NOTIZIARIO STAMPA DETTI E SCRITTI
12 DICEMBRE 2018
A cura di Manlio Lo Presti
Esergo
Vediamo come in genere vanno le cose:
ogni individuo viene sacrificato e serve da strumento.
Si scenda in strada e si veda, se non incontriamo solo “schiavi”.
Che vanno dove? Perché?
FRIEDRICH NIETZSCHE, Frammenti postumi 1885-1887, Vol. VIII, Tomo I, Adelphi, 1990, pag. 268
https://www.facebook.com/Detti-e-Scritti-958631984255522/
Le opinioni degli autori citati possono non coincidere con la posizione del curatore della presente Rassegna.
Tutti i numeri dell’anno 2018 della Rassegna sono disponibili sul sito www.dettiescritti.com
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SOMMARIO
Strategia delle tensione in formato europeo
Quando si vogliono sanzionare Stati, li si definisce “terroristi” 1
Magaldi: altro che Global Compact, serve una rivoluzione. 1
Pubblicata una “fake news” colossale. E ora che si fa, cari censori, chiudiamo i giornali? 1
Nuove prospettive di collaborazione tra India e Russia 1
Paris Jackson: “Mio padre Michael è stato ucciso, in molti lo volevano morto” 1
L’identità “migrante” e la colonizzazione delle coscienze. 1
I padrini di Sfera Ebbasta celebrano il trionfo alla Scala 1
Cosa si nasconde dietro l’attacco Usa agli smartphone cinesi. 1
A chi giova la nuova crisi tra Russia e Ucraina? 1
Le carenze militari degli USA: essere i più costosi non significa essere i migliori 1
La differenza tra rivolta e rivoluzione…c’è e si vede. 1
Quel che devo al passato (Mysterium Iniquitatis) 1
Chi sono i giornalisti guardiani della verità secondo il Time 1
Antonio Guterres e le fakes news del Patto per le Migrazioni 1
Immigrati? Tutti in Italia per otto anni. E dopo? Merkel-Macron, sfregio a Salvini: il ricatto. 1
Patto ONU per la migrazione: “un pericolo per il mondo intero” 1
L’economia della Grande Sostituzione 1
Confermato divieto alle commissioni sulle carte di credito/debito. 1
Come va Unicredit dopo il collocamento del bond 1
Ecco che cosa non funziona nel mercato del lavoro italiano secondo il Cnel 1
Verso chi è debitore Emmanuel Macron? 1
Siria: la verità che nessuno racconta 1
Scomparso William Blum, famoso critico della politica estera degli Stati Uniti 1
Genocidio armeno
EDITORIALE
Strategia della tensione in formato europeo
Manlio Lo Presti – 12 dicembre 2018
La morte di molte persone e di feriti, il cui numero spesso si omette perché fa più spettacolo la morte frontale, nei locali del parlamento europeo ci porta alle seguenti riflessioni:
1) la partenza di una strategia della tensione a livello continentale è la risposta dei poteri occulti alla crescente rabbia della popolazione europea. Una rabbia che va contenuta e non risolta. Deve essere repressa, anche con le bombe, la crescente insofferenza di una popolazione che da oltre un decennio è crocifissa da una crisi recessiva pilotata e prolungata ad arte per spezzare la resistenza ad una unione forzata e gestita dalla finanza e da persone da loro nominate non elette da nessuno nella sala dei bottoni di Bruxelles;
2) l’attentato è avvenuto nella sede del parlamento europeo. Si tratta di una scelta simbolica: vittimizzare gli europarlamentari europei che sono impegnati alacremente a tutelare l’interesse dei cittadini dell’unione;
3) il ruolo pesante degli USA per destabilizzare il continente che, se fosse unito sul serio, sarebbe uno scomodo e temibile concorrente politico, commerciale e militare, con pesanti ricadute sulla Nato in cerca di una sua riaffermazione che tuttavia non è ben vista dalla attuale amministrazione USA;
4) la “rivolta” delle giacchette gialle ha il sapore di una colossale sceneggiata organizzata per consentire alla Francia di sforare i limiti di bilancio senza subire sanzioni che, al contrario, martellano l’Italia da sempre con ingiustificata severità. Lo sforamento senza critiche sarebbe comunque pagato dalla popolazione francese con nuove tassazioni, con fughe di capitali che non subirebbero nessun contraccolpo. Non ci sono stati infatti movimenti punitivi di spread contro la Francia. Un segno che questo parametro, costruito su criteri non condivisi democraticamente, è uno strumento gestito con durezza dalla attuale catena di comando per colpire gli Stati canaglia europei che si trovano in particolare nella zona sud dell’Europa;
5) con l’appoggio della casta industriale continentale, l’insorgenza di nuovi ed ulteriori disordini ha quindi lo scopo di aumentare il caos in Europa e renderla vulnerabile alla ricezione forzata di una prima ondata di 50.000.000. di cosiddetti immigrati, nuovi schiavi disposti a lavorare a tre euro al giorno. L’immigrazione forzata è quindi utile a far saltare per aria lo stato sociale, i diritti dei lavoratori, per diffonde la filosofia quadrisex per demolire la struttura familiare, per totalizzare la precarietà e quindi la denatalità da povertà ed incertezza del futuro. Lo spopolamento giustificherà quindi l’ingresso di immigrati necessaria alla sostituzione etnica del continente. La casta industriale è a sua volta lo strumento funzionale alla creazione del nuovo ordine mondiale che persegue logiche di dominio e non di profitto!
6) intorno al destino dell’Europa ruota il riassetto mondiale in corso e la morfologia delle alleanze che si formeranno, con particolare riferimento al ruolo della Russia che potrebbe aver preteso di avere l’Europa in cambio di una sua azione di contenimento della Cina, con l’aiuto dell’India sua secolare alleata. La Cina sotto pressione potrebbe mollare la presa in Africa, ma potrebbe anche mettere in pericolo gli alleati USA in oriente: Taiwan, Giappone, Nuova Zelanda, Indonesia, le due Coree. L’impero USA ha spesso abbandonato al proprio destino gli alleati se questo ostacola i propri piani.
Insomma, è in corso una nuova Yalta più felpata e nascosta che ha il compito di procedere ad una nuova spartizione mondiale che è la risultante di un incessante lavoro di mediazione fra le varie élite del mondo perché non salti per aria tutto il pianeta.
Le guerre convenzionali servono per tenere a bada e possibilmente sterminare le nazioni che non hanno nel proprio territorio sedi delle banche Goldman e Rothschild e sono – soprattutto – la scusa per riciclare 50.000.000.000.000 di euro al giorno tramite banche-ombra, i bitcoin e nell’immediato futuro con il sistema blockchain.
Per il dominio del pianeta vengono utilizzate tecniche di guerra elettronica, guerra asimmetrica, guerra psicologica, guerra mondiale culturale con creazione di modelli di comportamento ad hoc. Mi riferisco alla politica gender quadrisex, alla colonizzazione delle università, alla pseudo libertà passata per globalizzazione delle persone, delle merci, del lavoro precario come strumento di ricatto permanente.
I controlli antiriciclaggio valgono per il popolo bue che deve vivere per pagare le tasse, per comprare merci e per morire prima di percepire una pensione.
Di certo tutto questo non avverrà nell’interesse della popolazione mondiale per la quale è da tempo prevista una riduzione, a marce forzate, di oltre 2.000.000.000 di persone entro il 2030!
A tale proposito sono molto istruttivi:
- a) il filmato di Rockefeller: https://www.youtube.com/watch?v=DkyGqweYvTo ;
- b) il filmato dell’AGENDA 21: https://www.youtube.com/watch?v=3QGq-YIihKE ;
- c) Bill Gates che utilizza i vaccini per la depopolazione: https://www.youtube.com/watch?v=8YE1nDJCRKc
Questo piano deve essere realizzato costi quel che costi …
Tutto quello che vediamo intorno a noi propinato ad arte dalle oltre 500 televisioni, da migliaia di periodici, dalle migliaia di emittenti radio non è che una gigantesca bolla subliminale ipnopedica.
Siamo tutti imprigionati in una bolla percettiva modello Matrix 35.0
Ne riparleremo!
IN EVIDENZA
Quando si vogliono sanzionare Stati, li si definisce “terroristi”
di Thierry Meyssan
Le nuove sanzioni unilaterali degli Stati Uniti contro Iran, Russia e Siria si sommano alle precedenti. L’insieme di queste misure costituisce l’embargo più duro della storia. Per di più, la maniera in cui sono state strutturate vìola la Carta delle Nazioni Unite: sono armi da guerra concepite per uccidere.
Rete Voltaire | Damasco (Siria) | 27 novembre 2018
La missione a Mosca dell’8 novembre dell’ambasciatore James Jeffrey era spiegare la preoccupazione degli Stati Uniti per il progressivo espandersi dell’influenza persiana nel mondo arabo (Arabia Saudita, Bahrein, Iraq, Libano, Siria, Yemen). Ora, proprio mentre Teheran sta organizzando la propria difesa attorno ad avamposti sciiti arabi, Washington pone il problema in termini geostrategici, invece che religiosi (sciiti/sunniti).
Mosca ha quindi creduto di poter negoziare l’allentamento delle sanzioni unilaterali USA contro l’Iran in cambio del ritiro militare di Teheran dalla Siria. Nell’incontro a Parigi dell’11 novembre, in occasione del centenario della fine della Prima guerra mondiale, il presidente Vladimir Putin ha ribadito la proposta all’omologo USA, nonché al primo ministro israeliano.
Putin ha tentato di convincere gli Occidentali che sarebbe preferibile che in Siria rimanesse la Russia da sola invece del tandem Iran-Russia. Putin ha però precisato di non poter garantire di avere un’autorità sufficiente sullo Hezbollah per ordinargli il ritiro, come invece pretendono Washington e Tel Aviv.
La risposta di Washington è arrivata nove giorni dopo con l’annuncio dell’undicesima serie di sanzioni unilaterali contro la Russia da inizio agosto, accompagnato da un discorso ridicolo secondo cui Russia e Iran avrebbero congiuntamente messo in atto un vasto traffico per mantenere al potere il presidente Assad e allargare il dominio persiano nel mondo arabo.
Questa retorica, che si pensava desueta, paragona tre Stati (Federazione di Russia, Repubblica Araba Siriana e Repubblica Islamica d’Iran) a congegni al servizio di tre uomini, Bashar al-Assad, Ali Khamenei e Vladimir Putin, accomunati dall’odio per i rispettivi popoli, trascurando il fatto che i tre sono sostenuti da un massiccio appoggio popolare, mentre gli Stati Uniti sono profondamente dilaniati.
Sorvoliamo sull’affermazione stupida che la Russia aiuterebbe la Persia a conquistare il mondo arabo.
Secondo quanto affermato dal segretario al Tesoro degli Stati Uniti, Steven Mnuchin, presentando il 20 novembre le sanzioni unilaterali, queste ritorsioni non costituiscono l’aspetto economico della guerra in corso, ma puniscono le «atrocità» di questi tre «regimi». Ebbene, con l’inverno alle porte, esse riguardano principalmente l’approvvigionamento di petrolio raffinato che serve al popolo siriano per illuminare e scaldarsi.
È superfluo rilevare che i tre Stati nel mirino negano le “atrocità” di cui sono accusati, mentre gli Stati Uniti pretendono di proseguire di fatto la guerra che hanno scatenato in Afghanistan, Iraq, Libia e Siria.
Le sanzioni USA non sono state decise dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, bensì unilateralmente dagli Stati Uniti. Secondo il diritto internazionale non sono legali perché per renderle devastanti Washington cerca di costringere Stati terzi ad associarsi, il che costituisce una minaccia agli Stati bersaglio, dunque una violazione della Carta delle Nazioni Unite. Gli Stati Uniti hanno il diritto sovrano di rifiutarsi di commerciare con altri Stati, ma non di esercitare pressione su Stati terzi al fine di colpire i propri bersagli. Un tempo il Pentagono affermava che infliggere un trattamento punitivo a una particolare nazione avrebbe indotto la popolazione di quella nazione a rovesciare il governo. Questo ragionamento servì da giustificazione teorica al bombardamento di Dresda durante la seconda guerra mondiale e all’embargo infinito contro Cuba, iniziato con la guerra fredda. Ebbene, in 75 anni mai, assolutamente mai, questa teoria è stata confermata dai fatti. Ora invece il Pentagono considera i trattamenti punitivi contro un Paese armi al pari delle altre.
Gli embargo sono voluti per uccidere i civili.
Il complesso delle ritorsioni contro Iran, Russia e Siria costituisce il più vasto sistema di assedio della storia [1]. Non si tratta di misure economiche, bensì, indubbiamente, di azioni militari in campo economico. Con il tempo dovrebbero condurre nuovamente a una divisione del mondo in due, come al tempo della rivalità USA-URSS.
Il segretario del Tesoro Mnuchin ha insistito a lungo sul fatto che le sanzioni mirano innanzitutto a interrompere la vendita di idrocarburi, ossia a privare questi Paesi, soprattutto esportatori, della loro principale risorsa finanziaria.
Il meccanismo descritto da Mnuchin è questo:
La Siria non può più raffinare petrolio da quando gli impianti sono stati distrutti da Daesh, nonché dai bombardamenti della Coalizione Internazionale contro Daesh.
Da quattro anni l’Iran fornisce petrolio raffinato alla Siria, in violazione di precedenti sanzioni unilaterali USA
Continua qui: http://www.voltairenet.org/article204129.html
Magaldi: altro che Global Compact, serve una rivoluzione
Scritto il 11/12/18
Global Compact? “Ma mi faccia il piacere”, avrebbe detto Totò. Chi dovrebbe globalizzarli, i diritti? L’élite neoliberista che ha imbrogliato i francesi imponendo loro un ducetto come Macron, al quale infatti oggi la Francia si ribella? Non è più tempo di buonismi pelosi, o di dichiarazioni di principio altisonanti e destinate a restare lettera morta. Secondo Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, c’è poco da scherzare: l’Italia gialloverde traballa ingloriosamente sotto la scure dell’Ue, proprio mentre i Gilet Gialli paralizzano Parigi e almeno 7 francesi su 10 parteggiano per la rivolta di strada. E’ lo specchio perfetto, dice Magaldi, del vero volto della globalizzazione-canaglia, a senso unico, messa in piedi a esclusivo beneficio delle multinazionali finanziarie. La stessa élite vorrebbe imporre l’accoglienza illimitata dei migranti col patrocinio dell’Onu? Ridicolo, anche perché le Nazioni Unite non sono più una cosa seria. «Hanno fallito, come prima di loro la Società delle Nazioni». Che fare? «Per esempio creare una Organizzazione Mondiale delle Democrazie, capace di gestire il mondo rimettendo al centro la politica». Sogni? Sì e no: dipende da quali meccanismi si mettono in moto. «E la situazione, oggi, per molti aspetti è pre-rivoluzionaria, non solo nella Francia di Macron».
In una conversazione a ruota libera su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights” all’indomani della “resa” di Macron alle richieste dei Gilet Gialli, che chiedono che il governo annulli tutte le misure di austerity annunciate, Magaldi parte proprio dalle polemiche sul Global Compact. Un’intesa solo pletorica e fondata su impegni non cogenti, peraltro già boicottata da vari pesi massimi della politica mondiale. Eppure c’è chi la indica come pericoloso cavallo di Troia dell’élite neoliberista, che promuove l’emigrazione di massa per abbassare il costo del lavoro in Occidente a spese dei lavoratori autoctoni. Sdoganare l’emigrazione come fenomeno fisiologico? Mai e poi mai, protesta – sempre in web-streaming con Frabetti – un altro “roosveltiano” come Gianfranco Carpeoro: «Vorrei vedere nelle nostre strade solo studenti africani e turisti africani, non africani che abbiamo costretto a scappare dai loro paesi». Magaldi concorda: il potere che oggi difende l’esodo di massa è il primo responsabile dell’impoverimento di milioni di persone, nel cosiddetto terzo mondo. L’immigrazione va controllata, è ovvio. Ma per scoraggiarla serve una riconversione globale della politica, ad esempio mettendo fine al saccheggio dell’Africa. A patto comunque che non si pretenda di alzare muri: impensabile isolare le popolazioni entro le gabbie nazionali, in un pianeta ormai completamente interconnesso (e spesso felicemente, grazie al contatto tra culture diverse).
Il problema semmai è nel manico, insiste Magaldi: è impossibile far applicare un qualsiasi Global Compact, così come gli stessi innumerevoli trattati sul clima, perché manca un potere decisionale democratico mondiale. Manca, per lo spesso motivo per cui finora la mondializzazione non è stata certo democratica: è stata finora condotta da oligarchie private, ricorda Magaldi, a partire dall’inizio degli anni ‘90, subito dopo il crollo dell’Urss e la nascita dell’Ue, e poi con la deregulation finanziaria e l’ingresso del colosso cinese nel Wto. Ad oggi abbiamo visto solo una globalizzazione di merci e capitali. «La libera circolazione delle persone? Si è favorita un’immigrazione incontrollata, creando competizione tra poveri e abbassamento del costo della manodopera». Altri danni, ai sistemi sociali occidentali (leggasi: lavoratori) sono stati provocati dalle delocalizzazioni industriali. Fermare tutto e tornare ai dazi nazionali degli uni contro gli altri? Pessima idea: «In passato, le politiche protezionistiche sono sfociate in guerre sanguinose. E oggi si avrebbero comunque guerre economiche cruente, alla fine non convenienti per nessuno».
