizie sciite filo-iraniane MUP in Iraq 

In tal senso, le tecniche presentano tutta una serie di punti di forza ed opportunità per chi decide o è costretto ad utilizzarle. Innanzitutto, l’assoluta semplicità d’impiego. Rispetto anche ai più semplici veicoli militari che richiedono, comunque, una qualche forma di addestramento, le tecniche possono essere utilizzate da chiunque sappia guidare e premere un grilletto.

I veicoli da cui sono ricavate, poi, sono confortevoli, hanno un’ampia autonomia ed importanti capacità di carico di cose e persone, ma, soprattutto, sono estremamente solidi, affidabili ed in grado di affrontare situazioni estreme. Insomma, perfetti per chi non dispone di particolari infrastrutture e possibilità di supporto e manutenzione. Eventuali riparazioni, poi, sono molto più semplici ed economiche di quelle di veicoli militari. Rispetto ad un T-72, rimettere in sesto un pick-up Toyota è molto più economico e pratico, così come più semplice è, anche, la reperibilità dei ricambi.

Stesso discorso può essere fatto per quasi tutti gli armamenti che montano. Principalmente di fabbricazione cinese o sovietica-russa, sono semplici, robusti e richiedono poca manutenzione. Trattandosi infine di veicoli civili al 100%, sono facilmente reperibili e disponibili in gran quantità, così come la loro fornitura – una volta rimossi eventuali armi e supporti – è possibile quasi ovunque, senza incorrere in divieti, sanzioni o attirare troppa attenzione grazie al proverbiale basso profilo.

Milizie ISIS in Iraq

In uno scontro diretto con veicoli corazzati o carri armati non hanno – o quasi – possibilità di sopravvivenza. Tuttavia, quello di cui mancano in termini di blindatura – caratteristico lo scarso livello di protezione per equipaggio e passeggeri – e potenza di fuoco, le tecniche lo recuperano in velocità, mobilità e manovrabilità.

Particolarmente popolari tra i combattenti dei Paesi del Terzo Mondo con scarse possibilità economiche o tra quegli Eserciti che necessitano di reintegrare rapidamente unità e veicoli persi in combattimento, pare appropriato considerare le tecniche come “la cavalleria del moderno campo di battaglia asimmetrico”.

Anzi, come le ha definite in maniera molto più efficace e concreta Andrew Exum del think tank[20] americano Center for a New American Security: “l’equivalente veicolare dell’AK-47 Kalashnikov”.

 

Foto: Ministero Difesa Francese, Stato Islamico, MINUSMA, Ministero Difesa Burkina Faso, Libya Herald, Libya Observer, L3 Harris, Telegram, AFP e  MUP

 

Bibliografia

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Sitografia

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Sito ufficiale di Pickups for Peace – P4P  https://www.pickupsforpeace.co.uk/

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NOTE

[1] “Distruttori di caserme”, mortai improvvisati realizzati ed utilizzati negli anni 90 dai terroristi nordirlandesi del PIRA per attaccare le caserme delle Forze Armate e dell’Ordine britanniche.

[2] Contenitore.

[3] Rozze, grezze.

[4] Suicide Vehicle-Borne Improvised Explosive Device.

[5] Letteralmente, “sbarco da carro armato”.

[6] Long Range Desert Group.

[7] Special Air Service.

[8] Organizzazione per la Liberazione della Palestina.

[9] Irish Republican Army.

[10] Royal Ulster Constabulary.

[11] Royal Air Force.

[12] Reparti speciali russi.

[13] Incursioni condotte tra il 5 e il 7 aprile 2003, nel centro di Baghdad, per saggiare il livello delle forze irachene rimaste a difesa della capitale.

[14] Vittime civili.

[15] Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa.

[16] Ripartizione amministrativa ucraina o di altri Paesi slavi corrispondente pressappoco alla regione.

[17] Forma di pubblicità che consiste nell’inserimento di prodotti o marchi all’interno di programmi televisivi, radiofonici, film, libri o tutta una serie di altri contesti non strettamente pubblicitari, senza interromperne la naturale struttura o filo narrativo.

[18] Sistema di finanziamento di progetti di singoli individui o piccole e medie imprese attraverso donazioni di una moltitudine di soggetti.

[19] Armamenti particolarmente performanti, ritenuti in grado di fare la differenza sul campo di battaglia.

[20] letteralmente, “serbatoio di pensiero”. Gruppo di esperti in diversi campi che collaborano nella realizzazione di studi ed analisi di varia natura.

FONTE: https://www.analisidifesa.it/2024/05/dalla-somalia-allucraina-passando-per-il-siraq-il-boom-delle-tecniche/

 

 

 

Ucraina, Charles Michel: “Se vogliamo la pace prepariamoci alla guerra. Serve spendere di più per la difesa e produrre più munizioni”

di F. Q. | 19 MARZO 2024

 

Il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, non usa giri di parole: “Se vogliamo la pace, dobbiamo prepararci alla guerra“. Lo afferma con un intervento pubblicato su diversi media europei (in Italia da La Stampa) in vista del vertice europeo di giovedì e venerdì. Questi i punti chiave: i Paesi Ue devono essere “pronti a difendersi”, producendo più munizioni e spendendo di più per la difesa, e soprattutto bisogna prepararsi “all’economia di guerra“. Michel si allinea così alle dichiarazioni di Ursula von der Leyen: “Servono più armi, dobbiamo produrne come fatto con i vaccini“, ha detto 20 giorni fa la presidente della Commissione Ue.

Borrell: “La guerra in Ucraina sarà decisa questa estate” – E anche l’alto rappresentante Ue per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, solleva la questione delle forniture di armi sottolineando che, in merito alla guerra in Ucraina, “tutto verrà deciso questa estate“: “Questa estate sarà critica. La Russia sta colpendo la posizione degli ucraini ogni giorno, per indebolirle, e quando arriverà la primavera Mosca certamente aumenterà l’attività militare”, ha spiegato Borrell puntando il dito contro le titubanze di alcuni Paesi membri: “È impossibile penetrare le linee russe senza un sostegno forte. Quando arriveranno gli F-16? Daremo i missili a lunga gittata o no? Per ora la Germania dice no ma chissà, ha detto no ad ogni passo, Leopard, Patriot… Io devo lavorare al sostegno per i prossimi mesi”. Borrell definisce comunque “ingannevole” la proposta di un Commissario alla difesa. “Per me è chiaro: la difesa è competenza degli Stati membri. Come la politica estera. Allora perché non creare un commissario per la politica estera? La Commissione ha competenza sulla sicurezza interna e sull’industria, ma ha competenza zero sulla politica di difesa, zero sulle capacità militare, sulle missioni militari o l’agenzia della difesa. La maggior parte delle proposte del Partito Popolare sul Commissario alla difesa sono contro i trattati, ci vorrebbe una modifica del trattati”, ha concluso.

Michel: “”Dobbiamo essere pronti all’economia di guerra’” – “A due anni dall’inizio della guerra è ormai chiaro che la Russia non si fermerà in Ucraina, così come non si è fermata 10 anni fa in Crimea“, ha sottolineato Charles Michel ribadendo che “la Russia rappresenta una seria minaccia militare per il nostro continente europeo e per la sicurezza globale”. “Se la risposta dell’Ue non sarà adeguata e se non forniamo all’Ucraina sostegno sufficiente per fermare la Russia, saremo i prossimi“, insiste Michel. “Non possiamo più contare sugli altri o essere in balia dei cicli elettorali negli Stati Uniti o altrove. Dobbiamo rafforzare la nostra capacità, sia per l’Ucraina che per l’Europa, di difendere il mondo democratico”, scrive il presidente del Consiglio europeo. Per questo, secondo Michel, “Dobbiamo essere pronti a difenderci e passare a una modalità di ‘economia di guerra’. È giunto il momento di assumerci la responsabilità della nostra propria sicurezza”. “Un’Europa più forte contribuirà anche a rafforzare l’alleanza Nato e potenzierà la nostra difesa collettiva”.

Gentiloni: “Nuovo debito comune per la difesa” – A sostegno della posizione di Charles Michel arriva Paolo Gentiloni: “Se vogliamo rafforzare la difesa europea, dobbiamo finanziarla insieme”, si tratta di “qualcosa di molto importante per il futuro stesso dell’Ue”, ha detto il commissario europeo per l’Economia ai microfoni di Bloomberg a margine della conferenza annuale di Euronext a Parigi. Nelle nuove norme del Patto di stabilità “esiste già una forma di incentivo alla spesa per la difesa”, ma “mi riferisco a qualcosa di più: penso che servano finanziamenti comuni per incentivare” la spesa, ha sottolineato Gentiloni, ribadendo che “l’uso di finanziamenti comuni potrebbe essere cruciale“.

La lettera alla Bei – “Dall’inizio della guerra – ricorda Michel – l’industria europea della Difesa ha aumentato del 50% la sua capacità di produzione ed entro la fine del prossimo anno raddoppieremo la produzione europea di munizioni, portandola a oltre 2 milioni di pezzi“. Ma, per il presidente del Consiglio europeo, è ancora poco: “Quest’anno, la Russia dovrebbe spendere il 6% del Pil per la difesa, mentre l’Ue continua a spendere in media meno del 2% del Pil previsto dall’obiettivo della Nato”, così per Michel “dobbiamo rafforzare la nostra prontezza alla difesa”. Proprio su questo argomento poche ore prima lo stesso presidente del Consiglio europeo (così come la presidenza belga dell’Ue e la Bei) ha ricevuto una lettera firmata da 13 Paesi (Italia, Finlandia, Bulgaria, Repubblica Ceca, Danimarca, Estonia, Francia, Germania, Lettonia, Lituania, Paesi Bassi, Polonia, Romania e Svezia) che chiedono alla Bei di finanziare investimenti per la difesa.

“Gli ostacoli per il settore privato vanno superati” – “Dobbiamo esplorare diverse possibilità che permettano alla Bei di investire in attività legate alla difesa al di là degli attuali progetti a duplice uso”, si legge nella missiva. “Oltre a migliorare le possibilità della Bei stessa, un adeguamento della sua politica potrebbe avere un effetto di segnalazione, che potrebbe aumentare gli investimenti privati in sicurezza e difesa e renderli più accettabili per i mercati finanziari, gli investitori privati e le banche”, si legge nella lettera, firmata dai capi di Stato e di governo dei 14 Paesi membri. Pertanto l’obiettivo sarebbe anche quello di incentivare e rendere più semplici gli investimenti privati. “Gli ostacoli per il settore privato – continua la missiva – vanno superati. Per attirare gli investitori privati, è fondamentale rafforzare il business case delle aziende del settore della difesa, il che richiede anche migliorare le nostre procedure di approvvigionamento. Investimenti responsabili vanno di pari passo con la credibilità del settore della difesa”. “L’industria della difesa dell’UE è una parte vitale della sicurezza europea. Un’industria della difesa credibile richiede a sua volta investimenti”, concludono i 14 leader europei.

Le trattative Bei- Commissione – Intanto fonti della Bei riferiscono che la Banca europea per gli investimenti è in trattative con la Commissione europea per delineare i piani comuni per aumentare la spesa dedicata alla sicurezza e alla difesa dell’Europa. Al centro dei negoziati vi è la possibilità di aumentare i finanziamenti concessi dalla Bei alle tecnologie “a duplice uso” militare e civile. L’attenzione, secondo quanto anticipato anche dalla presidente della Bei, Nadia Calvino, all’Ecofin lo scorso 23 febbraio, è rivolta in particolare “alle nuove tecnologie, alle infrastrutture critiche, alla sicurezza informatica e ai droni”.

Fonte: https://www.ilfattoquotidiano.it/2024/03/19/ucraina-charles-michel-se-vogliamo-la-pace-prepariamoci-alla-guerra-piu-munizioni-difesa/7484036/

 

 

 

 

CYBERWAR SPIONAGGIO INFORMAZIONE DISINFORMAZIONE

LE MACCHINE SPIRITUALI

 Nicola Walter Palmieri 

Le Tecnologie del XXI secolo: genetica, nanotecnologia e robotica con intelligenza artificiale

In un libro futuristico dal titolo Macchine Spirituali1 si prediceva che l’uomo avesse dissennatamente insegnato alle machine come creare una propria mente capace di superare quella umana sia in quantità che in velocità di elaborazione, permettendo alla macchina di rendersi idonea a prendere il suo posto. Il testo esamina il conflitto fra intelligenza umana e macchina, mettendo in evidenza le conseguenze perverse che risulteranno dalla fusione del pensare umano con l’intelligenza della macchina, inclusa la tragedia dell’avanzamento in territorio inesplorato quando la macchina avrà raggiunto e superato la capacità e abilità della mente umana. L’evoluzione di intelligenza indipendente si sta avverando fuori dalla mente umana, scrive Kurzweil, e permetterà di fare virtualmente tutto con tutti, indipendentemente dalla prossimità fisica. Le persone fisiche intratterranno relazioni con persone-macchina che fungeranno da compagnia, maestri, assistenti, amanti. I collegamenti neurali raggiungeranno la capacità del cervello umano, che opera alla velocità di 1019 calcoli al secondo. La vasta maggioranza di calcoli non-umani sarà eseguita su reti neurali

parallele  sviluppate da ingegneria inversa della mente umana. Molte regioni del cervello saranno decodificate, e i loro algoritmi decifrati. Le reti basate sulla macchina saranno di gran lunga più veloci di quelle umane, e avranno maggiore capacità di calcolo e memoria degli analoghi umani2. Una grande quantità di impianti neurali si renderà disponibile per applicazioni industriali, e per migliorare la percezione della memoria e del ragionamento. L’istruzione avrà luogo con insegnanti virtuali. Le macchine impareranno da sé senza essere ulteriormente imboccate dagli umani, leggeranno tutto il materiale multimediale, la letteratura, le leggi e le decisioni giudiziarie, e creeranno nuova conoscenza senza intervento umano. La distinzione fra intelligenza umana e intelligenza di macchina si sfocherà. L’esperienza soggettiva dell’intelligenza delle macchine sarà progressivamente accettata, perché le macchine parteciperanno direttamente, e si scambieranno le informazioni sulla struttura della conoscenza. Si giungerà alla domanda angosciosa su cosa sia l’essere umano, e quali i diritti della macchina. L’evoluzione dell’intelligenza delle macchine raggiungerà, intorno al 2100, un livello al quale non esisterà più apprezzabile distinzione fra umani e macchina. Le macchine saranno basate sul modello umano, migliorato e potenziato con numerosi algoritmi paralleli. In uno con i guadagni di velocità e capacità, i circuiti elettronici e fotonici soppianteranno ampiamente i processi cellulari basati sul carbonio. L’intelligenza delle macchine pretenderà di essere l’unica intelligenza “umana”. Gli impianti neurali aumenteranno enormemente le abilità cognitive e percettive umane.3

Avverrà il salto quantico.

La mente umana potrà essere letta a distanza, scansionata. I bugiardi, imbroglioni, cialtroni, e i perfidi traditori insorgeranno, intravedranno nel lettore della mente l’arcinemico della loro esistenza, la combatteranno con tutti i mezzi e tutte le forze per avversare o almeno ritardare questo sviluppo epocale della ‘Macchina Spirituale’. I disonesti perderanno la franchigia del malaffare.

