NOTIZIARIO STAMPA DETTI E SCRITTI
14 DICEMBRE 2018
A cura di Manlio Lo Presti
Esergo
Della tela di Penelope solitamente se ne dà un’interpretazione banale
[…] Io credo che vada invece letta
come una straordinaria metafora della storia dell’uomo.
VITTORINO ANDREOLI, Homo stupidus stupidus, Rizzoli, 2018, pag. 251
https://www.facebook.com/Detti-e-Scritti-958631984255522/
Le opinioni degli autori citati possono non coincidere con la posizione del curatore della presente Rassegna.
Tutti i numeri dell’anno 2018 della Rassegna sono disponibili sul sito www.dettiescritti.com
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SOMMARIO
Perché il Pentagono utilizza gli insetti per scopi militari?. 1
Svezia: Che cos’è una “superpotenza umanitaria”?. 1
AFRICANO: “DOBBIAMO STERMINARE I BAMBINI BIANCHI” – VIDEO.. 1
“Loro” non sono loro
La farsa criminale delle madri surrogate «altruiste» in Canada. 1
Allarme: crescono i bambini che abusano di altri bambini 1
La chiesa scrigno ora è teatro per burlesque e … vampiri 1
Massiccio attacco missilistico contro Israele dopo i finanziamenti del Qatar a Hamas 1
Robert Spaemann: «Dio c’è. Cercatelo nella grammatica». 1
FACEBOOK DICE AGLI UTENTI COSA È GIUSTO PENSARE SUL GLOBAL COMPACT.. 1
Verità per Regeni? Verità su Regeni! 1
PER FAMIGLIA CRISTIANA DOBBIAMO MANTENERE I GHANESI 1
Perché di fronte ai contabili dell’Ue Italia e Francia non sono uguali
Giappone, debito pubblico 4 volte quello dell’Italia ma ecco cosa succede. 1
Ue vuole ancora di più, Moscovici chiede altri tagli 1
Banche: l’evoluzione dagli Anni 60 a oggi 1
Da Cuccia a Marcinkus: le interviste possibili di Gotti Tedeschi 1
L’inizio del lavoro visto dalla sua fine. 1
In Italia abbiamo stipendi da fame. E che nessuno si ponga il problema è una vergogna peggiore 1
Sbranare
Cosa si nasconde dietro l’arresto di due canadesi in Cina. 1
E’ ancora possibile un modello sensato di comunicazione politica?. 1
Perché ricordiamo eventi che non sono mai accaduti?. 1
Tutta la verità, sempre. Grazie a Mazzucco, giornalista vero 1
La Prima Repubblica e l’intreccio politico criminale che l’ha alimentata. 1
IN EVIDENZA
Pubblicato: 12 Dicembre 2018
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Ci risiamo. Puntuale come un orologio svizzero arriva l’attentato che distoglie dai veri problemi politici e sposta l’attenzione sul “terrorismo internazionale”.
Ormai la dinamica è talmente prevedibile che bisognerebbe quasi farne una regola: se un certo governo attraversa un periodo particolarmente difficile, state alla larga dai mercatini e dai luoghi affollati di quella nazione.
La “cellula dormiente” di turno sarà pronta a risvegliarsi
Continua qui: https://www.luogocomune.net/LC/15-terrorismo/5101-l-attentato-salva-macron
Perché il Pentagono utilizza gli insetti per scopi militari?
DI F. WILLIAM ENGDAHL – 13 dicembre 2018
journal-neo.org
Esistono prove evidenti del fatto che il Pentagono, attraverso la sua agenzia di ricerca e sviluppo DARPA, sta sviluppando insetti geneticamente modificati che sarebbero in grado di distruggere le colture agricole di un potenziale nemico. Quanto sostenuto è stato negato dalla DARPA, ma i principali biologi hanno lanciato l’allarme su ciò che sta avvenendo con l’impiego della nuova tecnologia CRISPR per l’“editing genetico”, al fine di utilizzare, a tutti gli effetti, gli insetti per scopi militari. È come attualizzare al 21° secolo della piaga biblica delle cavallette, solo potenzialmente di gran lunga peggiore.
La Defense Advanced Research Projects Agency (DARPA) del Pentagono, sta finanziando un programma dal nome bizzarro “InsectAllies”. Il dott. Blake Bextine della DARPA descrive il programma come “sfruttamento di un sistema naturale ed efficiente di attuazione, in due fasi, per trasferire i geni modificati alle piante: gli insetti vettore e i virus delle piante che essi trasmettono. ”DARPA sostiene che il programma è fornire ”contromisure modulari, facilmente dispiegabili e generalizzabili contro potenziali minacce, naturali e progettate, all’approvvigionamento alimentare, con gli obiettivi di preservare il sistema colturale degli Stati Uniti.” Badate al linguaggio: modulari, facilmente dispiegabili …
Nell’ambito del progetto DARPA, gli agenti di alterazione genetica o virus saranno introdotti in una popolazione di insetti, per influenzare direttamente la composizione genetica delle colture. DARPA prevede di utilizzare cicadelle, mosche bianche e afidi per introdurre virus selezionati nelle colture. Tra le altre dubbie affermazioni, si dice che aiuterà gli agricoltori a combattere i “cambiamenti climatici”. In particolare, ciò a cui nessuno può dare una risposta, riguarda il fatto che né il Pentagono né la FDA americana si interrogano su: come i virus geneticamente modificati negli insetti interagiscono con altri microrganismi nell’ambiente? Se le colture sono costantemente cosparse da virus geneticamente modificati, come potrebbe ciò alterare la genetica e il sistema immunitario degli umani che dipendono dalle colture?
Allarme di guerra batteriologica
Poiché la maggior parte dell’attuale approvvigionamento alimentare degli Stati Uniti è contaminato dal Roundup tossico e da altri erbicidi e pesticidi, assieme alle piante OGM, si potrebbe dubitare dell’onestà delle affermazioni preoccupanti del Pentagono per l’attuale sistema colturale statunitense. Un gruppo di scienziati europei ha pubblicato un articolo scientifico nel numero 5 di ottobre della rivista Science, il cui autore principale è il dott. Guy Reeves del Max Planck Institute for Evolutionary Biology, Plön, Germania.
Il documento rileva che il programma DARPA “InsectAllies”, “mira a spargere i virus infettivi modificati, progettati per modificare i cromosomi delle colture direttamente nei campi”. Questo è noto come “ereditarietà orizzontale”, in opposizione al
Continua qui: https://comedonchisciotte.org/perche-il-pentagono-utilizza-gli-insetti-per-scopi-militari/
Svezia: Che cos’è una “superpotenza umanitaria”?
di Judith Bergman 13 dicembre 2018
La Svezia, l’autoproclamata “superpotenza umanitaria”, fiera di difendere i “diritti umani”, ha deciso di tenere lontano dai nonni un bambino di 6 anni che ha perso la madre e di trasferirlo in un orfanotrofio in Ucraina. Allo stesso tempo, la Svezia si rifiuta di espellere i peggiori criminali e terroristi se c’è il minimo rischio che venga loro fatto del male nel paese in cui verrebbero rimpatriati.
Nonostante le aspre critiche mosse dai più alti uffici governativi svedesi, il governo di Stoccolma ha sfidato la legge svedese per consentire a 9 mila uomini afgani per lo più privi di documenti, le cui domande di asilo sono state respinte, di studiare nelle scuole superiori insieme agli adolescenti svedesi.
Già nel 2011, un reportage pubblicato dal quotidiano Dagen mostrava che le domande presentate dai richiedenti asilo cristiani in Svezia venivano respinte con maggiore frequenza rispetto a quelle presentate dai richiedenti asilo musulmani.
A ottobre, la Svezia, alla quale pare che piaccia considerarsi una “superpotenza umanitaria”, ha deciso di espellere un bambino di 6 anni e di estradarlo in Ucraina. Il piccolo era rimasto orfano di madre e il padre, che vive in Ucraina, ha formalmente rinunciato alla custodia del figlio davanti a un tribunale ucraino. Il bambino, di nome Denis, non ha altri parenti in Ucraina, pertanto dovrebbe finire in orfanotrofio.
Nel 2015, la madre di Denis lo portò con sé in Svezia, dove già vivevano i suoi genitori, e fece richiesta per ottenere un permesso di soggiorno per lei e il figlio, richiesta che però fu respinta per motivi che sembrerebbero ancora sconosciuti. I media non sembrano aver indagato sulle ragioni che hanno portato alla bocciatura della richiesta del permesso di soggiorno. L’Ufficio immigrazione svedese (Migrationsverket) ha deciso di espellere Denis, anche se vive con i nonni materni, che hanno chiesto di adottare il bambino.
“È improbabile che qualcuno possa adeguatamente prendersi cura di Denis al suo ritorno in Ucraina”, ha scritto l’autorità competente in materia di immigrazione, motivando altresì inspiegabilmente questa decisione come presa “nel miglior interesse del bambino”.
Il fatto che il piccolo sia tecnicamente un orfano e che i suoi nonni, con cui vive in Svezia, abbiano avviato una procedura di adozione, non è sufficiente per fermare l’espulsione, ha dichiarato Karin Fährlin, capo unità al Migrationsverket.
“La questione riguarda (…) un bambino che è cittadino ucraino e poi soprattutto la famiglia o il padre, o le autorità ucraine che devono rispondere di questo bambino. Questa è la motivazione [dell’espulsione]”, ha detto la Fährlin.
La decisione di espellere Denis, dopo che è stata resa pubblica in Svezia ha provocato un enorme scandalo. Più di 60mila svedesi hanno firmato su Facebook una petizione di protesta contro l’espulsione e diversi personaggi famosi e politici hanno espresso la loro indignazione per la decisione. “Sua madre è appena morta. Non ha padre. Ha sei anni e non può stare con i nonni in Svezia, ma sarà espulso e trasferito in un orfanotrofio ucraino. Questo è disumano e disgustoso”, ha scritto Jessica Almenäs, un personaggio televisivo.
La pressione esercitata dall’opinione pubblica è diventata eccessiva. I funzionari del Migrationsverket hanno temporaneamente sospeso l’espulsione e hanno ammesso di aver preso la decisione “troppo in fretta”.
“Ci sono diverse misure investigative che dovremmo prendere”, ha dichiarato Per Ek, addetto stampa del Migrationsverket. “Questo è ciò su cui lavoreremo ora.”
Le decisioni sbagliate vengono prese costantemente dalle autorità statali e dalle agenzie governative; ciò che rende differente questa decisione è che è stata presa dalle autorità svedesi competenti in materia di immigrazione, il cui ministro degli Esteri sostiene che il paese è una “superpotenza umanitaria”.
La Svezia, l’autoproclamata “superpotenza umanitaria”, fiera di difendere i “diritti umani”, ha deciso di tenere lontano dai nonni un bambino di 6 anni che ha perso la madre e di trasferirlo in un orfanotrofio in Ucraina. Allo stesso tempo, la Svezia si rifiuta di espellere i peggiori criminali e terroristi se c’è il minimo rischio che venga loro fatto del male nel paese in cui verrebbero rimpatriati.
In contrasto con la decisione di espellere il piccolo Denis, il parlamento svedese ha approvato a giugno una legge speciale che consente a un numero molto elevato di richiedenti asilo la cui domanda era stata respinta di rimanere in Svezia, nonostante le dure critiche mosse dalle più alte autorità governative. La nuova legge ha consentito a 9 mila “minori” non accompagnati provenienti dall’Afghanistan, le cui domande di asilo sono state respinte – e che quindi avrebbero dovuto essere espulsi – di ottenere permessi di soggiorno temporanei in Svezia.
Si è scoperto che circa 7mila di questi “minori non accompagnati” avrebbero più di 18 anni e pertanto non sono affatto minorenni. I permessi di soggiorno temporanei vengono rilasciati quando i “minori” intendono frequentare le scuole superiori o se sono già iscritti. In particolare, anche coloro che facevano parte di quei 9mila minori le cui identità non sono state verificate – presumibilmente perché privi di documenti – sono stati autorizzati a rimanere nel paese.
Pertanto, nonostante le aspre critiche mosse dai più alti uffici governativi svedesi, il governo di Stoccolma ha sfidato la legge svedese per consentire a 9 mila uomini afgani per lo più privi di documenti, le cui domande di asilo sono state respinte, di studiare nelle scuole superiori insieme agli adolescenti svedesi.
Sia la polizia sia i tribunali svedesi per i migranti hanno fortemente criticato la normativa, perché è in netto contrasto con la legge svedese, la quale richiede l’identificazione di coloro che intendono rimanere nel Paese. Indebolendo questo requisito, si riduce la capacità delle autorità svedesi di sapere chi vive nel Paese.
Il Consiglio legislativo svedese (Lagrådet), un ente governativo composto da giudici in carica e in pensione della Corte suprema che deliberano sulla validità giuridica delle proposte legislative, in merito alla misura ha espresso la critica più aspra che abbia mai mosso. Ha scritto che “è stato raggiunto il limite per ciò che è accettabile per quanto riguarda il modo in cui la legislazione può essere formulata”. Tuttavia, questo verdetto non ha impedito al parlamento svedese di approvare comunque la legge. E neanche il fatto che la maggioranza degli svedesi – il 54 per cento – fosse contraria a lasciar rimanere i 9mila afgani. Secondo il governo, nei prossimi tre anni i contribuenti dovranno sostenere una spesa che ammonterà a più di 2,9 miliardi di corone svedesi (circa 319 milioni di dollari) per assorbire i 9mila “minori” afgani.
La Svezia ha quindi stabilito che un bambino vulnerabile di 6 anni che ha appena perso sua madre e che vive con i nonni e frequenta una scuola materna svedese deve essere espulso. (Almeno fino a quando l’indignazione dell’opinione pubblica non l’ha costretta a riesaminare la sua decisione.)
Purtroppo, la decisione di espellere Denis non sembra affatto un errore occasionale, anzi rivela una tendenza della Svezia a favorire alcuni gruppi di immigrati rispetto ad altri.
Già nel 2001, un reportage pubblicato dal quotidiano Dagen mostrava che le domande presentate dai richiedenti asilo cristiani in Svezia venivano respinte con maggiore frequenza rispetto a quelle presentate dai richiedenti asilo musulmani. Di tutti i profughi cristiani che avevano fatto richiesta di asilo in Svezia nel 2000, meno della metà (il 40 per cento) ha ottenuto l’asilo. Nel gruppo musulmano, è stato concesso l’asilo al 75 per cento di tutti i richiedenti.
Dopo la caduta di Saddam Hussein nel 2003, la persecuzione dei cristiani iracheni da parte dei jihadisti iniziò ad aumentare in modo esponenziale. Eppure, nel 2009, la Svezia respinse 25 richiedenti asilo cristiani iracheni rimandandoli in Iraq. Di questi 25 cristiani iracheni espulsi, 24 fuggirono di nuovo dall’Iraq, mentre uno si nascose a Mosul, secondo Sveriges Radio, l’emittente radiofonica pubblica nazionale svedese.
Una coppia cristiana, che era fuggita dall’Iraq nel 2005 e aveva vissuto in Svezia per quattro anni, fu rimpatriata in Iraq nel 2009. Da lì, i due poi raggiunsero la Turchia. “Abbiamo amato la Svezia e gli svedesi, ma non dimenticherò mai come ci hanno trattato in maniera disumana le persone che ci hanno cacciato. È stato un incubo. Erano davvero svedesi?” ha raccontato a Sveriges
Continua qui: https://it.gatestoneinstitute.org/13409/svezia-superpotenza-umanitaria
AFRICANO: “DOBBIAMO STERMINARE I BAMBINI BIANCHI” – VIDEO
13 dicembre 2018
Il leader nero sudafricano, Andile Mngxitama, ha invocato lo sterminio di donne e bambini bianchi durante un comizio.
