
NOTIZIARIO STAMPA DETTI E SCRITTI
15 FEBBRAIO 2019
A cura di Manlio Lo Presti
Esergo
La vita contemporanea è segnata dall’espulsione del reale,
dal collasso della frontiera tra Io e mondo […],
dall’isolamento che è inversamente proporzionale
alla virtualizzazione della rete sociale.
IGINO DOMANIN, Grand hotel abisso, Bompiani, 2014, pag. 95
https://www.facebook.com/Detti-e-Scritti-958631984255522/
Le opinioni degli autori citati possono non coincidere con la posizione del curatore della presente Rassegna.
Tutti i numeri dell’anno 2018 della Rassegna sono disponibili sul sito www.dettiescritti.com
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EDITORIALE
Oscuramento della risposta di Conte a Bruxelles
Manlio Lo Presti 15 febbraio 2019
Le 500 tv,
i 300 giornaloni,
il web,
evidenziano e trasmettono in sincronia planetaria – con servile e rapida efficienza – l’offesa del fiammingo Guy Verhofstadt ma NASCONDONO LA REPLICA DEL NOSTRO PREMIER in sede europea.
Non credo che i quattro giornaloni neomaccartisti provvederanno ad eliminare questa “accidentale omissione”. Una omissione che, in tempi normali, avrebbe fatto licenziare il giornalista che l’avesse fatta.
Ma da tempo ormai le notizie sono scomparse, esistono solo informazioni false sparate e ripetizione a canali unificati TV, WEB, GIORNALONI.
Come mai?
LA CENSURA, BELLEZZA!
Il martellante lavaggio di massa del cervello che deve percepire una realtà prodotta da LORO: Essi vivono avrebbe giustamente detto il grande regista John Carpenter.
La risposta impietosa sta nel constatare che ancora risulta essere fortemente in sella il DEEP STATE DE NOANTRI, nonostante la indecorosa disfatta elettorale. Neanche il governo attuale è riuscito a limitare e ridefinire il potere di questa congrega di bramani autoreferenziali che amministrano con brutale efficienza una presunta SUPERIORITA’ MORALE DELLA SINISTRA. Uno spettrale cascame da post-guerra fredda che architettò Togliatti attraverso la lenta ma inesorabile colonizzazione delle coscienze lungo 30 anni nelle università, scuole di ogni ordine e grado, magistratura, esercito, scrittori (molti dei quali già in busta paga della OSS, poi CIA): non potendo più assaltare con i mitra lo stato italiano, decisa di distruggerlo con lenta decozione.
L’operazione definita OPZIONE TOGLIATTI.
Questi eventi fanno capire:
1) che le elezioni sono una farsa, altrimenti le avrebbero abolite;
2) l’indizio mortifero della ricomparsa di mancati PREMIER sorridenti che trottolano in tutte le 18-20 rubriche politiche;
3) che la catena di comando neomaccartista quadrisex pedofila antropofaga finanziaria antifa neomaccartista è più forte di prima.
È ancora in corso una battaglia epocale fra la piovra della finanza speculatrice algoritmica tumorale del bitcoin e della megamacchina BLOCKCHAIN e il mondo della produzione del consumo e della occupazione!!!
NON SIAMO ANCORA USCITI DALL’INFERNO.
NESSUNO CONVOCA L’AMBASCIATORE OLANDESE PER COMUNICARGLI DI USCIRE DAL TERRITORIO ITALIANO ENTRO 10 ORE.
ESISTE IL SILENZIO ASSORDANTE DELLE MAGLIETTE ROSSE CON/SENZA ROLEX, DI SAVIANO, DI SEVERGNINI, DI AUGIAS, DI PAOLO MIELI, DELLA GRUBER, DI FAZIO, DI CACCIARI, DEL CAMILLERI, DI GALIMBERTI, DI PADELLARO, DI DAMILANO, DI PARENZO E SUOI SODALI, ecc. ecc. ecc. ecc. ecc. ecc. ecc.
ESISTE L’ESANGUE E NON INDIGNATO INTERVENTO DEL PIROTECNICO INQUILINO DEL COLLE. UN MESSAGGIO LANCIATO CON IMBARAZZANTE RITARDO, FORSE PER I TEMPI DI CONSULTAZIONE DEI SUOI COMMITTENTI CHE PAGANO MOLTO MOLTO MOLTO BENE …
ESISTE IL SILENZIO DELLE FASTIDIOSE ED INVADENTI GERARCHIE ECCLESIASTICHE PRONTISSIME A MARTELLARE PER L’INGRESSO INDISCRIMINATO – NON DETRO LE LORO LUSSUOSE ABITAZIONI E FINO AL SANGUE NOSTRO – DEGLI PSEUDO IMMIGRATI NORDAFRICANI, MA TACE SU ALTRO PERCHE’ NON PORTA SOLDI!!!
ESISTE L’ABISSALE SILENZIO DELLE ASSOCIAZIONI FEMMINISTE CHE DIMENTICANO CHE TALE OFFESA COINVOLGE ANCHE 30.000.000 DI DONNE, MA FORSE A LORO NON INTERESSA!!!!!!!!!!!!
Ne riparleremo …
IN EVIDENZA
Carlo Calenda: “Inammissibile che qualcuno dia del burattino al Premier italiano”
14/02/2019
Guy Verhofstadt ha attaccato in una seduta del Parlamento europeo il Premier Giuseppe Conte. In sua difesa, arriva Matteo Salvini.
Ieri a Strasburgo si è svolta la seduta plenaria del Parlamento europeo. Il Premier italiano Giuseppe Conte è intervenuto sul tema il “Futuro dell’Europa“. A fare notizia, però, non sono stati tanto i contenuti del suo discorso ma l’intervento a gamba tesa di Guy Verhofstadt. Il Premier belga ha infatti definito il Ministro degli affari europei ed interni un burattino nelle mani di Salvini e di Di Maio.
Tra i pochi politici dell’opposizione intervenuti in difesa del Premier Conte figura anche Carlo Calenda. “A me che qualcuno dia del burattino in una sede istituzionale internazionale al Presidente del Consiglio del mio paese mi fa notevolmente incazzare.
Comunque la si pensi”, ha twittato. L’ex Ministro dello Sviluppo economico ha risposto a sua volta all’esponente del PD Alessia Morani che ha fatto ironia sull’autorevolezza di Conte.
Nel corso di un’intervista rilasciata al Messaggero Calenda ha ribadito il concetto: “Non accetto attacchi alla dignità del mio Paese, come quelli che sono piovuti dal capogruppo dell’Alde, il liberale belga Guy Verhofstadt, che ha definito Conte come burattino di Di Maio e di Salvini” ha chiarito Calenda per il quale non è fuorviante e riduttivo parare di linguaggio colorito: “Sono state vere e proprie offese da parte sua. E offendendo il premier si offende il Paese che il capo del governo rappresenta.
L’Italia merita rispetto indipendentemente da chi pro tempore guida l’esecutivo
Continua qui: https://www.leggilo.org/2019/02/14/politica-italiana-difende-conte-da-verhofstadt/
LA GRANDE GUERRA AMERICANA: 2019-2024
Maurizio Blondet 13 Febbraio 2019
VIDEO TERRIFICANTE QUI: https://youtu.be/3L8h1KvUwPE
Dura 40 minuti, Ma è da ascoltare e da diffondere.
(Non girate per l’ennesima volta la testa da un’altra parte, esortazione di Manlio Lo Presti)
https://www.maurizioblondet.it/la-grande-guerra-americana-2019-2024/
ATTUALITÀ SOCIETÀ COSTUME
Guy Verhofstadt, chi?
Andrea Zhok 13 02 2019
L’amministratore della holding Sofina, e direttore del fondo pensionistico olandese APG, nonché, a tempo perso, leader liberale al Parlamento europeo, Guy Verhofstadt ha giovialmente chiamato il primo ministro italiano Conte un “burattino”.
Rispetto alla (pessima) battuta berlusconiana sui Kapò mi pare una bella escalation nel degrado internazionale.
Siamo ora in attesa dei giornali italiani che spiegheranno come, insomma, dai, Conte se l’è cercata a girare così solo, di sera, nei corridoi dell’UE.
Seguirà a stretto giro di posta un veemente plauso del PD, che sottolineerà come Verhofstadt sia un gran
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BELPAESE DA SALVARE
L’adulterazione del pane
Lisa Stanton – 13 febbraio 2019
L’incredibile adulterazione del pane, in special modo a Londra, fu rivelata per la prima volta dalla commissione dei Comuni sull’«adulterazione dei generi alimentari» (1855-1856) e dal volumetto del dott. Hassall Adulterations detected.
Conseguenza di queste rivelazioni fu la legge 6 agosto 1860 «per prevenire l’adulterazione di cibi e bevande» (for preventing the adulteration of articles of food and drink); legge rimasta tuttavia priva di effetti pratici perché, naturalmente, trattava con mille riguardi qualunque freetrader cercasse di turn an honest penny dalla compravendita di merci adulterate. La stessa commissione formula più o meno ingenuamente il parere che il libero scambio significhi essenzialmente «commercio a base di sostanze adulterate» o, come dicono spiritosamente gli Inglesi, «sofisticate». In realtà, questa specie di «sofistica» sa fare nero del bianco e bianco del nero meglio di Protagora, e dimostrare ad oculos la pura apparenza di ogni realtà meglio degli Eleati. Comunque, la commissione aveva attirato gli occhi del pubblico sul suo «pane quotidiano» e quindi sulla panificazione. […] La sua relazione e le testimonianze annesse misero in subbuglio il pubblico – non il suo cuore, ma il suo stomaco.