Per Magaldi, serve «una globalizzazione di diritti, opportunità e democrazia». Facile a dirsi, certo. Ma intanto, chi lo dice, nel mainstream politico dominato da polemiche sempre più accese? «In Italia – aggiunge Magaldi – l’immigrazione rischia di diventare solo un mezzo, strumentale, per creare tensioni sociali (e in questo caos, poi, sappiamo che le solite “manine” si muovono in termini opachi)». Che fare? Semplice, in teoria: dobbiamo «mettere all’ordine del giorno mondiale una rivalutazione della politica, che deve tornare a essere il centro decisionale di ogni cosa che riguardi i livelli locali e globali». E cioè: «Ripensare gli interessi globali, valorizzando gli equilibri e le risorse locali». Sarebbe la migliore risposta a questa globalizzazione, «sorretta dall’ideologia neoliberista e gestita soprattutto da poteri privati». Al contrario, bisogna «puntare una globalizzazione gestita, a livello apicale, da poteri politici globali». Dovevano farlo prima la Società delle Nazioni e poi l’Onu. Due fallimenti storici. Una cosa è certa: così non si andrà lontano. Meglio allora «pensare a una trasformazione dell’Onu, verso una nuova politica democratica che abbia l’ultima parola nei grandi processi decisionali».
Sbaglia, chi pensa di poter contrastare poteri sovranazionali e apolidi (cioè incarnati da avventurieri senza patria), rintanandosi «nel fittizio calduccio delle comunità nazionali». Quelle stesse comunità, sostiene Magaldi, le vedremmo «sempre scosse da poteri più ampi, di natura globale: che vanno contrastati e ricollocati nella loro giusta dimensione da poteri politici altrettanto globali». Poteri che – a quel punto – potrebbero anche costruire democraticamente un vero Global Compact, ben diverso da questa aleatoria dichiarazione d’intenti non vincolante («molto rumore per nulla, salvo enunciazioni sottoscrivibili, a favore dell’estensione dei diritti umani, se non sapessimo che sono soltanto parole»). In altri termini: «Se vogliamo essere concreti, bisogna che gli organi preposti ad attuare questi principi abbiano un potere cogente, però democratico e non calato dall’alto». Premessa: «Dobbiamo essere capaci di riflettere sulla natura del mondo che vogliamo». Prima di scrivere qualsiasi Global Compact, cioè, occorrerebbe disporre di una vera Organizzazione Mondiale delle Democrazie, «che sostituisca l’attuale Onu ed escluda anche dal circuito commerciale delle merci e dei capitali i paesi privi di standard democratici, premendo su di essi – anche con sanzioni economiche – perché i loro regimi evolvano verso forme democratiche».
La verità, insiste Magaldi, è che questo tipo di globalizzazione – l’unica vista finora – ha deluso molti, perché al primo posto non c’è la diffusione mondiale della democrazia e dei diritti. Ultima cartina di tornasole: i francesi. «Alle elezioni sono stati obnubilati dalla mistificazione mediatica: bastava guardare cos’era Macron, consulente economico di Hollande e poi ministro del governo Valls voluto da Hollande». Appunto: «In che modo poteva rappresentare una soluzione di continuità rispetto a Hollande che, eletto a furor di popolo per rappresentare il campione anti-austerity e anti-Merkel in Europa, aveva tradito tutte le aspettative? Le ha tradite anche Macron». Al primo turno, Macron aveva ottenuto solo pochi decimali più dei concorrenti, «poi al ballottaggio contro Marine Le Pen avrebbe vinto chiunque». Oggi la democrazia francese appare bloccata: «Fintanto che un certo tipo di opposizione si radicalizzerà in gruppi politici infecondi, l’altro candidato avrà sempre la meglio». Vincerà sempre il più “moderato”, si sarebbe detto un tempo. Non è più vero: «In Francia come altrove, oggi la parola “moderazione” non significa più nulla», se è vero che Macron – dietro l’apparenza – era il candidato dell’élite economica più pericolosamente estremista, come dimostra l’esasperazione di massa dei Gilet Gialli.
Insurrezione, la loro – non proprio rivoluzione, «che però ha un enorme valore per lo spirito messo in evidenza», sottolinea Magaldi: «Qui c’è un popolo, un’avanguardia popolare largamente sostenuta dal paese, che dice basta: denuncia l’insostenibilità di salari che, al netto delle tasse, non consentono di arrivare alla fine del mese. Ed è la fotografia, appunto, di una cattiva globalizzazione, dove i ricchi sono sempre più ricchi, mentre per la gran parte della popolazione la fetta da spartire si è ridotta, e la classe media è stata compressa persino nella ricca e opulenta Francia». Qualunque economista, oggi, ammette che è cresciuta enormemente la disuguaglianza: si è fatto enorme il divario tra ricchi e poveri, in questa «iniqua e stupida modalità di gestire la globalizzazione». Stupida ma, beninteso, «figlia di un’impostazione raffinata, perversa e intelligente nel produrre i suoi effetti, che spero – dice Magadi – saranno l’occasione per produrre una grande rivoluzione democratica».
La stupidità di questi globalizzatori, spiega il presidente del Movimento Roosevelt, sta «nel pensare che si poteva impunemente gestire la globalizzazione in questi termini, e che in Francia – dopo il bluff e la delusione di Hollande – si poteva impunemente imporre al popolo francese un damerino, un cicisbeo inconsistente come il fratello massone Macron, fintamente progressista e fintamente europeista». Un personaggio che invece di proporsi come presidente della Francia, «propinando ricette economiche analoghe a quelle del suo più modesto alter ego italiano Matteo Renzi», avrebbe fatto meglio a «rimanere nella sua vita privata di collaboratore bancario», uomo di fiducia della filiera Rothschild.
Continua qui: http://www.libreidee.org/2018/12/magaldi-altro-che-global-compact-serve-una-rivoluzione/
Pubblicata una “fake news” colossale. E ora che si fa, cari censori, chiudiamo i giornali?
News, Nuovo ordine mondiale gennaio 3, 2017gennaio 3, 2017 Marco Pizzuti
Ogni volta che sento qualcuno proporre “agenzie indipendenti” per far rimuovere “false notizie” sul web, rabbrividisco. Tanto più in un’epoca in cui l’establishment sta tentando di accreditare la necessità di censure contro chi pubblica “bufale” e “post-verità”.
Il riferimento più immediato è ovviamente alla significativa dichiarazione rilasciata al Financial Times, dal presidente dell’antitrust italiano, Giovanni Pitruzzella, subito denunciata da Beppe Grillo e da un esperto di comunicazione avveduto come Vladimiro Giacché, che vede giustamente rischi di controlli in stile “1984” di Orwell.
Ma la tendenza non è solo italiana; è sempre più forte in molti Paesi occidentali, come la Francia, come gli Stati Uniti.
E’ tutto uno strepitare contro la disinformazione online, senza nemmeno una parola contro quello che invece rappresenta il vero problema: la disinformazione autorizzata ovvero le tecniche di spin doctoring che permettono di manipolare notizie e coscienze salvaguardando la forma; perché vengono diffuse dalle stesse istituzioni; approfittando – anzi, abusando – della loro autorevolezza.
Chi mi segue sa che da oltre 10 anni denuncio lo spin, che ho descritto nel saggio “Gli stregoni della notizia” e che è diventato un vero e proprio strumento di guerra asimmetrica. Guardate il paradosso: oggi politici e media mainstream denunciano i siti alternativi e i commenti sui social, con un’operazione che di per sé è mistificatorie perché mischia tutto: siti di informazione, d’opinione, bufale (certo che ce ne sono), informazione ideologizzata. Ma non pronunciano una sola parola contro la manipolazione che viene generata dalle stesse istituzioni e che è pericolosissima e devastante perché è diventata uno strumento di guerra asimmetrica e incide profondamente nel rapporto tra Stato e cittadino, generando disgusto e diffidenza.
Eppure – insisto – la vera manipolazione non è quella di internet ma è quella ufficiale. Che, purtroppo, non diminuisce affatto.
Voglio sviluppare fino in fondo il ragionamento di Pitruzzella e quello di altri autorevoli pensatori anglosassoni, riferendomi a un esempio recente, quello degli attentati di Berlino. Tutti ricordiamo gli epici titoli sull’autista del Tir che avrebbe lottato fino all’ultimo per impedire la strage. Ne ho già accennato in un post ma val la pena di riprendere la notizia. Scegliete voi la fonte: Corriere della Sera, la Repubblica, la Stampa, Rai, Mediaset, Sky…. Non fa differenza. Tutti i media ripresero con grande evidenza la notizia della Bild Zeitung che, citando fonti investigative tedesche, scrisse che l’autista, seppur ferito, aveva tentato eroicamente di impedire che il Tir si schiantasse sul mercatino, lottando furiosamente con il terrorista a bordo.
Dopo qualche ora, questa dichiarazione fu avallata dal ministro degli Interni del Land di Berlino Andreas Geisel, sebbene fosse doveroso dubitare della sua attendibilità, come rilevato da chi scrive e da altri osservatori: come faceva il terrorista a lottare furiosamente con un autista di 120 chili, riuscendo al contempo a guidare un Tir ed evitare che sbandasse? Roba da film di Hollywwod, senza peraltro riscontri oggettivi, perché nessuno ha visto il Tir “zigzagare”prima dello schianto. Anzi, nell’unico filmato lo si vede procedere dritto a tutta velocità.
Com’è andata a finire? Ora ci viene detto, ed è ancora una volta la Bild Zeitung ad informarci, che secondo i primi risultati dell’autopsia, l’autista sarebbe stato colpito dai proiettili tre ore prima dell’attentato, tre ore durante le quali ha perso molto sangue. Forse era già morto al momento dell’attentato, in ogni caso era incosciente e di certo non era in grado “di aggrapparsi al volante”.
Insomma: ci hanno raccontato una gigantesca frottola. Una spettacolare “fake news”. Attenzione: chi ce l’ha raccontata? Un giornalista troppo fantasioso? Un inaffidabile blogger? Macché: ad impiantarla ad arte è stato uno spin doctor che lavora nelle istituzioni tedesche e poi certificata addirittura da un ministro locale.
E allora sorgono alcune domande.
Cos’hanno scritto i solitamente indignati debunker, tanto amati da politici come la Boldrini? Strepitano? Macché tacciono, come sempre in queste circostanze perché per loro la Verità è sempre solo quella formale, delle Istituzioni. E le Istituzioni, lo sanno tutti, non possono mentire. E allora certe notizie spariscono dai siti dei moralisti del web, semplicemente non esistono. Perché non possono esistere.
Altra domanda: lo spin doctor che ha diffuso scientemente una balla pazzesca verrà indagato e processato?
La risposta è, come sempre no, perché i politici che oggi chiedono misure severe contro i blogger, non hanno mai sollecitato punizioni per chi compie reati ben più gravi, mentendo in assoluta cattiva fede, abusando della credibilità delle istituzioni.
Nuove prospettive di collaborazione tra India e Russia
Di Alessio Baccinelli – 2 novembre 2018
In 3 sorsi – Il 5 ottobre si è svolto il 19° incontro bilaterale tra Russia e India, che ha visto Putin e Modi stipulare alcuni accordi di cooperazione in settori strategici per entrambe le nazioni. Il summit si inserisce in un contesto di estrema amicizia tra Mosca e New Delhi, favorito dal legame personale tra i due leader.
- COOPERAZIONE A TUTTO CAMPO
Il recente summit di New Delhi tra il presidente russo Vladimir Putin e il primo ministro indiano Narendra Modi è stato assai fruttuoso sia in termini di qualità che quantità, rafforzando i legami tra i due Paesi. In particolare, il corridoio Nord-Sud, che dovrebbe collegare l’India all’Europa attraverso la Russia, è stato uno dei principali punti discussi dai due leader. Attraverso questo accordo, le ferrovie nazionali dei due Paesi si sono impegnate a migliorare i collegamenti per il trasporto di merci verso il Vecchio Continente, pianificando di poter raggiungere 5 milioni di tonnellate di merci annuali per il prossimo anno e di aumentare continuamente tale cifra negli anni a venire. Anche la preparazione alla prima missione spaziale indiana, prevista per il 2022, è stata al centro delle trattative. Infatti l’Agenzia spaziale russa Roscosmos e quella indiana ISRO hanno concordato di far partecipare gli astronauti indiani a simulazioni e corsi presso le basi spaziali russe. Oltre a questo, in Russia verrà assemblato il nuovo sistema di navigazione indiano, basato sui progetti del sistema russo GLONASS.
- UN CONTRATTO MILITARE IMPORTANTE
Il punto focale di questo summit, però, resta la vendita di materiale bellico di primaria importanza per le ambizioni strategiche indiane in Asia meridionale. Il principale contratto siglato tra i due leader è quello riguardante le batterie di difesa aerea S-400, già sul tavolo delle trattative nel precedente vertice bilaterale di Sochi dello scorso maggio. Per un totale di 5,5 miliardi di dollari, la Russia dovrebbe vendere alle Forze indiane 5 reggimenti di S-400 Triumf dotati di lanciatori per missili a lungo raggio, i quali comprendono anche dei nuovi sistemi radar. Con questo nuovo sistema di difesa terra-aria, le capacità di intercettazione indiane si allargherebbero fino a 400
Continua qui: https://www.ilcaffegeopolitico.org/96227/nuove-prospettive-di-collaborazione-tra-india-e-russia
ARTE MUSICA TEATRO CINEMA
Paris Jackson: “Mio padre Michael è stato ucciso, in molti lo volevano morto”
In una lunga intervista con Rolling Stone, intitolata “Paris Jackson: la vita dopo Neverland”, la 18enne figlia del re del pop torna a parlare della morte del padre avvenuta nel 2009 per arresto cardiaco dopo che il medico personale di Jackson, Conrad Murray, gli aveva somministrato un farmaco per dormire
di Davide Turrini | 25 gennaio 2017
“Mio padre Michael è stato ucciso”. In una lunga intervista con Rolling Stone, intitolata “Paris Jackson: la vita dopo Neverland”, la 18enne figlia del re del pop torna a parlare della morte del padre avvenuta nel 2009 per arresto cardiaco dopo che il medico personale di Jackson, Conrad Murray, gli aveva somministrato un farmaco per dormire. “E’ ovvio. Tutto fa pensare che mio papà sia stato ucciso. In molti lo volevano morto. So che sembra una di quelle stupidaggini modello teoria della cospirazione, ma tutti nella mia famiglia e tutti i fan sanno che è cosi”, spiega la ragazza. Della morte di Jack non sarebbe colpevole solo Murray, condannato a 4 anni per omicidio colposo, ma la tragica vicenda celerebbe qualcosa di più “sinistro”. “E’ come una partita a scacchi. E io sto provando a giocarla nel modo migliore. Questo è tutto quello che posso dire in questo momento”.
Paris Jackson, maggiore età compiuta lo scorso aprile, viene descritta a tutto tondo nella copiosa e brillante intervista di Brian Hatt effettuata mentre la ragazza visita il Museo della Morte in Hollywood Boulevard a Los Angeles. Ecco allora Paris tutta intenta ad osservare senza batter ciglio le decine di foto dell’autopsia di Marylin Monroe, e l’intervistatore a orientare il suo sguardo sui 50 tatuaggi che ricoprono il corpo della ragazza, di cui 9 sono dedicati a papà Michael che morì quando lei aveva 11 anni. “Si dice sempre
Continua qui: https://www.ilfattoquotidiano.it/2017/01/25/paris-jackson-mio-padre-michael-e-stato-ucciso-in-molti-lo-volevano-morto/3340651/
ATTUALITÀ SOCIETÀ COSTUME
L’identità “migrante” e la colonizzazione delle coscienze.
www.altreinfo.org – di Enrica Perucchietti – 27/11/2018
Anche l’identità sessuale è diventata “migrante”. In una società sempre più liquida e precaria, non dovrebbe stupire l’articolo de L’Espresso di qualche giorno fa dal titolo: “Né maschio, né femmina: sui documenti arriva il Gender X. Perché anche l’identità è migrante”.
Si tende così a sfumare, fino alla sua definitiva cancellazione, la differenza “binaria” tra uomo e donna: la distinzione sessuale finisce con l’essere riconosciuta più come un fatto sociale, culturale che biologico, se non addirittura un vecchio vessillo da abbattere, come sono da abbattere le nazioni, le radici, le culture dei singoli Stati, per creare quel mondo nuovo che gli architetti del mondialismo sognano. Un mondo in cui la forbice della diseguaglianza continua ad allargarsi e la concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi è sempre più accentuata.
Eppure, sembra ieri che ci veniva ripetuto come un mantra dai media mainstream che “la teoria gender non esiste”, è una “bufala”.
Non esisteva e non era possibile parlarne. Poi, gradualmente, il gender è penetrato nell’opinione pubblica e oggi è ovunque: campeggia sulle copertine delle riviste, gli stilisti fanno a gara per mettere in passerella capi genderless e compare nei film o serie TV. Si è convertita per gradi l’intera popolazione alla tematica. Si tratta di una vera e propria “colonizzazione delle coscienze”.
Nel giro di pochi anni, si è prodotta una campagna di propaganda che, facendo ricorso alla teoria della gradualità da una parte e al metodo della desensibilizzazione e del bloccaggio ha trasformato la mentalità e l’immaginario di massa rispetto ad alcuni temi fino a poco tempo fa ritenuti “impensabili”. Così il poliamore, il gender, il cambio di sesso ai bambini e il bombardamento di ormoni per i preadolescenti o pratiche come la maternità surrogata sono gradualmente penetrati nell’opinione pubblica come fari del politicamente corretto e del progresso. E se non le condividi sei un fascista, un reazionario, un retrogrado e ovviamente un omofobo. Potresti persino essere affetto da turbe psichiche e da qualche patologia che troverà presto spazio sulla prossima edizione del “Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali”.