Con il “telecomando” lettore della mente si scopriranno le ragioni (o se ne avrà definitiva conferma) per le quali l’adoratrice della bomba atomica Liz Truss divenne Prima Ministra inglese nel 2022, proprio nei 40 giorni cruciali per la distruzione del Nord Stream, si saprà chi ha ordinato ed effettuato l’azione terroristica contro il gasdotto di proprietà della Germania e della Russia, si saprà chi ha impiegato i gas in Siria, perché Obama revocò il 31 agosto 2013 l’attacco americano già deliberato contro la Siria, chi ha voluto che il  B747 coreano KAL007, pur essendo equipaggiato di doppio sistema di navigazione inerziale, abbia volato per ore fuori rotta fino a trovarsi sulla penisola di Kamčatka (area sovietica fra le più sensibili al mondo) prima di essere abbattuto dagli intercettori sovietici, chi ha distrutto e perché l’aereo di linea MH17 (ndr.: Boeing 777 precipitato in Ucraina il 17.7.2014). Si saprà quale ruolo hanno avuto gli stessi Stati Uniti nei tragici attacchi del settembre 2001, si conosceranno le ragioni dell’attacco all’Iraq di G.W. Bush, accompagnato dall’amico inglese e da 47 volenterosi. Si saprà perché inglesi (Britannia rules the waves and waves the rules) e francesi (la grandeur) hanno attaccato la Libia e ucciso il Presidente libico, si conosceranno i termini della promessa del 1990 dell’Occidente alla Russia sulla non-espansione NATO verso Est e perché la promessa venne ripudiata, quale fu lo scopo dissimulato dei protocolli di Minsk di cessazione del fuoco e fine conflitto nel Donbass, si avrà conferma su chi indusse l’URSS all’aggressione dell’Afghanistan (nel 1979), chi ha creato, addestrato, sguinzagliato nel mondo l’ISIS, si conosceranno le riflessioni, scombinate, errate, forse anche fraudolenti della Commissione europea rispetto alla spinta alla transizione verso le inquinanti e pericolose auto elettriche, in rapida obsolescenza4, mentre si stanno profilando soluzioni più attraenti, in fase di avanzato sviluppo, ignorate dai disattenti legislatori5. I politici, generalmente considerati fra le persone più mendaci esistenti, saranno stanati e sbugiardati a tambur battente. Si saprà chi sono i veri “disseminatori di odio” che attaccano le persone sane di mente solo perché analizzano criticamente e rendono di pubblico dominio le ragioni che hanno portato la Russia a reagire all’accerchiamento ostile da parte della NATO, si saprà chi sparge la menzogna che i farmaci anti-Covid siano vaccini. Si saprà come sia riuscito Israele a montare il sentimento che ogni critica del suo operato – anche la presenza nei territori occupati che si protrae abusivamente da decenni – equivalga a ingiurioso anti-semitismo, perché i comportamenti di Israele, che si sta rendendo colpevole di rappresaglia, punizione collettiva, deportazioni, distruzione di proprietà, privazione intenzionale di medicine – azioni vietate dagli articoli 30, 33, 49, 53, 55 della Convenzione IV di Ginevra e dagli articoli 51-54 del Protocollo 1977 – non debbano essere denunciati, e puniti per quello che sono, crimini di guerra, come vale per tutti i Paesi del Pianeta?

(fine Prima parte)

                              Nicola Walter Palmieri

BIBLIOGRAFIA

 

1   Ray Kurzweil, The Age of Spiritual Machines – When Computers Exceed Human Intelligence, New York: Penguin Books, 1999.

2   La capacità totale della mente umana si ridurrà all’1% mentre il 99% diventerà non-umana.

3   V. Ray Kurzweil, cit., pp. 118-126.

4    L’effimera aspettativa di rotazione del parco macchine per smaltire cento milioni di auto prodotte ogni anno? Cosa inventerà l’Europa delle curvature dei cetrioli e delle banane per ampliare artificialmente il mercato? Classi di emissione CO2 Euro 8, 9 e superiori, la cui utilità sarà solo quella di distruggere il valore economico di veicoli ancora perfettamente efficienti?

5   Progetto di nuove Toyota a combustione interna alimentata a idrogeno; nuovo motore diesel amico dell’ambiente, energeticamente efficiente ed economico della BMW: smentiscono la propaganda intesa a rendere inservibili milioni di auto al solo scopo di fare girare velocemente il mercato.

Fonte: https://www.civica.one/le-macchine-spirituali/

 

 

 

 

Perché ci preoccupiamo del neo nazista Navalny e lasciamo al suo destino un eroe civile come Assange?

Perché nessun paese insorge in difesa di Julian Assange, che è un giornalista di sinistra ed è in carcere in Gran Bretagna, su richiesta Usa, per la sola colpa di avere svelato crimini di guerra?
E invece ci si mobilita per Aleksej Navalny (nella foto con le imbarazzanti insegne giallo nere dei nazisti russi) che è un blogger ultranazionalista di estrema destra, che ha il 2% di consensi, e ha dichiarato più volte la sua volontà di “cacciare tutti gli immigrati dalla Russia”.

In seguìto allo sciopero della fame con il quale tenta di screditare la giustizia russa, Navalny è stato trasferito nel reparto ospedaliero della colonia penale IK-3 del Servizio Penitenziario Federale russo (FSIN) nella regione di Vladimir, specializzato nell’osservazione medica dei detenuti, ha fatto sapere il servizio stampa del FSIN. Secondo il servizio penitenziario le condizioni di Navalny sono “soddisfacenti”. La struttura viene definita come “l’ospedale regionale per i detenuti”. Secondo il FSIN, Navalny “viene visitato ogni giorno da un medico generico” e “con il consenso del paziente, gli è stata prescritta una terapia vitaminica”.

“Il trasferimento alla colonia penale IK-3 è un trasferimento alla stessa colonia di tortura, solo con un grande ospedale, dove vengono trasferiti i malati gravi. E questo va inteso come il fatto che le condizioni di Navalny sono peggiorate così tanto che persino la colonia della tortura lo ammette”, denuncia su Twitter Ivan Zhdanov, direttore del Fondo Anti-Corruzione. “È abbastanza chiaro che ora ci viene data una sorta di ‘buona notizia’ sulle condizioni di Alexey prima della protesta. Non fatevi ingannare: possiamo ottenere le vere informazioni solo dagli avvocati”. Parole che i media occidentali prendono per oro colato, ma che non hanno in effetti nessun riscontro nella realtà, mentre si chiudono entrambi gli occhi su chi è in realtà Navalny (il che non significa che non gli si debbano rispetto, un giusto processo e dignitose condizioni di carcerazione).

“La sua carriera politica – ricostruisce Lorenzo Poli – inizia nel 2000 quando si iscrive al partito Jabloko, d’ispirazione filo-occidentale, del quale diviene dirigente locale a Mosca. Dal 2005 riceve finanziamenti dalla NED National Endowment for Democracy, ONG con sede a Washington e finanziata dal Congresso degli Stati Uniti. I primi problemi di Navalny iniziarono nel 2006, quando il municipio di Mosca vietò la sua manifestazione nazionalista “Marcia Russa”, temendone le implicite connotazioni razziste e xenofobe. Poco dopo, Jabloko, lo espulse dal partito accusandolo per le sue posizioni estremiste. Nel 2007 fondò il movimento politico nazionalista “Popolo” e iniziò a criticare pesantemente il presidente russo Vladimir Putin.
Nel 2010 partecipò al programma Yale World Fellows, organizzato dall’Università di Yale per supportare la crescita di nuovi leader e dal 2011 iniziò a organizzare manifestazioni contro Putin.

Navalny, ha avuto anche guai legali per appropriazione indebita, truffe e maneggio di consistenti cifre di denaro provenienti dall’estero. Una sua grande abilità di comunicatore è stata quella di far passare quei processi come una conseguenza del suo impegno politico e di far passare se stesso come un prigioniero politico”.
Durante i suoi periodi di detenzione, in Occidente venne dipinto come prigioniero politico, sia da Amnesty International che dalla ong Memorial di Mosca, finanziata anch’essa dalla statunitense National Endowment for Democracy.

Secondo un sondaggio dell’istituto indipendente Levada Center, organizzazione di ricerca sociologica indipendente non-governativa, nel febbraio 2017, il 53% dei russi non conosceva Navalny, il 43% lo conosceva ma aveva di lui un’opinione negativa, al 35% restava indifferente, mentre il 16% aveva di lui un’opinione positiva. Resta il fatto che Aleksej Navalny, è molto popolare nel mondo occidentale, dove anche grazie alla russofobia montante gode di una popolarità che non trova riscontri in Russia.

Che Navalny sia un razzista e suprematista lo scriveva, del resto, anche il giornale Italiano che oggi più energicamente lo difende La Stampa in quest’articolo dal titolo abbastanza inequivocabile pubblicato nel 2012: “Il blogger xenofobo che unisce la piazza contro lo zar Putin”.

Nell’articolo si descrivono le sue simpatie nazionaliste e le sue “tendenze giustizialiste” che “lui non rinnega”. Sempre nell’articolo si dava la notizia che a novembre 2006 Navalny era in prima fila alla Marcia Russa tra neonazisti e slogan anti-Caucaso. La cosiddetta marcia dei «rivoluzionari bianchi» che venne convocata fondamentalmente grazie a lui, dopo “aver stanato i dissidenti nascosti sul web trasformandoli in attivisti”, come si legge nell’articolo del 2012.

FONTE: https://www.farodiroma.it/454000-2/

 

Ritorna l’affare Kastner

DEUTSCH ENGLISH ESPAÑOL FRANÇAIS NEDERLANDS PORTUGUÊS

Agli inizi dello Stato di Israele, un ebreo ungherese Rezso Kasztner (noto come Rudolf Ysrael Kastner) fu nominato portavoce del ministro del Commercio e dell’Industria. Si scoprì in seguito che durante la seconda guerra mondiale aveva negoziato con i nazisti la fuga di ebrei ungheresi. Secondo alcuni, Kastner fu un eroe; secondo altri un collaboratore dei nazisti. Un giornalista ungherese l’accusò di aver salvato solo la sua famiglia, i suoi amici e le personalità facoltose in grado di pagarsi il riscatto. Fu accertato che aveva trattato con un emissario speciale di Heinrich Himmler e che, probabilmente nel 1944, incontrò Adolf Eichmann. Per l’operazione, Kastner raccolse più di 8,6 milioni di franchi svizzeri. David Ben Gurion fu probabilmente informato di queste trattative già nel 1942. Due processi scossero la società israeliana del dopoguerra. Kastner fu assassinato nel 1957.

Lo storico Nadav Kaplan ha recentemente pubblicato un libro, מדוע חוסל קסטנ (Perché Kastner è stato assassinato?) per le edizioni Steimatzky. Non esamina il passato di Kastner, ma le circostanze della sua morte e l’incredibile immunità di cui godettero i suoi assassini. Secondo lo storico, l’uccisione fu eseguita dai “sionisti revisionisti” ma ordinata dallo Shin Bet, con l’accordo di David Ben Gurion. Questo affare di Stato avrebbe avuto lo scopo di nascondere alla popolazione israeliana la rilevanza dei negoziati tra dirigenti sionisti e nazisti.

A maggio 1942 David Ben Gurion presiedette il Congresso delle organizzazioni sioniste all’Hotel Baltimora di New York. Le mise sotto protezione non più del Regno Unito, ma degli Stati Uniti. Le risoluzioni del Baltimora fissarono la politica di Israele fin dalla sua nascita. Se l’ipotesi di Kaplan è corretta, dal 1948 Israele è gestito da una banda di criminali, all’insaputa della popolazione.

FONTE: https://www.voltairenet.org/article220817.html

 

Bombardare per un mondo più giusto?

DEUTSCH ENGLISH ESPAÑOL FRANÇAIS

Mi piacerebbe, in questa discussione, sfidare gli assunti intellettuali che sottostanno alla nozione e alla retorica della R2P. In breve, la mia tesi sarà che l’ostacolo principale alla realizzazione di una genuina R2P consiste proprio nella politica e negli atteggiamenti dei paesi che più sono entusiasti di questa dottrina, vale a dire i paesi occidentali e in particolare gli Stati Uniti.

Nel corso del decennio passato, il mondo è stato a guardare impotente mentre civili innocenti venivano assassinati dalle bombe americane in Iraq, Afghanistan e Pakistan. È stato spettatore passivo della furiosa e criminale aggressione israeliana del Libano e di Gaza. Prima ancora, abbiamo visto morire milioni di persone sotto la potenza di fuoco americana in Vietnam, Cambogia e Laos, e molti altri sono morti nelle guerre su delega americana in America centrale o nell’Africa meridionale. Nel nome di quelle vittime, noi diciamo: mai più! D’ora in poi, il mondo, la comunità internazionale vi proteggerà!

La nostra risposta umanitaria è sì, noi vogliamo proteggere tutte le vittime. Ma come e con quali forze? Come possono mai essere protetti i deboli dai forti? La risposta a questa domanda non deve essere cercata solo in termini umanitari o legali, ma prima di tutto in termini politici. La protezione del debole dipende sempre dalle limitazioni al potere del forte. La norma giuridica corrisponde a tale limitazione, fin tanto che è basata sul principio dell’uguaglianza di tutti di fronte alla legge. Realizzare ciò richiede una lucida ricerca dei principi ideali accompagnata da un accertamento realistico dei rapporti di forza esistenti.

Prima di discutere politicamente la R2P, mi si lasci sottolineare che il tema in questione non sono i suoi aspetti diplomatici o preventivi, ma la parte militare della cosiddetta “risposta adeguata e decisiva” e la minaccia che ciò rappresenta per la sovranità nazionale.

La R2P è una dottrina ambigua. Da una parte è venduta alle Nazioni Unite come qualcosa di essenzialmente diverso dal “diritto di intervento umanitario”, una nozione che è stata sviluppata in Occidente alla fine degli anni 70 del secolo scorso, dopo il crollo degli imperi coloniali e la sconfitta degli Stati Uniti in Indocina. Questa ideologia ha fatto assegnamento sulle tragedie umane dei paesi di recente decolonizzazione per offrire una giustificazione morale alle politiche fallimentari di intervento e controllo delle potenze occidentali sul resto del mondo.

La consapevolezza di questo fatto è presente nella maggior parte del mondo. Il “diritto” di intervento umanitario è stato universalmente rifiutato dal Sud, per esempio al Vertice del Sud dell’Avana nell’aprile 2000 o alla riunione del Movimento dei non allineati a Kuala Lumpur nel febbraio 2003, poco prima dell’attacco degli Stati Uniti all’Iraq. La R2P è un tentativo di fissare questo diritto ricusato all’interno del quadro della Carta delle Nazioni Unite, così da farlo apparire accettabile, ponendo l’accento sul fatto che le azioni militari devono essere l’ultima istanza e devono essere approvate dal Consiglio di sicurezza. Ma, allora, non vi è nulla di giuridicamente nuovo sotto il sole e io vi rimando alla nota dell’Ufficio del presidente dell’Assemblea generale per una discussione precisa sugli aspetti legali della questione.

Per un altro verso, la R2P è venduta all’opinione pubblica occidentale come una norma nuova nelle relazioni internazionali, che autorizza interventi militari per motivi umanitari. Per esempio, quando il presidente Obama, alla recente riunione del G8, ha dato risalto all’importanza della sovranità nazionale, l’influente giornale francese Le Monde lo ha definito un passo indietro poiché la R2P era già stata accettata. C’è una grande differenza tra la R2P come dottrina legale e la sua assimilazione ideologica nei media occidentali.

Comunque sia, in un mondo post II Guerra mondiale, che include le guerre di Indocina, le invasioni di Iraq e Afghanistan, di Panama e anche della piccola Grenada, così come il bombardamento di Jugoslavia, Libia e di vari altri paesi, non è affatto credibile sostenere che sono il diritto internazionale e il rispetto della sovranità nazionale ad impedire agli Stati Uniti di fermare il genocidio. Se gli Stati Uniti avessero avuto i mezzi e la volontà di intervenire in Ruanda, lo avrebbero fatto e nessun diritto internazionale lo avrebbe evitato. E se una “norma nuova” è introdotta, all’interno del contesto delle relazioni attuali tra le forze politiche e militari, non risparmierà niente e nessuno, a meno che gli Stati Uniti, dal loro punto di vista, non ritengano opportuno intervenire.

Inoltre, non è plausibile che i sostenitori della R2P parlino di un obbligo a ricostruire (dopo un intervento militare). Esattamente quanto denaro gli Stati Uniti hanno versato in riparazioni per la devastazione inflitta a Indocina o Iraq, o che è stata inflitta al Libano ed a Gaza da una potenza da essi notoriamente armata e sovvenzionata? O al Nicaragua, a cui le riparazioni per le attività dei Contras ancora non sono state pagate dagli Stati Uniti, nonostante la loro condanna da parte della Corte internazionale di giustizia? Perché ci si aspetta che la R2P costringa i potenti a pagare per quello che distruggono se non lo fanno sotto le convenzioni legali vigenti?

