NOTIZIARIO STAMPA DETTI E SCRITTI
19 APRILE 2019
A cura di Manlio Lo Presti
Esergo
Se una società basata sul mito della produttività ha bisogno di uomini a metà
– fedeli esecutori, diligenti riproduttori, docili strumenti senza volontà –
vuol dire che è fatta male e che bisogna cambiarla
GIANNI RODARI, Grammatica della fantasia, Einaudi, Torino 1973, p. 171
https://www.facebook.com/Detti-e-Scritti-958631984255522/
Le opinioni degli autori citati possono non coincidere con la posizione del curatore della presente Rassegna.
Tutti i numeri dell’anno 2018 della Rassegna sono disponibili sul sito www.dettiescritti.com
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SOMMARIO
Notre-Dame, la pista dei soldi: per trovarli serviva l’incendio 1
Nostra Signora del Templari: sapete cos’è bruciato a Parigi? 1
E se cominciassimo noi a scomunicare la Chiesa?
Il super-Stato cinese Han: Il nuovo Terzo Reich. 1
Le chiese europee: Vandalizzate, defecate e incendiate “ogni giorno” 1
Quel grande affare chiamato “utero in affitto”
Francesi in Libia
Qatar: “Un lupo travestito da agnello” 1
Assange può scmbinare la carte dello scontro tra Donald Trunp e il Depp State
La NATO voleva portare “l’operazione Condor” in Europa 1
“In Libia controlli finiti. Adesso l’Italia rischia marea di sbarchi” 1
Per una nuova teoria del valore 1
Modern Monetary Theory: la teoria del sovranismo monetario. Intervista a Warren Mosler 1
Crac bancari: azionisti a caccia di rimborsi 1
Magistratura italiana
“Lavorare meno, lavorare tutti” sogno o realtà? 1
Il nazismo de L’Espresso
Radio radicale
Guaidó perde la battaglia dell’”intervento umanitario” 1
GOLPE? PRATICAMENTE IN DIRETTA. 1
Il paradosso insiemistico del barbiere di Russell e il paradosso di Cantor 1
I primi 100 anni
IN EVIDENZA
Notre-Dame, la pista dei soldi: per trovarli serviva l’incendio
19/4/19
Subito dopo l’incendio di Notre-Dame, accanto alla tesi ufficiale dell’incidente casuale hanno cominciato ad accavallarsi anche le ipotesi complottiste: c’era chi parlava di una mossa di Macron per riunificare la popolazione francese in un momento di forti divisioni sociali, e chi è andato a spulciare tra i possibili simbolismi esoterici di quella chiesa per cercare il significato nascosto di quell’incendio. C’è chi ha tirato fuori le profezie del vescovo Irlmaier, che parlava della grande città con la torre in fiamme.
E c’è naturalmente chi ha cercato di gettarla sulle guerre tra religioni, ipotizzando un attacco alle chiese cattoliche da parte dell’Islam(e ovviamente Rita Katz del “Site” non ha perso l’occasione per gettare benzina sul fuoco, facendoci subito sapere che i jihadisti avevano esultato per l’incendio di Notre-Dame). Insomma, nell’arco di poche ore è uscita tutta la gamma di opzioni possibili, che andavano dal puro incendio casuale fino alle tesi complottistiche più contorte ed esasperate.
VIDEO QUI: https://youtu.be/ORFZjOqfPXs
C’è solo una ipotesi che non mi sembra sia stata molto esplorata, ed è l’ipotesi dei soldi. La chiesa di Notre-Dame è di proprietà dello Stato, che deve mantenerla in buone condizioni. E il budget per le ristrutturazioni intraprese era enorme. Ma a quanto pare, di soldi per mandarle avanti non se ne trovavano. Ascoltate bene questo telegiornale di oggi, 16 aprile, e vediamo se fra le righe delle varie notizie riusciamo a trovare il filo della matassa: «La chiesa più famosa di Francia versava da anni in pessime condizioni: poca manutenzione, strutture quasi pericolanti. I luoghi di culto, secondo una legge del 1905, appartengono allo Stato, che li confiscò alla Chiesa: una conseguenza, questa, dell’atteggiamento laicista della repubblica francese. Dunque, Notre-Dame non appartiene al Vaticano ma allo Stato, che non ha colpevolmente curato – come avrebbe dovuto – questo suo patrimonio storico. Lo scorso anno erano stati stanziati 2 milioni di euro per i primi restauri: una goccia nell’oceano, poiché il restauro totale avrebbe avuto un costo di almeno 150 milioni. Qualche tempo fa il governo aveva proposto di istituire una lotteria di beneficenza per recuperare fondi per i restauri delle chiese: una proposta che suona ora come una beffa».
Allora, la chiesa versava da anni in pessime condizioni. La ristrutturazione sarebbe costata almeno 150 milioni di euro. Finora ne avevano trovati soltanto 2, ed erano addirittura arrivati a pensare ad una lotteria di beneficenza per
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Nostra Signora del Templari: sapete cos’è bruciato a Parigi?
Scritto il 19/4/19
Quanti sanno che la cattedrale di Notre-Dame de Paris è un progetto templare dedicato in apparenza alla Maddalena, ma in realtà alla Dea Madre, la Terra? Lo afferma il simbologo Paolo Franceschetti, avvocato, a lungo impegnato a far luce su misteri italiani e delitti rituali. In un intervento a “Border Nights” all’indomani del rogo nella capitale francese, Franceschetti rivela che Notre-Dame, dopo Chartres, doveva servire a «riportare sulla Terra l’energia femminile, oscurata per secoli dal Vaticano». Il web complottista è a caccia di possibili retroscena sull’eventuale origine dolosa del disastro. L’unica certezza, per ora, è la sicurezza ostentata dalle autorità, convinte di poter escludere la pista terroristica. L’ombra del templarismo, però, negli ultimi anni ha scosso Parigi: richiamavano direttamente la simbologia templare gli attentati affidati alla manovalanza dell’Isis. Una strana “firma”, per siglare fatti di sangue particolarmente efferati, come se si trattasse di una vendetta: proprio a Parigi fu bruciato sul rogo Jacques de Molay, l’ultimo gran maestro dell’Ordine del Tempio, i cui superstiti poi confluirono in parte nella futura massoneria (di seguito, le riflessioni testuali di Franceschetti).
Cosa potrebbe voler dire, oggi, colpire Notre-Dame? In teoria, dovrebbe servire a portare ancora più squilibrio in un’epoca in cui lo squilibrio è voluto e preventivato. “Deve” esserci: anche astrologicamente, siamo in un periodo di squilibrio. L’attuale congiunzione di Plutone con Saturno è terribile, e quindi stiamo subendo anni terribili (chi conosce l’astrologia sa che, da quel punto di vista, “deve” andare così). E probabilmente ci sono forze del bene che sono “troppo forti”, quindi qualcuno potrebbe aver voluto ripristinare – in negativo – l’equilibrio. Notre-Dame è una delle chiese templari più importanti del mondo, insieme a quella di Chartres. Chartres è la prima, e anche la più bella. I Templari, poi, resisi conto che il simbolismo di quella cattedrale era un po’ troppo evidente, insieme ad altre cose che avrebbero voluto celare, nelle cattedrali successive quei simboli li hanno resi più criptici, più difficili da decifrare. Quindi Notre-Dame è un gradino sotto Chartres, come bellezza e anche come simbologia, però è il simbolo della divinità femminile: per questo non l’hanno chiamata “Maria, madre di Gesù”, o Madonna. No, è Notre-Dame: nostra signora, cioè un titolo generico dato a una divinità femminile.
In Notre-Dame, i Templari vedevano più la Maddalena, che la Madonna. Dante Alighieri, nella sua Divina Commedia – dicono gli esperti – cita la “madonna” diverse decine di volte, ma la verità è che Dante (tranne che in un passo, in cui cita davvero la madre di Gesù) non cita mai Maria di Nazareth: è sempre un’altra figura, mai ben identificata – la Maddalena, o altro: non c’è comunque mai un riferimento esplicito alla Madonna. E Dante era un templare: sappiamo che scrisse la Divina Commedia proprio quando i Templari andavano a processo e temevano di essere distrutti. Per evitare che fosse disperso il patrimonio di conoscenze templari e rosacrociane Dante scrisse quell’opera, che è la sintesi della sapienza templare. Senza mai alludere a Maria, madre di Gesù, i Templari hanno dedicato alla “madonna” tutte le loro chiese. San Bernardo è il vero creatore dei Templari, anche se non quello ufficiale: all’inizio, più della metà dei Templari erano suoi parenti, o conoscenti intimi. Quindi, dietro ai Templari c’erano San Bernardo e il movimento cistercense. San Bernardo era un devoto della “madonna” e diffuse
Continua qui: http://www.libreidee.org/2019/04/nostra-signora-del-templari-sapete-cose-bruciato-a-parigi/
E SE COMINCIASSIMO NOI A SCOMUNICARE LA CHIESA?
INTANTO PARTIAMO DAL TOGLIERLE L’OTTO PER MILLE
Danilo Bonelli 6 04 2019
Da buon argentino appassionato di calcio – ha ammesso di essere tifoso della squadra del San Lorenzo de Almagro – il Papocchio conosce bene quella regola aurea che recita che l’attacco è la miglior difesa che ci sia.
Infatti, la sua squadra – e non mi riferisco certo al San Lorenzo bensì alla Chiesa cattolica – sta vacillando sotto i colpi degli scandali interni.
La dilagante pedofilia, il Vatileaks e le faide per il potere tra le diverse correnti di prelati rischiano di crettare persino la cupola di San Pietro.
E in questo contesto Bergoglio non trova di meglio che attaccare a testa bassa, ritornando sui suoi noiosi cavalli di battaglia.
Ed oggi a Milano in occasione della ricorrenza dei 150 anni dalla fondazione del Collegio arcivescovile San Carlo un Pontefice in versione rockstar ha sfoderato il meglio del suo repertorio:
“Non dobbiamo avere paura dei migranti perché i migranti siamo noi,
Gesù è stato migrante.
E a chi dice che sono delinquenti ricordo che la mafia non l’hanno inventata loro …
la mafia è un valore nazionale, è italiana e non nigeriana.”
Ed ha proseguito dicendo che “il cuore è aperto per accogliere tutti e se qualcuno ha il cuore razzista deve convertirsi.”
Per ora non ha minacciato la scomunica ma sarà solo il passo successivo.
Ma è sull’economia che la performance del pampero ha raggiunto l’apice: “I sistemi economici non sono privi di responsabilità per il fatto che ci sono persone che vivono in povertà. I bambini affamati …. le differenze tra la gente ? Non è Dio a volerlo ma lo fa questo sistema economico ingiusto dove ogni giorno ci sono più ricchi con tanti soldi e tanti poveri senza nulla.”
E poi il populismo è quello degli altri …. ecco qua un intervento da manuale su
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Il super-Stato cinese Han: Il nuovo Terzo Reich
di Gordon G. Chang – 8 aprile 2019
Pezzo in lingua originale inglese: China’s Han Superstate: The New Third Reich Traduzioni di Angelita La Spada
Il leader cinese Xi Jinping chiede di “sinizzare” le cinque religioni riconosciute – il riconoscimento ufficiale è un meccanismo di controllo. I cinesi, come parte di questo impietoso e inesorabile sforzo, stanno distruggendo le moschee e le chiese, costringendo i devoti musulmani a bere alcolici e a mangiare carne suina, inviando i funzionari di etnia Han a vivere nelle case musulmane e ponendo fine all’educazione religiosa dei minori.
- I media cinesi, in questi ultimi anni, hanno moltiplicato la diffusione di stereotipi orribili sugli africani. Lo sketch trasmesso lo scorso anno dalla principale emittente televisiva di Stato – con 800 milioni di telespettatori – non è stato il peggiore, ma ha dato una chiara idea di quello che i funzionari cinesi pensano degli africani, considerandoli tanto esseri inferiori quanto oggetto di scherno.
- Campi di concentramento, razzismo, eugenetica, ambizioni di dominio mondiale. Vi ricordano qualcosa?
- C’è un nuovo Terzo Reich ed è la Cina.
Più di un milione di persone sono internate, senza alcuna ragione se non per la loro appartenenza etnica o religiosa, nei campi di concentramento situati in quella che Pechino definisce la Regione autonoma uigura dello Xinjiang.
Più di un milione di persone sono internate, senza alcuna ragione se non per la loro appartenenza etnica o religiosa, nei campi di concentramento situati in quella che Pechino definisce la Regione autonoma uigura dello Xinjiang, e che gli abitanti tradizionali dell’area, gli uiguri, chiamano Turkestan orientale. Oltre agli uiguri, in queste strutture sono rinchiusi anche i kazaki.
Le famiglie di questa regione martoriata del nord-ovest della Repubblica popolare cinese sono state smembrate. I figli degli uiguri e dei kazaki che sono stati imprigionati vengono “confinati” in “scuole” isolate dal mondo esterno dal filo spinato e sorvegliate da numerose pattuglie di polizia. A questi ragazzi viene negata l’istruzione nella loro lingua, e sono costretti a imparare il cinese mandarino. I controlli fanno parte della cosiddetta politica di “hanificazione”, un programma di assimilazione forzata. “Han” è il nome del gruppo etnico dominante in Cina.
E poiché gli uiguri e i kazaki stanno morendo nei campi di concentramento in numero considerevole, Pechino costruisce forni crematori per sradicare le usanze funebri e smaltire in tal modo i cadaveri.
I campi, un crimine contro l’umanità, si stanno diffondendo. La Cina sta costruendo anche in Tibet, nella parte sudoccidentale del paese, delle strutture simili, alle quali vengono date vari nomi eufemistici come “centri di formazione professionale”.
Inoltre, Pechino reitera il tentativo di eliminare la religione in tutto il paese. I cristiani si trovano maggiormente sotto attacco, proprio come i buddisti. Il leader cinese, Xi Jinping, chiede di “sinizzare” le cinque religioni riconosciute – il riconoscimento ufficiale è un meccanismo di controllo. I cinesi, come parte di questo impietoso e inesorabile sforzo, stanno distruggendo le moschee e le chiese, costringendo i devoti musulmani a bere alcolici e a mangiare carne suina, inviando i funzionari di etnia Han a vivere nelle case musulmane e ponendo fine all’educazione religiosa dei minori.
Questi tentativi, che hanno dei precedenti nella storia cinese, sono stati intensificati da quando Xi è diventato il segretario generale del Partito comunista, nel novembre del 2012.
Al contempo, Xi, molto più dei suoi predecessori, ha promosso il concetto di un ordine mondiale governato da un solo sovrano, quello cinese.
A grandi linee, la visione del mondo nutrita da Xi assomiglia molto a quella del Terzo Reich, almeno prima degli omicidi di massa.
Il Terzo Reich e la Repubblica popolare cinese condividono un razzismo virulento, che in Cina viene simpaticamente definito “sciovinismo Han”. Il gruppo Han, che si dice annoveri circa il 92 per cento della popolazione della Repubblica popolare, è in realtà la fusione di gruppi etnici affini.
La mitologia cinese sostiene che tutti i cinesi discendono dall’Imperatore Giallo, il quale avrebbe regnato nel terzo millennio a.C. . I cinesi si considerano una branca dell’umanità separata dal resto del mondo, una visione rafforzata dall’indottrinamento nelle scuole, tra le varie cose.
Gli studiosi cinesi fondano la loro diversità sulla teoria evoluzionistica de “l’Uomo di Pechino“, secondo la quale i cinesi non condividono un antenato africano comune con il resto dell’umanità. Questa teoria dell’evoluzione separata dei cinesi ha rafforzato, non a caso, le idee razziste.
A causa del razzismo, molti in Cina, inclusi i funzionari, “credono di essere assolutamente diversi dal resto dell’umanità e implicitamente superiori”, scrive Fei-Ling Wang, autore di The China Order: Centralia, World Empire, and the Nature of Chinese Power.
Pertanto, il razzismo è istituzionalizzato e apertamente promosso. Ciò è stato terribilmente evidente lo scorso anno nello sketch di 13 minuti andato in onda durante il Galà della Festa di Primavera, lo spettacolo di varietà più seguito nel paese e trasmesso dall’emittente China Central Television. In “Festeggiamo insieme”, un’attrice cinese con il viso dipinto di nero interpretava il ruolo di una madre keniota, dotata di un seno enorme e di natiche posticce ridicolmente grandi. E peggio ancora, la sua spalla era una persona travestita da scimmia. L’associazione scimmia-donna faceva eco alla mostra allestita al Museo della provincia di Hubei dal titolo “Questa è l’Africa“, in cui nel 2017 furono esposte le foto di africani accanto a immagini di primati.