Certo, ferrato com’è nella Bibbia, l’Inglese sapeva che l’uomo, se non è per grazia
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Il senato e il PD
Francesco Erspamer 7 FEBBRAIO 2019
Più espliciti di così non si può. I piddini e i liberal e uguali, che avevano cambiato la Costituzione a colpi di voti di fiducia e che se non fossero stati clamorosamente bocciati nel referendum costituzionale avrebbero imposto un sistema monocamerale con maggioranza creata artificialmente (ma preservando un Senato senza potere per dare poltrone e prebende agli amici degli amici), adesso non solo si oppongono alla riduzione dell’assurdo numero di parlamentari italiani (quasi il doppio di quelli degli Stati Uniti, che hanno una popolazione cinque volte più ampia) ma hanno l’impudenza di parlare di “assassinio delle democrazia” e di invocare una “resistenza civile”. Le iperboli peraltro non mi stupiscono: da tempo i piddini e liberal vivono di emergenze fasulle, invocate per coprire sporche manovre e una totale assenza di idee. Ma soprattutto questa retorica conferma che la loro primaria funzione (e il motivo per cui continuano a godere del sostegno della finanza internazionale e
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CONFLITTI GEOPOLITICI
Il Venezuela e i suoi vicini possono sopravvivere alla guerra che si preannuncia?
di Thierry Meyssan
Per poter fronteggiare la crisi che sta destabilizzando il Venezuela, nonché quelle che stanno delineandosi in Nicaragua e Haiti, è necessario analizzarla. Thierry Meyssan ritorna sulle tre ipotesi interpretative e argomenta a favore di una. Richiama quindi la strategia degli Stati Uniti e il modo in cui va affrontata.
RETE VOLTAIRE | DAMASCO (SIRIA) | 12 FEBBRAIO 2019
Oggi il Venezuela è diviso tra due poteri legittimi, quello del presidente costituzionale, Nicolas Maduro, e quello del presidente dell’Assemblea Nazionale, Juan Guaidó.
Invocando gli articoli 223 e 233 della Costituzione, Guaidó si è autoproclamato presidente ad interim. Basta leggere queste norme per capire che in questo caso non sono applicabili e che da esse non può scaturire la legittimità della funzione cui Guaidó aspira. Ciononostante, Stati Uniti, Gruppo di Lima e parte dell’Unione Europea riconoscono la legittimità di una funzione in realtà usurpata.
Alcuni sostenitori di Maduro ritengono che Washington voglia rovesciare un governo di sinistra, come fece con Salvador Allende nel 1973, all’epoca del presidente Richard Nixon.
Alcuni, reagendo alle rivelazioni di Max Blumenthal e di Dan Cohen sul percorso di Guaidó [1], sostengono che si tratti di una rivoluzione colorata, come quelle che si sono viste durante la presidenza di George W. Bush.
Ebbene, di fronte all’aggressione da parte di un nemico molto più forte di noi è di cruciale importanza individuarne gli obiettivi e comprenderne i metodi. Soltanto coloro che sono in grado di prevedere i colpi che stanno per arrivare hanno possibilità di sopravvivere.
Tre ipotesi prevalenti
È del tutto logico che i latino-americani paragonino quel che vivono oggi con quanto già accaduto, per esempio con il colpo di Stato in Cile del 1973. Per Washington sarebbe però rischioso mettere in atto un piano vecchio di 46 anni; sarebbe un errore, dato che ormai tutti conoscono i retroscena di quell’imbroglio.
Le rivelazioni dei legami di Guaidó con la National Endowment for Democracy e l’équipe di Gene Sharp suggeriscono invece l’ipotesi di una rivoluzione colorata, tanto più che nel 2007 il Venezuela ne conobbe una, che peraltro fallì. Proprio per questo sarebbe rischioso per Washington tentare di attuare lo stesso piano naufragato 12 anni addietro.
Per capire il disegno di Washington dobbiamo innanzi tutto conoscere il suo piano di battaglia.
Il 29 ottobre 2001, ossia un mese e mezzo dopo gli attentati di New York e del Pentagono, il segretario alla Difesa, Donald Rumsfeld, creò l’Ufficio per la Trasformazione della Forza (Office of Force Transformation), la cui missione era rivoluzionare le forze armate USA,
Continua qui: https://www.voltairenet.org/article205149.html
BIBI A VARSAVIA – Per la “guerra all’Iran”, twitta
Maurizio Blondet 14 Febbraio 2019
Bibi Netanyahu ha prima scritto, poi cancellato in fretta, un twitter
PM di Israele
@IsraeliPM
- 12 ore
Rispondendo a @IsraeliPM
Da qui andrò ad un incontro con 60 ministri degli esteri e inviati di paesi di tutto il mondo contro l’Iran.
PM di Israele
@IsraeliPM
Ciò che è importante in questo incontro – e non è in segreto, perché ce ne sono molti – è che questo è un incontro aperto con i rappresentanti dei principali paesi arabi, che stanno sedendo insieme a Israele per far avanzare l’interesse comune: la guerra all’Iran.
313
8:08 PM – 13 febbraio 2019
L’incontro da lui annunciato è quello che Mike Pompeo e la lobby ebraica americana al potere (segnalata anche dalla ricomparsa di Elliott Abrams) hanno imposto si tenga a Varsavia, come prezzo della “protezione” militare USA contro il pericolo russo. Così adesso sappiamo per certo quello che tutti avevano già capito: l’’incontro di Varsavia, con 60 ministro degli esteri e delegati “di tutto il mondo” consiste nella formazione dell’alleanza per incenerire l’Iran, e vi partecipano i re, reucci ed emiri sunniti.
Ma non bisogna dimenticare la Francia di Macron: che anzi è già in guerra. I suoi caccia partecipano, fra Siria e Irak, alle operazioni delle “forze democratiche siriane” che con la scusa di debellare “l’ultimo bastione di Daesh” che si trova proprio sulla frontiera tra Siria e Irak, vogliono formare una base militare permanente ravvicinata per l’attacco a Teheran. Aerei francesi portano armi e munizioni ai “liberatori”.
Macron è già in guerra
Che Macron sia al soldo dei Sauditi può non essere universalmente noto. Ancor meno noto che il principale lobbista dell’Arabia Saudita a Parigi, ma soprattutto a Bruxelles, è il Gruppo Publicis, la multinazionale francese da 9 miliardi di fatturato diretta da Maurice Lévy (j) e di cui la principale azionista è Elisabeth Badinter (j). La ditta agisce da lobby saudita, in ossequio alla nuova alleanza del criminale Bin Salman con Sion per distruggere Teheran, attraverso la sua filiale delle pubbliche relazioni MSL (di cui è stata appena nominata direttrice Diana Littman, j), a Bruxelles; ha un’altra ditta del genere, Qorvis, che agisce a Washington.
MSL organizza a Bruxelles, per i sauditi, incontri con i decisori e i parlamentari europei, insomma con l’oligarchia UE- ai quali l’Arabia Saudita viene presentata come l’ultimo bastione contro il terrorismo la sua guerra di sterminio in Yemen come un intervento umanitario, per cui si devono opporre – con successo – a tutti i tentativi europei di vendere ai sauditi armamenti: cosa in cui si sono illustrate Michele Alliot-Marie e Rachida Dati (j), due importanti esponenti dell’ala saudo-israeliana nella UE. La MSL è stata accusata dal Corporate Europe Observatory di violare gli obblighi di trasparenza nelle sue attività di lobby nella capitale della UE. Mica si è padroni del discorso per niente.
I soldati francesi stanno già cominciando a pagare il prezzo di questo servaggio a Bibi:
Continua qui: https://www.maurizioblondet.it/bibi-a-varsavia-per-la-guerra-alliran-twitta/
CYBERWAR SPIONAGGIO DISINFORMAZIONE
Madaya: una nuova manipolazione mediatica
di André Chamy
Mentre Hezbollah accerchia la località di Madaya, autorizzando i civili a circolare ma impedendo a 600 combattenti di Al Qaeda e di Adhar al-Sham (Uomini liberi della Grande Siria, formazione armata nata nel 2011 per abbattere Bashar-al-Assad, ndt) di uscire dalla città, l’Arabia Saudita e il Qatar hanno lanciato una campagna per denunciare l’assedio della città. Secondo Medici del Mondo, 23 persone sarebbero morte di fame. Secondo gli abitanti, invece, come a Yarmouk gli jihadisti hanno confiscato gli aiuti alimentari per poi rivenderli a prezzo esorbitante. Per autorizzare l’invio di altri convogli umanitari, il governo siriano ha posto come condizione l’accesso anche ad altre due località accerchiate dagli jihadisti, Fouaa e Kefarya. Alla fine, è stato raggiunto un accordo e l’ONU ha così potuto entrare nelle tre città. Per impedire che la falsificazione mediatica continuasse, Hezbollah ha trasmesso l’avvenimento in diretta sulla sua televisione Al-Manar. Intervistati dai giornalisti, gli abitanti hanno precisato di aver preteso che gli aiuti fossero consegnati direttamente a loro. André Chamy torna su questo episodio di guerra mediatica, che pretende di far credere che Hezbollah e la Repubblica araba siriana affamino il popolo.
RETE VOLTAIRE | PARIGI (FRANCIA) | 17 GENNAIO 2016
Alle origini
La guerra in Siria è campo di battaglia di una guerra mediatica d’un’intensità eccezionale e di una grossolanità indescrivibile. Si è ricorsi a stratagemmi degni di un Goebbels dei nostri giorni.
Cominciamo con lo scoppio della cosiddetta “primavera siriana”, un movimento che, guarda caso, si scatenava ogni venerdì, dopo la preghiera sunnita del mezzogiorno, sebbene nelle città siriane non ci fossero stati nei giorni precedenti segni di fermento.
Ciononostante, i media erano sempre presenti, pronti a diffondere immagini e intervistare manifestanti che urlavano la loro collera, indifferentemente contro il governo, l’esercito, i servizi di sicurezza e, già che c’erano, contro gli alauiti, i drusi, i «cani cristiani» e, ovviamente, contro la famiglia Assad!
Le riprese erano fatte in modo da suscitare l’impressione che una parte considerevole della popolazione fosse pronta alla rivoluzione. I video erano poi inviati all’estero per essere manipolati e riversati nel circuito mediatico mondiale, web e televisioni.