Ora che il gender è mainstream e la sua farmacologia si insegna in molte università occidentali, la neolingua sta riscrivendo la nostra cultura in questo processo di rivoluzione antropologica mirante a scardinare ogni identità. Si
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BELPAESE DA SALVARE
I padrini di Sfera Ebbasta celebrano il trionfo alla Scala
11 dicembre 2018 – DI ALCESTE
alcesteilblog.blogspot.com
La prima alla Scala (o: della Scala) fu, decenni fa, un evento importante. Non tanto per la borghesia italiana, ma per la sinistra italiana. Lanciare uova sulle pellicce era ritenuto un atto sovversivo davvero katanga; comunisti e borghesi, invece, dissentivano, a diversi livelli da tali modi della contestazione più crassa. I primi poiché avevano ereditato corpi e ideologie severi, poco inclini all’esibizionismo; i comunisti disprezzavano quelle sfilate, certo, ma solo quali offensive manifestazioni di vanità di classe; il pelo di visone o ermellino, gli sparati impeccabili, metaforizzavano un periodo storico di ingiustizie da sovvertire colle conquiste nel lavoro e nell’educazione, la lotta in fabbrica, il ciclostile e il dialogo-scontro, duro, con le istituzioni. I secondi, invece, avevano in orrore le uova e le vernici katanga per due motivi: in quanto latori delle pellicce e degli sparati medesimi, ovviamente; e perché (questo, però, lo scoprimmo decenni più tardi) le Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare e i Direttori Meganaturali, gli industrialotti, i vescovoni e i dignitari statali, rappresentavano, pur nella parodia, uno degli ultimi lasciti vitali e produttivi dell’essenza italiana; a differenza dei Katanga, mosconi improduttivi e fuoricorso, di cui annusavano, a pelle, l’antitalianità oggi trionfante.
I Katanga dei Settanta sono, infatti, divenuti, paradossalmente, gli spettatori della Scala nel 2018.
È pur vero che residua una blanda contestazione alla sfilata di signorotte e signorotti; essa, però, appare limitata al consueto teatrino:
“Circa 200 manifestanti hanno sfilato per le vie attorno a Palazzo Marino, sede del Comune di Milano, scandendo slogan contro esponenti del Governo. Al corteo hanno partecipato una trentina di giovani con gilet gialli, Lavoratori della Cub e giovani del centro sociale “Il Cantiere”. Il corteo si è concluso davanti al Municipio, a poche decine di metri dall’ingresso del teatro, protetto da transenne e carabinieri in assetto antisommossa. In via San Paolo, dove si terrà la cena di gala dopo la rappresentazione, i manifestanti hanno lanciato uova e vernice bianca. In piazza alla Scala sono stati fatti esplodere diversi petardi”.
Un teatrino i cui frusti protagonisti hanno riaffermato una pervicace, insopprimibile e onnicomprensiva capacità di non capire nulla.
I Katanga che son intervenuti alla prima, invece, sono, oggi, l’unica classe dominante; tanto che, dai giornali bene alle televisioni, urbi et orbi, è stato affermato: “La Scala, l’ultimo rifugio della democrazia”.
La Scala ultimo rifugio della democrazia. E perché? Perché lì si celebrano i fasti dell’Illuminismo; fuori, infatti, c’è il buio dell’irrazionalità, i barbari, l’antieuropeismo, il freddo pericolo del revanscismo del Blut und Boden.
L’ultimo rifugio della democrazia.
Decrittiamo tali parole. Cinque. Due sono costituite da articolo determinativo e preposizione articolata: le ignoriamo, perciò. Abbiamo, quindi:
ultimo – rifugio – democrazia.
Ultimo e rifugio: son vocaboli perfetti per il mondo al contrario. Il potere si basa, sempre, sul vittimismo poiché chi lo contrasta è, necessariamente, un carnefice, un razzista, un fascista, un troglodita del pensiero. Il potere è la luce, la luce del mondo: chi vi si oppone reca le tenebre. Le tenebre del Medioevo. Della regressione.
Democrazia: la parola evoca ancora sentimenti novecenteschi: la lotta contro la dittatura, contro il nazifascicomunismo, contro il nazionalismo, l’egoismo. In bocca a tali mascheroni, però, essa significa qualcosa di irriducibilmente diverso: democrazia è anomia, negazione della legge e della regola, della morale e dell’etica e del passato storico. In nome dell’oligarchia antipopolare e, in futuro, della monarchia plutocratica universale. “Democrazia” è, infatti, l’esatto contrario di “democrazia”. Le parole son sempre quelle, ma oggi custodiscono la loro negazione, il ribaltamento truffaldino dell’etimologia. Si crede di vedere un mirabile quadro secentesco, ma quella è una copia volgarissima, approntata dal falsario su commissione del ladro: l’originale è stato trafugato ed esorna le pareti di qualche salottino miliardario.
“Un successo dal punto di vista dello spettacolo (15 minuti di applausi), degli incassi (2.532.701 euro), della partecipazione del pubblico (1.888 i fortunati in sala, tanti di più quelli della Prima diffusa). L’Attila di Giuseppe Verdi ha conquistato la Scala, ma gli applausi, scroscianti, hanno interessato in egual misura gli artisti e l’ospite principale della serata, il presidente della Repubblica Mattarella che al direttore Riccardo Chailly … E la cultura ha vinto anche negli ascolti televisivi che hanno premiato l’opera trasmessa in diretta su Rai 1: gli spettatori sono stati quasi due milioni. Più esattamente, a vedere la trasmissione di Rai Cultura è stato 1 milione 938 mila con uno share del 10,8%. Si tratta di un risultato solo leggermente inferiore ai 2 milioni 77 mila spettatori che hanno seguito lo scorso anno Andrea Chénier, nonostante Attila sia uno dei titoli meno popolari di Verdi”.
Un successone, insomma. Un tale successo che gli spettatori, rispetto allo scorso anno, sono calati. Di 139.000 unità. Come sempre sorge alle labbra una domanda: se due milioni scarsi erano abbacinati dall’Attila, gli altri 58 abbondanti dov’erano? Se ne fregavano. E poiché la piattaforma RAI ha una visibilità estesa oltre i confini nazionali, un malintenzionato potrebbe persino arguire che il menefreghismo aveva a travalicare le centinaia di milioni di unità (di menefreghisti). Basti pensare che Sereno Variabile, onesta e nazionalpopolare rassegna di eccellenze italiane, conta, all’estero, come cicala un periodico, “35 milioni di spettatori”. Solo all’estero: 33 in più dell’Attila.
I Democratici della Scala (tutti: dagli ex rifondatori del comunismo ai gilet gialli della Confindustria) non si fermano, però, di fronte ai dati, questi brutali numerini. Se i dati non danno loro ragione li addomesticano alla ragione: come i sondaggi dei craxiani negli anni Ottanta. Chi è il vostro statista preferito? Il 18% ha detto “Bettino Craxi”, l’1% non ha fatto motto, l’81% ha sbagliato risposta. I dati devono dar loro ragione poiché, loro, la ragione se la portano in tasca. Loro sono la ragione tanto da fargli scegliere un titolo, Attila, proprio per denigrare i barbari politici. I Democratici alla Scala, come detto, non sono certo del PD; sono il patriziato italiano che ho descritto varie volte; interconnesso, trasversale, meschino; una lampreda che continua a succhiare le ultime risorse pubbliche della nazione. Perché lì, alla Scala, il collante è il soldo pubblico: il soldo pubblico dei barbari, soprattutto, quelli che, quando accendono la luce, pagano la luce della Scala; per intenderci. Gli spettatori nell’ultimo rifugio della democrazia vantano una ideologia unica, mutuata integralmente dalla sinistra psicopatica: sono bifronti: da una parte credono davvero di essere un argine alla barbarie (i razzisti! i populisti! gli antieuropeisti!); dall’altra sanno che il soldo dei barbari (il soldo pubblico, dell’erario, insomma, delle tasse, delle imposte, delle razzie annuali di IVA, 730, Unico) è la cornucopia a cui attingere.
Una cornucopia che si accresce grazie (anche) all’annichilazione della vera cultura, della scuola, dell’università. La scuola, soprattutto, devastata decreto dopo decreto, legge dopo legge, ridotta a una serie di locali pubblici in cui imbonire dei poveri semianalfabeti. Aule in cui il Natale diviene la Festa del Gelo e dove l’ignoranza di ciò che si è, in nome della bontà, viene declinata giorno dopo giorno, con feroce assiduità. Diciottenni che confondono Attila con Ghengis Khan, Verdi con un centrocampista del Napoli, i Bizantini con i Turchi e i Turchi con i Troiani sono il nucleo fondante degli ammiratori di un altro spettacolo: Sfera Ebbasta. Un imitatore della sottocontrocultura dei bassifondi metropolitani americani: a tanto si è arrivati, a forza di confondere “è” con “e’”; i mandanti erano tutti alla Scala, grassi e lustri, pur vittime, essi stessi, della deculturazione imposta al Paese che si piccano di amministrare con fare illuminato. La tragedia della morte di sei persone, ovviamente, qui non interessa; così come il bilancino delle responsabilità. A interessare è il milieu in cui tale tragedia si è verificata. Mille ragazzini a gustare e apprezzare la scolatura di una tendenza sottoculturale nichilista (il rap gangsta-coatto) già putrefatta negli anni Novanta. Lo posso affermare con sicurezza, quale ammiratore dei primissimi rapper (Public Enemy, Afrika Bambaata, Run DMC), la Old Skool a cavallo fra Settanta e Ottanta, e denigratore dei successivi cicalatori, al soldo delle majors e già ampiamente normalizzati. In tutta questa storia, che induce persino al pianto, voglio estendere il mio appoggio a Sfera Ebbasta, incolpevole latore della dissoluzione, una foglia secca recata via dal vento apocalittico, fra le macerie calcinate di ciò che fummo.
A tutte queste considerazioni si può aggiungere una sensazione che, ogni volta che compulso gli articoli autocelebranti del patriziato, mi attanaglia: la piccineria. La puerilità della classe dirigente. La superficialità. Il giudizio sciocco. La sterilità monodimensionale. La ritenutezza della visione storica. Il feroce abbarbicamento alle proprie isole di potere. La mancanza d’ogni sapere sorgivo. L’angustia delle menti, la stupidità eretta a sistema, la fallacia delle argomentazioni logiche.
Dichiarazioni di raggelante meschinità, da ogni parte politica, come se l’opera di uno dei maggiori musicisti italiani costituisca l’arengo e il pretesto di una depravata supponenza.
L’Attila come spunto per la polemica di partito (Attila leghista! No, Attila autonomista! Attila che governa a lungo, a differenza di voi! Attila barbaro come gli antimmigrazionisti!), per uno scontro (peraltro falso: sono tutti attori, come testimonia l’incontro, affabile, fra ministri del Tesoro dell’attuale governo, dello scorso governo e del peggior governo tecnico che l’Italia abbia mai avuto) fra i (presunti) lumi del mondialismo e le tenebre della regressione nazionalista. Uno sconcio deprimente, un uragano di cretineria: da cui Giuseppe Verdi e Attila sono avvinti, loro malgrado.
Fra le spire di cotanta bolgia ecco far capolino un tizio che i controinformatori hanno voluto fortemente alla RAI. A far cosa? E chi lo sa. Poteva rifiutarsi di partecipare? Certo. Ma era lì. A testimoniare, di grazia? Probabilmente l’asineria di chi ancora crede a tali miracoli. Tutte le volte che osservo questi ritrovati della controcultura che, in pochi mesi, divengono araldi dell’unica cultura concessaci, la memoria richiama con vividezza alcuni nomi: il Mascetti, il Necchi, il Sassaroli, il Perozzi. Amici miei, atto secondo.
Renzo Montagnani, il Necchi, è fatto becco dalla moglie, tanto che si ritrova nelle tasche la patente del cornificatore. Medita, perciò, vendetta. I vitelloni suoi amici, una parodia delle belle brigate trecentesche, si divertono un mondo. Uno, Adolfo Celi mi pare, gli sussurra: “La vendetta è un piatto che va mangiato freddo!”; e un altro, forse il Mascetti, consiglia sfottente: “Attento! Sii astuto come un cervo!”. Al che Montagnani gli fa: “O che tu dici? Il cervo non è mica astuto!”. E l’altro: “Però ha le corna!”. Voi direte: ma che c’entra? Non lo so, ma a vedere questi rivoluzionari sedati, belli floridi, sedati e ora seduti, comodamente in poltrona, locupletati con i soldi di chi accende la luce nel suo monolocale da controinformatore, mi ritorna in mente l’astutissimo cervo Montagnani. Il nesso trovatelo voi.
Al Canuto Coagulo della Nazione, difensore del Bene e della Luce contro il Male, chiedono se gli sia piaciuto il primo atto. “Molto”, risponde Quello, con cortesia istituzionale e liquidatoria. Un giudizio, acuto e circostanziato, vivido d’amor di Patria, da cui trapelano, innegabili, la passione e la devozione per le creazioni degli Ottimi d’Italia.
La medesima risposta la diedi a una bimba, qualche tempo fa, quando mi preparò, in un miniforno che le avevo donato, alcune frittelle. Informi e bruciacchiate, con cristalli di zucchero raggrumati e un’anarchica rigatura rossa di sciroppo; sicuramente artigianali, però, e servite con dovizia di tovaglioli e amore. “Ti piacciono le frittelle?”, mi chiese. “Molto”, le dissi; e, in questo caso, era vero.
Se avessero domandato a Groucho Marx: “Le è piaciuto il primo atto?”, egli avrebbe risposto: “Neanche un po’!”. Con sincerità. Groucho era ebreo e la denigrazione dell’opera lirica rientrava nelle sue corde culturali. In Una notte all’opera (A night at the Opera, 1935: egli impersona l’immortale Otis B. Driftwood) si diverte a sabotare il Trovatore di Verdi: vende noccioline fra il pubblico, fa le boccacce a tenori e soprano, improvvisa discorsi sconclusionati dalle balconate, fa calare sipari incongrui; Chico e Harpo, dal canto loro, si limitano a suonare un trombone con l’archetto, a giocare a baseball fra gli orchestrali e irrompere in scena vestiti da zingare.
La devastazione dell’opera lirica più definitiva ed esacerbata appartiene, però, a Carlo Emilio Gadda. Le dieci paginette di Teatro (1927), ne La Madonna dei filosofi, sono una fucilazione senza appello di una rappresentazione (scalcagnata) dai toni rossinian-verdiani. Ho letto quelle pagine centinaia di volte e per cento volte ho riso. L’umiliante presa per i fondelli del direttore d’orchestra, delle scenografie o della tronfia versificazione dei libretti d’opera, irta di “orsù” e “Ahi, lassa”, e recitata “sbraitando sull’impiantito”, tocca vertici atrabiliari: “[I cantanti] presero a delirare tutti in una volta … urlavano a perdifiato le più roboanti stravaganze, le più imprevedibili assurdità, senza muoversi, senza guardarsi, rossi, gonfi, turgidi le vene del collo, il mastoide indaffarato come un ascensore … e come rivolti al nulla e a nessuno; e come assolti da ogni riferimento alla realtà delle cose. Ogni faccia, maschera della follia, defecava la sua voce totale nella cisterna vuota dell’insensatezza”. E cosa pensa, capitano Gaddus, del terzo atto? “Non ne ho afferrato compiutamente lo spirito informatore poiché, durante la prima parte, mi accadde ciò che non mai altra volta, al cospetto di un capolavoro del genio umano: mi appisolai. Tentarono le bombe orchestrali di strapparmi al
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CONFLITTI GEOPOLITICI
Cosa si nasconde dietro l’attacco Usa agli smartphone cinesi.
www.altreinfo.org – Manlio Dinucci – 7 dicembre 2018
Il tentativo di Donald Trump di riequilibrare i flussi commerciali sino-statunitensi non è funzionale soltanto alla volontà di riportare negli Stati Uniti i posti di lavoro persi con la delocalizzazione. Le nuove infrastrutture di trasporto e di comunicazione cinesi sono una minaccia sempre più incombente per la posizione di leader mondiale degli Stati Uniti. Il braccio di ferro per Huawei mostra come preoccupazioni economiche e preoccupazioni militari si congiungano. Già diversi Stati hanno constatato che Washington non è per il momento in grado di decodificare gli strumenti Huawei, così, come già in Siria, hanno riequipaggiato completamente i loro servizi d’intelligence con tecnologia prodotta dal leader cinese delle telecomunicazioni e vietato ai funzionari di usarne di tipo diverso.
Dopo aver imposto pesanti dazi su merci cinesi per 250 miliardi di dollari, il presidente Trump al G-20 ha accettato una «tregua» posticipando ulteriori misure, soprattutto perché l’economia Usa è colpita dalla ritorsione cinese. Ma oltre alle ragioni commerciali ci sono quelle strategiche. Sotto pressione del Pentagono e delle agenzie di intelligence, gli Usa hanno bandito gli smartphone e le infrastrutture di telecomunicazioni della società cinese Huawei, con l’accusa che possono essere usati per spionaggio, e premono sugli alleati perché facciano altrettanto.
Ad avvertire soprattutto Italia, Germania e Giappone, paesi con le più importanti basi militari Usa, sul pericolo di spionaggio cinese sono le stesse agenzie Usa di intelligence che hanno spiato per anni le comunicazioni degli alleati, in particolare Germania e Italia. La statunitense Apple, un tempo leader assoluta del settore, è stata scavalcata come vendite dalla Huawei (società di proprietà degli impiegati quali azionisti), piazzatasi al secondo posto mondiale dietro la sudcoreana Samsung.
Ciò è emblematico di una tendenza generale. Gli Stati uniti – la cui supremazia economica si basa artificiosamente sul dollaro, principale moneta finora delle riserve valutarie e dei commerci mondiali – vengono sempre più scavalcati dalla Cina sia come capacità che come qualità produttiva.
«L’Occidente – scrive il New York Times – era sicuro che l’approccio cinese non avrebbe funzionato. Doveva solo aspettare. Sta ancora aspettando. La Cina progetta una vasta rete globale di commerci, investimenti e infrastrutture che rimodelleranno i legami finanziari e geopolitici». Ciò avviene soprattutto, ma non solo, lungo la Nuova Via della Seta che la Cina sta realizzando attraverso 70 paesi di Asia, Europa e Africa.
Continua qui: https://www.altreinfo.org/attualita/21135/cosa-si-nasconde-dietro-lattacco-usa-agli-smartphone-cinesi-manlio-dinucci/
A chi giova la nuova crisi tra Russia e Ucraina?