I media cinesi, in questi ultimi anni, hanno moltiplicato la diffusione di stereotipi orribili sugli africani. Lo sketch trasmesso lo scorso anno dalla principale emittente televisiva di Stato – con 800 milioni di telespettatori – non è stato il peggiore, ma ha dato una chiara idea di quello che i funzionari cinesi pensano degli africani, considerandoli tanto esseri inferiori quanto oggetto di scherno. Stando così le cose, si può desumere che tale visione sia condivisa dalla leadership di Pechino, che, in modo allarmante, lancia con maggiore frequenza appelli razzisti ai cinesi – e non solo a quelli che abitano in Cina.
La razza superiore di questo XXI secolo ha però un problema. La Cina, che oggi è lo Stato più popoloso del mondo, affronta un rapido declino demografico. Il tasso di natalità dello scorso anno è stato il più basso da quando la Repubblica popolare fu fondata nel 1949. Secondo il World Population Prospects 2017, pubblicato dalla Divisione per la popolazione del Dipartimento per gli affari economici e sociali delle Nazioni Unite, la popolazione del paese raggiungerà l’apice nel 2029. Ma questo picco potrebbe essere toccato nei prossimi due anni, poiché le cifre fornite dalle Nazioni Unite si basano sulle previsioni eccessivamente ottimistiche di Pechino. I demografi ufficiali cinesi, ad esempio, lo scorso anno non avevano previsto il crollo del tasso di natalità.
Nel 2024, si verificherà un altro evento epocale. A quel punto, per la prima volta in almeno 300 anni – e forse per la prima volta nella storia documentata – la Cina non sarà la società più popolosa al mondo. Quell’onore andrà a un paese che i cinesi in genere detestano e temono: l’India. E quando raggiungerà il suo picco nel 2061, l’India avrà 398,088 milioni di abitanti in più rispetto alla Cina.
Una volta che la popolazione della Cina inizierà a contrarsi, il processo subirà un’accelerazione. Nel 2018, la popolazione cinese era 4,3 volte maggiore di quella dell’America. Entro il 2100, si prevede che la Cina avrà una popolazione
Continua qui: https://it.gatestoneinstitute.org/14039/cina-nuovo-terzo-reich
ARTE MUSICA TEATRO CINEMA
IL FUTURO? CRONACA DI OGGI – LUIGI MASCHERONI: “ALL’INCROCIO TRA MEDIOEVO ANALOGICO E RINASCIMENTO DIGITALE
“DAGO IN THE SKY” CI NARRA DI VIDEOGIOCHI, ARTE, CASE DI DOMANI, PAURE DI OGGI, IDENTITÀ E IMMAGINI PROIBITE. IN APPARENZA, UNA TRASMISSIONE IMPOSSIBILE. IN REALTÀ, CON LUI IN VIDEO, È FACILE. COME CERCARE UN DAGO NEL PAGLIAIO” – STASERA SU SKY ARTE, 21.15: L’ARTE ITALIANA FU SERVA DEL FASCISMO?
18 APR 2019 20:12
Ha visto cose che voi pensate sia il futuro, e invece è cronaca. Raccontata, pensando a ieri ma parlando al domani, da Roberto D’Agostino, che noi pensiamo sia un giornalista e invece è un aggregatore (intelligente) di notizie. Che non è la stessa cosa.
Con Dagospia, dal 2000, anno di apertura del sito, ha cambiato il mondo dell’informa-zione italiana. Con il programma Dago in the Sky (with dàimon, leggi: tutto ciò che è a metà strada tra il divino e l’umano, il sublime e il trash) ci spiega, in dieci puntate ogni settimana su Sky Arte, come i nuovi media, aggiornando le vecchie regole, stiano cambiano società, politica, cultura.
Cioè: Noi. All’incrocio tra Medioevo analogico e Rinascimento digitale, eccolo qui: tatuaggi, creatività, cinismo e pizzetto, Roberto D’Agostino ci narra di videogiochi, arte, case di domani, paure di oggi, Identità e immagini proibite. In apparenza, una trasmissione impossibile. In realtà, con lui in video, è facile. Come cercare un Dago nel pagliaio.
LA PUNTATA DI STASERA SU SKY ARTE, 21.15: IL REGIME DELL’ARTE
L’arte italiana fu serva del fascismo? In contrasto con un regime ostile alla democrazia e alle libertà individuali, e nei suoi ultimi anni violentemente antisemita, come mai le migliori menti del tempo hanno realizzato opere eccezionali? Basta pensare alle bellissime architetture di Terragni e Libera e Piacentini, alle tele di Sironi e Balla, De Chirico e Guttuso, Boccioni e Savinio, Carrà e Casorati; alle sculture di Arturo Martini e Adolfo Wildt. Agli artisti il fascismo non faceva male? Ci credevano? Fu puro opportunismo?
Tra un Depero nel suo studio e un Goebbels che ride di fronte alla scultura di
Continua qui: https://www.dagospia.com/rubrica-2/media_e_tv/futuro-cronaca-oggi-luigi-mascheroni-ldquo-all-39-incrocio-201433.htm
ATTUALITÀ SOCIETÀ COSTUME
Le chiese europee: Vandalizzate, defecate e incendiate “ogni giorno”
di Raymond Ibrahim – 15 aprile 2019
Pezzo in lingua originale inglese: European Churches: Vandalized, Defecated On, and Torched “Every Day”
Traduzioni di Angelita La Spada
In Germania, quattro chiese sono state vandalizzate e/o incendiate solo a marzo. “In questo paese”, è in corso una guerra strisciante contro tutto ciò che simboleggia il Cristianesimo: attacchi ai danni delle croci poste in cima alle montagne, delle statue sacre per strada, delle chiese (…) e di recente anche dei cimiteri”. – PI-News, un sito di informazione tedesco.
- In quasi tutti gli episodi di attacchi ai danni delle chiese, le autorità e i media nascondono l’identità dei vandali. In quei rari casi in cui l’identità musulmana (o “migrante”) degli iconoclasti è trapelata, questi profanatori vengono poi presentati come delle persone che soffrono di problemi di salute mentale.
- “Quasi nessuno scrive e parla dei crescenti attacchi contro i simboli cristiani. In Francia e in Germania c’è un eloquente silenzio riguardo allo scandalo delle profanazioni e sull’origine dei perpetratori. (…) Non una parola, nemmeno il minimo indizio che potrebbe in qualche modo indurre a sospettare dei migranti. (…) Non sono i criminali che corrono il rischio di essere messi al bando, ma coloro che osano associare la profanazione dei simboli cristiani all’importazione degli immigrati. Vengono accusati di odio, di discorsi di incitamento all’odio e di razzismo.” – PI-News, 24 marzo 2019.
A febbraio, vandali hanno profanato e distrutto croci e statue nella Cattedrale di Saint-Alain, a Lavour, in Francia. Le braccia di una statua di Cristo in croce sono state mutilate in modo beffardo. Inoltre, una tovaglia d’altare è stata bruciata.
Innumerevoli chiese in tutta l’Europa occidentale sono state vandalizzate, defecate e incendiate.
In Francia, due chiese vengono profanate, in media, ogni giorno. Secondo PI-News, un sito di informazione tedesco, nel 2018, in Francia, sono stati registrati 1.063 attacchi ai danni delle chiese o dei simboli cristiani (crocifissi, icone, statue). Questa cifra attesta un aumento del 17 per cento rispetto all’anno precedente (2017), quando furono registrati 878 attacchi, il che significa che il fenomeno è sempre più preoccupante.
A febbraio e a marzo, in Francia sono state perpetrate le seguenti profanazioni:
- Vandali hanno saccheggiato la chiesa di Notre-Dame des Enfants, a Nîmes, e hanno usato degli escrementi umani per disegnare una croce su un muro; delle ostie consacrate sono state ritrovate all’esterno della chiesa, in un bidone della spazzatura.
- A febbraio, la chiesa di Saint-Nicolas, a Houilles, è stata vandalizzata per ben tre volte; una statua del XIX secolo della Vergine Maria, il cui danno è considerato “irreparabile“, è stata “letteralmente polverizzata“, secondo un sacerdote; e una croce appesa a un muro è stata gettata sul pavimento.
- Vandali hanno profanato e distrutto croci e statue nella Cattedrale di Saint-Alain, a Lavour, e hanno mutilato in modo beffardo le braccia di una statua di Cristo in croce. Inoltre, una tovaglia d’altare è stata bruciata.
- Piromani hanno incendiato la chiesa di Saint-Sulpice, a Parigi, dopo la messa di mezzogiorno, domenica 17 marzo.
Episodi simili hanno luogo anche in Germania. Quattro chiese sono state vandalizzate e/o incendiate solo a marzo. “In questo paese”, ha spiegato PI-News , “è in corso una guerra strisciante contro tutto ciò che simboleggia il Cristianesimo: attacchi ai danni delle croci poste in cima alle montagne, delle statue sacre per strada, delle chiese (…) e di recente anche dei cimiteri”.
Ma a chi va attribuita la responsabilità di questi attacchi continui e sempre più numerosi contro le chiese europee? Lo stesso sito di informazione tedesco fornisce un indizio: “Le croci vengono spezzate, gli altari distrutti, le Bibbie incendiate, le fonti battesimali rovesciate e le porte delle chiese imbrattate con espressioni islamiche del tipo ‘Allahu Akbar'”.
L’11 novembre 2017, un altro sito di notizie tedesco ha rilevato che solo nelle Alpi e in Baviera sono state attaccate circa 200 chiese e molte croci sono state spezzate: “La polizia è sommersa di segnalazioni di profanazioni di chiese. I perpetratori sono spesso giovani rivoltosi con un background migratorio”. Sono anche descritti come “giovani islamisti“.
Talvolta, purtroppo, nelle regioni europee con la presenza più consistente di musulmani, sembra esserci un aumento concomitante di attacchi contro le chiese e i simboli cristiani. Prima del Natale 2016, nella regione tedesca del Nord Reno-Westfalia, dove risiedono più di un milione di musulmani, una cinquantina di statue cristiane (tra cui quelle di Gesù) sono state decapitate e i crocifissi sono stati frantumati.
Nel 2016, poco dopo l’arrivo in Germania di un milione di migranti, per lo più musulmani, un quotidiano locale riportò che a Dülmen, una città con meno di 50 mila abitanti, “non passa giorno senza che le statue religiose
Continua qui: https://it.gatestoneinstitute.org/14086/chiese-europa-vandalizzate-incendiate
Quel grande affare chiamato “utero in affitto”
18.04.2019 – Tatiana Santi
Secondo le leggi italiane l’utero in affitto è vietato, ma molte coppie ricorrono a tale pratica all’estero per poi rientrare in patria e registrare i bambini ottenuti dalla madre surrogata. Se il tema divide la politica, una cosa è certa: dietro la maternità surrogata si cela un importante business.
Riconoscere la madre “intenzionale”, attraverso l’adozione, e non quella biologica nei casi di utero in affitto, questa è l’opinione espressa dalla Corte europea dei diritti umani di Strasburgo. Da un punto di vista legale la pratica è vietata in Italia, ma sono tanti i sindaci che registrano i bambini nati attraverso la gestazione per conto “terzi”, anche nel caso di coppie omosessuali.
Il senatore leghista Pillon ha proposto il disegno di legge contro “il turismo riproduttivo” che prevede la reclusione da 3 a 6 anni e una multa da 800 mila euro per chiunque pubblicizzi o organizzi la surrogazione di maternità. I partiti e le associazioni che difendono l’utero in affitto dipingono il tutto con un bel “love is love”, ma i bambini non sono mai al centro del dibattito. Che cosa penserà delle proprie origini il bimbo nato con tale pratica una volta cresciuto? Non viene menzionato lo sfruttamento delle donne, spesso spinte ad usare il proprio corpo per necessità economiche. Portare in grembo un bambino per altri infatti ha un costo e molto elevato, si tratta di un vero e proprio business.
Il tema della famiglia, come si è visto al Congresso Mondiale delle famiglie tenutosi a Verona, divide anche il Movimento 5 stelle e la Lega. Sputnik Italia ha raggiunto per un’intervista Jacopo Coghe, portavoce di Provita&Famiglia, vicepresidente del Congresso Mondiale delle Famiglie di Verona.
— Jacopo, che cosa ne pensi del ddl Pillon contro il “turismo riproduttivo”? A che punta si trova la proposta di legge?
— Penso che questo ddl possa essere una buona soluzione per fermare la pratica illegittima dei tribunali delle trascrizioni di figli ottenuti all’estero da coppie dello stesso sesso. Il ddl Pillon dovrebbe bloccare questa pratica fuori legge, non si capisce perché i tribunali continuino a permetterla. Inoltre, il ddl dovrebbe essere più in generale un pratico contrasto alla pratica dell’utero in affitto, che prevede lo sfruttamento di una donna.
È inutile dipingerla da “pratica solidale”, è una vera e propria pratica commerciale che prevede l’affitto di un utero, al termine della gestazione la donna viene pagata e il bimbo viene acquistato da una coppia, eterosessuale o omosessuale, poco cambia. Il ddl è stato solamente presentato, deve essere calendarizzata una sua eventuale discussione nelle varie commissioni prima di poter arrivare in aula.
— Quindi oggi quando i comuni italiani registrano i bambini ottenuti all’estero con l’utero in affitto viene aggirata la legge?
— Sì, è vergognoso che alcuni giudici ideologizzati al di là del violare la legge privino il bambino di una mamma e un papà. Violando la norma si impedisce al bambino di conoscere le sue vere origini. Inoltre, si permette alle donne di essere delle schiave, di essere delle merci. Si sta creando ora un movimento in Italia, così come è successo in Francia, di femministe le quali pensano che il corpo della donna non possa essere sfruttato per fini economici, come per la prostituzione. Si sta muovendo questo importante blocco del movimento femminista per contrastare la pratica orrenda dell’utero in affitto.
— Ha fatto parlare di sé la notizia della donna americana che ha partorito per suo figlio gay una bambina utilizzando lo sperma del compagno del figlio e l’ovulo della figlia. Qualora non si scrivessero leggi chiare in materia anche in Italia potranno esserci storie simili?
— Io penso di sì, perché questa pratica potrebbe essere compiuta all’estero e poi si chiederebbe il riconoscimento di questi bimbi in Italia. Siamo arrivati però quasi ad un film di fantascienza. Al Congresso Mondiale delle famiglie di Verona, di cui io sono stato il vicepresidente, abbiamo sollevato queste tematiche e ci hanno attaccati dicendo che eravamo medievali. Io dico che se è questo il progresso, io allora preferisco il Medioevo. Preferisco che i bambini abbiano una mamma e un papà.
Immaginiamoci questo bambino quando un giorno crescerà: dovrà capire che la mamma in realtà è la nonna, la zia è la vera mamma perché ha donato l’ovulo…queste persone non pensano che i bambini un giorno avranno dei problemi nel capire qual è la loro identità? Si gioca con le vite dei bambini e questo è molto pericoloso.
— Perché oggi in Italia è così difficile difendere la famiglia fondata da un padre e una madre, ma anche solo parlarne?
— Oggi viviamo nel relativismo che si può applicare in campo sociale, etico e politico. Il faro che guida le scelte delle persone è il desiderio, se io desidero una cosa la posso avere ed è giusto. Se io desidero un bambino lo posso avere, non ci sono più limiti, la libertà personale diventa intoccabile, ma a volte questa libertà non rispetta quella degli altri e non rispetta i diritti dei più deboli.
Quando il movimento LGBT si pregia dello slogan “Love is love”, intende che tutto è amore e tutto è permesso. Se tutto è famiglia, in altre parole, nulla è famiglia. Se si va a disgregare la cellula fondamentale della società, che è il matrimonio, si va a distruggere anche la società stessa. La famiglia composta da mamma e papà sa dare la giusta equazione e può far crescere correttamente i propri bimbi. Il relativismo uccide la società, noi siamo andati a toccare la ferita di questa società malata e il corpo si
Continua qui: https://it.sputniknews.com/opinioni/201904187538122-quel-grande-business-chiamato-utero-in-affitto/
CONFLITTI GEOPOLITICI
Francesi In Libia
Lisa Stanton 5 04 2019
La Francia, forte del suo spirito colonialista e delle sue armi nucleari, dà scacco ai suoi partner europei e con un colpo di mano è sul punto di prendere il controllo dell’intera Libia dando via libera all’azione militare di Haftar contro Tripoli.
