NOTIZIARIO STAMPA DETTI E SCRITTI
24 LUGLIO 2019
A cura di Manlio Lo Presti
Esergo
Se si è buoni si appare vili;
bisogna essere malvagi per passare da coraggiosi.
FRIEDRICH NIETZSCHE, Frammenti postumi 1887-1888, Adelphi, 1990, pag. 325
https://www.facebook.com/Detti-e-Scritti-958631984255522/
Le opinioni degli autori citati possono non coincidere con la posizione del curatore della presente Rassegna.
Tutti i numeri dell’anno 2018 e 2019 della Rassegna sono disponibili sul sito www.dettiescritti.com
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SOMMARIO
Bibbiano e la rete pedofila internazionale
Il silenzio sull’orrore di Bibbiano
Perché Falcone e Borsellino saltarono in aria in quel modo 1
La filosofia nel mondo contemporaneo: la McDonaldizzazione della filosofia 1
L’unione europea ha cambiato il nome del nostro Paese: per Macron e socie dovremmo chiamarci PORTALIA
Il potere superiore di oggi reprime gli Stati sovrani
Gli agenti di influenza di Israele 1
Gli intellettuali di oggi sono stupidi, ma anche ingrati 1
Perché scrive certa gente?
Comparazioni e interpretazioni critiche su John Dewey. 1
Assange. I dieci dossier di Wikileaks che hanno fatto imbestialire Pentagono, Cia e Casa Bianca 1
Sotto le macerie del Muro Un viaggio a ritroso nei segreti della Stasi 1
È INVASIONE ISLAMICA:+127MILA MUSULMANI IN 1 ANNO. 1
FT – Non trattate il FMI come un premio di consolazione per la UE. 1
“Germanizzazione”… quando Rampini nel 1996 scriveva che… 1
Quello stretto riserbo sulla malattia. L’ospedale: “Era in cura da un anno” 1
La tragicommedia del diritto alla privacy. 1
BIBBIANO, RIFORMA DURANTE L’ULTIMO GOVERNO PD HA RESO PIÙ FACILE TOGLIERE I BAMBINI ALLE FAMIGLIE. 1
Non vedere la propria figlia da tremesi
L’Europa sta morendo, solo che non se ne è accorta
PER LA PROCURA LA RACKETE NON ANDAVA SCARCERATA. 1
Sciismo, iranismo, e sunnismo. Perchè perdura la confusione. 1
Come furono inventati i palestinesi 1
iL FLOP DI PAPA FRANCESCO NELLE MARCHE. 1
Il fondo del barile
Di Steano: fascismo e antifascismo?
Il capro espiatorio. Israele e la crisi dell’Europa 1
Le suore di clausura del PD e i rubli
Sarà la Microsoft a creare il primo Terminator 1
Il farsi della storia
EDITORIALE
Bibbiano e la rete pedofila internazionale
Manlio Lo Presti 23 luglio 2019
La rabbia di un partito ex progressista, ex tutore dei lavoratori, ex sostenitore dello Stato sociale, ex sostenitore dello sviluppo economico, ex 40% e ora al 9% velocemente verso il 4%, si sente circondato e aggredisce creando collegi di vari avvocati a tutelare i propri quadri ed esponenti locali accusati di aver commerciato con i bambini sottratti utilizzando una efficientissima filiera horror che sembra aver avuto un numero di “collaboratori” superiore a quello ipotizzato ad inizio indagine.
Il giro di affari era notevole. Ogni piccolo veniva allocato presso case-famiglia e poi assegnato a coppie gay, alcune delle quali sembra che abbiano violentato i minori presi in carico! Ogni minore poteva far incassare a questa miserabile banda bassotti da 30.000 a 100.000 euro.
Sulla vicenda del paesino emiliano di Bibbiano era subito calato un silenzio totale, testimonianza del fatto che il 90% dei media è in mano al gruppo politico filo oligarchico immigrazionista buonista neomaccartista. Fa eccezione una rete televisiva russa
La pressione della gente in piazza e sulla rete, indignata dallo schifo di questa ignobile vicenda sulla pelle dei bambini piccoli, sta montando al punto da costringere – ripeto costringere – le maggiori reti tv e una parte della carta stampata a darne notizia.
Un giornale del nord, più servile degli altri, con efficiente zelo di autocensura, ha perfino raccontato la vicenda dicendo che il responsabile era un sindaco senza indicare il partito di appartenenza.
Altri canali tv e carta stampata diffondono con lentezza, mostrando di essere costretti a farlo!
A questo punto arriva il livello di censura nel nostro Paese!
Una situazione degna di un Paese sudamericano o di una dittatura orientale asiatica o africana.
Non è un caso che la libertà di stampa in Italia sia al 46° posto della graduatoria mondiale (1) collocandosi dietro a Paesi considerati meno civili.
Il Pd, principale indiziato in questa orribile vicenda, reagisce nel modo peggiore:
- nomina un collegio di avvocati per difendere il proprio esponente invece di sospenderlo in attesa di chiarimenti;
- minaccia querele a mitraglia contro tutti coloro che osano parlarne;
- ingaggia la magistratura, in gran parte sua storica fiancheggiatrice, perché le indagini prendano una piega favorevole;
- invoca un maggiore “controllo” del web;
- rilancia gonfiando ad arte la questione rubli.
Assordante il silenzio delle grandi firme e di politici neomaccartisti fra i quali: Saviano, Lerner, Mentana, Gramellini, Riotta, Padellaro, Rampini, Augias, Boldrini, Fiano, Cirinnà, Bonino, Murgia, Albinati ed in genere di gran parte del teleguidato mediocre generone intellettualoide filosofico-saggistico-narrativo italiano.
Aggiungiamo, nell’elenco sottostante non esaustivo:
- Silenzio dell’effervescente inquilino del Colle.
- Silenzio schifoso e ipocrita de EL PAPA, abituato a ben altri massacri e a centinaia di migliaia di scomparsi quando era nel suo Paese.
- Silenzio delle alte sfere vaticane solo attivissime ad intrufolarsi ad intermittenza e convenienza nella autonomia di un Paese straniero.
- Silenzio del cardinale elettricista a spese della popolazione italiana.
- Silenzio e nessun urlo indignato di ONG, COOP, UNICEF, movimenti volontaristici, cristiani e non.
- Silenzio dell’Onu, pronto però ad inviarci ispettori perché siamo stati cattivoni con i cosiddetti migranti (solo quelli paganti però, quelli poverissimi devono morire divorati dagli avvoltoi).
- Silenzio degli organismi mondiali e della comunità europea a tutela dell’infanzia, pronti a proteggere i Rom e solamente, esclusivamente ed ossessivamente i c.d. migranti paganti.
- Silenzio dei sindacati, pronti a bacchettare l’attuale governo, dopo un lungo letargo fiancheggiatore dei governi precedenti a trazione neomaccartista e anglofrancotedescaUSA
- Nessuna reazione di piazza.
- Silenzio dei movimenti femministi, del #metoo e simili.
- Non ci sono 160-180 girotondi in tutto il Paese.
- Nessun martellamento a reti unificate.
- Silenzio nelle 17-30 trasmissioni politiche e pseudoculturali, sempre prontissime a notomizzare qualsiasi mossa del governo attuale.
- Silenzio delle magliette rosse.
- Silenzio dei “possessori di Rolex”, sempre solerti a straparlare di altro.
- Silenzio delle organizzazioni sindacali i cui esponenti godono della scorta e auto a spese della stremata popolazione italiana.
Un silenzio così vasto e ramificato in tutti i livelli della società accresce il sospetto che la lobby pedofila internazionale sia aumentando la sua pressione mostrando una potenza che non predice nulla di buono.
A questa potentissima, repressiva e ramificata lobby si affianca il crescente e miliardario (in euro) mercato degli organi!
Inoltre, non sappiamo nulla sul destino di oltre 18.ooo (diciottomila) bambini che scompaiono ogni anno in europa.
P.Q.M.
Rimane di sconcertante attualità il principio del “follow the money” detto “Metodo Falcone” (2)
La chiave di lettura dei fatti riguardanti i bambini elettrificati, deportati ed infine consegnati a coppie di violentatori paganti anche fino 100.000 euro per ciascun piccolo, non è il principio morale spesso ipocrita, ma è quello di seguire i guadagni ed il loro percorso.
Il resto è volgare retorica ad usum Delphini scientificamente praticata da questa miserabile casta politica e dall’informazione a libro paga di oscuri (ma mica tanto) registi, in forma più appropriata, qualcuno – che poi è stato assassinato – ha chiamato “MENTI RAFFINATISSIME”
Ne riparleremo … per anni, purtroppo!