Già alla vigilia della prima manifestazione siriana, nel Paese sono stati introdotti e distribuiti, a persone addestrate in precedenza, un migliaio di telefoni satellitari. L’operazione deve essere costata almeno un milione di dollari, somma di cui, certamente, giovani cyberattivisti disorganizzati non potevano disporre.
I video erano subito diffusi sotto un unico logo, Cham (denominazione storica della Siria), disegnato per l’occasione. I cyberattivisti coordinavano le operazioni. Interrogati sulla provenienza dei fondi, fornivano sempre la stessa, invariabile risposta: il finanziatore era un uomo d’affari della diaspora che, per ragioni di sicurezza, voleva conservare l’anonimato! [1]
Il tutto era ritrasmesso sulle varie emittenti, a cominciare dalle reti dei Paesi del Golfo, le famose Al-Jazeera del Qatar e la saudita Al-Arabiya, spalleggiate da una rete meno conosciuta, chiamata Barada [2], basata a Londra, legata al Movimento per la giustizia e lo sviluppo, una rete di oppositori siriani che nei cinque anni precedenti l’inizio della cosiddetta “primavera siriana” aveva ricevuto non meno di sei milioni di dollari dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti.
Secondo il Washington Post, che attinge ai telegrammi diplomatici diffusi da Wikileaks, gli oppositori siriani hanno cominciato a essere finanziati dal 2005. E i finanziamenti non si sono interrotti nell’era Obama [3].
Le immagini e le interviste fabbricate da queste emittenti erano opportunamente diffuse da altre catene d’informazione. Internet faceva il resto. Questa massa d’informazioni non verificate e non analizzate dilagava e diventava verità.
Ricordiamo che gli stessi procedimenti erano stati sperimentati con successo durante le cosiddette “rivoluzioni multicolori”, nate dopo la caduta del Muro di Berlino.
Queste rivoluzioni sarebbero frutto della mobilitazione di giovani attivisti locali pro-occidentali. Numerosi articoli e un’inchiesta straordinaria di Camille Gangloff [4], adattata per la televisione da Manon Loizeau e Milos Krivokapic [5], dissezionando le modalità di queste rivolte, hanno invece dimostrato che erano gli Stati Uniti a muoverne i fili.
Gli stessi procedimenti sono stati utilizzati in Egitto. Lo confermano i cablogrammi diffusi da Wikileaks, in particolare quelli intitolati Richiesta di assistenza per ripristinare l’accesso dei blogger egiziani a YouTube [6] e Militanti, blogger arrestati durante un tentativo d’incursione a NagHammâdi (cittadina dell’Egitto Centro Orientale ndt) [7], che dimostrano l’implicazione dell’ambasciata degli Stati Uniti al Cairo. L’ambasciatore statunitense in carica agli inizi della crisi siriana, Robert Ford, ha agito nello stesso modo.
Quest’operazione di manipolazione, chiamata Freedom of internet (Libertà di internet), consisteva nell’alimentare e rafforzare la diffusione di software, che consentivano agli oppositori di criptare messaggi e aggirare i sistemi di censura [8].
Ovviamente, questa diffusione avveniva attraverso le diverse ONG al soldo di Washington. I giovani intellettuali mediorientali potevano così incontrarsi virtualmente, dibattere, criticare e alla fine riunirsi, nonostante le contromisure adottate dal governo del loro Paese [9].
Parallelamente, cominciava un’intossicazione mediatica. Messaggi di supposti ribelli, in realtà creati di sana pianta negli uffici della NSA (National Security Agency, Agenzia per la sicurezza nazionale, statunitense, ndt), inondavano i forum allo scopo di confortare gli oppositori autentici illudendoli di appartenere a un movimento importante, un vero e proprio maremoto, capace di travolgere il regime con l’onda della contestazione.
La seconda fase, A way to reality (Una via verso la realtà), doveva per l’appunto creare gli strumenti che permettessero di trasformare lo scontento, espresso nei vari forum, in manifestazioni reali. Si trattava della fase più delicata dell’intera operazione Domino perché, in assenza di un risveglio spontaneo delle popolazioni asservite, come accade in ogni rivoluzione, per dar fuoco alle poveri occorrevano elementi esterni.
Così entravano in azione gli stringer (membri speciali della CIA, che non fanno parte ufficialmente dell’Agenzia, spesso di nazionalità non statunitense, utilizzati per infiltrare ambienti ostili) preliminarmente addestrati all’agitazione urbana e ad arringare le folle [10].
Per preservare il carattere eminentemente segreto dell’operazione era indispensabile ricorrere esclusivamente a persone di nazionalità dei Paesi nel mirino dell’operazione Domino. Questo implicava preliminarmente un reclutamento di rifugiati negli Stati Uniti, che venivano poi formati, preparati e spediti con discrezione nei loro Paesi d’origine per compiere la loro delicata missione. Non potevano essere reclutati dissidenti troppo noti perché sarebbero stati arrestati, non appena avessero messo piede nel loro Paese d’origine. Evidentemente, poiché il massimo dei rischi era corso da questi stringer, era necessario prevedere bustarelle di un ammontare sufficiente a far loro superare ogni timore.
L’ultima parte, la più facile, chiamata semplicemente The Recolt (La raccolta), consisteva nell’alimentare, una volta avviata la rivolta, l’entusiasmo popolare e fornire, se necessario, armi ai manifestanti. Una nuova campagna mediatica di denigrazione del regime veniva lanciata al fine di rafforzare la collera delle folle e provocare il rigetto della comunità internazionale.
Manipolazioni senza limite
Questo tipo di operazione, già ben collaudata, è stata pienamente dispiegata in Siria.
Dapprima sono state diffuse scene in cui sembrava che i soldati siriani sparassero su manifestanti pacifici e disarmati. Queste immagini sono state sfruttate soprattutto dall’allora ambasciatore statunitense a Damasco, Robert Ford.
In seguito, sono arrivate immagini di uomini armati che commettevano atrocità su soldati siriani. Queste violenze sono state legittimate sotto il pretesto che il popolo stava vendicandosi del suo boia.
A ogni assassinio veniva, in un modo o nell’altro, trovata una spiegazione conveniente. Lo scoppio di un’autobomba, soprattutto in quartieri cristiani o davanti a edifici pubblici, era subito attribuito al “regime”. Ogni spiegazione, anche la più assurda, era convalidata dai media. A quale scopo sforzarsi di capire se la messa è ormai stata celebrata e il presidente siriano deve andarsene?
Ogni giorno veniva annunciato un nuovo rinvio della caduta di Assad, rinvio che poteva andare da qualche settimana a qualche mese al massimo! «Più la fandonia è grande, più facilmente viene creduta» ammonisce un adagio popolare!
Vengono scoperti carnai, subito imputati ai servizi di sicurezza o all’utilizzo di armi chimiche da parte dell’esercito. Tutto è utile a screditare il presidente Assad e le istituzioni siriane. Ora invece è noto che all’origine dell’utilizzo di queste armi ci sono soprattutto i servizi segreti turchi [11].
Nulla può fermare questa propaganda.
E come se tutto questo non bastasse, ormai da diversi giorni i media hanno messo le mani sul caso della città siriana di Madaya, alla frontiera con il Libano, dove gli abitanti starebbero per morire di fame…
Ma cosa è accaduto davvero?
Sono stati pubblicati rapporti sull’utilizzo da parte dell’Arabia Saudita in Yemen di armi a frammentazione vietate, accompagnati da informazioni martellanti sull’esecuzione da parte del regno wahhabita del leader d’opposizione, lo sceicco El-Nimr; era necessario reagire con urgenza per distogliere l’attenzione da queste notizie che puntavano il dito su un regime innominabile.
Così l’Arabia Saudita ha immediatamente mobilitato la sua catena televisiva Al-Arabiya per trasmettere appelli agli abitanti di Madaya, trascurando il fatto che anche altre località sono accerchiate dallo Stato islamico o dal Fronte Al-Nostra (Al-Qaeda), per esempio Fouaa, Kefraya, Noubble e Zohra…
Subito si è parlato di carestia, nonostante gli abitanti non ne avessero parlato ai rappresentanti dell’ONU, presenti per negoziare costantemente accordi per il passaggio di camion di alimenti e altri prodotti destinati alle località assediate dall’esercito siriano o da bande armate.
Nell’ottobre scorso, nella città di Madaya sono entrati 35 camion inviati dall’ONU,
Continua qui: https://www.voltairenet.org/article189955.html
ECONOMIA
INPS, migranti e la crescita infinita
Francesco Erspamer – 3 dicembre 2018 RILETTURA
La tragedia dei liberisti è che non hanno mai dovuto davvero pensare, mai dovuto confrontarsi con la realtà: l’hanno sempre modellata come gli piaceva, come se fossero Dio: ma non sono Dio, sono degli illusionisti, dei venditori di fumo, il cui enorme potere deriva da media servili e di una pervasività senza precedenti; e da risorse economiche immense, ottenute dissipando in pochi anni un patrimonio che la natura aveva accumulato in milioni di anni e le civiltà umane in millenni. E neanche per creare una società emancipata ed evoluta; macché, la deriva ambientale, morale e culturale l’hanno provocata solo per arricchire oscenamente sé stessi.
Lasceranno macerie.
Sto pensando a un personaggio come Tito Boeri, nominato presidente dell’INPS da Renzi pochi mesi dopo il colpo di mano che lo aveva portato a Palazzo Chigi. Cosa ci fa ancora in quella posizione? Perché gli è consentito di andare in tv a dire che avremmo bisogno di dieci milioni di migranti per pagare le pensioni che l’ente da lui diretto dovrebbe erogare?
Facile far soldi con uno schema alla Ponzi: ossia chiedendo ai nuovi arrivati di mantenere chi è già dentro. Fino a quando? Dieci milioni di disperati per coprire le pensioni degli italiani: ma poi chi pagherà le loro pensioni e degli altri sessanta milioni che già vivono in un paese sovrappopolato e senza risorse? Immagino che bisognerà importare un’altra ventina di milioni di immigrati. E poi, quando anche loro invecchiassero, chi verserà i contributi per sostenere una popolazione a quel punto prossima ai cento milioni?