5 dicembre 2018 di Gianandrea Gaiani
Resta alta la tensione tra Russia e Ucraina a oltre una settimana dall’incidente nel Mare d’Azov in cui tre piccole imbarcazioni ucraine sono state fermate e catturate con i 24 uomini d’equipaggio dopo uno speronamento dalle unità navali di Mosca.
Un incidente cercato a tutti i costi dagli ucraini secondo Mosca (ma anche secondo alcuni osservatori non certo filorussi a Kiev), frutto invece della pretesa del Cremlino di avere il controllo dello Stretto di Kerch secondo le valutazioni del governo ucraino che non riconosce l’annessione della Crimea da parte di Mosca avvenuta a seguito di un referendum nel 2014 dopo che la penisola strategica (piena di basi aeree e navali russe) era stata ceduta dalla Russia all’Ucraina durante l’epoca dell’Unione Sovietica.
Il presidente ucraino Pedro Poroshenko, che ha ottenuto dal parlamento l’instaurazione della legge marziale ma solo nelle province che confinano con la Russia, ha accusato Mosca di schierare lungo il confine “oltre 80mila soldati, 1.400 sistemi di artiglieria e lanciarazzi, 900 carri armati, 2.300 veicoli da combattimento corazzati, 500 aerei e 300 elicotteri”. Se confermati, questi numeri rappresenterebbero la maggior parte di uomini e mezzi del Distretto militare occidentale della Russia ma è improbabile che Vladimir Putin cerchi la guerra aperta con Kiev.
Tra le iniziative da clima di guerra assunte dall’Ucraina c’è anche il divieto di ingresso nel Paese di cittadini russi tra i 16 e i 60 anni, cioè “in età da soldato”, con oltre 600 respingimenti alla frontiera negli ultimi giorni .
“Credo che il tempo delle dichiarazioni politiche di principio sia finito” – ha detto Poroshenko al Corriere della Sera sottolineando “la minaccia russa ai confini dell’Europa e della Nato.
“Se si vuole normalizzare la situazione, occorre essere molto chiari con le autorità di Mosca: l’aggressione contro l’Europa è inaccettabile, un nuovo incidente non sarà tollerato e la prossima mossa aggressiva non farà altro che alzare il prezzo pagato dalla Russia.
Per esempio, blocchiamo il progetto del North Stream 2 (che porterà il gas russo in Germania attraverso il Mar Baltico bypassando l’Ucraina-ndr), aumentiamo la presenza Nato nel Mar Nero, imponiamo nuove sanzioni contro i responsabili della crisi nel Mare di Azov, vengano bandite le navi russe dai porti europei, venga sostenuta l’Ucraina politicamente, economicamente e militarmente. Sarebbe una formula vincente”.
Al di là delle dichiarazioni di solidarietà all’Ucraina e di fermezza mei confronti di Mosca né la Nato né la Ue sembrano disposte a farsi trascinare in un’escalation della tensione con la Russia. Il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, ha definito l’atteggiamento russo “destabilizzante” della Russia” mentre la Commissione europea ha approvato un nuovo finanziamento di 500 milioni di euro all’Ucraina nell’ambito del nuovo programma di assistenza macro-finanziaria. Con questa erogazione, l’assistenza finanziaria dell’Unione all’ Ucraina dal 2014 raggiungerà i 3,3 miliardi di euro.
L’impressione è che l’incidente nel Mare d’Azov avesse l’obiettivo di coinvolgere direttamente l’Europa e l’Alleanza Atlantica nella crisi militare che riguarda il Donbass in mano alle forze ucraine filo russe e il controllo delle aree costiere ucraine che si affacciano sul Mare d’Azov, ormai a tutti gli effetti un “mare russo” specie dopo la costruzione del ponte che unisce la penisola di Taman alla Crimea.
Le accuse rivolte in un’intervista ai media tedeschi da Poroshenko a Mosca per un supposto piano che miri a conquistare le città di Mariupol e Berdyabnsk, sul Mare di Azov, per “creare un corridoio” tra le regioni orientali separatiste ucraine del Donbass e la Crimea. sono state definite “assolutamente assurde” dal portavoce del Cremlino, Dmitri Peskov che ha denunciato un “altro tentativo di arrivare a un’escalation delle tensioni”.
I termini dello scontro nel Mare d’Azov sono infatti tali da consentire un prolungato innalzamento della tensione utile a molti protagonisti ma non certo a Putin:
Con la legge marziale Poroshenko può cercare di cementare i suoi consensi in calo attuando uno stretto controllo di polizia sulle opposizioni (soprattutto nelle regioni russofone dell’est) e giocando la carta del patriottismo, come
Continua qui: https://www.analisidifesa.it/2018/12/a-chi-giova-la-nuova-crisi-tra-russia-e-ucraina/
Le carenze militari degli USA: essere i più costosi non significa essere i migliori
ilprimoraggio.wordpress.com – Andrej Akulov SCF 29.11.2017
Andrej Akulov SCF 29.11.2017L’aumento delle spese militari è una delle principali promesse della campagna presidenziale del presidente Trump. La spesa fiscale per la difesa 2018 presentata dal comitato congiunto Camera-Senato arriva a 692 miliardi di dollari, inclusi 626 miliardi per le spese di base e 66 per il fondo per le Overseas Operations (OCO). Ci sono altre spese relative ad altre agenzie di sicurezza, che superano i 170 miliardi. Includono l’Amministrazione nazionale per la sicurezza nucleare del dipartimento per l’Energia, il dipartimento per gli Affari dei veterani, il dipartimento di Stato, la Sicurezza nazionale, l’FBI e la sicurezza informatica del dipartimento di Giustizia. Le spese per la difesa rappresentano quasi il 16% di tutte le spese federali e la metà delle spese discrezionali. Gli Stati Uniti spendono di più per la difesa nazionale degli altri otto maggiori bilanci nazionali per la difesa del mondo: Cina, Arabia Saudita, Russia, Regno Unito, India, Francia e Giappone. Le discussioni sulla necessità di aumentare le spese militari sono una questione popolare. È opinione diffusa che gli Stati Uniti siano la potenza militare più formidabile che il mondo abbia mai visto. Senza dubbio, la potenza militare statunitense è grande, ma le loro forze armate non sono impeccabili. I piani di costruzione incontrano molti ostacoli. Ci sono punti deboli abbastanza gravi da mettere in dubbio l’efficacia degli attuali programmi di difesa e la preparazione al combattimento dei militari, sia in una guerra nucleare che convenzionale. Alcuni esperti sostengono che un primo attacco statunitense eliminerebbe la maggior parte della capacità di secondo attacco della Russia, con un numero limitato di missili nucleari da lanciare per rappresaglia bloccati dalla difesa antimissili balistici. Non vale la pena entrare nei dettagli. Anche se missili nei silo e sottomarini nucleari lanciamissili balistici strategici (SSBN) ormeggiati nelle basi venissero messi fuori combattimento, gli SSBN e gli aerei strategici russi di pattuglia si vendicherebbero, infliggendo danni inaccettabili. Il rischio c’è sempre ed è imprevedibile. Nessuno sano di mente ci proverebbe. In effetti, esiste la minaccia rappresentata dai missili da crociera a lungo raggio basati in mare e aria e dai bombardieri stealth B-2. Ma “alcuni” non bastano per un primo attacco. Se il nemico mantiene la capacità d’infliggere danni inaccettabili con un attacco di rappresaglia, la capacità limitata di colpirlo per primo è inutile. Inoltre, la velocità dei vettori è relativamente lenta e il rilevamento tempestivo è impossibile da evitare. Molta fuffa viene sollevata dal concetto Prompt Global Strike (PGS): la capacità d’attacco aereo convenzionale mirato in qualsiasi parte del mondo entro un’ora. Nessuna arma del genere è all’orizzonte nonostante gli sforzi finora applicati. Con spese per la difesa molto più ridotte, la Russia guida la corsa. La tecnologia delle armi ipersoniche “Boost Glide” presuppone l’uso di missili balistici o bombardieri, che verrebbero rilevati. Il PGS lanciato con alianti verrebbe avvistato provocando la rappresaglia nucleare. Gli Stati Uniti in realtà commetterebbero un suicidio colpendo la Russia con armi convenzionali innescando la risposta nucleare. Il primo missile d’attacco rapido convenzionale della Marina degli Stati Uniti fu testato il 30 ottobre. L‘US Navy iniziò a studiare il missile balistico a raggio intermedio lanciato da sottomarini (SLIRBM) per adempiere alla missione PGS intorno al 2003. Ma compiva la prima prova 13 anni dopo! E il vettore era un missile balistico. Viene confermato dal Cmdr. Patrick Evans, portavoce del Pentagono, che dichiarava: “Il test ha raccolto dati sulle tecnologie di spinta cinetica ipersonica e sulle prestazioni sperimentali nel volo atmosferico a lungo raggio“. Quindi, tecnologia che prolunga il volo. Il passaggio dai missili balistici a quelli ipersonici con traiettoria da crociera sin dall’inizio, per evitare che l’avversario confonda un missile balistico convenzionale con un missile nucleare, è ancora un sogno irrealizzabile. Non c’è nulla di testato finora. Il concetto PGS non potrà piegare la Russia. Colpire gruppi di terroristi con armi costose e sofisticate è delirante; non sono obiettivi per cui sprecare queste costose armi. E il principio del rapporto costo-efficacia? Ad ogni modo, dopo un grande sforzo, il programma PGS offre poco di cui essere orgogliosi, almeno per ora.
Il Congresso ha stanziato 190 miliardi di dollari per i programmi di difesa contro i missili balistici (BMD) dal 1985 al 2017. Per quasi due decenni, gli Stati Uniti hanno cercato di acquisire la capacità di proteggersi da limitati attacchi missilistici a lungo raggio. Alcuni risultati sono stati evidentemente esagerati. Sono disponibili capacità molto limitate contro missili non sofisticati e senza alcun rapporto con l’arsenale di Russia o Cina. In realtà, nulla è riuscito per poter parlare seriamente di reali capacità BMD. Il laser aerotrasportato YAL-1 è un esempio di sforzo costoso fallito. Il laser da 5 miliardi è in deposito. Il MRAP (Veicolo protetto contro le mine) è un altro esempio di fallimento. L’investimento di quasi 50 miliardi nel MRAP non ha senso. I veicoli pesantemente protetti non sono più efficaci nel ridurre i danni dei veicoli corazzati medi, sebbene siano tre volte più costosi. Molti veicoli MRAP sono stati consegnati a forze partner o venduti per rottamarli. Lo Stryker è la spina dorsale dell’esercito. Dopo anni di servizio, non ha ancora potenza di fuoco e protezione. Stryker sono andati persi in Afghanistan, dove il nemico non aveva blindati, aviazione, artiglieria o armi anticarro efficaci. Il veicolo ha uno scafo sottile. Uno Stryker è inutile contro un carro armato. Non è progettato per manovrare contro altri veicoli da combattimento ed è destinato a essere sconfitto dal nemico. Non ha protezione antiaerea. A cosa serva è una domanda senza risposta. L’esercito statunitense è scarsamente protetto dalle minacce aeree. Il THAAD è buono solo per la difesa missilistica, non per la difesa aerea. Il Patriot PAC-3 è destinato a contrastare missili balistici e da crociera tattici. Ha una capacità molto limitata contro gli aerei. PAC-1 e PAC-2 compatibili con gli aeromobili sono stati aggiornati nella variante PAC-3 e venduti all’estero. Non sono rimasti che gli Stinger portatili a corto raggio, con una gittata di 8 km e una quota massima di 4 km. Questo è uno svantaggio molto serio che rende le truppe estremamente vulnerabili ai raid aerei.
La nave da combattimento litoranea della Marina (LCS) è una classe di navi di superficie relativamente piccole destinate alle operazioni nel litorale (vicino le coste). Era destinata ad agire da nave agile e furtiva in grado di eliminare minacce antiaccesso e asimmetriche nei litorali. Il mese scorso, i costruttori navali Austal e Lockheed Martin ricevettero 1,1 miliardi per costruirne due. Sviluppo e costruzione di questa classe di navi sono afflitti dai costi. Le LCS sono afflitte anche da numerosi problemi, tra cui fratture strutturali, guasti del sistema informatico, fusione dei gruppi elettrogeni, tubi che scoppiano, problemi di propulsione ed errori di trasmissione potenzialmente disastrosi. E per giunta, gli ufficiali sono scettici sull’efficienza in combattimento. L’anno scorso, il presidente del comitato dei servizi armati del Senato John McCain criticò il programma, affermando che ben 12,4 miliardi di dollari sono stati sprecati dal dipartimento della Difesa degli Stati Uniti per 26 navi da combattimento litoranee prive di capacità di combattimento. Secondo il direttore del test operativo e di valutazione del Pentagono, J. Michael Gilmore, alcuna delle due varianti LCS ora costruite da appaltatori concorrenti sopravviverebbe in combattimento, un fatto che mina l’intero concetto operativo della classe. È improbabile le LCS possano adempiere ai requisiti della difesa aerea della Marina. La nave è equipaggiata per
CULTURA
La differenza tra rivolta e rivoluzione…c’è e si vede.
10 SETTEMBRE 2011 di Giandiego Marigo
C’è un enorme differenza fra Rivolta e Rivoluzione, pur senza scomodare le acquisizioni bolsceviche sul termine e sulla differenza, che pure hanno avuto, ed hanno più che qualche cosa da dire in proposito.
Una rivolta è un moto più o meno spontaneo che in genere si incanala ora su questo obbiettivo ora su quello, a volte invece su nessuno, girando intorno a sé stessa infuriata e feroce come un cane che cerca la propria coda, senza una connotazione precisa, legata ad un rabbia non meglio identificata…ed arde di fuoco vivissimo, pericoloso e violento, ma breve e tutto sommato privo di molto costrutto.
Quasi sempre utile al potere per inasprire controllo e repressione.
Se chiedete a qualsiasi vostro amichetto un po’ comunista cosa sia una rivoluzione, bhè ascoltandolo, al di là della possibilissima retorica, coglierete certamente la differenza.
La rivoluzione è atto cosciente, direzionale, preciso, organizzato e non necessariamente violento. Quanto meno nel suo concetto più esteso e moderno.
Nonostante gli equivoci e le sovrapposizioni fra i due termini siano moltissime ed anche se le esperienze sino ad oggi in qualche modo ci dicono che le rivoluzioni pacifiche sono rare (quasi sempre il potere non è disponible con facilità allo stravolgimento).Bisogna pur dire che il fenomeno del rivolgimento del paradigma in modo “non violento” è cosa riuscita meglio nell’ultimo scorcio di secolo, piuttosto che prima…il che deporrebbe per la possibilità dell’uomo di salvarsi.
Se non fosse che questo primo scorcio del terzo millennio, forse proprio per rintuzzare l’acquisita intelligenza empatica dei rivoluzionari, si apre sotto un cupissima e oscura cappa di paura.
Che non predispone e non facilita essuna soluzione pacifica.
Il Potere è assolutamente… “In Campana”,pronto e vigile su queste tematiche, che anzi sono il principale obbiettivo della sua “disinformazia” e della ovvia“manipolazione mentale e culturale”. Perchè diciamocelo al potere convengono non una, ma mille rivolte, mentre lo spaventa moltissimo anche una sola piccollissima rivoluzione.
Loro hanno bisogno di mille “Masaniello”, di migliaia di rivolte per il pane, farebbero la firma per qualche saccheggio e qualche “esproprio proletario”.
Tutto questo è previsto, sono pronti a reagire, pronti ad “usare” appropriatamente il fenomeno…anzi lo fomenteranno, perchè sarà utile ad instaurare insicurezza, paura…sarà il trucco perchè i benpensanti (pur ridotti alminimo necessario) chiedano proprio a loro la protezione di cui sentiranno sempre maggiore necessità e saranno disposti a pagarla al loro prezzo.
Stanno già facendo le prove, guarda caso in quell’Inghilterra teatro di una “rivolta”,chissà come mai. Negli ultmi tempi nel regno unito sono aumentati in modo pericolosamente esponenziale i senza tetto. Sempre più gente si aggira per le strade, senza casa, problematica che sta raggiungendo anche gli States.
Qual’è la risposta della “culla della civiltà occidentale?”, molto semplice, la criminalizzazione della povertà! Ci si propone di mettere fuori legge gli Homeless, proprio sulla scorta dei recentissimi scontri viene reputato “pericoloso” per il “paese reale” l’aumento di questi nullafacenti, parassiti…rien ne va plus les jeux sont faits.
Cosa ne faranno?
Come applicheranno questa nuova legge?
Respingeranno seguendo la moda maroniano-italiota gli stranieri, ma poi? Molto più del 50% di questi “poveri” sono britannici…li chiuderanno in Campi di Lavoro ed Accoglienza?
Ed andiamo a chiudere perché in fondo l’importante per chi scrive era chiarire la differenza e non per spirito polemico, ma per dare il proprio contributo alla discussione
Molti, moltissimi, sinceramente sin troppi “indignados” dell’ultima ora invocano rivoluzioni e sollevazioni popolari sulla rete…per carità io sono convinto che sia necessaria una risposta popolare e di massa tesa a “mettere a posto le cose”.
Auspicherei una bella Rivoluzione se davvero ne vedessi i segnali, ma non li vedo.
Quel che vedo sono molti neo-leader improvvisati ed autoeletti che dicono parole che non capiscono, di cui non ragionano la portata.
O peggio intellettuali ottimamente remunerati che abusano di termini esponendo
Continua qui: http://neuroniattivi.blogspot.com/2011/09/la-differenza-fra-rivolta-e.html
Quel che devo al passato (Mysterium Iniquitatis)
Roma, 30 novembre 2018
Sto leggendo L’ordine del tempo, di Carlo Rovelli.
Rovelli è uno scienziato che nega il tempo: tale quantità, il tempo, su cui si sono affaccendate le migliori menti dell’umanità è, infatti, assente nelle equazioni fondamentali della fisica. Tale convinzione, basata su decenni di ricerche ed esposta con una prosa accessibile a chiunque, qui, tuttavia, non interessa.