1) https://it.wikipedia.org/wiki/Indice_della_libert%C3%A0_di_stampa
2) https://www.youtube.com/watch?v=hbAk7oirxfk
IN EVIDENZA
Il silenzio sull’orrore di Bibbiano
Nicola Porro – 22 luglio 2019
VIDEO QUI: https://youtu.be/N-p1y2kbQbQ
00:00 Lo scandalo di Bibbiano, una brutta storia con bambini sottratti illecitamente alle famiglie naturali da assistenti sociali Lgtb.
E il Pd accusa Lega e 5stelle di strumentalizzare i bambini.
03:45 Luca Bottura, autore tv mancato, non riesce ad accettare la vicenda Bibbiano. Chissà perché …
06:55 La lettera del governatore Fontana contro
Continua qui:
Perché Falcone e Borsellino saltarono in aria in quel modo
Scritto il 24/7/19 – Paolo Franceschetti
Saltarono in aria, quei giudici, perché avrebbero fatto saltare per aria il sistema. «Con Falcone arriva il segnale della pace tra Stato e mafia, mentre con la strage di via D’Amelio in cui muore Borsellino si dà il via alle leggi che azzerano i poteri della magistratura». Sul blog “Petali di Loto”, il 19 luglio 2019 – anniversario della strage di via D’Amelio – Stefania Nicoletti richiama le analisi offerte nel corso degli anni dall’avvocato Paolo Franceschetti, con l’aiuto dell’allora collega Solange Manfredi. Già legale delle “Bestie di Satana”, Franceschetti ha dedicato studi coraggiosi al fenomeno dei delitti rituali (dal Mostro di Firenze in poi), tutti “firmati” in realtà da killer dediti a forme di esoterismo degenerate in occultismo criminale. Uomini protetti da forti coperture a livello istituzionale, a volte funzionale alla strategia della tensione o comunque alla manipolazione psicologica delle masse. «Esempio: l’individuo che viene arrestato non è mai un giudice, un politico, un notaio, un medico, un ufficiale, un docente universitario. E’ sempre un contadino semi-analfabeta, una povera madre presentata come pazza, un giovane drogato e sbandato. E’ il capro espiatorio perfetto, attraverso cui far sapere alla gente che è in buone mani e non corre pericoli, visto che il potere è pulito. Invece è vero esattamente il contrario».
Lo si è intuito, in modo atrocemente sanguinoso, osservando i retroscena inquinatissimi delle morti ravvicinate di Falcone e Borsellino. Dopo la seconda, in particolare, si cominciò a parlare di “trattativa Stato-mafia”. Affrontò il tema Vincenzo Calcara, uno dei pochi collaboratori di giustizia che possono veramente essere chiamati “pentiti”. «Il dottor Borsellino – scrisse, nel suo memoriale – era in possesso di verità scomode», di fronte alle quali «in tanti si devono vergognare per averlo lasciato solo al suo destino». Calcara era stato segnato dall’incontro col magistrato, che gli aveva cambiato la vita: una vera e propria redenzione morale. C’erano due piani alternativi per uccidere Borsellino, ricorda Franceschetti: il primo prevedeva l’uso di un fucile di precisione ed era affidato proprio a Calcara, mentre nel secondo caso – un’autobomba – il futuro pentito avrebbe svolto soltanto un lavoro di copertura. «Poi però da Palermo arrivò l’ordine, direttamente da Totò Riina: prima, avrebbe dovuto essere ucciso Giovanni Falcone». Così, Calcara riuscì a non uccidere l’uomo che, anni dopo, gli avrebbe salvato la vita, facendolo rinascere come essere umano. Ma Riina era veramente “il capo dei capi”, o invece era solo il “prestanome” di qualcuno molto più potente, protagonista occulto dell’infinita finita strategia della tensione italiana?
Lo stesso Riina affermò che Borsellino non sarebbe stato “condannato” dalla mafia, ma probabilmente da uomini dello Stato. E nel caso, perché mai? «Forse perché aveva capito che la cosiddetta “trattativa” non era altro che un accordo per realizzare un piano eversivo di destabilizzazione dello Stato, condotta da un “sistema criminale” composto da mafia, massoneria deviata e servizi segreti deviati?». Riguardo alla possibile manovalanza, alternativa o contigua a quella strettamente mafiosa, Solange Manfredi cita le dichiarazioni rese da un ex paracadutista della Folgore, Fabio Piselli, coinvolto nelle indagini sul rogo della nave “Moby Prince”. Una ricostruzione scioccante, che mette insieme la strage di Capaci e quella di via D’Amelio, l’autobomba fiorentina di via dei Georgofili e la bomba romana di via Fauro. Italia fragilissima, all’epoca: Tangentopoli e passaggio cruciale dalla Prima alla Seconda Repubblica, sotto le forche caudine di Bruxelles, dopo aver spazzato via – a colpi di inchieste – l’intera classe politica. Decisivo, secondo Solange Manfredi, il ruolo nefasto di una sigla-fantasma ma onnipresente, in quegli anni: la Falange Armata.
Esisteva dal 1985, sembra, ma compare per la prima volta soltanto il 4 gennaio 1991, quando a Bologna vengono uccisi tre carabinieri nel quartiere del Pilastro. L’ultima apparizione mediatica è del 27 novembre 1994, con il seguente comunicato: “Di Pietro è un uomo morto”. Di mezzo ci sono Falcone e Borsellino, le minacce a Di Pietro per le indagini su Craxi, un’autobomba scoperta a Roma in via dei Sabini a cento metri da Palazzo Chigi, il palagiustizia di Padova dato alle fiamme. Il 19 luglio ‘92, la Falange Armata rivendica l’attentato costato la vita a Borsellino. Un anno dopo, il 16 settembre del ‘93, la Procura di Roma individua in 16 ufficiali del Sismi i telefonisti che rivendicarono le azioni della fantomatica sigla terroristica. Cos’era, la Falange Armata? Secondo l’ex parà Fabio Piselli, «è stata una operazione modello, continuata e mai inquinata, compartimentata e soprattutto posta in sonno e mai disattivata da parte di un organo inquirente o ispettivo». In questo modo «ha raggiunto i propri obiettivi». Dopodiché “l’operazione” «è stata semplicemente conclusa», e i suoi “operativi”, di fatto, «hanno continuato a fare il proprio lavoro», dedicandosi ad altre mansioni e lasciando gli inquirenti impegnati a inseguire una falsa pista, cioè «una “organizzazione”, e non una semplice “operazione”».
Risultato scontato: indagini finite in un nulla di fatto, «o con l’arresto di mere, ignare pedine, o di qualche povero innocente sacrificato per confondere gli inquirenti, il quale si è fatto qualche mese di galera ingiustamente e la cui vita è stata rovinata». Omicidi, rapine, attentati, sequestri. E poi: infiltrazioni in attività militari e politiche, trafugamento di armi dello Stato, addestramento di civili in attività militari. Ancora: spionaggio politico e militare, intercettazioni illegali, violazione e utilizzo del segreto d’ufficio, peculato, attentato alla democrazia. «E’ ciò che l’operazione Falange Armata ha posto in essere fra il 1985 ed il 1994 attraverso gli operatori, attivati singolarmente o in piccole squadre», dice Piselli. E’ tutto? No, certo. Sulla “trattativa”, la prima indagine fu archiviata nel 2000 per decorrenza dei termini, ricorda Franceschetti, prima che Antonio Ingroia riaprisse il caso, su cui ormai si sono scritti fiumi di inchiostro. Quello di cui invece Franceschetti è rimasto l’unico a parlare, invece, è un dettaglio sfuggente: il ricorrere – veramente impressionante – delle stesse modalità simboliche che costellano i fatti di sangue “mediatici”, sia gli attentati terroristici che molti delitti in apparenza comuni, destinati alla semplice cronaca nera.
Dopo anni di ricerche, Franceschetti ha individuato una “firma” ancora più elusiva di quella della Falange Armata: è la Rosa Rossa, specializzata in delitti rituali anche eccellenti, come quelli del cantante Rino Gaetano e del ciclista Marco Pantani. Personaggi da “punire” secondo lo schema – dantesco – della “legge del contrappasso”, attraverso modalità maniacalmente simboliche, a partire dai nomi dei luoghi (mai casuali) e delle date in cui i delitti si consumano. La morte come tragico cerimoniale, in cui si mette in scena – capovolgendolo – ciò che il malcapitato aveva rappresentato, in vita. Gaetano? Vittima di uno stranissimo incidente stradale, soccorso da una strana ambulanza e morto dissanguato dopo esser stato rifiutato da quattro diversi ospedali – esattamente come nella “Canzone di Renzo”, uscita postuma, in cui saranno gli stessi assassini a portare a spalle la bara. Pantani? Ucciso al residence “Le Rose” di Rimini. Accanto al corpo, un biglietto: “Oggi le rose sono contente, e la rosa rossa è la più contata”. A chi dava fastidio, Pantani? Al business del doping, che coinvolge potenti ambienti massonici: droghe prodotte nei laboratori di Big Pharma, testate sui ciclisti e poi immesse sul mercato (anche quello della guerra, destinate ai soldati).