Mngxitama è il presidente di Black First Land First (BLF), partito marxista, come lo era Mandela:
“Per ogni persona licenziata dall’industria dei taxi, uccideremo cinque bianchi. Uccidi uno di noi, e noi ci prenderemo cinque di voi. Uccideremo le loro donne, uccideremo i loro figli, uccideremo qualsiasi cosa troveremo sulla nostra strada“.
Mngxitama chiede alla folla: “Per ognuno di loro, ne uccideremo quanti?”. La folla,
Continua qui: https://voxnews.info/2018/12/13/africano-dobbiamo-sterminare-i-bambini-bianchi-video/
ARTE MUSICA TEATRO CINEMA
“LORO” NON SONO LORO
3 maggio 2018 di Leonardo Petrocelli
In attesa della seconda parte, un paio di considerazioni su Loro 1 di Paolo Sorrentino. La prima: Toni Servillo, attore magistrale, non sa interpretare Berlusconi. Al pari di tutti i precedenti tentativi, altrettanto malriusciti, la resa rasenta il caricaturale, il patetico, la trasfigurazione grottesca e deformata del personaggio. Ciò che gli era riuscito con Andreotti, non gli è riuscito con Silvio. D’altronde l’impresa era improba. Il Cavaliere è già talmente “caratterizzato” con quel sorriso stampato, le battute imbarazzanti, lo strano accento milanese e il ventaglio di espressioni tipiche (cribbio, mi consenta) da essere già, in partenza, una goffa imitazione di sé. Sembra nascere, per gli attori, su un piatto d’argento. Sembra, perché è così facile da imitare che non ci riesce nessuno. Decisamente meglio Elena Sofia Ricci nei panni di una Veronica Lario dolente, un po’ intellettuale, che tiene i figli lontano dalla tv, legge “Repubblica” e chiede al marito come mai le reti Fininvest/Mediaset non abbiamo mai ospitato un programma culturale. Salvo dimenticarsi di essere stata anche lei un’attricetta con le tette al vento, tirata fuori dalle sacche dell’erotismo e ripulita a favor di rotocalchi proprio da Berlusconi. La “velina ingrata” come la definì “Libero” e come, finora, ha omesso di ricordare Sorrentino. Ma tant’è.
Più interessante è il secondo dato, meno cinematografico e più politico. Prendete la scena di Dio/Bertolaso nelle saune. Il potente di turno riceve la ragazza per consumare un rapporto veloce. Ha un asciugamano in testa che gli oscura il volto (e gli impedisce di vedere), la voce deformata da grosso un congegno elettronico e una qualche disfunzione sessuale che lo porterà a concludere il rapporto in quattro secondi netti dopo il primo tocco della fanciulla (la quale, inizialmente, mirava a sfiorargli il volto occultato, salvo poi ritrarre
Continua qui: https://ladagadinchiostro.com/2018/05/03/loro-non-sono-loro/
ATTUALITÀ SOCIETÀ COSTUME
La farsa criminale delle madri surrogate «altruiste» in Canada
Caterina Giojelli 7 dicembre 2018
In Canada anche coppie gay e single possono avere figli con l’utero in affitto per 75 mila dollari. Il business è aumentato del 400 per cento e prospera grazie alle donne che «producono bambini per amore»
C’è tutto: il video con il parto e uno dei due “padri” presenti in sala che si denuda pronto a portarsi la bambina al petto. C’è l’inquadratura che si stringe su di lui, mentre si appoggia sulla pelle la creatura appena venuta al mondo, il compagno che lo bacia sulla fronte come fosse stato lui a partorirla. C’è la partoriente entusiasta che ride a favore di telecamera: «Ho appena creato una famiglia, la famiglia di qualcun altro!». In altre parole, c’è da mettersi le mani nei capelli guardando il video della Bbc a corollario di un mega spot alla pratica della maternità surrogata “altruistica” in Canada.
VIDEO PUBBLICITARIO DEL PARTO SURROGATO QUI:
https://www.bbc.com/news/world-46430250
LA DOMANDA CRESCE DEL 400 PER CENTO
Protagonista della vicenda è Marissa Muzzell, 32 anni, 16 ore di duro lavoro per partorire una bambina, nove mesi di nausea mattutina, due ricoveri, lunghe settimane di iniezioni di ormoni e quattro trasferimenti di embrioni falliti alle spalle. E «ha fatto tutto questo per un bambino che non è suo» spiega la giornalista, così come fanno centinaia di donne in Canada che si propongono per dare volontariamente alla luce bambini «che poi torneranno a casa con qualcun altro». Qualcuno come Jesùs e Julio, una coppia gay di Madrid che stando a questo capolavoro di disinformazione della Bbc avrebbero trovato in Canada il paradiso disinteressato dell’amore. Qui la domanda di utero in affitto (chiamiamolo col suo nome perché un corrispettivo esiste) è cresciuta del 400 per cento; qui grazie a una legislazione a differenza di altri paesi aperta alle richieste di coppie gay e single, ottenere la genitorialità legale di un bambino “surrogato” è più facile che altrove.
«Molte surrogate negli Stati Uniti ricevono migliaia di dollari solo per rimanere incinte, qui in Canada non lo facciamo», dice Marissa, «non siamo macchine per bambini». Non sono macchine ma devono produrre ricevute per ogni spesa sostenuta e rimborsata dai committenti, vitamine prenatali, vestiti premaman, cibo, spostamenti per appuntamenti medici, stipendi persi per ogni giornata di lavoro saltata per motivi di salute. «Non nasce come un lavoro, ma dalla gentilezza del cuore», è il mantra delle surrogate altruiste.
ALTRUISMO DA 75 MILA DOLLARI
Una gentilezza che, scontrini alla mano, rende l’utero altruistico l’anello centrale di un business a tre zeri: se la madre surrogata riceve “solo” dei rimborsi, l’intera pratica tra agenzie, medici, avvocati, cliniche per la fertilità può costare ai committenti oltre 75 mila dollari. Secondo Katy Fulfer, dell’Università di Waterloo, esperta di surrogata, «se la maternità non è pagata non significa che non vi sia sfruttamento. Anzi, il fatto che le donne non vengano pagate è un problema: questa pratica rende la fertilità una industria for
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Allarme: crescono i bambini che abusano di altri bambini
13-12-2018 – Benedetta Frigerio
L’ospedale Children’s Mercy di Kansas City l’anno scorso ha visitato 1.000 piccole vittime di abusi di cui la metà erano state violentate da altri bambini. La colpa è della pornografia online come emerge dai dati: se la tecnologia in generale spaventa anche la Società di pediatria italiana che spiega che «usarla come pacificatore» è un’illusione, il porno da cui vengono adescati può generare mostri.
Ai genitori che sono soliti calmare i bambini con tablet o smartphone, o che semplicemente li lasciano in loro possesso quando se ne appropriano per non ingaggiare lotte sfiancanti, andrebbe detto che è meglio la fatica di un no che quella di trovarsi nella situazione descritta dal personale dell’ospedale per bambini Children’s Mercy di Kansas City. Uno scenario che dimostra quanto la tecnologia non calmi affatto i bambini ma serva a renderli non solo delle amebe o dei fruitori continui di ciò che soddisfa continuamente le loro pulsioni, ma dei veri e propri maniaci sessuali.
Il trend dei bambini-violentatori per via della facilità dell’accesso alla pornografia online descritto dall’ospedale fa tremare le gambe, «la cosa scioccante per noi tutti che stiamo raccogliendo i dati è che circa la metà dei predatori sono minorenni», ha dichiarato Heidi Olson, coordinatrice della Sexual Assault Nurse Examiner (Sane), ossia delle infermiere che in ospedale si occupano di esaminare gli abusi sessuali. Quanto è emerso dalla stima fatta è che questi violentatori hanno un’età media che va dagli 11 ai 15 anni, mentre le loro vittime sono in maggioranza bambine tra i 4 e gli 8 anni.
Jennifer Hansen, pediatra, ha poi aggiunto che «la cosa impressionate che molti di questi abusi sessuali sono violenti: aggiungono la violenza fisica a quelle sessuale». Il legame alla pornografia online non viene sottolineato solo da Olson, che ha fatto notare che «l’abuso sessuale di qualcuno è un comportamento appreso», ma anche dai racconti di alcune vittime sui predatori che facevano vedere loro immagini pornografiche da emulare oppure che le riprendevano mentre avveniva l’abuso. Alcuni baby violentatori hanno ammesso di aver visionato pornografia online. Hansen e Olson hanno sottolineato che sono molti i bambini che vengono esposti alla pornografia (anche senza consapevolezza da parte dei genitori) già all’età di 4 o 5 anni.
L’anno scorso l’ospedale ha visitato 444 bambini abusati sessualmente nei cinque giorni precedenti. Un numero, che arriva a mille se si includono i bambini abusati oltre i cinque giorni precedenti alla visita medica.
Rene McCreary, direttrice di Mocsa, associazione che aiuta le vittime di abusi sessuali e anche bambini che dai 6 anni ai 14 anni agiscono in maniera sessualmente violenta ha dichiarato alla tv 41 Kshb Kansas City che «quello che vediamo sono sempre più ragazzini e bambini con problemi di comportamento sessuale e sempre più bambini che hanno accesso alla pornografia» motivo per cui «il 25 per cento delle violenze sessuali sono commesse dai bambini». Secondo la direttrice a spiegare il fenomeno è anche il fatto che «la pornografia oggi è molto diversa da quella che era un tempo. L’80 per cento dei video e dei film tra i 15 più visti rappresentano donne picchiate, prese a sputi, a calci e insultate con nomi degradanti. McCreary, spiegando il suo programma di recupero di vittime e abusatori, fa notare che il lavoro è incentrato sull’imparare a gestire gli impulsi e gli istinti perché la tecnologia abitua i bambini al contrario, a non riuscire a tenersi a freno e all’incapacità di subire frustrazioni. Perciò sia il Children’s Mercy sia McCreary incoraggiano i genitori ad avere quelle conversazioni scomode con i loro figli sulle immagini che potrebbero vedere online o sul proprio smartphone, ma soprattutto incoraggiano a limitare ciò che i bambini possono vedere online (come spiega bene il libro “Pornolescenza”).
Il problema è sorto infatti anche in Italia dove nel giugno scorso la Società di pediatria italiana (Sip) ha dato l’allarme tecnologia, spiegando che in Italia 8 bambini su 10 tra i 3 e i 5 anni sanno usare il cellulare dei genitori, con mamma e papà spesso permissivi e assenti durante l’utilizzo: «Il 30% dei genitori usa lo smartphone per distrarli o calmarli già durante il primo anno di
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BELPAESE DA SALVARE
La chiesa scrigno ora è teatro per burlesque e … vampiri
14 dicembre 2018
Prosegue il viaggio della Nuova BQ tra gli scempi delle chiese napoletane dismesse e utilizzate per scopi profani. Santa Maria La Nova, gioiello gotico di una bellezza mozzafiato ora è completamente musealizzata: ricevimenti privati, convegni, meeting, corsi, lunch, cocktails e cene di gala, ma anche spettacoli di burlesque. E ad Halloween non poteva mancare un po’ di mistero: la “caccia” alla tomba del Conte Dracula.
A Napoli, al tempo di Carlo d’Angiò, nel 1279, i frati furono costretti ad abbandonare la chiesa di Santa Maria ad Palatium per far posto alla costruzione dell’attuale Maschio Angioino e delle strutture difensive ad esso collegate. Si trasferirono, allora, all’interno della città, ma pur sempre a ridosso delle mura occidentali e, grazie alle donazioni del futuro Carlo II, fecero erigere il convento di S. Maria la Nova. La chiesa, che nel nome richiamava il primitivo insediamento e che era destinata a diventare uno dei centri più importanti della vita religiosa napoletana, venne collocata in posizione strategica su una delle direttrici dello sviluppo urbanistico della città, quella appunto verso ovest-sud ovest, e soprattutto non vennero lesinati metri quadrati da dedicarle.
Di una bellezza e di una imponenza mozzafiato, nel cuore del centro storico di Napoli, a due passi da Piazza del Gesù e da piazza Municipio Santa Maria la Nova, era un vero scrigno di sacralità, arte e storia. Nasceva su un’altura sintomo di quell’esigenza a ritirarsi dalla confusione della città propria degli ordini religiosi, per meglio dedicarsi alla vita sacra e contemplativa. Qualche secolo dopo, il naturale silenzio e amenità di un simile luogo sono stati cancellati, tutto d’un colpo, dai dibattiti politici, gli aperitivi e i banchetti – non liturgici – che ora sono l’attività principale di una chiesa che non è più.
L’arte sacra è rimasta – la bellezza fa sempre gola, non importa se ci credi -, ma è solo utile alla strategia di marketing messa in atto: specchietto per attirare allodole che accorrono per organizzare cabaret e spettacoli di varietà, concerti e aperitivi. A maggio, per quindici euro, la serata organizzata “all’insegna del divertimento e di una piccantissima comicità” prevedeva anche un “burlesque cabaret”. “Ricevimenti privati, convegni, meeting, corsi, lunch, cocktails e cene di gala: ogni momento trova il suo spazio tra le bellezze di questa struttura”, ce n’è per tutti i gusti, ci dicono quelli che organizzano gli eventi a Santa Maria la Nova.
Parliamo dell’ennesima chiesa sconsacrata, dove gli altari, le statue, le croci, le reliquie, i santi, gli affreschi non servono più a rendere gloria e onore a Dio, ad impreziosire il luogo sacro, non fungono più come supporto dell’invisibile, emanazione del mistero divino.
Se infatti le chiese moderne sono il frutto della scotomizzazione della fede cristiana da sé stessa, fredde e buie, le chiese antiche si preferisce trasformarle in musei. Una nuova moda di cui è quasi l’emblema Santa Maria La Nova, trasformata in museo nel 2006. Nella sua storia plurisecolare il complesso monumentale è stato oggetto di molteplici trasformazioni, legate alle esigenze storiche e ai canoni estetici che li hanno ispirati, e tutte orientate al bello.
L’interno della chiesa, a croce latina e navata unica lunga circa 70 metri, racchiude innumerevoli bellezze artistiche di grande prestigio, tra queste vi è sicuramente l’altare maggiore realizzato da Cosimo Fanzago e lo splendido soffitto a cassettoni in legno dorato, nel quale sono incassate quarantasei tavole dipinte, fra il 1598 e il 1603, dai più importanti artisti napoletani dell’epoca. Nell’abside, dipinti quattrocenteschi, un crocifisso ligneo opera di Giovanni Merliani da Nola. E ancora un San Michele di Marco Pina da Siena, un Ecce Homo in legno e una natività in bassorilievo di Girolamo Santacroce. Da qualche anno tutto questo è al servizio del profano.
Dalla chiesa si accede a due suggestivi chiostri: oggi quello minore, appartenente al complesso monumentale di Santa Maria la Nova, e quello maggiore, destinato agli uffici della provincia. Mentre all’ingresso, dove oggi hanno sistemato la biglietteria del “museo-chiesa”, sono stati appesi quadri moderni tra cui una rappresentazione di una donna in burqa, proprio là dove ti aspetteresti il quadro della Vergine Maria.
Il Chiostro minore, detto anche di San Giacomo, è opera di Giovanni Cola di
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CONFLITTI GEOPOLITICI
Massiccio attacco missilistico contro Israele dopo i finanziamenti del Qatar a Hamas
di Bassam Tawil 13 novembre 2018
Pezzo in lingua originale inglese: Massive Missile Attack on Israel after Qatar Funds Hamas
Traduzioni di Angelita La Spada
Una reale tregua fra Israele e Hamas può essere raggiunta solo dopo che i terroristi jihadisti palestinesi saranno rimossi dal potere e non ricompensati per la violenza e le minacce. Lo stesso Hamas ha fornito delle prove sul perché non ci si può fidare di alcun accordo, compresa una tregua.