Ciò che interessa risiede a latere, in una increspatura, pur importante, del suo discorso.
Ciò che m’interessa è questo: l’immane volgersi della materia e dell’universo non è che la traslitterazione, in gergo tecnico e divulgativo, della favola decadente dell’uomo.
Per quanto possa apparire ardito, sconsiderato e folle, insomma, intravedo, in tali innocenti paragrafi, stilati da chi vive in mondi controintuitivi e di vastissima astrazione (mondi per uomini intelligenti, quindi), la parabola di distruzione della civiltà occidentale classica che, lo si voglia o no, col proprio corteo di terrori e magnificenze, ha strutturato la storia della conoscenza tutta.
Leggiamo: innocenti parole:
“Se nient’altro intorno cambia il calore non può passare da un corpo freddo a uno caldo … Questa legge enunciata da Clausius è l’unica legge generale della fisica che distingue il passato dal futuro …
Il legame tra tempo e calore è dunque profondo: ogni volta che si manifesta una differenza tra passato e futuro, c’è di mezzo del calore.
Clausius introduce la quantità che misura questo irreversibile andare del calore in una direzione sola, e – tedesco colto – le affibbia un nome preso dal greco, entropia …
L’entropia di Clausius è una quantità misurabile e calcolabile, indicata con la lettera S, che cresce o resta eguale, ma non diminuisce mai, in un processo isolato. Per indicare che non diminuisce, si scrive:
ΔS≥0
Si legge: ‘Delta S è sempre maggiore o eguale a zero’ e questo si chiama ‘secondo principio della termodinamica’ … è l’equazione della freccia del tempo”.
Perché non applicare il dispiegarsi di tale equazione – fisica – alle leggi morali, alla storia, al pensiero, alla spiritualità; a ciò che, oggi, sta avvenendo? All’Italia?
Leggiamo ancora: innocenti parole:
“L’agitazione termica è come un continuo mescolare un mazzo di carte: se le carte sono in ordine, il mescolamento le disordina. Così il calore passa dal caldo al freddo e non viceversa: … per il disordinarsi naturale del tutto … se le prime 26 carte di un mazzo sono tutte rosse e le successive tutte nere, diciamo che la configurazione delle carte è particolare …. ordinata … una configurazione di bassa entropia”.
Traslitteriamo tutto questo a livello etico e umano; parleremo, quindi, della configurazione speciale chiamata umanità; e di quella particolare concrezione millenaria, la civiltà occidentale, di cui oggi ci si vergogna persino a reclamare l’appartenenza.
È la bassa entropia, ovvero l’alta organizzazione, “a trascinare la grande storia del cosmo”. Rovelli fa l’esempio di una catasta di legna. Un insieme ordinato, apparentemente stabile. Poi la legna brucia, la combustione dissolve i legami di carbonio e idrogeno, subentra la massima entropia, relativamente a quell’organizzazione di materiale: ecco il cumulo di cenere. “Una catasta di legna è uno stato instabile, come un castello di carte, ma finché non arriva qualcosa a farlo crollare, non crolla”.
La catasta di legna è l’etica, la tradizione, l’arte, persino la morale spicciola, la comunità. È instabile poiché artificiale: una santa menzogna. Ma è stata voluta, per resistere.
Immaginiamo una foresta selvaggia. Si creano, con l’esperienza, uomini in grado di ridurla a sé stessi, di addomesticarla, di sublimare quell’intrico a ordinate cataste di legna. Tali uomini distillano un sapere, lo tramandano. Cos’è quella foresta? Sono istinti di autodistruzione, voglia di ritornare all’Indifferenziato, di lacerare sé stessi nell’indistinto. L’uomo, tuttavia, vuole vivere ed escogita le proprie cataste di legna, rendendo appetibile e bello e santo e ordinato ciò che permette una vita ricca e multiforme, felice e disperata: nascono l’arte, la morale, la religione, colpa, peccato, guerra, redenzione, odio, la profonda malinconia.
Gli spiriti dell’uomo, primevi, selvaggi e scatenati come quella foresta primordiale, rorida di humus proliferanti, vengono ricondotti a un nuovo ordine: tale fu il compito delle religioni e dell’organizzazione morale delle società tutte; nonché dell’Artista e del Sapiente.
Solo una mano demoniaca che accende una fiamma può recare quel che si è prodotto alla massima entropia, alla cenere, al nulla.
Il Santo, l’Artista e il Sapiente impediscono all’uomo di perdersi nel buio della foresta interiore. Ne riconoscono, certo, la vitalità indistruttibile: le ramaglie intricate testimoniano di una lotta continua, incessante, in cui il grande vive a spese di ciò che è minuto, e il brulichio dell’invisibile si vendica di ciò che lo sovrasta, insidiandolo senza soste; le acque vivificano e corrodono al tempo stesso, animali indifferenti si nutrono di pienezze e marcescenze, grufolano, distruggono, si moltiplicano divenendo, poi, essi stessi fonte di vita. Da tale vitalità occorre, però, distaccarsi per individuare dei punti fermi, solari, indistruttibili; riferimenti, meridiane, clessidre, mappe, segnature eterne.
Dalle rocce l’Artista scolpisce una statua o delinea una immagine imperitura, che sugge la vita da un simbolismo inesauribile; il Santo trae una legge interiore; il Sapiente la cauta elaborazione di una via tra la natura e l’uomo: dell’uomo stretto fra dionisiaco (l’indifferenziato) e apollineo (la misura). Il dionisiaco è la fonte occulta, l’apollineo la splendida menzogna che lega alla cattività il troppo, lo smisurato, la hybris. Una civiltà sana si nutre accortamente delle fonti dionisiache, le circonda di mille cautele e tabù, ne viene temporaneamente ferita, quindi si distacca e cura la ferita elaborando arte, morale, istituzione.
“Impedimenti che ostacolano e quindi rallentano l’aumento dell’entropia sono ovunque nell’universo”.
L’Occidente è stato questo impedimento. La classicità e il Cristianesimo sono stati davvero il katechon – la catasta di legna – della caduta nell’indifferenziato, nel demoniaco. Le si giudichi come ognuno vuole. Bruciare l’immane tradizione occidentale equivale a terminare l’umanità.
Si sostituisca “alta entropia” con “dissoluzione” e “perdizione” o “impedimento” con “katechon”: troverete la formula per comprendere la disfatta dei tempi. Un teologo oppure un fisico usano metafore diverse per parlare dell’identico destino: alta entropia, Lucifero, indifferenziato, istinto di morte freudiano si equivalgono.
La scienza è un linguaggio; la religione un altro linguaggio; entrambi non sono che riflessi d’un medesimo racconto.
Continua Rovelli: “Quello che … scrive la storia del mondo è l’irresistibile mescolarsi di tutte le cose, che va dalle poche configurazioni ordinate alle innumerevoli configurazioni disordinate. L’universo intero è come una montagna che crolla pian piano. Come una struttura che si sfalda gradualmente. Dagli eventi più minuti ai più complessi, è questa danza di entropia crescente, nutrita dalla bassa entropia iniziale del cosmo, la vera danza di Siva, il Distruttore”.
La resurrezione a Sansepolcro, il Digesto giustinianeo, le architetture romaniche di Tuscania, un divieto, il Saggiatore di Galilei o la mathesis cartesiana – sono tutti geniali coaguli contro il nulla; configurazioni ordinate,
Continua qui: http://alcesteilblog.blogspot.com/2018/11/quel-che-devo-al-passato-mysterium.html
CYBERWAR SPIONAGGIO DISINFORMAZIONE
Chi sono i giornalisti guardiani della verità secondo il Time
Il Time sceglie ogni anno la persona più influente
Ha deciso di dedicare il 2018 ai giornalisti “guardiani della verità”
Sono amal Khashoggi, Maria Ressa, la redazione della Capital Gazzette, Wa Lone e Kyaw Soe Oo
Ci sono i giornalisti. E poi ci sono i gionalisti guardiani della verità. Sono queste persone, secondo il Time, le più influenti del 2018, tanto da dedicarsi la tradizionale copertina di fine anno. Jamal Khashoggi, Maria Ressa, la redazione della Capital Gazzette, Wa Lone e Kyaw Soe Oo sono i volti che il periodico ha scelto per mettere in risalto il loro ruolo all’interno del mondo dell’informazione e la loro influenza all’interno della società.
In un’epoca in cui la libertà di stampa viene sempre più spesso minacciata, la copertina del Time restituisce (o contribuisce a farlo) credibilità a un mestiere che viene sempre più spesso sottovalutato, sottopagato e sottostimato nel suo impatto sociale. Le vicende scelte dal Time, ovviamente, sono estreme, ma tutte riguardano la riabilitazione di una categoria fondamentale nel tessuto moderno, la cui importanza, attualmente, viene sminuita da tutti: partendo dal politico, fino ad arrivare all’ultimo utente di Facebook.
Giornalisti sul Time: Jamal Khashoggi
Spazio, dunque, a Jamal Khashoggi, il giornalista saudita ucciso presso il consolato saudita in Turchia. Il suo delitto, nonostante i sospetti sul principe ereditario dell’Arabia Saudita Mohammad bin Salman, è ancora lontano dall’essere completamente risolto e, soprattutto, accettato dalle potenze internazionali, con Donald Trump che recentemente si è rifiutato di vedere i video dell’esecuzione del giornalista per non condizionare i rapporti diplomatici (tutti sul filo dei giacimenti petroliferi) tra Stati Uniti e Arabia Saudita. Nel suo caso, specifica il Time, la sua influenza si registra maggiormente da morto che da vivo.
I giornalisti della Capital Gazzette
Ma il Time ha scelto di celebrare anche i giornalisti della Capital Gazzette, il giornale pubblicato nella città di Annapolis, nel Maryland. I giornalisti Rob Hiaasen, Wendi Winters, Gerald Fischman e John McNamara (più l’assistente alle vendite Rebecca Smith) furono barbaramente uccisi in un vero e proprio attentato terroristico. Jarrod W. Ramos, l’autore della strage, aveva
Continua qui: https://www.giornalettismo.com/archives/2687421/giornalisti-sul-time-verita
DIRITTI UMANI – IMMIGRAZIONI
Antonio Guterres e le fakes news del Patto per le Migrazioni
Rete Voltaire | 11 dicembre 2018
Oltre 150 Stati si sono registrati alla conferenza per l’adozione del Patto Globale per Migrazioni Sicure, Ordinate e Regolari di Marrakech [nota: il documento di riferimento in inglese è intitolato Global Pact, l’ONU l’ha tradotto con Patto Mondiale].
Nel discorso introduttivo il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha voluto denunciare le «false informazioni» sul Patto. In particolare, ha sottolineato che il testo non è vincolante e dunque non limiterà la sovranità degli Stati.
Ebbene, proprio qui sta il problema: il Patto non limiterà la sovranità degli Stati, che vi hanno in parte già rinunciato inserendo nei propri sistemi giuridici il principio della superiorità dei testi internazionali sui testi nazionali.
L’espressione «non vincolante» significa che gli Stati firmatari non dovranno riformare la propria legislazione. Sarà però possibile ai querelanti far valere la superiorità di un testo internazionale sul diritto nazionale per obbligare uno Stato al rispetto del Patto.
Per questo motivo 15 Stati (Austria, Australia, Bulgaria, Croazia, Danimarca, Estonia, Stati Uniti, Israele, Ungheria, Olanda, Polonia, Repubblica Domenicana, Serbia, Slovacchia e Svizzera) non hanno partecipato
Continua qui: http://www.voltairenet.org/article204310.html
Immigrati? Tutti in Italia per otto anni. E dopo? Merkel-Macron, sfregio a Salvini: il ricatto
Secondo Angela Merkel, testuali parole, “le migrazioni portano prosperità”. La cancelliera cavalca l’accordo di Marrakech sulle migrazioni ma, soprattutto, tira in ballo l’Italia, il suo governo e in particolare Matteo Salvini. Il punto è che per riaffermare una certa centralità tedesca in Europa, Merkel non poteva che sfruttare il Global Compact di cui è sempre stata grande sponsor. “Le migrazioni – ha sottolineato di fronte ai 163 delegati dell’Onu – quando sono legali sono anche una cosa positiva”. Parole pronunciate proprio nel giorno in cui le Nazioni Unite hanno adottato il patto sul “diritto a migrare”, ma soprattutto proprio nel giorno in cui Berlino e Parigi hanno presentato un nuovo, l’ennesimo, piano comune per il regolamento di Dublino. Una proposta che – toh che caso – finirebbe per penalizzare, e non poco, l’Italia.
“Il meccanismo di solidarietà – si legge nel documento fatto trapelare in questi giorni a Bruxelles – dovrebbe essere basato sui ricollocamenti come regola (al fine di creare prevedibilità e certezza per gli Stati membri in prima linea) con la possibilità per uno Stato membro, su base giustificata, di derogare non ricollocando e mettendo in opera misure alternative di solidarietà”.
Continua qui:
Patto ONU per la migrazione: “un pericolo per il mondo intero”
www.altreinfo.org – 7 dicembre 2018
Questo cosiddetto “Patto globale per una migrazione sicura, regolare e ordinata” dovrebbe essere firmato il 10 e l’11 dicembre in Marocco dagli stati membri delle Nazioni Unite (UN). In sostanza questo patto, indipendentemente dal loro stato legale, mette i migranti di ogni tipo sullo stesso livello dei veri profughi, che invece godono di uno status di tutela. Ciò causerebbe che in futuro, conformemente a queste nuove disposizioni, gli stati violerebbero i “diritti umani” estradando emigranti clandestini o punendo illegali passaggi di frontiera.
Ogniqualvolta qualcuno si trovasse in una situazione “difficile”, potrebbe per esempio venire in Europa ed esigere i benefici dei sistemi di sicurezza sociale. Secondo le Nazioni Unite contano come situazioni “difficili”, l’incertezza alimentare, la povertà o “le conseguenze del cambiamento climatico”. Secondo António Guterres, segretario generale delle Nazioni Unite, ci sarebbero già 300 milioni di persone in viaggio come “migranti”.
Presumibilmente in dicembre circa 189 di 193 stati membri dell’ONU sottoscriveranno il patto globale per la migrazione. L’opposizione viene da USA, Ungheria, Austria e Australia, ma si sentono viepiù delle voci critiche anche dalla Svizzera. Donald Trump aveva già ordinato il ritiro anticipato del suo paese dalle trattative, dopo che era diventato chiaro di cosa si trattasse. Nikki Haley, ambasciatrice statunitense alle Nazioni Unite, aveva dichiarato che l’accenno d’intento globale “non sarebbe conciliabile con la sovranità degli USA” e sarebbe in contrasto coi principi del Presidente Trump, che dà la priorità al benessere del proprio popolo nella sua politica.
“Decideremo noi come proteggere al meglio i nostri confini e chi potrà entrare nel nostro Paese.” – così Haley.
Anche l’Ungheria si è ritirata dal patto ONU per la migrazione. Il ministro degli esteri ungherese Péter Szijjártó si è espresso chiaramente: Il patto sarebbe “estremistico, prevenuto, e un incoraggiamento alla migrazione per centinaia di milioni di persone” e sarebbe “in contrasto con un sano buonsenso e con l’intento di ristabilire la sicurezza europea.” – così il ministro.
Considerando i 29 grandi attentati terroristici commessi negli ultimi 3 anni e mezzo in Europa – secondo le informazioni ufficiali – da immigranti islamisti, la sicurezza dell’Ungheria e del popolo ungherese hanno la prima priorità per il governo del presidente Victor Orbán. Inoltre sarebbe una chiara violazione del diritto dei popoli se le Nazioni Unite proclamassero un presunto “diritto umano alla migrazione”. Szijjártó ha aggiunto: “Il patto ONU per la migrazione rappresenta un pericolo per tutto il mondo”.
Anche l’Australia non sottoscriverà il patto globale per la migrazione
Continua qui: https://www.altreinfo.org/migrazioni/21131/patto-onu-per-la-migrazione-un-pericolo-per-il-mondo-intero/
ECONOMIA
L’economia della Grande Sostituzione
11 dicembre 2018 – GUILLAUME DUROCHER
Le società moderne sono caratterizzate da una vita tranquilla e da una cultura sempre più femminilizzata e infantilizzata. Il risultato è che l’uomo moderno non è più motivato dalla spiritualità o dall’onore, ma semplicemente da pulsioni più basse, come il reddito garantito, la sicurezza e la ricerca della comodità.
La grande maggioranza delle persone, e, estendendo il concetto, quasi tutte le società, stanno cercando di creare sicurezza e conforto per sé stesse. A questo si arriva attraverso un’organizzazione sociale stabile e regolare e con la produzione e la distribuzione di beni e servizi.
La nostra enorme ricchezza materiale (cibo, alloggi, automobili, elettrodomestici, elettronica di consumo, software …) viene creata da gruppi relativamente piccoli di persone intellettualmente preparate e dai lavoratori alle loro dipendenze. Lo stato moderno poi ridistribuisce questa ricchezza attraverso una straordinaria varietà di schemi (il sistema dell’”educazione pubblica”, la contrattazione sindacale, l’iper-regolamentazione del lavoro, il welfare su scala nazionale, i sussidi per i disoccupati, gli anziani e i poveri, ecc.) in linea con i valori della medesima società (in che misura vengono valutati il benessere sociale e l’uguaglianza in rapporto alla libertà?). Questi valori, a loro volta, sono in gran parte guidati dal grado di empatia e di fiducia sociale della società.
Credo che questo semplice modello serva a chiarire molte delle diversità che caratterizzano le varie economie e i sistemi sociali di tutto il mondo. La maggior parte delle società [mondiali] sono, secondo gli standard del Primo Mondo, società fallite, che hanno insufficienti capacità intellettive, fiducia sociale e/o empatia per riuscire a produrre il benessere materiale che vorrebbero.