E Rino Gaetano? Nel brano “Nuntereggae più” cita Vincenzo Cazzaniga, storico percettore dei fondi neri Usa indirizzati alla Dc, mentre nella canzone “Mio fratello è figlio unico” menziona “il rapido Taranto-Ancona”, che poi le indagini sugli anni di piombo avrebbero rivelato essere “il treno delle spie”, usato dai servizi deviati per trasportare gli esplosivi destinati alle stragi nelle piazze. Secondo Franceschetti, neppure Falcone e Borsellino sono sfuggiti al lugubre copione simbolico del “contrappasso”: riferendosi all’inferno della Divina Commedia, «la persona da eliminare morirà secondo la logica di far patire alla vittima il “peccato” che questa avrebbe commesso». Un classico: «Molti dei testimoni del disastro di Ustica, il Dc-9 dell’Itavia abbattuto, moriranno in un incidente aereo». Lo stesso Fabio Piselli, testimone dell’incendio della “Moby Prince”, è caricato su un’auto che poi viene incendiata: doveva quindi morire in un rogo, anche lui. Oppure il caso del perito Luciano Petrini: stava facendo una perizia sulla strana fine del colonnello Mario Ferraro, del Sismi, trovato impiccato all’asciugamani del bagno. Ebbene, Petrini morirà a colpi di portasciugamani».
La casistica esaminata da Franceschetti è davvero vasta.
L’antropologa Cecilia Gatto Trocchi, che smascherava crimini di matrice esoterica, volò dal balcone:
«Chi sale troppo in alto, viene gettato dall’alto».
Le vie dei killer sono pressoché infinite: «Qualcuno può morire fulminato dalla corrente elettrica come il giovane contestatore siciliano Giuseppe Gatì, perché il fulmine simboleggia la folgore di Zeus che punisce la persona che ha osato troppo». E la chiave simbolica della spaventosa morte di Falcone e Borsellino, entrambi dilaniati dall’esplosivo? Tragicamente semplice: «Li hanno fatti letteralmente saltare in aria, perché quei due stavano per far saltare in aria il sistema parallelo che collega la mafia alla parte oscura del potere ufficiale». Falcone, innanzitutto, «doveva morire in Sicilia – e non a Roma, dove sarebbe stato più facile assassinarlo – perché proprio sull’isola si erano svolte le sue indagini: la regola del contrappasso esigeva quindi che morisse nella stessa terra ove aveva “peccato”». Inoltre, aggiunge Franceschetti, «doveva saltare in aria in modo eclatante, proprio perché voleva far saltare il sistema». Attenzione: «Falcone aveva capito che il fulcro del sistema criminale in Italia non è la mafia. E’ lo Stato. E sono le banche. Quindi doveva saltare in aria perché l’esplosione con cui muore fa da contrappasso all’esplosione che lui voleva assestare al “sistema”».
Non è casuale neppure la scelta del luogo dell’agguato: «Falcone è morto a Capaci, a simboleggiare che chiunque sia “capace”, deve morire». La cosa può suonare ridicola, ammette Franceschetti, ma suggerisce di riflettere sul fatto che «stiamo parlando di un’associazione che non lascia nulla al caso, neanche i nomi delle persone che vengono messe in determinate posizioni di vertice politico
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https://www.libreidee.org/2019/07/perche-falcone-e-borsellino-saltarono-in-aria-in-quel-modo/
La filosofia nel mondo contemporaneo: la McDonaldizzazione della filosofia
Di Saint Simon – Maggio 19, 2019
Dal sito dell’American Philosophical Association, un appassionato articolo sull’influenza della mentalità aziendale sull’insegnamento della filosofia negli Stati Uniti – valido, temiamo, non solo per la filosofia e per gli Stati Uniti. L’autore denuncia quella che chiama “la McDonaldizzazione della filosofia” , ovvero la riduzione dell’insegnamento e della pratica della disciplina a logiche commerciali degne dell’industria del fast food, dove l’enfasi è tutta sulla misurabilità e la prevedibilità del prodotto (l’insegnamento, la produzione accademica) e la soddisfazione del cliente (lo studente); così i professori vengono degradati a camerieri sottopagati e la filosofia a un insapore prodotto di consumo. Soggiogata al pensiero burocratico, perde la sua natura radicalmente critica della realtà. Per questo l’autore richiama a una “feroce resistenza” dei filosofi contro questo processo.
di Edward Delia, 9 maggio 2019
Mentre le società si evolvevano oltre l’era preindustriale, sono diventate sempre più dominate dalla burocrazia. In ogni caso, la forma finale della burocrazia è la McDonaldizzazione (Ritzer, 1996). Rappresenta un’ampia gamma di burocrazie dominate dai principi del settore del fast food, ovvero: efficienza, valutabilità, prevedibilità e controllo. Questi principi stanno piano piano arrivando a dominare sempre più settori della società, sia in America che all’estero. Sfortunatamente, la McDonaldizzazione adesso sta influenzando la stessa filosofia. Come uomini e donne di pensiero, non dobbiamo trascurare questo pericolo. Non dobbiamo permettere che il campo della filosofia divenga permanentemente McDonaldizzato da potenti amministratori, burocrati ritualistici, imprenditori alla ricerca del profitto e politici dilettanti. È tempo di usare il potere delle idee per combattere questa usurpazione della saggezza.
La McDonaldizzazione incarna l’idea che tutte le attività umane possano essere contate, calcolate e quantificate. L’enfasi è sulla quantità piuttosto che sulla qualità, sull’omogamia piuttosto che sulla diversità, sugli slogan piuttosto che sull’intelligenza logica, sulle battute da film piuttosto che sugli auguri di cuore, sui sorrisi vuoti piuttosto che sulle espressioni sincere, sulle routine piuttosto che sulle alternative intelligenti, sulle interazioni para-sociali piuttosto che sugli scambi faccia a faccia, sulle uniformi piuttosto che sugli abiti scelti con criteri estetici, sulla minimizzazione dei pericoli piuttosto che sulle sagge precauzioni e sul controllo amministrativo piuttosto che sull’iniziativa auto-determinata. Soprattutto, incarna il trionfo della soggettività sull’oggettività, risultando in una blanda stupidità, in un monotono pseudo-idealismo, in una conformismo monodimensionale, e in una bruttezza odiosa e compiaciuta che servirà da monumento alla stupidità.
La filosofia è il più grande prodotto dell’intelletto umano. Come filosofi dovremmo essere guidati dalle menti più grandi della civiltà umane del passato. Dobbiamo alla loro memoria, a noi stessi, e all’umanità futura il non restare inerti e permettere questo tradimento della ragione. Non dobbiamo permettere che “l’irrazionalità della razionalità” abbia il sopravvento sulla ragione.
L’enfasi sulla quantità invece che sulla qualità è insulsa. Quanti libri o saggi abbia scritto un filosofo non è importante quanto la qualità di ciò che ha scritto. Un’opera immortale vale un migliaio di opere minori. Anche l’omogamia è odiosa. Conduce ad una semplicità noiosa e priva di originalità, dove qualsiasi filosofo ricorda qualsiasi altro filosofo, in una duplicazione meccanica. Alcune riviste richiedono saggi di una certa lunghezza, in un formato definito, o che devono trattare temi che incarnano valori conformisti che nessuno osa mettere in dubbio. I maggiori editori di libri spesso giudicano i libri di filosofia solamente sulla base di
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BELPAESE DA SALVARE
L’UNIONE EUROPEA HA CAMBIATO IL NOME DEL NOSTRO PAESE: PER MACRON E SOCI DOVREMMO CHIAMARCI “PORTALIA”
Danilo Bonelli 23 07 2019
Nelle intenzioni dell’Unione Europea nelle prossime carte geografiche quella penisola lunga e stretta che dall’arco alpino si protende nel Mediterraneo non dovrebbe più essere denominata Italia bensì Portalia. L’unico ed esclusivo porto di attracco – assieme a Malta – di tutto il flusso dell’immigrazione africana.
Questo delinquenziale progetto partorito dalla mente pervertita di Emmanuel Macron è stato beffardamente chiamato “meccanismo di solidarietà”, anche se in realtà manifesta con chiarezza l’intenzione di trasformare l’Italia in un gigantesco centro di accoglienza.
Secondo Macron tutti gli immigrati che dall’Africa si mettano in mare devono approdare nel porto sicuro più vicino, quindi in Italia oppure a Malta dove poi – in un secondo tempo – verrebbero redistribuiti in quei Paesi europei che accettano di accoglierli.