I 15 milioni di dollari in contanti messi a disposizione dal Qatar non sono riusciti a impedire a Hamas di lanciare centinaia di razzi contro Israele. Al contrario, il denaro non ha fatto che incoraggiare Hamas e accrescere il suo desiderio di continuare il jihad per eliminare Israele. Tutto il denaro del mondo non convincerà Hamas ad abbandonare la sua ideologia o ad ammorbidire la sua posizione nei confronti di Israele.
Ciò che i mediatori internazionali devono capire è che esiste un’unica soluzione alla crisi nella Striscia di Gaza: rimuovere Hamas dal potere e distruggere le sue capacità militari. Hanno inoltre bisogno di capire che l’unico linguaggio che Hamas comprende è quello della forza. L’ipotesi che se si danno ai terroristi milioni di dollari, essi smetteranno di attaccare – anziché usare i fondi per costruire le loro forze – si è dimostrata falsa.
La scorsa settimana, mentre si tentava di raggiungere una nuova tregua fra Hamas e Israele, il sottoscritto aveva posto una domanda legittima e molto semplice: Ci si può fidare di Hamas?
La conclusione al riguardo è che una reale tregua fra Israele e Hamas può essere raggiunta solo dopo che i terroristi jihadisti palestinesi saranno rimossi dal potere e non ricompensati per la violenza e le minacce.
Giorni dopo, lo stesso Hamas ha fornito delle prove sul perché non ci si può fidare di alcun accordo, compresa una tregua.
Da ieri, Hamas e i suoi alleati nella Striscia di Gaza hanno lanciato centinaia di razzi contro Israele. L’attuale fuoco di sbarramento è iniziato ore dopo che i terroristi di Hamas avevano attaccato un commando israeliano uccidendo un ufficiale israeliano e ferendo un soldato. In risposta, l’esercito israeliano ha ucciso sette terroristi, tra cui un alto comandante dell’ala militare di Hamas, Sheikh Nur Baraka.
Il commando israeliano non si trovava all’interno della Striscia di Gaza per uccidere o rapire qualcuno. Era lì presente per una operazione segreta di routine finalizzata a sventare attacchi terroristici da parte di Hamas e di altri gruppi terroristici palestinesi. I membri del commando, tuttavia, sono stati attaccati dai terroristi di Hamas che cercavano di uccidere o rapire qualcuno di loro. I soldati dell’unità d’élite israeliana sono riusciti a tornare in Israele grazie ai raid aerei condotti per proteggere la loro esfiltrazione.
Ma una cosa è certa: è stato Hamas e non Israele a ingaggiare lo scontro armato con la forza israeliana. È stato Hamas ad attaccare i soldati israeliani, a uccidere l’ufficiale per poi precipitarsi ad accusare Israele di aver lanciato una “nuova aggressione” contro la Striscia di Gaza. Quando i soldati israeliani hanno cercato di difendersi e hanno ucciso sette terroristi rispondendo al fuoco, Hamas ha accusato Israele di aver commesso un “crimine abietto” contro i palestinesi.
Si noti che l’attacco di Hamas contro i membri del commando israeliano è stato sferrato poche ore dopo che un inviato del Qatar aveva lasciato la Striscia di Gaza. Il funzionario qatariota, Mohammed El-Amadi, era arrivato a Gaza la scorsa settimana portando con sé valigie piene di dollari in contanti (15 milioni). Il denaro è stato consegnato ai leader di Hamas per pagare gli stipendi a migliaia di loro dipendenti della Striscia di Gaza. L’aiuto finanziario da parte del Qatar è stato offerto a Gaza con l’approvazione di Israele. L’inviato El-Amadi è perfino entrato nella Striscia di Gaza attraverso il valico di frontiera israeliano di Erez.
Ma perché Israele ha agevolato il trasferimento di contante quatariota a Gaza? Israele ha cercato – e cerca tuttora – di evitare una guerra totale con Hamas.
Israele non ha paura di Hamas. Israele semplicemente non vuole che i civili palestinesi che vivono sotto il governo di Hamas nella Striscia di Gaza paghino un altro pesante tributo per le azioni folli dei loro leader. Israele, infatti, ha più volte espresso il desiderio di alleviare le sofferenze dei palestinesi di Gaza.
Negli ultimi anni, Israele ha attivamente lavorato per sostenere gli sforzi di ricostruzione nella Striscia di Gaza. Le misure israeliane prevedono il potenziamento dell’operatività dei valichi di frontiera tra Israele e Gaza per consentire a più di 800 camion carichi di materiale da costruzione e di altre merci di entrare quotidianamente a Gaza, agevolando così il trasporto di più di 3,4 tonnellate di materiali a Gaza, dalla guerra scoppiata nel 2014 tra Israele e Hamas.
All’inizio di quest’anno, Israele ha presentato all’Unione europea, agli Stati Uniti, alle Nazioni Unite e alla Banca Mondiale vari progetti approvati dal governo israeliano per lo sviluppo delle infrastrutture nella Striscia di Gaza, per promuovere le soluzioni energetiche e creare opportunità di lavoro per il palestinesi lì residenti.
Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha difeso l’accordo della scorsa settimana con il Qatar, asserendo che mira a prevenire una “crisi umanitaria” nella Striscia. Netanyahu ha detto che avrebbe fatto “tutto il possibile” per tenere al sicuro gli israeliani che vivono nelle comunità adiacenti al confine con Gaza, pur lavorando all’obiettivo di prevenire una crisi umanitaria.
Hamas ha preso i 15 milioni di dollari in contanti offerti dal Qatar, ha pagato i suoi dipendenti, e alcuni giorni dopo ha ripreso i suoi attacchi terroristici contro Israele.
Questo è il modo di Hamas di dire grazie ai qatarioti e agli israeliani che hanno lavorato duramente per raggiungere una tregua nella Striscia di Gaza e per evitare un’altra guerra, che potrebbe causare più sofferenze ai due milioni di palestinesi che vivono lì.
Hamas ha chiaramente interpretato il gesto di buona volontà di Israele e del Qatar come un segno di debolezza. I leader di Hamas hanno perfino dichiarato che i 15 milioni di dollari sono il “frutto” dei violenti tumulti settimanali organizzati lungo il confine di Israele da marzo. Parole queste che sono state pronunciate dal portavoce di Hamas, Fawzi Barhoum, poco dopo che l’inviato quatariota ha consegnato gli aiuti finanziari alla Striscia di Gaza. Barhoum si è vantato del fatto che i palestinesi stiano finalmente raccogliendo i frutti delle loro violente proteste al confine tra Gaza e Israele.
La posizione di Hamas ricorda la sua reazione al ritiro israeliano dalla Striscia di Gaza nel 2005. Allora, Hamas e altri palestinesi interpretarono altresì il “disimpegno” israeliano dalla Striscia – volto a dare a Gaza l’opportunità di diventare una Singapore nel Mediterraneo – come un segnale della debolezza di Israele e del suo ritiro.
Alcuni mesi dopo, Hamas vinse perfino le elezioni legislative palestinesi – in gran parte perché aveva affermato di aver costretto Israele a ritirarsi dalla Striscia di Gaza compiendo attentati suicidi e lanciando attacchi missilistici. Allora, Hamas disse ai palestinesi: votate per noi perché abbiamo cacciato gli ebrei dalla Striscia di Gaza con la lotta armata.
I rinnovati attacchi lanciati da Hamas contro Israele servono a ricordare che il gruppo terroristico non è interessato a una vera tregua. Hamas vuole i milioni di dollari pagati ai suoi dipendenti per poter continuare a preparare una guerra
Continua qui: https://it.gatestoneinstitute.org/13303/hamas-missili-qatar-denaro
Uyghur: Il Partito Islamico del Turkestan, in rotta verso la globalizzazione della lotta, con un focus prioritario, Cina e buddisti.
Fonte: Madaniya, René Naba , 03-12-2018
Questo interessante articolo rivela ormai un dato di fondo. La pressione occidentale rimane costante nelle zone grige, lungo i margini dei confini degli avversari strategici, ma con due pesanti incognite: l’esistenza di zone di contesa lontane da quei bordi, marginalmente in America Latina e soprattutto in Africa; l’accerchiamento non più di un solo paese, la Russia, ma di un altro colosso, la Cina, suscettibile di produrre e consolidare un sodalizio inedito al centro del continente asiatico con una possibile opzione del terzo gigante, l’India. Come vero collante di questo possibile esito, più che l’insorgenza del movimento islamico integralista prospettata dal saggista, un mero strumento e corollario, potrebbe fungere l’acceso, inedito e feroce confronto politico in corso apertamente da ormai due anni negli Stati Uniti e la conseguente incapacità di individuare ed affrontare con una politica coerente l’avversario geopolitico principale. A quel punto ci si dovrà chiedere chi saranno alla fine in realtà gli accerchiati. Buona lettura_Giuseppe Germinario
1 – Turchia e Stati Uniti, padrini nascosti della PIT
Dopo otto anni di presenza in Siria, in particolare nel nord, nella zona di Aleppo-Idlib, il movimento jihadista del Turkestan si appresta a dare un impulso trans-regionale alla lotta, al di là della Siria, con obbiettivo prioritario: la Cina.
Tale almeno è la sostanza del discorso mobilitatore del predicatore Abu Azzam Zir tenuto in occasione del Festival Fitr nel mese di giugno 2018, mettendo in evidenza la “ingiustizia” subita dal Turkestan nei suoi due versanti, il versante occidentale (Russia) e il lato orientale (Cina).
Tuttavia, il progetto TIP potrebbe essere vanificato, da un lato, dal maggiore coinvolgimento della Cina nella guerra siriana e, dall’altro, dalla possibile modifica della precedente relazione strategica tra la Turchia e gli Stati Uniti, due ex soci della guerra fredda, ora in conflitto.
Secondo il discorso del predicatore di Abu Zir Azzam, la mobilitazione verso la Siria è stata congelata. Il Partito islamista del Turkestan (PIT) si prepara a lanciare la Jihad contro i buddisti. I jihadisti uiguri in Siria rimarranno sul posto fino a quando la loro missione non sarà completata, ma le nuove reclute verranno inviate su altri fronti.
Nel giugno 2017, la Turchia e gli Stati Uniti, i padrini occulti PIT, hanno incoraggiato questo orientamento con il pretesto di preservare i combattenti di questa formazione per assegnarli ad altri teatri di operazioni contro gli avversari degli Stati Uniti coagulatisi all’interno dei BRICS (Cina e Russia), polo di protesta per l’egemonia americana nel mondo.
2- La duplicità della Turchia: verso una zona turca in Siria sul modello di Cipro del Nord?
Ansioso di preservare i suoi allievi, “Hayat Al Tahrir Cham”, già Jabhat Un Nosra sotto filiale di Al Qaeda, in particolare gli uiguri del partito islamista del Turkestan, strattonati d’altronde tra alleanze conflittuali, il neoislamista Recep Tayyip Erdogan -Membro del gruppo di Astana (Russia, Iran, Turchia), allo stesso tempo membro della NATO, ha proposto la costruzione di una grande area per ospitare i jihadisti in una zona sotto l’autorità della Turchia per procedere alla cernita tra i gruppi islamici inclusi nella lista nera del terrorismo jihadista e raggruppate sotto la sigla VSO (opposizione siriana convalidato dal Ovest). Un’operazione in linea di principio per consentire all’esercito turco per separare il bene dal male secondo lo schema della NATO.
In altre parole, per liberare i siriani pentiti e per tenere i combattenti stranieri (ceceni, uiguri) sotto il gomito per introdurli di contrabbando in altri teatri di operazioni.
Approfittando del dispiegamento delle forze Usa nel nord della Siria nel perimetro della base aerea di Manbij, così come nella zona di Idlib, la Turchia ha approfittato di questa fase preliminare dell’offensiva per spostare i suo sostenitori, per lo più uiguri e al Moharjirine (migranti) sotto “Hayat Tahrir come Ham” tendenza salafita jihadista; il gruppo è stato incluso nella lista nera del terrorismo dalle Nazioni Unite nel 2013.
Il presidente russo Vladimir Putin ha dato la sua approvazione alla proposta turca al vertice di Sochi del 17 settembre, ansiosa di preservare la nuova alleanza con la Turchia di fronte a una guerra ibrida da parte degli Stati Uniti.
Il bracconaggio della Turchia è la carta principale della Russia nei suoi negoziati con la coalizione occidentale al punto che Mosca sembra così ansiosa di incoraggiare questa sconnessione strategica dell’asse Turchia Stati Uniti, sino a promettere la consegna del sistema balistico SSS 400 per il 2019.
Ankara spera, nel frattempo, conservando la maggior parte della sua forza di interdizione nella zona, con un obiettivo di fondo teso allo sviluppo nella zona di Idlib di un’enclave turca sul modello della Repubblica turca di Cipro. Per fare questo, si prevede di condurre un cambiamento demografico nella zona in modo da formare una sorta di barriera umana con cittadini siriani sotto la sfera d’influenza dei Fratelli Musulmani considerati come de facto sotto la propria autorità. In questa zona l’ambizione era di concentrare un terreno fertile jihadista da poter gestire secondo le esigenze della propria strategia.
Il DMZ concesso temporaneamente in Turchia si estende su una fascia ampia oltre 15 km lungo il confine siriano-turco nella zona di Idlib, che copre l’area di dispiegamento delle forze curde sostenute dagli Stati Uniti.
Con la disposizione di Sochi, la Russia ha voluto dare tempo per testare le reali intenzioni della Turchia tra cui il modus operandi che utilizza per eliminare, se non almeno neutralizzare “Hayat Al Tahrir Cham”, in conformità con le raccomandazioni dell’ONU che considera “terrorista” il franchise di Al Qaida in Siria.
Manna per la Turchia, la decapitazione del giornalista Jamal Khashoggi nel consolato saudita a Istanbul, 2 ottobre 2018, ha permesso ad Ankara l’avvio della campagna mediatica metodica contro l’Arabia Saudita per assicurare il ritiro di Riyadh dalla gestione del dossier siriano e chiedere, allo stesso tempo, l’inclusione dei jihadisti protetti nella commissione di redazione della futura costituzione siriana dalla quale erano stati precedentemente esclusi.
Il presidente Erdogan ha fatto della guerra in Siria una questione personale, che lo
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CULTURA
Robert Spaemann: «Dio c’è. Cercatelo nella grammatica»
È morto il più grande filosofo cattolico contemporaneo. Spaemann è un lettore di Nietzsche e Heidegger e degli antichi. Ecco la sua prova dell’esistenza di Dio
12 dicembre 2018
Ieri notte a Stoccarda è morto Robert Spaemann, secondo molti il più grande pensatore cattolico contemporaneo. Professore alla Ludwig-Maximilians-Universität di Monaco di Baviera, successore di Hans Georg Gadamer. Riproponiamo qui un’intervista a Spaemann realizzata da Bruno Giurato nel dicembre 2009 per Il Giornale.
Dio è il “grande rammemoratore”. L’immagine di Dio che tiene insieme il fili dei ricordi sarebbe piaciuta a Jorge Luis Borges, e Robert Spaemann, filosofo e teologo, porta una prova dell’esistenza di Dio proprio attraverso questa immagine. Spaemann ha parlato ieri pomeriggio a Roma, all’apertura della conferenza Dio Oggi, che raccoglie gli interventi di alcuni dei più attuali (e anche paradossali) pensatori dell’idea di Dio. L’ipotesi di Spaemann è la seguente. Il passato è fatto di ricordi, e anche il nostro futuro, una volta trascorso, sarà fatto di ricordi. I ricordi sono tutto quello che ci resta, si possono diradare ma non distruggere perché, come diceva Shakespeare: “what’s done cannot be undone”, ciò che è stato fatto non può non essere annullato.