Panglossisti come Stephen Pinker e The Economist sostengono che il mondo sta andando sempre meglio, quindi non abbiamo nulla di cui preoccuparci. Ed è anche vero che in tutto il mondo vi è crescita economica e gli standard di vita migliorano. Il punto importante che però essi trascurano è che gli stimoli per questa crescita non sono endogeni alle società del Terzo Mondo. Il fatto è che non c’è quasi mai una piena convergenza tra le nazioni o fra i gruppi razziali all’interno di una medesima società.
Al contrario, la crescita economica esiste per le innovazioni tecnologiche realizzate da una porzione molto piccola dell’umanità, in particolare in Nord America, nell’Europa Occidentale e nell’Asia Orientale. Questo si vede nei prodotti che usiamo ogni giorno: il tuo computer Apple è stato forse prodotto a Shenzhen, in Cina, mentre i tuoi software e i siti web più frequentati sono stati creati nella Silicon Valley. Ciò si riflette nella pubblicazione degli articoli scientifici, un settore che è dominato dall’Asia Occidentale ed Orientale. L’ateo militante Richard Dawkins ha sottolineato come il mondo islamico non dia praticamente nessun contributo in termini di scoperte scientifiche. Dal momento che l’obbiettivo di Dawkins è quello di demonizzare la religione e, allo stesso tempo, mettere in secondo piano le ben più importanti problematiche che riguardano razza e genetica, omette volontariamente il fatto che il Mondo Nero contribuisce anche meno.
Pubblicazioni scientifiche per nazione – 2011. Fonte
Le innovazioni tecnologiche del Primo Mondo, prodotte in effetti da una piccola élite all’interno di questi paesi, a loro volta, stimolano la crescita economica in patria e all’estero attraverso la diffusione delle diverse tecnologie. C’è sempre una convergenza parziale, dal momento che queste tecnologie si diffondono poi nel Secondo e nel Terzo Mondo. Questa convergenza è parziale perché, dal momento queste società sono prive delle capacità intellettuali e della fiducia sociale per creare le suddette tecnologie, non hanno neanche le capacità per organizzarsi in modo efficace per chiudere completamente il gap socio-economico che le separa dal Primo Mondo.
La diffusione delle tecnologie del Primo Mondo all’interno di società più tradizionali o arretrate, che non avrebbero mai potuto realizzarle, può certamente avere effetti nuovi. Pensate alla guerra tribale del Ciad aggiornata con pick-up Toyota, AK47 e lanciarazzi. Leon Trotsky, pensando al rapporto della Russia con l’Occidente, lo aveva definito uno “sviluppo combinato e disuguale”.
Anche le nazioni del mondo ricche e potenti hanno l’abitudine di cercare di imporre ad altri paesi le loro norme politiche liberaldemocratiche. Tuttavia, questo porta spesso, più di ogni altra cosa, al caos. La competizione democratica e il pluralismo politico sono spesso la ricetta del caos per quei paesi che non hanno una tradizione di pratiche del genere. In particolare, nei paesi multietnici un regime moderato di autorità stabile e dispotica è spesso l’unica cosa che riesce salvare la società dal caos.
L’economia della “globalizzazione alta” comporta l’abolizione dei confini nazionali e la convergenza degli standard sociali, in modo da massimizzare l’efficienza economica. Ciò dovrebbe portare ad un ulteriore aumento della ricchezza complessiva, anche se non mancherebbero i problemi: aumento della sperequazione economica (riduzione dei salari, ottimizzazione dei paradisi fiscali), fallimento delle imprese locali e delocalizzazione dei posti di lavoro. Peggio di tutto, il libero scambio riduce la sovranità nazionale (ecco perché dei repubblicani classici come Rousseau e Jefferson erano protezionisti autarchici, e ritenevano l’indipendenza un prerequisito all’autogoverno) e aumenta il potere della proverbiale” piccola cricca internazionale senza radici “, della cerchia Davos, delle varie società multinazionali della Silicon Valley, di Wall Street, ecc.
Tuttavia, la Grande Sostituzione è guidata soprattutto dalla “globalizzazione bassa“, ovvero dalle aspirazioni dei cinque miliardi di esseri umani che vivono, secondo gli standard del Primo Mondo, in società fallite e desiderano una vita più confortevole per sé stessi e per i propri figli. Queste persone hanno un certo realismo: sapendo che il loro paese non convergerà presto, o forse mai, a decine di milioni scelgono, in maniera assolutamente ragionevole (secondo il loro punto di vista) di trasferirsi nelle più prospere e generose società dell’Occidente.
Queste dinamiche funzionano ovunque e a tutti i livelli della società. Dovunque, gli individui più preparati intellettualmente (medici, ingegneri e così via) scelgono di andare in Occidente, dove possono godere di salari migliori, di un governo migliore e possono entrare a far parte di istituzioni più prestigiose. Questa fuga di cervelli fa arretrare il paese d’origine (che spesso non ha molto margine di manovra su cui poter contare) ma contribuisce anche ad un ulteriore miglioramento dell’Occidente. Un cubano o un bengalese intelligente non deve per forza languire nel suo paese d’origine, dove le sue competenze potrebbero, nel migliore dei casi, dare un piccolo contributo all’ordine locale, ma può lavorare per Google, al CERN o in altre organizzazioni, contribuendo così al progresso e alla prosperità mondiali.
In realtà, viene influenzata la maggior parte dei paesi, compresi quelli che prima ne erano immuni. I francesi intelligenti vanno dove le economie crescono e la tassazione non è vessatoria, e si trasferiscono a Londra, in America, o anche negli Stati del Golfo e a Singapore. La Cina, nonostante abbia salari medi bassi, sta già spogliando Taiwan del suo capitale umano, allettando gli uomini d’affari a trasferirsi sulla terraferma (uno sviluppo che sembrerebbe portare alla stagnazione economica dell’isola). L’Europa periferica, in generale, sia quella del sud che dell’est, è sottoposta ad una fuga di cervelli ad un ritmo veramente allarmante, i giovani più preparati sono attirati dall’Europa nord-occidentale, in particolare dalla Germania e dalla Gran Bretagna (sebbene la Brexit sembri rallentare questo processo).
Il risultato della fuga mondiale dei cervelli, contrapposta alla teoria egualitaria della convergenza universale, è quello di aumentare e di cristallizzare sempre più le intrinseche diseguaglianze fra le nazioni.
Naturalmente, la grande maggioranza delle persone che si trasferiscono in Occidente non sono professionalmente preparate, istruite o particolarmente dotate. Loro e i loro figli rimpiazzano gli autoctoni, sostituiscono la loro cultura, sfruttano in modo sproporzionato l’assistenza pubblica e delinquono. Possiamo vedere, guardando al contro-esempio del Giappone, quanto sarebbero state pacifiche e socialmente armoniose le società occidentali se non avessero accettato decine di milioni di immigrati ispanici, africani e islamici.
Tuttavia, il fatto forse sorprendente è che, nel complesso, il danno prodotto dagli immigrati non qualificati non ha, fino ad ora, minato il dinamismo dei paesi ospitanti. Le nazioni economicamente vivaci e in crescita in Europa continuano ad essere quelle del nord-ovest, che hanno accolto la maggior parte degli immigrati del Terzo Mondo (insieme a tanti altri Europei), mentre l’Europa meridionale, in particolare, ristagna e declina, trovandosi di fronte al doppio smacco dell’emigrazione e dei tassi di natalità catastroficamente bassi. I paesi anglosassoni se la cavano un po’ meglio, dal momento che sono più bravi ad accaparrarsi i cervelli in fuga delle altre nazioni.
Il punto è che non ci sono rotture economiche in questa linea di tendenza. Apparentemente, avere alcuni ingegneri indiani ben preparati compensa (in termini di dinamismo economico nazionale e di innovazione) una mezza dozzina di mediocri lavoratori ispanici che usufruiscono dei sussidi statali.
Ovviamente, nel lungo periodo, queste tendenze sono insostenibili. Tuttavia, è molto chiaro quando e quale sarà il prossimo punto di equilibrio.
Alla fine, non ci saranno più cervelli da allettare con l’emigrazione e le persone intelligenti di tutto il mondo smetteranno di fare figli.
Ciò potrebbe portare allo scenario del “Malthusianesimo industriale” di Anatoly Karlin, sul ritorno di una stagnazione economica permanente.
Ci saranno sempre pressioni sulle popolazioni del Terzo-Mondo per indurle ad andare in Occidente, dal momento che è improbabile che le loro società possano diventare confortevoli come le nostre. Se gli Occidentali vogliono conservare le loro terre, dovrà esserci una contro-pressione cosciente e concertata, che impedisca alle persone di arrivare, costi quel che costi. Una cosa del genere è particolarmente necessaria, dal momento che le Nazioni Unite stimano che la popolazione dell’Africa raggiungerà, in questo secolo, la catastrofica cifra di 4 miliardi di individui.
I libertari hanno, di fatto, nei confronti dell’immigrazione un approccio elitario e cognitivo. Se il welfare venisse eliminato e le imprese incoraggiate ad assumere solo in base all’efficienza economica, moltissimi fruitori di welfare non qualificati non si trasferirebbero in Occidente. In ogni caso, i libertari trascurano il fatto che gli immigrati che tendono ad arrivare sono soprattutto futuri socialisti, che voteranno per avere “la paghetta” dal governo. In questo modo, il liberalismo dei confini aperti si scava la fossa.
Se la popolazione bianca diventasse consapevole delle realtà cognitive, ereditarie e razziali, potremmo anche pensare che i bianchi intelligenti e vivaci in Occidente metterebbero al mondo più figli. Se la loro fertilità dovesse superare quella altrui, le nostre società continuerebbero a rinnovarsi, a crescere economicamente e ad essere guidate (come in America Latina) da una classe dirigente essenzialmente bianca. È anche probabile che la nuova generazione di bianchi possa essere più consapevole dei problemi importanti, come la questione del nepotismo etnico ebraico e del ruolo delle organizzazioni ebraiche nel promuovere il multiculturalismo e nell’attaccare l’attivismo etnico occidentale. In qualsiasi stato bianco che dovesse racccogliere l’eredità degli Stati Uniti, ci sarebbe una restaurazione del governo dei bianchi, dal momento che, in pratica, i bianchi americani non sono più culturalmente o politicamente sovrani e sono stati privati dei loro diritti.
A livello materiale (a parte alcune calamità, come un catastrofico cambiamento climatico o l’esaurimento delle risorse naturali) le tendenze attuali potrebbero anche dimostrarsi durevoli sul lungo periodo. Il fatto è che la maggior parte degli immigrati in Occidente sono moderatamente funzionali (ispanici, mediorientali e nordafricani sono di intelligenza nella media) e provengono da società che sono state in grado di sostenere un certo grado di civiltà. Il loro impatto negativo è ulteriormente attenuato dalle innovazioni tecnologiche globali, dal nucleo degli immigrati più preparati culturalmente e, nel caso dell’Europa Nord-Occidentale, dagli immigrati intra-europei.
A livello aneddotico, questa realtà è visibile nel fatto che la maggior parte delle “città globali” (come Londra, Washington, New York, Parigi, Berlino, ecc.) sono effettivamente vivibili, specialmente se si hanno un po’ di soldi. Di fatto, diventano alle volte spesso ancora più vivibili nel momento in cui le minoranze più problematiche vengono allontanate tramite la gentrificazione [dei loro quartieri].
Si potrebbe pensare che l’ascesa di maggioranze non bianche potrebbe portare ad un cambiamento decisivo. Tuttavia, gli esempi del Sud Africa e dell’America Latina dimostrano che non è questo il caso. Il Sudafrica bianco, per quanto estremamente isolato e sottoposto a forti pressioni, si è arreso ad una maggioranza nera, il cui dominio potrebbe anche portare al collasso del paese. Il Messico e il Brasile, al contrario, mostrano come paesi di razza mista, con maggioranze più ridotte e moderatamente funzionali, possono continuare ad esistere per secoli, sebbene con continue violenze e ricorrenti instabilità.
Gli scenari catastrofici delle guerre razziali (Haiti 1804, Algeria 1962, Zimbabwe) sono relativamente rari e si verificano quando i bianchi, in seguito ad un conflitto armato, vengono ridotti ad una piccola minoranza. Si potrebbe immaginare che le future maggioranze colorate dell’Occidente potrebbero votare per un disastro socialista in stile venezuelano, ma siamo ancora molto lontani da un’eventualità del genere.
Il fatto è che le persone di colore che vengono in Occidente lo fanno in veste di migranti economici, non come conquistatori, nonostante la retorica di molti nazionalisti ed islamisti. Una parte di questa immigrazione è produttiva
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10 dicembre 2018 DI ANDREA CAVALLERI
UNA PREMESSA
Parlando delle relazioni tra economia, sostenibilità ecologica e sostenibilità umana è indispensabile chiarire una premessa senza cui si rischia di parlare completamente a vuoto.
Il punto di partenza è che la crescita economica (o anche la decrescita), viene misurata in denaro.
Il PIL esprime tutte le transazioni in denaro relative a beni e servizi prodotti nella Nazione; anzi riguarda beni e servizi equivalenti (in denaro) prodotti all’interno della Nazione, in quanto nel calcolo del PIL rientra il saldo della bilancia commerciale, per cui la voce negativa delle merci importate “annulla” in termini contabili le equivalenti merci esportate, che però, fisicamente, sono state prodotte.
La prima domanda che ci porterà sulla strada della comprensione è: “il PIL esprime davvero l’economia di una Nazione?”
Senza scomodare il famoso discorso di Robert Kennedy, bastano alcune constatazioni terra terra per rispondere seccamente di no.
Prendiamo l’esempio dell’IVA: questa tassa aumenta il PIL senza minimamente aumentare il numero delle merci prodotte né il numero degli scambi. E infatti è stata utilizzata dai recenti governi europeisti per migliorare il rapporto debito/PIL, gonfiando artificiosamente il denominatore.
Oppure per assurdo, se due capitalisti buontemponi si vendessero per 10 miliardi la stessa azienda l’un l’altro ogni giorno, dopo un anno il PIL schizzerebbe alle stelle, con un incremento di 3.650 miliardi. Questo secondo esempio fa ridere, ma farebbe ridere di meno se si pensasse che è così che la Borsa “cresce”.
Strumento di misura inadeguato.
L’idea che sto cercando di introdurre è che la misurazione in denaro delle azioni economiche distorce il loro significato e provoca uno scollamento tra ciò che è buono nella realtà concreta e ciò che è buono in termini monetari.
Negli ultimi anni alcuni economisti famosi, ad esempio il premio Nobel Krugman, hanno criticato la razionalità dei mercati, asserendo dunque che gli operatori possono compiere scelte sbagliate per ragioni emotive, culturali, di ignoranza (asimmetria informativa) etc.
A mio modo di vedere questa critica elude il cuore della questione e cioè che, viceversa, il nostro sistema finanziario spinge a fare scelte sbagliate perfettamente razionali, in piena coerenza con le finalità del “gioco”.
Ad esempio, l’obsolescenza programmata, da un punto di vista concreto, materiale, ingegneristico etico e sociale è un abominio assoluto; ma dal punto di vista monetario “conviene”.
L’immissione sul mercato di tecnologie volutamente imperfette, quando si dispone già di modelli più efficienti, è un altro esempio di azioni fisicamente irrazionali ma che servono a vendere di più. E anche questa non è una fantasia, esistono casi conclamati nel settore informatico, farmaceutico e altri ancora.
La distruzione di derrate alimentari è il caso più penoso, che coniuga la massima stupidità con il più brutale schiaffo alla miseria.
Tutte queste contraddizioni smascherano la falsità del principio liberista-individualista secondo cui l’egoismo, in presenza di concorrenza, produce risultati utili e benefici per la collettività.
Tuttavia, anche coloro che rigettano questo principio spesso non si accorgono che l’attuale sistema monetario lo afferma implicitamente.
Se infatti un’azione economica è valida quando produce del denaro, cioè quando fornisce potere d’acquisto individuale, il fatto che questa azione economica sia realmente utile e positiva è solo una felice casualità, che si manifesta la maggior parte delle volte (dato che bene o male le merci soddisfano le necessità delle persone) ma che può benissimo essere contraddetta da eccezioni, anche gravissime.
Talvolta le carte vengono rimescolate attraverso discorsi sul concetto ambiguo di valore, che ho già criticato più volte altrove. Per questa ragione da alcuni anni propongo una nuova definizione del denaro come unità di misura della proprietà (oltre che mezzo di scambio, ovviamente), che rende i termini del discorso assai più chiari.
Sostenibilità umana ed ecologica.
Le questioni specifiche di un’interazione sensata con l’ambiente e di un trattamento dignitoso delle persone hanno a che vedere con la naturale aspirazione di tutti gli uomini a vivere in armonia tra loro e con ciò che li circonda.
La razionalità è la guida migliore per i comportamenti appropriati, che dipendono dalla conoscenza, dall’organizzazione e dalla programmazione.
Non mi permetto di sentenziare in campi in cui sono incompetente, azzardando pareri sulla questione ambientale o climatica, né intendo qui discutere sui massimi sistemi dei modelli sociali più virtuosi; quello che mi preme far notare è che la politica ambientale è un fatto decisamente tecnico e deve essere affidato a specialisti, mentre i valori umani, come il reciproco aiuto, tendono a essere universali: in entrambi i casi queste cose non sono un prodotto del mercato né il mercato è lo strumento adatto per orientarsi a riguardo.
In compenso il mercato è lo strumento più adatto per istigare ai comportamenti più negativi.
La concorrenza a livello internazionale è fondata unicamente sul prezzo, ragion per cui le aziende tendono a eliminare qualunque tipo di costo pur di presentarsi sul mercato con un prezzo vincente.
E se il costo è una procedura produttiva rispettosa della natura o una depurazione, la eluderanno a meno di non essere costrette e, allo stesso modo, sfrutteranno i dipendenti fino al limite consentito dagli obblighi di contratto.
Naturalmente i costi, umani e ambientali, eliminati dal prezzo di vendita non si sono annullati magicamente: semplicemente sono stati scaricati sui lavoratori e le loro famiglie e sul benessere ecologico che riguarda le generazioni presenti e future.