L’azione, gravissima, cerca di essere sventata dalla presa di posizione di USA e UK, la quale ha chiesto la convocazione urgente del consiglio di sicurezza ONU.
L’Italia avrebbe dovuto schierare il proprio esercito a favore dei fratelli libici ma ha appena fatto sentire la sua voce con una nota del presidente del consiglio Conte che chiede “una soluzione politica per la crisi”.
Intanto le forze di Haftar avanzano verso la costa libica ad ovest di Tripoli nel tentativo di isolarla dal confine occidentale e si trovano nei pressi dell’aeroporto della Capitale, dalla quale sono già fuggiti i ministri.
Ora il governo gialloverde può provare a chiedere aiuto ai cinesi per tutelare i nostri interessi
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Qatar: “Un lupo travestito da agnello”
Il finanziamento dell’islamismo in Europa
di Giulio Meotti – 12 aprile 2019
Pezzo in lingua originale inglese: Qatar: ‘A Wolf in Sheep’s Clothing’ Traduzioni di Angelita La Spada
“Sono anni che segnaliamo la penetrazione ideologica e religiosa di Doha. Sotto forma di investimenti e operazioni finanziarie, il Qatar estende ogni giorno la propria rete di proselitismo, con gravi danni per le società europee (…)”. – Souad Sbai, originaria del Marocco, presidente del Centro Studi Averroè, in Italia.
- Il Qatar ha finanziato mega-moschee in Europa. L’obiettivo del Qatar è quello di islamizzare la diaspora europea.
- “Le sue stazioni in lingua inglese producono una viscida propaganda contro i nemici del Qatar, mascherata da retorica liberale occidentale. L’ultima iniziativa di Al-Jazeera – il suo canale digitale AJ+ – è rivolto ai giovani americani progressisti. I suoi documentari sui mali di Israele, dell’Arabia Saudita e dell’amministrazione Trump sono inseriti tra brillanti servizi delle campagne sui diritti dei transgender e i toccanti appelli per il dramma dei richiedenti asilo sul confine meridionale degli Stati Uniti – argomenti apparentemente incoerenti per un’emittente controllata da un regime wahhabita. (…) Il Qatar è ora il più grande donatore straniero alle università americane.” – Daniel Pipes, presidente del Middle East Forum.
Secondo Souad Sbai (nella foto a sinistra), presidente del Centro Studi Averroè, in Italia, “il Qatar estende ogni giorno la propria rete di proselitismo, con gravi danni per le società europee, Italia inclusa”. Daniel Pipes (nella foto a destra) scrive che il Qatar “lavora anche per influenzare direttamente l’opinione pubblica e i responsabili politici occidentali. (…) Le sue stazioni in lingua inglese producono una viscida propaganda contro i nemici del Qatar, mascherata da retorica liberale occidentale. (…) Il Qatar è ora il più grande donatore straniero alle università americane”.
A ottobre, il ministro dell’Interno italiano Matteo Salvini si è recato in Qatar, il “colosso energetico“, dove ha elogiato l’emirato per “non sponsorizzare più l’estremismo“. Purtroppo, è vero il contrario. Il Qatar, “l’altro Stato wahhabita“, a quanto pare, è interessato non solo alle relazioni economiche con l’Europa, ma anche a esportare il suo brand di Islam politico.
Secondo un nuovo libro intitolato Qatar Papers: How the Emirate Finances Islam in France and Europe, scritto da due giornalisti francesi, Christian Chesnot e Georges Malbrunot, il Qatar ha distribuito 22 milioni di euro ai progetti islamici soltanto in Italia. Questo finanziamento ha avuto di fatto un unico beneficiario: l’Unione delle Comunità e Organizzazioni Islamiche in Italia (UCOII), accusata di essere vicina all’organizzazione preferita dal Qatar, quella dei Fratelli Musulmani, il cui portavoce è l’emittente televisiva del Qatar Al-Jazeera, con sede a Doha, la capitale dell’emirato.
“Il Qatar è oggi uno dei principali finanziatori dell’Islam in Europa”, ha dichiaratoMalbrunot in un’intervista. Il suo libro, un importante reportage sulla penetrazione islamista in Europa, osserva che il Qatar ha finanziato 140 progetti di moschee e di centri islamici in Europa per la bellezza di 71 milioni di euro. Il paese con il maggior numero di progetti (50) è l’Italia, dove il centro al-Houda di Roma ha ricevuto 4 milioni di euro.
Un nipote del fondatore dei Fratelli Musulmani Hasan al-Banna, Tariq Ramadan, che diverse donne hanno accusato di stupro e di abusi sessuali, ha ricevuto dal Qatar 35 mila euro al mese per essere un “consulente”. Il Complesso culturale musulmano di Losanna, in Svizzera, ha ricevuto 1,6 milioni di dollari. Il Qatar, nel 2015, ha donato al St Antony’s College di Oxford, dove insegna Ramadan, un nuovo edificio da 11 milioni di sterline.
Il Qatar è stato anche molto attivo in Francia. L’emirato, secondo il libro, ha finanziato il Centro islamico di Villeneuve-d’Ascq e il Lycée-Collège Averroès, la prima scuola privata musulmana ad essere finanziata dallo Stato francese. Il Lycée-Collège Averroès è stato al centro di uno scandalo quando uno dei suoi insegnanti rassegnò le dimissioni dopo aver scritto che la scuola “era un focolaio di antisemitismo e ‘promuoveva l’islamismo’ agli alunni”.
Il Qatar ha inoltre finanziato altre moschee in Francia. La Grande Moschea di Poitiers, ad esempio, si trova nelle vicinanze del sito della battaglia di Tours (nota anche come battaglia di Poitiers), quella con cui il capo dei Franchi Carlo Martello fermò l’avanzata dell’esercito musulmano guidato da Abdul al-Rahman, nel 732. La moschea Assalam a Nantes e la Grande Moschea di Parigi sono altri esempi.
Nel loro precedente libro, Nos très chers émirs, Chesnot e Malbrunot avevano denunciato lo stretto rapporto esistente tra l’establishment politico francese e la monarchia qatariota. Tra i beneficiari del Qatar figurava l’Institut Européen de Sciences Humaines – una struttura islamica vicina al ramo francese dei Fratelli Musulmani – che offre corsi di teologia islamica.
Tra gli islamisti descritti nel libro c’è il leader religioso residente a Doha, Yusuf al-Qaradawi, che ha giustificato gli attentati suicidi nella seconda Intifada; ha emesso una fatwa che autorizzava l’uccisione di americani in Iraq e ha incoraggiato i musulmani a recarsi all’estero a combattere nelle guerre civili in Siria e in Libia. Qaradawi ha inoltre invocato la “conquista di Roma” e nel 2013 ha annunciato alla televisione egiziana che senza la morte come punizione per aver abbandonato la religione (apostasia), “l’Islam non esisterebbe oggi”.
“Sono anni che segnaliamo la penetrazione ideologica e religiosa di Doha”, ha dichiarato Souad Sbai, originaria del Marocco, presidente del Centro Studi Averroè, in Italia. “Sotto forma di investimenti e operazioni finanziarie, il Qatar estende ogni giorno la propria rete di proselitismo, con gravi danni per le società europee, Italia inclusa.” Nel quotidiano L’Opinione delle Libertà la Sbai ha definitoil Qatar “un lupo travestito da agnello“.
Elzir Izzedin, l’imam di Firenze e presidente dell’UCOII, ha ammesso tre anni fache “dal Qatar sono arrivati 25 milioni di euro”.
C’era inoltre il Qatar dietro il progetto di creare un’università islamica per 5 mila studenti, in una piccola città meridionale come Lecce.
Anche due anni fa, con un investimento di oltre 2,3 milioni di euro, il Qatar stava portando avanti importanti progetti islamici in Sicilia, dove l’emirato pare sostenga circa un quarto delle moschee.
Secondo il presidente del Middle East Forum, Daniel Pipes, “Doha non si affida soltanto alla diaspora islamista in Occidente per promuovere la sua agenda; lavora anche per influenzare direttamente l’opinione pubblica e i responsabili politici occidentali”:
“Le sue stazioni in lingua inglese producono una viscida propaganda contro i nemici del Qatar, mascherata da retorica liberale occidentale. L’ultima iniziativa di Al-Jazeera – il suo canale digitale AJ+ – è rivolto ai giovani americani progressisti. I suoi documentari sui mali di Israele, dell’Arabia Saudita e dell’amministrazione Trump sono inseriti tra brillanti servizi delle campagne sui diritti dei transgender e i toccanti appelli per il dramma dei richiedenti asilo sul confine meridionale degli Stati Uniti – argomenti apparentemente incoerenti per un’emittente controllata da un regime wahhabita”.
“Doha cerca anche di influenzare le istituzioni educative occidentali. La Qatar Foundation controllata dal regime elargisce decine di migliaia di dollari a scuole, college e ad altri istituti d’istruzione in Europa e nel Nord America. In effetti, il Qatar è ora il più grande donatore straniero alle università americane. I suoi finanziamenti sovvenzionano i costi per l’insegnamento della lingua araba e delle lezioni sulla cultura mediorientale e la loro inclinazione ideologica è talvolta sfacciatamente evidente, come nel modulo didattico delle scuole americane intitolato ‘Esprimi la tua fedeltà al Qatar'”.
Il più grande quotidiano italiano, Il Corriere della Sera, ha descritto l’attivismo qatariota nel paese come segue:
“Il 24 maggio scorso il principe sceicco Hamad Bin Nasser Al Thani, membro della famiglia reale del Qatar era a Piacenza, dove a fianco delle principali autorità cittadine ha inaugurato il nuovo centro islamico; lo stesso giorno si è spostato a Brescia, per tagliare il nastro dell’ampliamento della locale moschea. ora dotata di ampio parcheggio. Tempo due giorni ed ecco ricomparire un sorridente principe Al Thani a Mirandola, in provincia di Modena: anche qui inaugurazione del nuovo centro di preghiera dei musulmani, danneggiato dal terremoto del 2012 e rimesso in piedi come nuovo, al contrario della chiesa parrocchiale locale. Il 28 maggio lo sceicco viene immortalato invece a Vicenza, sempre per l’apertura di un centro islamico. Si salta poi al 5 giugno, quando persino il sito di notizie in lingua inglese del Golfo The Peninsula dedica un articolo allo sceicco e all’ennesimo taglio del nastro, stavolta di un complesso per la preghiera e per una scuola coranica a Saronno (Varese), addirittura affiancato dal vicario episcopale del luogo”.
Un analista dell’Instituto Español de Estudios Estratégicos del Ministero della Difesa
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CULTURA
di DARIO GENTILI
Perché la crisi è diventata il principale metodo di governo e disciplinamento della popolazione? Per capirlo – sostiene Dario Gentili nel suo ultimo libro, Crisi come arte di governo (Quodlibet, 2018) – bisogna fare una genealogia della stessa krisis, risalendo al momento in cui, nella Grecia antica, si sono consolidati i suoi significati più propri. Del libro pubblichiamo, per gentile concessione dell’autore e dell’editore, che ringraziamo, l’introduzione.
C’è un nesso tra il discorso dominante della crisi economica che dal 2008 sta colonizzando le politiche della gran parte dei Paesi del mondo e i Like/Dislike con cui, attraverso i social media, i cittadini globali si esprimono sugli argomenti più svariati e negli ambiti più disparati? A prima vista tale nesso può sembrare azzardato: come può una crisi economica che determina un discorso che vincola gli Stati a scelte obbligate trovare un corrispettivo nella più ampia diffusione e nella più radicale individualizzazione dell’esercizio della critica? Eppure, a ben vedere, le scelte obbligate dalla mancanza di un’alternativa che la crisi impone e la riduzione della critica all’approvazione o meno di un’alternativa prestabilita presuppongono la medesima modalità di giudizio: il giudizio pro o contro.
Infatti, il giudizio pro o contro – tra due opzioni tra loro opposte, che pone la scelta tra due alternative in contrapposizione – passa oggi per essere la modalità di giudizio per antonomasia. Ciò è riscontrabile tanto nelle questioni di portata pubblica quanto in quelle che concernono la condotta dei singoli individui. In generale, esso rappresenta il modello a cui ogni procedimento decisionale deve, in ultima istanza, essere riducibile, affinché si possa infine giungere a una decisione finale e risolutrice – sulla vita della società e sulla propria vita individuale. E tuttavia, sebbene in netta contrapposizione, le alternative che questa crisi e questa società costantemente pongono sembra non abbiano nulla di davvero risolutivo: uscire dalla crisi o imprimere una svolta alla propria personale condizione sociale ed esistenziale. Sembra pertanto che il giudizio pro o contro, per quanto mai come oggi si eserciti così frequentemente e diffusamente, non produca alcuna decisione effettiva – è questo, almeno in prima battuta, il nesso tra la crisi economica e lo statuto della critica al tempo dei social media.
È possibile misurare l’entità di tale cambiamento nel momento in cui si considera la modalità di giudizio pro o contro nel suo uso politico. È la modernità ad averne inaugurato l’uso politico e ad averlo configurato in quanto giudizio finale. Il giudizio finale assume la sua connotazione politica nei momenti di crisi, quando il potere politico non è in grado di conservare l’ordine e una decisione risolutrice interviene in ultima istanza o – in chiave conservatrice – per ristabilire l’ordine o – in chiave rivoluzionaria – per rovesciarlo. Pertanto, deve configurarsi uno stato d’eccezione o d’emergenza perché ci siano le condizioni per un giudizio finale e risolutore; è infatti soltanto nella crisi che tale giudizio diventa “politico”, cioè soltanto quando il governo politico in carica non è più in grado di per sé di conservare il potere. È questa configurazione prettamente moderna del “giudizio politico” in quanto decisione finale e risolutrice ancora adatta a descrivere e comprendere la modalità di giudizio politico che oggi caratterizza le democrazie occidentali e non solo?
Sembra in effetti che mai come oggi, in epoca neoliberale, il giudizio pro o contro domini – oltre che la società e i suoi media – anche la scena politica. Basti pensare, ovunque nel mondo, al ricorso sempre più frequente all’istituto del referendum – addirittura triplicato rispetto a quanto si registrava prima della caduta del muro di Berlino – per chiamare la popolazione a esprimersi su questioni politiche di estrema importanza. Solo per fare gli esempi più noti: il referendum in Grecia nell’estate del 2015 o quello sulla Brexit nell’estate 2016. A prescindere dalla differenza nel quesito e dall’esito che si è prodotto, in entrambi i casi il referendum è stato definito come lo strumento di espressione più alta della politica democratica. Ma è di fatto così? O piuttosto il referendum è uno degli strumenti a cui chi governa, la classe dirigente, ricorre per legittimare, per accreditare, per avallare le proprie decisioni? Comunque sia articolato, il quesito referendario non indica forse molto chiaramente qual è l’opzione “di governo”? Bisogna però fare molta attenzione – il caso della Brexit la richiede – a non far dipendere la funzione del referendum dal suo esito, come se la decisione da prendere fosse davvero tra la conservazione e la rivoluzione. In fin dei conti, anche laddove non è promosso dal governo in carica ma dai movimenti sociali e politici che ne contrastano le politiche, il referendum rientra pur sempre nell’arte di governo e, qualsiasi sia il suo esito, questo comporta tutt’al più un cambiamento all’interno delle logiche di governo. La vera questione è piuttosto qual è e da quale ordine procede l’arte di governo che configura la modalità di decisione del referendum (e di altri strumenti simili) in quanto giudizio politico per eccellenza. Tanto è vero che sempre più frequentemente le stesse elezioni politiche assumono il senso di un giudizio pro o contro questo o quel candidato premier – quando non è orientato al “meno peggio”, sempre più spesso il voto si esprime alla stregua di un “mi piace” sui social. In fondo, a ben vedere, a livello invece di procedure parlamentari, in una logica simile rientra anche il sempre più frequente governare per decreti o attraverso voti di fiducia, in quanto, sebbene non chiami in causa direttamente la popolazione, si avvale di una modalità decisionale che, facendo appello a procedure d’urgenza o eccezionali, non rispetta il normale iter di discussione parlamentare e consiste in sostanza nell’“approvazione” o meno dello stesso governo in carica.