Ma quando l’umanità sarà finita, la storia universale e le storie particolari estinte, quando non ci sarà nessun uomo che possa ricordare il passato, cosa succederà? Non saremo mai esistiti? Ovviamente no. Non possiamo pensare, anche noialtri medi esseri umani, noi che stamattina abbiamo fatto il caffè o che stiamo leggendo il giornale in tram, di non essere mai esistiti.
Ecco, Spaemann dimostra che non si può pensare il passato, il futuro, e un presente che scorre, senza mettere in gioco l’idea di Dio, se non altro come Grande Rammemoratore. Il pensiero ha bisogno dell’idea di Dio per poter parlare della realtà. Quando parliamo, lo facciamo dal punto di vista di un ricordo che è in noi, e che ha la sua sostanza nell’idea di Dio. Dio come collettore del passato (e anche del futuro, una volta trascorso) di tutta l’umanità. Se così non fosse potremmo benissimo svegliarci domattina e sostenere di chiamarci Paperino, non riconoscere la fidanzata e ficcarci le chiavi di casa su per il naso.
Il che comunemente non succede.
Per dirla con Nietzsche: “non possiamo liberarci di Dio finché continuiamo a credere nella grammatica”
L’ipotesi di Spaemann è detta “dell’infinito futuro”. E c’è anche un aspetto linguistico e grammaticale. Visto che la nostra esperienza è immersa nel linguaggio ed è fatta di linguaggio usiamo continuamente una grammatica costruita teologicamente. La grammatica ha a che fare con il collegamento tra le parole (coniugare i verbi, collegare nomi e aggettivi, eccetera), e il collegamento è un esercizio di memoria che ha come fondamento l’idea di Dio. Per dirla con Nietzsche: “non possiamo liberarci di Dio finché continuiamo a credere nella grammatica”. Insommma, per Spaemann “ogni verità è eterna”, e l’eternità, anche solo come presupposizione del pensiero, ha un’impronta divina. Può darci fastidio o meno, ma l’idea di Dio torna costantemente nella realtà, non ce la leveremo mai di torno. Parliamo e pensiamo come se Dio esistesse.
Ma questo non è il solo aspetto interessante -e forse non il più interessante- del pensiero di Spaemann. Spaemann, nato nel 1927, da decenni in rapporto intellettuale con Benedetto XVI, è il più originale e raffinato dei filosofi cattolici. Ha lavorato sul pensiero antico ma non è un tradizionalista, anzi nei suoi scritti si sente che ha digerito la filosofia contemporanea, l’esistenzialismo e l’ermeneutica (é stato il successore della cattedra di Hans Georg Gadamer). Ad esempio: quando Spaemann afferma che la libertà vuol dire prendere la distanza da se stessi e dalla propria natura, si potrebbe pensare a un elogio alla società postumana. E invece no, Spaemann vuol dire che bisogna abbandonare l’idea moderna del soddisfare a tutti i costi le passioni e i desideri, che bisogna accettare che ci sia qualcosa di più grande di questo io intelligente, insaziabile, martoriato e psicanalizzato. Per esempio, qualcosa come un figlio, una famiglia, una comunità, una tradizione, persino un dovere.
Insomma, Spaemann è un interprete sorprendente dell’antico, che cita Aristotele e usa la sua razionalità, ma resta segnato dal Platone, grande evocatore di miti, misteri, pericoli. Lo abbiamo incontrato poco prima della conferenza. Visto che è stato lo stesso Benedetto XVI a lanciare un’alleanza tra arte e religione chiediamo subito a Spaemann come si debba declinare questo rapporto: l’arte spesso si è allontanata dalla bellezza e ha cercato il brutto. “Ultimamente la devozione dei popoli si è legata al kitsch, tuttavia vorrei difendere un tantino il kitsch. C’è un kitsch innocente che non fa nulla di male, come quello di certe rappresentazioni religiose popolari. E poi c’è un kitsch cattivo. Il male del kitsch comincia quando l’artista punta direttamente a manifestare il suo sentimento che non è più religioso. “Chi vuol colpire il cuore, deve colpire la mente. Altrimenti va direttamente al cuore sì, ma finisce subito nella pancia” – Spaemann cita George Bernanos-.
“Dov’era Dio ad Auschwitz?”. Ho risposto allora, e rispondo ancora così: “Sulla Croce”
Ci sono artisti che tendono a presentare la propria idea di Gesù Cristo, ma i credenti molto raramente si sentono legati a queste rappresentazioni. Basterebbe vedere un’opera esposta nella galleria di Stoccarda, un Gesù Cristo dolente, ma che si trova in una campagna e non è riconoscibile. Non è il Cristo, è un uomo sofferente che rappresenta il Cristo. E’ l’immagine di una immagine. Una grande opera, perché evoca una memoria che è dentro noi tutti ma non è qualcosa di puramente soggettivo”.
L’ultimo libro di Spaemann si intitola “Rousseau cittadino senza patria. Dalla Polis alla natura. (appena uscito per la Ares Edizioni e curato da Leonardo Allodi e Sergio Belardinelli). “Rousseau era convinto che l’educazione fosse un
Continua qui: https://www.linkiesta.it/it/article/2018/12/12/robert-spaemann-dio-ce-cercatelo-nella-grammatica/40413/
CYBERWAR SPIONAGGIO DISINFORMAZIONE
FACEBOOK DICE AGLI UTENTI COSA È GIUSTO PENSARE SUL GLOBAL COMPACT
13 DICEMBRE 2018
Gli utenti contrari al Global Compact dell’ONU sulle migrazioni, sono rimasti scioccati quando, andando a condividere articoli contrari all’accordo, sono stati rimandati da facebook sul sito del giornale di sinistra Le Monde: in un articolo favorevole all’accordo.
Tutto con la scusa di avere “ulteriori informazioni su questo argomento”.
Facebook sta violando le leggi. Non solo quelle antitrust, anche quelle sull’editoria.
I social godono di un privilegio: quello che gli utenti scrivono sulle loro piattaforme
Continua qui: https://voxnews.info/2018/12/13/facebook-dice-agli-utenti-cosa-e-giusto-pensare-sul-global-compact/
Verità per Regeni? Verità su Regeni!
Pubblicato: 05 Dicembre 2018
di Roberto Buffagni
“Verità per Regeni”? Vediamo un po’. Di verità sull’argomento ce n’è solo una briciola. Cominciamo da quella, poi passiamo alle ipotesi.
Briciola di verità
Regeni lavorava per una azienda privata di intelligence, la Oxford Analytica.[1]
All’epoca dei fatti, il responsabile di Oxford Analytica è David Young, capo dell’équipe che per conto del presidente Nixon scassinò gli uffici del Partito Democratico al Watergate, facendosi beccare e innescando il processo che condusse all’impeachment e alle dimissioni dello statista repubblicano. Nel board, a fare da testimonials, ci sono John Negroponte[2], responsabile diretto dell’organizzazione degli squadroni della morte nell’America Latina anni Ottanta, e Sir Colin McColl [3], Control dell’MI6 (ora SIS) dal 1988 al 1994.
Regeni agente segreto?
Regeni non, ripeto non era un agente segreto. Per Oxford Analytica, Regeni lavorava da precario, in subappalto, stesso tipo di rapporto che intercorre fra un fattorino che consegna la pizza a domicilio e la catena di fast food che lo assume. Conforme a una plurisecolare tradizione di rapporti organici d’interscambio tra Oxbridge e servizi segreti britannici, il rapporto diretto con Oxford Analytica ce l’avevano i suoi professori di Cambridge, che utilizzavano i graduate students e i ricercatori come manovalanza a basso prezzo.
Queste agenzie private di intelligence non sono la SPECTRE. Si fanno pagare a caro prezzo informazioni di secondo e terz’ordine, abbagliando gli acquirenti con i nomi di prestigiosi pensionati dell’intelligence. Siccome lavorano esclusivamente per il profitto economico, certo non si danno la pena di addestrare gli agenti sul campo, e tantomeno i fattorini come Regeni. Regeni infatti, a quanto risulta dalla semplice lettura dei giornali, non era stato neanche minimamente addestrato. Nei giorni precedenti il suo sequestro, ad esempio, agenti della sicurezza egiziana erano passati a casa sua per informarsi su di lui. Probabile che Regeni neanche lo sapesse, perché non s’era creato una rete di sicurezza intorno alla sua abitazione (basta pagare qualcuno dei vicini e il portinaio, non ci vuole James Bond); oppure l’ha saputo e l’ha sottovalutato. Ignoranza e sottovalutazione in un contesto come l’egiziano, dove il governo è sottoposto a tensioni politiche interne e internazionali enormi, e mentre sono in ballo poste economiche e politiche immense (era stato scoperto un enorme giacimento di petrolio nelle vicinanze e andavano firmati i contratti per l’estrazione, e in Egitto c’è il canale di Suez) sono l’equivalente di un tentato suicidio, come sedersi a prendere l’aperitivo in corsia di sorpasso in autostrada.
Escludo poi ogni rapporto diretto tra Regeni e il SIS. Il SIS non aveva nessun bisogno di reclutare Regeni; più pratico e sicuro usarlo a sua insaputa, tanto c’erano i suoi prof. di Cambridge e dell’American University del Cairo a fargli fare quel ch’era utile facesse. I servizi d’informazione usano abitualmente il metodo della leva lunga: stare il più lontani possibile dal personale che usano, utilizzando intermediari, in modo da garantirsi la plausible deniability.[4] Regeni presentava anche il pregio di non essere cittadino britannico, e di essere quindi per antonomasia expendable: i servizi inglesi sono celebri, oltre che per la loro abilità, per la loro cattiveria abissale e il loro cinismo terrificante in un mondo dove i chierichetti non allignano. Si acquisti al modico prezzo di 9 euro The Secret Servant: The Life of Sir Stewart Menzies, Churchill’s Spymaster di Anthony Cave Brown[5] e si vedrà quel che intendo.
A maggior ragione escludo ogni rapporto diretto tra Regeni e AISE. E’ vero che i servizi d’informazione italiani, dopo la sciagurata riforma e sostituzione del vecchio personale con il nuovo, sono molto peggiorati da tutti i punti di vista, anzitutto professionale: opera di Massimo D’Alema, il Signore si ricordi di lui al momento buono.
(Digressione: uno degli errori più gravi della riforma è stato smettere di pescare i quadri dalle FFAA, mentre l’addestramento e la selezione militari sono indispensabili se si vogliono quadri adeguati al servizio di spionaggio e controspionaggio. Esempio, Calipari. Io non credo a complotti o rappresaglie degli americani. Calipari, ottimo funzionario di polizia, è morto coraggiosamente proteggendo la Vispa Teresa Sgrena perché, non avendo formazione militare, ha fatto un errore blu in zona di operazioni. Al momento di esfiltrare la Sgrena ha privilegiato la velocità del mezzo, perché dove non si combatte, è effettivamente più sicuro fare così: la cosa importante è arrivare a destinazione sicura prima che l’opposizione riesca a organizzare una risposta e a intercettarti. In zona di operazioni, invece, e specialmente in quella zona di operazioni, salire in automobile civile e andare sparati = disegnarsi un bersaglio sul cofano, e infatti l’hanno centrato. E’ un errore che io, pur non essendo né James Bond né von Clausewitz, non avrei fatto mai. Bastava prendere un autoblindo, andare a 40 kmh, e oggi Calipari sarebbe vivo e vegeto e potrebbe illustrare alla Sgrena alcune realtà fondamentali del mondo e della politica internazionale).
In sintesi: escludo un rapporto organico tra Regeni e l’Aise perché se fosse vero, l’Aise andrebbe subito gettato nelle fiamme dell’inferno in toto, in quanto composto esclusivamente da traditori o da minus habentes con QI inferiore a 80, essendo il risultato più che prevedibile dell’operazione in cui sarebbe stato coinvolto Regeni un colossale autogol per l’interesse nazionale italiano.
Pure ipotesi
Regeni studia sociologia a Cambridge. Viene mandato al Cairo, alla American University, celeberrimo centro di reclutamento dell’anglosfera per la classe dirigente egiziana e non solo. Lì fa ricerche di sociologia “embedded”, dice la professoressa Maha Abdel Rahman, la sua tutor [6]. Cosa vuole dire “embedded”? Vuole dire che non va in archivio e basta, ma frequenta ambienti sociali i più vari, registra posizioni politiche e progetti, prende indirizzi e telefoni, nomi di leader, etc. I professori di Cambridge vendono queste e altre informazioni a Oxford Analytica, che le ridistribuisce tra i suoi clienti. Non so se Regeni ci abbia guadagnato qualche soldo, magari sì magari no, ma non è questo il punto. Il punto è che le informazioni raccolte da Regeni sono anche la materia prima per chi organizza “rivoluzioni colorate” et similia. Le rivoluzioni colorate funzionano così: prima si fa leva sulle opposizioni liberali e occidentaliste buone, democratiche e non violente, poi si gioca la carta vera, perché la linea di faglia vera sta lì: la carta etnico-religiosa, che tanto liberale e non violenta non è (“democratica” forse, nel senso che trova largo appoggio tra le masse). L’impero britannico la carta etnico-religiosa contro i nazionalismi arabi e non solo la sta giocando da duecento anni, non è una cosa nuova. Tra Fratelli musulmani e Gran Bretagna, per esempio, c’è un rapporto organico da sempre [7]. Il presidente democraticamente eletto dell’Egitto, prima di Al Sissi, era Muḥammad Mursī [8], del Partito Libertà e Giustizia, espressione politica dei Fratelli musulmani.
Non so se Regeni provasse simpatia ideologica per le “opposizioni democratiche”; probabilmente sì, visto che voleva pubblicare sul “il Manifesto”, che si è illustrato per l’appoggio ideologico alle “rivoluzioni colorate” in quanto le fa el pueblo che quando scende in piazza ha sempre ragione. Secondo me è una ideologia disastrosa, ma in questo caso l’ideologia è il meno. Il più è questo: che né Regeni aveva capito da solo, né i suoi mandanti gli avevano spiegato, che stava partecipando in prima linea a un’azione di guerra coperta (destabilizzazione) contro il governo egiziano. In guerra ci si fa male, molto male. E’ poi quasi certo che ci lasci la pelle se ci vai senza una minima preparazione, se passeggi lungo la linea del fuoco con il gelato in mano. Ora, perché Regeni non ci sia arrivato da solo non lo so. Perché da giovani ci si sente invulnerabili? Perché uno studioso non è un uomo d’azione? Non lo so. Ma i suoi mandanti, invece, lo sapevano eccome.
I suoi professori di Cambridge avevano sicuramente un rapporto diretto con l’agenzia privata di intelligence per cui lavoravano. Avevano sicuramente un rapporto o diretto, o indiretto attraverso l’agenzia privata, con il SIS[9]. Poi magari anche i suoi professori non si rendevano pienamente, emotivamente conto di quel che stavano facendo fare a Regeni, perché un conto è andare sul campo, un conto fare analisi seduti nel proprio studio con il termosifone che ronfa: anche l’analista militare più spregiudicato, se non ha visto mai un morto ammazzato, se non si è mai sentito fischiare nelle orecchie una pallottola, stenta a mettersi nei panni del soldato in zona di combattimento. In questo campo, tra la teoria e la pratica c’è la stessa differenza che passa tra un manuale di educazione sessuale e un rapporto sessuale vero e proprio.