Se è vero che il XXI secolo necessita di nuove Nazioni Unite, non ha bisogno di chi legittima tali interventi con argomenti bizzarri, quanto piuttosto di qualcuno che per lo meno appoggi moralmente coloro che tentano di costruire un mondo dominato in misura minore dagli Stati Uniti e dai loro alleati. Il punto di partenza delle Nazioni Unite consisteva nel salvare l’umanità dal “flagello della guerra”, con riferimento alle due Guerre mondiali. Questo sarebbe stato fatto proprio nel rigido rispetto della sovranità nazionale per impedire alle grandi potenze di intervenire militarmente, nonostante qualsiasi pretesto, contro i più deboli. Le guerre intraprese da Stati Uniti e NATO dimostrano che, nonostante le significative imprese, le Nazioni Unite ancora non hanno realizzato pienamente il loro obiettivo primario. Le Nazioni Unite devono impegnarsi per realizzare la loro meta fondativa prima di dedicarsi a una nuova priorità, apparentemente umanitaria, che può in realtà essere usata dalle grandi potenze per giustificare le loro guerre future minando il principio della sovranità nazionale.

Quando la NATO esercitò il proprio auto-proclamato diritto di intervento in Kosovo, dove gli sforzi diplomatici erano lungi dall’essersi esauriti, fu lodata dai media occidentali. Quando la Russia esercitò quello che considerava la sua R2P in Ossezia meridionale, fu condannata unanimemente dagli stessi media occidentali. Quando il Vietnam intervenne in Cambogia o l’India in quello che ora è il Bangladesh, anche le loro azioni furono duramente condannate in Occidente.

Questo indica che i governi occidentali, i media e le Ong, autodefinitesi “comunità internazionale”, giudicheranno alquanto diversamente la responsabilità di una tragedia umana, basandosi sul fatto che questa avvenga in un paese verso il quale l’Occidente, per qualsiasi ragione, è ostile al governo oppure in un stato amico. Gli Stati Uniti in particolare tenteranno di premere sulle Nazioni Unite facendo passare la loro interpretazione. Gli Stati Uniti non possono scegliere di intervenire sempre, ma possono, ciononostante, usare il non-intervento per denunciare le Nazioni Unite di inefficacia e suggerire che dovrebbe essere sostituite dalla NATO come arbitro internazionale.

La sovranità nazionale è talvolta stigmatizzata dai promotori dell’intervento umanitario, o della R2P, come una “licenza di uccidere”. Abbiamo bisogno di rammentare a noi stessi il perché la sovranità nazionale dovrebbe essere difesa contro tale stigma.

Prima di tutto la sovranità nazionale rappresenta una parziale protezione degli stati deboli rispetto a quelli forti. Nessuno si attende che il Bangladesh interferisca negli affari interni degli Stati Uniti per costringerli a ridurre le loro emissioni di CO2 a causa delle catastrofiche conseguenze umane che queste possono avere sul Bangladesh. L’interferenza è sempre unilaterale.

Interferenza degli Stati Uniti negli affari interni di altri stati ha molteplici sfaccettature ma viola sempre e costantemente lo spirito, e spesso la lettera, della Carta delle Nazioni Unite. Nonostante la pretesa di agire in favore di principi come libertà e democrazia, l’intervento degli Stati Uniti ha ripetutamente avuto conseguenze disastrose: non solo le milioni di morti causate dalle guerre dirette e indirette, ma anche le opportunità perdute, la “uccisione della speranza” per centinaia di milioni di persone che avrebbero tratto profitto dalle politiche sociali progressiste intraprese da persone come Arbenz in Guatemala, Goulart in Brasile, Allende in Cile, Lumumba in Congo, Mossadeq in Iran, i Sandinisti in Nicaragua, o il presidente Chavez in Venezuela, che sono stati sistematicamente avversati, rovesciati o uccisi con il pieno appoggio occidentale.

Ma questo non è tutto. Ogni azione aggressiva condotta dagli Stati Uniti crea una reazione. Lo spiegamento di un scudo anti-missile produce più missili, non meno. Bombardare i civili – sia intenzionalmente o attraverso i cosiddetti “danni collaterali” – produce più resistenza armata, non meno. Tentare di rovesciare o sovvertire un governo produce più repressione interna, non meno. Incoraggiare minoranze separatiste dando loro l’impressione, spesso falsa, che la sola Superpotenza correrà in loro aiuto nel caso vengano represse, conduce a maggiore violenza, odio e morte, non a meno. Circondare un paese con basi militari produce più spesa per la difesa di quel paese, non meno. Il possesso di armi nucleari da parte di Israele incoraggia gli altri stati del Medio Oriente ad acquisire tali armi. I disastri umanitari nel Congo orientale, così come in Somalia, sono principalmente causati dall’intervento straniero, non ad una sua mancanza. È molto improbabile, per prendere un caso fra i più estremi e spesso citato dagli avvocati della R2P, che i Khmer Rossi avrebbero preso il potere in Cambogia senza il massiccio bombardamento “segreto” degli Stati Uniti, seguito dal cambio di regime da questi pianificato e che ha lasciato quello sfortunato paese totalmente disgregato e destabilizzato.

L’ideologia dell’intervento umanitario è parte di una lunga storia di atteggiamenti occidentali verso il resto del mondo. Quando i colonialisti occidentali sbarcarono sulle coste delle Americhe, dell’Africa o dell’Asia orientale, furono scioccati da quello che noi ora chiameremmo violazioni dei diritti umani, e che loro chiamarono “costumi barbari” – sacrifici umani, cannibalismo, donne costrette a fasciare i propri piedi. Anche allora, tale indignazione, sincera o calcolata, fu usata per giustificare o nascondere i crimini delle potenze occidentali: il commercio di schiavi, lo sterminio dei popoli indigeni e il furto sistematico di terra e risorse. Questo atteggiamento di retta indignazione prosegue fino a oggi ed è alla radice dell’affermazione che l’Occidente ha un “diritto di intervenire” e un “diritto di proteggere”, mentre si chiudono gli occhi dinanzi a regimi oppressivi considerati “nostri amici”, alla militarizzazione e alla guerre senza fine, e allo sfruttamento massiccio di risorse e lavoratori.

L’Occidente dovrebbe imparare dalla sua storia passata. Cosa dovrebbe voler dire questo concretamente? Bene, prima di tutto, garantire il rigoroso rispetto del diritto internazionale da parte delle potenze occidentali, dare seguito alle risoluzioni dell’ONU su Israele, smantellare l’impero mondiale di basi statunitensi così come quelle NATO, fare cessare tutte le minacce di utilizzo unilaterale della forza, ritirare le sanzioni unilaterali, in particolare l’embargo contro Cuba, fermare ogni interferenza negli affari interni degli altri Stati, in particolare tutte le operazioni di “promozione della democrazia”, di rivoluzioni “colorate” e di sfruttamento politico delle minoranze. Questo necessario rispetto per la sovranità nazionale significa che il sovrano ultimo di ogni stato nazione è il popolo di quello stato il cui diritto di sostituire governi ingiusti non può essere assunto da estranei in apparenza benevoli.

Proseguendo, potremmo usare i nostri enormi bilanci militari (i paesi NATO incidono per il 70 % delle spese militari mondiali) per attivare una forma di keynesismo globale: invece di esigere “bilanci equilibrati” dai paesi in via sviluppo, dovremmo usare le risorse sprecate nel nostro apparato militare per finanziare massicci investimenti nel campo dell’istruzione, della sanità e dello sviluppo. Se questo appare utopistico, non lo è di più della convinzione che un mondo stabile emergerà dalla “guerra al terrore” che attualmente si sta eseguendo.

I difensori della R2P possono argomentare che quanto dico non è pertinente o che “politicizza il problema” inutilmente, poiché, secondo loro, è la comunità internazionale e non l’Occidente ad intervenire, con, per di più, l’approvazione del Consiglio di sicurezza. Ma, in realtà, una tale genuina comunità internazionale non esiste. L’intervento della NATO in Kosovo non fu approvato dalla Russia e l’intervento russo in Ossezia meridionale fu condannato dall’Occidente. Non c’è stata approvazione del Consiglio di sicurezza per entrambi gli interventi. Recentemente, l’Unione africana ha respinto l’accusa del Tribunale penale internazionale (TPI) al presidente del Sudan. Qualsiasi sistema di giustizia o polizia internazionali, siano la R2P o il TPI, necessitano di relazioni di eguaglianza e di un clima di fiducia. Oggi, non esiste né uguaglianza e né fiducia tra Occidente ed Oriente, tra Nord e Sud, in larga parte a causa delle politiche degli Stati Uniti. Se vogliamo che una qualche versione della R2P funzioni nel futuro, abbiamo bisogno di costruire relazioni di eguaglianza e fiducia e quanto detto precedentemente va al cuore del problema. Il mondo può diventare più sicuro solamente se prima diventa più giusto.

È importante capire che la critica fatta qui alla R2P non si basa su di una “assolutistica” difesa della sovranità nazionale, bensì su una riflessione delle politiche degli stati più potenti che costringono gli stati più deboli a usare la sovranità come uno scudo.

I promotori della R2P la presentano come l’inizio di una nuova epoca, ma, in pratica, è la fine di una vecchia. Dal punto di vista degli interventisti, la R2P è un arretramento rispetto al vecchio diritto di intervento umanitario, almeno nelle parole, e quel vecchio “diritto” rappresentava esso stesso un passo indietro nei confronti del colonialismo tradizionale. La principale trasformazione sociale del XX secolo è stata la decolonizzazione. Continua oggi nell’elaborazione di un mondo sinceramente democratico, un mondo dove il sole tramonterà sull’impero statunitense, proprio come è accaduto per quelli europei. Ci sono delle indicazioni che il presidente Obama comprende questa realtà e c’è solo da sperare che le sue azioni corrisponderanno alle sue parole.

Io desidero concludere con un messaggio ai rappresentanti e alle popolazioni del “Sud Globale”. I punti di vista qui espressi sono condivisi da milioni di persone in “Occidente”. Questo sfortunatamente non viene riportato nei nostri media. Milioni di persone, inclusi i cittadini americani, rifiutano la guerra come mezzo per dirimere le controversie internazionali e si oppongono vigorosamente al cieco appoggio del loro paese all’Apartheid israeliana. Essi aderiscono ai fini del movimento dei non allineati, di cooperazione internazionale all’interno del rigoroso rispetto per la sovranità nazionale e l’uguaglianza di tutti i popoli. Essi rischiano d’esser presentati dai media dei loro stessi paesi per anti-occidentali, anti-americani o antisemiti. Ancora, essi sono coloro che, aprendosi alle aspirazioni del resto dell’umanità, portano avanti i genuini valori della tradizione umanista occidentale.

FONTE: https://www.voltairenet.org/article161470.html

 

 

 

DIRITTI UMANI IMMIGRAZIONI 

Arrestatemi

Marina Terragni

 

K. Rowling dopo la legge sul gender. Un ministro minaccia di farla finire in carcere Roma.

K. Rowling ha scatenato la più micidiale guerra culturale dell’ultimo decennio. Riassumibile in poche sentenze: donna si nasce e non si diventa, il “gender dell’anima” (come lo definisce) non può cancellare la biologia, il rispetto delle persone non può spingerci al punto di azzerare la differenza sessuale e decenni di battaglie femminili non possono essere messe a rischio in nome dell’“inclusione”. Una persona di sesso maschile che dichiara di essere “donna” dovrebbe avere accesso agli spogliatoi delle donne? I bagni delle donne? Gli sport femminili? I rifugi femminili? Le prigioni femminili? I premi femminili? Le liste per sole donne? Rowling ha imposto domande che nel mondo di Judith Butler nessuno dovrebbe fare. Ora l’autrice di “Harry Potter” potrebbe finire sotto indagine della polizia per misgendering (sbagliare il pronome sessuale “preferito” di una persona) nell’ambi – to di un nuovo crimine d’odio introdotto in Scozia. Lo ha detto un ministro del Partito nazionale scozzese al potere, Siobhian Brown, per la quale chiamare una donna transgender “he” in – vece che con i pronomi femminili che si “allineano” con la sua identità di genere è reato. Brown ha spiegato che, mentre il governo sostiene “la libertà di espressione di tutti”, non è accettabile che le persone “nella nostra società vivano nella paura o si sentano come se non vi appartenessero”. Rowling, ha proseguito Brown, “non ha il diritto di mettere le persone a disagio e di denigrare qualcuno”. Lunedì la scrittrice ha ribadito la sua posizione in una serie di post. “Nell’approvare lo Scottish Hate Crime Act, i legislatori sembrano aver attribuito un valore maggiore ai sentimenti degli uomini che mettono in pratica la loro idea di femminilità, per quanto misogina e opportunistica, piuttosto che ai diritti e alle libertà delle donne reali”. Rowling ha sfidato la legge invitando la polizia ad arrestarla se ritiene che abbia commesso un reato. Perché la “libertà di parola e di credo” è finita se la descrizione accurata del sesso biologico sarà messa al bando. La legge è “una ricetta per il disastro”, ha criticato Douglas Ross, leader dei conservatori scozzesi, mentre il Telegraph ha accusato la Scozia di essere diventata un “incubo orwelliano”. Settanta mila sterline: è il generoso contributo di J.K. Rowling alle attiviste di For Women Scotland impegnate in una battaglia che la scrittrice più famosa al mondo definisce “storica”: quella sulla definizione legale di “donna”, ormai il virgolettato è d’obbligo. Il ricorso alla Corte suprema costerà 150 mila sterline ed è totalmente autofinanziato con crowdfunding. La giustizia scozzese si è già espressa più volte sulla questione “chi può essere chiamata donna?” con esiti incerti e contraddittori. L’ultimo pronunciamento è stato una mazzata per For Women Scotland: il significato di “sesso”, secondo la giudice Lady Haldane “non si limita al sesso biologico o alla nascita ma include coloro che sono in possesso di un Grc” (Gender Recognition Certificate), ovvero di una sentenza che attesti il cambio all’anagrafe. Il Gender Recognition Act (Gra) è una legge molto simile alla nostra legge 164 in vigore dal 1982, dunque ben antecedente alla norma inglese che è del 2004: in entrambi i casi la procedura è piuttosto rigorosa, per ottenere l’ok del tribunale servono perizie mediche e psicologiche oltre a interventi farmacologici e chirurgici. Ma successive sentenze hanno progressivamente facilitato il percorso in direzione del self-id, cioè dell’autocertificazione di genere come semplice atto amministrativo. La Scozia spinge molto in questa direzione. L’anno scorso l’allora premier Nicola Sturgeon aveva azzardato un deciso passo avanti – o indietro: punti di vista – approvando una legge che riformava il Gra consentendo il libero self-id a partire dai 16 anni. Ma il governo Sunak aveva prontamente bloccato la riforma e alla vigilia di un rovinoso scontro costituzionale con Londra Sturgeon era stata mollata anche dai suoi, per dimettersi poche settimane dopo adducendo ragioni personali. Nel suo discorso di congedo non aveva menzionato la trans-riforma, ma a tutti è stato evidente che il punto di rottura era quello. Peraltro, il self-id, come accertato da vari sondaggi, resta inviso alla stragrande maggioranza dei britannici. Le attiviste di For Women Scotland spiegano il nuovo ricorso alla Corte suprema dicendo che, se chiunque può dirsi donna l’Equality Act –la legge antidiscriminazioni in vigore dal 2010 in gran parte a tutela delle donne, anche con azioni positive – “diventa opaco e impraticabile”. “Chi fornisce spazi e servizi riservati a un solo sesso – dalle case rifugio ai circoli sportivi alle quote in politica fino alle carceri: ci sono stati casi di autori di crimini sessuali detenuti in istituti femminili, ndr –non ha certezze e rischia denunce per discriminazione illegale. È necessario fare chiarezza sul fatto che quando si parla di sesso ci si riferisce alla biologia”. Siamo dunque alla battaglia campale. Il primo aprile, infatti dopo una lunga gestazione è entrato in vigore lo Scottish Hate Crime Act, legge contro i crimini d’odio congegnata proprio per colpire chi come Rowling si ostina a profferire assurdità del tipo “a man is a man” o “i sessi sono due”. Gli agenti di polizia sono stati frettolosamente formati sul nuovo psicoreato con un corso online di due ore e manifestano una certa preoccupazione: “Saremo costretti a incriminare tutti”, dice un portavoce del loro sindacato. Stramobilitato contro il ricorso di For Women Scotland il fronte transattivista: principale testimonial la giudice trans Victoria McCloud che da tempo denuncia un “clima tossico” nei confronti delle persone transgender. La giudice ha annunciato che chiederà alla Corte suprema di poter intervenire nella discussione della causa. Se For Women Scotland ottenesse una sentenza favorevole, afferma la portavoce di McCloud, che dato il suo ruolo non può parlare con i media, “ciò significherebbe che le donne come lei – con un certificato di riconoscimento di genere – perderebbero il diritto alla parità di retribuzione con gli uomini, vedrebbero limitati i loro diritti di accesso ai servizi per le donne e sarebbero escluse da spazi come i bagni femminili”. Il femminismo si divide tra una posizione radicale com’è quella di Women’s Declaration International (Wdi) che vorrebbe l’abolizione tout court del Gra e di ogni legge che consente il cambio anagrafico del genere di nascita, e un approccio più moderato che si limita a chiedere una stretta applicazione delle norme senza concessioni a una libera auto-attribuzione del sesso come quella introdotta un anno fa in Spagna dalla Ley Trans. L’ipotesi del self-id era stata considerata anche in Italia dal Partito Radicale ai tempi della discussione sulla legge di rettificazione del sesso, norma fortemente richiesta dal Mit (Movimento italiano transessuali) che aveva trovato attento ascolto nella democristiana Maria Pia Garavaglia, convinta della necessità di regolare compassionevolmente una condizione umana così difficile. Quarant’anni dopo è tutto un altro mondo: ripetute sentenze hanno allentato le maglie della legge 164, la platea transgender si è enormemente estesa e non ha più nulla a che vedere con la piccola popolazione transessuale di allora, quasi esclusivamente MtF. Che fare?