Molto opportunamente un antico adagio definiva il capitalismo come un sistema di costi sociali non pagati.
Un indicatore che ha assunto un’evidenza paradossale è quello della produttività.
Infatti, la massima produttività si raggiunge quando un solo lavoratore produce tutte le merci della nazione, lavorando gratis. Questo limite teorico comincia ad essere avvicinato nella pratica grazie ad aziende che producono solo tramite robot.
Ora immaginiamo per un attimo un mondo senza denaro, a cosa servirebbero dei mezzi di produzione robotizzati? Ad assicurare l’abbondanza di beni per tutti e a ridurre i lavori usuranti consentendo alle persone di dedicarsi a occupazioni culturalmente e spiritualmente più elevate, o più appassionanti.
Invece nel nostro mondo, col nostro denaro, i robot servono per eliminare le spese salariali con l’idea di accrescere oltremodo i profitti della proprietà.
Tra l’altro una simile idea è stupida e autodistruttiva del sistema. Infatti il denaro serve a scambiare merci tra persone, ma gli azionisti delle aziende robotizzate, quand’anche guadagnassero fiumi di denaro, cosa comprerebbero dalla massa di disoccupati?
E quante merci prodotte dai robot potrebbero vendere e a che prezzo, se i possibili acquirenti sono disoccupati?
Anche in questo caso paradossale ho parlato della produttività misurata in termini monetari, ennesima riprova che il denaro è un metro completamente fallace per giudicare le nostre azioni economiche, salvo il caso che per economia si intenda qualcosa di totalmente scollegato dalla realtà e dalla vita delle persone.
I termini della crescita e della decrescita.
La crescita, considerata in termini reali e non finanziari, è sempre stata piuttosto positiva (talvolta poco, ma spesso molto). Infatti il progresso scientifico e tecnico ha innalzato il tenore di vita di tutti (anche i poveri di oggi stanno meglio dei poveri di un secolo fa) e la direzione in cui è sempre andato è stata quella di consumare meno risorse per ottenere gli stessi risultati.
Le storture della crescita a tutti i costi non provengono dunque dalla scienza o dall’industria, ma dalla loro valutazione in termini monetari.
In tempi abbastanza recenti la teoria della “decrescita felice” è stata proposta come antidoto al consumismo e alla pletoricità economicista che induce a tanti comportamenti antisociali e antiecologici.
Molto correttamente questo movimento asserisce che la qualità non è riducibile alla quantità, in particolare che la qualità della vita non dipende dalla quantità di beni consumati.
Il termine decrescita è riferito all’inutile, che deve diminuire. E tra le cose inutili sono menzionati i trasporti (magari transoceanici) di merci che potrebbero essere prodotte localmente.
La parola decrescita è stata anche scelta con una connotazione polemica rispetto al concetto di “crescita”, che in economia ha sempre un significato positivo, anche quando non ce ne sarebbe motivo.
Il movimento della decrescita felice ricorda da vicino quello parallelo, nel settore finanziario, della Modern Money Theory.
Questi gruppi, sembrano costituiti da idealisti che promanano saggi consigli, ma che non vanno alla radice del problema e quindi non forniscono gli strumenti per risolverlo.
La crescita continua, misurata in termini monetari, e il consumismo, sono due facce della stessa medaglia. Essi procedono dallo schema Ponzi del debito, collegato con l’emissione del denaro.
Il pagamento degli interessi è un surplus rispetto all’emissione (che avviene in forma di prestito), e deve essere giustificato attraverso una crescita che ne garantisca la sostenibilità (si parla sempre in termini finanziari).
E’ da quando sono nato che sento parlare della necessità di “riforme”: dello Stato, delle pensioni, dello Statuto dei lavoratori, della flessibilità, delle liberalizzazioni etc etc. Tutte queste riforme riguardano il mondo reale e vengono fatte per adeguare la realtà al sistema finanziario, che invece è puramente virtuale e retto su delle semplici convenzioni.
Occorre invertire la tendenza, cioè le persone (reali) devono puntare i piedi e chiedere le riforme dell’emissione monetaria e delle regole bancarie (convenzionali) per adeguarle alle necessità vitali e razionali che emergono dal mondo concreto.
Se non si cambiano queste regole sarà utopistico pensare di attuare una rivoluzione della società agendo per via culturale, mentre contemporaneamente si è stretti nella morsa delle necessità monetarie, dato che senza soldi si muore di fame.
E l’uso di beni autoprodotti (non importati) come sarà possibile senza il controllo di merci e capitali?
Motivatore universale.
Poiché tramite il denaro si può ottenere qualunque merce (a volte comprese quelle che non dovrebbero essere in vendita) esso svolge la funzione di motivatore universale, dato che la maggioranza dei desideri personali possono essere soddisfatti con un acquisto, o persino tramite il solo status che l’abbondanza di denaro fornisce.
Ma se la partita si svolge tra un uovo oggi di proprietà individuale e una gallina domani di proprietà collettiva non può esserci competizione, chiunque sceglierà l’uovo.
In altre parole, se il denaro è un certificato di proprietà in bianco, che trasformo in merci mie quando lo spendo, io so che avendo del denaro oggi mangerò; viceversa la gallina di una società migliore domani, mi dice che la media delle persone starà meglio, ma non mi assicura che domani io mangerò.
Per questa ragione, se si vogliono favorire scelte razionali riguardo all’ambiente e alla convivenza civile, è necessario depotenziare la funzione di motivatore universale del denaro, rendendolo facilmente disponibile, non accumulabile, e quindi poco ambito.
Un elemento spia che suggerisce chi vuole mantenere e rafforzare questa funzione motivatrice della moneta lo si ritrova nel cinema internazionale.
Le case produttrici di Hollywood, tutte di proprietà di grossi gruppi finanziari, continuano a sfornare a ripetizione, fino alla noia e allo sfinimento, dei film in cui l’azione è generata da personaggi cattivi che commettono nefandezze inimmaginabili al solo scopo di procacciarsi denaro (a volte eseguono stragi per misere cifre pari ai bonus annuali dei CEO di Barclays, J.P. Morgan o Goldman Sachs).
Non è una sorpresa che chi produce e affitta denaro cerchi di instillare l’idea che i soldi siano massimamente desiderabili e per essi si possa perdere la testa: è la solita storia dell’oste che dice che il suo vino è buono.
Rimedi della politica.
I grandi congressi internazionali sul clima e sull’ambiente continuano a insistere sul pagamento di somme di denaro, proporzionali agli scarichi in atmosfera, che scoraggerebbero chi inquina o produce gas serra.
Questi orientamenti, carbon-tax, ecopass e simili, mi suscitano un moto di ribellione
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FINANZA BANCHE ASSICURAZIONI
Confermato divieto alle commissioni sulle carte di credito/debito
www.cittadinanzattiva.it – 06 Dicembre 2018
Mediante comunicazione pubblicata in data 26 Novembre 2018, l’AGCM – Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato – riafferma il divieto di applicare spese aggiuntive per l’uso di uno specifico strumento di pagamento come le carte di credito/debito. Ciò infatti costituirebbe una violazione dell’art. 62 del Codice del Consumo, ribadita peraltro nella direttiva (UE) 2015/2366 relativa ai servizi di pagamento nel mercato interno (c.d. “PSD2”), recepita dal decreto legislativo 15 dicembre 2017 n° 218.
In applicazione di tali norme, i venditori di beni e servizi al dettaglio non possono dunque applicare supplementi sul prezzo dei beni o servizi venduti nei confronti di coloro che utilizzino carte di credito o di debito per
Come va Unicredit dopo il collocamento del bond
Salgono i costi della raccolta a causa del rischio-Paese, ma l’istituto di credito soffre anche per la crisi della lira turca e nemmeno in Germania va troppo bene. Tutte le spine di Mustier.
- Andrea Copernico – 11 DICEMBRE 2018
Il campanello d’allarme è suonato il 27 novembre: Unicredit ha collocato un bond da 3 miliardi di dollari a 5 anni, la più grande da gennaio (1,5 miliardi), presso un unico investitore istituzionale. L’operazione è andata a segno e la banca prevede un impatto positivo per gli attivi ponderati per il rischio (Rwa) di circa 73 punti base. Ma a preoccupare il mercato è stato il fatto che lanciare il bond con successo l’istituto guidato da Jean Pierre Mustier ha dovuto pagare un rendimento equivalente a 420 punti base sopra il tasso euro-swap, sei volte i 70 punti base extra-swap corrisposti per il bond senior sempre quinquennale non-preferred collocato solo a gennaio di quest’anno.
Non solo. Ha fatto specie che l’intero pacchetto sia stato collocato presso un unico compratore, Pimco, il principale fondo obbligazionario del mondo (che tra l’altro aveva anche comprato parte del pacchetto di npl messi in vendita da Unicredit all’inizio del 2018).
CAMPANELLO D’ALLARME PER LE BANCHE PIÙ IN DIFFICOLTÀ
L’allarme è suonato per l’intero settore e soprattutto per quegli istituti che a un bond sono appesi per il rilancio come Carige e Mps: la crescita dello spread (qui l’andamento di Borsa del 10 dicembre) e il rallentamento dell’economia si stanno trasmettendo non solo ai tassi sui prestiti, ai conti pubblici e agli investimenti ma anche al costo della raccolta e al rifinanziamento delle banche rendendolo più gravoso e, in prospettiva, poco sostenibile. Un peso che rischia di vanificare in parte gli sforzi su Npl e capitale. In altre parole: se il bond Unicredit diverrà un benchmark, il livello di costo non è sostenibile e per questo tutto viene rimandato al 2019. Altro dubbio inquietante per il comparto: se Unicredit accetta queste condizioni di mercato pur di collocare in fretta il bond, teme che nei prossimi mesi ci sarà un ulteriore downgrade del rating tricolore?
Ma al netto dell’effetto spread che ha condizionato l’emissione del bond di Unicredit e l’effetto Unicredit che rischia di condizionare le altre future emissioni, in piazza Gae Aulenti va davvero tutto bene? Qualcuno nelle sale operative comincia a chiederselo. Così come, nella City milanese gira voce che qualche socio comincia a fare pressing sull’amministratore delegato francese per capire come sono stati utilizzati i 13 miliardi raccolti nell’ultimo maxi-aumento di capitale.
IN PIAZZA GAE AULENTI SPUNTANO I “PIANI B”
Ad alimentare la sensazione che qualche difficoltà esiste, è il proliferare dei piani B messi sul piatto dalle banche d’affari. A cominciare da quello rivelato dal Sole24Ore lo scorso 21 novembre, dunque prima dell’emissione del bond: un piano consegnato ai vertici del gruppo per dividere in due Unicredit: da una parte le attività italiane, dall’altra quelle estere che comprendono Germania, Austria, Centro Est Europa, Turchia, Russia. Le «zavorre» italiane (2.516 filiali bancarie e 143 miliardi di prestiti alla clientela), secondo il Sole, sono sostanzialmente tre: il portafoglio dei crediti deteriorati, lo spread Btp-Bund stabilmente oltre 300 punti che brucia capitale di vigilanza, il rating della holding italiana che, in caso di declassamento del Paese nei primi mesi del 2019, potrebbe peggiorare il merito di credito dell’intero gruppo. In realtà, però, a zavorrare i conti dei primi mesi del gruppo – chiusi con un utile di 2,16 miliardi in calo del 53,7% rispetto ai 4,67 miliardi messi a bilancio nel 2017 – sono stati Erdogan e Trump. Mustier ha infatti deciso di svalutare per 846 milioni la quota nella controllata Yapi Kredi per le prospettive del Paese dopo il crollo della lira turca e ha anche aumentato gli accantonamenti – in tutto circa 741 milioni – per le sanzioni americane. E lunedì 10 dicembre, Yapi Kredi, ha incaricato – secondo quanto riportato da Bloomberg – Citigroup e Bofa-Merrill Lynch per la vendita sui mercati internazionali di un bond Additional Tier-1 da 1 miliardo di dollari per migliorare il capitale. L’istituto turco la primavera scorsa ha piazzato sul mercato un bond da 500 milioni di dollari nell’ambito di un aumento di capitale di 1 miliardo di dollari.
DAL 2013 AL 2017 CHIESTE RISORSE AL MERCATO PER 17,6 MILIARDI
Nel 2012 il gruppo era finito sotto inchiesta negli Usa per una possibile violazione delle sanzioni contro l’Iran da parte della sussidiaria tedesca Hvb, che la banca italiana ha acquistato nel 2005 (l’accordo con gli Stati Uniti è previsto nel primo trimestre 2019). Non solo, a sorpresa soffre quest’anno la Germania dove UniCredit ha visto calare i profitti e con un Roe sceso al 5%. Sul
Continua qui: https://www.lettera43.it/it/articoli/economia/2018/12/11/unicredit-bond-mustier/227208/
LAVORO PENSIONI DIRITTI SOCIALI
Ecco che cosa non funziona nel mercato del lavoro italiano secondo il Cnel
Alessandra Servidori – 11 DICEMBRE 2018
La pur timidissima ripresa dell’occupazione è un fatto positivo in un periodo di debole crescita, ma non si è tradotta in un aumento del volume del lavoro rispetto al periodo pre-crisi. Ecco perché
Il 6 dicembre al Cnel è stato presentato il Rapporto sul mercato del lavoro 2018 che raccoglie contributi diversi di esperti del Cnel, di ricercatori dell’Anpal e dell’Inapp. Rapporto che quest’anno tocca i principali aspetti della regolazione del lavoro e delle relazioni contrattuali: l’evoluzione dei lavori e delle condizioni dei lavoratori, le politiche attive e le politiche passive, la contrattazione collettiva e i suoi contenuti. Una parte del Rapporto in particolare è riferito alla situazione occupazionale: il tema è delicatissimo, molto esposto a tensioni sociali e influenzato da interessi contrastanti.
Nonostante la radicalità dei cambiamenti introdotti nel mondo del lavoro e dell’impresa dalla globalizzazione e dalle nuove tecnologie, specie digitali, l’impatto di questi fattori non è predeterminato, ma può essere influenzato da scelte di istituzioni e di attori pubblici e privati consapevoli e responsabili. La pur timidissima ripresa dell’occupazione è un fatto positivo in un periodo di debole crescita, ma non si è tradotta in un aumento del volume del lavoro rispetto al periodo pre-crisi, perché tra le persone occupate sono molte di più quelle che lavorano a orario ridotto che quelle impiegate a tempo pieno (la quota delle seconde cala del 8%). È cresciuta anche la quota del part-time involontario, soprattutto per le donne mentre le differenze di genere, il carattere involontario dei nuovi part-time e la loro distribuzione diversificata sul territorio con la penalizzazione del Sud, mostrano che non siamo di fronte a una felice redistribuzione del lavoro fra le famiglie, ma ad una minore intensità del lavoro e a una disoccupazione diseguale. Disoccupazione che oltretutto ora manifesta nuovi segnali di aumento.
E per di più tali fenomeni critici, pur presenti anche in altri Paesi, sono particolarmente accentuati in Italia. Una criticità ulteriore del quadro è segnalata dalla crescente polarizzazione dell’occupazione, cioè dal divario fra crescita delle fasce più qualificate di lavori e di quelle meno qualificate, a scapito dei lavori routinari. Anche questa è una tendenza riscontrabile in molti Paesi, ma come ampiamente testimoniato dall’Ocse nel caso italiano diversamente dagli altri Paesi (esclusa la Grecia) la polarizzazione è asimmetrica al contrario, cioè la fascia più qualificata
Continua qui: https://formiche.net/2018/12/cnel-lavoro-rapporto-2018/
PANORAMA INTERNAZIONALE
Guerra commerciale Cina-Usa, Bolsonaro in Brasile, Vox in Andalusia, prossima recessione, gilet gialli: che succede?
Scritto da Aldo Giannuli – 9 dicembre 2018
C’è un filo che lega cose distanti fra loro come lo scontro (ed il momentaneo armistizio) Trump-Xi Jinping, il caso Huawei, i gilet gialli, le vittorie elettorali della destra in Brasile ed Andalusia e i segnali di una prossima recessione?
Vediamo le cose più da vicino iniziando dal conflitto Cina Usa. Contrariamente alle attese, quindici anni fa, l’apertura mondiale dei mercati non giovò all’industria dell’auto americana, ma, al contrario, ne causò una crisi profonda.
Prodotti troppo costosi sia per l’acquisto che per l’uso, ed in presenza di un forte rialzo dei prezzi del petrolio e l’auto diesel europea, da un lato, e l’economica auto cinese, dall’altro, mordevano via via fette di mercato al dominio automobilistico americano già intaccato dai giapponesi. Il sopraggiungere della crisi rischiava di dare il colpo di grazia a marchi storici come la Ford e la Gm a malapena sorretti dall’intervento statale, in cambio della cessione di quote del capitale sociale (alla faccia dei dogmi neoliberisti).
Un primo contrattacco venne nel 2014 con il diesel-gate che azzoppava la Volkswagen, ma anche questo, come anche l’assorbimento della Fiat nell’orbita americana attraverso la Chrysler, non risolveva i guai dell’auto americana e la run belt ormai sembrava avviata ad una irresistibile decadenza che lasciava sul campo schiere di disoccupati. Fu questo lo scenario che consegnò stati tradizionalmente democratici come il Michigan a Trump determinandone la vittoria.
Ora Trump deve onorare le promesse fatte in campagna elettorale e per questo scatena una ondata protezionistica contro Europa e Cina che colpisce molti prodotti ma soprattutto (e guarda caso) le auto. Dopo il summit di Buenos Aires si è profilata una tregua (per almeno un anno) fra Cina ed Usa e le borse hanno respirato. Però, un giorno dopo è giunta la notizia di un possibile accordo Ford-Volkswagen per formare il supercolosso mondiale dell’auto.