Davvero singolare questa strana forma di umana solidarietà che designa un terzo a svolgere il ruolo del generoso che si sacrifica per tutti. Come faceva quel tale che invitava tutti a pranzo a casa degli altri.
Quindi, riepilogando noi dovremmo accogliere milioni di africani e
se poi qualche altro Stato membro dell’UE si offre di prenderne qualcuno bene,
altrimenti ce li teniamo tutti noi,
diventano un problema esclusivamente nostro.
Probabilmente dopo questa uscita Bergoglio proclamerà beato in vita il Presidente francese in attesa della sua santificazione e il PD ci farà sapere che se non aderiamo a questa iniziativa ci isoliamo pesantemente dal contesto europeo …
Ormai come ragionano da certe parti lo sappiamo bene.
È già arrivata la risposta ferma e perentoria di Salvini che aveva già preso le distanze da questa riunione rifiutandosi giustamente di parteciparvi: stop signori, non se ne parla neppure.
Ed è proprio in queste circostanze che Matteo Salvini – ormai bollato dai suoi detrattori come “il truce” forse perchè fa stupidamente rima con duce – ridiventa l’unica nostra speranza in questo contesto di mascalzoni.
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CONFLITTI GEOPOLITICI
Il potere superiore di oggi reprime gli stati sovrani.
Lisa Stanton 23 07 2019
L’integrazione europea che si sta svolgendo davanti ai nostri occhi sta anche portando alla scomparsa del pluralismo all’interno di questo nuovo conglomerato a favore del potere sovranazionale. La globalizzazione è stata concepita dall’inizio come una struttura verticale strettamente controllata da un potere sovranazionale
….
La fine del comunismo ha anche segnato la fine della democrazia, il totalitarismo si sta diffondendo ovunque perché la struttura sovranazionale impone le sue leggi ai singoli stati. Questa sovrastruttura antidemocratica impartisce ordini, impone sanzioni, organizza embarghi, lancia bombe. provoca fame. Anche Clinton lo obbedisce. Il totalitarismo finanziario ha soggiogato il potere politico. Emozioni e compassione sono estranee al freddo totalitarismo finanziario. Rispetto alla dittatura finanziaria, la dittatura politica è umana. La resistenza era possibile nelle dittature più brutali. La ribellione contro le banche è impossibile.
Il totalitarismo democratico [liberale] e la dittatura finanziaria escludono la possibilità di una rivoluzione sociale perché uniscono un potere militare onnipotente a una stretta finanziaria. Tutte le rivoluzioni hanno ricevuto supporto dall’esterno. D’ora in poi questo è impossibile perché non ci sono stati sovrani, né ci saranno. Inoltre, al livello più basso la classe lavoratrice è stata sostituita con la classe dei disoccupati [e ora con il sottoproletariato immigrato]. Cosa vogliono i disoccupati? Lavoro. Pertanto, si trovano in una posizione meno vantaggiosa rispetto alla classe operaia del passato.
La superideologia [il liberalismo di sinistra] del mondo occidentale, sviluppatasi negli ultimi cinquant’anni, è molto più forte del comunismo o del socialismo nazionale. A un cittadino occidentale viene fatto il lavaggio del cervello molto più di quanto non fosse mai stato fatto ad un cittadino sovietico durante l’era della propaganda comunista. L’idea della globalizzazione o, in altre parole, il dominio del mondo! Poiché questa idea è piuttosto spiacevole, è nascosta dietro lunghe frasi sull’unità mondiale, sulla trasformazione del mondo in un tutt’uno integrato…
In realtà, l’Occidente ha iniziato il compito dei cambiamenti strutturali in tutto il pianeta. Da un lato la società occidentale domina il mondo, dall’altro viene ricostruita verticalmente con il potere sovranazionale in cima della piramide.
Per quanto riguarda la propaganda, si presume che la creazione del governo mondiale sotto il controllo del parlamento mondiale sia auspicabile perché il mondo vivrebbe in una grande fratellanza. Tutte queste sono solo narrazioni pensate per la plebe.
L’Unione europea è un’arma per la distruzione delle sovranità nazionali. Fa parte dei progetti sviluppati da organismi sovranazionali.
Credo che la mostruosità del 21° secolo supererà tutto ciò che l’umanità ha mai visto fino ad oggi. Numerosi conflitti locali continueranno ad esplodere uno dietro l’altro di modo che la macchina della “guerra umanitaria”, che abbiamo già visto in azione, possa continuare a spegnerli. In effetti, questa probabilmente diventerà la soluzione per estendere il controllo sull’intero pianeta.
Allora le nazioni che hanno fondato la civiltà moderna (intendo i popoli latini), scompariranno gradualmente. L’Europa occidentale sta già esplodendo con gli stranieri e questo fenomeno non è accidentale e non è certamente la conseguenza dei presunti flussi incontrollabili di migrazione umana.
Potrebbe essere un progetto razionale lasciare solo un numero limitato di persone al mondo, che potrebbe quindi vivere in un paradiso terrestre. Quelle rimanenti crederanno sicuramente che la loro felicità sia il risultato dello sviluppo storico … Ma no. Tutto ciò che conta è la vita che noi e i nostri cari viviamo oggi.
Aleksandr Zinov’ev, 1999
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Gli agenti di influenza di Israele
Markus 23 Luglio 2019 – PHILIP GIRALDI
Alcuni giornalisti dei media ebraici stanno iniziando a lamentarsi del fatto che il presidente Donald Trump stia “amando Israele” forse un po’ troppo, dal momento che continua a descrivere la sua preoccupazione per lo stato ebraico come la forza trainante che sta dietro ad alcuni dei suoi comportamenti erratici. È un punto di vista che sicuramente condivido, anche se descriverei l’apparente innamoramento della Casa Bianca per Israele come “eccessivo.” Quando il presidente degli Stati Uniti definisce una deputata ‘antisemita’ e le chiede di scusarsi con lui personalmente e anche con Israele, questo è decisamente troppo.
Quindi, Israele è sempre sulle prime pagine, o almeno così sembra, anche se spesso non fa notizia quando la storia potrebbe presentare aspetti troppo negativi. La notizia scompare alla vista non appena viene stabilito che Israele potrebbe risultare coinvolto, come è attualmente il caso di Jeffrey Epstein, oppure l’interferenza israeliana viene completamente eliminata, come nel caso dell’indagine Mueller, in cui il Russiagate avrebbe dovuto essere chiamato Israelgate, dal momento che era Israele che cercava favori dalla neo-eletta amministrazione Trump, non certo la Russia. Come aveva detto Noam Chomsky, l’interferenza israeliana nella politica americana “supera di gran lunga” qualsiasi cosa abbia fatto la Russia.
Ho scritto recentemente di come lo stato ebraico lavori duramente per lavare il cervello al popolo americano e limitare le opzioni di politica estera del governo degli Stati Uniti, mettendi in atto sforzi aggressivi per reclutare quelli che le agenzie di intelligence chiamerebbero “agenti di influenza.” Gli agenti di influenza vivono e lavorare in un determinato paese, mentre, allo stesso tempo, perfidamente perseguono gli interessi di un’altra nazione. È ciò di cui George Washington ci aveva avvertito nel suo discorso d’addio, quando aveva detto di stare in guardia “contro le insidiose astuzie dell’influenza straniera (vi scongiuro di credermi, concittadini), la consapevolezza di un popolo libero dovrebbe rimanere costantemente desta, poiché la storia e l’esperienza hanno dimostrato che quell’influenza straniera è uno dei nemici più funesti di un governo repubblicano.”
L’influenza straniera, come potenziale minaccia alla sicurezza nazionale, è anche uno status definito in termini legali dal Foreign Agents Registration Act del 1938 (FARA), che richiede a chiunque lavori per conto di un governo straniero di registrarsi e dotarsi di fonti di reddito trasparenti.
Caso unico, nessuna fondazione o individuo che in America lavora alla promozione degli interessi dello stato ebraico è mai stato tenuto a registrarsi ai sensi del FARA, anche se molti enti, come l’odioso American Israel Public Affairs Committee (AIPAC), si vantano senza ambiguità sui loro siti Web di essere “Lobby americane filo-israeliane.” Molte di queste fondazioni sono considerate no-profit, e quindi esenti da tasse [501 (c) 3], il che significa che il contribuente americano sta contribuendo a sostenere la loro attività. Ma essere un ente di beneficenza senza scopo di lucro non significa necessariamente austerità, dal momento che gli stipendi dei dirigenti di alto livello sono molto generosi. L’Ebreo canadese Mark Dubowitz, della Fondazione per la Difesa delle Democrazie (FDD), una no-profit 501 (c) 3, riceve 560.000 dollari all’anno fra stipendio e benefit. Da molti anni l’FDD invoca la guerra all’Iran.