 

Fonte: Il Foglio 3 aprile 2024 – pagine 1 e 2

 

 

Quando si parla di invasione silenziosa, alcune persone mi chiedono cosa sia.

 

Noi cattolici – 23 agosto 2023

 

Bene, vedi, qui è chiaro: abbiamo ricevuto questa interessante informazione dal Regno Unito e la condivido così com’è, per questo motivo:

“Quando vedi bruciare la barba del tuo vicino, bagna la tua”

Il sindaco di Londra – Musulmano.
Il sindaco di Birmingham – Musulmano.
Il sindaco di Leeds – Musulmano.
Il sindaco di Blackburn – Musulmano.
Il sindaco di Sheffield – Musulmano.
Il sindaco di Oxford – Musulmano. Il sindaco di Muslim Lawton.
Il sindaco di Oldam-musulmano.
Il sindaco di Rokdal-Muslim_

Tutto questo è stato raggiunto da appena 4 milioni di musulmani su 66 milioni di persone in Inghilterra:
Oggi ci sono oltre 3.000 moschee musulmane in Inghilterra.
Ci sono più di 130 tribunali musulmani della sharia.
Ci sono più di 50 consigli musulmani della sharia.
Il 78 per cento delle donne musulmane non lavora, sono sostenute dallo stato + alloggio gratuito.
Il 63 per cento degli uomini musulmani non lavora, sono sostenuti dallo stato + alloggio gratuito.
Le famiglie musulmane con una media di 6-8 figli, sostenute dallo Stato, ricevono un alloggio gratuito. Ora ogni scuola nel Regno Unito è tenuta a tenere una lezione sull’Islam!
E noi (Portogallo/Spagna/Italia/Grecia) non possiamo decidere sulla politica dell’immigrazione?
Uno dei modi per combattere questo fenomeno è continuare a diffondere queste informazioni negli Stati Uniti, in Europa e nel mondo, per informare i cittadini poco istruiti, che ascoltano principalmente la radio e guardano la televisione, leggono sempre un giornale, ma nessuno divulga questa pericolosissima verità!
Fino ad oggi non ho visto queste informazioni passare attraverso i media europei.
Lo hai visto?
Statene certi, guardate cosa sta succedendo in Francia e in Belgio, l’invasione è anche nota e già con effetti devastanti.
Per favore, trasmettilo in modo che il mondo si svegli al disastro in arrivo!”
Lezione per l’Occidente da imparare:
La cultura musulmana ha tranquillamente invaso l’Occidente e stanno già sfoderando i loro artigli affilati e distruttivi.
La Francia ha 5 milioni di problemi, Inghilterra e Germania 3 milioni ciascuna e la Spagna circa 2 milioni, gli Stati Uniti ca. 500.000 e ad occidente un’infinità di moschee.
Agiscono in modo subdolo e alcuni sembrano pacifici mentre nidificano, ma quando raggiungono la maggioranza impongono le loro leggi e diventano violenti.
Oggi potremmo vederli un po’ timidi e impauriti al fianco dei leader occidentali nelle manifestazioni che si sono svolte in Francia, ma domani finanzieranno con i loro petrodollari i terroristi islamici più sanguinari.
Un’altra lezione da imparare per l’Occidente…
Quando un leader arabo chiede di costruire una moschea in Occidente, il corrispondente occidentale deve chiedere il potere di costruire chiese nel Paese arabo. Se non è consentito, smettila di essere gentile e non lasciare che la moschea venga costruita.
Se lo tieni per te, sei parte del problema.

 

Fonte: https://gloria.tv/post/LBdJxvq94QZi1JSz2JwqYAwzK

 

 

 

ECONOMIA

Ecco come la Germania ha avuto 10 volte gli aiuti di Stato che ha ottenuto l’Italia

di Roberto Sommella 20 04 2024

Dopo i report su competitività e mercato unico redatti dagli ex premier Mario Draghi ed Enrico Letta per incarico della Commissione europea, non si è detto come concretizzare le proposte per avviare una nuova fase della Ue | Il manifesto di Mario Draghi: così si cambia l’Europa. Serve il mercato unico dei capitali, anche senza tutti e 27 i Paesi Ue

I manifesti sulla competitività e sul mercato unico redatti da Mario Draghi e Enrico Letta hanno suscitato molte reazioni politiche e fatto discutere il Consiglio Europeo cui ha partecipato anche la premier Giorgia Meloni. Ma come si possono concretizzare queste proposte per avviare una fase nuova dell’Unione Europea? Nessuno lo ha detto, nemmeno gli autori dei due lavori.

Ebbene sono tre le mosse che devono essere compiute per rendere più indipendente e forte il mercato unico: riduzione degli aiuti di Stato e della concorrenza fiscale sleale, emissioni di debito comune che diventino safe asset e obbligo di listing sui sette mercati di Euronext di chi si vuole quotare per rendere davvero federata la borsa europea.

Gli aiuti di stato

Sul primo punto è stato molto chiaro nella sua relazione annuale il presidente dell’Antitrust Roberto Rustichelli. Gli aiuti di Stato minano il mercato unico perché deprimono la concorrenza tra le imprese, favoriscono la concorrenza fiscale sleale e riducono la libertà di scelta dei consumatori.

C’è il rischio di una «pericolosa corsa dei singoli Stati ai sussidi avvantaggiando i Paesi finanziariamente più forti e creando un elevato e oggettivo rischio di distorsioni competitive all’interno dell’Ue», sostiene Rustichelli a proposito della disciplina in vigore. E cita un dato clamoroso, sfuggito anche a Draghi e Letta: tra il 2022 e metà del 2023 in Germania sono stati concessi aiuti di Stato per lo 0,9% di pil, qualcosa come 40 miliardi di euro mentre in Itali sono stati pari solo allo 0,2% di pil nell’analogo periodo e corrispondono a meno di 4 miliardi.

Nonostante questa stortura, l’Italia nei due anni che abbiamo alle spalle è cresciuta di più della Germania, che è andata addirittura in recessione. Che cosa sarebbe potuto succedere se questa mano statale non avesse sostenuto Berlino? Forse il governo tedesco avrebbe avuto un atteggiamento diverso rispetto al nuovo Patto di Stabilità, che introduce sempre gli stessi criteri di riduzione del deficit ma nulla fa per la crescita e per l’Unione fiscale. Sicuramente le aziende italiane avrebbero avuto meno ostacoli nella competizione, come auspica il nuovo presidente di Confindustria Emanuele Orsini.

Il mercato unico

Se si passa al mercato unico dei capitali anche qui le proposte concrete ci sono. Federico Cornelli, commissario della Consob e una lunga esperienza a Bruxelles, è uno dei maggiori conoscitori del sistema. E spiega a Milano Finanza come cambiarlo. «L’Europa attuale ricorda la Grecia antica, divisa in città Stato. Un incredibile impero culturale, che però perse peso politico quando emerse Roma. È tempo di maggiore cooperazione e di maggiore unione, per rinsaldare i legami atlantici e per competere con Cina e altri emergenti». Bene, ma come? «Il primo passo da fare è quello di iniziare a scrivere i libri unici. In Ue manca una GrundGesetz una Costituzione, un codice civile e commerciale unico, un Tuf europeo», ragiona l’economista, «in questo momento l’Europa dispone di un ampio tasso di risparmio ma manca di sufficiente capitale di rischio per sostenere i rilevanti investimenti in digitale, sostenibilità e reshoring. Abbiamo buone infrastrutture di mercato in Euronext e Deutsche Börse, nelle banche e nelle assicurazioni ma molto va fatto per convogliare equity paziente su imprenditori innovativi».

Per Cornelli, convinto europeista, la benzina da mettere nel serbatoio delle riforme di Draghi e Letta sono anche gli strumenti finanziari. «Possiamo sviluppare meglio gli Eltf e può sicuramente aumentare il contributo di fondi pensione e casse di previdenza verso il mercato azionario a sostegno dell’economia reale».

Servono leggi comunitarie

Ma occorrono anche leggi quadro comunitarie, un lavoro di coordinamento dei testi normativi «simile a quello di Giustiniano nel 500 dopo Cristo». «Serve anzi urge avere un titolo europeo capace di rappresentare il safe asset comunitario, sarebbe un titolo ad ampia liquidità che consentirebbe non solo un risparmio nel costo del funding per alcuni Paesi tra cui Italia, perché oggi il mercato oggi premia solo Germania e Olanda che hanno rating alti, ma diverrebbe un titolo molto liquido capace di essere ben apprezzato dagli investitori», aggiunge Cornelli, il quale è convinto che la classe politica europea sia in grado di metter in piedi questo immenso lavoro. Certamente non da sola.

Servono politiche volte ad agevolare fiscalmente e normativamente il capitale paziente, soprattutto azionario. «I fondi pensione, con il positivo contributo culturale dei sindacati, sono attori chiave che possono aiutare a dare più velocità all’economia europea. Se vuoi fare spesa europea e la devi fare almeno mirata su beni pubblici europei quali trasporti, tlc e difesa, la devi finanziare appunto con emissioni europee». Conclusioni di questa riflessione. Mercato e moneta unica devono essere alimentati da debito comune e da un bilancio federale che oggi nella Ue vale un quarto di quello italiano.

Per rendere più competitiva l’Unione e più equa la concorrenza occorre ridurre le discrepanze fiscali e gli aiuti di Stato, spingendo sull’Unione Bancaria e sull’Unione Fiscale. Senza la condivisione di questi principi l’Europa resterà esposta agli shock esterni e dietro alle norme non ci sarà mai un popolo che si senta rappresentato. (riproduzione riservata)

FONTE: https://www.milanofinanza.it/news/i-piani-di-draghi-e-letta-per-la-ue-germania-ha-avuto-10-volte-gli-aiuti-di-stato-dell-italia-202404191916237034

 

 

Le Corporations si stanno sostituendo alle banche commerciali nel fare credito

Le Corporations si stanno sostituendo alle banche commerciali nel fare credito, mettendosi così in contrapposizione non tanto alle stesse, quanto alle Banche Centrali.

Una volta che avranno sostituito le monete correnti con i loro tokens proprietari il consumatore sceglierà con quale/i meta-Stato/i fare affari, contrattare una polizza assicurativa, una prestazione sanitaria e la rata del college.

In questo scenario gli Stati e le banche commerciali sono già di fatto estromessi; cancellati dalla storia futura.

I padroni del vapore ancora una volta sono riusciti ad arginare l’ostacolo del progresso sociale e umano a discapito dell’interesse privato.

Un’altra previsione che abbiamo azzeccato con qualche anno in anticipo prima dei fatti.

Fonte:    https://economiaspiegatafacile.it/2018/01/02/stiamo-entrando-nella-ama-zone-pronti-allimpatto/

 

 

 

PANORAMA INTERNAZIONALE

15 cose che non sai sull’Iran
Hilary Lille – 22 04 2024

1. L’Iran ospita una delle città più antiche del mondo, Susa, che risale a oltre 6.000 anni fa.
2. L’Iran ospita 236 atenei universitari
3. L’Iran è uno dei pochi paesi al mondo in cui le donne superano gli uomini nell’istruzione superiore, con più donne iscritte alle università che uomini.
4. L’Iran ha il più alto numero di studentesse che studiano ingegneria e scienze a livello universitario, rispetto a qualsiasi altro paese al mondo.
5. L’Iran ha una ricca tradizione di poesia, con poeti come Hafez e Rumi celebrati in tutto il mondo per i loro versi profondi e lirici.
6. Teheran, la capitale dell’Iran, è la seconda città più grande dell’Asia occidentale, dopo Istanbul.
7. L’antica città di Yazd, nel centro dell’Iran, è nota per le sue uniche torri eoliche, utilizzate da secoli per fornire ventilazione naturale negli edifici.
8. La città di Tabriz in Iran era la capitale dell’Ilkhanato mongolo nel XIII secolo e fungeva da principale centro sulla via della seta.
9. La città iraniana di Isfahan era una delle più grandi città del mondo e servì come capitale dell’Impero persiano sotto la dinastia safavide.
10. L’Iran ospita uno dei più antichi bazar del mondo, il Grand Bazar di Teheran, che risale a oltre 200 anni fa e attraversa oltre 10 chilometri di vicoli labirintici e bancarelle movimentate.
11. L’Iran vanta una delle più antiche religioni monoteiste del mondo, lo zoroastrismo, che risale a oltre 3.500 anni fa e ha influenzato lo sviluppo di altre principali religioni.
12. La cucina iraniana è incredibilmente variegata, con ogni regione che vanta le proprie tradizioni culinarie distinte, come la cucina speziata e aromatica di Gilan nel nord.
13. L’Iran ha una delle più grandi popolazioni mondiali di leopardi persiani, che sono in via di estinzione e abitano principalmente sulle montagne Alborz e Zagros.
14. Nonostante il suo clima prevalentemente desertico, l’Iran ospita oltre 7.000 specie vegetali, molte delle quali sono endemiche della regione.
15. Il tradizionale capodanno persiano, Nowruz, si celebra nell’equinozio di primavera ed è osservato da oltre 3.000 anni.
#ilregnopersiano
Fonte: https://www.facebook.com/hilary.lille/posts/pfbid022dGHznLCGd4sF836pYhpM6y5UbHgojCoZgyifuW2VGhUfrZv7UtGHf9Ljw9wfRNfl

 

 

 

POLITICA

L’ossessione antifascista

La Costituzione è antifascista e il 25 Aprile è la festa di tutti gli italiani.

Con l’ossessiva ripetizione di queste due colossali megabufale la sinistra italiana ha celebrato e inquinato l’ennesima festa della cosiddetta Liberazione.

La guerra civile terminata nel 1945, ma trascinatasi con un seguito di vendette, violenze e omicidi a opera dei partigiani comunisti fino al 1948, vide contrapposti antifascisti e fascisti.

Questi ultimi subirono la sconfitta militare e l’ostracismo politico, ma certo non scomparvero d’incanto né si volatilizzarono e tuttavia accettarono le regole imposte con l’entrata in vigore della Costituzione e la nascita della nuova Italia.

La Costituzione, che nacque dall’apporto delle forze politiche che avevano combattuto il fascismo e poggia su una base di valori e di principi, in alcuni casi compatibili e in altri antitetici a quelli propri del fascismo, ha indubbiamente un fondamento contrario al fascismo ma non può definirsi antifascista.

In primo luogo, l’antifascismo non è mai citato in nessun articolo della Carta e non è imposto da nessuna norma; secondariamente, nessuna Costituzione può essere “anti” qualcosa ma esclusivamente propositiva e ispirata a regolare il futuro di una Nazione, non a rinnegarne il passato; in terzo luogo, la stessa Costituzione prevede la libertà di associazione e di manifestazione del pensiero, senza alcuna preclusione di natura ideale e politica.

Il divieto a “ricostituire il disciolto PNF” si limita a imporre, a chi volesse definirsi tutt’oggi fascista o postfascista, di adottare metodi non violenti nella manifestazione delle proprie idee e di non propagandare concetti e teorie di qualunque genere che possano essere considerati discriminatori e antidemocratici.