Crescita, crescita, crescita: il neocapitalismo conosce solo questa parola, perché solo con la crescita si fanno fortune immense senza lavorare e senza avere capacità. Peccato che viviamo su un pianeta limitato e che già ora non può mantenerci tutti
Continua qui: https://controanalisi.wordpress.com/2018/12/03/inps-migranti-e-la-crescita-infinita/
L’India protegge la propria economia dai giganti dell’e-commerce
RETE VOLTAIRE | 25 GENNAIO 2019
l futuro dell’e-commerce indiano sembrava dovesse limitarsi alla competizione tra due operatori statunitensi, Amazon e Wallmart.
A maggio 2018 Amazon ha acquistato per 16 miliardi di dollari la società indiana meglio inserita nel mercato, Flikpart.
Wallmart invece ha investito oltre cinque miliardi di dollari, di cui 580 milioni a settembre scorso, per l’acquisto di More, una delle principali catene di supermercati in India.
Wallmart, con 4.600 negozi e oltre due milioni di addetti, è il gigante della distribuzione negli Stati Uniti. Si è progressivamente adeguato al web, utilizzando alcuni punti-vendita come locali per la consegna e ora si è allargato all’Asia. In pochi
Continua qui: https://www.voltairenet.org/article204866.html
Il libero scambio
Lisa Stanton – 14 febbraio 2019
Il “Libero scambio” ha da sempre significato poter vendere *qualsiasi* porcheria: merci scadenti e financo mortali, alimenti adulterati, armi, stupefacenti, schiavi, donne e bambini, organi umani.
Il tutto sull’altare di competitività, profitto e non ingerenza degli Stati-nazione. È quanto è espressamente previsto nei trattati UE quando si parla di economia di mercato fortemente competitiva.
Il resto serve solo a paludare con verbosa retorica ciò che di disumano i popoli hanno rifiutato in passato.
Il superamento degli Stati-nazione voluto dagli europeisti e pseudo cosmopoliti assortiti non significa altro che
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FINANZA BANCHE ASSICURAZIONI
BANKITALIA NON VUOLE SAPERNE DI AVVICENDAMENTO
Lisa Stanton 14 02 2019
Bankitalia non vuole saperne di fare un solo avvicendamento, sebbene abbia omesso ogni obbligo di vigilanza ed abbia portato al fallimento 10 banche nazionali, lasciando sul lastrico centinaia di migliaia di piccoli risparmiatori.
Di Maio è rimasto solo in questa richiesta di discontinuità, Salvini non ha potuto seguirlo per il veto incrociato di Giorgetti, Tria e Mattarella.
Come sapete, in Bankitalia c’è un dirigente per ogni operativo. Dalle tabelle pubblicate sul suo sito, sebbene dall’81 alla Banca centrale non sia rimasto molto da fare, risulta che dei 7000 dipendenti, la metà sono di area manageriale-direttiva:
incrociando i dati della tabella stipendi e retribuzioni con i numeri del personale mediamente i dipendenti BdI guadagnano all’anno circa 95.000 euro, al netto di oneri previdenziali.
I costi del personale aumentano di anno in anno, siamo intorno ai 2Mld, ma per la meritocrazia i raccomandatissimi della casta non meritano la durezza del vivere che tocca a voi paria.
Ma guai a parlare di licenziamenti o ricollocamenti, anzi, a fronte di un’attività ridotta rispetto agli anni precedenti (è stata ceduta pure la vigilanza alla BCE), il numero delle assunzioni è lievitato. Tutti questi generali inutili, una manica di parassiti, quanto rendono alla collettività per percepire tali stipendi?
E non è tutto! In quel centro di privilegio immenso (stipendi, mutui casa, ferie, scuola per i figli, assicurazione sanitaria, ecc. ecc.) nessuno può essere toccato in nome dell’autonomia.
Anche il mezzo miliardo di spese d’amministrazione è preoccupante e poco trasparente: Hard/Soft 107 milioni, 22mln per le pulizie, 68mln per “ALTRI”, 77mln per biglietti e abbonamenti. Sono 7000 i dipendenti in BdI, la metà ha una
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PANORAMA INTERNAZIONALE
Gli USA: uno Stato-canaglia al servizio della propria economia
di André Chamy
Improvvisamente, la classe possidente francese diventa consapevole dell’uso economico che gli Stati Uniti fanno del sistema giudiziario. Dal 1993 il Dipartimento per il Commercio ha creato un Trade Promotion Coordinating Committee e un Advocy Center, direttamente collegato alle agenzie d’intelligence. Più di recente, il Dipartimento di Giustizia ha interpretato le leggi statunitensi in modo da estendere il proprio potere all’estero ed esercitarlo, insieme alle altre amministrazioni, nell’interesse delle grandi aziende USA. Di fatto, i processi intentati contro le imprese europee non sono in relazione con le violazioni di cui vengono accusate. Sono processi concepiti per portarle al fallimento o consentirne l’acquisizione da parte di società USA.
RETE VOLTAIRE | PARIGI (FRANCIA) | 14 FEBBRAIO 2019
n pochi mesi, Frédéric Pierucci è passato brutalmente dallo status di presidente della filiale “calderone” di Alstom a quello di detenuto sottoposto alle drastiche condizioni della vita carceraria statunitense…
Ecco riassunto in poche parole il percorso di un dirigente francese in balìa della giustizia USA… Il caso Pierucci consente di fare diverse considerazioni sul piano economico e strategico.
In un libro-testimonianza, intitolato Le piège américain. Otage de la plus grande entreprise de déstabilisation (La trappola americana. Ostaggio della più grande impresa di destabilizzazione), un ex dirigente Alstom svela i retroscena dell’acquisizione del gruppo francese da parte della statunitense General Electric (GE) [1].
Pierucci, un «fantoccio nelle mani della giustizia americana», fu «vittima della strategia» del PDG Patrick Kron. La storia personale di Pierucci illustra la guerra economica degli Stati Uniti contro l’Europa, finalizzata a impadronirsi dei pezzi da novanta dell’industria del Vecchio Continente, usando la giustizia come leva per piegare le imprese, ricorrendo sia a restrizioni fisiche, quali sono le reclusioni abusive, sia a costrizioni finanziarie, usando l’espediente di ammende esorbitanti che farebbero cadere interi Paesi.
Per una vicenda di corruzione in Indonesia, risalente agli inizi degli anni Duemila, Pierucci viene arrestato senza troppi riguardi il 14 aprile 2013, all’arrivo all’aeroporto di New York, e messo subito in isolamento, pressoché senza contatti con la famiglia; l’arresto avviene all’incirca un anno prima dell’annuncio, il 24 aprile 2014, dell’acquisizione di Alstom da parte di GE.
Quel che più meraviglia è sicuramente la rapidità con cui si sono conclusi i negoziati per una transazione di simile portata: secondo Kron le trattative tra Alstom e GE sono iniziate il 23 marzo 2014 e la vendita si è conclusa il 23 giugno 2014. La transazione è consistita nell’acquisto da parte della General Electric del ramo energia del gruppo francese, per un importo di 12,35 miliardi di euro; poiché la legislazione USA prevede deduzioni fiscali per le imprese che investono all’estero, GE ha sborsato in realtà solo 8,35 miliardi di euro [2].
Al di là delle vicende interne di Alstom, che determinarono le relazioni di Pierucci con il PDG dell’epoca, Kron, e del ruolo avuto da quest’ultimo nell’acquisizione del gruppo francese da parte di GE, è lecito porsi domande sullo scopo dell’arresto di Pierucci e, soprattutto, sul carattere “abituale” delle procedure nei confronti di gruppi stranieri, in particolare europei, per far concludere a gruppi statunitensi operazioni finanziariamente e strategicamente redditizie.
Nel libro citato, scritto con il giornalista Matthieu Aron, Pierucci afferma che «le azioni giudiziarie americane [statunitensi, Ndr] sono senz’altro all’origine della disgregazione di Alstom». Pierucci, convinto di non aver nulla da rimproverarsi, tanto più che era stato assolto da un’inchiesta interna di Alstom, è certo di un suo rapido proscioglimento. Nel libro l’ex presidente della filiale Alstom rivela che in realtà la giustizia USA mirava al PDG del gruppo. «Noi vogliamo perseguire la direzione generale di Alstom, in particolare Matthieu Kron» dice a Pierucci, poco dopo il suo arresto, il procuratore federale del Connetticut, David Novick.
Pierucci non sarebbe stato avvertito da Alstom che il Dipartimento di Giustizia (DoJ) [3] aveva aperto un’inchiesta nel 2009 sull’«affare indonesiano» e si rende conto che Kron «ha voluto fare il furbo», «facendo credere che l’azienda collaborava e facendo in realtà il contrario». Il dipendente di Alstom finirà per dichiararsi colpevole e sarà licenziato.
Al di là di questa storia, dietro l’arresto-condanna di Pierucci c’erano in gioco poste importanti che riguardano non la sua persona, bensì uno dei fiori all’occhiello dell’industria francese.
Per sfuggire ai procuratori statunitensi, l’ex PDG di Alstom deve aver pensato che la soluzione poteva essere la vendita a General Electric delle attività del ramo energia e reti, da anni concupite dagli Stati Uniti; una tesi che oggi Kron smentisce.
Questa vendita, a monte della quale da parte dello Stato francese non c’è stata alcuna riflessione strategica, né sul piano industriale né sul piano dell’indipendenza nazionale, è stata come sempre appoggiata da alcuni uomini politici. I pretesti accampati sono gli argomenti tradizionalmente usati da chi non possiede una vera visione strategica dell’industria: il gruppo francese «non possedeva la massa critica per far fronte alla concorrenza», «le sue attività energetiche non erano sostenibili a lungo termine» e, per finire, «la scelta dell’avvicinamento a un grande protagonista del mercato era la scelta più sensata» [4].