La fondazione più recente istituita dagli amici di Israele per promuovere gli interessi dello stato ebraico è la Edmund Burke Foundation, che, la scorsa settimana, ha ospitato una conferenza sul “nazionalismo.” La conferenza è stata illuminante, perchè la Burke Foundation è guidata da un Ebreo israelo-americano che precedentemente era stato direttore esecutivo dei Cristiani Uniti per Israele (CUFI). L’evento si è tenuto al Ritz-Carlton di Washington D.C., cosa che ha fatto capire come i Burkeani non siano certo a corto di soldi. I gruppi filo-israeliani sembrano sempre avere molti Benjamin [biglietti da 100 dollari, N.D.T.].
Un certo numero di conservatori tradizionali e persino alcune organizzazioni erano stati ingannati dal materiale promozionale e dall’elenco dei relatori ed indotti a credere che il programma fosse legittimo e che si sarebbe concentrato sul sostegno degli interessi nazionali e sulla moderazione in politica estera, ma qualcuno aveva aperto gli occhi quando John Bolton, in qualità di relatore principale, era stato freneticamente applaudito da almeno metà del pubblico.
Per limitare il dissenso, alcuni potenziali critici dell’agenda non erano stati invitati o addirittura era stata deliberatamente negata loro la possibilità di acquistare i biglietti d’ingresso e diversi partecipanti erano rimasti sconvolti da ciò a cui avevano assistito, in pratica una riaffermazione dello status quo della politica estera, a beneficio dei falchi di Washington e di Israele. Inevitabilmente, alcuni imbecilli fuori dal mondo non erano stati in grado di capire che venivano manipolati ed erano rimasti stranamente incantati da ciò che stavano vedendo e sentendo. E non preoccupatevi se siete tra quelli che hanno perso l’evento. Probabilmente verrà replicato tra qualche mese, con un nome diverso e con un cast di personaggi leggermente differente.
Lo strumento israeliano più visibile per entrare in contatto con gli Americani che potrebbero rivelarsi utili sono i viaggi VIP tutti spesati che vengono organizzati per i membri del Congresso. I nuovi membri del Congresso viaggiano regolarmente in Israele per eventi farsa dopo pochi mesi dalla loro entrata in carica. Una delle principali cheerleader filo-israeliane del Congresso, Steny Hoyer del Maryland, ha visitato lo stato ebraico molte volte e [gli Ebrei] possono far conto su di lei per fare pressioni sui membri neoeletti del Congresso ed indurli ad intraprendere il viaggio. Anche altri Americani che potrebbero in futuro diventare influenti ricevono il trattamento di riguardo dalla macchina dell’ospitalità israeliana. I cadetti militari americani delle accademie e dei college vengono ora portati in Israele ad apprendere una versione di fantasia del conflitto israelo-palestinese. Indubbiamente, alcuni di essi vengono preparati agli approcci dell’intelligence, una volta che saranno entrati in servizio.
Il che ci porta alla storia del pedofilo Jeffrey Epstein e al modo in cui essa è stata gestita dal governo e coperta dai media da quando era esplosa, due settimane fa. Nessuno, al di fuori dei media alternativi, sembra essere interessato alla possibilità, o meglio alla probabilità, che Epstein lavorasse per un servizio di intelligence straniero, molto probabilmente quello israeliano. Sui media ufficiali l’affare Epstein era stato ucciso quasi immediatamente, sommerso dalla storia di Donald Trump che dice ad alcune congressiste di tornare da dove sono venute.
È improbabile che l’aspetto spionistico dei presunti crimini di Epstein possa anche solo essere indagato, da una parte perché coinvolge lo stato ebraico e poi perché sembra comprendere la partecipazione di politici di spicco di entrambi i partiti e di altre figure pubbliche. Lo stato profondo farà morire la storia, cosa che potrebbe anche capitare ad Epstein mentre si trova in carcere.
La prova che Epstein fosse coinvolto in un lavoro dell’intelligence, molto probabilmente corrompendo o ricattando persone importanti, inducendole così a favorire gli interessi di Israele, deriva sia dalla dichiarazione rilasciata dall’ex procuratore americano di Miami, Alexander Acosta, secondo cui “mi era stato detto che Epstein apparteneva all’intelligence e che avrei dovuto lasciarlo in pace” e da altre prove esterne. Epstein filmava i suoi ospiti mentre facevano sesso con le sue giovani ragazze, e questa è la classica tecnica di cooptazione dell’intelligence chiamata “trappola al miele,” che viene utilizzata dalle principali agenzie di spionaggio di tutto il mondo. E la
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https://comedonchisciotte.org/gli-agenti-di-influenza-di-israele/
CULTURA
Gli intellettuali di oggi sono stupidi, ma anche ingrati
«Siamo di fronte ad un processo di marcescenza di un’intera generazione di intellettuali».
Con queste parole, il filosofo torinese Costanzo Preve fotografava con chiarezza e distinzione gli intellettuali occidentali. Dopo essersi adattati alle peggiori nefandezze del Novecento, gli intellettuali per Preve si sono adagiati al più opportunistico nichilismo, irridendo a tutti colori i quali, sulla scia della filosofia antica, ma anche di Kant e di Hegel, sostengono invece ancora che il mondo abbia un senso. Il nocciolo della questione, per Preve, consiste nel fatto che gli intellettuali hanno fatto diventare teoria filosofica una delusione personale. Detto diversamente, l’acidità, il sarcasmo, il pessimismo di gran parte degli intellettuali non sarebbero altro che il frutto del loro personale fallimento, che però in modo imperdonabile avrebbero assolutizzato. Inoltre, questi intellettuali avrebbero occupato in modo “militare” l’editoria, le università e le scuole, facendo così passare per buono il loro messaggio antiveritativo in cui tutto viene relativizzato in modo assoluto. Le posizioni degli intellettuali di queste ultime generazioni, per Preve, sono dunque nichilistiche, ma anche opportunistiche, perché non portano alla lacerazione di sé, al dubbio, alla ricerca incessante, ma al disincanto consolatorio e all’inutile trastullo del proprio potere mediatico che consente però loro di vendere al mercato i loro prodotti concettuali i quali, nella maggior parte dei casi, sono un’apologia mascherata dello status quo.
Questa lettura del culturame fatta da Preve si aggrava dal fatto che questi intellettuali sono mediamente meno dotti delle generazioni precedenti, laddove effettivamente esisteva e si poteva facilmente riscontrare una certa “distanza” dal sapere comune. Detto altrimenti, se intellettuali come Kant o anche come Marcuse erano molto più colti delle persone comuni, la stessa cosa non può dirsi di personaggi come Umberto Eco o Massimo Cacciari, i quali fanno osservazioni simili a quelle che si sentono al bar. E’ ironico il fatto che Eco – forse perché consapevole di questo – a pochi mesi dalla morte se la sia preso proprio con la gente comune, rea di scrivere sui social le stesse
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http://micidial.it/2019/06/gli-intellettuali-di-oggi-sono-stupidi-ma-anche-ingrati/
Perché scrive certa gente?
Niram Ferretti – 22 luglio 2019
“Perché scrive certa gente? Perché non ha abbastanza carattere per non scrivere”, scriveva l’impareggiabile Karl Kraus.
L’apologia di Andrea Camilleri scritta da Roberto Saviano apparsa ieri su “La Repubblica” è un pezzo di antologia di frasi fatte e luoghi comuni, così inconsistente che le parole scritte si cancellano da sole nella mente una manciata di secondi dopo averle lette e quando si è giunti alla fine si ha l’impressione di non avere letto nulla.
Quando la qualità si abbassa, e viviamo un’epoca di abissale abbassamento della qualità, la mediocrità sale e si impone. Il pubblico, un pubblico imbarbarito dall’idiozia della pubblicità, dei tweet, degli slogan, applaude estasiato.
Il venire meno, in questo paese, ma anche altrove, di una vera classe intellettuale, di scrittori, giornalisti, letterati, di grande livello, ha fatto sì che al loro posto, mascherati da ciò che essi erano, si siano presentate sulla scena quelle che, quando loro erano vivi, sarebbero state considerate manovalanze da retrobottega.
Pensare che al posto di Pasolini ci sia Saviano fa venire i brividi, ma già la decadenza si era manifestata in modo palese quando venne conferito il Nobel a Dario Fo. Ricordo che Lucio Colletti, uno dei più raffinati e intelligenti uomini di sinistra che abbia avuto l’Italia, pensò fosse uno scherzo.