Questo significa che chiunque può liberamente esprimere giudizi e opinioni differenti e contrari alla narrazione politica antifascista, purché rispetti limiti e regole imposte dalla legge e, soprattutto, non ricorra all’uso della violenza.

Questo significa anche che, se la Carta impone la tutela di molteplici diritti di libertà e l’utilizzo del metodo del confronto democratico, si contrappone non solo al fascismo, ma a ogni ideologia che propugni la cancellazione delle libertà e l’utilizzo della violenza come metodo di lotta politica.

Per questo l’osservanza della Carta è l’unico requisito di legittimità politica per chiunque e, pertanto, un fascista che agisca nel rispetto di quanto prescritto dalle norme costituzionali ha già ampiamente assolto ai propri doveri, senza in alcun caso essere tenuto a dichiararsi antifascista, in quanto è l’atto che viene normato e non la mozione ideale che lo determina.

Se la Costituzione è stata scritta da chi si era opposto al fascismo (esempio lampante ne è la figura del presidente dell’Assemblea Costituente, che fu il comunista Umberto Terracini), con la sua accettazione e l’osservanza delle sue disposizioni i fascisti hanno già ampiamente assolto a tutti i loro doveri civili e politici e dimostrato la loro buona volontà, senza che alcuno possa avanzare l’ulteriore pretesa di una loro abiura né di una loro autodafé. Il loro giudizio critico può sicuramente riguardare molteplici aspetti del fascismo e degli eventi bellici a questo connessi, ma può tranquillamente discostarsi e opporsi alle valutazioni degli avversari antifascisti, senza che questo possa creare scandalo.

Le pacificazioni, se realmente si vogliono, si fanno con i nemici e con quelli che hanno idee profondamente differenti, ma senza la pretesa di volerli sottomettere ideologicamente.

Anche perché se è vero che nell’antifascismo confluirono molteplici correnti di pensiero politico, dai liberali ai comunisti, definirsi antifascisti implicherebbe l’iscriversi acriticamente in quella massa eterogenea in cui figuravano ideologie ferocemente tiranniche da cui scaturirono episodi sanguinosi e spregevoli di criminalità politica.

L’osservanza della Costituzione non può essere di ostacolo a un giudizio storico e politico difforme dalla vulgata antifascista che viene propagandata da oltre 80 anni dai reduci del CLN, né tantomeno può implicare l’assoggettamento a un pensiero unico né qualsiasi pretesa di apostasia.

Le riconciliazioni implicano invece il riconoscimento dell’altro e delle sue ragioni.

Se questo non è lo spirito che anima quelli che si definiscono democratici, ecco che il 25 Aprile, lungi dall’essere una festa di tutti, rimane una giornata odiosa e profondamente divisiva, nella quale una parte celebra la sottomissione dell’altra e ne fornisce un’immagine mostruosamente deformata, grottesca e demonizzata, caricandola di ogni nequizia, per attribuirsi di contro meriti sovrastimati e fantasiosi riconoscimenti.

Ecco allora che una narrazione travisata, faziosa e retorica dei fatti attribuisce solo a una parte benemerenze e positività, mentre scarica sul fascismo solo condanne apodittiche e giudizi inappellabili. Giudizi tanto più rabbiosi e ipocriti quanto più ci si allontana nel tempo dai fatti contestati e tanto più settari e protervi in quanto imposti, in alcuni casi, per legge attraverso l’introduzione di norme repressive delle opinioni difformi.

Una democrazia che si autotutela con l’imposizione di un pensiero unico e con l’utilizzo della repressione giudiziaria nega se stessa.

Per questo chi si richiama oggi all’antifascismo lo fa in modo strumentale e interpreta pretestuosamente il fascismo come una costante della storia italiana, o meglio come un’essenza universale che non si esaurisce nelle infinite forme in cui può riprodursi. Il fascismo diventa in questo senso qualcosa di inafferrabile e di proteiforme, uno spettro agitato per colpire l’avversario. L’accusa di fascismo rimbalza così da un personaggio all’altro, da una forza politica all’altra: l’attribuirla è confidato all’arbitrio.

Dal vecchio Partito comunista all’attuale “campo largo”, le sinistre hanno bisogno sia dei cattolici che della borghesia per conquistare il potere in Italia e continuano a ricercarne il supporto proprio in nome dell’antifascismo, inteso oggi come la negazione di ogni valore e istituzione tradizionale.

Oggi l’unità antifascista è la completa subordinazione al pensiero unico e a un processo di dissoluzione destinato alla realizzazione di una società fluida e antiumana in cui l’incontro tra comunismo e borghesia, armati entrambi di un relativismo corrosivo, porti alla negazione di ogni principio assoluto col confinamento di questi valori nella sfera privata. Se l’affermazione di una verità assoluta e oggettiva è fascismo, non resta infatti che relegare ciò che non è negoziabile nella sfera privata, accettando in quella pubblica il processo di disgregazione e soggettivazione della società. E’ questa l’origine delle attuali follie woke, gender, gay, no border e immigrazioniste.

Se non bastasse la nostra continuità ideale, la prospettiva angosciante della società distopica propugnata dagli antifascisti sarebbe, da sola, più che sufficiente a spingerci a rifiutare con disprezzo una simile qualifica.

FONTE: https://www.ereticamente.net/lossessione-antifascista-enrico-marino/

 

 

Humanitarian Imperialism: The New Doctrine of Imperial Right

Noam Chomsky

Monthly Review, September, 2008

Jean Bricmont’s concept “humanitarian imperialism” succinctly captures a dilemma that has faced Western leaders and the Western intellectual community since the collapse of the Soviet Union. From the origins of the Cold War, there was a reflexive justification for every resort to force and terror, subversion and economic strangulation: the acts were undertaken in defense against what John F. Kennedy called “the monolithic and ruthless conspiracy” based in the Kremlin (or sometimes in Beijing), a force of unmitigated evil dedicated to extending its brutal sway over the entire world. The formula covered just about every imaginable case of intervention, no matter what the facts might be. But with the Soviet Union gone, either the policies would have to change, or new justifications would have to be devised. It became clear very quickly which course would be followed, casting new light on what had come before, and on the institutional basis of policy.

The end of the Cold War unleashed an impressive flow of rhetoric assuring the world that the West would now be free to pursue its traditional dedication to freedom, democracy, justice, and human rights unhampered by superpower rivalry, though there were some—called “realists” in international relations theory—who warned that in “granting idealism a near exclusive hold on our foreign policy,” we may be going too far and might harm our interests. [1] Such notions as “humanitarian intervention” and “the responsibility to protect” soon came to be salient features of Western discourse on policy, commonly described as establishing a “new norm” in international affairs.

The millennium ended with an extraordinary display of self-congratulation on the part of Western intellectuals, awe-struck at the sight of the “idealistic new world bent on ending inhumanity,” which had entered a “noble phase” in its foreign policy with a “saintly glow” as for the first time in history a state is dedicated to “principles and values,” acting from “altruism” and “moral fervor” alone as the leader of the “enlightened states,” hence free to use force where its leaders “believe it to be just”—only a small sample of a deluge from respected liberal voices. [2]

Several questions immediately come to mind. First, how does the self-image conform to the historical record prior to the end of the Cold War? If it does not, then what reason would there be to expect a sudden dedication to “granting idealism a near exclusive hold on our foreign policy,” or any hold at all? And how in fact did policies change with the superpower enemy gone? A prior question is whether such considerations should even arise.

There are two views about the significance of the historical record. The attitude of those who celebrate the “emerging norms” is expressed clearly by one of their most distinguished scholar/advocates, international relations professor Thomas Weiss: critical examination of the record, he writes, is nothing more than “sound-bites and invectives about Washington’s historically evil foreign policy,” hence “easy to ignore.” [3]

A conflicting stance is that policy decisions substantially flow from institutional structures, and since these remain stable, examination of the record provides valuable insight into the “emerging norms” and the contemporary world. That is the stance that Bricmont adopts in his study of “the ideology of human rights,” and that I will adopt here.

There is no space for a review of the record, but just to illustrate, let us keep to the Kennedy administration, the left-liberal extreme of the political spectrum, with an unusually large component of liberal intellectuals in policy-making positions. During these years, the standard formula was invoked to justify the invasion of South Vietnam in 1962, laying the basis for one of the great crimes of the twentieth century.

By then the U.S.-imposed client regime could no longer control the indigenous resistance evoked by massive state terror, which had killed tens of thousands of people. Kennedy therefore sent the U.S. Air Force to begin regular bombing of South Vietnam, authorized napalm and chemical warfare to destroy crops and ground cover, and initiated the programs that drove millions of South Vietnamese peasants to urban slums or to camps where they were surrounded by barbed wire to “protect” them from the South Vietnamese resistance forces that they were supporting, as Washington knew. All in defense against the two Great Satans, Russia and China, or the “Sino-Soviet axis.” [4]

In the traditional domains of U.S. power, the same formula led to Kennedy’s shift of the mission of the Latin American military from “hemispheric defense”—a holdover from the Second World War—to “internal security.” The consequences were immediate. In the words of Charles Maechling—who led U.S. counterinsurgency and internal defense planning through the Kennedy and early Johnson years—U.S. policy shifted from toleration “of the rapacity and cruelty of the Latin American military” to “direct complicity” in their crimes, to U.S. support for “the methods of Heinrich Himmler’s extermination squads.”

One critical case was the Kennedy administration’s preparation of the military coup in Brazil to overthrow the mildly social democratic Goulart government. The planned coup took place shortly after Kennedy’s assassination, establishing the first of a series of vicious National Security States and setting off a plague of repression throughout the continent that lasted through Reagan’s terrorist wars that devastated Central America in the 1980s. With the same justification, Kennedy’s 1962 military mission to Colombia advised the government to resort to “paramilitary, sabotage and/or terrorist activities against known communist proponents,” actions that “should be backed by the United States.” In the Latin American context, the phrase “known communist proponents” referred to labor leaders, priests organizing peasants, human rights activists, in fact anyone committed to social change in violent and repressive societies.

These principles were quickly incorporated into the training and practices of the military. The respected president of the Colombian Permanent Committee for Human Rights, former Minister of Foreign Affairs Alfredo Vásquez Carrizosa, wrote that the Kennedy administration “took great pains to transform our regular armies into counterinsurgency brigades, accepting the new strategy of the death squads,” ushering in what is known in Latin America as the National Security Doctrine,…not defense against an external enemy, but a way to make the military establishment the masters of the game [with] the right to combat the internal enemy, as set forth in the Brazilian doctrine, the Argentine doctrine, the Uruguayan doctrine, and the Colombian doctrine: it is the right to fight and to exterminate social workers, trade unionists, men and women who are not supportive of the establishment, and who are assumed to be communist extremists. And this could mean anyone, including human rights activists such as myself.

In 2002, an Amnesty International mission to protect human rights defenders worldwide began with a visit to Colombia, chosen because of its extreme record of state-backed violence against these courageous activists, as well as labor leaders, more of whom were killed in Colombia than in the rest of the world combined, not to speak of campesinos, indigenous people, and Afro-Colombians, the most tragic victims. As a member of the delegation, I was able to meet with a group of human rights activists in Vásquez Carrizosa’s heavily guarded home in Bogotá, hearing their painful reports and later taking testimonials in the field, a shattering experience.

The same formula sufficed for the campaign of subversion and violence that placed newly independent Guyana under the rule of the cruel dictator Forbes Burnham. It was also invoked to justify Kennedy’s campaigns against Cuba after the failed Bay of Pigs invasion. In his biography of Robert Kennedy, the eminent liberal historian and Kennedy advisor Arthur Schlesinger writes that the task of bringing “the terrors of the earth” to Cuba was assigned by the president to his brother, Robert Kennedy, who took it as his highest priority. The terrorist campaign continued at least through the 1990s, though in later years the U.S. government did not carry out the terrorist operations itself but only provided support for them and a haven for terrorists and their commanders, among them the notorious Orlando Bosch and joining him recently, Luis Posada Carilles. Commentators have been polite enough not to remind us of the Bush Doctrine: “those who harbor terrorists are as guilty as the terrorists themselves” and must be treated accordingly, by bombing and invasion; a doctrine that has “unilaterally revoked the sovereignty of states that provide sanctuary to terrorists,” Harvard international affairs specialist Graham Allison observes, and has “already become a de facto rule of international relations”—with the usual exceptions.

Internal documents of the Kennedy-Johnson years reveal that a leading concern in the case of Cuba was its “successful defiance” of U.S. policies tracing back to the Monroe Doctrine of 1823, which declared (but could not yet implement) U.S. control over the hemisphere. It was feared that Cuba’s “successful defiance,” particularly if accompanied by successful independent development, might encourage others suffering from comparable conditions to pursue a similar path, the rational version of the domino theory that is a persistent feature of policy formation. For that reason, the documentary record reveals, it was necessary to punish the civilian population severely until they overthrew the offending government.

This is a bare sample of a few years of intervention under the most liberal U.S. administration, justified to the public in defensive terms. The broader record is much the same. With similar pretexts, the Russian dictatorship justified its harsh control of its Eastern European dungeon.

The reasons for intervention, subversion, terror, and repression are not obscure. They are summarized accurately by Patrice McSherry in the most careful scholarly study of Operation Condor, the international terrorist operation established with U.S. backing in Pinochet’s Chile: “the Latin American militaries, normally acting with the support of the U.S. government, overthrew civilian governments and destroyed other centers of democratic power in their societies (parties, unions, universities, and constitutionalist sectors of the armed forces) precisely when the class orientation of the state was about to change or was in the process of change, shifting state power to non-elite social sectors…Preventing such transformations of the state was a key objective of Latin American elites, and U.S. officials considered it a vital national security interest as well.” [5]

It is easy to demonstrate that what are termed “national security interests” have only an incidental relation to the security of the nation, though they have a very close relation to the interests of dominant sectors within the imperial state, and to the general state interest of ensuring obedience.

The United States is an unusually open society. Hence there is no difficulty documenting the leading principles of global strategy since the Second World War. Even before the United States entered the war, high-level planners and analysts concluded that in the postwar world the United States should seek “to hold unquestioned power,” acting to ensure the “limitation of any exercise of sovereignty” by states that might interfere with its global designs. They recognized further that “the foremost requirement” to secure these ends was “the rapid fulfillment of a program of complete rearmament,” then as now a central component of “an integrated policy to achieve military and economic supremacy for the United States.” At the time, these ambitions were limited to “the non-German world,” which was to be organized under the U.S. aegis as a “Grand Area,” including the Western hemisphere, the former British Empire, and the Far East. As Russia beat back the Nazi armies after Stalingrad, and it became increasingly clear that Germany would be defeated, the plans were extended to include as much of Eurasia as possible.

A more extreme version of the largely invariant grand strategy is that no challenge can be tolerated to the “power, position, and prestige of the United States,” so the American Society of International Law was instructed by the prominent liberal statesman Dean Acheson, one of the main architects of the postwar world. He was speaking in 1963, shortly after the missile crisis brought the world to the brink of nuclear war. There are few basic changes in the guiding conceptions as we proceed to the Bush II doctrine, which elicited unusual mainstream protest, not because of its basic content, but because of its brazen style and arrogance, as was pointed out by Clinton’s secretary of state Madeleine Albright, who was well aware of Clinton’s similar doctrine.

The collapse of the “monolithic and ruthless conspiracy” led to a change of tactics, but not fundamental policy. That was clearly understood by policy analysts. Dimitri Simes, senior associate at the Carnegie Endowment for International Peace, observed that Gorbachev’s initiatives would “liberate American foreign policy from the straightjacket imposed by superpower hostility.” [6] He identified three major components of “liberation.” First, the United States would be able to shift NATO costs to its European competitors, one way to avert the traditional concern that Europe might seek an independent path. Second, the United States can end “the manipulation of America by third world nations.” The manipulation of the rich by the undeserving poor has always been a serious problem, particularly acute with regard to Latin America, which in the preceding five years had transferred some $150 billion to the industrial West in addition to $100 billion of capital flight, amounting to twenty-five times the total value of the Alliance for Progress and fifteen times the Marshall Plan.

This huge hemorrhage is part of a complicated system whereby Western banks and Latin American elites enrich themselves at the expense of the general population of Latin America, who are then saddled with the “debt crisis” that results from these manipulations.