Il fatto è che a Regeni, i don e i fellows di Cambridge non gliel’hanno raccontata chiara. Non gli hanno detto, versione A: “Giulio, ti mandiamo sul campo a raccogliere dati in vista di una destabilizzazione del governo egiziano, siamo certi che ci andrai volentieri perché gioverà alla tua carriera e perché così combatterai per la democrazia, il progresso e il bene del popolo egiziano.” Se gliel’avessero detto, magari Regeni, che non era stupido, ci pensava un attimo, si domandava a quali rischi andava incontro, quali coperture gli assicuravano sul campo, chiedeva perlomeno di essere addestrato a un mestiere che – lo avrà visto, qualche film di spionaggio! – sapeva non essere di tutto riposo, etc.
Gli avranno invece detto, versione B: “Giulio, sei proprio bravo, perché non approfondisci la tua ricerca entrando nel vivo della dialettica sociale egiziana? Gioverà alla tua carriera e darai un contributo al progresso sociale in Egitto.” Regeni non ha tradotto la versione B nella versione A, ha pensato che tutto sommato faceva solo della ricerca sociologica, anche più interessante e coinvolgente; che essendo straniero e occidentale, coperto da importanti istituzioni quali le università di Cambridge e American del Cairo, dalle diplomazie italiana, americana e inglese era al sicuro, ed è andato sulla linea del fuoco senza aver mai sparato un colpo neanche al poligono, senza aver visto una pistola tranne che in TV, e senza sapere sul serio che quella era la linea del fuoco: perché in una guerra coperta, la linea del fuoco è la strada sotto casa, l’edicola dove compri il giornale, il bar dove fai colazione la mattina, la tua camera da letto.
Così ha fatto una fine atroce, lasciando nella mente dei suoi genitori un’immagine di orrore senza nome che non si spegnerà mai finché resteranno vivi, e gli angoscerà la veglia e il sonno per sempre.
A occhio e croce, sono stati i servizi egiziani a torturare e uccidere Regeni. L’interrogatorio serviva a ottenere i nomi dei suoi contatti, e forse anche le intenzioni dei suoi mandanti, che probabilmente Regeni non conosceva: motivo più che sufficiente per
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DIRITTI UMANI – IMMIGRAZIONI
PER FAMIGLIA CRISTIANA DOBBIAMO MANTENERE I GHANESI
13 DICEMBRE 2018
Perché in Ghana c’è la famosa guerra in Siria
A farlo infuriare è l’ennesimo articolo pubblicato da Famiglia Cristiana che, a suo dire, riscrive la realtà pur di attaccarlo. “Il decreto Sicurezza – spiega il vice premier leghista – non è retroattivo e non caccia i bambini dai centri di accoglienza”. Eppure, per il settimanale dei Paolini, una famiglia ghanese sarebbe finita improvvisamente in mezzo alla strada proprio per colpa del ministro dell’Interno.
“Non si può invitare a fare il presepe e non accogliere negli Sprar una coppia vera di giovani sposi che ha avuto un bimbo qualche mese fa e che ora è per strada – scrive l’arcivescovo di Campobasso, monsignor Giancarlo Maria Bregantini – non si può venerare il Crocifisso senza aver solidarietà con i Crocifissi della storia”. L’intervento dell’arcivescovo chiude un approfondimento della rivista sul significato del Presepe in cui si racconta la storia di Yousef e Faith, genitori di una bimba di sei mesi e in attesa di un altro figlio, espulsi dal Centro di accoglienza di Crotone e gettati su una strada, a causa, scrive il monsignore, del decreto sicurezza. In aiuto della famiglia sono intervenuti la Caritas e la Croce Rossa, che hanno offerto una sistemazione provvisoria, fino a che una coppia ha messo a disposizione una casa sfitta.”È assolutamente falso”, tuona Salvini. L’allontanamento dalle strutture di accoglienza riguarda, infatti, tutti quegli immigrati che non hanno più diritto a rimanervi. Lo stesso avveniva anche prima che il parlamento approvasse il decreto Sicurezza. Eppure Famiglia Cristiana ha montato ad arte il caso di una famiglia ghanese che adesso si troverebbe senza un posto dove andare a dormire. “Sono impegnato, da ministro e da padre, a difendere i veri profughi
Continua qui: https://voxnews.info/2018/12/13/per-famiglia-cristiana-dobbiamo-mantenere-i-ghanesi/
ECONOMIA
Perché di fronte ai contabili dell’Ue Italia e Francia non sono uguali
Polemiche a parte, sono i numeri e le regole europee a chiarire che la situazione francese e quella italiana sono molto diverse, sia sul piano dei fondamentali macroeconomici sia su quello del rispetto (o sarebbe meglio dire del mancato rispetto) delle norme Ue
14 dicembre 2018,23:52
Un ‘filo giallo’ unisce le vicende dei gilet francesi e quelle del governo italiano nello scontro con la Ue sui conti pubblici. Nelle ore cruciali della trattativa tra governo e Commissione sulla manovra, la decisione di Emmanuel Macron di allargare le maglie del bilancio per placare la protesta di piazza, ha scatenato le ire della maggioranza giallo-verde e un desiderio di ‘revanche’.
Bruxelles non può usare due pesi e due misure, se la Francia ‘sfora’ il deficit può farlo anche l’Italia, dicono Lega e M5S accusando di partigianeria filofrancese Pierre Moscovici. La Francia può superare il 3%, purché sia una misura temporanea, eccezionale e comunque sotto il 3,5%, risponde il commissario Ue.
Polemiche a parte, sono i numeri e le regole europee a chiarire che la situazione francese e quella italiana sono molto diverse, sia sul piano dei fondamentali macroeconomici sia su quello del rispetto (o sarebbe meglio dire del mancato rispetto) delle norme Ue.
Similitudini e differenze tra Italia e Francia
Partiamo dall’inizio: Francia e Italia, come tutti i paesi membri, hanno presentato a ottobre il loro piano di bilancio alla Commissione. Ma mentre l’esecutivo Ue ha verificato nella manovra italiana uno ‘scostamento senza precedenti’ delle regole, Parigi ha ottenuto il via libera di palazzo Berlaymont, con una formula che in passato era stata usata anche per l’Italia: Parigi è promossa malgrado un “rischio di deviazione significativa” dagli impegni.
Le richieste francesi
La Francia, sotto procedura per nove anni che si è conclusa solo nella primavera scorsa, ha presentato una manovra con un deficit al 2,8% per il 2019. Obiettivo che include una misura una tantum – la sostituzione del Credit d’impot pour la compétitivité et l’emploi con una riduzione diretta dei contributi sociali a carico delle imprese – che ha un impatto dello 0,9% del Pil. Senza questa misura una tantum, il deficit francese nel 2019 sarebbe all’ 1,9% e scenderebbe all’ 1,4% nel 2020.
Le richieste italiane
L’Italia invece ha spedito a Bruxelles un progetto di bilancio con un deficit/Pil nominale al 2,4% (poi ridotto a 2,04% in queste ore). Ma cosa molto più rilevante, per le regole Ue, è che il miglioramento del deficit strutturale della Francia è stimato dalla Commissione in miglioramento dello 0,2%. La situazione italiana è decisamente diversa: all’Italia veniva chiesto un miglioramento del saldo strutturale dello 0,6%, ma il governo giallo-verde aveva presentato un documento che prevedeva invece un peggioramento dello 0,8%, quindi uno scostamento del 1,2% definito da Bruxelles “molto grave”.
Come sta messa Parigi con il suo deficit
Che la Francia ‘sfori’ il suo deficit è altamente probabile. Gli annunci di Macron, stimati in circa 10 miliardi di euro, potrebbero in effetti portare il disavanzo francese vicino al 3,5% secondo le cifre fornite dallo stesso Tesoro di Parigi, anche se il governo francese non ha ancora messo nero su bianco le possibili coperture.
Ma le regole europee prevedono la possibilità per un Paese di superare il tetto del 3% a determinate condizioni, ovvero se lo sforamento è considerato temporaneo (un solo anno) e eccezionale (determinato da misure una tantum, come per esempio appunto la sostituzione del Credit d’impot pour la compétitivité et l’emploi).
La Commissione ci ha già dato flessibilità
La Commissione dunque teoricamente potrebbe concedere un po’ di flessibilità alla
Continua qui: https://www.agi.it/politica/conti_italia_francia_procedura_infrazione-4743537/news/2018-12-14/
Giappone, debito pubblico 4 volte quello dell’Italia ma ecco cosa succede
Eugenio Palazzini – 01/10/2018
Giappone, debito pubblico alle stelle ma disoccupazione ai minimi storici
Il debito pubblico del Giappone? Tocca una cifra pari agli 8 mila miliardi di euro. Ovvero quattro volte quello italiano.
Quello del Sol Levante è in assoluto il debito pubblico più alto al mondo, con un rapporto debito-Pil esploso fino al 240%
La gran parte degli economisti, in particolare ovviamente i guru del liberismo, ritengono che questi numeri siano decisamente allarmanti e sovente ne agitano lo spauracchio per lanciare strali infuocati contro qualunque governo osi mettere in discussione le loro teorie insindacabili.
Una sorta di pensiero unico dominante dell’economia e della finanza, che ben pochi osano mettere in discussione. Pena ovviamente i soliti “mercati” pronti a utilizzare la scure.
Eppure, proprio il Giappone sembra smentire questi dogmi, grazie a una crescita continua che manda in tilt i Giannino e i Giannini di turno.
Difficile quindi che qualcuno creda alle sirene di qualche burocrate
Continua qui: https://www.ilprimatonazionale.it/esteri/giappone-debito-pubblico-alle-stelle-ma-disoccupazione-ai-minimi-93758/
Ue vuole ancora di più, Moscovici chiede altri tagli
13 dicembre 2018, di Daniele Chicca
Nonostante l’apprezzamento per la proposta italiana di ritocco della legge di bilancio 2019, l’Unione Europea chiede un ulteriore sforzo al governo. Pierre Moscovici, commissario europeo agli Affari Economici, ha definito “insufficiente” la riduzione del deficit.
Dopo che il governo Conte aveva presentato un piano di revisione della manovra finanziaria che fissa il rapporto tra deficit e Pil al 2,04%, i mercati hanno festeggiato con la Borsa italiane e i Btp che sono molto richiesti stamattina. Lo Spread tra Btp e Bund è sceso sotto quota 270 punti base e i rendimenti dei Btp sono scesi ai minimi da settembre.
Ma Bruxelles ha spiegato che tutto questo non basta: “non ci siamo ancora”, ha dichiarato. Intervenuto in un’audizione al Senato Moscovici, ex ministro francese degli Affari europei del governo Jospin, ha detto che “è un passo nella buona direzione, ma vorrei tuttavia aggiungere che non ci siamo ancora, che restano ancora dei passi da fare, forse da entrambe le parti”.
Non si possono violare le regole Ue
Nessuno stato membro dell’UE può permettersi di violare le regole del patto di stabilità e crescita, anche perché sarebbe messa in gioco la sua credibilità, e per questa ragione la Commissione, l’organo esecutivo del blocco, deve mostrarsi intransigente, ha spiegato Moscovici.
“Non si possono violare le regole”, ha insistito il commissario ribadendo che l’Italia è inadempiente e che non c’è un “trattamento di favore” nei confronti della Francia, il cui deficit sforerà ampiamente il 3% l’anno prossimo dopo
Continua qui: http://www.wallstreetitalia.com/ue-vuole-ancora-di-piu-moscovici-chiede-altri-tagli/
FINANZA BANCHE ASSICURAZIONI
Banche: l’evoluzione dagli Anni 60 a oggi
13 dicembre 2018, di Dott. Gianfranco Antognoli e Dott. Fernando Cruz
Concordiamo con quello che ha affermato il Dr. Gronchi (Direttore di Banca Toscana, Dirigente Centrale e Provveditore Generale di MPS e successivamente di Banca Popolare Italiana, AD della Cassa di risparmio di S. Miniato), il sistema bancario è un organismo dinamico in continuo movimento ed evoluzione che si adatta alla situazione sociopolitica internazionale. Sono da annoverare dalla seconda metà del 900 ad oggi tre cambiamenti che hanno mutato il sistema bancario radicalmente. Questo lo scenario disegnato dal Dr. Gronchi ad un seminario di AssodirBank a Firenze.
Fino agli anni 60 la banca svolgeva come attività principale la raccolta e gli impieghi sulla clientela con vincoli operativi imposti da Accordi interbancari che fissavano i tassi massimi da corrispondere sulla raccolta e minimi da percepire sugli impieghi. La formazione del personale era incentrata sui crediti. Dal 62 vennero ammessi i depositi interbancari ed era possibile negoziare i Buoni Ordinari del tesoro, segno che stava ad indicare una separazione tra il Tesoro e la Banca d’Italia. Fu questo un periodo di grande fermento che vide anche un aumento della concorrenza nel sistema creditizio, ma senza modifiche strutturali nei modelli, nel ruolo e nelle competenze del Personale Direttivo. Nonostante queste ultime affermazioni era aumentata sia la complessità del lavoro che l’importanza della figura del Tesoriere.
Il secondo mutamento che andremo a enunciare riguarda le prime due Direttive bancarie europee (1977, 1989). In Italia la prima direttiva fu recepita otto anni dopo la promulgazione in Europa, mentre la seconda direttiva fu recepita nel 1992. I temi trattati dalle due direttive erano rispettivamente: libertà di stabilimento in Europa e la disciplina delle licenze bancarie, la competenza di Vigilanza dello Stato di origine e la configurazione dell’Ente creditizio come operatore unico. Ci fu una riaffermazione del carattere imprenditoriale dell’attività bancaria che ha messo fine a quella visione di pubblici ufficiali che si era creata attorno ai dipendenti delle banche pubbliche.
Questa natura d’impresa venne ribadita anche nel testo unico del 93 assieme alla concorrenza, l’efficienza, la stabilità e la sana e prudenziale gestione. Operativamente parlando si assiste ad un’evoluzione, in particolar modo l’istruttoria dei fidi, che dagli anni 30 non aveva particolari innovazioni, subì modifiche sia per l’accentramento decisionale che per il frazionamento della stessa e sia per la gestione dei crediti quale portafoglio unico o settorizzato. Dunque, fino agli anni 2000 il personale direttivo aveva ancora un ruolo importante anche se erano già operativi programmi informatici idonei a consentire il governo ed i controlli accentrati che affievolivano sempre più il potere dei titolari delle filiali.
L’ultima fase di questa evoluzione comincia all’inizio del 2000 dove all’interno della Tesoreria venne rivoluzionato l’intero impianto, essa avrebbe dovuto rendere compatibili e coerenti i flussi derivanti dai depositi e dagli impieghi (sia a breve, a medio che a lungo termine) provenienti dalle filiali neutralizzando il rischio di interesse tramite i derivati e provvedendo piani di emissione di obbligazioni sui mercati finanziari internazionali. In questo periodo l’attività di gestione era caratterizzata da una normativa BCE e Bankit invasiva che incideva sulla governance, sui capitali minimi necessari e pesantemente sui controlli; da una riduzione dei costi, necessaria a far fronte alla carenza dei margini da interessi; da una carenza professionale del personale dovuta sia ai punti precedenti che alla inadeguata preparazione. Tutto questo portò alla nascita di nuove figure professionali come il Risk Manager e alla riduzione dell’operatività di altre, questi tra cui i titolari delle filiali.