No. Non lo era. O forse sì. E’ un brutto scherzo. Quello che ci sta giocando l’epoca tragica e beffarda in cui viviamo, dove tutto è possibile, perchè si sono rotti gli argini, e il ciarpame che una volta era confinato e raccolto in spazi appositi è precipitato a valle, e noi tutti, volenti o nolenti, ci troviamo in mezzo.
Comparazioni e interpretazioni critiche su John Dewey
Pubblicato il 3 giugno 2018 da Comitato direttivo
di Marco Ferrari
Sommario
Premessa
1. Comparare per interpretare
2. La polemica con Russell e il ruolo di Dewey nel pragmatismo
3. Per la fondazione scientifica dell’educazione
4. Darwinismo e indeterminismo
5. Il rapporto con Benedetto Croce
6. Conclusioni
Bibliografia
Premessa
Lo strumentalismo di John Dewey, per profondità e valore epistemologico, è il maggior contributo al pragmatismo americano. La sua vasta produzione intellettuale si presenta come ricerca e applicazione del metodo dell’indagine scientifica nell’ambito della filosofia, allo scopo di rinnovarla, e in molti campi della dimensione pubblica, principalmente nello stretto legame tra democrazia e educazione. Le ramificazioni del pensiero deweyano sono interconnesse e delineano un progetto in cui rifluiscono tutti i possibili interessi del pensatore americano, nell’ottica della realizzazione di un umanesimo democratico. Nell’ecletticità di questa ricerca è rinvenibile una concezione del mondo che Dewey ha maturato negli anni della sua formazione, influenzata dal congregazionalismo protestante e dagli studi su Hegel e l’idealismo. Dewey parla di un passaggio dall’assolutismo idealista al naturalismo, al metodo sperimentale proprio delle scienze, ma il rapporto tra queste due “anime” del suo pensiero è oggetto di interpretazioni. Alcuni studiosi ritengono che vi sia una cesura tra un primo e un secondo periodo; altri, che non vi sia soluzione di continuità, grazie alla dimensione religiosa. In questo lavoro, attraverso l’analisi di interpretazioni critiche di diversi autori, si tenta di appurare se non vi sia piuttosto un superamento dell’idealismo in quanto metodo, conservandone però l’obiettivo monistico di fondo: la matrice hegeliana può essere considerata come il “collante” che concilia le varie dimensioni di un pensiero dinamico, aperto e sempre attuale. A tale scopo, si prenderanno qui in esame alcuni aspetti particolari: l’interpretazione del ruolo di Dewey nella filosofia americana e la polemica con Russell; la fondazione di una scienza dell’educazione come lato pratico e applicativo della filosofia dell’educazione deweyana; l’influenza, attraverso la riflessione di Dewey sullo sviluppo storico della scienza, dell’evoluzionismo darwiniano e delle teorie della fisica quantistica sullo strumentalismo; il contrasto, infine, con la filosofia europea nell’analisi del “confronto mancato” con Benedetto Croce, nel quadro delle consonanze e delle differenze tra le rispettive concezioni, che assurgono a linee di pensiero esemplari della filosofia occidentale tra America ed Europa.
- Comparare per interpretare
Gli studi sulla vasta produzione deweyana tendono, in linea di massima, a occuparsi di aspetti specifici in relazione ad ambiti talvolta distanti dagli interessi del filosofo americano[1]; alcune interpretazioni hanno accostato Dewey ad altri filosofi come Marx e lo stesso Hegel[2] per definirne il ruolo nel pensiero americano, o ne hanno incluso la produzione filosofica negli alberi genealogici di varie correnti di pensiero, come il neopositivismo.
Senza dubbio, la complessità del pensiero e l’articolazione degli interessi rendono lo strumentalismo un metodo applicabile in vari campi, anche prescindendo dalle conclusioni cui lo stesso Dewey è giunto. La possibile arbitrarietà di tali accostamenti consente di superare eventuali limiti interpretativi che rischierebbero di chiudere in una turris eburneail pensiero deweyano, la cui fecondità può esprimersi invece nel confronto a tutto tondo.
Nell’attuale fase di renaissance dell’opera di Dewey, la tendenza alla comparazione ha forse ceduto il passo a una visione più autonoma, ma non mancano esempi di grande interesse in cui il confronto si svolge ad alto livello: nel corso del Convegno Internazionale “Croce e Dewey, oggi”[3], sono state proposte importanti riflessioni sul nesso fra lo strumentalismo e il neoidealismo e lo storicismo italiano ed europeo del primo Novecento. Tre interventi, in particolare, hanno messo in luce aspetti fondamentali del pensiero di Dewey: riguardo all’educazione nella società democratica, l’attenzione è stata rivolta al problema della ricognizione delle fonti che hanno influito su Dewey in merito alla fondazione scientifica della pedagogia[4]. Per quanto concerne la riflessione sulla scienza e il rapporto che essa instaura con la filosofia, condizionandone i criteri, è stato analizzato l’impatto delle scoperte di Darwin e delle teorie della fisica di Einstein e Heisenberg sulle basi del naturalismo deweyano[5]; infine, in merito al “confronto mancato” con il neoidealismo, in particolare crociano, l’attenzione è stata rivolta non soltanto ai punti di contatto tra le rispettive concezioni estetiche, ma soprattutto riguardo ai temi della sfera civile pubblica e alle differenze strutturali su cui si basa l’incompatibilità delle due linee di pensiero[6].
- La polemica con Russell e il ruolo di Dewey nel pragmatismo
La formazione hegeliana di Dewey è alla base delle divergenze tra lui e il filosofo inglese Bertrand Russell. Per quanto convergenti su molti punti, le due posizioni filosofiche si scontrano sull’argomento che entrambe ritengono centrale nella conoscenza: la logica. In effetti, Russell descrive il pensiero di Dewey come “olistico”[7], tendente a sintetizzare i risultati dell’indagine conoscitiva in una visione organica, che abbraccia tutto lo scibile in ogni tipo di indagine particolare, non importa quanto specifica. È evidente come ciò sia in contrapposizione alla filosofia dell’atomismo logico di Russell, il quale invece punta all’analisi degli elementi primari della struttura logica del linguaggio, quindi alla scomposizione e alla riduzione. D’altro canto, Dewey ha sempre criticato questa idea di logica, in quanto appiattita sulla matematica applicata alla formulazione linguistica dei risultati dell’indagine[8].
Mario Alcaro ha dedicato a questa polemica un capitolo di un suo importante studio su Dewey[9], sottolineando come spesso gli studiosi di tale rapporto concentrino la loro attenzione sulle concordanze (in verità numerosissime)[10], più che sui punti di disaccordo. Analizzare questi ultimi, invece, aiuta a comprendere come mai due filosofie così prossime alla fusione con il pensiero scientifico, così lontane dalla metafisica e dall’astrattezza, si ritrovino però in contrasto sulla logica e la possibilità della conoscenza. La differenza primaria risiede nel modo di concepire la natura della logica stessa: Dewey adotta una prospettiva organica, per cui la conoscenza è un processo a metà tra l’antropologia e la biologia; Russell, al contrario, prescinde dai processi organici e basa la sua visione della logica sui presupposti delle scienze matematiche, come la fisica e l’astronomia. L’interesse per la scienza, comune a entrambi, muove da angolazioni molto diverse e di difficile conciliazione sul piano filosofico. Russell espunge, per quanto possibile, ogni elemento “umanistico” dalle sue considerazioni, quindi intende la logica come una analisi formale del linguaggio; in campo filosofico, ne deriva una riduzione della complessità astratta dei ragionamenti all’analisi delle espressioni che li costituiscono, per come sono costruite attraverso parole ed elementi di cui è necessario stabilire un significato preciso. Soprattutto, è forte l’attenzione al particolare, al dato di fatto e alle asserzioni espresse su di esso, la cui imprecisione genera l’errore. Ecco allora che per Russell l’indagine del reale (cioè la filosofia) si basa sulla logica formale del linguaggio, sulla ricognizione delle proposizioni elementari costituenti teorie e ipotesi, e sull’analisi della struttura logica interna di queste proposizioni elementari. Come risulta chiaro, non vi è posto per l’idea di processualità organica deweyana. La scienza cui il filosofo americano si avvicina è il darwinismo, l’evoluzione organica di ogni elemento della realtà, impossibile da isolare e “atomizzare” senza snaturarne il ruolo con un artificioso isolamento. Questa sorta di analisi grammaticale dei concetti filosofici e degli stessi dati di fatto rischia, secondo la visione di Dewey, di slegare completamente gli elementi dal contesto in cui si formano, cioè dalla concretezza storica delle situazioni che li generano e a cui essi si riferiscono. Il problema, sottolinea Russell, è che proprio l’idea di continuità tra gli elementi e la conseguente impossibilità ad analizzarli singolarmente rende il concetto di “situazione” potenzialmente infinito, ossia un tutto unico e assoluto che trascende dal particolare per arrivare all’universale[11].