Nel 1996 la Francia stava infatti per vendere a un prezzo simbolico Thomson alla coreana Daewoo, nel contesto di un’operazione di privatizzazione, motivata con i medesimi pretesti; Thomson era uno dei leader dell’elettronica, compresa quella militare. Lo Stato ha dovuto rinunciarvi per una forte pressione politica e mediatica, ma, soprattutto, per un’operazione di valorizzazione del capitale immateriale di Thomson.
Thomson eccelleva infatti nel campo dei brevetti, grazie alla bravura dei suoi esperti e dei suoi ingegneri, nonché alla capacità d’innovazione… In seguito, Thomson è diventata Thales.
Al di là della debolezza dimostrata dai politici francesi nel difendere gli interessi nazionali, i comportamenti degli Stati Uniti non sarebbero stati possibili senza il ricorso al principio di extraterritorialità da parte della giustizia statunitense che, fino a oggi, ha inflitto alle imprese francesi ammende per oltre 13 miliardi di dollari.
Questo racket, perché di questo si tratta, è di portata inedita: in dieci anni GE ha acquisito quattro società ricorrendo agli stessi mezzi. Alla fine, la giustizia statunitense ha condannato Alstom a un’ammenda di 772 milioni di dollari e ha rifiutato che la pagasse GE, com’era stato invece convenuto negli accordi per l’acquisizione!
Non soltanto Alstom perde uno dei suoi fiori all’occhiello, ma è anche stata dissanguata di circa un miliardo di dollari! È un’operazione di tipo mafioso; la mafia l’avrebbe però condotta con più discrezione…
Gli Stati Uniti fanno la legge
Con il pretesto della lotta alla corruzione, gli USA indeboliscono certe imprese strategiche per posizionare meglio le proprie sul mercato mondiale. È una vera e propria guerra economica sotterranea quella combattuta dagli Stati Uniti contro le imprese francesi ed europee.
Gli Stati Uniti approfittano dell’estensione extraterritoriale della loro giurisdizione [5] anche per ampliare la facoltà di sanzionare imprese estere che avrebbero avuto rapporti commerciali con i Paesi colpiti dall’embargo unilaterale degli USA.
Alcatel, Alstom, Technip, Total, Société Générale, BNP Paribas, Crédit Agricole, Areva [6]… Negli ultimi anni tutte queste società sono state perseguite dalla giustizia USA per fatti di corruzione o di aggiramento di embargo.
- La Commerzbank e HSBC sono state penalizzate per falle nell’applicazione della legislazione antiriciclaggio;
- La Deutsche Bank sta negoziando una penalità che potrebbe raggiungere i 14 miliardi di dollari, secondo quanto richiesto dagli statunitensi, per il ruolo svolto nella crisi dei subprimes.
- Volkswagen è stata sanzionata (non senza buoni motivi) per aver truffato sulle regole ambientali…
Tutte queste società sono state punite in base al principio chiamato di «extraterritorialità del diritto statunitense»: leggi che permettono di perseguire imprese estere all’estero, a condizione che abbiano un «nesso», anche artificiale, con gli Stati Uniti [7].
Un nesso inteso in senso estremamente allargato. Per avviare azioni giudiziarie basta che le imprese abbiano effettuato una transazione in dollari o utilizzato una tecnologia USA.
«Basta l’utilizzo di un chip elettronico, di un iPhone, di un host o di un server statunitense per incorrere nella giustizia USA, spiega l’economista Hervé Jurvin. Una trappola in cui sono cadute molte imprese».
Altre imprese francesi ed europee potrebbero essere perseguitate dalla giustizia statunitense.
Per esempio, possiamo citare Airbus, la società di costruzione di aerei che si è denunciata alle autorità USA benché già oggetto di un’inchiesta da parte della Procura Nazionale Finanziaria (Parquet National Financier – PNF) per sospetta corruzione in Francia, ma anche in Inghilterra.
Poi c’è il caso Areva. L’impresa ha acquisito la società canadese Uramin a un prezzo che sembrerebbe sopravvalutato. A fine 2016 è stato depositato all’FBI un dossier sulla vicenda: l’operazione sarebbe avvenuta in dollari, alcuni personaggi coinvolti nell’affare sarebbero statunitensi e, per finire, Uramin ha tenuto un’assemblea generale decisiva… a New York. Ci sarebbero quindi le condizioni per mettere in moto la giustizia statunitense.
Anche la società Lafarge potrebbe essere sottoposta a inchiesta. Il cementiere franco-svizzero è già inquisito dalla giustizia francese per il sospetto di aver versato denaro a Daesh in Siria, al fine di poter continuarvi i propri affari. Lafarge ha chiesto a uno studio americano, Baker Mac Kenzie, di stendere un rapporto di auditing.
Nel documento “confidenziale” si legge che la società è stata chiaramente allertata sui rischi giudiziari negli Stati Uniti: «La filiale siriana di Lafarge ha aperto conti in dollari USA presso le seguenti banche: Audi Bank Syria, Audi Bank Lebanon e Al-Baraka Bank in Siria… Questi conti sono serviti per effettuare e ricevere numerosi pagamenti in dollari USA, fra cui versamenti di commissioni… Questi pagamenti corrispondono a trasferimenti probabilmente trattati da un’istituzione finanziaria statunitense, dunque potenzialmente sottoposti alle sanzioni USA».
Un rapporto parlamentare francese, depositato il 5 ottobre 2016 alla presidenza dell’Assemblea Nazionale [8], ha evidenziato, rispetto all’extraterritorialità delle leggi statunitensi, in particolare due punti:
- il diritto come strumento di potenza economica e di politica estera;
- il diritto al servizio di obiettivi di politica estera e d’interessi economici degli Stati Uniti, nonché al servizio direttamente delle aziende.
La Commissione ha sentito numerosi esperti, che non solo hanno confermano queste conclusioni, ma hanno anche sottolineano come dietro la facciata giudiziaria ci sia una precisa volontà politica ed economica.
Il rapporto ha appurato che, per raccogliere informazioni, sono mobilitati tutti i servizi USA. «Si tratta di una strategia degli Stati Uniti deliberata, che consiste nel mettere in rete agenzie d’intelligence e giustizia per fare una vera e propria guerra economica agli avversari, afferma l’ex deputato LR [Les Républicains, ndt] Pierre Lellouche, presidente della commissione parlamentare. Questa guerra economica è agghindata con le migliori intenzioni del mondo».
Il senato ha svolto lo stesso lavoro giungendo alle medesime conclusioni [9].
Risultato: in questi ultimi anni, quasi 40 miliardi di dollari d’ammenda sono stati inflitti dalla giustizia statunitense a imprese europee [10].
In realtà, dietro la facciata e le timide conclusioni, ci si è fermati allo stadio delle raccomandazioni. I deputati hanno evocato la possibilità di ricorrere al regolamento europeo, chiamato «di blocco», adottato nel 1996 per garantire protezione «dell’ordine giuridico vigente» e degli «interessi della Comunità» nei confronti dell’applicazione extraterritoriale di due leggi statunitensi, anch’esse del 1996: la cosiddetta “legge Helms-Burton”, che rafforzava l’embargo contro Cuba, cominciato nel 1993, e la cosiddetta “legge D’Amato-Kennedy”, che vietava investimenti nel petrolio e nel gas iraniani e libici. Nel 1996 anche Canada e Messico, peraltro partner degli Stati Uniti nell’ANLS [Accordo Nordamericano per il Libero Scambio, in inglese NAFTA, North American Free Trade Agreement, ndt], hanno adottato leggi di “blocco”.
In pratica però non è successo niente, nessun partito ha mai avuto il coraggio politico di proteggere gli interessi economici delle imprese europee; è però lecito chiedersi perché le imprese europee non abbiano il coraggio di sfidare i divieti. In realtà aspettano il via libera politico, che però mai arriverà.
Infatti, in seguito all’annuncio degli Stati Uniti dell’8 maggio 2018 della cancellazione della sospensione delle misure restrittive contro l’Iran, sia detto en passant, mai veramente attivate, nonostante l’accordo sul nucleare prevedesse l’annullamento progressivo delle sanzioni, e in considerazione che, «per la loro applicazione extraterritoriale, questi strumenti violano il diritto internazionale», il 6 giugno 2018 è stato avviato l’iter per aggiornare l’allegato al Regolamento del 1996. Poiché non ci sono state obiezioni da parte degli Stati membri e del Parlamento europeo, l’aggiornamento, stipulato con un atto delegato della Commissione, è entrato in vigore il 7 agosto 2018. Lo stesso giorno la Commissione Europea ha pubblicato una nota per l’interpretazione dell’aggiornamento della legge di blocco, redatta sotto forma di domande/risposte e destinata agli operatori economici.
Risultato di questa “decisione”? Nessun cambiamento all’atto pratico…
Infatti, per evitare che le imprese europee conquistino parti di mercato nei Paesi colpiti dalle sanzioni USA, la giustizia statunitense, aziona le leve di cui dispone grazie alle agenzie governative per punire le imprese tentate dall’assumersi questo rischio.
Questa stessa giustizia è pure messa in atto affinché in fine le imprese statunitensi possano eliminare un concorrente o impadronirsi di società straniere giudicate interessanti per la propria strategia economica e finanziaria.
Una guerra d’influenza economica
Come si è arrivati qui? Nel 1977 gli Stati Uniti, in seguito a un enorme scandalo di tangenti che riguarda l’impresa costruttrice di aerei Lockheed, adottano una legge anticorruzione, battezzata FCPA (Foreign Corrupt Practicises Act). Gli Stati Uniti si accorgono però che questa legge li svantaggia nella concorrenza economica. «L’ex capo della CIA, James Woolsey, un giorno ha detto: “Ne abbiamo abbastanza delle tangenti che i francesi versano per i contrati di armamenti. Adesso facciamo pulizia!” Salvo che gli americani [statunitensi, Ndr] continuano a versare provvigioni in società off-shore…» afferma Lellouche.