Questi ultimi hanno avuto una riduzione dell’autonomia, limitandola all’assistenza creditizia delle famiglie e delle piccole imprese inoltre l’accentramento dell’analisi dei bilanci presso i laboratori fidi, il ritorno di flusso della Centrale Rischi e l’elaborazione del rating a livello centrale hanno ridotto il loro margine di valutazione e ridotto la loro operatività alla richiesta di fido e all’illustrazione dell’andamento degli affidati. Si può ben capire che l’operatività ha avuto un accentramento sempre maggiore, dove l’alta direzione guida attraverso procedure sempre più sofisticate lo svolgimento delle operazioni.
Oggi il ruolo dei titolari delle filiali è sempre più spesso relegato a dirigere e sovrintendere il personale addetto alla filiera a cui sono addetti, a fare pressioni per il raggiungimento degli obiettivi assegnati. Per cui si è lontani dal ruolo imprenditoriale che si sollecitava negli anni passati. Questa tendenza in atto continuerà anche nel futuro, accentrando competenze e responsabilità sempre più nei manager delle Direzioni Generali.
Indice reputazionale
“I grafici precedenti mostrano la situazione socioeconomica italiana precrisi (1) e post crisi (2) e il ruolo svolto dalla banca in questo sistema. Prima della crisi economica del 2008 la situazione socioeconomica italiana era riassumibile come una piramide dove al vertice erano collocate le persone con stipendi elevati, al centro chi percepiva un reddito medio e alla base colore che possedevano un reddito basso, in questo caso la banca fungeva da trampolino di lancio per tutti quei soggetti che investendo su se stessi o sulla propria attività riuscivano ad elevarsi dalla fascia bassa alla fascia media quindi il sistema bancario svolgeva un ruolo di aiuto nei confronti della massa. Oggi invece, lo scenario è molto diverso e rappresentabile sotto forma di clessidra dove le fasce di reddito sociale sono rimaste pressoché invariate, la variazione maggiore è nel ruolo svolto dalla banca dove adesso invece di aiutare le persone a migliorare la propria condizione economica spinge la fascia media verso il basso riducendo ancor di più il gap differenziale tra coloro che stanno in alto e la massa che sta alla base. L’indice reputazionale generale per le banche subisce logicamente le conseguenze e le aspettative della clientela che ha perduto una fiducia storica nella istituzione bancaria.”
Concludendo gli spunti forniti dal Dr. Gronchi possono risultare utili per tutti
Continua qui: http://www.wallstreetitalia.com/opinioni/banche-levoluzione-dagli-anni-60-a-oggi/
Da Cuccia a Marcinkus: le interviste possibili di Gotti Tedeschi
Ettore Gotti Tedeschi ha deciso di togliersi qualche sassolino dalle scarpe con un curioso libro, Colloqui intimi. L’arte maieutica della polemica. Trecento interviste immaginarie ad altrettanti personaggi storici: da San Francesco a Carlo VIII fino al suo “predecessore” allo Ior Marcinkus. Scoprendo che…
13 dicembre 2018
Ettore Gotti Tedeschi è un banchiere balzato agli onori delle cronache, purtroppo, non per una sua grande impresa ma per una sua grande defaillance: la cacciata a furor di Curia dalla presidenza dello Ior, la banca vaticana. Già presidente della sezione italiana del Banco di Santander, ha firmato con me il libro Denaro e Paradiso (Lindau), tradotto all’estero. Ora che è in pensione, ha deciso di togliersi qualche sassolino dalle scarpe con un curioso libro, Colloqui intimi. L’arte maieutica della polemica (pagg. 422, €. 29).
Si tratta di circa trecento interviste immaginarie ad altrettanti personaggi storici, alcuni del passato trapassato, altri del passato recente.
Si va da san Michele Arcangelo a san Francesco d’Assisi, da Carlo VIII re di Francia a Giovanni Giolitti, passando per Leibnitz, Stuart Mill, Robert Grosseteste, Giambattista Vico eccetera eccetera. Lo stile è ironico, talvolta scanzonato e, se l’intervistato lo consente, non manca il paragone con la situazione odierna, ideologica, politica o ecclesiale che sia. Scorrendo il libro non si
Continua qui: http://www.lanuovabq.it/it/da-cuccia-a-marcinkus-le-interviste-possibili-di-gotti-tedeschi
LAVORO PENSIONI DIRITTI SOCIALI
L’inizio del lavoro visto dalla sua fine
24 SETTEMBRE 2018 – LORENZO COCCOLI
«The persistent feeling […] that the world as it was could never be more than a fraction of the world, for the real also consisted of what could have happened but didn’t»
(P. Auster, 4 3 2 1)
Capire dove, nel corso più o meno lungo del passato, si è prodotto il futuro che stiamo vivendo: ecco l’obiettivo minimo a cui ogni storica o storico mosso da autentica urgenza politica dovrebbe ambire. Ma poi, se oltre a capire si vuole cambiare, questo da solo ancora non basta. Bisogna allora spingersi più in là, mostrare non solo ciò che è e ciò che è stato, ma anche ciò che avrebbe potuto essere, portare la storia a ebollizione fino a rivelarne il nocciolo incandescente di potenzialità non realizzate e però, almeno in linea di principio, realizzabili. Con L’inizio del lavoro (Carocci, 2018), Federico Tomasello riesce nel compito non facile di tenere insieme entrambe queste prospettive euristiche, in un esercizio di storiografia militante che, pur senza cedimenti sul piano del rigore scientifico, non si rifugia mai dietro il pretesto di un’oggettività distaccata da antiquario. Merito di un angolo di osservazione scorciato, non neutrale, esplicitato già nelle battute introduttive e radicato nelle contraddizioni di un vissuto generazionale: quello cioè di coloro a cui forse per primi è stato dato di vivere nell’età della fine del lavoro, del «prendere forma dell’aporia di società divenute incapaci di garantire il supporto in cui esse stesse avevano inscritto il vettore fondamentale dell’inclusione» (p. 9).
A partire da questo dichiarato ancoraggio nei paradossi del nostro tempo, il libro procede à rebours andando a indagare la genesi di quell’inscrizione, l’origine ottocentesca dei processi che hanno portato alla costruzione del «nesso identitario fra lavoro e cittadinanza» (p. 143), perno di molte delle costituzioni europee del dopoguerra. Rispetto però alle ipotesi storiografiche più consolidate, che tendono ad assegnare alla vicenda quarantottesca il ruolo di cesura epocale, Tomasello risale ancora indietro di un passo, scegliendo di concentrarsi sulla temperie sociale, culturale e politica della Francia degli anni Trenta. Un evento fa insieme da terminus a quo del ragionamento e da pietra di paragone per misurare gli scivolamenti, le trasformazioni, le rotture del discorso pubblico sotto la monarchia di Luglio: la rivolta dei tessitori lionesi nel novembre 1831 contro i commercianti di seta, la cui eco segnerà a fondo, dentro e fuori il parlamento, le traiettorie teoriche delle principali forze politiche. Primo vagito del nascente movimento operaio o, forse meglio, canto del cigno del mondo artigiano davanti all’avanzata del modo di produzione capitalistico? Poco importa, almeno ai fini dell’analisi di Tomasello, meno interessato a decidere dell’esatta natura della cosa che a verificare «l’interferenza fra il suo regime temporale evenemenziale e quello lungo delle idee, del lessico e dei concetti politici» (p. 135). Il libro segue dunque con precisione le relazioni tra il dispiegarsi progressivo degli effetti dell’insurrezione di Lione e le metamorfosi pratiche, istituzionali e ideologiche dei due campi – peraltro al loro interno piuttosto disomogenei – in cui la scena pubblica del regime orleanista viene allora a dividersi: quello governativo-liberale e quello dell’opposizione repubblicana e (proto)socialista.
I liberali innanzitutto, che tra le proprie fila annoverano nomi del calibro di Guizot e Tocqueville. Qui le giornate di novembre fanno da catalizzatore di spostamenti concettuali significativi, grazie anche all’azione costante della neo-rinata Académie des Sciences Morales et Politiques e alle prime inchieste sulle condizioni di vita dei ceti popolari e urbani condotte sotto la sua egida, in cui Tomasello riconosce il laboratorio che darà forma al quadro epistemico e metodologico delle future scienze sociali. Un nodo di sapere e potere viene allora stringendosi attorno a questo oggetto da poco inventato, la società; attraverso le lenti della statistica e del discorso medico, il pauperismo comincia a essere visto non più come fenomeno esotico o barbarico esterno ai confini dell’ordine proprietario ma come prodotto – deprecabile e però necessario – tutto interno agli assetti economici del XIX secolo; nuove strategie di integrazione e governo della manodopera vengono messe in campo (patronage, libretto operaio, casse popolari di risparmio, primi abbozzi di assicurazione obbligatoria); e nel magma indifferenziato della questione sociale si inizia a separare il grano delle classes laborieuses dal loglio di quelle dangereuses, col lavoro che assurge al ruolo di shibboleth morale e di essenziale strumento pedagogico.
Pur partendo da tutt’altri presupposti, gli ambienti vicini al mondo operaio finiscono per convergere su esiti non interamente dissimili. Di nuovo, i tessitori lionesi segnano in questa parabola uno scarto decisivo. Non tanto però sul piano delle rivendicazioni immediate – ancora legate a «istanze artigiane di matrice corporativa» – quanto su quello del linguaggio politico impiegato per rappresentarle, linguaggio che ci si sforza di mettere all’altezza della congiuntura per renderlo «capace di posizionarsi nell’ordine dei discorsi della Francia borghese dell’Orleanismo» (p. 118). Una lotta per la nominazione si apre attorno a una certa costellazione terminologica – popolo, classe, proletariato – e il soggetto classe operaia emerge dunque non come premessa ma come risultato di questa guerra di posizione semantica. Pezzi di discorso liberale vengono presi, deturnati, reimpiegati ai fini di una
Continua qui: https://operavivamagazine.org/linizio-del-lavoro-visto-dalla-sua-fine/
“Sei donna e vuoi lavorare? Prima devi mostrare il test di gravidanza”: l’assurda storia di Monica
Monica, giovane madre del triveneto, racconta delle tante difficoltà incontrate dopo il parto nell’ambiente lavorativo, fino all’incredibile richiesta di un datore di lavoro
Di Lara Tomasetta 13 Dic. 2018
La storia di Monica (nome di fantasia ndr), giovane madre del triveneto, è una storia come tante, di quelle che ancora una volta raccontano l’Italia che nega il lavoro alle donne, colpevoli, per loro stessa natura, di poter restare incinta, o di volere una famiglia. Concetti che ancora oggi mal si conciliano con le esigenze delle piccole e grandi realtà lavorative italiane.
“Lavoravo in un negozio del centro della mia città, era un lavoro a tempo indeterminato, poi sono rimasta incinta e sono andata in maternità. Al ritorno ero entusiasta, non vedevo l’ora di rimettermi a lavoro. Invece la mia vita è diventata improvvisamente un inferno: era chiaro che non avevano più bisogno di me e che in qualche modo dovevo scontare tutto il tempo in cui mi ero assentata, come se la maternità fosse una concessione, non una normale necessità di una donna
Così la vita lavorativa di Monica peggiora notevolmente: “non avevo più riposi né giorni liberi, le turnazioni erano infernali perché “io avevo già fatto molti giorni a casa”. “Ho saltato tre turni di ferie e l’allattamento era davvero complicato. Giorno per giorno mi dicevano all’ultimo momento se entrare un’ora prima o un’ora dopo”, racconta.
“L’allattamento era a discrezione della mia azienda e non in base alla necessità del mio bambino, le mie 2 ore giornaliere erano organizzate da messaggi alle 7 del mattino con scritto “oggi arriva un’ora dopo” oppure un messaggio alle 14 con scritto ‘vieni alle 15.30 anziché alle 15′”.
Monica resiste quasi tre mesi, poi decide di dare le dimissioni perché non riesce a continuare in queste condizioni.
La legge italiana tutela i diritti della lavoratrice donna e la sua fondamentale funzione nella vita familiare. La legge prevede infatti il congedo di maternità, di cinque mesi, che va normalmente da due mesi prima del parto e si protrae fino a tre mesi dopo del parto. Si tratta di una astensione dal lavoro obbligatoria con tanto di divieto per il datore di lavoro di adibire la donna alle sue mansioni previste nel contratto di lavoro.
A provvedere alla retribuzione della donna è l’Inps con l’indennità di maternità, sempre per i 5 mesi. Nonostante questo, non di rado la gravidanza di una lavoratrice rappresenta un “problema” nei rapporti di lavoro, nel senso che c’è il forte rischio che il datore di lavoro abbia interesse a licenziare la donna o la induca alle dimissioni, non proprio volontarie, in vista dell’assenza tutelata della lavoratrice dal luogo di lavoro.
Nonostante per arginare questo fenomeno sia intervenuta la legge, con l’espresso divieto di licenziamento, nella vita reale la domanda di lavoro è tale da far sì che non esistano regole e che situazioni come quelle di Monica continuino
Continua qui: https://www.tpi.it/2018/12/13/lavoro-donna-test-gravidanza/
In Italia abbiamo stipendi da fame. E che nessuno si ponga il problema è una vergogna peggiore
Dice il rapporto Censis che tra il 2000 e il 2017 i salari in Italia sono aumentati dieci volte meno che in Francia e Germania. Un dato che dovrebbe farci saltare sulla sedia e di cui si dovrebbe parlare sempre, in ogni dibattito. Non farlo è lo sport nazionale della politica, invece
10 dicembre 2018
C’è un dato, nel rapporto sulla situazione del Paese appena pubblicato dal Censis, quello che parla di sovranismo psichico e di Italia incattivita e impoverita che dovrebbe farci saltare sulla sedia più di qualunque altra definizione: dal 2000 al 2017 i salari italiani sono aumentati di soli 400 euro all’anno, contro i 5000 euro di aumento medio della Germania e i 6000 euro circa di aumento medio della Francia. Dieci volte meno.
Non è tanto il dato, che dovrebbe farci saltare sulla sedia, in realtà. È chiederci il perché di tutto questo, tanto per cominciare. Perché la terza economia del Continente, a un certo punto della Storia, seguendo le medesime politiche delle altre grandi economie europee, ha seguito una traiettoria così anomala? Perché altrove c’è stato effettivamente uno scambio tra tutele e denaro, dentro un mercato del lavoro più flessibile, mentre noi abbiamo perso sia diritti che denaro?
Chiederselo non è scontato e rappresenta una delle chiavi di lettura, forse la più sottovalutata, per capire lo stallo italiano. Ad esempio, siamo uno dei pochi Paesi europei, 6 su 28, a non avere un salario minimo legale. Cosa che poteva avere un senso quando la stragrande maggioranza dei lavori era legata a contratti collettivi nazionali e il sindacato, il salario, lo negoziava per (quasi) tutti. Oggi, di fronte a diciassette anni di questo tipo, forse qualche domanda bisognerebbe farsela. E magari porre rimedio quanto prima a questa evidente anomalia.
Un’altra domanda che dovremmo porci, di fronte a queste cifre, è relativa a chi ha pagato la curva piatta dei salari. La risposta è piuttosto semplice: gli ultimi a
Continua qui: https://www.linkiesta.it/it/article/2018/12/10/in-italia-abbiamo-stipendi-da-fame-e-che-nessuno-si-ponga-il-problema-/40391/
LA LINGUA SALVATA
sbra-nà-re (io sbrà-no)
SignDivorare riducendo a brandelli; attaccare, straziare
dal francese antico braon ‘pezzo di carne’.
Certo che in questa parola il ‘brano’ è molto specifico. Non che ci sia da stupirsi, anzi: etimologicamente il brano nasce proprio dal francese antico braon, il pezzo di carne, di ascendenza francone. Ma se mi dici che mi fai vedere un brano non mi aspetto un quarto sanguinolento. Magari mi aspetto un passo di un testo, o una partitura – porzioni di un uno organico, o brevi pezzi d’arte presi a sé.