Un’altra questione in cui si passa dall’accordo al contrasto è la natura dei dati empirici[12]. Dewey e Russell convengono sulla distinzione tra idee e fatti e che questi ultimi, in quanto all’origine della conoscenza del reale, servono al raffronto della correttezza delle idee (delle convinzioni, delle asserzioni); i due pensatori forniscono però definizioni di “fatto”, cioè di dato empirico, diametralmente opposte. Russell sostiene che un dato empirico, cioè sensibile, è originario, certo nella sua particolarità; la possibilità di conoscerlo attraverso i sensi (si tratti di un colore, di un rumore, di uno stato tattile ecc.), ossia la sensazione, è il contatto immediato con il dato sensibile, in cui non vi è possibilità di errore finché non si attribuisce a quel dato qualcosa che va oltre la sua immediata natura sensibile. La semplicità e la particolarità dei dati sensibili rendono questi autosufficienti, non dovendo la possibilità logica della loro esistenza a nessun’altro fattore. Né la conoscenza immediata di tali dati può essere sbagliata, perché l’errore avviene nel momento successivo alla conoscenza diretta, ossia quando si traggono inferenze da quella stessa conoscenza. Da qui prende le mosse la filosofia dell’atomismo logico, per cui i fatti atomici (dati semplici e assolutamente certi) costituiscono una gerarchia di enunciati via via meno semplici quante più relazioni contano al loro interno, ma l’insieme, il tutto, resta formato da elementi semplicissimi di cui si ha conoscenza immediata. Dewey sostiene l’opposto: i dati non sono originari, non hanno completezza e autosufficienza, bensì sono derivati da un’opera di selezione e restrizione di elementi all’interno di un contesto più grande, cioè di una situazione reale, rispetto alla quale è necessario compiere un’indagine conoscitiva. La selezione riguarda pertanto quei dati sensibili in base ai quali è possibile definire i contorni di un problema contingente, pertanto la natura di tali dati sul piano logico è dipendente da altro. Se così non fosse, come nel caso della teoria di Russell, l’esistenza di fatti autosufficienti e indipendenti sarebbe possibile solo in senso aprioristico, postulando questi fatti atomici come “connessione di atomi” su basi non empiriche, in quanto non si riscontrano legami empirici ancora più semplici dei fatti atomici, cioè dei dati empirici stessi.
Qui, Alcaro ribadisce che la concordanza di Russell e Dewey sulla necessità di confrontare i risultati del pensiero con i fatti reali, nonché di ritenere gli enunciati linguistici i mezzi dell’indagine, e non il loro oggetto (che sono appunti i fatti reali), ha posto entrambi gli autori in contrasto con tutti i massimi esponenti del neopositivismo e dell’epistemologia di ispirazione popperiana. Per questi, il controllo della teoria si risolve interamente nell’ambito del linguaggio, dei rapporti tra enunciati teorici ed empirico-osservativi, quindi la ricerca della correttezza delle idee non necessita di elementi di confronto extralinguistici. Ma Russell fa notare che il linguaggio è in sé costituito da fenomeni sensibili, non linguistici, ed è nel rapporto tra le parole e le cose che si ha la funzione essenziale delle parole stesse. Separare il linguaggio dal rapporto con i fatti, chiuderlo in un mondo a se stante, implica negare la possibilità di conoscere i fatti e quindi di sapere di cosa si stia parlando[13].
Tuttavia, il confronto delle idee con i fatti richiama il punto di divergenza massima tra i due filosofi, ovvero il criterio di verità. Mentre per Russell la verità si basa sulla corrispondenza tra l’asserzione e i fatti, Dewey sostiene che una asserzione è il mezzo attraverso cui si conoscono i fatti, quindi se la verità si basasse sulla corrispondenza, si conformerebbe a un fatto conosciuto attraverso se stessa. Ciò implica la sospensione del giudizio su quelle asserzioni che servono come mezzo per l’indagine (asserzioni intermedie), mentre per il giudizio sull’asserzione finale, risultato dell’indagine, bisogna condurre esperimenti che ne confermino o ne neghino l’attendibilità rispetto alla soluzione del problema. La questione è complessa e dà adito a varie incomprensioni, comunque secondo Russell la verità delle asserzioni è stabilita dalla causa delle asserzioni stesse, o meglio dal rapporto che intercorre tra un’asserzione e ciò che la provoca; per Dewey, al contrario, la verità viene stabilita dagli effetti che un’asserzione produce. In altre parole, per Russell la verità e la verifica sono due cose separate, perché un evento che sia veramente accaduto resta vero anche prima di una verifica posteriore, quindi una asserzione su quell’evento è vera per propria causa, mentre la verifica fornisce le prove per qualcosa di diverso da se stessa. Dewey non può accettare una soluzione del genere perché è riduzionista e finisce col negare la processualità delle interazioni che coinvolgo pienamente soggetto e oggetto nel campo di indagine di un problema; secondo Alcaro, in ciò vi è la consapevolezza che il riconoscimento delle affermazioni di Russell aprirebbero la strada alla risoluzione dello strumentalismo nell’atomismo logico, ma la difesa della posizione negativa sui giudizi di verità o falsità delle asserzioni intermedie porta a contraddizioni interne alla filosofia deweyana. Conclude perciò che, in realtà, sarebbe sufficiente ammettere il requisito di verità o falsità anche per le asserzioni intermedie, come suggerisce Russell, fermo restando che la verità o falsità dell’asserzione finale è dettata dalla verifica sperimentale.
Quanto emerge da questa polemica è la profonda differenza di prospettiva nella filosofia deweyana rispetto all’adozione del metodo scientifico, tanto nel campo della logica come teoria della conoscenza, quanto nella configurazione dei rapporti tra sperimentazione scientifica e tendenza all’organicità. Russell non ha dubbi sulla matrice idealistica hegeliana che persiste dentro e contro il procedimento scientifico di Dewey, infatti usa il termine “olismo” quasi come un’accusa nei confronti del collega americano. Nonostante la critica serrata all’idealismo e al pensiero metafisico in generale, Dewey sembra riversare in maniera inconscia una tensione verso l’assoluto in ogni sua elaborazione filosofica; se riuscisse a liberarsene – sembra voler dire Russell – potrebbe far parte a pieno titolo della filosofia scientifica anglosassone.
Eppure, il ruolo di Dewey nel pensiero americano pare essere proprio quello di far raggiungere al pragmatismo la “maggiore età”, donandogli una profondità che nel pensiero europeo rimanda all’eredità di Hegel. Questa è la tesi di Cornel West[14], il quale parte dal paragone tra figure di spicco delle filosofie americana ed europea: «se Emerson è il Vico americano, e James e Peirce i nostri John Stuart Mill e Immanuel Kant, allora Dewey rappresenta Hegel e Marx insieme in versione americana»[15]. L’intenzione non è, in tutta evidenza, quella di tracciare una linea di corrispondenza diretta tra il valore degli uni e degli altri; bensì di sottolineare la portata rivoluzionaria dei pensatori americani in un ambito culturale molto diverso da quello del Vecchio Mondo. A partire dal trascendentalismo di Emerson, infatti, la filosofia acquista caratteri radicati nell’identità americana, sviluppandosi come una sorta di “religione civile” in cui trovano felice sintesi l’epistemologia e la teodicea ottimistica del sé e della potenza creativa dell’individuo. In sostanza, il pragmatismo prende le mosse da un pensatore di enorme influenza, il cui interesse centrale è la fiducia in se stessi[16], l’entusiasmo creativo e l’operosità in vista del futuro, fatto di conquiste personali e autorealizzazione. Il volontarismo e l’attivismo permeano la visione della storia come “autobiografia eroica” di un sé che crea se stesso; l’individuo è perciò il fondamento della storia. Questi elementi si ritrovano in un modo o nell’altro in tutti gli autori pragmatisti, ma in Dewey vengono rielaborati con una coscienza storica moderna, in cui al valore dell’individuo si affianca l’influenza e l’interazione dei contesti sociali e culturali, presi nella loro contingenza e nel condizionamento esistenziale che ne deriva. In questo modo Dewey supera l’individualismo emersoniano e lo rinnova alla luce della consapevolezza della variabilità costante delle società umane, introducendo così nel pensiero americano un nuovo campo intellettuale: la concezione teorica delle forme sociali concrete di potere, conoscenza, ricchezza e cultura, fuori da ogni dualismo o assolutismo. Così il pragmatismo diventa una teoria storica che ricomprende tanto la ricerca scientifica quanto il miglioramento e la riforma sociale. L’importanza di una tale svolta, rispetto al pragmatismo precedente di James e Peirce, è ascrivibile alla processualità dialettica di Hegel sullo sviluppo storico delle civiltà; ma richiama inevitabilmente anche la posizione di Marx, per il quale la filosofia ha la sua realizzazione in una teoria sociale e storica dell’emancipazione rivoluzionaria.