Un altro fenomeno – anche questo apparentemente collocabile su una scala molto diversa – è riconducibile all’affermarsi in politica del giudizio pro o contro: non soltanto il ricorso allo strumento referendario si è moltiplicato dopo il 1989, ma dopo la caduta del muro di Berlino si è anche considerevolmente incrementato il ricorso alla costruzione di “muri politici” ovunque nel mondo – se ne riscontrano infatti più di una trentina senza contare quelli in via di progettazione. Questi muri materializzano la necessità di un giudizio pro o contro, definendo un’alternativa mai così rigida tra estremi: dentro o fuori. Anche in questo caso, per coloro che si trovano dalla parte sbagliata del muro, la scelta che si impone si presenta spesso come obbligata, tra la vita e la morte.
Intenzione di questo libro è mostrare come un’arte di governo che si avvale di tali strumenti non corrisponde a quella che ha caratterizzato la modernità e, di conseguenza, come la stessa funzione del giudizio pro o contro ne risulti profondamente modificata. Rispetto alla modernità è infatti il contesto di crisi da cui tale modalità di giudizio procede a essere profondamente cambiato. Se nella modernità era la politica a configurare la crisi, che pertanto definiva il momento della decisione risolutrice, il momento in cui dalla decisione dipendeva l’esito conservatore o rivoluzionario di una data congiuntura storico-politica, oggi invece la crisi ha assunto una definizione sostanzialmente economica: è la crisi economica che orienta e configura le decisioni politiche. La stessa espressione “c’è la crisi, non ci sono alternative”, con cui i governi di mezzo mondo giustificano e legittimano le decisioni politiche ed economiche più impopolari, non è riducibile esclusivamente a una strategia retorica, bensì determina una ben precisa arte di governo. Interpretazioni della crisi economica in quanto “infinita” o “stagnazione secolare”, che, senza soluzione di continuità, la fanno risalire almeno agli anni Settanta (periodo in cui, non a caso, le ricette economiche neoliberali hanno cominciato a caratterizzare le politiche di alcuni Paesi), rientrano a pieno titolo nella definizione della crisi come arte di governo. Pertanto, la crisi come arte di governo è la definizione “politica” della crisi economica in epoca neoliberale.
La crisi economica di matrice neoliberale non produce di fatto alcuno “stato di eccezione”, ma – come sosteneva già nel 1940 Walter Benjamin – ha fatto dell’eccezione la regola. Il contributo peculiare che l’arte di governo neoliberale ha fornito a tale configurazione della crisi consiste proprio nel modello di giudizio politico che produce. Infatti, nonostante conservi la forma del giudizio pro o contro, non ne risulta come nella modernità una decisione risolutrice o finale, che – per uscire dalla crisi – intervenga a ristabilire o a rovesciare l’ordine. Si tratta piuttosto di un giudizio funzionale alla conservazione dell’ordine stesso o, per meglio dire, alla sua amministrazione. Insomma, con le scelte obbligate che la crisi induce – dall’interno dell’ordine dato – si governa. È quindi un giudizio senza decisione finale quello che la crisi neoliberale configura e utilizza con funzione di governo.
Eppure, sebbene assuma tratti tipicamente neoliberali e sembri anzi nascere con l’affermarsi del neoliberalismo, la crisi come arte di governo affonda le sue radici in tempi antichi, che solo un procedimento genealogico può rinvenire. Ne risulterà che, se la crisi neoliberale si pone in discontinuità rispetto alla configurazione moderna della crisi, d’altro canto risulta in piena continuità con la sua matrice e il suo uso premoderni. Questa ricostruzione genealogica inscrive dunque la crisi neoliberale nella narrazione di lungo periodo del dispositivo della crisi, al cui interno quella che emerge come la sua “differenza moderna” finisce per corrispondere a una breve parentesi.
Il nesso tra crisi e giudizio pro o contro trova nell’antica Grecia il suo fondamento. Anzi, per di più, a quel tempo la crisi non rappresentava semplicemente l’occasione esemplare in cui si esprime il giudizio pro o contro, bensì il giudizio pro o contro era la crisi. La parola krisis e il verbo corrispondente krinein indicano infatti un giudizio tra due elementi tra loro separati e distinti. Eppure – ed è qui il discrimine essenziale rispetto alla modernità – il giudizio della krisis non si pronuncia tra due opzioni, che solitamente sono l’una l’estremo opposto dell’altra, parimenti percorribili. Piuttosto, la krisis si inscrive all’interno di un ordine prestabilito, che presuppone: anche se posta tra due estremi, la decisione che induce la krisis è
obbligata ed è sempre orientata alla conservazione dell’ordine dato che la legittima. Tale modalità di giudizio della krisis è già chiaramente utilizzata da Parmenide, ma è con Platone che essa trova la sua collocazione propria all’interno dell’ordine politico della polis. In Platone, infatti, il giudizio della krisis rientra tra le prerogative di chi governa e nello specifico è affidata ai giudici, il compito dei quali è amministrare l’ordine. Platone tuttavia delimita l’uso della krisis all’amministrazione giudiziaria della città, distinguendone con fermezza la modalità di giudizio rispetto alla decisione politica più propria: quella decisione politica che stabilisce l’ordine della polis, ne organizza la vita politica e comanda in pace e in guerra. Questa decisione politica è appannaggio dell’assemblea. In Platone, e altrettanto in Aristotele, il giudizio della krisis è dunque al servizio della decisione politica, così come l’amministrazione giudiziaria della città non è da confondere con il potere politico, a cui deve essere sottoposta.
Nell’antica Grecia, oltre a definire il giudizio forense, il termine krisis ricorre nel lessico medico, sia in Ippocrate che successivamente in Galeno. Anche in questo caso, la krisisdefinisce una condizione in cui il giudizio si pone tra due estremi: la vita e la morte. La crisi corrisponde perciò al momento in cui, nel decorso di una malattia, il corpo è all’apice della lotta tra la vita e la morte. Eppure, almeno in Ippocrate, la krisis non comporta una decisione effettiva del medico; piuttosto essa definisce il momento in cui il corpo reagisce alla malattia e prevale la tendenza della natura all’autoconservazione. Dunque, anche nel caso della medicina antica, non si ha a che fare con una decisione risolutrice; più che decidere sulla vita o la morte introduzione del paziente, il medico è tenuto a diagnosticare una guarigione che però è la natura stessa a determinare. La morte, pertanto, sopraggiunge in assenza di crisi.
La krisis è dunque espressione dell’autoconservazione dell’ordine naturale e corporeo. Come il giudizio forense, anche il giudizio medico rientra nell’ambito dell’amministrazione, stavolta dell’amministrazione della salute della popolazione. Sebbene il medico debba limitarsi alla diagnosi dell’esito della malattia, egli può tuttavia, in base all’esperienza acquisita, prognosticare a quali condizioni una determinata malattia si verifica e quindi intervenire per amministrare le condotte della popolazione. Ma di nuovo, anche in questo caso, l’amministrazione sanitaria deve essere al servizio del potere politico.
Insomma, allora come oggi, sono i “tecnici” – nell’antica Grecia i giudici e i medici – a essere incaricati di amministrare la crisi. La differenza fondamentale consiste nella connotazione “politica” che tale giudizio “tecnico” oggi assume, nel momento in cui la crisi politica diventa questione di amministrazione e l’amministrazione diventa l’arte di governo per antonomasia.
L’accezione “tecnica” che il termine crisi aveva nell’antichità ne ha caratterizzato il significato fin nel pieno della modernità. Infatti, fino alla metà del XVIII secolo, nelle enciclopedie e nei dizionari delle principali lingue europee, “crisi” compare esclusivamente nella sua accezione medica. Ed è in analogia con tale accezione medica che comincia a entrare nel lessico economico. È invece soltanto alla vigilia della Rivoluzione francese che il senso medico di crisi entra anche nel discorso politico. Ciò accade nel momento in cui il giudizio pro o contro – divenuto prerogativa della critica illuminista – si configura come giudizio sulla salute o la malattia del potere politico costituito.
Seppure con una certa cautela, Jean-Jacques Rousseau associa il decorso della crisi medica all’idea di rivoluzione che la modernità stava prefigurando: l’ordine dato non corrisponde più allo stato di salute che la crisi deve conservare, ma il corpo politico è malato – questo è il giudizio della critica illuminista – e la rivoluzione potrebbe rigenerarlo. La Rivoluzione francese è la prova storica che una crisi politica può generare un nuovo ordine. È in tale congiuntura che la crisi diventa politica e chiama a una decisione risolutrice, che condanna a morte il vecchio ordine e ne afferma uno nuovo.
Karl Marx eredita e radicalizza la Rivoluzione francese e la critica illuminista divenuta a tutti gli effetti politica. Marx prova inoltre a introdurre la carica rivoluzionaria della crisi e della decisione politica all’interno del discorso economico. Se nel Manifesto egli considera le crisi economiche del sistema capitalistico un modo in cui questo si conserva e si rinvigorisce, nei Grundrisse cerca invece di utilizzare il dispositivo medico della crisi economica in chiave rivoluzionaria: le crisi sono sintomo della malattia mortale del sistema capitalistico e soltanto la rivoluzione politica e il proletariato che deve promuoverla possono generare un nuovo ordine, una nuova vita. La crisi dell’economia capitalistica non è più volta all’autoconservazione del sistema, bensì al suo rovesciamento e rivoluzionamento. Marx converte così la scelta obbligata imposta dalla crisi economica alla causa rivoluzionaria.
Antonio Gramsci non cambia la diagnosi marxiana a proposito dello stato di salute del sistema capitalistico, eppure attribuisce la disponibilità dell’uso della crisi non tanto alle classi subalterne, quanto a quelle dominanti. Egli definisce la crisi come quell’“interregno” tra il vecchio ordine che è moribondo e una nuova vita che non può ancora nascere. Il governo di questo interregno è in prima istanza una prerogativa della classe dominante – e la sua durata è indeterminata, poiché la crisi non genera da sé una nuova vita. Anzi, la crisi accade nel campo della classe dominante e svolge perfettamente la sua funzione nel momento in cui fa prevalere il principio di autoconservazione dell’ordine. Il “pericolo mortale” che la crisi rappresenta e minaccia ha la funzione di indurre le classi subalterne a schierarsi per la sopravvivenza dell’ordine piuttosto che per la sua morte. In Gramsci la crisi comincia così ad assumere quei tratti biopolitici che si ritroveranno nel dispositivo neoliberale della crisi. È infatti con il neoliberalismo che la classe dirigente si pone come rappresentante del “partito della vita”.
“Partito della vita” è un’espressione adoperata da Friedrich von Hayek, uno dei teorici di riferimento del neoliberalismo, per definire la sua concezione del liberalismo, che la distingua da quelle precedenti. Nel suo corso sulla nascita della biopolitica, Michel Foucault si è soffermato su questa espressione di Hayek per evidenziare che il neoliberalismo non si presenta semplicemente come un’alternativa tecnica di governo, bensì come un’arte di governo il cui ordine del discorso consiste nel non lasciare alternative: è in effetti quanto si
produce nel momento in cui – al di là di ogni divisione di classe – è nel nome della vita che agisce l’arte di governo neoliberale. Ma non è soltanto per questo – perché fornisce la visione di fondo biopolitica al mantra neoliberale there is no alternative coniato da Margaret Thatcher – che Hayek assume un ruolo decisivo nella costruzione del discorso neoliberale e all’interno di questo lavoro. Infatti, con maggior consapevolezza del suo stesso maestro Ludwig von Mises, a partire dagli anni Trenta egli comprende che, per risultare vincente rispetto alla soluzione keynesiana che è prevalsa in seguito alla crisi del 1929, la questione delle crisi economiche non può essere affrontata all’interno della teoria dell’equilibrio economico generale, che assume la crisi in quanto “squilibrio” e si propone di superarla attraverso il ripristino del ciclo economico. Hayek comprende cioè che la crisi non è un fenomeno passeggero e temporaneo e, pertanto, la sua funzione non può essere ridotta al ristabilimento dell’equilibrio del ciclo economico. Piuttosto, la questione che pone la crisi è quella del “governo”. E dunque il mercato e i suoi cicli non sono da considerare in base al criterio dell’equilibrio, bensì in base a quello dell’ordine. “Ordine spontaneo” è infatti l’espressione che egli adotta per definire il mercato. Quello del mercato è pertanto un ordine che, mediante una costante evoluzione, a cui l’impresa degli individui contribuisce ma che non dirige, si autogoverna: l’economia stessa diviene arte di governo. Non è insomma concepibile una posizione esterna da cui far procedere la critica dell’ordine dato per promuovere l’instaurazione di un nuovo ordine. L’ordine spontaneo è quello che assicura la sopravvivenza; al di fuori di esso i soggetti sono destinati a soccombere: come ha sostenuto Margaret Thatcher, non c’è altra alternativa che adattarsi all’ordine. Ritorna così la scelta obbligata della krisis greca.
È all’interno dell’ordine spontaneo del mercato che la krisis può tornare a svolgere la funzione che aveva nel mondo antico: la conservazione dell’ordine prestabilito e la legittimazione dell’azione dei governanti. Per rimarcare la discontinuità rispetto all’impostazione politica moderna – quella che ha fatto della critica illuminista il criterio della crisi politica – Hayek ricorre a una terminologia che risale al pensiero antico: “catallassi” è il termine che egli adopera per indicare la forma di governo che scaturisce dall’economia di scambio e di mercato, mentre “cosmo” è il termine che caratterizza l’ordine spontaneo del mercato. Il cosmo configura un ordine che – basti pensare alla tragedia greca – non è nel potere degli esseri umani. Nessun essere umano – fosse pure il sovrano – e nessuna rivoluzione politica possono intervenire dall’esterno a
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CYBERWAR SPIONAGGIO INFORMAZIONE DISINFORMAZIONE
Assange può scombinare le carte dello scontro tra Donald Trump e il Deep State
16.04.2019 – Giulietto Chiesa
La vicenda di Julian Assange rischia di trasformarsi in un disastro politico per gl’inventori del cosiddetto Russiagate.
Il governo britannico, in grande difficoltà per il Brexit, l’ha fatto arrestare e prelevare nell’ambasciata dell’Ecuador commettendo un illecito diplomatico, seppure “autorizzato” da Quito, penetrando in un territorio straniero. Con una motivazione debole (essersi sottratto a un interrogatorio), ma aprendo la strada a una richiesta americana di estradizione prontamente predisposta dal Dipartimento di Giustizia di Washington.
Il guaio è che quest’ultimo non aveva e non ha in sostanza niente da imputargli. Infatti l’’imputazione” pronta per Julian Assange è quella di avere cospirato con l’allora David Manning per “effettuare una intrusione in un computer”. Che è cosa diversa, sostanzialmente, dall’aver effettuato una illegale intrusione. Il fatto è che il giudice accusatore non ha alcuna prova di una tale intrusione. Per cui chiede l’estradizione sulla base di un pensiero, cioè di una intenzione. Che viene chiamata “cospirazione”. In tal modo la cospirazione viene identificata con un pensiero, o con una idea (è la stessa cosa). E, con ciò, viene cancellato il Primo Emendamento della Costituzione americana, che “garantisce la terzietà della legge rispetto al culto della religione e il suo libero esercizio, nonché la libertà di parola e di stampa, il diritto di riunirsi pacificamente; e il diritto di appellarsi al governo per correggere i torti”. Insomma un vero pasticcio.
Ma ecco apparire la dichiarazione di Rudy Giuliani, avvocato di Trump, che afferma che Assange potrebbe, se interrogato, dire quello che sa in merito al RussiaGate. Cioè che non solo lui non c’entra niente, ma che non c’entrano niente nemmeno i russi. Visto che i documenti sulla Clinton, ricevuti e pubblicati da Wikileaks, furono trafugati probabilmente da un funzionario del Partito Democratico e non mediante un hackeraggio compiuto da lontano, (cioè dai russi). Più banalmente furono copiati con qualche click di computer, a Washington.