Invece lo sbranare ci fa subito venire in mente l’immagine violenta dell’arco di denti che straccia la carne, che riduce animali brano a brano. Un’azione di una violenza primordiale, una delle nostre paure ancestrali. Infatti ci scherziamo su, volgendolo in ironia – con uno spirito un po’ stantìo, va detto: ‘Ti sbranerei’ fa ridere una volta, poi no. Piuttosto lo sbranare viene esteso in sensi attenuati, figurati, per cui la direttrice ti sbrana al primo errore, sbrano chi mi ha fatto una domanda provocatoria lasciandolo umiliato, e se faccio
Continua qui:
PANORAMA INTERNAZIONALE
Cosa si nasconde dietro l’arresto di due canadesi in Cina
Si tratta di un ex diplomatico e di un businessman. E potrebbero essere usati per ottenere l’estradizione della Cfo di Huawei. Ma spunta l’ombra di Kim Jong-un.
Marco Lupis – da Hong Kong – 14 dicembre 2018
Alla Cina stanno saltando i nervi. Pechino reagisce all’arresto in Canada di Meng Wanzhou, vicepresidente e Cfo di Huawei con ritorsioni, arresti eccellenti e dichiarazioni di fuoco. E il 12 dicembre la scomparsa di un importante uomo d’affari canadese attivo da anni in Cina e a Hong Kong, con rapporti privilegiati con il leader nordcoreano Kim Jong-un, aggiunge un fitto mistero alla vicenda.
L’ARRESTO MISTERIOSO DI DUE CANADESI IN CINA
Michael Spavor era atteso martedì sera a una conferenza alla Royal Asiatic Society a Seul, ma non c’è mai arrivato. Scomparso. Svanito nel nulla mentre i suoi amici e familiari lo cercavano ovunque, temendo una disgrazia. Lunedì sera i canadesi avevano ricevuto un fax proveniente da Pechino dove li si informava che già un altro cittadino canadese, questa volta un diplomatico, l’ex vice-console a Pechino Michael Kovrig, si trovava in stato di detenzione con la non meglio precisata accusa di avere «messo in pericolo la sicurezza nazionale» della Cina. La conferma indiretta che anche il secondo Michael, il businessman Spavor, si trovava nei guai con le stesse identiche accuse si è avuta nella tarda serata del 12 dicembre, quando il ministro degli Esteri canadese, Chrystia Freeland, ne aveva confermato l’arresto alla stampa. Al momento resta sconosciuto il luogo dove Spavor sarebbe trattenuto in arresto e anche il portavoce del governo di Ottawa, Guillaume Berube, ha dovuto ammettere di non averne idea. «Siamo molto preoccupati e stiamo facendo ogni sforzo per contattare le autorità cinesi in merito al caso Spavor», ha detto, «ma finora non abbiamo avuto notizie precise sul suo arresto».
IL FILO CHE LEGA L’EX DIPLOMATICO E IL BUSINESSMAN
I due Michael, Kovrig e Spavor, si conoscevano. Non meglio precisati «motivi di affari» li avevano fatti incontrare più volte nel recente passato, anche se si muovevano in Cina – almeno apparentemente – in ambiti e per motivi completamente diversi. Kovrig, ex diplomatico, lavorava per l’International Crisis Group, una organizzazione non governativa, no-profit, transnazionale, che si occupa, come si legge sul sito, «dell’analisi di conflitti violenti» e propone «politiche e azioni per prevenire, mitigare o risolvere tali conflitti». Vale la pena di ricordare che tra i fondatori della Ong figura George Soros e tra gli amministratori c’è Emma Bonino. Spavor invece, del profitto pareva occuparsene eccome, visto che era noto come uomo d’affari molto attivo in Cina e non solo; spregiudicato e con amicizie molto, ma molto importanti. In cima a tutte quella con il “bizzarro“ e discusso leader nord-coreano, Kim Jong-un, dettaglio che apre prospettive a dir poco inquietanti su tutta la già misteriosa vicenda. Le fotografie che ritraggono Spavor in amichevole conversazione con il dittatore di Pyongyang, a bordo di uno dei lussuosi yacht di quest’ultimo, e un video della parata dello scorso febbraio nella Capitale nordcoreana, postati sul profilo Twitter, fanno di lui un uomo d’affari decisamente unico.
LA GUERRA COMMERCIALE TRA WASHINGTON E PECHINO
È difficile non vedere in questa raffica di arresti eccellenti di cittadini canadesi e nell’agitarsi scomposto delle autorità di Pechino una chiara ritorsione contro l’arresto e la messa in stato di accusa in Canada – su esplicita richiesta degli Usa – di Sabrina Meng Wanzhou, Cfo del colosso della telefonia cinese Huawei che era già stato oggetto recentemente delle ire del presidente Usa Donald Trump. Secondo gli analisti internazionali più attenti, infatti, la manager 46enne, tra l’altro figlia del fondatore del gigante cinese delle telecomunicazioni, Ren Zhengfei, è rimasta coinvolta, forse suo malgrado, nella guerra commerciale in corso tra Washington e Pechino. A Meng, arrestata a Vancouver all’inizio del mese su richiesta delle autorità statunitensi che l’hanno accusata di servirsi fraudolentemente di Huawei per aggirare le
Continua qui: https://www.lettera43.it/it/articoli/mondo/2018/12/14/huawei-meng-wanzhou-canadesi-cina-usa/227317/
POLITICA
E’ ancora possibile un modello sensato di comunicazione politica?
Svolgo incontri con giovani e anche giovanissimi su temi di etica pubblica, di rapporti tra storia e attualità, di valutazione del senso della politica e del conflitto tra delega e partecipazione.
05 ottobre 2018
Segnalo tre cose:
- la velocità, l’assertività, la brevità dei giudizi su cose complesse, difficili, multiverso hanno conquistato una generazione; sarà per colpa della prolissità, dell’oscurità, della retorica di un certo modo vecchio di gestire il “discorso pubblico”, ma ormai in due battute si liquida l’Europa, il mercato, l’impresa, la finanza, il potere, la democrazia; tutto si risolve in 140 battute e non c’è più molto spazio né per il dubbio né per la contraddizione;
- non è solo il popolo gialloverde a scegliere questa modalità, ma anche chi ha tensione verso la sinistra, verso l’associazionismo, verso movimenti recenti (ambiente, beni comuni, antiglobalismo, eccetera);
- la rottura tra politica e cultura (ricerca, metodo scientifico, validazioni, legittimazioni teoriche, eccetera) è insomma avvenuta; e porta con sé molto spesso l’inutilità di invocare cattedre, esperienze, meno che mai libri o “classici” dell’economia e delle scienze sociali; tutti sono portatori di un giudizio “possibile” su tutto, che non deve essere espresso in modo documentato perché non c’è né tempo né voglia di verificare le fonti.
Ho anche capito che questa cosa non è così generalizzata da doverci obbligare a parlare di “generazione totalizzante”. Ma non è nemmeno così casuale da imputarla solo a due o tre incursori demagogici del nostro tempo.
Continua qui: https://www.linkiesta.it/it/blog-post/2018/10/05/e-ancora-possibile-un-modello-sensato-di-comunicazione-politica/27353/
SCIENZE TECNOLOGIE
Perché ricordiamo eventi che non sono mai accaduti?
I social network plasmano falsi ricordi così convincenti da sembrare reali. Ma quali sono le conseguenze sociali di un “passato falsato” collettivo?
di Massimo Sandal – 24 marzo 2017
Vi ricordate Shazaam? Shazaam era un filmetto sciocchino per bambini degli anni ’90. Un genio della lampada – interpretato dallo stand-up comedian americano Sinbad – aiuta due ragazzini a trovare una nuova moglie per il papà rimasto vedovo. Forse vi è rimasta in mente la scena iniziale in cui i bambini trovano la lampada, o il finale con la festa in piscina. Se sì, non siete gli unici. Esiste una vasta comunità online che ricorda questo film nei dettagli e con nostalgia. Per esempio l’utente di Reddit dal nick EpicJourneyMan ricorda perfettamente di averlo visto varie volte nel videonoleggio in cui lavorava – i clienti spesso lamentavano cassette difettose e
Continua qui: https://www.wired.it/scienza/lab/2017/03/24/ricordare-eventi-mai-accaduti/?refresh_ce=
Tutta la verità, sempre. Grazie a Mazzucco, giornalista vero
Scritto il 14/12/18
«Ragazzi, ricordatevi di dare fastidio, sempre, a chi comanda». Furono le ultime parole che lo scrittore Nuto Revelli rivolse agli studenti delle scuole che spesso visitava. Autore di memorabili libri-denuncia come “La guerra del poveri” sulla ritirata di Russia e “Il mondo del vinti” sull’agonia delle valli alpini spopolate dall’era industriale, Revelli rappresentò una voce importante (e scomoda, quindi isolata) nella coscienza italiana del dopoguerra. Il suo lascito: cercare la verità, ad ogni costo. Quello che, in teoria, dovrebbe fare ogni giornalista degno di questo nome. Quanti ce ne sono, oggi, in circolazione? Pochissimi, secondo il Premio Pulitzer americano Seymour Hersh: «Se i reporter avessero fatto il loro dovere, in questi decenni, avremmo avuto meno guerre e meno stragi, perché il potere non avrebbe osato mentire così spudoratamente all’opinione pubblica». La madre di tutte le stragi, quella dell’11 settembre 2001, colse il milanese Massimo Mazzucco nella sua abitazione di Los Angeles, dove lavorava come sceneggiatore per la Dino De Laurentiis, dopo aver fatto la sua brava gavetta in Italia in qualità di fotografo, assistente di Oliviero Toscani. Quel giorno, Massimo vide – come tutto il resto del mondo – l’impatto del primo aereo. E vide che trascorse un intervallo interminabile prima che avvenisse l’urto del secondo velivolo, senza che nel frattempo si fosse levato in volo un solo caccia a presidiare i cieli.
Quella mattina, infatti, l’intera difesa aerea degli Stati Uniti sulla costa orientale era affidata a due soli intercettori armati di missili e pronti a decollare, più altri due di riserva. Tutti gli altri – centinaia – erano impegnati in esercitazioni concomitanti in Canada, Alaska e California: fatto fino ad allora mai verificatosi, nella storia degli Usa, né più ripetutosi in seguito. Il cielo della superpotenza mondiale era più sguarnito di quello del Burkina Faso. Questo (e molto altro) ha messo insieme, Massimo Mazzucco, dopo anni di impegno ininterrotto alla ricerca della verità. A partire dal primo documentario, “Inganno globale”, mandato in onda da Mentana a “Matrix” su Canale 5 in prima serata, nel 2006, di fronte a milioni di attoniti telespettatori, il video-reporter più scomodo d’Italia ha dedicato alla truffa dell’11 Settembre anche il maxi-documentario del 2013, “11 Settembre, la nuova Pearl Harbor”, raccogliendo prove e testimonianze che smentiscono la versione ufficiale sull’attentato alle Torri Gemelle. Tante le teorie: le Twin Towers abbattute da armi speciali ad energia, demolite con la nano-termite, incenerite con mini-atomiche? Mazzucco non sposa nessuna tesi: «Non spetta a me stabilire cosa sia stato usato per far crollare le Torri, a me basta dimostrare che non possono esser stati quegli aerei», ha ripetuto, anche in web-streaming su YouTube il sabato mattina con Fabio Frabetti di “Border Nights”.
Anzi, aggiunge: «Il parteggiare per una tesi o per l’altra finisce per produrre contraddizioni tecniche utili solo a chi vuol farla dimenticare, quella storia, squalificando di fronte all’opinione pubblica chi ricerca la verità con serietà e impegno, come i tremila architetti e ingegneri americani che, mettendo a repentaglio il proprio posto di lavoro, sono riusciti a dimostrare in modo definitivo la “demolizione controllata” delle Torri Gemelle». Cercare la verità, appunto, senza trarre conclusioni affrettate: nel suo ultimo lavoro, “American Moon”, Mazzucco si avvale dei maggiori fotografi internazionali per dimostrare che le immagini del mitico allunaggio del ‘69 non sono state realizzate sulla Luna, ma in studio. «Il che non significa che non siamo mai stati sulla Luna: significa che le immagini mostrate al mondo erano false». Il potere statunitense è finito nel mirino di Mazzucco in svariate occasioni: nel 2007 ha firmato il documentario “L’altra Dallas – Chi ha ucciso Robert Kennedy?”. Un giallo tutt’altro che chiuso, quello che circonda la morte del fratello di Jfk, assassinato il 6 giugno 1968 nelle cucine dell’Hotel Ambassador di Los Angeles per fermare la sua corsa alla Casa Bianca: «Nonostante vi siano almeno venti persone che hanno visto Sirhan Sirhan sparare a Kennedy, sono emersi nel corso del tempo svariati elementi che tendono decisamente a scagionarlo».
Lo chiamano Deep State, ed è qualcosa che affonda le sue radici nella nebulosa che tiene insieme esponenti della supermassoneria sovranazionale neo-oligarchica messa a nudo da Gioele Magaldi nel bestseller “Massoni”, con propaggini nella Cia e nell’Fbi, al Pentagono, alla Casa Bianca, in centri di comando assoluti come il Council on Foreign Relations.
Da quegli ambienti scaturì il Pnac, Piano per il Nuovo Secolo Americano, attraverso cui i neocon – i Bush e Cheney, Wolfowitz, la Rice, Donald Rumsfeld – pianificarono apertamente la “guerra infinita” a cui il maxi-attentato dell’11 Settembre avrebbe spianato la strada.
Massimo Mazzucco ne parla nel documentario “Il nuovo secolo americano”, uscito nel 2008 per illuminare «tutti i retroscena storici, politici, economici e filosofici che avrebbero portato agli attentati dell’11 Settembre per vie ben diverse da quelle che ci sono state raccontate». Non è possibile, infatti, comprendere gli attacchi alle Torri «se non si conosce la storia che c’è alle loro spalle». Ma lo sguardo di Mazzucco – giornalista vero – si estende anche oltre l’agenda geopolitica: nel video “I padroni del mondo”, uscito sempre nel 2008, esplora il territorio misteriosamente ibrido che comprende avvistamenti Ufo, ruolo dei militari e pericolo atomico.
“I padroni del mondo”, spiega, non è un classico film sugli Ufo, ma «un film che cerca di comprendere il motivo per cui tutte le informazioni raccolte fino ad oggi sugli Ufo ci vengano tenute nascoste dai militari del Pentagono». E’ forse
Continua qui: http://www.libreidee.org/2018/12/tutta-la-verita-sempre-grazie-a-mazzucco-giornalista-vero/
STORIA
La Prima Repubblica e l’intreccio politico criminale che l’ha alimentata
13 Dicembre 2018
Presentazione di Rosanna Spadini – (L’Autore ha messo il libro a disposizione gratuitamente. Trovate il link a fine articolo)
Chris Barlati è un giovane autore che sporadicamente ha trattato temi quali il ruolo della sinistra democristiana nella trattativa Stato-mafia, i servizi segreti e il multipolarismo. In questo caso, “Storie di Prima Repubblica” si presenta come un lavoro di ricerca inerente gli anni della cosiddetta ‘Prima Repubblica’, sul suo declino e sul passaggio verso la ‘Seconda’. L’analisi è stata condotta attraverso le testimonianze di alcuni personaggi che ne furono protagonisti: Elio Veltri, Gherardo Colombo, Ugo Intini, Antonio Di Pietro, Paolo Cirino Pomicino, Massimo D’Alema, Gaspare Mutolo, Massimo Fini.