«Siccome gli Stati Uniti sono diventati una superpotenza, non hanno pressoché più bisogno di ricorrere alle tangenti, commenta il giornalista Jean-Michel Quatrepoint. Hanno messo in atto una strategia d’influenza. Un soft power. La corruzione, attraverso le “buone, vecchie tangenti”, è l’arma dei deboli».
Questa volontà di potenza economica, dopo la caduta del Muro di Berlino nel 1989 s’impone come un vero e proprio obiettivo strategico. «Nel 1993 il segretario di Stato USA, Warren Christopher, pretende dal Congresso di avere a disposizione, per far fronte alla concorrenza economica mondiale, gli stessi mezzi di quelli destinati alla lotta contro i sovietici durante la guerra fredda, racconta lo specialista d’intelligence economica Ali Laïdi. È iniziata una nuova guerra, stavolta calda e in ambito economico».
Nel 1998 la legge anticorruzione USA sarà quindi allargata a tutte le imprese.
Viene anche dispiegata una vera e propria batteria di leggi contro l’aggiramento degli embarghi e contro la frode fiscale: bisogna contrastare le nuove potenze emergenti come la Cina, diventata il concorrente numero uno e, segretamente, il nemico numero uno degli USA.
«Gli Stati Uniti non riescono a contenere economicamente la Cina, spiega il direttore della Scuola di Guerra Economica, Christian Harbulot. Cercano perciò con ogni mezzo di fare in modo che questa potenza non li sorpassi». Sicché il diritto americano permette, se necessario, di liberarsi dei concorrenti ingombranti. «Gli americani [gli statunitensi, Ndr], se vogliono impedire che un concorrente venda ai russi o ai cinesi, possono utilizzare l’arma anticorruzione, sostiene Hervé Juvin. È segnatamente il caso di Alstom. Agli occhi degli americani era necessario impedire che Alstom concludesse un partenariato e un trasferimento di tecnologia ai cinesi».
Medesimo sospetto sugli embarghi. Non sempre le procedure avviate dagli Stati Uniti sono esenti da retropensieri geopolitici. Così, nel 2014 BNP-Paribas è stata condannata a 9 miliardi di dollari di ammenda per non aver rispettato l’embargo contro Cuba e Iran. «Abbiamo pagato sanzioni di cui non riconosciamo la legittimità, tuona Lellouche [11]. Ebbene, dopo il pagamento dell’ammenda, gli americani [gli statunitensi, Ndr] si sono riavvicinati a Cuba e hanno tolto le sanzioni contro il Sudan! Dovrebbero rimborsarci i nove miliardi [12]. Questo dimostra che quando hanno deciso di sanzionare un Paese tutti gli altri sono costretti ad allinearsi».
Diversi altri casi inducono a pensare che la giustizia USA abbia direttamente collaborato con imprese private per rafforzare il loro potere economico.
Il caso Alcatel è illuminante.
Alcatel era un’impresa francese di telefonia che, nel 2004, è stata perseguita dal DoJ per aver pagato tangenti a un uomo politico della Costarica! Messo sotto pressione dalla giustizia statunitense, Serge Tchuruk, PDG di Alcatel, è stato costretto ad acquisire Lucent, un’impresa USA, e a fondersi con essa per dare vita ad Alcatel-Lucent. All’epoca la decisione suscitò non pochi interrogativi: gli osservatori non capivano il motivo di un acquisto che non avrebbe portato alcun beneficio strategico ad Alcatel. Di più: la fusione si è combinata con un’importante diminuzione del potere decisionale dei dirigenti francesi a vantaggio dei dirigenti USA.
Dopo questa fusione l’azienda non si è più ripresa e nel 2013 è stata acquisita da Nokia.
Pochi anni dopo la storia si ripete con la vicenda Alstom, dove il modus operandi è identico a quello di Alcatel.
La Giustizia USA si mette anche al servizio dello spionaggio industriale!
Infatti la procedura statunitense non si ferma alle multe: dopo essere stata sanzionata, l’impresa è messa sotto sorveglianza. Un “monitore”, ossia un esperto al servizio della giustizia USA, è designato per sorvegliare per tre anni «il buon andamento dell’impresa» e verificare che rispetti tutti gli obblighi di conformità.
«Questo monitore ha accesso a tutte le informazioni che riguardano l’impresa, spiega l’ex delegata interministeriale all’Intelligence economica, Claude Revel. Ogni anno il sorvegliane deve fare rapporto al ministero della giustizia. Ebbene, come ho potuto constatare di persona, i rapporti talvolta contengono informazioni confidenziali. È davvero molto increscioso» [13].
Pur di non correre il rischio di vedersi rifiutare la conformità e subire ulteriori sanzioni, questo monitoraggio induce le società ad accettare interferenze in ogni decisione economica, industriale o strategica.
Dato che gli europei sono reputati ignoranti delle norme, il monitoraggio è fatto da agenzie statunitensi. Gli elementi accertati sono comunicati alle agenzie governative, che non mancano di servirsene nella guerra economica che, benché non dichiarata, è combattuta con estrema solerzia.
Per dimostrare di essere in regola occorrono adeguamenti. E gli adeguamenti, come alcuni specialisti ricordano, spesso superano il costo delle ammende già inflitte. Si crea così nel mercato statunitense un nuovo settore di servizi che vale qualche miliardo di dollari [14].
Con assoluta imparzialità, non si può non riconoscere che il riscontro è schiacciante e certo mette in buona luce gli Stati Uniti e la loro egemonia.
Dov’è finita l’indipendenza?
«Non è una sorpresa scoprire che abbiamo a che fare con un Imperium giuridico americano [statunitense, Ndr], che siamo di fronte a una barriera estremamente complessa di testi di legge che gli americani non esitano a fare applicare alle imprese straniere.
Questo, naturalmente, toglie ai Paesi europei qualsiasi sovranità» dichiara a Sputnik Lellouche [15], che accompagna l’affermazione con aspre critiche all’inerzia europea.
Ma cosa farebbe Lellouche se fosse al potere?
In realtà nessun politico europeo oserà dire la verità. Quando qualcuno si arrischia a fare una dichiarazione un po’ coraggiosa, subito tende a fare ammenda e ricorda che gli Stati Uniti sono un Paese amico! Ma cosa ce ne facciamo di un amico che ci spia e che, quando adocchia qualcosa che gli interessa ma che ci appartiene, fa di tutto per impossessarsene?
L’esempio di Alstom non è il solo, è però significativo perché pone esemplarmente problemi d’indipendenza. Alstom è infatti un’impresa strategica, soprattutto nel settore nucleare. «La vendita di Alstom a General Electric ci priva di autonomia strategica su due punti fondamentali: le turbine per i sottomarini nucleari, le navi di superfice, come la portaerei Charles-de-Gaulle, nonché sulle centrali nucleari civili, spiega il direttore del Centro francese di ricerca sull’intelligence, Eric Denécé, che ha svolto un’inchiesta sulla vicenda. Siamo di fronte a un vero e proprio tradimento da parte delle élite francesi» [16].
Infatti, se in futuro la Francia dovesse trovarsi in disaccordo con la politica degli Stati Uniti – fatto che avrebbe dovuto già accadere su moltissime questioni – questi potrebbero impedire la consegna da parte di GE di pezzi di ricambio delle turbine dei sottomarini e della portaerei, nonché delle centrali nucleari civili, rendendole di fatto inattive: la Francia verrebbe così privata di quel poco d’indipendenza che le resta, incluso in campo energetico!
La Francia è già sotto il ricatto degli Stati Uniti sul piano sociale: con il rilevamento di Alstom da parte di General Electric, quest’ultima aveva promesso la creazione in Francia entro il 2018 di mille posti di lavoro ma, per il momento, il gruppo USA si limita ad annunciare soppressioni di posti in Europa: 345 sono a rischio a Grenoble, molti altri a Belfort.
Non è escluso che questi due siti finiscano per essere chiusi o che GE ottenga sostanziosi aiuti per mantenere pochi posti di lavoro fino alla volta successiva, quando magari ci saranno un sacco di licenziamenti. I dipendenti coinvolti non sanno quale futuro gli riservi GE. Si rivolgono così allo Stato, che però brilla per assenza.
Soluzioni!
Quale potrebbe essere la risposta della Francia alla strategia statunitense? «La classe politica francese ha tendenza a considerare gli USA amici e a ritenere che, a tale titolo, si può perdonare loro tutto e fare finta di niente, afferma l’ex deputato Bernard Carayon, che nel 2003 ha redatto un rapporto sull’intelligence economica, su richiesta del primo ministro Jean-Pierre Raffarin. Destra e sinistra danno entrambe prova di cecità e impotenza. Nella guerra economica non ci sono amici. Ci sono solo concorrenti e partner diligenti».
Nel rapporto parlamentare pubblicato nel 2016, i deputati Pierre Lellouche e Karine Berger scrivono che con Washington «deve essere stabilito un rapporto di forza» per «poter agire ad armi pari». «La commissione ritiene necessario far valere con gli Stati Uniti il fatto che alcune loro prassi sono ora ritenute abusive e che la Francia non le accetterà più» scrivono i parlamentari.
Tuttavia, nelle conclusioni i deputati francesi hanno valutato che conviene «cooperare per fissare di comune accordo le linee generali della legittima lotta alla corruzione internazionale, al finanziamento del terrorismo e alla frode
Continua qui: https://www.voltairenet.org/article205186.html
VOCI SU IMMINENTI SANZIONI PER PADRE MANELLI. IGNOTI I MOTIVI. FORSE QUESTIONI DI SOLDI.
21 Luglio 2018 Marco Tosatti
L’11 luglio del 2013 scattava con un provvedimento della Congregazione per i Religiosi il Commissariamento dei Frati Francescani dell’Immacolata, che dura ancora, e non si sa quando potrà avere fine. Un periodo straordinariamente lungo. Ma non è questa la sola anomalia di questa vicenda; non si sono mai sapute le ragioni del Commissariamento, se non, nelle parole del primo commissario, padre Volpi, una vaga “deriva lefebvriana”; e che cosa questo voglia dire, non lo sappiamo.