Il funzionario in questione, Seth Rich, purtroppo non è più in circolazione a Washington, essendo stato ammazzato il 19 luglio 2016, sotto il portone di casa alle 2 di notte. E ciascuno può fare le ipotesi che vuole circa i mandanti di quell’assassinio. Le indagini sono ferme da allora e a fermarle non sono certo gli hackers russi. Ma è evidente che a Washington c’è chi conosce come Rich è stato ammazzato. Tra questi ci sono molti ex agenti della CIA e dell’FBI che potrebbero saperne di più
Tra questi c’è Bill Binney, che sarebbe stato contattato da Mike Pompeo, allora capo della CIA, per sapere se ritenesse valida la tesi dei VIPS (Veteran of Intelligence professionals for Sanity) secondo cui, appunto, il supposto hackeraggio russo delle email della Clinton
La NATO voleva portare “l’operazione Condor” in Europa
Whitney Webb, Mint Press 17 aprile 2019
L’operazione Condor fu un’invenzione occidentale imposta all’America Latina attraverso i colpi di Stato militari, sostenuti dai governi occidentali.
Un documento della CIA recentemente declassificato rivelava le agenzie di intelligence di Francia, Regno Unito e Germania Ovest discussero su come stabilire “un’organizzazione antisovversiva simile al Condor della CIA” nei loro Paesi. Descritto dalla CIA come “sforzo cooperativo d’intelligence/servizi di sicurezza di diversi Paesi sudamericani per combattere il terrorismo e la sovversione”, l’Operazione Condor era una campagna del terrorismo di stato pianificata dalla CIA che mirava contro sinistra, sospetti di sinistra e “simpatizzanti”, provocando sparizione, tortura e brutale omicidio di circa 60000 persone, così come l’imprigionamento politico di circa mezzo milione di persone. La metà degli omicidi stimati si ebbe in Argentina. Il documento, pubblicato nel rilascio di documenti governativi statunitensi recentemente declassificati relativi alla dittatura militare appoggiata dagli Stati Uniti che governò l’Argentina dal 1976 al 1983, afferma che: “Rappresentanti dei servizi segreti della Germania occidentale, francesi e inglesi visitarono il segretariato dell’organizzazione Condor a Buenos Aires nel settembre 1977 per discutere i metodi per l’istituzione di un’organizzazione anti-sovversione simile a Condor” a causa dell’opinione che “la minaccia terroristica e sovversiva aveva raggiunto livelli pericolosi in Europa”. I rappresentanti dei tre Paesi affermarono di ritenere che mettere in comune “le loro risorse d’intelligence in un’organizzazione cooperativa come Condor” sarebbe stato un modo importante per combattere la “minaccia sovversiva”. In particolare, all’epoca il Regno Unito era già coinvolto in un Programma di “condivisione d’intelligence” noto come ECHELON, del patto d’intelligence “Five Eyes” tra Regno Unito, Stati Uniti, Canada, Australia e Nuova Zelanda che persiste ancora oggi ma in forma diversa. Il documento, scritto nel 1978, arrivava due anni dopo che l’operazione Condor prese di mira gli esuli latinoamericani di sinistra che vivevano in Europa. Diversi altri documenti nella recente versione discutono della decisione presa dai Paesi membri del Condor nel maggio 1976 per addestrare e inviare un’unità militare a “condurre attacchi fisici” contro gli esuli latinoamericani di sinistra e i loro sostenitori in Francia, in quello che era il nome in codice “Teseo”. “Diversi Paesi di Condor, oltre Brasile e Bolivia, desideravano partecipare e si addestrarono nell’unità “Teseo”, anche se la CIA apparentemente non seppe se l’unità fosse stata effettivamente inviata in Francia.
Operazione Condor: Made in the West
L’interesse europeo nel portare a casa la campagna terroristica di Stato può sembrare scioccante, date le preoccupazioni pubblicamente espresse in Europa al momento delle stupefacenti violazioni dei diritti umani dei Paesi membri del Condor e dei loro omicidi sponsorizzati dallo Stato. Ma difficilmente sorprenderà chi ha studiato l’operazione Condor, in quanto l’operazione fu un’invenzione occidentale imposta all’America Latina coi colpi di Stato militari, a loro volta sostenuti dai governi occidentali. L’operazione Condor iniziò ufficialmente nel 1975, anche se i documenti della CIA in questa recente versione suggeriscono che l’aspetto della condivisione delle informazioni tra Paesi sarebbe probabilmente iniziato un anno prima, nel 1974. I Paesi coinvolti, Cile, Brasile, Argentina, Uruguay, Paraguay, Ecuador e Bolivia, furono tutti sostenuti dagli Stati Uniti, che incidentalmente erano il maggiore commerciante di armi per tali governi nello stesso periodo. Durante la seconda parte dell’operazione Condor, uno dei documenti recentemente declassificati afferma che Israele assunse il ruolo chiave svolto dagli Stati Uniti nell’operazione Condor, tra cui “formazione del personale locale e vendite di alcuni tipi di attrezzature militari avanzate”, nonostante i molti ebrei inermi assassinati da molte dittature del Condor. Molti Paesi del Condor videro la dittatura militare installate col coinvolgimento del governo degli Stati Uniti, come in Cile e Brasile, col governo USA sospettato di altri colpi di Stato che precedettero l’Operazione Condor di pochi anni, come il colpo di Stato del 1971 in Bolivia e il colpo di stato del 1973 in Uruguay. Dopo il colpo di Stato del 1976 in Argentina, il sesto e ultimo colpo di Stato argentino del 20° secolo, anch’esso si unì all’Operazione Condor. Gli Stati Uniti fornirono pianificazione, addestramento, finanziamenti e armi all’Operazione Condor, e le nazioni europee fornirono un numero significativo di armi. La Francia, uno dei paesi interessati a creare un programma Condor per l’Europa, fu notata in uno dei documenti recentemente declassificati per le “eccellenti prospettive di vendita di aerei a reazione e sistemi di difesa aerea” alle dittature di Condor; mentre la Germania occidentale, altro Paese interessato al Condor europeo, “doveva poter vendere missili, attrezzature di terra e sottomarini”. Le agenzie d’intelligence statunitensi ed europee erano ben consapevoli di ciò che le dittature di Condor facessero con quelle armi, come indicato dalle passate e recenti pubblicazioni di documenti che descrivono in modo orribile torture ed omicidi dei sospettati di essere o simpatizzare per la sinistra, così come chi si opponeva alle politiche economiche neoliberali imposte da tutte le dittature del Condor sostenute dagli Stati Uniti.
Alcune delle tattiche più infami usate dalle nazioni Condor furono ispirate dai crimini di guerra europei e statunitensi. Come i “voli della morte”, in cui le vittime venivano drogate, legate e poste in sacchi di plastica, e/o scentrati prima di essere scaraventati da un aereo o elicottero sull’oceano. Si dice che tale tattica s’ispirava alle azioni delle forze armate francesi durante la guerra algerina e, secondo il documentario del 2003 The Death Squads: The French School, l’intelligence francese insegnò questi e altri metodi ai militari argentini durante la dittatura.
Ripulire l’orrore di Condor
In particolare, gran parte della recente copertura dell’operazione Condor e delle versioni della CIA cercava di imbiancare l’orribile eredità del programma, con The Guardian che descrive l’Operazione Condor come “un programma segreto in cui le dittature di Argentina, Brasile, Paraguay, Uruguay, Cile, Bolivia , Perù ed Ecuador cospiravano per rapire e assassinare membri dei gruppi di guerriglieri di sinistra nei rispettivi territori”. Questo, ovviamente, implica che chi veniva preso di mira fosse un guerrigliero e quindi un combattente. Tuttavia, molti, e si potrebbe sostenere in modo convincente la maggioranza, degli uccisi, torturati e imprigionati non erano membri di gruppi di guerriglia, poiché ci sono migliaia di casi documentati di studenti universitari, musicisti, scrittori, giornalisti, preti e suore, donne
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DIRITTI UMANI – IMMIGRAZIONI
“In Libia controlli finiti. Adesso l’Italia rischia marea di sbarchi”
Fausto Biloslavo – 19 aprile 2019
La “bomba” migranti pronta a riesplodere, la Guardia costiera che ha interrotto le intercettazioni dei gommoni, il duro affondo contro la Francia, l’Italia “alleata” di ferro, che potrebbe finire nel mirino del generale Haftar e il rischio di uno scenario siriano. Non ha peli sulla lingua, Fathi Beshaga, il ministro dell’Interno del governo libico che fronteggia l’attacco su Tripoli, nell’intervista esclusiva a il Giornale.
Ministro com’è la situazione sul terreno dopo due settimane di guerra?
“Sta migliorando e nei prossimi giorni passeremo al contrattacco”.
Ma uno dei generali di Haftar ha appena annunciato la conquista di Tripoli prima del Ramadan, che inizia il prossimo mese…
“Facile fare una sparata del genere a migliaia di chilometri di distanza, ma sul terreno la realtà e ben diversa”.
Pensate veramente, come ha detto il premier Serraj di marciare sulle roccaforti di Haftar come Bengasi, capoluogo della Cirenaica?
“Bisogna farla finita e risolvere il problema. Eliminare il pericolo una volta per tutte. Negli ultimi quattro anni abbiamo puntato sulla soluzione pacifica, ma purtroppo si preparavano ad attaccarci”.
Non teme che le milizie governative impegnate contro Haftar guadagneranno ancora più potere?
“Ho sempre pensato che la presenza delle milizie doveva essere temporanea. Purtroppo tutto il lavoro fatto dal ministero dell’Interno per smantellarle è andato perduto, in un solo giorno, quando ci hanno attaccato”.
Martedì ha incontrato l’ambasciatore italiano a Tripoli. Di cosa avete parlato?
“Su come riprendere a pieno ritmo e aumentare la cooperazione. Apprezziamo l’appoggio del governo italiano a differenza di altri paesi, che hanno agito contro il governo legale del paese, come la Francia sponsor del ribelle Haftar”.
Domani si terrà una manifestazione nel centro di Tripoli, dopo il lancio dei missili Grad su quartieri residenziali nella capitale. I libici che scendono in piazza chiedono l’espulsione dell’ambasciatrice francese. Lei cosa ne pensa?
“Prima dell’attacco l’ambasciatrice era venuta a farci visita. Le ho spiegato che la posizione della Francia sta causando collera in Tripolitania. Questo sentimento della popolazione potrebbe forzarci a cambiare le nostre relazioni con Parigi (ieri il ministro dell’Interno ha sospeso qualsiasi cooperazione per la sicurezza nda). Consiglio al governo francese di appoggiare il governo riconosciuto dalla comunità internazionale piuttosto che Haftar”.
L’Italia ha 400 soldati in Libia che si occupano dell’ospedale di Misurata, ma aiutano pure le istituzioni libiche nel settore sicurezza e della lotta all’immigrazione illegale. Pensa che il nostro Paese dovrebbe inviare più truppe?
“Voglio ringraziare l’Italia per essere rimasta al nostro fianco mentre altre nazioni hanno ritirato i loro militari (americani, ma anche francesi e inglesi nda). Però la battaglia contro Haftar è la nostra guerra e non abbiamo bisogno di soldati stranieri”.
Video qui: https://youtu.be/YbZWyG5_zH8
Circolano indiscrezioni che Haftar potrebbe colpire per rappresaglia interessi italiani in Libia. E possibile?
“Non posso escluderlo. Haftar è impazzito e per questo potrebbe accadere qualcosa del genere. Sicuramente ha scatenato un’ondata di aggressività nei confronti del governo italiano”.
La “bomba” migranti rischia di riesplodere?
“A causa del conflitto abbiamo perso il controllo dei passaggi dei clandestini non solo dal Sud e stiamo cominciando a notare un aumento degli arrivi. Se non finirà presto temo che il numero aumenterà in maniera drammatica. Il caos provocato dal conflitto ci riporterà indietro alla stessa situazione di crisi (il boom degli sbarchi dell’estate 2017 nda) precedente alla collaborazione con l’Italia, che è riuscita a diminuire al minimo i flussi”.
La Guardia costiera riesce ancora ad arginare le partenze dei gommoni?
“Ogni giorno circolano voci su raid delle truppe di Haftar lungo la costa. La Guardia costiera è
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ECONOMIA
Per una nuova teoria del valore
di TOMMASO REDOLFI RIVA
Per Riccardo Bellofiore, che ha esposto questa tesi nel suo ultimo “Le avventure della socializzazione. Dalla teoria monetaria del valore alla teoria macro-monetaria della produzione capitalistica” (Mimesis), non è più possibile procedere a una semplice interpretazione dell’opera di Marx. È invece necessario guardare ai punti alti della teoria economica, svilupparli e incorporarli in una critica dell’economia politica che sia al contempo economia politica critica: messa in discussione del rapporto sociale capitalistico e indagine sulla sua forma di movimento.
Nella critica dell’economia politica, la legge dell’accumulazione capitalistica – che ha il suo principio nella valorizzazione del valore – rappresenta la forma di moto specifica che caratterizza il modo di produzione capitalistico. Il rapporto di produzione, che è sempre un modo particolare nel quale si realizza l’unione tra i lavoratori e i mezzi di produzione, una volta che ha assunto la forma capitalistica, una volta cioè che si è costituito come rapporto di capitale, “costringe senza scrupoli l’umanità alla produzione per la produzione”[1]. Non è certo un caso che questa frase di Marx riappaia nella Dialettica negativa là dove Adorno vuole presentare il dominio dello spirito del mondo sulle azioni individuali, della storia sugli individui storici, dell’universale sul particolare: l’autonomizzazione della società, il farsi obiettivo del vincolo sociale, rappresenta un tema centrale della sua riflessione matura[2]. Nel modo di produzione capitalistico, il rapporto sociale che lega gli individui gli uni agli altri, il modo cioè in cui la società produce e riproduce se stessa, si rende indipendente dagli individui, i quali si trovano nella necessità di fungere da semplici momenti di un processo che ha una propria dinamica specifica e che si impone loro come contrainte esteriore. Per Adorno, l’individuo, che la sociologia comprendente vorrebbe sostanziale, decade a semplice luogo di un’azione che si svolge alle sue spalle e di cui diviene semplice portatore. Ma se la sociologia comprendente non coglie la costrizione esteriore che la società esercita sull’individuo, quella funzionalista la assume come dato, eternizzando, di fatto, l’autonomizzazione della società. Compito della teoria critica della società è quindi quello di superare l’unilateralità di entrambi gli approcci e mostrare “come quei rapporti che si sono resi indipendenti e impenetrabili per gli uomini, derivino proprio da rapporti fra gli uomini”[3].
La comprensione dell’autonomizzazione della società, della totalità che retrocede gli individui a meri portatori della sua riproduzione, del dominio e della violenza dell’universale sul particolare, risiede per Adorno, nell’analisi del processo di scambio. Esso si presenta da un lato, mediazione totalizzante, dall’altro, astrazione obiettiva capace di ridurre la differenza qualitativa di ogni oggetto alla comparabilità quantitativa del valore.
Tale astrazione, per Adorno, non è riconducibile alla coscienza degli scambianti: con Marx e di contro alle robinsonate dell’economia politica, gli scambianti “non lo sanno ma lo fanno”. Lo scambio si presenta quindi come quel processo obiettivo, indipendente, nel quale si realizza “la legge secondo cui si sviluppa la fatalità dell’umanità”[4]. Lo scambio, il principio che sorregge la mediazione sociale complessiva nel modo di produzione capitalistico, diviene il luogo di costituzione dell’autonomizzazione della società, il momento fondante e fondativo della “riduzione degli uomini ad agenti e veicoli del valore di scambio”[5].
A dispetto della pervasività che questi temi avevano all’interno della riflessione di Adorno, nei quali è forte ed esplicita la discendenza dalla critica dell’economia politica marxiana, essi furono presto accantonati da chi assunse le redini dell’Istituto per la Ricerca Sociale e si preoccupò di perpetuarne lo spirito[6].
Questi motivi adorniani, di contro, divennero la base della riflessione del gruppo di allievi di Adorno e Horkheimer dai quali, sul finire degli anni Sessanta, ebbe inizio quella corrente interpretativa ad oggi nota come Neue Marx-Lektüre (NML). Questi motivi adorniani, ancora, rappresentano il punto di partenza del ricco e al contempo agile volume di Riccardo Bellofiore Le avventure della socializzazione. L’autore, in sprezzo alla ristretta divisione del lavoro accademico, ci offre un’interpretazione della teoria marxiana del valore – che egli concepisce già dal sottotitolo come “teoria macro-monetaria della produzione capitalistica” – in cui economia politica, critica dell’economia politica, teoria della società, e storia delle interpretazioni di Marx si compenetrano fin nell’intimo. Procediamo per gradi.