But thanks to Gorbachev’s capitulation the United States can now resist “unwarranted third world demands for assistance” and take a stronger stand when confronting “defiant third world debtors.”

The third and most significant component of “liberation,” Simes continues, is that the decline in the “Soviet threat…makes military power more useful as a United States foreign policy instrument…against those who contemplate challenging important American interests.” America’s hands will now be “untied” and Washington can benefit from “greater reliance on military force in a crisis.”

The Bush I administration, then in office, at once made clear its understanding of the end of the Soviet threat. A few months after the fall of the Berlin Wall, the administration released a new National Security Strategy. On the domestic front, it called for strengthening “the defense industrial base,” creating incentives “to invest in new facilities and equipment as well as in research and development.” The phase “defense industrial base” is a euphemism referring to the high-tech economy, which relies crucially on the dynamic state sector to socialize cost and risk and eventually privatize profit—sometimes decades later, as in the case of computers and the Internet. The government understands well that the U.S. economy is remote from the free market model that is hailed in doctrine and imposed on those who are too weak to resist, a traditional theme of economic history, recently reviewed insightfully by international economist Ha-Joon Chang. [7]

In the international domain, the Bush I National Security Strategy recognized that “the more likely demands for the use of our military forces may not involve the Soviet Union and may be in the Third World, where new capabilities and approaches may be required.” The United States must concentrate attention on “lower-order threats like terrorism, subversion, insurgency, and drug trafficking [which] are menacing the United States, its citizenry, and its interests in new ways.” “Forces will have to accommodate to the austere environment, immature basing structure, and significant ranges often encountered in the Third World.” “Training and research and development” will have to be “better attuned to the needs of low-intensity conflict,” crucially, counterinsurgency in the third world. With the Soviet Union gone from the scene, the world “has now evolved from a ‘weapon rich environment’ [Russia] to a ‘target rich environment’ [the South].” The United States will face “increasingly capable Third World Threats,” military planners elaborated.

Consequently, the National Security Strategy explained, the United States must maintain a huge military system and the ability to project power quickly worldwide, with primary reliance on nuclear weapons, which, Clinton planners explained, “cast a shadow over any crisis or conflict” and permit free use of conventional forces. The reason is no longer the vanished Soviet threat, but rather “the growing technological sophistication of Third World conflicts.” That is particularly true in the Middle East, where the “threats to our interests” that have required direct military engagement “could not be laid at the Kremlin’s door,” contrary to decades of pretense, no longer useful with the Soviet Union gone. In reality, the “threat to our interests” had always been indigenous nationalism. The fact was sometimes acknowledged, as when Robert Komer, the architect of President Carter’s Rapid Deployment Force (later Central Command), aimed primarily at the Middle East, testified before Congress in 1980 that its most likely role was not to resist a (highly implausible) Soviet attack, but to deal with indigenous and regional unrest, in particular, the “radical nationalism” that has always been a primary concern, worldwide.

The term “radical” falls into the same category as “known Communist proponent.” It does not mean radical. Rather, it means not under our control. Thus Iraq at the time was not radical. On the contrary, Saddam continued to be a favored friend and ally well after he had carried out his most horrendous atrocities (Halabja, al-Anfal, and others) and after the end of the war with Iran, for which he had received substantial support from the Reagan administration, among others. In keeping with these warm relations, in 1989 President Bush invited Iraqi nuclear engineers to the United States for advanced training in nuclear weapons development, and in early 1990, sent a high-level Senatorial delegation to Iraq to convey his personal greetings to his friend Saddam. The delegation was led by Senate majority leader Bob Dole, later Republican presidential candidate, and included other prominent Senators. They brought Bush’s personal greetings, advised Saddam that he should disregard criticisms he might hear from some segments of the irresponsible American press, and assured him that the government would do what it could to end these unfortunate practices.

A few months later Saddam invaded Kuwait, disregarding orders, or perhaps misunderstanding ambiguous signals from the State Department. That was a real crime, and he instantly switched from respected friend to evil incarnate.

It is instructive to consider the reaction to Saddam’s invasion of Kuwait, both the rhetorical outrage and the military response, a devastating blow to Iraqi civilian society that left the tyranny firmly in place. The events and their interpretation reveal a good deal about the continuities of policy after the collapse of the Soviet Union and about the intellectual and moral culture that sustains policy decisions.

Saddam’s invasion of Kuwait in August 1990 was the second case of post-Cold War aggression. The first was Bush’s invasion of Panama a few weeks after the fall of the Berlin Wall, in November 1989. The Panama invasion was scarcely more than a footnote to a long and sordid history, but it differed from earlier exercises in some respects.

A basic difference was explained by Elliott Abrams, then a high official responsible for Near East and North African Affairs, now charged with “promoting democracy” under Bush II, particularly in the Middle East. Echoing Simes, Abrams observed that “developments in Moscow have lessened the prospect for a small operation to escalate into a superpower conflict.” [8] The resort to force, as in Panama, was more feasible than before, thanks to the disappearance of the Soviet deterrent. Similar reasoning applied to the reaction to Iraq’s invasion of Kuwait. With the Soviet deterrent in place, the United States and Britain would have been unlikely to risk placing huge forces in the desert and carrying out the military operations in the manner they did.

The goal of the Panama invasion was to kidnap Manuel Noriega, a petty thug who was brought to Florida and sentenced for narcotrafficking and other crimes that were mostly committed when he was on the CIA payroll. But he had become disobedient—for example, failing to support Washington’s terrorist war against Nicaragua with sufficient enthusiasm—so he had to go. The Soviet threat could no longer be invoked in the standard fashion, so the action was depicted as defense of the United States from Hispanic narcotrafficking, which was overwhelmingly in the domain of Washington’s Colombian allies. While presiding over the invasion, President Bush announced new loans to Iraq to achieve the “goal of increasing U.S. exports and put us in a better position to deal with Iraq regarding its human rights record”—so the State Department replied to the few inquiries from Congress, apparently without irony. The media wisely chose silence.

Victorious aggressors do not investigate their crimes, so the toll of Bush’s Panama invasion is not known with any precision. It appears, however, that it was considerably more deadly than Saddam’s invasion of Kuwait a few months later. According to Panamanian human rights groups, the U.S. bombing of the El Chorillo slums and other civilian targets killed several thousand poor people, far more than the estimated toll of the invasion of Kuwait. The matter is of no interest in the West, but Panamanians have not forgotten. In December 2007, Panama once again declared a Day of Mourning to commemorate the U.S. invasion; it scarcely merited a flicker of an eyelid in the United States.

Also gone from history is the fact that Washington’s greatest fear when Saddam invaded Kuwait was that he would imitate the U.S. invasion of Panama. Colin Powell, then chairman of the Joint Chiefs of Staff, warned that Saddam “will withdraw, [putting] his puppet in. Everyone in the Arab world will be happy.” In contrast, when Washington partially withdrew from Panama after putting its puppet in, Latin Americans were far from happy.

The invasion aroused great anger throughout the region, so much so that the new regime was expelled from the Group of Eight Latin American democracies as a country under military occupation. Washington was well aware, Latin American scholar Stephen Ropp observed, “that removing the mantle of United States protection would quickly result in a civilian or military overthrow of Endara and his supporters”—that is, the regime of bankers, businessmen, and narcotraffickers installed by Bush’s invasion.

Even that government’s own Human Rights Commission charged four years later that the right to self-determination and sovereignty of the Panamanian people continues to be violated by the “state of occupation by a foreign army.” Fear that Saddam would mimic the invasion of Panama appears to be the main reason why Washington blocked diplomacy and insisted on war, with almost complete media cooperation—and, as is often the case, in violation of public opinion, which on the eve of the invasion, overwhelmingly supported a regional conference to settle the confrontation along with other outstanding Middle East issues. That was essentially Saddam’s proposal at the time, though only those who read fringe dissident publications or conducted their own research projects could have been aware of that.

Washington’s concern for human rights in Iraq was dramatically revealed, once again, shortly after the invasion, when Bush authorized Saddam to crush a Shi’ite rebellion in the South that would probably have overthrown him. Official reasoning was outlined by Thomas Friedman, then chief diplomatic correspondent of the New York Times. Washington hoped for “the best of all worlds,” Friedman explained: “an iron-fisted Iraqi junta without Saddam Hussein” that would restore the status quo ante when Saddam’s “iron fist…held Iraq together, much to the satisfaction of the American allies Turkey and Saudi Arabia”—and, of course, the boss in Washington. But this happy outcome proved unfeasible, so the masters of the region had to settle for second best: the same “iron fist” they had been fortifying all along. Veteran Times Middle East correspondent Alan Cowell added that the rebels failed because “very few people outside Iraq wanted them to win”: The United States and “its Arab coalition partners” came to “a strikingly unanimous view [that] whatever the sins of the Iraqi leader, he offered the West and the region a better hope for his country’s stability than did those who have suffered his repression.”

The term “stability” is used here in its standard technical meaning: subordination to Washington’s will. There is no contradiction, for example, when liberal commentator James Chace, former editor of Foreign Affairs, explains that the United States sought to “destabilize a freely elected Marxist government in Chile” because “we were determined to seek stability” (under the Pinochet dictatorship).

With the Soviet pretext gone, the record of criminal intervention continued much as before. One useful index is military aid. As is well known in scholarship, U.S. aid “has tended to flow disproportionately to Latin American governments which torture their citizens,…to the hemisphere’s relatively egregious violators of fundamental human rights.” That includes military aid, is independent of need, and runs through the Carter period. [9] More wide-ranging studies by economist Edward Herman found a similar correlation worldwide, also suggesting a plausible explanation. He found that aid, not surprisingly, is correlated with improvement in the investment climate.

Such improvement is often achieved by murdering priests and union leaders, massacring peasants trying to organize, blowing up the independent press, and so on. The result is a secondary correlation between aid and egregious violation of human rights. It would be wrong, then, to conclude that U.S. leaders (like their counterparts elsewhere) prefer torture; rather, it has little weight in comparison with more important values. These studies precede the Reagan years, when the questions were not worth posing because the correlations were so overwhelmingly obvious.

The pattern continued after the Cold War. Outside of Israel and Egypt, a separate category, the leading recipient of U.S. aid as the Cold War ended was El Salvador, which, along with Guatemala, was the site of the most extreme terrorist violence of the horrifying Reagan years in Central America, almost entirely attributable to the state terrorist forces armed and trained by Washington, as subsequent Truth Commissions documented. Washington was barred by Congress from providing aid directly to the Guatemalan murderers. They were effusively lauded by Reagan, but he had to turn to an international terror network of proxy states to fill the gap. In El Salvador, however, the United States could carry out the terrorist war unhampered by such annoyances.

One prime target was the Catholic Church, which had committed a grave sin: it began to take the Gospels seriously and adopted “the preferential option for the poor.” It therefore had to be destroyed by U.S.-backed violence, with strong Vatican support. The decade opened with the 1980 assassination of Archbishop Romero while saying mass, a few days after he had sent a letter to President Carter pleading with him to cut off aid to the murderous junta, aid that “will surely increase injustice here and sharpen the repression that has been unleashed against the people’s organizations fighting to defend their most fundamental human rights.”

Aid soon flowed, paving the way for “a war of extermination and genocide against a defenseless civilian population,” as the aftermath was described by Archbishop Romero’s successor. The decade ended when the elite Atlacatl Brigade, armed and trained by Washington, blew out the brains of six leading Latin American intellectuals, Jesuit priests, after compiling a bloody record of the usual victims. None of this enters elite Western consciousness, by virtue of “wrong agency.”

By the time Clinton took over, a political settlement had been reached in El Salvador, so it lost its position as leading recipient of U.S. military aid. It was replaced by Turkey, then conducting some of the worst atrocities of the 1990s, targeting its harshly oppressed Kurdish population. Tens of thousands were killed, 3,500 towns and villages were destroyed, huge numbers of refugees fled (three million, according to analyses by Kurdish human rights organizations), large areas were laid waste, dissidents were imprisoned, hideous torture and other atrocities were standard fare. Clinton provided 80 percent of the needed arms, including high-tech equipment used for savage crimes. In the single year 1997, Clinton sent more military aid to Turkey than in the entire Cold War period combined before the counterinsurgency campaign began. Media and commentary remained silent, with the rarest of exceptions.

By 1999, state terror had largely achieved its goals, so Turkey was replaced as leading recipient of military aid by Colombia, which had by far the worst human rights record in the hemisphere, as the programs of coordinated state-paramilitary terror inaugurated by Kennedy took a shocking toll.

Meanwhile other major atrocities continued to receive full support. One of the most extreme was the sanctions against Iraqi civilians after the large-scale demolition of Iraq in the bombing of 1991, which also destroyed power stations and sewage and water facilities, effectively a form of biological warfare. The horrific impact of the U.S.-UK sanctions, formally implemented by the UN, aroused so much public concern that in 1996 a humane modification was introduced: the “oil for food” program, which permitted Iraq to use profits from oil exports for the needs of its suffering people.

The first director of the program, the distinguished international diplomat Denis Halliday, resigned in protest after two years, declaring the program to be “genocidal.” He was replaced by another distinguished international diplomat, Hans von Sponeck, who resigned two years later, charging that the program violated the Genocide Convention. Von Sponeck’s resignation was followed immediately by that of Jutta Burghardt, in charge of the UN Food Program, who joined the declaration of protest by Halliday and von Sponeck.

To mention only one figure, “During the years when the sanctions were imposed, from 1990 to 2003, there was a sharp increase in mortality from 56 per thousand children under five years of age in the early 1990s to 131 per thousand under five years of age at the beginning of the new century,” and “everyone can easily understand that this was due to the economic sanctions” (von Sponeck). Massacres of that scale are rare, and to acknowledge this one would be doctrinally difficult. Accordingly, great efforts were made to shift the blame to UN incompetence, “the largest fraud ever recorded in history” (Wall Street Journal). The fraudulent “fraud” was quickly exposed; it turned out that Washington and U.S. business were the major culprits. But the charges were too valuable to be allowed to vanish.

Halliday and von Sponeck had numerous investigators all over Iraq, which enabled them to know more about the country than any other Westerners. They were barred from the U.S. media during the buildup to the war. The Clinton administration also prevented von Sponeck from informing the UN Security Council, which was technically responsible, about the effects of the sanctions on the population. “This man in Baghdad is paid to work, not to speak,” State Department spokesman James Rubin explained. U.S.-UK media evidently agree. Von Sponeck’s carefully documented account of the impact of the U.S.-UK sanctions was published in 2006, to resounding silence. [10]

The sanctions devastated the civilian society, killing hundreds of thousands of people while strengthening the tyrant, compelling the population to rely on him for survival, and probably saving him from the fate of other mass murderers and torturers who were supported to the end of their bloody rule by the United States, the United Kingdom, and their allies: Ceau?escu, Suharto, Mobutu, Marcos, and a rogues gallery of others, to which new names are regularly added. The studied refusal to give Iraqis an opportunity to take their fate into their own hands by releasing the stranglehold of the sanctions, as Halliday and von Sponeck recommended, eliminates whatever thin shred of justification for the invasion may be concocted by apologists for state violence.

Also continuing without change through the 1990s was strong U.S.-UK support for General Suharto of Indonesia—“our kind of guy,” the Clinton administration happily announced when he was welcomed in Washington. Suharto had been a particular favorite of the West ever since he took power in 1965, presiding over a “staggering mass slaughter” that was “a gleam of light in Asia,” the New York Times reported, while praising Washington for keeping its crucial role hidden so as not to embarrass the “Indonesian moderates” who took over.

The general reaction in the West was unconcealed euphoria after the mass slaughter, which the CIA compared to the crimes of Hitler, Stalin, and Mao. Suharto opened the country’s wealth to Western exploitation, compiled one of the worst human rights records in the world, and also won the world record for corruption, far surpassing Mobutu and other Western favorites. On the side, he invaded the former Portuguese colony of East Timor in 1975, carrying out one of the worst crimes of the late twentieth century, leaving perhaps one-quarter of the population dead and the country ravaged.

From the first moment, he benefitted from decisive U.S. diplomatic and military support, joined by Britain as atrocities peaked in 1978, while other Western powers also sought to gain what they could by backing virtual genocide in East Timor. The U.S.-UK flow of arms and training of the most vicious counterinsurgency units continued without change through 1999 as Indonesian atrocities escalated once again, far beyond anything in Kosovo at the same time before the NATO bombing. Australia, which had the most detailed information on the atrocities, also participated actively in training the most murderous elite units.