Ma in questi giorni sia alla Cei che in Vaticano stanno girando voci che vorrebbero per imminente qualche genere di sanzione nei confronti del fondatore dei FFI, padre Stefano Manelli, che ha compiuto 85 anni nel maggio scorso.
C’è chi dice che all’origine delle voci sia uno dei tre commissari, il salesiano Sabino Ardito. Sempre secondo queste informazioni che circolano, e che non sono purtroppo verificabili, un documento contenente le sanzioni, preparato dalla Congregazione per i Religiosi, sarebbe già sul tavolo del Pontefice regnante. Dopo le sanzioni sarebbe infine convocato il nuovo capitolo generale, cioè l’assemblea dei frati, che potrebbe (dovrebbe?) rivedere le Costituzioni, in particolare togliendo il voto di consacrazione all’Immacolata, che i commissari hanno già abolito nelle formule di professione per i nuovi arrivati. E dovrebbe scomparire anche il voto di povertà, cioè la proibizione per i frati e la Congregazione di possedere alcunché.
È stato proprio in virtù del voto di povertà che i beni mobili e immobili della Congregazione, affidati a associazioni di laici, non sono stati espropriati dal Vaticano. La magistratura ha dato ragione ai laici, e la Santa Sede allora ha fatto pressioni su padre Manelli affinché convincesse i laici a mollare i beni, pensando che il suo potere di convinzione fosse risolutivo.
La battaglia giuridica scatenata dal Vaticano è stata dura, e si è arrivati fino in Cassazione. Curioso rilevare che uno degli attori della battaglia per la “roba” è il segretario della Congregazione per i religiosi, padre Carballo, uomo di fiducia del Pontefice, che è stato uno dei protagonisti principali del gigantesco crack finanziario dell’ordine francescano. L’incontro fra soldi e tonache spesso non con risultati felici.
E, sempre secondo le voci, le sanzioni canoniche a padre Manelli, se ci saranno, avranno come causa la mancata collaborazione in tema di moral suasion verso le associazioni di laici detentrici dei beni. Se così fosse, assisteremmo a un altro fatto ben singolare: si sanziona canonicamente un fondatore di congregazione non per qualche delitto commesso, o per le ragion che hanno portato al
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POLITICA
Elezioni in Abbruzzo
Francesco Erspamer 14 02 2019
Sto riflettendo sui risultati delle elezioni in Abruzzo, molto limitati ma interessanti. Tragici, da un certo punto di vista, eppure prevedibili e addirittura logici. Credo che mi prenderò ancora un giorno o due prima di proporre un’analisi; reagire alle breaking news con risposte istantanee, a caldo, è fare il gioco del potere liberista, che prospera grazie alla trasformazione della politica in gossip (o empatia, rabbia, depressione) a telecomando. Un tempo si parlava di masturbazione intellettuale: grazie ai social parlerei di pornografia intellettuale.
Però un primo commento lo voglio proporre. Il M5S ha ottenuto il 20% dei consensi, ossia l’1% in meno di cinque anni fa. Certo, una delusione per coloro che sognavano un trionfo: ma chissà su cosa avevano costruito le loro speranze, visto che il loro movimento ha scelto di gareggiare con tutti gli handicap possibili, dalla rinuncia a un giornale e televisione di parte (lasciando quindi il monopolio della propaganda agli avversari, come se non avesse importanza) alla decisione di non presentare liste civiche e civetta benché il vergognoso sistema elettorale che regola le elezioni regionali e locali sia stato costruito precisamente per permetterne l’abuso, fino all’ambiguità sulla questione delle migrazioni, che così avvantaggia la Lega. Prendersela con
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SOFISTI 2.0
Federica Francesconi – 12 febbraio 2019
Elio Lannutti, senatore del Movimento 5S, è ufficialmente indagato dalla procura di Roma per diffamazione aggravata da odio razziale. La sua colpa? Aver denunciato in un tweet l’influenza della finanza ebraica sulla politica, citando i Protocolli dei Savi di Sion.
L’unica pecca di Lannutti è stata quella di aver citato la sola finanza ebraica. La finanza che sta distruggendo il mondo non appartiene solo a una matrice etnica, l’ebraismo per la precisione, per quanto essa possa essere dominante, ma anche ad altre matrici etniche e religiose. Ma, falso storico a parte rappresentato dal Protocollo dei Savi di Sion, è incontestabile che alcune famiglie di lignaggio ebraico detengono fette importanti della finanza speculativa e bancaria. Contestare tale evidenza è da pressapochisti. Naturalmente ciò non può essere strombazzato ai quattro venti, specie se si è delle personalità pubbliche con incarichi di rilievo politico. Dietro l’angolo c’è sempre il reato di odio razziale contro gli ebrei, buffonata questa, promossa da quella creatura mitologica di Fiano, il cui faccione mi ricorda un centauro con le maniglie dell’amore.
Ma in Italia questa come altre verità non possono essere divulgate. Per esempio, non si può andare in TV a dire che l’Open Society di Soros finanzia una galassia di ONG e ONLUS che promuovono l’immigrazione clandestina. Se qualcuno osa farlo rischia di incorrere nell’ira funesta della Gruber, che al posto del viso ha una maschera di silicone con cui si illude di coprire la sua bruttezza interiore. Oppure non si può dire che la nomina di Foa a Presidente della RAI è stata sponsorizzata da una certa comunità che da circa 70 anni si è insediata in Medio Oriente. Niente di scandaloso, per carita: non è mia intenzione fare del moralismo da quattro soldi; ognuno si sceglie gli sponsor che più gli aggradano.
Dunque viviamo in un mondo dove l’evidenza passa per mistificazione e la mistificazione per verità. Niente di nuovo sotto il sole? Non esattamente. Mistificare, come ai tempi dei sofisti nell’Atene del V sec. a.C., oggi è diventata una professione assai remunerativa. Ma i moderni sofisti sono andati oltre le tecniche di persuasione ingannevole insegnate dall’antica sofistica. Oggi i sofisti dell’informazione non dicono più che ogni verità è relativa, cioè contestuale, ma che esiste un’unica verità, preconfezionata, agghindata di falso buonismo o di falso virtuosismo e scremata dai sacerdoti del potere occulto. E non sostengono nemmeno che non esiste alcuna verità, per cui nella comunicazione interpersonale a dominare è il nichilismo. Oggi i sofisti non sanno più di mentire come invece sapevano bene i sofisti ateniesi. Oggi essi credono alle falsità che spacciano per verità rivelate, sicché l’inganno diventa pure autoinganno. E, a dire il vero, non lo fanno nemmeno più per soldi. I vari Mentana, Gruber, Mauro, mentono per puro piacere sadico, perché vogliono illudersi di essere loro i soli detentori della verità. Non percependo più il confine tra menzogna e verità, essi mentono per il puro piacere di mentire. Perché il potere, anche quando se ne possiede un’unghia, dà alla testa. Essere direttore di una testata giornalistica, segretario di un partito, capostipite o rampollo di una famiglia potente, Maestro Venerabile, speculatore finanziario… qualsiasi maschera si indossi per conquistare o mantenere il potere, è come recitare una commedia dove però ad essere canzonato non è solo il pubblico ma l’interprete stesso.
In uno dei suoi migliori dialoghi ironici, “Protagora”, Platone mette in scena una discussione tra il sofista Protagora e Socrate
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STORIA
I bombardamenti angloamericani di Dresda fecero più vittime della bomba atomica
La maggior parte degli storici tende a minimizzare la gravità dei raid aerei su Dresda del febbraio 1945 nei quali morirono almeno 135.000 persone. La sua distruzione cancellò quasi otto secoli di storia insieme a buona parte dei suoi abitanti
MONIKA SKOLIMOWSKA / DPA / AFP – 3 OTTOBRE 2018
Un estratto da “Biografia non autorizzata della Seconda Guerra Mondiale” di Marco Pizzuti:
Nel febbraio 1942 Arthur Travers Harris venne nominato comandante in capo del Bomber Command della Royal Air Force e in poco tempo passò alla storia come «Butcher Harris» (Harris il Macellaio) per avere raso al suolo quarantacinque delle principali città tedesche. Durante il suo mandato, infatti, gli angloamericani diedero il via ai bombardamenti a tappeto sulle più grandi città della Germania senza alcuna distinzione tra obiettivi militari e popolazione civile, perché lo scopo delle missioni era abbattere il morale tedesco e decimare la forza lavoro dell’industria bellica.
Il 24 luglio 1943 Harris diede avvio all’Operazione Gomorra, che durò cinque giorni, durante la quale i bombardieri angloamericani distrussero la città di Amburgo: i loro attacchi multipli non si limitarono a colpire le installazioni portuali, le fabbriche e i presidi militari, ma si accanirono soprattutto contro i quartieri residenziali dove trovarono la morte almeno 45.000 civili. Dopo Amburgo fu la volta di Kassel (in cui persero la vita 10.000 civili), Chemnitz, Berlino, Norimberga e Colonia. Nel febbraio 1945 la stessa sorte toccò alla città di Dresda, che fino a quel momento era conosciuta in tutto il mondo come la Firenze dell’Europa orientale per numero di opere d’arte e patrimonio architettonico. La sua totale distruzione da parte degli aviatori angloamericani cancellò dalle mappe quasi otto secoli di storia insieme a buona parte dei suoi abitanti.
Ciononostante, la maggior parte degli storici tende ancora a minimizzare enormemente la gravità di quanto accaduto, confidando nella correttezza degli argomenti utilizzati dagli uffici d’informazione bellica alleati: la presunta presenza di importanti obiettivi militari e la supposta esagerazione del numero delle vittime da parte dei tedeschi a scopo propagandistico. Tale atteggiamento apologetico rispetto alla condotta bellica degli Alleati non sembra tenere conto del fatto che da diversi decenni è stata dimostrata la totale assenza di obiettivi militari a Dresda nel 1945. Il conteggio dei morti, inoltre, si è rivelato eccessivamente ottimistico, poiché non si è considerato che in quel periodo la città era sovraffollata da centinaia di migliaia di pro fughi civili.