Nei primi capitoli Bellofiore ripercorre il rapporto di filiazione tra la riflessione di Adorno e le interpretazioni di Marx sviluppate dalla NML. Egli si concentra dapprima su Alfred Schmidt, del quale ripercorre i nodi interpretativi più importanti: la priorità del momento logico su quello storico nella costruzione della critica dell’economia, lo sviluppo categoriale come processo di concretizzazione e non come rispecchiamento, il rapporto tra modo dell’esposizione e della ricerca e i limiti della dialettica come metodo. Su quest’ultimo punto la riflessione di Schmidt viene affiancata a quella di Helmut Reichelt per il quale la dialettica marxiana si presenta come “metodo della revoca” [Methode auf Widerruf]: l’identità di oggetto (capitale) e metodo (l’esposizione dialettica) è tale che, una volta che l’oggetto non è più il capitale, è il metodo stesso a divenire inservibile. Una tale idea presuppone un’identità strutturale tra capitale e spirito in cui la filosofia hegeliana diviene l’ontologia della moderna società civile. Questa interpretazione, che in Italia è stata accennata da Colletti[7], viene riproposta da Bellofiore con la clausola che l’omologia tra capitale e spirito vale fin quando il capitale non è costretto a incorporare il lavoro vivo, cioè a far lavorare la forza-lavoro. Questo salto nel concreto, che non è mai garantito ed è sempre passibile di contestazione, rompe la circolarità e l’automaticità che invece, per l’autore, caratterizzano l’avanzare dello spirito nella filosofia hegeliana.
Le riflessioni di Reichelt e Backhaus vengono poi esposte nell’analisi della socializzazione capitalistica, un tema, questo, che Adorno aveva solo parzialmente anticipato nella sua analisi dello scambio. Perché sia possibile comprendere la genesi dell’autonomizzazione della società non è possibile fermarsi allo scambio e all’astrazione che esso istituisce obiettivamente. È necessario, invece, comprendere la forma specifica dello scambio capitalistico come processo di socializzazione del lavoro e chiedersi perché i lavori erogati privatamente debbano assumere la forma di denaro, riproporre, in sostanza, la domanda che caratterizza la differentia specifica della critica marxiana “perché questo contenuto assuma quella forma, […] perché, dunque, il lavoro si esponga nel valore dei prodotti del lavoro e la misura del lavoro attraverso la sua durata temporale nella grandezza di valore di essi”[8].
Reichelt e Backhaus sottolineano con forza che la produzione capitalistica è solo indirettamente sociale, i lavori erogati privatamente dalle imprese assumono carattere sociale solo attraverso uno scambio monetario sul mercato: la connessione tra le produzioni private, il rapporto sociale che si istituisce tra gli agenti della produzione, si determina solo dopo che l’erogazione del lavoro è avvenuta, nello scambio tra le merci prodotte e il denaro.
A partire da qui l’attenzione di Bellofiore si concentra sulla natura essenzialmente monetaria della teoria del valore che viene approfondita nell’esposizione dei contributi di Backhaus, dei quali viene messa in risalto l’idea della teoria marxiana del valore come critica delle teorie premonetarie del valore. Se i contributi di Backhaus e Reichelt risultano di importanza strategica nella comprensione di Marx, essi tuttavia si limitano alla presa in considerazione delle sole prime due sezioni del Capitale: “la critica dell’economia politica, per vivere e progredire sul solco di Marx, dovrebbe anche incarnarsi […] in una diversa economia politica del capitale […] finalmente capace di ‘sviluppare’ la categoria di denaro oltre i suoi limiti categoriali” (61-62).
È con l’analisi dell’opera principale di Michael Heinrich che Bellofiore inizia a porre le basi per questo sviluppo. Heinrich viene ricordato da un lato, per aver approfondito – anche attraverso la ripresa di inediti di Marx[9] – la natura a posteriori della socializzazione del lavoro, dall’altro, per aver affermato che la natura di merce del denaro non segue logicamente dallo sviluppo della forma di denaro, bensì è un carattere accidentale e non concettualmente derivabile dalla esposizione dialettica. Bellofiore discute le tesi di Heinrich, ne riconosce l’originalità e la coerenza, e infine ne sviluppa una critica determinata.
Sebbene anche Bellofiore ritenga necessario un superamento del denaro come merce, ciò non può però determinarsi attraverso una semplice rimozione, dato che egli ritiene che la merce denaro rappresenti la condizione di possibilità della riconduzione del valore al lavoro: se cade la natura di merce del denaro, cade anche la possibilità di ricondurre quantitativamente il valore al lavoro erogato. Se il denaro non ha valore ci troviamo di fronte ad un dualismo non conciliabile tra dimensione reale, in cui non si dà alcuna commensurabilità tra i valori d’uso, e una dimensione monetaria, che si trova ad essere priva di connessione col momento dell’erogazione del lavoro nella produzione.
Questa critica si prolunga nella messa in discussione dell’idea di Heinrich in base alla quale, data la natura a posteriori della socializzazione del lavoro, l’oggettualità di valore esiste solo nello scambio, e solo nello scambio tale oggettualità è misurabile. Bellofiore in un primo momento ricorda la posizione di Rubin, per il quale il valore esiste prima e indipendentemente dalla forma di valore nelle “anticipazioni” che i produttori fanno durante la produzione, poi cerca di istituire una connessione tra la socializzazione a posteriori del lavoro, che caratterizza lo scambio finale sul mercato delle merci, e il carattere sociale della produzione nella sussunzione reale del processo lavorativo – un punto questo che Bellofiore articola attraverso un dialogo con Guido Frison[10] e una critica a Roberto Finelli[11]. Nel capitolo Macchinario e grande industria del primo libro del Capitale, Marx parla di “lavoro immediatamente socializzato” o “lavoro comune” riferendosi al “carattere cooperativo del processo di lavoro” che diviene “necessità tecnica imposta dalla natura del mezzo di lavoro stesso”[12] e non più momento accidentale dettato dal modo nel quale il detentore di capitale organizza il processo. In questo Bellofiore riconosce una prima astrazione del lavoro – che “è astratto perché le sue proprietà si trovano fuori di esso, ‘oggettualizzate nel capitale’” – che anticipa la socializzazione a posteriori, che egli propone di chiamare “validazione monetaria ex-post” (118). Siamo già pienamente in fase di ricostruzione. Per Bellofiore non è possibile procedere a una semplice interpretazione dell’opera di Marx. È invece necessario guardare ai punti alti della teoria economica, svilupparli e incorporarli in una critica dell’economia politica che sia al contempo economia politica critica: messa in discussione del rapporto sociale capitalistico e indagine sulla sua forma di moto. Questa prospettiva teorica ha come obiettivo primo quello di vagliare la tenuta della teoria marxiana del valore nel suo confrontarsi con l’attuale realtà capitalistica, in particolare con i fenomeni monetari e con il definitivo sganciamento del denaro dall’oro.
Se dunque l’obiettivo è il superamento dell’“impostazione tradizionale secondo cui la dimensione monetaria si limita a retroagire dalla circolazione alla produzione” (119), e dato che, per Bellofiore, una volta caduto il riferimento al denaro come merce cade anche la possibilità di una mediazione tra dimensione reale e dimensione monetaria, si tratta allora di procedere nella ricostruzione della teoria del valore come teoria monetaria nella quale il denaro cessi di presentarsi come merce ma al contempo consenta una riconduzione del valore al lavoro erogato nella produzione: questo il tema dell’ultimo capitolo del libro. Per Bellofiore, un tale risultato è possibile se la teoria del valore è ricompresa nella cornice della teoria monetaria della produzione sviluppata da Augusto Graziani. In questo modo la fondazione dell’identità tra valore e lavoro non passa più attraverso il denaro merce, bensì attraverso il denaro come capitale nella forma del finanziamento bancario che vale come “socializzazione a priori, pur provvisoria e incerta: è l’antevalidazione sociale dell’erogazione del lavoro vivo dei salariati nella produzione immediata, e della sua attualizzazione in denaro e più denaro nella realizzazione attesa della circolazione” (135). Il circuito si apre attraverso il credito che le banche offrono alla classe dei capitalisti industriali, costituito dal monte salari monetario necessario all’acquisto della forza-lavoro (in una prospettiva macro-sociale è questo l’unico acquisto esterno che il capitale deve fare per mettere in moto il processo produttivo); segue la produzione immediata, nella quale il capitale deve incorporare lavoro attraverso l’uso della forza-lavoro vincendo il possibile conflitto e antagonismo del lavoro; si conclude infine attraverso la restituzione del finanziamento e la capitalizzazione del plusvalore ottenuto. In questa prospettiva “la produzione complessiva di merci nel periodo, dunque lo stesso neovalore, non dipende altro che dall’uso della forza-lavoro” (124). Per quanto sia caduta la riconduzione del valore al lavoro per mezzo del denaro-merce, la commensurabilità tra i lavori è garantita dall’antevalidazione monetaria all’apertura del circuito: “in quanto lavori concreti che al tempo stesso producono denaro (in potenza), e sono dunque già lavoro astratto ‘in movimento’” (126). Questo permette di evitare quella bidimensionalità (reale/monetario) che Bellofiore imputava alla socializzazione a posteriori nella versione di Heinrich. Inoltre, fissato come dato il salario reale della classe dei lavoratori, è possibile ridefinire in termini di valore il finanziamento bancario alla produzione e determinare quantitativamente il lavoro necessario e il pluslavoro (dunque il saggio di sfruttamento).
A questo punto è possibile ritornare al tema fondamentale del libro, la socializzazione, e vedere come essa si ridefinisca attraverso le innumerevoli torsioni a cui è stata sottoposta. Il rimprovero che gli autori della Neue Marx-Lektüre muovevano ad Adorno era di essersi fermato allo scambio quale luogo di costituzione dell’autonomizzazione dei rapporti sociali. L’‘anamnesi della genesi’ dell’autonomizzazione non era stata approfondita fino a cogliere nello scambio la socializzazione del lavoro che caratterizza il modo di produzione capitalistico, la forma specifica, cioè, attraverso cui il lavoro erogato privatamente si afferma come denaro. Il discorso di Bellofiore muove da qui e, attraverso un’originale ricostruzione della teoria marxiana del valore, in cui il momento attivo-costruttivistico è prioritario su quello interpretativo, enuclea la natura processuale della socializzazione capitalistica partendo dall’antevalidazione monetaria del circuito capitalistico, passando per la sussunzione reale in cui il carattere cooperativo del processo di lavoro si impone attraverso lo stesso mezzo di lavoro, e giungendo infine alla validazione monetaria finale del lavoro privato.
Il senso complessivo dell’operazione teorica di Bellofiore si rivela, in conclusione,
Continua qui: http://ilrasoiodioccam-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2019/04/09/per-una-nuova-teoria-del-valore/
Modern Monetary Theory: la teoria del sovranismo monetario. Intervista a Warren Mosler
18 Aprile 2019 DI PAOLO BECCHI E GIOVANNI ZIBORDI
liberoquotidiano.it
La giustificazione dell’“austerità” è che lo Stato non ha i soldi. E per questo bisogna diminuire i salari e aumentare le tasse. Questo il modo tradizionale di pensare ridotto all’osso. Da più di venti anni Warren Mosler e la scuola economica che ha ispirato spiegano che in un sistema di moneta come quello attuale tutto questo è sbagliato.
In America quest’anno, di colpo, si parla moltissimo di questa scuola di pensiero, chiamata MMT o Teoria della Moneta Moderna: più di duecento articoli apparsi in pochi mesi sui giornali più importanti. Warren Mosler non è un professore universitario, ma un importante operatore finanziario, e ha sviluppato una serie di intuizioni sulla moneta attraverso la sua esperienza pratica di investitore.
Mosler si è convinto dell’errore del modo di pensare comune quando operava come gestore di un fondo che comprava i nostri BTP. Nel settembre 1992 l’Italia era appena uscita dallo SME, il “serpente monetario” che vincolava tra loro le principali valute europee, e uscendone la lira aveva svalutato di oltre il 20% verso il marco. I tassi di interesse sui BTP erano saliti intorno al 12% perché molti sul mercato temevano un default e anche economisti importanti come Rüdiger Dornbusch parlavano di un probabile default.
Warren Mosler andò a parlare a Roma con il Ministro del Tesoro Luigi Spaventa per vedere se si rendeva conto anche lui che l’Italia, essendo tornata ad avere la propria moneta indipendente, non rischiava in realtà nessun default. Nel colloquio Spaventa fece capire che l’Italia non avrebbe avuto alcun problema a ripagare i BTP perché ora aveva recuperato la propria sovranità monetaria. Mosler fece allora comprare al suo fondo BTP in modo massiccio prendendo a prestito lire a tassi molto più bassi dei BTP. Non ci fu nessun panico, come aveva detto Spaventa, e negli anni seguenti i tassi di interesse dei BTP scesero pure e il loro prezzi simmetricamente aumentarono, e Mosler fece una fortuna.
Il panico sul deficit e il debito pubblico non aveva alcun senso perché dal punto di vista operativo, la Banca Centrale di fatto anticipa sempre i soldi che poi lo Stato spende. Nel sistema monetario attuale il denaro che lo Stato spende viene creato con entrate contabili dalla sua banca, la Banca Centrale, la quale non ha mai rimandato indietro un assegno del governo perché “non c’erano soldi sul conto”. Se il debito che lo Stato vende sul mercato è nella propria valuta quello Stato non rischia mai un default.
Il modo di pensare comune sul deficit pubblico è che lo Stato, per poter spendere, deve prima tassare o prendere a prestito dei soldi, come una famiglia o una impresa che deve prima procurarsi i soldi per poterli spendere. Per cui anche lo Stato, proprio come una famiglia, deve come si usa dire “tirare la cinghia”, quando non ha soldi. Ma come è possibile che tutti, Stato, cittadini e imprese debbano prima procurarsi i soldi da qualcun altro? Se lo Stato deve prima tassare per poter pagare gli stipendi da dove prendono i soldi i cittadini per pagargli le tasse?
Mosler e la MMT spiegano che è assurdo pensare che se lo Stato non si procura prima soldi dai cittadini non possa poi spendere perché nella realtà del sistema di moneta a corso forzoso e di Banca Centrale in cui viviamo, accade proprio il contrario: se lo Stato prima non spendesse, non ci sarebbero i soldi per i cittadini per pagare le tasse (o comprare titoli di stato).
La realtà degli ultimi venti anni ha confermato l’interpretazione di Mosler. E oggi tutti gli americani, e di qualsiasi idea politica, lo riconoscono, anche se siamo certi che nessuno penserà per questo di dargli il premio Nobel.
Come ti senti nel vedere che la MMT, che hai elaborato e promosso collaborando con diversi economisti negli ultimi 20 anni, è ora al centro del dibattito in America?
«Non potrei essere più contento nel vedere che le mie intuizioni sono ora diventate notizie importanti su tutti i giornali americani! Spero che anche i policy makers le applichino nel modo corretto e che in questo modo il mondo possa diventare un posto migliore per tutti.»
Molti commentatori dicono che Trump implicitamente applica le tue idee sul deficit pubblico visto che lo ha ampliato e ha sempre respinto i suggerimenti che lo invitavano a preoccuparsene. Pensi che ora entrambi, Repubblicani e Democratici, seguano di fatto l’MMT anche quando non lo riconoscono esplicitamente?
«Posso solo sperare che lo facciano. Ci sono sempre state due preoccupazioni sulla spesa in deficit. La prima è che troppa può causare inflazione, il che è vero, e la seconda è che gli Stati Uniti possono in qualche modo “andare in bancarotta” e finire come la Grecia, come ripeteva un tempo il deputato Paul Ryan, e questo non è vero. Mi auguro che ora tutti lo comprendano e operino di conseguenza.»
Gli Stati Uniti stanno andando bene (lasciando da parte la questione non secondaria della disuguaglianza che è diventata più acuta) mantenendo ampi deficit finora e nessuno nei mercati e nella classe politica sembra essere preoccupato. Pensi che ci possano essere problemi in futuro per l’economia americana, come una recessione nel prossimo anno?
