Bail-in anche per gli Stati: il piano dei consiglieri della Merkel

Bail-in anche per gli Stati: il piano dei consiglieri della Merkel

Basta salvataggi da parte di altri Stati nel caso di nuove crisi finanziarie nell’area euro. È l’obiettivo di un documento dei “saggi”, stretti consiglieri del governo tedesco, che prevedono che le conseguenze di una crisi siano sostenute solo dai creditori esistenti

di Fabrizio Patti

Rendere chiaro che, se ci sarà un’altra crisi finanziaria in Europa, non ci saranno salvataggi degli Stati deboli da parte degli Stati forti. Ma che a pagare saranno i creditori: banche, assicurazioni, privati. Insomma chi possiede il debito pubblico di una nazione, ossia i suoi titoli di Stato. È lo scopo di un documento preparato dal German Council of Economic Experts, un gruppo di consiglieri indipendenti del governo tedesco, noto anche come il gruppo dei cinque saggi.

A firmare il documento, “Un meccanismo per regolare la ristrutturazione del debito sovrano nell’area euro” è uno di questi cinque saggi, l’economista a capo del Walter Eucken Institute di Friburgo, Lars Feld. È considerato vicinissimo al ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble e la sua fama di duro è nota da tempo. Nel recente passato ha criticato la concessione della flessibilità all’Italia e le mancate sanzioni a Spagna e Portogallo, così come l’eccessivo peso di considerazioni politiche a scapito di quelle economiche nelle decisioni della Commissione europea. In precedenza ha difeso le regole del bail-in bancario (celebre un’intervista sul Corriere della Sera a Federico Fubini, che per primo in Italia ha parlato del nuovo documento), è stato tra i critici maggiori del Quantitative easing di Mario Draghi e ha detto che se la Grecia fosse uscita dall’euro sarebbe stato soprattutto un problema del piccolo Stato mediterraneo.

Non sempre le posizioni del gruppo sono state prese in considerazione, ma la sconfitta di Angela Merkel alle elezioni regionali in Meclemburgo-Pomerania potrebbero consigliare alla Cancelliera di dare credito a questi consigli. Per questo il documento va letto con attenzione.

La proposta è quella di un “bail-in” dei titoli di Stato, simile a quello già entrato in vigore per le banche, per assicurare che i creditori privati contribuiscano alla risoluzione delle crisi

La premessa del paper è che, nonostante le recenti riforme al Patto di Stabilità e crescita, i Paesi con grande indebitamento non hanno messo in atto politiche sufficienti di riduzione del debito e che i poteri delle istituzioni europee per far rispettare gli accordi rimangono limitati. Va dunque trovato un nuovo meccanismo per tutelare la clausola “no-bailout” prevista dal trattato per il funzionamento dell’Unione europea. Ossia per prevenire che i contribuenti di Paesi europei si assumano la responsabilità per i debiti contratti da un altro Paese membro dell’Unione. È anche importante evitare, aggiunge il documento, che il Meccanismo europeo di stabilità (Esm) incorra in un rischio di default per aver prestato soldi a nazioni già sovraindebitate. Non ultimo, è necessario creare un quadro di regole chiaro a tutti – a cominciare dagli investitori – in modo da evitare crisi al buio che portano a una estrema volatilità dei mercati, come è successo nei casi precedenti, a partire da quello greco.