Il punto è che la principale fabbrica di auto cinese è la Vw di Shanghai e non si capisce come vada letta questa notizia: è un accordo euro americano anticinese con l’appendice di Shanghai come punta di lancia per penetrare il mercato cinese? O è un tentativo di consociazione euro-sino-americano in un supercolosso in condizioni di dettare legge all’intero mercato mondiale? O un ballon d’essai in vista di una pax automobilistica mondiale? Lo capiremo dalle prossime mosse.
In compenso non c’è da spremersi troppo per capire il senso dell’arresto della figlia del padrone della Huawei (ce ne occuperemo) che è un evidente inizio di ostilità sul terreno delle telecomunicazioni, settore strategico decisivo e qui saremmo curiosi di sapere quale sarà la reazione cinese in tema di terre rare. Comunque sia il tempo dell’equilibrio fra una Cina in ascesa ed degli Usa allo zenith della loro fortuna mondiale (quello che aveva fatto parlare di “Chimerica” e di una intesa cordiale desinata a durare molto a lungo come nuovo ordine mondiale) sembra ormai remoto.
L’equilibrio si è spezzato e la globalizzazione non è più il “pranzo di gala” di cui si era favoleggiato.
La crisi del 2008 ha travolto l’equilibrio del sistema: l’alluvione di liquidità delle banche centrali (Fed e Bce in testa) ha fermato il crollo per impedire un effetto di reazioni a catena, ma il tentativo è riuscito parzialmente ed è tutto da dimostrare che la baracca si manterrà in piedi fra due mesi, quando finirà il Qe.
Anzi, Roubini prevede una prossima recessione assai vicina e i segnali sembrano dargli ragione: il 5 dicembre scorso, Il Sole 24 ore ha pubblicato un articolo di Massimiliano Cellino (“La curva pericolosa dei tassi Usa che suona l’allarme recessione”) che segnalava un andamento anomalo dei tassi dei Treasury Bond americani: i tassi dei bond a 2 e 3 anni hanno superato, anche se solo di 1 centesimo, quelli dei bond a 5 anni e sono ad una manciata di centesimi da quelli a 10.
Questo è accaduto in tempi recenti sono tre volte: alla fine degli anni Ottanta, nel 2000 e nel 2007 e, in tutti tre i casi, è seguita una recessione più o meno grave. Questo significa che il costo del denaro sta iniziando a salire già dai prestiti a breve. Brutto segno.
E se dovesse abbattersi una nuova recessione sarebbe un gran brutto affare, decisamente peggiore di quello di dieci anni fa. In primo luogo, perché la bolla del debito mondiale è cresciuta a dismisura, proprio per effetto del Qe in gran parte reinvestito in usi finanziari, per cui, siamo in totale sotto il livello di consumi e di produzione industriale degli anni ante crisi. A questo punto, anche una virata delle banche centrali per un ritorno al Qe, realisticamente avrebbe poco effetto e saremmo in quello che gli economisti chiamano “momento Minsky”: pompare liquidità forse eviterebbe il fallimento di un po’ di banche, ma rimetterebbe in moto l’economia ancor meno di quanto
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Verso chi è debitore Emmanuel Macron?
di Thierry Meyssan – 11 dicembre 2018
Il presidente Macron viene spesso presentato come un Rothschild Boy. È giusto, ma è una prerogativa secondaria. Thierry Meyssan dimostra come Macron sia debitore per la sua campagna elettorale soprattutto a Henry Kravis, proprietario di una delle più grandi società finanziarie globali, e alla NATO; un pesante fardello che ora condiziona la risoluzione della crisi dei Gilet Gialli.
Emmanuel Macron non era orientato verso la politica: giovane uomo, si augurava di diventare prima filosofo, poi alto funzionario, infine banchiere d’affari. Per raggiungere i suoi scopi, ha frequentato i numi tutelari dello Zio Sam: la French-American Foundation e il German Marshall Fund of the United States.
Ed è in questo ambito che ha incontrato nella loro residenza di Park Avenue a New York Henry e Marie-Josée Kravis [1]. I Kravis, sostegno indefettibile del Partito Repubblicano USA, appartengono al novero dei grandi patrimoni mondiali che fanno politica lontano dalle telecamere. La loro società, KKR, è, con Blackstone e Carlyle Group, uno dei principali fondi d’investimento a livello mondiale.
«L’interesse di Emmanuel Macron per il can do attitude, la capacità di dire a se stessi che se si vuole si può, era affascinante. Ma la sua volontà di sapere, la sua capacità di cogliere ciò che funziona, senza tuttavia imitarlo o copiarlo, fa sì che continui a essere molto francese» dichiara ora Marie-Josée Drouin (la signora Kravis) [2].
Con la duplice raccomandazione dei Kravis e di Jean-Pierre Jouyet [3], Macron entra nell’esclusiva cerchia dello staff della campagna elettorale di François Hollande. In una e-mail alla segretaria di Stato USA, Hillary Clinton, il direttore della Programmazione Politica, Jake Sullivan, descrive i quattro membri più importanti dell’équipe del candidato socialista, uno dei quali è lo sconosciuto Emmanuel Macron che, precisa Sullivan, dovrebbe diventare direttore generale del Tesoro («the top civil servant of Finance Ministry») [4].
Invece, dopo l’elezione di Hollande, Macron è nominato vice del segretario generale dell’Eliseo, una funzione sicuramente più politica. Sembra che ambisse succedere a Jean-Pierre Jouyet alla direzione della Cassa Depositi e Prestiti, poltrona che a maggio 2014 si aggiudicò invece il segretario generale dell’Eliseo. Pochi giorni dopo Macron, su proposta dei coniugi Kravis, è invitato al Club Bilderberg, dove, in un inglese perfetto, tiene un violento discorso contro il proprio capo, Hollande. Tornato a Parigi Macron si dimette.
I coniugi Kravis sono tra i principali pilastri del Gruppo Bilderberg, di cui Marie-Josée Drouin-Kravis è amministratrice. Diversamente da quanto si crede, il Bilderberg non è un luogo in cui si prendono decisioni. I suoi archivi attestano che fu creato da CIA e MI6 per poi diventare strumento d’influenza della NATO, che ne garantisce direttamente la sicurezza [5]. L’intervento contro Hollande fu ben accolto e Macron divenne uno degli uomini NATO in Francia.
Macron lascia la politica e non desidera ritornarci. Spiega più volte al proprio entourage che ambisce diventare docente universitario. Con l’aiuto del saggista Alain Minc (che nel 2008 ha ricevuto l’investitura del Bilderberg) ottiene un posto all’università di Berlino e uno alla London School of Economics, senza però riuscire a entrare ad Harvard.
Tuttavia, ad agosto 2014, dopo soli tre mesi dall’abbandono della politica, Macron è nominato da Hollande, su proposta di Jouyet (che nel 2009 ha ricevuto l’investitura del Bilderberg), ministro dell’Economia, dell’Industria e dell’Informatica.
In un libro pubblicato nel 2018, Hollande assicura che la nomina fu una sua scelta personale [6]. Può darsi. Se così fosse però non deve essere stato al corrente dell’intervento di Macron al Bilderberg. Eppure, alla riunione era presente uno dei suoi ministri, nonché amica, Fleur Pélerin.
A dicembre 2014 Henry Kravis fonda una propria agenzia d’intelligence, il KKR Global Institute, al cui vertice mette l’ex direttore della CIA, generale David Petraeus. Costui porterà avanti con i mezzi finanziari di Kravis (i fondi d’investimento KKR) e senza riferirne al Congresso, l’operazione Timber Sycamore, iniziata dal presidente Barack Obama. È il più importante traffico d’armi della storia: 17 Stati coinvolti, un volume d’affari di diverse decine di migliaia di tonnellate di armi per un valore di diversi miliardi di dollari [7]. Sicché Kravis e Petraeus sono i principali fornitori di Daesh [8].
Il presidente del Bilderberg, il francese Henri de Castries, invita il deputato-sindaco di Le Havre, Édouard Philippe, alla riunione annuale del 2015 in Austria. Philippe sarà nuovamente invitato alla riunione del 2016, in Germania. Nella campagna per le presidenziali francesi, de Castries e Philippe sosterranno François Fillon. Lo abbandoneranno per unirsi a Macron quando Jouyet [9] farà avere al Canard enchaîné i documenti finanziari sui discutibili ingaggi della signora Fillon, raccolti dall’Ispettorato delle Finanze [10].
Ad aprile 2016 Macron fonda la propria formazione politica, En Marche! il cui marketing ricalca quello di Kadima!, il partito che pretende non essere né di destra né di sinistra di Ariel Sharon. Quanto al programma, il nuovo partito declina le note dell’OCSE [11] e quelle dell’Istituto Montaigne, di cui de Castries è presidente. Del resto, è nei locali dell’istituto che avviene la fondazione di En Marche! Ma de Castries convince Fillon che si tratta di una pura coincidenza e che non sostiene Macron. Nei mesi successivi continuerà a fargli credere di essere disposto a
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Siria: la verità che nessuno racconta
Marco Cedolin – 22 ottobre 2018
Sempre più spesso le guerre dell’era moderna non si combattono solamente con i missili “intelligenti”, i droni e l’ausilio del satellite, ma anche e soprattutto attraverso il controllo e la gestione della realtà a proprio uso e consumo. La creazione di mostri ed eroi all’interno dell’immaginario collettivo, attraverso la distorsione e la manipolazione del reale è infatti di gran lunga l’arma più letale fra quelle usate dall’Occidente per schiacciare qualsiasi figura ritenuta “scomoda” ed annientare interi stati sovrani con l’ausilio di operazioni militari sanguinarie che godano dell’appoggio dell’opinione pubblica…..
Il metodo in sé è di una semplicità disarmante (ma proprio per questo ancora più letale) e consiste nello screditare il “nemico” attraverso l’attribuzione ad esso dei crimini più indicibili, senza che esista alcun fondamento per farlo, ma semplicemente usando il sistema mediatico e gli organismi internazionali controllati, come cassa di risonanza per influenzare pesantemente la percezione dell’opinione pubblica nella direzione voluta.
La guerra al “mostro” verrà così avallata e giustificata da tutti, pur non avendo giustificazione alcuna, e poco importa se poi a distanza di anni emergerà la verità, perché ormai l’obiettivo voluto sarà stato raggiunto da tempo e quella verità verrà lasciata giacere nell’oblio mediatico, senza che la maggior parte dell’opinione pubblica ne venga a conoscenza o se ne curi e senza che gli organismi internazionali compiacenti perseguano in qualche maniera i mistificatori.
E’ accaduto nel 1990 a Saddam Hussein, diventato per il mondo intero un novello Erode che sterminava i bimbi nelle incubatrici dell’ospedale di Kuwait City, secondo la testimonianza di Navirah, profuga quindicenne che dichiarò dinanzi a 700 stazioni televisive di avere assistito personalmente a tale atrocità. Mentre solamente anni più tardi, quando la prima guerra del golfo era ormai terminata da tempo, lasciando sul terreno il suo carico di morte e disperazione si scoprì che Navirah era in realtà la figlia dell’ambasciatore saudita negli Stati Uniti, non aveva mai soggiornato in Kuwait e l’intera messinscena era stata confezionata ad arte da un’agenzia pubblicitaria statunitense, ingaggiata per costruire il mostro e legittimare il conflitto.
Accadde nuovamente nel 2003, quando la seconda invasione dell’Iraq fu giustificata con il fatto che Saddam Hussein fosse in possesso d’ingenti quantitativi di armi chimiche pericolosissime, mentre solamente una decina di anni più tardi, quando da tempo Saddam era stato giustiziato e l’Iraq sprofondato nel medioevo in cui giace ancora oggi, venne alla luce il fatto che in realtà quelle armi chimiche non esistevano affatto e rappresentavano solamente un escamotage finalizzato a giustificare quello che in realtà era ingiustificabile.
Nel 2011 toccò al leader libico Gheddafi, rappresentato come un mostro responsabile del ferimento di 50mila civili e dello sterminio di altri 10mila “contestatori”, interrati all’interno delle fosse comuni. Mentre qualche tempo dopo, quando la Libia era ormai tornata ad essere uno stato tribale e Gheddafi non aveva potuto sfuggire al proprio assassinio, emerse come in verità quei morti e feriti non fossero mai esistiti, mentre le fosse comuni in questione erano in realtà un normale cimitero nel quale erano stati spostati i resti dei defunti di vecchia data.
Ma lo stato dell’arte nella manipolazione della realtà è stato senza ombra di dubbio raggiunto per quanto riguarda il Presidente Bashar al – Assad e la guerra condotta da gruppi terroristici di varia estrazione che ormai insanguina la Siria da sette anni.
Fin dal primo momento, quando una serie di gruppi terroristici destinati a confluire sucessivamente” nell’Esercito siriano libero” iniziano a creare disordini, tentando di sfruttare l’onda lunga della “primavera araba” che ha destabilizzato larga parte dell’area, i media occidentali s’impegnano nel dipingere il Presidente Assad come un tiranno sanguinario, non perdendo occasione per etichettare il legittimo governo siriano come un regime, nonostante in realtà Assad sia un leader amato ed apprezzato dalla stragrande maggioranza del suo popolo, alla guida di un governo di stampo socialista che gode di un ampio appoggio popolare.
Durante tutti gli anni del conflitto, nel corso del quale all’ESL si succederanno i gruppi islamisti, da Al Nusra fino all’Isis, spesso finanziati dall’Occidente, dalla Turchia, dall’Arabia Saudita e dal Qatar ed autori di massacri e violenze indicibili nei confronti della popolazione siriana, l’unico mostro dipinto ad uso e consumo dell’immaginario collettivo occidentale continuerà a rimanere il Presidente Assad. Rappresentato (senza che esista alcuna prova oggettiva a dimostrarlo) come il colpevole di tutta una serie di crimini dei quali molto spesso sono responsabili proprio i terroristi che l’esercito siriano sotto il comando di Assad combatte strenuamente.
Il campionario è vasto e comprende tutte le accuse mistificatorie già viste in precedenza, dallo sterminio dei civili alle fosse comuni, ma è proprio sull’uso di armi chimiche che la macchina del fango manipolatrice si concentra maggiormente.
Il primo tentativo avviene nell’agosto 2013, quando l’Osservatorio siriano per i Diritti Umani di stanza a Londra e vicino a fonti locali legate ai “ribelli”, denuncia 350 vittime nella zona di Jobar a causa di un presunto attacco con armi chimiche compiuto dall’esercito di Assad. Notizia ripresa immediatamente (senza che esista alcuna prova tangibile dell’accaduto) da tutti i media internazionali e cavalcata dall’allora Presidente statunitense Barack Obama che si mostra pronto ad usarla come pretesto per un intervento armato degli Stati Uniti volto a spodestare Assad, intervento che non vedrà mai la luce solamente perché il Presidente russo Vladimir Putin si schiera fermamente in sua difesa. La sucessiva inchiesta portata avanti dall’Onu dimostra come forse a Jobar siano state realmente usate armi chimiche, senza
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POLITICA
Scomparso William Blum, famoso critico della politica estera degli Stati Uniti
da aurorasito
Chris Agee e Louis Wolf, Covert Action 9 dicembre 2018
William Blum è morto in Virginia questa mattina il 9 dicembre 2018. Era circondato da amici e parenti dopo essere caduto nel suo appartamento a Washtington DC ferendosi gravemente 65 giorni fa. Aveva 85 anni. Bill era nato il 6 marzo 1933 all’ospedale Beth Moses di Brooklyn, New York, divenne autore, storico e critico della politica estera degli Stati Uniti. A metà degli anni ’60 lavorò nell’ambito dei computer presso il dipartimento di Stato degli Stati Uniti. Inizialmente anticomunista col sogno di diventare funzionario dell’intelligence estera, fu deluso dalla guerra del Vietnam. Blum lasciò il dipartimento di Stato nel 1967 e divenne fondatore ed editore della Washington Free Press il primo giornale “alternativo” nella capitale. Nel 1969 scrisse e pubblicò una mostra della CIA in cui si rivelavano nomi ed indirizzi di oltre 200 impiegati della CIA. Fu giornalista freelance negli Stati Uniti, in Europa e Sud America. Nel 1972-1973 fu giornalista in Cile dove riferì dell’esperimento socialista del governo di Allende. Il rovesciamento con il colpo di Stato progettato dalla CIA lo coinvolse personalmente, instillandogli un ancor più acuto interesse su ciò che il governo faceva nei vari angoli del mondo. A Londra, a metà degli anni ’70, Blum collaborò coll’ex-agente della CIA Philip Agee ed associati “sul progetto per denunciare il personale della CIA e le sue misfatte”. Alla fine degli anni ’80 Blum viveva a Los Angeles intraprendendo la carriera di sceneggiatore. Sfortunatamente, le sue due o tre sceneggiature si autosabotavano perché si occupavano di ciò che fa scappare gli adulti urlando ad Hollywood: idee e domande.
Nel resto della sua lunga vita, Bill visse a Washington, senza poter rinnovare il nullaosta scaduto a causa delle sue opinioni politiche. Invece, accettò molti ruoli da lettore nei campus universitari del mondo. Bill fu un illustre membro di CovertAction Magazine e del suo comitato scientifico, lavorando per molti anni con CovertAction Quarterly e CovertAction Information Bulletin.
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STORIA
Genocidio armeno, on line l’archivio perduto con i documenti del piano di sterminio dei turchi
Roma – La memoria ritrovata per arrivare alla verità con la ‘V’ maiuscola oggi a disposizione di tutti grazie al web. Padre Krikor Guerguerian – un sopravvissuto al genocidio armeno – il piano di sterminio costato la vita a un milione e mezzo di persone sotto l’impero ottomano tra il 1915 e il 1920 – ha trascorso tutta la sua vita, raccogliendo e collezionato pazientemente documenti, fotografie, testimonianze puntualmente trascritte relative a ciò che lui stesso aveva vissuto personalmente. L’inferno. Questo prete vide morire i suoi parenti
Continua qui: https://www.ilmessaggero.it/vaticano/armenia_genocidio_turchia_prova_massacri_negazionismo-4153386.html
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