«Sì, la guerra commerciale con la Cina sembra avere un costo e l’adeguata risposta politica per sostenere la crescita sarebbe un deficit pubblico ancora più alto in America. Tuttavia, negli ultimi mesi devo dire non ho visto alcun segno di questo tipo di proposte in termini concreti, e la crescita degli Stati Uniti sta rallentando.»
Tra il 2013 e il 2017 hai speso molto tempo in Italia e con l’aiuto di Paolo Barnard, che ha contribuito molto a divulgare il tuo pensiero, hai girato il paese tenendo decine di conferenze e discorsi creandoti un seguito e poi hai anche lavorato all’università di Bergamo. Sono passati però altri anni e siamo ancora bloccati dall’austerità, anche dopo aver eletto un nuovo governo “sovranista”, che alla fine ha mantenuto il deficit al 2%. E ora stiamo entrando in recessione. Cosa potrebbero fare Salvini e Di Maio?
«Quello che possono fare è spiegare a Bruxelles che il limite del 3% del PIL di deficit debba essere portato all’8% per tutti i paesi membri. Invece di usare i tassi di interesse come strumento di politica economica (che non serve a niente) bisogna che la politica fiscale diventi strumento di politica economica. Non serve forse molto fare proposte specifiche solo per l’Italia. Ora per il vostro paese sarebbe il momento giusto per proporre una politica macroeconomica comune assumendo una posizione di leadership all’interno eurozona.»
Cosa si potrebbe fare per lo spread? Oggi solo 1/3 del debito pubblico italiano è in mano a fondi, pensioni e assicurazioni italiane. Sarebbe possibile per il governo italiano ottenere che le famiglie italiane, che hanno un’elevata ricchezza finanziaria, ricomprino le obbligazioni italiane e ridurre così la minaccia dello spread?
«Non credo che questo aiuterebbe in modo risolutivo. Bisogna costringere la BCE a garantire di “fare tutto ciò che serve” contro il default, una garanzia messa per iscritto e da considerare in qualche modo “legge”. Questa garanzia eliminerebbe il rischio di spread dai paesi membri della UE. Inoltre, toglierebbe alla BCE la capacità di utilizzare tale strumento per imporre ai governi l’austerità. I Trattati UE non attribuiscono alla BCE la giurisdizione e la competenza sulla politica fiscale dei governi, la quale resta una loro prerogativa. Ciò che in Europa dovete superare è il fatto che la BCE possa continuare a condizionare i governi imponendo loro di rispettare l’austerità, come è avvenuto per l’Italia.»
Se non è possibile convincere le istituzioni europee a fare quello che proponi e l’Italia piomba in una recessione cosa potrebbe fare il governo? Il governo ha rinunciato alla battaglia per uscire dall’euro, potremmo provare ad aggiungere agli euro altra moneta ad esempio tramite l’emissione di Bot per pagare debiti dello Stato verso i fornitori?
«Se la UE non accetta di ampliare i deficit e sostenere l’economia non vedo una via d’uscita per l’Italia più di quanto i singoli Stati degli USA ne abbiano una se il governo federale USA togliesse loro il supporto e li abbandonasse a loro stessi. Per quanto riguarda ipotesi di moneta addizionale o di alterazione della denominazione del debito, bisogna tenere presente che queste mosse probabilmente indurrebbero la BCE a minacciare ritorsioni e questo farebbe subito aumentare lo “spread”, fino al punto di rischiare l’insolvenza del debito in euro.»
Sicuramente questo è il problema che paralizza il nostro governo, però è improbabile che la Germania e la maggioranza dei governi UE concordino su deficit anche solo poco oltre il 3% del PIL. La politica della BCE di tassi di interesse zero e di acquisto di 2,500 miliardi di titoli ha solo rinviato la crisi. Se la recessione si aggrava e la UE non accetta di fare una politica fiscale espansiva, si può arrivare ad un punto di rottura. È vero che la BCE può minacciare ritorsioni, come dici, ma non possiamo rimanere paralizzati e poi finire travolti da un altra crisi come nel 2008 o nel 2011.
«È vero. Sono d’accordo con queste vostre considerazioni. In teoria il mio “Piano A” funzionerebbe, ma ci sono questi problemi pratici e politici. Per questo motivo proporrei anche un “Piano B” per l’Italia che sia credibile e quindi possa essere usato come leva per spingere avanti la discussione. Come in molte faccende esiste un modo giusto e uno sbagliato di implementarlo. Bisogna fare due cose. Non uscire di colpo dall’euro con tutte le complicazioni del caso, ma semplicemente far sì che lo Stato italiano inizi a spendere e tassare in lire. Assumendo che la nuova lira sia fissata a 1 euro = 1 lira, lo Stato inizierebbe a pagare fornitori, pensioni e stipendi in questa moneta nello stesso ammontare e anche a richiedere simultaneamente che le tasse siano pagate in lire. Una volta che hai fatto questo hai di nuovo una politica fiscale e monetaria indipendente e puoi riportare la prosperità in Italia. Ma c’è una seconda cosa molto importante. E’ essenziale non convertire gli euro esistenti nei conti bancari in Italia in lire. Molti piani che ho visto prevedono la conversione forzosa degli euro in lire e sono categoricamente contrario. Creerebbe panico.»
Ma è geniale, Warren! Quindi si tratterebbe di una vera propria nuova moneta in parallelo all’euro utilizzata dallo Stato, ma non una moneta legale che sostituisce l’euro e in cui viene convertito tutto… Cosa succederebbe però al valore di questa moneta, si svaluterebbe rispetto all’euro?
«Ok, se forzi la conversione degli euro in lire avrai che molta gente non è per niente contenta di ritrovarsi delle lire, corre a cambiarle in euro e la lira si svaluta e può svalutarsi molto, del 40% ad esempio. Senza contare che anche molto prima del giorno della conversione ci sarebbe una fuga di capitali, la Banca Centrale non saprebbe come fermarli e alzerebbe i tassi di interesse, la svalutazione farebbe aumentare il costo delle importazioni e alla fine hai un caos, il governo cade ecc.»
Sì, questa è sempre stato il problema cruciale quando si parlava di ritornare alla lira, la fuga di capitali, il caos…
«Tutto questo si può però evitare se ci limita a tassare in lire e pagare le spese dello Stato in lire, senza imporre alcuna conversione in lire delle migliaia di miliardi di euro che oggi sono banca. Li devi lasciar stare, la gente deve poter tenersi i suoi euro se li vuole e l’euro continuare a circolare come prima tra privati e con l’estero. Così la UE dovrebbe anche lasciarvi in pace. Dato però che lo Stato richiederebbe di pagare le tasse in queste nuove lire, si creerebbe una domanda di lire da parte di chi deve pagare tasse. In questo modo le lire tornerebbero a circolare, ci sarebbe domanda di lire da parte dei cittadini che hanno ancora i loro euro ma devono ora pagare le tasse in lire. Non ci sarebbe invece ragione di cambiare le lire in euro, visto che comunque i propri risparmi restano in euro. Non ci sarebbe quindi nessuna fuga di capitali dalle banche italiane visto che i soldi resterebbero in euro. Ci sarebbe semmai una scarsità relativa di lire rispetto agli euro perché in Italia ci
Continua qui: https://paolobecchi.wordpress.com/2019/04/15/intervista-warren-mosler/
FINANZA BANCHE ASSICURAZIONI
Crac bancari: azionisti a caccia di rimborsi
16.04.19 – Raffaele Lungarella e Francesco Vella
Il governo ha annunciato di aver raggiunto un accordo con le associazioni dei risparmiatori danneggiati dai fallimenti bancari. Non si sa se passerà il vaglio comunitario, né si conosce in dettaglio il suo contenuto. Ma che messaggio dà al mercato?
Le previsioni della legge di bilancio 2019
La legge di bilancio 2019 ha disciplinato (commi 493-507 articolo 1 legge 145/2018) un fondo indennizzo risparmiatori (Fir) per rimborsare chi ha subito un “pregiudizio ingiusto” in violazione degli obblighi di informazione, diligenza, correttezza, buona fede e trasparenza previsti dal testo unico in materia di intermediazione finanziaria (Tuf). Il Fir ha una dotazione di 1.575 milioni di euro (525 per ognuno degli anni 2019, 2020 e 2021) ed è rivolto solo ai clienti, non classificabili come controparti qualificate e come professionali, degli istituti posti in liquidazione coatta amministrativa tra il 17 novembre 2015 e il 31 dicembre 2017, cioè a quelli di Veneto Banca, Popolare di Vicenza, Banca Apulia, Banca Nuova, Banca Etruria, Banca Marche, Carichieti, Cariferrara, Bcc Crediveneto e Bcc Padovana.
L’indennizzo è accordato per l’acquisto sia delle azioni sia delle obbligazioni subordinate emesse da quelle banche. In entrambi i casi, l’importo massimo del rimborso non può superare i 100 mila euro.
Per ogni azionista e obbligazionista l’ammontare del rimborso non può eccedere rispettivamente il 30 per cento e il 95 per cento della spesa sostenuta per l’acquisto del titolo. I risparmiatori con Isee 2018 inferiore a 35 mila euro hanno priorità nell’accesso al fondo, ma quelli che superano il limite non sono comunque esclusi dal rimborso.
Ritorno all’antico
Il Fir non è il primo fondo istituito per queste finalità: prima ha operato quello, disciplinato dal decreto legge 59/2016, a favore dei risparmiatori di Banca Etruria, Banca Marche, Carichieti, Cariferrara. Per ottenere il risarcimento bisognava rientrare in due limiti: 100 mila euro di proprietà mobiliare e 35 mila euro di imponibile Irpef nel 2014.
La novità del Fir risiede nell’allargamento dei confini del “pregiudizio ingiusto” come presupposto per aver diritto al risarcimento, ma soprattutto nell’ampliamento della platea dei beneficiari, che ricomprende adesso anche gli azionisti, senza alcun limite economico per l’accesso al ristoro.
Il recente accordo, da quanto si apprende dai giornali, interviene proprio su quest’ultimo profilo, reintroducendo un filtro per l’accesso: al risarcimento sarebbero infatti ammessi i risparmiatori che nel 2018 avevano un Isee non superiore ai 35 mila euro o in alternativa un patrimonio inferiore a 100 mila euro. In sostanza, anche se il rispetto dei due limiti non è previsto congiuntamente, almeno su questo punto, si tornerebbe “all’antico”. L’erogazione del risarcimento dovrebbe essere automatica, salvo il controllo sulla correttezza della documentazione presentata, per i risparmiatori la cui condizione economica sia entro questi limiti, mentre sarebbe assoggettata a un accertamento del pregiudizio ingiusto per quelli che li superano.
Non esistono pasti gratis
Al di là delle sacrosante esigenze di tutela dei risparmiatori, vittime, non bisogna dimenticarlo, di una frettolosa e poco mediata entrata in vigore della nuova disciplina comunitaria sulle crisi bancarie (e infatti la stessa Comunità la sta ripensando), le nuove misure, rivolgendosi anche agli azionisti, corrono il pericolo di lanciare messaggi distorsivi al mercato e a tutta la collettività.
Le cronache sui dissesti bancari hanno reso di dominio pubblico la prassi di condizionare la concessione del finanziamento all’accettazione di un ulteriore affidamento da utilizzare per acquistare azioni della banca, con clienti che di fatto diventavano azionisti “coatti”.
Ma il venir meno delle regole di correttezza previste dal nostro ordinamento (le cui singole violazioni sono giustamente sanzionate quando effettivamente accertate) non può tradursi in un riconoscimento generalizzato di un ristoro a chiunque abbia acquistato azioni di una banca successivamente interessata da un dissesto.
Nella narrativa politica dove tutto si confonde in una nebbia di slogan e proclami preelettorali, è appena il caso di ricordare una banalità: l’azione è lo strumento tipico per finanziare le imprese, cioè lo strumento per far affluire nelle loro casse quello che si chiama (altra banalità) capitale di rischio proprio perché il suo destino è soggetto a un’incertezza derivante dall’andamento dell’impresa. Chi investe in capitale di rischio se le cose vanno bene deve guadagnare, se vanno male deve perdere: bisogna tenere dritta la barra sul principio che non esistono pasti gratis.
Sono due ovvietà che però reggono e giustificano i mercati finanziari e la loro funzione di supporto all’economia reale. È sbagliato mettere sullo stesso piano la figura del risparmiatore e quella dell’investitore, che impiegano i loro soldi con finalità diverse.
L’accordo, con l’introduzione dei limiti di accesso alla misura basati sulla condizione economica dei clienti delle banche, sembra mettere una pezza a quando consentito dalla legge di bilancio. Non prevede però una correzione di
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GIUSTIZIA E NORME
Magistratura italiana
Federica Francesconi – 4 aprile 2019
Il Presidente della Repubblica italiana (ma non il mio) ha di nuovo proferito verbo, regalandoci un’altra delle sue perle di saggezza che rimarranno scolpite a caratteri cubitali nella storia di questo sciagurato paese. Rivolgendosi ai magistrati ha dichiarato che “l’uso imprudente dei social media offusca la vostra credibilità”.
Quindi, a detta della massima carica dell’anti-Stato, i problemi della magistratura italiana non sono gli errori giudiziari, le lungaggini nelle indagini e nei processi, la troppa discrezionalità dei giudici nell’interpretazione della legge, ma l’uso di Facebook e il pericolo di “farsi suggestionare dal clamore mediatico e dalla spinta emotiva di un presunto sentimento popolare.
Io vorrei che il Presidente della Repubblica ripetesse queste insulsaggini, scandendo lentamente ogni parola, al papà di Stefano Leo, il cui figlio è stato ucciso per un sorriso da un criminale che avrebbe dovuto essere in galera per una sentenza definitiva che lo aveva condannato in appello a 1 anno e 6 mesi, anziché girare per la città con un coltello da macello in mano, pronto a sgozzare un bianco che aveva una vaga idea di felicità stampata sul viso. Invece, questa bestia era libera di girare grazie al ritardo della Corte d’Appello di Torino, che non aveva ancora emesso l’ordine di carcerazione.
E vorrei che il non mio Presidente scandisse le stesse parole alla studentessa che nel 2017 venne
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LAVORO PENSIONI DIRITTI SOCIALI
“Lavorare meno, lavorare tutti” sogno o realtà?
16.04.19 – Cyprien Batut, Andrea Garnero e Alessandro Tondini
È possibile lavorare meno e tutti, quello che conta è la produttività. Ridurre l’orario di lavoro per decreto non è perciò una grande idea. Ma una discussione sull’organizzazione dell’orario di lavoro, soprattutto nei contratti collettivi, sarebbe utile.
“Lavorare meno, lavorare tutti” sogno o realtà?
16.04.19 – Cyprien Batut, Andrea Garnero e Alessandro Tondini
È possibile lavorare meno e tutti, quello che conta è la produttività. Ridurre l’orario di lavoro per decreto non è perciò una grande idea. Ma una discussione sull’organizzazione dell’orario di lavoro, soprattutto nei contratti collettivi, sarebbe utile.
Più ricco il paese meno si lavora
“Lavorare meno per lavorare tutti”. Torna nel dibattito italiano uno slogan antico dal fascino duraturo. Dal dopoguerra a oggi, le ore di lavoro annuali per lavoratore sono scese in maniera significativa in quasi tutti i paesi Ocse. Se consideriamo appunto i paesi Ocse, più una nazione è ricca, minori sono le ore di lavoro, tanto che il paese in cui si lavora di più è il Messico, quello in cui si lavora di meno la Germania (anche se la comparazione soffre di definizioni e fonti diverse e va quindi trattata con precauzione). A guardare il trend storico, è assolutamente possibile lavorare meno, lavorando tutti, ma il segreto è, come al solito, la produttività. Se si lavora “bene”, si può produrre di più e meglio e quindi essere più ricchi lavorando meno.
Senza aspettare la crescita e la produttività, che in Italia latitano da tempo, si può forzare la mano con un intervento legislativo?
Chi lo propone crede nella teoria della “ripartizione del lavoro” (work-sharing) e cioè che per un determinato livello di produzione, ridurre il numero di ore per lavoratore, anche a salario invariato, permetta di aumentare il numero di persone che lavorano perché le imprese non hanno altri margini di aggiustamento. Una diminuzione delle ore lavorate porterebbe anche ad aumenti di produttività, perché chi lavora meno tende a essere più produttivo. Secondo la teoria “classica”, invece, una diminuzione dell’orario di lavoro, senza una riduzione salariale equivalente, corrisponde a un aumento del costo orario del lavoro e quindi a un calo dell’occupazione.