Il rapporto ufficiale stilato il 22 marzo 1945 dal colonnello Grosse per conto dello Stato maggiore tedesco menzionava il recupero di 202.040 salme, principalmente di donne e bambini (gli uomini erano quasi tutti occupati al fronte o nelle fabbriche sparse per la Germania), e prevedeva che il loro numero sarebbe salito ad almeno 250.000.22 Tale rapporto è stato bollato come mera propaganda nazista dai governi alleati, che avevano tutto l’interesse a minimizzare l’entità della strage, ma secondo le stime più imparziali e realistiche effettuate dagli storici che hanno riesaminato la dinamica dei raid aerei e il numero di residenti effettiva mente presenti in città durante i bombardamenti, a Dresda morirono almeno 135.000 persone.
Ciò significa che, se gli storici «revisionisti» (etichetta usata per screditare gli studiosi autori di rivelazioni scomode) hanno ragione, alcuni bombardamenti a tappeto degli angloamericani ebbero effetti addirittura più devastanti dell’ordigno atomico sganciato su Hiroshima (78.000 vittime, poi aumentate notevolmente per gli effetti delle radiazioni). La controversia sul numero delle vittime di Dresda è ancora aperta, e molto probabilmente non si arriverà mai a una stima definitiva condivisa da tutti gli storici, e l’unico fatto certo è che si trattò di un’ingiustificabile strage di ci vili tedeschi perpetrata a guerra ormai conclusa(Alleati e sovietici si erano già accordati sulla spartizione del paese).
Nel frattempo, quindi, per poter comprendere come andarono veramente le cose al di là delle versioni ufficiali troppo accomodanti con i vincitori, non resta che riassume re quanto emerso dai documenti storici, dalle statistiche e dalla ricostruzione degli eventi effettuata da Arthur Harris (ex comandante in capo della RAF), corroborata dalle centinaia di testimonianze degli stessi aviatori alleati che parteciparono ai bombardamenti. I raid aerei alleati, invece di colpire solo il comando locale della Wehrmacht, si concentrarono contro le abitazioni civili del centro storico distruggendo 24.866 case su un totale di 28.410 e radendo al suolo un’area di 28 km2 in cui vi erano 72 scuole, 22 ospedali (il più grande complesso ospedaliero della Germania centrale), 19 chiese e 5 teatri.
Secondo la versione dei governi alleati, durante il bombardamento di Dresda vennero uccise al massino 25.000 persone. Tale cifra, però, è altamente improbabile, perché un centro storico cittadino di soli 15 km2 ospita mediamente 85.000 persone e, come detto, nei giorni dei tre raid aerei la città era stata presa d’assalto dai profughi della Slesia, della Prussia Orientale, di Berlino e della Pomerania. Circa un mese prima dell’attacco, il 16 gennaio 1945, la Wehrmacht richiese l’evacuazione entro 7 giorni di vaste aree troppo vicine alla linea del fronte.
L’ordine di evacuazione costrinse 7 milioni di tedeschi ad abbandonare le proprie case e a fuggire verso ovest con tutto ciò che potevano trasportare a piedi o su carri di legno trainati da cavalli.
Si trattò di una marea umana composta prevalentemente da donne, bambini e anziani che si ritrovarono improvvisamente a dover dormire all’aria aperta ed esposti alle intemperie del rigido inverno con temperature sottozero. Migliaia di essi perirono di stenti e malattie durante l’esodo, mentre la maggior parte si accampò nei centri urbani organizzati per il loro smistamento. Per tale motivo, la città di Dresda, che prima della guerra aveva una popolazione di 630.000 abitanti, nel febbraio 1945 ospitava diversi centri di accoglienza per bambini evacuati, un enorme numero di profughi e molti lavoratori forzati di diverse nazionalità, che si assommavano ad alcune decine di migliaia di prigionieri di guerra alleati e russi.
Nel complesso, quindi, i residenti effettivi di Dresda ammontavano a circa 1.300.000. Il massiccio attacco aereo alleato che ridusse in cenere la città stracolma di profughi ebbe luogo nella notte tra il 13 e il 14 febbraio, con due diversi raid programmati per susseguirsi uno all’altro con un intervallo di 3 ore. Nell’incursione vennero impiegati ben 1400 velivoli e il passaggio del primo raid doveva servire a confondere i pochi caccia intercettori notturni tedeschi rimasti per far credere che l’attacco principale era terminato.
La pausa di 3 ore, invece, era stata appositamente studiata per far attecchire bene gli incendi e cogliere di sorpresa i soccorritori e le persone che uscivano dalle cantine credendosi in salvo.
Il Maresciallo dell’Aria Harris aveva calcolato che nel giro di 3 ore gli incendi sarebbero divenuti indomabili e le squadre antincendio del la Germania centrale avrebbero avuto il tempo per correre in aiuto della popolazione e penetrare nel cuore della città dove sarebbero stati massacrati dalle bombe del secondo raid alleato. Le fiamme degli incendi, inoltre, avrebbero reso la città ben visibile ai piloti dei bombardieri. I calcoli di Harris si rivelarono giusti, perché tutto andò come previsto. Per questo motivo, la seconda incursione fu particolarmente devastante e le bombe incendiarie ad alto potenziale incenerirono quasi all’istante i corpi dei residenti colpiti, rendendo impossibile qualsiasi conteggio esatto delle vittime.
Al bombardiere guida alleato a cui era stato affidato il delicato compito di individuare con precisione gli obietti vi da colpire venne detto che lo scopo della missione era interrompere la ferrovia e altre importanti linee di comunicazione che passavano attraverso Dresda, ma nel settore indicato i piloti non trovarono nessuna delle 18 stazioni ferroviarie che avrebbero dovuto distruggere, perché il vero scopo era radere al suolo le abitazioni per abbattere il morale della popolazione tedesca e mostrare «i muscoli» ai sovietici con cui erano già in trattativa per la spartizione dell’Europa. L’infernale pioggia di bombe incendiarie surriscaldò l’aria e creò fortissimi vortici in grado di risucchiare dentro il fuoco la folla di persone in fuga. Nonostante la città fosse stata trasformata in un immenso e spaventoso falò visibile da 320 km di distanza, non fu colpito nessuno dei pochi obiettivi militari esistenti, come il vicino aeroporto (con molti apparecchi della Luftwaffe a terra) o il ponte ferroviario di Marienbrücke sull’Elba.
Quando le prime squadriglie di bombardieri pesanti arrivarono su Dresda, trovarono il cielo illuminato dalle luci abbaglianti dei bengala di segnalazione lanciati dagli aerei più piccoli e veloci alla testa della formazione (gruppi di «localizzatori» equipaggiati con velivoli Mosquito) per indicare i bersagli con estrema precisione. I tedeschi vennero completamente colti di sorpresa perché non poteva no immaginare che lo scopo della missione alleata fosse quella di bombardare una città di smistamento profughi come Dresda. Di conseguenza, fino agli ultimissimi minuti venne allertata solo la popolazione di Lipsia, cosicché i residenti della città non ebbero neppure il tempo di mettersi al riparo nelle cantine.
Tale circostanza, quindi, non può che aver fatto salire il numero delle vittime ben oltre quello indicato dai rapporti ufficiali alleati, mentre i Lancaster con il loro carico di bombe furono liberi di girare ben 130 metri di pellicola (attualmente conservati presso gli archivi cinematografici dell’Imperial War Museum di Londra) sulla città in fiamme senza venire sfiorati da un solo proiettile nemico.
Gli stessi equipaggi angloamericani erano stati tratti in inganno dalle informazioni fuorvianti dei loro comandi e rimasero stupiti quando si accorsero che la città era priva di difese e non vi era alcuna traccia di obiettivi militari di qualche rilevanza. Ecco, ad esempio, come vennero informati i piloti del 3° Gruppo bombardieri: «Il vostro gruppo attaccherà il quartier generale dell’esercito tedesco a Dresda». Altri equipaggi, invece, testimoniarono di aver ricevuto l’ordine di bombardare la «città fortezza» di Dresda, mentre ad altri ancora venne riferito che avrebbero dovuto distruggere i grandi depositi tedeschi di armi e di provviste utilizzati dai tedeschi per l’approvvigionamento del fronte orientale. Ad alcuni ufficiali fu addirittura raccontato che l’obiettivo era il comando della Gestapo, un grande stabilimento di gas venefici, uno snodo ferroviario nevralgico o un centro industriale dove venivano fabbricati motori elettrici e munizioni. Pertanto, quasi nessun pilota sapeva che, in realtà, avrebbe bombardato una città d’arte priva di difese e stracolma di profughi disperati.
Il colonnello H.J.F. Le Good documentò la totale assenza di difese a protezione della città nel suo rapporto di servizio: «1314 febbraio 1945, Dresda. Sereno sopra il bersaglio, praticamente l’intera città in fiamme. Niente contraerea».
Paradossalmente, inoltre, lo scalo ferroviario a sudovest della città, che poteva essere di qualche interesse militare, venne lasciato quasi indenne. I bombardieri alleati vennero caricati per il 75 per cento con bombe ad alto potenziale incendiario e per il resto con bombe dirompenti. Queste ultime furono impiegate per di struggere i tetti, le porte e le finestre, mentre le prime furono sganciate subito dopo per appiccare gli incendi attraverso ogni varco aperto.
Dresda era una magnifica città d’arte con secoli di storia e caratterizzata da costruzioni parzialmente in legno, che iniziarono ad ardere come tizzoni all’arrivo delle prime bombe incendiarie. Il «localizzatore» del Mosquito inviato in avanscoperta per ispezionare la città e sganciare le bombe di segnalazione manifestò subito tutto il suo imbarazzo nel constatare la totale assenza dei riflettori e dei cannoni leggeri della contraerea.
L’olocausto di Dresda, però, non era terminato, e il 14 febbraio 1945 i resti della città ancora in fiamme e oscurati da un fungo di fumo alto 5 km vennero nuovamente bombardati da 450 fortezze volanti americane. La terza incursione
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