In April 1999, there was a series of particularly brutal massacres, as in Liquica, where at least sixty people were murdered when they took refuge in a church. The United States reacted at once. Admiral Dennis Blair, U.S. Pacific commander, met with Indonesian army chief General Wiranto, who supervised the atrocities, assuring him of U.S. support and assistance and proposing a new U.S. training mission, one of several such contacts at the time. Highly credible church sources estimated that 3,000–5,000 were murdered from February through July.

In August 1999, in a UN-run referendum, the population voted overwhelmingly for independence, a remarkable act of courage. The Indonesian army and its paramilitary associates reacted by destroying the capital city of Dili and driving hundreds of thousands of the survivors into the hills. The United States and Britain were unimpressed. Washington lauded “the value of the years of training given to Indonesia’s future military leaders in the United States and the millions of dollars in military aid for Indonesia,” the press reported, urging more of the same for Indonesia and throughout the world. A senior diplomat in Jakarta explained succinctly that “Indonesia matters and East Timor doesn’t.” While the remnants of Dili were smoldering and the expelled population were starving in the hills, Defense Secretary William Cohen, on September 9, reiterated the official U.S. position that occupied East Timor “is the responsibility of the Government of Indonesia, and we don’t want to take that responsibility away from them.”

A few days later, under intense international and domestic pressure (much of it from influential right-wing Catholics), Clinton quietly informed the Indonesian generals that the game was over, and they instantly withdrew, allowing an Australian-led UN peace-keeping force to enter the country unopposed. The lesson is crystal clear. To end the aggression and virtual genocide of the preceding quarter-century there was no need to bomb Jakarta, to impose sanctions, or in fact to do anything except to stop participating actively in the crimes. The lesson, however, cannot be drawn, for evident doctrinal reasons. Amazingly, the events have been reconstructed as a remarkable success of humanitarian intervention in September 1999, evidence of the enthralling “emerging norms” inaugurated by the “enlightened states.” One can only wonder whether a totalitarian state could achieve anything comparable.

The British record was even more grotesque. The Labor government continued to deliver Hawk jets to Indonesia as late as September 23, 1999, two weeks after the European Union had imposed an embargo, three days after the Australian peace-keeping force had landed, well after it had been revealed that these aircraft had been deployed over East Timor once again, this time as part of the pre-referendum intimidation operation. Under New Labour, Britain became the leading supplier of arms to Indonesia, over the strong protests of Amnesty International, Indonesian dissidents, and Timorese victims. The reasons were explained by Foreign Secretary Robin Cook, the author of the new “ethical foreign policy.”

The arms shipments were appropriate because “the government is committed to the maintenance of a strong defence industry, which is a strategic part of our industrial base,” as in the United States and elsewhere. For similar reasons, Prime Minister Tony Blair later approved the sale of spare parts to Zimbabwe for British Hawk fighter jets being used by Mugabe in a civil war that cost tens of thousands of lives. Nonetheless, the new ethical policy was an improvement over Thatcher, whose defense procurement minister Alan Clark had announced that “My responsibility is to my own people. I don’t really fill my mind much with what one set of foreigners is doing to another.” [11]

It is against this background, barely sampled here, that the chorus of admired Western intellectuals praised themselves and their “enlightened states” for opening an inspiring new era of humanitarian intervention, guided by the “responsibility to protect,” now solely dedicated to “principles and values,” acting from “altruism” and “moral fervor” alone under the leadership of the “idealistic new world bent on ending inhumanity,” now in a “noble phase” of its foreign policy with a “saintly glow.”

The chorus of self-adulation also devised a new literary genre, castigating the West for its failure to respond adequately to the crimes of others (while scrupulously avoiding any reference to its own crimes). It was lauded as courageous and daring. Few allowed themselves to perceive that comparable work would have been warmly welcomed in the Kremlin, pre-Perestroika.

The most prominent example was the lavishly praised Pulitzer Prize-winning work “A Problem from Hell”: America and the Age of Genocide, by Samantha Power, of the Carr Center for Human Rights Policy at the Kennedy School at Harvard University. It is unfair to say that Power avoids all U.S. crimes. A scattering are casually mentioned, but explained away as derivative of other concerns.

Power does bring up one clear case: East Timor, where, she writes, Washington “looked away”—namely, by authorizing the invasion; immediately providing Indonesia with new counterinsurgency equipment; rendering the UN “utterly ineffective” in any effort to stop the aggression and slaughter, as UN ambassador Daniel Patrick Moynihan proudly recalled in his memoir of his UN service; and then continuing to provide decisive diplomatic and military support for the next quarter-century, in the manner briefly indicated.

Summarizing, after the fall of the Soviet Union, policies continued with little more than tactical modification. But new pretexts were needed. The new norm of humanitarian intervention fit the requirements very well. It was only necessary to put aside the shameful record of earlier crimes as somehow irrelevant to the understanding of societies and cultures that had scarcely changed, and to disguise the fact that these crimes continued much as before. This is a difficulty that arises frequently, even if not as dramatically as it did after the collapse of the routine pretext for crimes. The standard reaction is to abide by a maxim of Tacitus: “Crime once exposed has no refuge but audacity.” One does not deny the crimes of past and present; it would be a grave error to open that door. Rather, the past must be effaced and the present ignored as we march on to a glorious new future. That is, regrettably, a fair rendition of leading features of the intellectual culture in the post-Soviet era.

Nevertheless, it was imperative to find, or least to contrive, a few examples to illustrate the new magnificence. Some of the choices were truly astonishing. One, regularly invoked, is the humanitarian intervention of mid-September 1999 to rescue the East Timorese. The term “audacity” does not begin to capture this exercise, but it proceeded with little difficulty, testifying once again to what Hans Morgenthau, the founder of realist international relations theory, once called “our conformist subservience to those in power.” There is no need to waste time on this achievement.

A few other examples were tried, also impressive in their audacity. One favorite was Clinton’s military intervention in Haiti in 1995, which did in fact bring an end to the horrendous reign of terror that was unleashed when a military coup overthrew the first democratically elected president of Haiti, Jean-Bertrand Aristide, in 1991, a few months after he took office. To sustain the self-image, however, it has been necessary to suppress some inconvenient facts.

The Bush I administration devoted substantial effort to undermine the hated Aristide regime and prepare the grounds for the anticipated military coup. It then instantly turned to support for the military junta and its wealthy supporters, violating the OAS embargo—or as the New York Times preferred to describe the facts, “fine tuning” the embargo to exempt U.S. businesses, for the benefit of the Haitian people. Trade with the junta increased under Clinton, who also illegally authorized Texaco to supply oil to the junta. Texaco was a natural choice. It was Texaco that supplied oil to the Franco regime in the late 1930s, violating the embargo and U.S. law, while Washington pretended that it did not know what was being reported in the left press—later conceding quietly that it of course knew all along.

By 1995, Washington felt that the torture of Haitians had proceeded long enough, and Clinton sent the Marines in to topple the junta and restore the elected government—but on conditions that were sure to destroy what was left of the Haitian economy. The restored government was compelled to accept a harsh neoliberal program, with no barriers to U.S. export and investment. Haitian rice farmers are quite efficient, but cannot compete with highly subsidized U.S. agribusiness, leading to the anticipated collapse. One small successful business in Haiti produced chicken parts. But Americans do not like dark meat, so the huge U.S. conglomerates that produce chicken parts wanted to dump them on others. They tried Mexico and Canada, but those are functioning societies that could prevent the illegal dumping. Haiti had been compelled to be defenseless, so even that small industry was destroyed. The story continues, declining to still further ugliness, unnecessary to review here. [12]

In brief, Haiti falls into the familiar pattern, a particularly disgraceful illustration in light of the way that Haitians have been tortured, first by France and then by the United States, in part in punishment for having dared to be the first free country of free men in the hemisphere.

Other attempts at self-justification fared no better, until, at last, Kosovo came to the rescue in 1999, opening the floodgates. The torrent of self-congratulatory rhetoric became an uncontrollable deluge.

The Kosovo case is, plainly, of great significance in sustaining the self-glorification that reached a crescendo at the end of the millennium, and in justifying the Western claim of a right of unilateral intervention. Not surprisingly, then, there is a strict Party Line on NATO’s bombing of Kosovo.

The doctrine was articulated with eloquence by Vaclav Havel, as the bombing ended. The leading U.S. intellectual journal, the left-liberal New York Review of Books, turned to Havel for “a reasoned explanation” of why the NATO bombing must be supported, publishing his address to the Canadian Parliament, “Kosovo and the End of the Nation-State” (June 10, 1999). For Havel, the Review observed, “the war in Yugoslavia is a landmark in international relations: the first time that the human rights of a people—the Kosovo Albanians—have unequivocally come first.” Havel’s address opened by stressing the extraordinary significance and import of the Kosovo intervention.

It shows that we may at last be entering an era of true enlightenment that will witness “the end of the nation-state,” which will no longer be “the culmination of every national community’s history and its highest earthly value,” as has always been true in the past. The “enlightened efforts of generations of democrats, the terrible experience of two world wars,…and the evolution of civilization have finally brought humanity to the recognition that human beings are more important than the state,” so the Kosovo intervention reveals.

Havel’s “reasoned explanation” of why the bombing was just reads as follows: “there is one thing that no reasonable person can deny: this is probably the first war that has not been waged in the name of ‘national interests,’ but rather in the name of principles and values… [NATO] is fighting out of concern for the fate of others. It is fighting because no decent person can stand by and watch the systematic state-directed murder of other people….The alliance has acted out of respect for human rights, as both conscience and legal documents dictate. This is an important precedent for the future. It has been clearly said that it is simply not permissible to murder people, to drive them from their homes, to torture them, and to confiscate their property.”

Stirring words, though a few qualifications might be appropriate: to mention just one, it remains permissible, indeed obligatory, not only to tolerate such actions but to contribute massively to them, ensuring that they reach still greater peaks of fury—within NATO, for example—and of course to conduct them on one’s own, when that is necessary.

Havel had been a particularly admired commentator on world affairs since 1990, when he addressed a joint session of Congress immediately after his fellow dissidents were brutally murdered in El Salvador (and the United States had invaded Panama, killing and destroying). He received a thunderous standing ovation for lauding the “defender of freedom” that had armed and trained the murderers of the six leading Jesuit intellectuals and tens of thousands of others, praising it for having “understood the responsibility that flowed” from power and urging it to continue to put “morality ahead of politics”—as it had done throughout Reagan’s terrorist wars in Central America, in support for South Africa as it murdered some 1.5 million people in neighboring countries, and many other glorious deeds. The backbone of our actions must be “responsibility,” Havel instructed Congress: “responsibility to something higher than my family, my country, my company, my success.”

The performance was welcomed with rapture by liberal intellectuals. Capturing the general awe and acclaim, the editors of the Washington Post orated that Havel’s praise for our nobility provided “stunning evidence” that his country is “a prime source” of “the European intellectual tradition” as his “voice of conscience” spoke “compellingly of the responsibilities that large and small powers owe each other.” At the left-liberal extreme, Anthony Lewis wrote that Havel’s words remind us that “we live in a romantic age.” A decade later, still at the outer limits of dissidence, Lewis was moved and persuaded by the argument that Havel had “eloquently stated” on the bombing of Serbia, which he thought eliminated all residual doubts about Washington’s cause and signaled a “landmark in international relations.”

The Party Line has been guarded with vigilance. To cite a few current examples, on the occasion of Kosovo’s independence the Wall Street Journal wrote that Serbian police and troops were “driven from the province by the U.S.-led aerial bombing campaign of [1999], designed to halt dictator Slobodan Miloševi?’s brutal attempt to drive out the province’s ethnic Albanian majority” (February 25, 2008). Francis Fukuyama urged in the New York Times (February 17, 2008) that “in the wake of the Iraq debacle,” we must not forget the important lesson of the 1990s “that strong countries like the United States should use their power to defend human rights or promote democracy”: crucial evidence is that “ethnic cleansing against the Albanians in Kosovo was stopped only through NATO bombing of Serbia itself.”

The editors of the liberal New Republic wrote that Miloševi? “set out to pacify [Kosovo] using his favored tools: mass expulsion, systematic rape, and murder,” but fortunately the West would not tolerate the crime “and so, in March 1999, NATO began a bombing campaign” to end the “slaughter and sadism.” The “nightmare has a happy ending for one simple reason: because the West used its military might to save them” (March 12, 2008). The editors added that “You would need to have the heart of a Kremlin functionary to be unmoved by the scene that unfolded in Kosovo’s capital Pristina,” celebrating “a fitting and just epilogue to the last mass crime of the twentieth century.” In less exalted but conventional terms, Samantha Power writes that “Serbia’s atrocities had of course provoked NATO action.”

Citing examples is misleading, because the doctrine is held with virtual unanimity, and considerable passion, or perhaps “desperation” would be a more appropriate word. The reference to “Kremlin functionaries” by the editors of the New Republic is appropriate in ways they did not intend. The rare efforts to adduce the uncontroversial and well-documented record elicit impressive tantrums, when they are not simply ignored.

The record is unusually rich, and the facts presented in impeccable Western sources are explicit, consistent, and extensively documented. The sources include two major State Department compilations released to justify the bombing and a rich array of documents from the Organization for Security and Cooperation in Europe (OSCE), NATO, the UN, and others. They also include a British parliamentary inquiry. And, notably, the very instructive reports of the monitors of the OSCE Kosovo Verification Mission established at the time of the October cease-fire negotiated by U.S. Ambassador Richard Holbrooke. The monitors reported regularly on the ground from a few weeks later until March 19, when they were withdrawn (over Serbian objections) in preparation for the March 24 bombing.

The documentary record is treated with what anthropologists call “ritual avoidance.” And there is a good reason. The evidence, which is unequivocal, leaves the Party Line in tatters. The standard claim that “Serbia’s atrocities had of course provoked NATO action” directly reverses the unequivocal facts: NATO’s action provoked Serbia’s atrocities, exactly as anticipated. [13]

Western documentation reveals that Kosovo was an ugly place prior to the bombing—though not, unfortunately, by international standards. Some 2,000 are reported to have been killed in the year before the NATO bombing. Atrocities were distributed between the Kosovo Liberation Army (KLA) guerrillas attacking from Albania and Federal Republic of Yugoslav (FRY) security forces. An OSCE report accurately summarizes the record: The “cycle of confrontation can be generally described” as KLA attacks on Serb police and civilians, “a disproportionate response by the FRY authorities,” and “renewed KLA activity.”

The British government, the most hawkish element in the alliance, attributes most of the atrocities in the relevant period to the KLA, which in 1998 had been condemned by the United States as a “terrorist organization.” On March 24, as the bombing began, British Defense Minister George Robertson, later NATO secretary-general, informed the House of Commons that until mid-January 1999, “the [Kosovo Liberation Army] were responsible for more deaths in Kosovo than the Serbian authorities had been.” In citing Robertson’s testimony in A New Generation Draws the Line, I wrote that he must be mistaken; given the distribution of force, the judgment was simply not credible. The British parliamentary inquiry, however, reveals that his judgment was confirmed by Foreign Secretary Robin Cook, who told the House on January 18, 1999, that the KLA “has committed more breaches of the ceasefire, and until this weekend was responsible for more deaths than the [Yugoslav] security forces.” [14]

Robertson and Cook are referring to the Racak massacre of January 15, in which 45 people were reported killed. Western documentation reveals no notable change in pattern from the Racak massacre until the withdrawal of the Kosovo Verification Mission monitors on March 19. So even factoring that massacre in (and overlooking questions about what happened), the conclusions of Robertson and Cook, if generally valid in mid-January, remained so until the announcement of the NATO bombing. One of the few serious scholarly studies even to consider these matters, a careful and judicious study by Nicholas Wheeler, estimates that Serbs were responsible for 500 of the 2,000 reported killed in the year before the bombing. For comparison, Robert Hayden, a specialist on the Balkans who is director of the Center for Russian and East European Studies of the University of Pittsburgh, observes that “the casualties among Serb civilians in the first three weeks of the war are higher than all of the casualties on both sides in Kosovo in the three months that led up to this war, and yet those three months were supposed to be a humanitarian catastrophe.” [15]

U.S. intelligence reported that the KLA “intended to draw NATO into its fight for independence by provoking Serb atrocities.” The KLA was arming and “taking very provocative steps in an effort to draw the west into the crisis,” hoping for a brutal Serb reaction, Holbrooke commented. KLA leader Hashim Thaci, now prime minister of Kosovo, informed BBC investigators that when the KLA killed Serb policemen, “We knew we were endangering civilian lives, too, a great number of lives,” but the predictable Serb revenge made the actions worthwhile. The top KLA military commander, Agim Ceku, boasted that the KLA shared in the victory because “after all, the KLA brought NATO to Kosovo” by carrying out attacks in order to elicit violent retaliation.