Di qui la proposta di un “bail-in” dei titoli di Stato, simile a quello già entrato in vigore per le banche, «per assicurare che i creditori privati contribuiscano alla risoluzione delle crisi». Il meccanismo si attiverebbe in due fasi. All’inizio della crisi (e quindi all’inizio di un programma dell’Esm), quando non è chiaro se si sia di fronte a una crisi di liquidità o a una ben più grave crisi di insolvenza, scatterebbe un’immediata estensione della maturità dei titoli di Stato. La scadenza sarebbe quindi allungata. Solo in un secondo momento si tratterebbe di ristrutturare il debito (quindi di tagliare il valore dei titoli di Stato), sulla base delle esigenze e di un’analisi più approfondita dell’evoluzione della crisi, comprese le riforme fatte dal Paese che ha chiesto assistenza. Allungare le scadenze dei titoli per uno Stato vorrebbe dire ridurre il fabbisogno di liquidità per i pagamenti principali (come gli stipendi dei dipendenti pubblici). Mentre per i creditori – che certamente sarebbero danneggiati – ci sarebbero anche dei vantaggi: il fatto di non trovarsi subordinati rispetto a creditori privilegiati come il Fondo monetario internazionale o la possibilità di avere più tempo per creare delle riserve finanziarie prima che sia deciso un eventuale taglio del debito. L’estensione della maturità inoltre è vista come meno distruttiva di un taglio del debito e per questo ci sarebbero minori rischi di contagio. Infine permetterebbe di intervenire con riforme con tempi più lunghi (rispetto per esempio a quanto fatto in Grecia, con effetti deprimenti sull’economia). L’applicazione di questo meccanismo scatterebbe solo per gli Stati con un forte debito pubblico, oltre il 60-90% del Pil e con un tasso di rifinanziamento annuo superiore al 15-20%. L’Italia sarebbe quindi dentro.

Il meccanismo si attiverebbe in due fasi. All’inizio della crisi scatterebbe un’immediata estensione della maturità dei titoli di Stato. Solo in un secondo momento si tratterebbe di ristrutturare il debito sulla base delle esigenze e dell’evoluzione della crisi, comprese le riforme fatte

Per arrivare a questo meccanismo in due fasi, il gruppo guidato dal professor Feld propone di introdurre un nuovo tipo di titolo di Stato. O meglio, di introdurre una nuova clausola che metta nero su bianco i rischi per i sottoscrittori. Si chiamerebbe Cpc, Creditor participation clause. L’introduzione sarebbe graduale. Con le successive nuove emissioni, crescerebbe la quota di debito pubblico legata a questa clausola. Se si cominciasse dal 2017, prevede una simulazione del centro studi, nel 2030 oltre l’80% del debito italiano sarebbe legato a questa clausola.

In realtà clausole simili già esistono. Si chiamano Cac (collective action clauses, ndr), o clausole di azione collettiva e prevedono possibili variazioni come l’allungamento dei termini. Dopo l’accordo di Deauville del 2010, un modello di “Cac” deve essere incluso nei bond emessi dai Paesi dell’area euro, a partire dal 2013 (i cosiddetti euro-Cac). Il problema, spiegano gli studiosi del German Council of Economic Experts, è che queste clausole consentono ancora agli investitori, in genere a quelli istituzionali, di bloccare accordi di rinegoziazione. Così accadde in Argentina, dove alcuni fondi si opposero ai tagli e per ottenere il 100% delle somme dovute bloccarono il processo di rinegoziazione. Questi ostruzionismi, chiamati “holdout”, sarebbero evitati dal meccanismo ideato dal gruppo tedesco, che prevede un sistema di voto semplificato (single limb voting). Per l’entrata in vigore del quale, suggeriscono, sarebbe sufficiente un semplice emendamento delle linee guida dell’Esm e non quindi un nuovo trattato.

Per arrivare a questo meccanismo in due fasi, il gruppo guidato dal professor Feld propone di introdurre un nuovo tipo di titolo di Stato. O meglio, di introdurre una nuova clausola che metta nero su bianco i rischi per i sottoscrittori. Si chiamerebbe Cpc, Creditor participation clause.

Ma se la proposta passasse, sarebbe una novità sconvolgente, per il panorama italiano? E per essere più precisi, dato che le banche detengono circa il 30% dei debiti di Stato italiani, si creerebbe un rischio sistemico in caso scattasse la clausola automatica di allungamento delle scadenze? Alla domanda sulle ripercussioni in Italia, il documento dedica un paragrafo liquidatorio: «Nel caso specifico di un grande Paese come l’Italia, è dubbio comunque se i pacchetti di salvataggio esistenti sarebbero in grado di proteggerla da una seria crisi e una ristrutturazione nell’evento di uno shock di grandi dimensioni (“too big to save”). Le preoccupazioni che l’introduzione di regole per la ristrutturazione del debito sovrano sarebbero la cosa che di per sé provocherebbe una crisi del debito sovrano in Italia sono perciò infondate».