Le definizioni, i percorsi e le argomentazioni riguardanti il ruolo di apparati stranieri e dei legami massonici nel divenire della Prima verso la Seconda Repubblica è un argomento di certo interessante. E’ per tali ragioni che abbiamo deciso di rivolgere alcune domande al nostro intervistato così da chiarirne gli aspetti che tutt’oggi permangono di difficile comprensione.
Qual è il tuo giudizio riguardo agli anni della “Prima Repubblica”?
«La Prima Repubblica in Italia si configura come un’esperienza irripetibile per l’intera storia politica contemporanea. Parafrasando Rino Formica, possiamo paragonare l’Italia ad una Berlino più estesa, poiché in essa lottavano, transitavano e facevano i loro affari i servizi segreti di mezzo mondo. Per definire la Prima Repubblica con un’espressione, possiamo affermare che si trattò di una coalizione di governo, successiva al patto Costituzionale, che resse le sorti dell’Italia fino a Mani Pulite. Una coalizione di Governo preparata alla guerra e da quell’eventualità condizionata fino all’implosione del sistema sovietico.»
Quali furono i principali eventi che caratterizzarono quegli anni?
«Il golpe Borghese, sicuramente, nel ’70. L’attentato a Berlinguer, nel ’73, ed il suo tentativo di cambiar nome al partito. Ma, quello più importante di tutti, fu l’omicidio Moro, che sancì, diciamo, la fine della Prima Repubblica e l’inizio della Seconda, nonostante storiografia ufficiale ignori tale interpretazione. Poi ci sono la scoperta della P2 ed il crollo del Muro di Berlino.»
Perché credi che l’Omicidio Moro rappresenti la fine della Prima Repubblica?
«Con l’Omicidio Moro vediamo attivarsi i canali di intelligence di mezzo mondo. Addirittura, lo stesso Generale Paolo Inzerilli, all’epoca capo della Gladio, organizzazione di Stay Behind accusata, tra le tante cose, di aver partecipato al rapimento del segretario Dc, parlerà di una Gladio Nera, un’infiltrazione nell’originaria struttura di estremisti fascisti, che avrebbe agito nelle suddette direzioni e con fini non ben specificati. L’omicidio Moro, senza dubbio, esplicita la sottomissione della classe dirigente italiana rispettivo ai reali decisori di politica interna, che sono gli States per la Dc e i sovietici per il Pci. Entrambi i partiti di massa desideravano la realizzazione di un grande partito cattocomunista, in grado di potersi rendere autonomo nelle scelte di politica internazionale. Tuttavia, i tempi e le circostanze non lo permisero, poiché un’apertura a sinistra avrebbe non solo significato una debolezza per il Patto Atlantico, ma un tradimento dello stesso Pci dall’organismo madre sovietico. Moro avrebbe potuto salvarsi, forse, nonostante le indicibili pressioni. Ma, al di là delle infinite analisi che possiamo elaborare, una cosa è certa: morto Moro, muore ogni barlume di poter disporre di decisioni autonome anche in materia di politica nazionale. Con l’omicidio Moro chiariamo una volta e per sempre che lo Stato italiano altro non è che una mera colonia.»
Quanto influirono rispettivamente l’Urss e gli U.S.A. sull’autonomia italiana?
«Stati Uniti e Unione Sovietica hanno garantito la democrazia in Italia. Esatto, la democrazia. L’enorme quantitativo di finanziamenti che è giunto sia da est che da ovest ha permesso la costante evoluzione della competizione elettorale democratica. Oltre al livello ufficiale è esistito un livello ufficioso, fatto di omicidi, depistaggi ed ingerenze. Tuttavia, la classe dirigente della prima Repubblica è rimasta attenta affinché la lotta avvenisse più a livello democratico che militare. Dal punto di vista della sovranità, invece, l’Italia si è configurata come una ”quasi colonia”, priva della risolutezza necessaria per far valere le proprie prerogative. La politica e le posizioni filo arabe della classe democristiana hanno in qualche modo compensato questo stato negativo di cose, ma col tempo anche l’equidistanza e la politica dell’amante araba è andata sfumando. Quindi, U.S.A. e Urss hanno influito moltissimo.»
Quali erano gli obiettivi degli alleati?
«Gli U.S.A. non nutrivano particolari interessi per l’Italia. L’unico pericolo era costituito dalla struttura comunista, la più grande del mondo Occidentale, e che dirigeva buona parte dei movimenti rivoluzionari in America Latina. Berlinguer sapeva benissimo che il suo Partito Comunista era diverso da quello russo e cinese ed è per questo che decise di staccarsi timidamente dai sovietici già agli inizi degli anno ’70. I russi non volevano un partito cinese 2.0 che si opponesse agli ordini di Mosca e cercarono in tutti i modi di farlo capire a Berlinguer, anche tentando di ammazzarlo.
Mosca cercava di destabilizzare l’Europa servendosi dell’Italia, sperando un bel giorno di poter usufruire di una base di lancio per missili nucleari o di una portaerei nel bel mezzo del Mediterraneo. Gli U.S.A., in sintesi, volevano solamente evitare che tutto questo avvenisse e mai nascosero la seccatura di doversi intromettere sempre e comunque negli affari italiani.
Più che per l’amministrazione U.S.A., diciamo, fu l’intelligence statunitense, insieme a quella inglese, che a preoccuparsi della deriva rossa. Se pensiamo poi che di lì a qualche decennio sarebbe iniziata, guarda caso, la campagna Nato in Medio Oriente, con Francia ed Inghilterra punte di diamante dello schieramento colonizzatore, iniziamo a comprendere un paio di cose.»
In realtà mi sembra che la portaerei nel bel mezzo del Mediterraneo l’abbiano fatta gli U.S.A., con le loro numerose basi missilistiche… non ti sembra che l’Italia abbia sempre avuto una posizione geopolitica strategica irrinunciabile per gli States?
«Certo che sì. Un’Italia ”rossa” sarebbe stata un serio problema per gli Stati Uniti. Essendo Berlino divisa in due, un’Italia atlantica rappresentava sinonimo di ‘sicurezza’ e ‘stabilità’ per l’Europa. Da Mani Pulite in poi, l’Italia diviene la base di partenza per i bombardamenti in Serbia e Medio Oriente. L’intelligence militare statunitense ha sempre nutrito timori per una deriva a sinistra, a differenza delle amministrazioni U.S.A., le quali avevano una visione limitata dei piani di lungo periodo. Implosa l’Urss, si pensava che l’Italia avesse cessato di rappresentare un interesse per i piani geopolitici atlantici, invece, come la campagna in Libia e Siria dimostrano, la nostra penisola continua ad essere considerata come una postazione privilegiata per interessi politici e militari intercontinentali.»
Quale fu il più grande errore politico di Dc, Pci e Psi?
«Molti furono gli errori di questi tre partiti. Per la Dc, l’errore maggiore fu quello di aver riservato troppo spazio d’azione ad Andreotti; l’aver centralizzato troppo il potere in pochi decisori più atlantici che partitici, per intenderci. Anche se, sinceramente, penso che il vero suicidio della Dc sia avvenuto nell’esatto momento in cui sia Cossiga che Andreotti decisero la morte di Aldo Moro.
Per il Psi, di cui analizzo le vicissitudini nel libro, penso sia stato quello di fidarsi troppo degli americani. Craxi era riuscito in un’impresa immane: creare una struttura partitica parallela a Dc e Pci. Ma nel farlo aveva troppo confidato nell’alleato statunitense. Sigonella è una prova dell’ambiguità statunitense, ovvero della differenza che intercorre tra intelligence ed amministrazione. L’intelligence resta e porta rancore, mentre l’amministrazione cambia. E Craxi tutto ciò lo sperimentò sulla propria pelle.
Nei riguardi del Pci, l’errore di Berlinguer, o di chi ne fosse il reale amministratore, fu di non aver saputo sfruttare la proprio componente internazionale. Il Pci amministrava i flussi di denaro diretti in America Latina, Europa e, in misura minore, in Australia. Era una vera e propria potenza che avrebbe potuto opporsi all’Urss. Tuttavia, la mancanza di un esercito e di strutture adeguate pesò notevolmente, e ciò indusse Berlinguer in direzione dell’eurocomunismo, che si trasformerà in una social democrazia sterile e liberale. Come ebbe a dirmi lo stesso D’Alema, Berlinguer fu l’anticipatore di un nuovo ordine globale più giusto. Tuttavia, si sa, tra il dire e il fare molto spesso alcuni concetti vengono travisati.»
Ti riferisci per caso alla famosa affermazione di Berlinguer dove si sentiva più protetto sotto l’ombrello della Nato?
«Non solo. Vi è dell’altro, ed anche d’attualità.»
Gli Stati Uniti d’Europa?
«Esatto. Questi nascono come un tentativo di competere con gli Stati Uniti. Gli U.S.A. avrebbero dovuto impedire questo meccanismo di aggregazione ed invece lo favorirono. Gli unici ad avere qualche remora furono gli inglesi, ed infatti la storia ha dato loro ragione (ricordiamo che con la Brexit l’Inghilterra ha continuato a crescere).
Lo stesso Craxi, grande europeista, si renderà conto che il progetto dell’Europa aveva avuto sì nobili fini, ma che era stato promosso più per un controllo centralizzato delle economie dei vari paesi che per uno sviluppo sincronico delle rispettive differenze. Cosa sono i vari trattati TTIP e simili se non un tentativo di inglobare le economie europee e di americanizzarle? Dunque, diciamo che i vecchi politici della Prima Repubblica pensarono, e continuano a pensare, che ciò fosse la strada giusta da percorrere per competere nell’era della globalizzazione, senza però fare i conti con le conseguenze del crollo del muro di Berlino e con il cambio di direzioni parallelo a questa attuazione.»
A quale cambio di direzioni ti riferisci?
«Caduto il muro di Berlino, l’economia, l’imprenditoria, la finanza, quella legata ai circoli atlantici, che generalmente viene definita come ”massonica” per via della sua intoccabilità, decide di occupare il posto della politica. L’esponente più importante in Italia di questa corrente è Carlo De Benedetti. Qualcuno potrebbe obiettare ”ma De Benedetti è sempre stato a sinistra”. Vero, De Benedetti è sempre stato vicino alla sinistra, o meglio al probabile vincitore. Come gli Agnelli, i quali stipulavano contratti segretissimi con la Nato e spiavano gli operai rossi, De Benedetti ha sempre spalleggiato tramite giochi di favori e metaforici ”ricatti” il Pci, il partito meglio organizzato, che negli ultimi anni stava superando addirittura la Dc. In tal senso, la creazione del Pentapartito è stato un chiaro segnale della consapevole debolezza delle forze di governo anti-comuniste. Per tali ragioni sarebbe opportuno riferirsi a De Benedetti non come esponente del mondo di sinistra, ma come un semplice affarista, sponsor in quel determinato momento storico del Pci di Berlinguer.»
E questo cosa c’entra con il Pci, l’Europa e il crollo del muro di Berlino?
«Il cambio di direzioni a cui mi riferisco è esattamente questo. Una forza di sinistra come il Pci si svaluta in una social democrazia europea, immagine e somiglianza di una finanza atlantica. Mani Pulite non è un’esclusiva italiana, ma internazionale, e lo stesso accade in altri paesi ai rispettivi partiti di sinistra e di governo, con modalità molto simili. A livello europeo, l’Europa degli stati, o delle patrie (per dirla dalla prospettiva di destra), si trasforma in un’Europa delle privatizzazioni, dei tagli alla sanità pubblica e della partecipazione dei privati nei settori un tempo riservati esclusivamente allo stato. Questo cambio di direzioni, di equilibri, venne percepito da poche persone, ma mai compreso sino in fondo nella sua pericolosità.»
E gli omicidi di Falcone e Borsellino, le stragi e gli attentati, come si spiegano in questa cornice?
«Sono sempre conseguenza del crollo del muro di Berlino. Il bisogno di ri-azzerare gli equilibri deriva dal cambio di leadership e di programmazione internazionale. La Dc si era servita di imprenditoria, massoneria, finanza e mafia. Con l’imprenditoria aveva un rapporto conflittuale, perché manteneva, nonostante tutto, un certo primato nelle decisioni del Paese. Con la massoneria aveva vinto, anche grazie al Pci, una guerra per il controllo dei servizi segreti. Con la finanza la Dc ha avuto un rapporto ambiguo, in quanto ritenuta da sempre un mondo pericoloso e di influenza statunitense, mentre con la mafia nessun problema: ha sempre goduto di una gioiosa collaborazione.
Venuta meno l’importanza della politica, ecco che tutti si vendicano, si accordano tra di loro e danno vita alla ”Falange Armata”. Un corpo così eterogeneo, composto dai ”nemici” della politica, che ha bisogno di tempo per definirsi e per definire una strategia vincente. Naturalmente, ha bisogno anche di un contenitore per entrare in un mondo complesso quale quello della politica. Due sono i problemi in tal senso: come amalgamare il tutto e a chi rivolgersi per entrare in politica. Per rispondere alla prima domanda, il tutto venne amalgamato con l’unione dei capitali finanziari-massonici in un unico e gestibile sistema di scambi: il liberismo. Ma per avallare tale sistema di scambi c’è bisogno di cambiare leggi e di posizionare uomini fidati. Bisogna quindi eliminare i ficcanaso e mandare un chiaro messaggio al mondo della magistratura, del giornalismo, dell’investigazione in generale, per far comprendere chiaramente che i padroni sono cambiati. Per tali ragioni si è dovuto eliminare Falcone, trovare un referente in politica e, successivamente, una volta delusi dalle trattative in corso, eliminare anche Borsellino. Ricordiamoci che prima di Tangentopoli De Benedetti andrò a trovare Cirino Pomicino per proporgli di diventare suo ministro, poiché aveva intenzione di creare una sorta di nuovo partito.»
Nell’aprile scorso la Corte di Assise di Palermo ha emesso l’ultima sentenza sulla Trattativa tra Cosa nostra e pezzi dello Stato, spiegata in questi termini dal sostituto procuratore Nino Di Matteo, unico pm titolare dell’inchiesta sin dall’inizio: “Dell’Utri ha fatto da cinghia di trasmissione tra le richieste di Cosa nostra e l’allora governo Berlusconi che si era da poco insediato.” Pensi che questa sentenza renda giustizia alle famiglie delle vittime?
«Assolutamente, no. A concorrere nelle trattative furono in primis i democristiani, poi sembrerebbe il Pds o esponenti ad essi vicini e, successivamente, un gruppo di persone che ronzavano intorno all’ala Berlusconi, ma solo alla fine. Il vero problema, tuttavia, attiene il concetto stesso di trattativa, fuorviato da autori giustizialisti e che limitano il proprio sguardo sull’efferatezza di Cosa Nostra. Possediamo numerose ”soffiate” e documenti del tempo che accusano personaggi quali De Mita o gli americani di aver destabilizzato il governo e di aver infiltrato agenti. Inoltre, personaggi legati al mondo del terrorismo nero ci hanno scientemente predetto eventi futuri, dichiarando partecipazioni di massoni e di entità internazionali. Personalmente, ho individuato tre trattative, ognuna delle quali collegata a qualche omicidio o attentato eclatante. Per questo motivo penso che la sentenza sia una buffonata. Ricordo le parole dall’avvocato di Riina, che pone l’accento sulla guerra interna tra servizi segreti di destra e di sinistra. Io azzardo che queste due fazioni abbiamo fatto a gara tra di loro nell’offrire la vita dei giudici in sacrificio in cambio del permesso per governare nel nuovo stato di cose.»
E allora Berlusconi?
«Ha avuto un ruolo davvero marginale. Vero che Forza Italia è nata da Cosa Nostra, ma Berlusconi giunge quando il tutto era già compromesso. Berlusconi si rende credibile agli occhi della Falange Armata e
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