So matters continued until NATO initiated the bombing, knowing that it was “entirely predictable” that the FRY would respond on the ground with violence, General Wesley Clark informed the press; earlier he had informed the highest U.S. government officials that the bombing would lead to major crimes, and that NATO could do nothing to prevent them. The details conform to Clark’s predictions. The press reported that “The Serbs began attacking Kosovo Liberation Army strongholds on March 19,” when the monitors were withdrawn in preparation for the bombing, “but their attack kicked into high gear on March 24, the night NATO began bombing Yugoslavia.” The number of internally displaced, which had declined, rose again to 200,000 after the monitors were withdrawn. Prior to the bombing, and for two days following its onset, the United Nations High Commissioner for Refugees (UNHCR) reported no data on refugees. A week after the bombing began, the UNHCR began to tabulate the daily flow.

In brief, it was well understood by the NATO leadership that the bombing was not a response to the huge atrocities in Kosovo, but was their cause, exactly as anticipated. Furthermore, at the time the bombing was initiated, there were two diplomatic options on the table: the proposal of NATO, and the proposal of the FRY (suppressed in the West, virtually without exception). After 78 days of bombing, a compromise was reached between them, suggesting that a peaceful settlement might have been possible, avoiding the terrible crimes that were the anticipated reaction to the NATO bombing.

The Miloševi? indictment for war crimes in Kosovo, issued during the NATO bombing, makes no pretense to the contrary. The indictment, based on U.S.-UK intelligence, keeps to crimes committed during the NATO bombing. There is only one exception: the Racak massacre in January. “Senior officials in the Clinton administration were revolted and outraged,” Samantha Power writes, repeating the conventional story. It is hardly credible that Clinton officials were revolted or outraged, or even cared. Even putting aside their past support for far worse crimes, it suffices to consider their reaction to the massacres in East Timor shortly after, for example in Liquica, a far worse crime than Racak, which led the same Clinton officials to increase their participation in the ongoing slaughter.

Despite his conclusions on the distribution of killings, Wheeler supports the NATO bombing on the grounds that there would have been even worse atrocities had NATO not bombed. The argument is that by bombing with the anticipation that it would lead to atrocities, NATO was preventing atrocities. The fact that these are the strongest arguments that can be contrived by serious analysts tells us a good deal about the decision to bomb, particularly when we recall that there were diplomatic options and that the agreement reached after the bombing was a compromise between them.

Some have tried to support this line of argument by appealing to Operation Horseshoe, an alleged Serbian plan to expel Kosovar Albanians. The plan was unknown to the NATO command, as General Clark attested, and is irrelevant on those grounds alone: the criminal resort to violence cannot be justified by something discovered afterwards. The plan was exposed as a probable intelligence forgery, but that is of no relevance either. It is almost certain Serbia had such contingency plans, just as other states, including the United States, have hair-raising contingency plans even for remote eventualities.

An even more astonishing effort to justify the NATO bombing is that the decision was taken under the shadow of Srebrenica and other atrocities of the early ’90s. By that argument, it follows that NATO should have been calling for the bombing of Indonesia, the United States, and the United Kingdom, under the shadow of the vastly worse atrocities they had carried out in East Timor and were escalating again when the decision to bomb Serbia was taken—for the United States and United Kingdom, only a small part of their criminal record. A last desperate effort to grasp at some straw is that Europe could not tolerate the pre-bombing atrocities right near its borders—though NATO not only tolerated, but strongly supported far worse atrocities right within NATO in the same years, as already discussed.

Without running through the rest of the dismal record, it is hard to think of a case where the justification for the resort to criminal violence is so weak. But the pure justice and nobility of the actions has become a doctrine of religious faith, understandably: What else can justify the chorus of self-glorification that brought the millennium to an end? What else can be adduced to support the “emerging norms” that authorize the idealistic New World and its allies to use force where their leaders “believe it to be just”?

Some have speculated on the actual reasons for the NATO bombing. The highly regarded military historian Andrew Bacevich dismisses humanitarian claims and alleges that along with the Bosnia intervention, the bombing of Serbia was undertaken to ensure “the cohesion of NATO and the credibility of American power” and “to sustain American primacy” in Europe. Another respected analyst, Michael Lind, writes that “a major strategic goal of the Kosovo war was reassuring Germany so it would not develop a defense policy independent of the U.S.-dominated NATO alliance.” Neither author presents any basis for the conclusions. [16]

Evidence does exist however, from the highest level of the Clinton administration. Strobe Talbott, who was responsible for diplomacy during the war, wrote the foreword to a book on the warby his associate John Norris. Talbott writes that those who want to know “how events looked and felt at the time to those of us who were involved” in the war should turn to Norris’s account, written with the “immediacy that can be provided only by someone who was an eyewitness to much of the action, who interviewed at length and in depth many of the participants while their memories were still fresh, and who has had access to much of the diplomatic record.” Norris states that “it was Yugoslavia’s resistance to the broader trends of political and economic reform—not the plight of Kosovar Albanians—that best explains NATO’s war.” That the motive for the NATO bombing could not have been “the plight of Kosovar Albanians” was already clear from the extensive Western documentary record. But it is interesting to hear from the highest level that the real reason for the bombing was that Yugoslavia was a lone holdout in Europe to the political and economic programs of the Clinton administration and its allies. Needless to say, this important revelation also is excluded from the canon. [17]

Though the “new norm of humanitarian intervention” collapses on examination, there is at least one residue: the “responsibility to protect.” Applauding the declaration of independence of Kosovo, liberal commentator Roger Cohen writes that “at a deeper level, the story of little Kosovo is the story of changing notions of sovereignty and the prising open of the world” (International Herald Tribune, February 20, 2008). The NATO bombing of Kosovo demonstrated that “human rights transcended narrow claims of state sovereignty” (quoting Thomas Weiss).

The achievement, Cohen continues, was ratified by the 2005 World Summit, which adopted the “responsibility to protect,” known as R2P, which “formalized the notion that when a state proves unable or unwilling to protect its people, and crimes against humanity are perpetrated, the international community has an obligation to intervene—if necessary, and as a last resort, with military force.” Accordingly, “an independent Kosovo, recognized by major Western powers, is in effect the first major fruit of the ideas behind R2P.” Cohen concludes: “The prising open of the world is slow work, but from Kosovo to Cuba it continues.” The NATO bombing is vindicated, and the “idealistic new world bent on ending inhumanity” really has reached a “noble phase” in its foreign policy with a “saintly glow.” In the words of international law professor Michael Glennon, “The crisis in Kosovo illustrates…America’s new willingness to do what it thinks right—international law notwithstanding,” though a few years later international law was brought into accord with the stance of the “enlightened states” by adopting R2P.

Again, there is a slight problem: those annoying facts. The UN World Summit of September 2005 explicitly rejected the claim of the NATO powers that they have the right to use force in alleged protection of human rights. Quite the contrary, the Summit reaffirmed “that the relevant provisions of the Charter [which explicitly bar the NATO actions] are sufficient to address the full range of threats to international peace and security.” The Summit also reaffirmed “the authority of the Security Council to mandate coercive action to maintain and restore international peace and security…acting in accordance with the purposes and principles of the Charter,” and the role of the General Assembly in this regard “in accordance with the relevant provisions of the Charter.” Without Security Council authorization, then, NATO has no more right to bomb Serbia than Saddam Hussein had to “liberate” Kuwait. The Summit granted no new “right of intervention” to individual states or regional alliances, whether under humanitarian or other professed grounds.

The Summit endorsed the conclusions of a December 2004 high-level UN Panel, which included many prominent Western figures. The Panel reiterated the principles of the Charter concerning the use of force: it can be lawfully deployed only when authorized by the Security Council, or under Article 51, in defense against armed attack until the Security Council acts. Any other resort to force is a war crime, in fact the “supreme international crime” encompassing all the evil that follows, in the words of the Nuremberg Tribunal. The Panel concluded that “Article 51 needs neither extension nor restriction of its long-understood scope,…it should be neither rewritten nor reinterpreted.” Presumably with the Kosovo war in mind, the Panel added that “For those impatient with such a response, the answer must be that, in a world full of perceived potential threats, the risk to the global order and the norm of nonintervention on which it continues to be based is simply too great for the legality of unilateral preventive action, as distinct from collectively endorsed action, to be accepted. Allowing one to so act is to allow all.”

There could hardly be a more explicit rejection of the stand of the self-declared “enlightened states.”

Both the Panel and the World Summit endorsed the position of the non-Western world, which had firmly rejected “the so-called ‘right’ of humanitarian intervention” in the Declaration of the South Summit in 2000, surely with the recent NATO bombing of Serbia in mind. This was the highest-level meeting ever held by the former non-aligned movement, accounting for 80 percent of the world’s population. It was almost entirely ignored, and the rare and brief references to their conclusions about humanitarian intervention elicited near hysteria. Thus Cambridge University international relations lecturer Brendan Simms, writing in the Times Higher Education Supplement (May 25, 2001), was infuriated by such “bizarre and uncritical reverence for the pronouncements of the so-called ‘South Summit G-77’—in Havana!—an improvident rabble in whose ranks murderers, torturers and robbers are conspicuously represented”—so different from the civilized folk who have been their benefactors for the past centuries and can scarcely control their fury when there is a brief allusion, without comment, to the perception of the world by the traditional victims, a perception since strongly endorsed by the high-level UN Panel and the UN World Summit in explicit contradiction to the self-serving pronouncements of apologists for Western resort to violence.

We might ask finally whether humanitarian intervention even exists. There is no shortage of evidence that it does. The evidence falls into two categories. The first is declarations of leaders. It is all too easy to demonstrate that virtually every resort to force is justified by elevated rhetoric about noble humanitarian intentions. Japanese counterinsurgency documents eloquently proclaim Japan’s intention to create an “earthly paradise” in independent Manchukuo and North China, where Japan is selflessly sacrificing blood and treasure to defend the population from the “Chinese bandits” who terrorize them.

Since these are internal documents, we have no reason to doubt the sincerity of the mass murderers and torturers who produced them. Perhaps we may even entertain the possibility that Japanese emperor Hirohito was sincere in his surrender declaration in August 1945, when he told his people that “We declared war on America and Britain out of Our sincere desire to ensure Japan’s self-preservation and the stabilization of East Asia, it being far from Our thought either to infringe upon the sovereignty of other nations or to embark upon territorial aggrandizement.” Hitler’s pronouncements were no less noble when he dismembered Czechoslovakia, and were accepted at face value by Western leaders. President Roosevelt’s close confidant Sumner Welles informed him that the Munich settlement “presented the opportunity for the establishment by the nations of the world of a new world order based upon justice and upon law,” in which the Nazi “moderates” would play a leading role. It would be hard to find an exception to professions of virtuous intent, even among the worst monsters.

The second category of evidence consists of military intervention that had benign effects, whatever its motives: not quite humanitarian intervention, but at least partially approaching it. Here too there are illustrations. The most significant ones by far during the post–Second World War era are in the 1970s: India’s invasion of East Pakistan (now Bangladesh), ending a huge massacre; and Vietnam’s invasion of Cambodia in December 1978, driving out the Khmer Rouge just as their atrocities were peaking. But these two cases are excluded from the canon on principled grounds. The invasions were not carried out by the West, hence do not serve the cause of establishing the West’s right to use force in violation of the UN Charter. Even more decisively, both interventions were vigorously opposed by the “idealistic new world bent on ending inhumanity.” The United States sent an aircraft carrier to Indian waters to threaten the miscreants. Washington supported a Chinese invasion to punish Vietnam for the crime of ending Pol Pot’s atrocities, and along with Britain, immediately turned to diplomatic and military support for the Khmer Rouge.

The State Department even explained to Congress why it was supporting both the remnants of the Pol Pot regime (Democratic Kampuchea) and the Indonesian aggressors who were engaged in crimes in East Timor that were comparable to Pol Pot’s. The reason for this remarkable decision was that the “continuity” of Democratic Kampuchea with the Khmer Rouge regime “unquestionably” makes it “more representative of the Cambodian people than the Fretilin [the East Timorese resistance] is of the Timorese people.” The explanation was not reported, and has been effaced from properly sanitized history.

Perhaps a few genuine cases of humanitarian intervention can be discovered. There is, however, good reason to take seriously the stand of the “improvident rabble,” reaffirmed by the authentic international community at the highest level. The essential insight was articulated by the unanimous vote of the International Court of Justice in one of its earliest rulings, in 1949: “The Court can only regard the alleged right of intervention as the manifestation of a policy of force, such as has, in the past, given rise to most serious abuses and such as cannot, whatever be the defects in international organization, find a place in international law…; from the nature of things, [intervention] would be reserved for the most powerful states, and might easily lead to perverting the administration of justice itself.” The judgment does not bar “the responsibility to protect,” as long as it is interpreted in the manner of the South, the high-level UN Panel, and the UN World Summit.

Sixty years later, there is little reason to question the court’s judgment. The UN system doubtless suffers from severe defects. The most critical defect is the overwhelming role of the leading violators of Security Council resolutions. The most effective way to violate them is to veto them, a privilege of the permanent members. Since the UN fell out of its control forty years ago the United States is far in the lead in vetoing resolutions on a wide range of issues, its British ally is second, and no one else is even close. Nevertheless, despite these and other serious defects of the UN system, the current world order offers no preferable alternative than to vest the “responsibility to protect” in the United Nations. In the real world, the only alternative, as Bricmont eloquently explains, is the “humanitarian imperialism” of the powerful states that claim the right to use force because they “believe it to be just,” all too regularly and predictably “perverting the administration of justice itself.”

Notes
1. New York Times chief diplomatic correspondent Thomas Friedman, quoting a high government official, January 12, 1992.
2. For more, and sources, see my New Military Humanism (Monroe, ME: Common Courage, 1999).
3. Boston Review (February 1994).
4. For detailed examination of the role assigned to China in the “virulence and pervasiveness of American visionary globalism underlying Washington’s strategic policy” in Asia, see James Peck, Washington’s China (Amherst, MA: University of Massachusetts Press, 2006).
5. McSherry, Predatory States (Boulder, CO: Rowman & Littlefield, 2005).
6. Simes, “If the Cold War Is Over, Then What?,” New York Times, December 27, 1988.
7. Ha-Joon Chang, Bad Samaritans (Random House, 2007).
8. Reporters’ paraphrase; Stephen Kurkjian and Adam Pertman, Boston Globe, January 5, 1990.
9. Lars Schoultz, Human Rights and United States Policy toward Latin America (Princeton, NJ: Princeton University Press, 1981).
10. Hans C. Von Sponeck, A Different Kind of War (New York: Berghahn, 2006); Spokesman 96, 2007. On the oil for food program fraud, see my Failed States (Metropolitan, 2006).
11. For a review of the miserable denouement, see my A New Generation Draws the Line (Verso, 2000).
12. See Peter Hallward, Damming the Flood (New York: Verso, 2007), for an expert and penetrating study of what followed, through the 2004 military coup that overthrew the elected government once again, backed by the traditional torturers, France, and the United States; and the resilience of the Haitian people as they sought to rise again from the ruins.
13. A New Generation Draws the Line. On what was known at once, see my New Military Humanism.
14. Robertson, New Generation, 106–7. Cook, House of Commons Session 1999-2000, Defence Committee Publications, Part II, 35.
15. Wheeler, Saving Strangers: Humanitarian Intervention and International Society (Oxford, 2000). Hayden, interview with Doug Henwood, WBAI, New York, reprinted in Henwood, Left Business Observer #89, April 27, 1999.
16. Andrew J. Bacevich, American Empire (Cambridge, MA: Harvard, 2003); Michael Lind, National Interest (May–June 2007).
17. John Norris, Collision Course (Westport, CT: Praeger, 2005).

FONTE: https://chomsky.info/200809__/

 

 

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