Noi, però, ci dovremmo preoccupare? «Non vedo un pericolo di fuga dai titoli italiani, se dovessero essere introdotte queste clausole», commenta Giorgio Arfaras, economista direttore della Lettera Economica del Centro Einaudi. «Finché i conti italiani sono come quelli attuali, cioè stabili nonostante l’alto debito pubblico, e finché c’è il Quantitative easing (che con il suo programma di acquisti di bond ha abbassato gli spread dei titoli dei Paesi periferici, ndr), non ci sarebbero grandi ripercussioni». Per le banche, nel caso si arrivasse a un’estensione delle durate «i danni sarebbero contenibili», mentre se si arrivasse a una crisi di solvibilità, a un programma di ristrutturazione e quindi a tagli del valore dei bond, «ovviamente le cose cambierebbero, ma è una questione di probabilità, che oggi appaiono scarse».

Arfaras non condivide alcuni passaggi del piano, come quello in cui lo studio prevede che l’introduzione del meccanismo porti di per sé a un abbassamento dei debiti pubblici («Non c’è alcuna dimostrazione»). Né è convinto che uno dei cardini della proposta, cioè far scattare il meccanismo di allungamento delle scadenze sulla base dei risultati passati, sia sensata, perché «noi come italiani abbiamo messo in ordine il sistema pensionistico per gli anni futuri, altri come la Spagna no, e quindi basarsi solo sul passato non è un criterio condivisibile». Tuttavia, invita a non guardare il documento da tifosi e a considerare la necessità di arrivare a una forma di bail-in. «Un’unione politica non si regge se ci sono degli azzardi morali. Questi azzardi sono favoriti dal fatto che, se uno Stato ha i conti pubblici fuori controllo, interviene un altro Stato a sistemare la situazione con i soldi contribuenti». Il principio del bail-in, aggiunge, non è sbagliato e porta anche vantaggi nel lungo termine. Se si parla di banche, gli azionisti sono spinti a scegliere meglio i dirigenti e gli obbligazionisti a sottoscrivere i bond sulla base di ragioni economiche e non di appartenenza territoriale. Se si parla di Stati, il meccanismo dovrebbe spingere gli elettori a chiedere più affidabilità ai governanti. Ma l’applicazione, come noto, crea dei problemi. Tanto nelle banche quanto, e molto di più, se si ragiona tra gli Stati. A cominciare dal fatto che gli espropri non sarebbero possibili.

«Non vedo un pericolo di fuga dai titoli italiani, se dovessero essere introdotte queste clausole»

Giorgio Arfaras, Centro Einaudi

Nel caso specifico italiano, aggiunge Paolo Manasse, professore del dipartimento di Scienze economiche all’Università di Bologna, un ostacolo a questo piano rimarrebbe nel fatto che lo stock del debito pubblico è messo sotto la giurisdizione del Tribunale di Roma.

Per Manasse, al di là delle prescrizioni tecniche di ciascuna proposta, sarebbe importante che si arrivasse a un quadro chiaro per la risoluzione delle crisi del debito. «La soluzione che più mi convince è quella di creare un framework di carattere legale e con funzioni di tribunale fallimentare internazionale». Come proposto alla fine degli anni Novanta dall’ex capo economista dell’Fmi Anne Krueger (con il sistema chiamato Sdrm, Sovereign debt restructuring mechanism), si tratterebbe di applicare a livello internazionale una legislazione simile a quella Usa, compresi meccanismi come quello del “Chapter 11”. La proposta naufragò e a essa, con le successive modifiche, dichiara di ispirarsi anche il documento dei saggi tedeschi. «A questo framework internazionale bisognerebbe inoltre unire delle clausole di carattere privato, come le Cac, che si basino sul voto a maggioranza e non permettano che si possano porre veti». Anche per Manasse i titoli italiani non dovrebbero avere ripercussioni, almeno nella situazione attuale. Le cose cambierebbero, invece, se si creasse una crisi politica e un’ondata di panico nei mercati. «A quel punto, qualsiasi notizia potrebbe avere ripercussioni sui bond».

http://www.linkiesta.it/it/article/2016/09/08/bail-in-anche-per-gli-stati-il-piano-dei-consiglieri-della-merkel/31705/