Gli studi sugli stati che hanno ridotto l’orario
Cosa dice l’evidenza empirica? La letteratura al riguardo è limitata a pochi paesi e in alcuni casi ancora oggetto di dibattito animato, ma i risultati per ora non sembrano fornire elementi per validare la teoria della ripartizione del lavoro.
Le leggi francesi degli anni Ottanta e Novanta con cui i governi socialisti approvarono riforme significative dell’orario di lavoro a parità di salario sono state oggetto di vari studi. Bruno Crépon e Francis Kramarz (2002), per esempio, analizzando la riforma francese del 1982, che ha ridotto le ore settimanali da 40 a 39 a salario invariato, non trovano un effetto positivo sull’occupazione, ma, anzi, un aumento del rischio di disoccupazione a causa del costo orario più elevato, in linea con le previsioni della “teoria classica”. Matthieu Chemin e Etienne Wasmer (2009) studiano l’impatto della famosa riforma delle 35 ore di fine anni Novanta e anch’essi, comparando con il resto della Francia l’andamento dell’occupazione in Alsazia-Mosella, regione meno toccata dalla riforma in quanto più autonoma per motivi storici, non trovano effetti particolari
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LA LINGUA SALVATA
Nazismo de L’Espresso
Andrea Zhok 4 04 2019
Mi è stato appena segnalato un articolo sull’Espresso di un tal Giuseppe Genna, che porta il titolo:
“Ma quale sovranismo: cominciamo a chiamarlo nazismo”.
L’oggetto dell’articolo sono quei figuri come Breivik o Tarrant, l’assassino di Christchurch, che si rifanno alla “supremazia bianca”.
Dopo poche righe “suprematista bianco” diviene “sovranista bianco”.
——
Ora, che gran parte della stampa italiana sia unilateralmente schierata in funzione di militanza Lib-Dem antigovernativa è cosa troppo nota per dover essere ribadita.
Però anche nella propaganda dovrebbero esserci dei limiti di decenza minima, di minima onestà intellettuale.
Non basta aver fatto l’equazione gratuita tra “governo gialloverde” e “governo sovranista”, che già non stava né in cielo né in terra.
No, adesso si fa un passaggio ulteriore in cui “sovranista” è equiparato a “nazista”.
Qui non siamo di fronte a semplice tendenziosità.
Qui siamo di fronte ad una forma inqualificabile di manipolazione semantica
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NOTIZIE DAI SOCIAL WEB
Radio radicale
Lisa Stanton 6 04 2019
Radio Radicale (RR) è l’unica ad avere il privilegio di essere finanziata (18mln annui) sia come radio di partito che come impresa privata di interesse generale, poiché fa le dirette audio delle Camere. La sua sopravvivenza in questi anni è legata al perdurare della contraddizione di essere radio di parte ma anche di tutti.
Un paradosso, e neppure l’unico.
Basti ricordare le storiche battaglie del PR contro la partitocrazia per coglierne un altro, quello di un partito che critica i partiti.
Ricorderete come i Radicali hanno sostenuto per mezzo di pubbliche battaglie (e con un referendum popolare) l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti sul presupposto che tutti i partiti (tranne loro) fossero brutti ladri corrotti. Da ciò, disponendo di ampie fonti di finanziamento private, insorgono per ridurne il potere tranne che a RR, cioè ai radicali.
Questo piagnisteo vittimista ha accompagnato i radicali per 40 anni anche nella spartizione delle poltrone. Siccome i radicali sono piccoli ed antisistema possono allearsi con chiunque senza sporcarsi le mani. Dopo aver concorso insieme alla Magistratura ed alla CIA alla distruzione della classe politica della prima repubblica, sono infatti passati ininterrottamente tra Berlusconi e Prodi con la velocità di una pallina da ping pong.
Emma Bonino fu eletta nel ’94 con la Lega, e sempre con pochi voti, perché il successo dei radicali è strettamente legato ad essere una élite liberale che si gioca perennemente la carta del prezioso fiore in via di estinzione, che non si può lasciar morire. Né si può criticarlo per essere passato per tutto l’arco costituzionale: va con chiunque per sopravvivere, non per potere. A sporcarsi le mani con
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PANORAMA INTERNAZIONALE
Guaidó perde la battaglia dell’”intervento umanitario”
da aurorasito
Mision Verdad 16 aprile 2019
Il 24 febbraio, le copertine dei giornali del mondo urlavano dell’incendio degli “aiuti umanitari” che cercavano di far entrare colla forza da Cúcuta. Immediatamente il governo venezuelano fu reso responsabile. “La comunità internazionale potrebbe vedere, co i propri occhi, come il regime usurpatore ha violato il protocollo di Ginevra, dove si dice chiaramente che distruggere aiuti umanitari è un crimine contro l’umanità”, aveva detto Juan Guaidó il giorno prima circondato dal presidente colombiano Iván Duque e dal segretario generale dell’OAS Luis Almagro. La stessa linea fu ripetuta da portavoce come John Bolton o Mike Pompeo, oltre al senatore Marco Rubio, che ferito nell’orgoglio personale aveva augurato che Maduro venisse linciato come il leader libico Muammar Gheddafi. Sei giorni prima, l’antichavismo per bocca di Guaidó diceva che l’aiuto sarebbe entrato con una valanga umanitaria mobilitando 600mila volontari registrati per tale compito. Infine, il numero di volontari fu molto meno del previsto per un’operazione che il New York Times descrisse come “tentativo dell’opposizione di minare le basi del Presidente Maduro nella fornitura di cibo”. Secondo lo scienziato politico Dimitri Pantoulas, tale consegna fu “al 99% forza armata e all’1% umanitaria”, e se falliva, l’immagine della “presidenza ad interim di Guaidó” ne sarebbe stata danneggiata. Il risultato fu che alcun importante militare accettò l’appello di Guaidó e gli Stati Uniti dovettero smettere di parlare dei camion bruciati quando il New York Times pubblicò video che mostravano che erano stati bruciati dai militanti anti-chavisti. Tuttavia, la consegna di aiuti umanitari continua ad essere utilizzata come forma di pressione contro lo Stato venezuelano per influenzarne gli affari interni. In tale contesto, il problema fu uno dei più nominati dalla coalizione dei Paesi latinoamericani ed europei guidati dagli Stati Uniti nell’ultima sessione del Consiglio di sicurezza dell’ONU.
La Croce Rossa, il governo del Venezuela e la prima consegna
Dieci giorni prima del 23 febbraio, la Vicepresidentessa del Venezuela Delcy Rodríguez incontrava le autorità della Croce Rossa per “rivedere i meccanismi di cooperazione volti a rafforzare il sistema sanitario venezuelano”, dopo che gli accordi furono firmati nel 2018 con questa organizzazione e la Pan American Health Organization coll’obiettivo di evitare il blocco delle medicine e delle forniture da parte degli Stati Uniti. All’inizio di febbraio, la Croce Rossa era stata chiara con la decisione di non partecipare alla consegna di aiuti umanitari degli Stati Uniti a quasi 40000 persone, ovvero lo 0,13% della popolazione venezuelana. “Non lo faremo perché viola i principi di neutralità, indipendenza e non ingerenza negli affari interni di uno Stato sovrano”, affermava l’organizzazione, che nello stesso tono chiese che la consegna fosse concordata col governo venezuelano. Fu così che, dopo la consegna di cibo e medicine da parte di Cina, Russia e PAHO, la Croce Rossa annunciò a metà marzo che ad aprile avrebbe portato rifornimenti, medicine e cibo in Venezuela per 650 mila persone. Da parte sua, il presidente Nicolás Maduro riferì dell’accordo tra Croce Rossa e governo bolivariano per “collaborare con le agenzie delle Nazioni Unite allo scopo di portare in Venezuela tutti gli aiuti umanitari possibili”. La prima spedizione dell’organizzazione arrivava all’Aeroporto Internazionale di Maiquetía, nello Stato costiero di Vargas. Durante la consegna, il Ministro della Salute Carlos Alvarado spiegò che si trattava du 24 tonnellate di medicinali e 14 gruppi elettrogeni, tra gli altri, da distribuire per metà agli otto ospedali della Croce Rossa e metà agli ospedali del servizio sanitario pubblico. “Chiediamo che questo grande risultato non sia politicizzato”, aveva detto il rappresentante venezuelano della Croce Rossa Mario Villarroel, durante lo scarico
Continua qui: http://aurorasito.altervista.org/?p=6716
POLITICA
GOLPE? PRATICAMENTE IN DIRETTA
Maurizio Blondet 18 Aprile 2019
Dal giornale delle procure, e dei 5 Stelle:
Armando Siri indagato per corruzione, i pm di Roma: “Tangente da 30mila euro in cambio di emendamenti”
Il sottosegretario Siri indagato: «Mi viene da ridere, è una follia. Non so assolutamente nulla di questa storia e poi di emendamenti me ne chiedono ottocento al giorno»
Danilo Toninelli ritira le deleghe a Siri
In una nota del ministero si legge: “Secondo il Ministro, una inchiesta per corruzione impone infatti in queste ore massima attenzione e cautela”
https://www.huffingtonpost.it/2019/04/18/danilo-toninelli-ritira-le-deleghe-a-siri_a_23713827/
– Di Maio: “Per me dovrebbe dimettersi dal governo. Linea intransigente”
Commenti sul web (copio e incollo)
“Ma che corruzione è se la mazzetta non è stata pagata e la norma non è stata cambiata?
“Qui si parla di due tizi intercettati che dicono che vogliono dare una mazzetta a siri per un emendamento che non è mai stato fatto, di una mazzetta mai ricevuta perché siri non ne sapeva nulla!
“Uno dice al telefono: voglio dare una mazzetta a Siri per introdurre un emendamento, la mazzetta non viene pagata, Siri non sa nulla, l’emendamento non viene inserito. Come al solito i giudici entrano a gamba tesa nella vita democratica del paese e non pagano mai niente
“? #Siri indagato ma per i magistrati NON sarebbe stato a conoscenza dei legami tra l’imprenditore mafioso e l’ex parlamentare Arata. R
“È ufficialmente iniziata la campagna elettorale Il sottosegretario Armando Siri è indagato per
Continua qui: https://www.maurizioblondet.it/golpe-praticamente-in-diretta/
SCIENZE TECNOLOGIE
Il paradosso insiemistico del barbiere di Russell e il paradosso di Cantor
di Fabiano Colombari (sito) – domenica 25 febbraio 2018
Paradosso di Russell (1902) o del barbiere
L’antinomia può essere enunciata, informalmente, quanto segue:
“In un villaggio vi è un solo barbiere, un uomo ben sbarbato, che rade tutti e solo gli uomini del villaggio che non si radono da soli. Chi rade il barbiere?”
- Se la risposta del paradosso fosse che il barbiere si radesse da solo verrebbe contraddetta la premessa secondo cui il barbiere rade solo gli uomini che non si radono da soli.
- Così se il barbiere non si radesse autonomamente, allora dovrebbe essere rasato dal barbiere, che però è lui stesso.
Sia per i casi 1. e 2. abbiamo quindi una contraddizione che nasce dal problema di dove vada incluso il barbiere. Per assurdo non possono esistere barbieri con le caratteristiche sopra citate.
Analogamente ed insiemisticamente possiamo identificare gli uomini che si radono da soli alla categoria degli insiemi che appartengono a se stessi e gli uomini che vengono rasati dal barbiere, non radendosi da soli, appartengono agli insiemi che non appartengono a se stessi.
Quindi,il barbiere è un insieme che appartiene a se stesso se e solo se non appartiene a se stesso.
Con più formalità:
Il paradosso di Russell è la più notevole smentita al principio di comprensione per cui un insieme è identificato come l’estensione di una proprietà, con tale paradosso si mise in discussione l’insiemistica ingenua cantoriana e il sistema logico fregeano. Dall’assioma di comprensione comprendiamo che, dato un predicato, esiste un insieme formato dagli elementi che godono di tale predicato. Poiché gli insiemi possono avere altri insiemi come elementi, risulta concettualmente chiaro che alcuni insiemi possono essere elementi di se stessi.
“L’insieme di tutti gli insiemi che non appartengono a sé stessi appartiene a se stesso se e solo se non appartiene a se stesso.”
Supponendo che qualunque sia la proprietà E(x), x:E(x) sia un insieme. Bertrand Russell considera precisamente la proprietà di un insieme di “non appartenere a sé stesso”.
In questo caso definendo E(x) come x∉x anche R=x:x∉x sarebbe un insieme.
Quindi: x∈R ⇔ x∉x per ogni insieme x.
Essendo R un insieme possiamo effettuare la sostituzione R∈R ⇔ R∉R.
R∈R ⇔ R∉R viola il principio di non contraddizione stabilito dalla logica classica (un enunciato non può essere vero o falso in contemporanea, facendo banalmente un esempio non può piovere se e sole se non piove quindi R non può appartenere (∈) a R se e solo se non appartiene a sé stesso).
Si tratta di una conclusione evidentemente inaccettabile, che deriva da premesse
Continua qui: https://www.agoravox.it/Il-paradosso-insiemistico-del.html
STORIA
I PRIMI 100 ANNI
AUGUSTO SINAGRA – 23 03 2019
All’ora del Vespro di 100 anni fa a Piazza San Sepolcro a Milano si adunarono reduci combattenti, arditi e futuristi, nazionalisti e socialisti, poeti e sindacalisti rivoluzionari, ebrei, cristiani e agnostici, operai e borghesi. Si unirono a “fascio” e nacquero i Fasci Italiani di Combattimento. Nacque il Fascismo; nacque quella che fu e rimane l’idea più audace, più moderna, più mediterranea e più europea che fosse mai stata prima concepita.
E fu Rivoluzione che si concluse vittoriosamente il 28 ottobre 1922 con la Marcia su Roma.
Fu anche violenza? Si, fu anche violenza in risposta a più grave, altrui violenza. Né le rivoluzioni si fanno chiedendo permesso ed esse si legittimano per il loro esito positivo.
Nacque lo spirito nazionale che significa consapevolezza di sé e rispetto per l’estraneo. Fu senso della solidarietà e di appartenenza e sforzo comune per il bene collettivo. Fu esaltato il lavoro in tutte le sue manifestazioni.
Fu costruito lo Stato sociale con una imponente e poderosa legislazione sociale, dalla Carta del Lavoro, alla previdenza obbligatoria, all’assistenza sanitaria, all’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, e si potrebbe continuare a lungo.
Fu il trionfo del lavoro e il superamento della lotta di classe contro il capitalismo e il collettivismo. Era la “terza via”. Alle vacue enunciazioni delle libertà civili e politiche fu anteposta la concreta realizzazione dei diritti sociali ed economici che danno senso e contenuto ai primi. Alla libertà individuale fu anteposta la libertà del Popolo senza la quale non esistono libertà individuali.
Furono difesi i legittimi interessi nazionali, furono difese le idee e la religione, e fu guerra di Spagna. Fu redenzione dei miseri contro la schiavitù millenaria, e fu guerra in Abissinia. Altri Popoli furono accomunati in un comune destino nel nome del Fascio Littorio.
Fu difesa l’integrità territoriale, l’indipendenza politica e la sovranità monetaria ed economica dello Stato.
Furono commessi errori anche gravi come l’inutile infamia delle leggi di discriminazione razziale, ma gli ebrei furono difesi in Italia e all’estero dagli stessi Comandi militari e civili fascisti. Ancora oggi lo testimoniano gli storici israeliani come per esempio Leon Poliakov o Selah Menachem.
Poi fu guerra mondiale provocata e voluta dalle cosiddette demomassoplutocrazie occidentali per distruggere il modello economico e sociale fascista e la sua sovranità monetaria. Con la vergognosa resa incondizionata (non armistizio) sembrò essere la fine della Patria ma uomini in piedi la difendono ancora.
Il Fascismo fu sconfitto sul campo di battaglia e la vittoria fu del nemico esterno e dei nemici interni che tradirono volgarmente. Fino alla oscenità di Piazzale Loreto.
La sconfitta sul campo di battaglia non è però la sconfitta delle idee e sono 100 anni che si parla di Fascismo e se ne parlerà sempre
Continua qui:
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