Nel confronto tra Dewey e Marx, West sottolinea giustamente la differenza di visuale dei problemi sociali, dovuti alle realtà diverse con cui i due pensatori si sono confrontati. Marx ha sviluppato le sue teorie sulla base del capitalismo industriale europeo del XIX secolo, è consapevole del divario enorme e quindi dello scontro tra le classi abbienti e le classi lavoratrici, in un ambiente sociale oppressivo che preclude la libertà e la partecipazione politica tanto degli individui quanto delle masse; per questo gli obiettivi marxisti di riforma sociale prendono la forma della rivoluzione. Dewey parte dal punto di vista di una classe media interessata allo sviluppo della professionalità e alla comunicazione con la classe operaia che, pur essendo sfruttata, negli USA gode già di alcuni diritti. La visione deweyana del marxismo, in un certo qual modo, può essere considerata semplicistica, in quanto attribuisce all’analisi marxista dei fenomeni storici una tendenza alla generalizzazione, una perdita della complessità rispetto a uno schema storico e teorico in cui risolvere le peculiarità dei contesti particolari, in cui emergono determinati problemi legati allo sfruttamento. Ciò è dovuto alla presenza, secondo Dewey, di “residui metafisici” hegeliani nel pensiero di Marx, come l’idea di una storia totalizzante e quindi di una collettività universale; ciò si risolve nella presunta legge economica che governa le trasformazioni sociali. Da questo punto di vista, è chiaro che Dewey nega anche ogni pretesa di scientificità del marxismo, perché isola indebitamente il fattore economico dalle relazioni sociali e culturali, nonché da ogni aspetto non economico della natura umana[17]. Tuttavia, anche il marxismo deve essere giudicato attraverso una valutazione sperimentale, come peraltro lui stesso prova a fare visitando la Russia sovietica nel 1928, lodandone l’innovazione in campo scolastico, ma criticandone la chiusura politica. Dewey comunque non rinuncia a una propria visione storica: l’America affronta la storia come il paese in cui la libertà e il suo sviluppo nella società sono incarnati dalla parte migliore della democrazia americana; il pragmatismo ne è la coscienza critica. In questo modo, Dewey storicizza la filosofia, esattamente come Hegel e Marx. Al contempo, seguendo una linea comune a tutti i pragmatisti, americanizza la storia, leggendola attraverso un punto di vista prettamente nazionale.
Fatte salve le critiche di Dewey a Marx, le somiglianze di fondo tra i due pensatori non sono irrilevanti.[18] Entrambi si formano nell’alveo dell’idealismo hegeliano, ma in seguito ne criticano l’astrattezza; in generale si oppongono a tutto ciò che si presenta come irrazionale o sovrannaturale. L’interesse per il pensiero e il metodo scientifico li porta a interessarsi dei rapporti reali, dello sviluppo storico delle società e delle comunità, della realtà concreta anche in ambito speculativo, rivalutando la filosofia come teoria sociale radicata nella contingenza, non come qualcosa posta fuori dal mondo[19].
- Per la fondazione scientifica dell’educazione
La pedagogia svolge un ruolo molto importante nel pensiero di Dewey, essendo un momento pratico fondamentale per la democrazia; non è possibile separare questa sua ricerca dalle altre, cui è legata da concezioni molto articolate della filosofia e della politica. L’intenzione dichiarata che giustifica questo rapporto tra i rami della ricerca è di ricostruire la filosofia[20], attraverso una revisione delle problematiche collegate alla forma democratica di vita associata e del tipo di educazione che essa richiede; un’educazione che non sia mero indottrinamento ha bisogno perciò di fondarsi su un criterio metodologico scientifico.
Da parte sua, Giuseppe Spadafora chiarisce il senso dell’interazione tra le varie dimensioni del pensiero di Dewey, soffermandosi su un testo del 1929, molto studiato negli ambienti pedagogici italiani, meno in quelli americani, relativo al tema delle fonti di una scienza dell’educazione[21]. Questo saggio si presenta nella forma di una serie di appunti ben argomentati su questioni specifiche, come la relazione scuola-società e i problemi del curriculum; ciò rende interessante il testo poiché mette in luce la differenza tra la filosofia dell’educazione deweyana, organicamente connessa alle riflessioni sulla politica e sulla cultura filosofica, e la scienza dell’educazione, argomento apparentemente secondario e quindi trattato in maniera meno rigorosa in altre opere.
Continua qui:
http://www.coisrivista.it/index.php/comparazioni-e-interpretazioni-critiche-su-john-dewey/
CYBERWAR SPIONAGGIO INFORMAZIONE DISINFORMAZIONE
Assange. I dieci dossier di Wikileaks che hanno fatto imbestialire Pentagono, Cia e Casa Bianca
Abbiamo già segnalato la gravità dell’arresto di Julian Assange dentro l’ambasciata dell’Ecuador a Londra. Il rischio adesso è la sua estradizione negli Stati Uniti dove verrebbe lo aspetta o la pena capitale o il seppellimento a vita in carcere di massima sicurezza. Ma quali sono le sue colpe? Mision Verdad ha messo in fila i dieci dossier rivelati da Wikileaks in questi anni, che hanno scompaginato i piani, le covert action e gli scheletri nell’armadio di apparati come il Pentagono, la Cia, la Nsa, la Casa Bianca e lo stesso establishment politico statunitense.
Bloccare l’estradizione di Assange negli Stati Uniti è un dovere morale per tutti, mandando a quel paese personaggi come Gianni Riotta, gli esponenti del Pd e i tutti i volenterosi mercenari del modello statunitense.
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“Assange è colpevole di aver rivelato al mondo intero l’anima malvagia dell’imperialismo a stelle e strisce”
Nei suoi quasi 15 anni di attività, WikiLeaks ha diffuso oltre 10 milioni di documenti classificati. Tra questi, la maggior parte ha a che fare con piani segreti del governo degli Stati Uniti nei suoi programmi di intelligence, sicurezza e guerra.
La fondazione guidata dal detenuto Julian Assange è stata l’avanguardia in termini di informazioni classificate per anni. Tanto che i suoi principali portavoce sono stati perseguitati da governi alleati con Washington come Svezia e Gran Bretagna. Assange stesso è stato rifugiato dal 2012 in una piccola stanza dell’Ambasciata dell’Ecuador a Londra, fino a quando il governo di Lenin Moreno ha smesso di concedergli questo status.
- Gli archivi di Guantanamo
Nel 2007, hanno pubblicato migliaia di documenti sotto forma di manuali e informazioni sul carcere inaugurato dall’amministrazione Bush nel 2002 a Guantánamo Bay, a Cuba. Gli archivi sono pieni di dettagli sui prigionieri e sui metodi di tortura utilizzati quotidianamente contro di loro nell’ambito di un programma di procedure per il trattamento di persone sospettate di essere terroristi. La Croce Rossa ha confermato che non tutti i prigionieri di Guantanamo sono terroristi e le critiche al funzionamento di questa struttura sono aumentate nel corso degli anni. Qui puoi controllare l’archivio di WikiLeaks sull’argomento.
- Notizie segrete sulle guerre all’Afghanistan e all’Iraq
War Diaries è stato lanciato nel 2010 con quasi 400 mila resoconti riguardanti la guerra in Iraq dal 2004 al 2009. Possiamo trovare tutto, dalle attrezzature militari utilizzate dall’esercito USA in dettaglio, alle informazioni sugli obiettivi militari e civili uccisi, più abusi e torture di prigionieri di guerra nei rapporti. Per indagare sui file inviati, clicca qui.
- Cablegate: una lente d’ingrandimento sulla diplomazia statunitense
Nel 2010, WikiLeaks ha lanciato milioni di cable diplomatici scritti tra il 1966 e il 2010 e pubblicati in diversi media internazionali che mostrano le opinioni dei capi della diplomazia di Washington (tra cui Henry Kissinger) e le istruzioni ai loro diplomatici per spiare politici stranieri, meglio noti come CableGate. I cable confermano la battuta: “Perché non ci sono golpe negli
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Sotto le macerie del Muro Un viaggio a ritroso nei segreti della Stasi
Nel romanzo di Andrea Purgatori riemerge la Guerra fredda. Che forse non è ancora finita
Matteo Sacchi – 19/07/2019
Avete voglia di leggere una spy story che rimandi agli autori classici del genere, a partire da John le Carré? Allora il primo romanzo di Andrea Purgatori, Quattro piccole ostriche (HarperCollins, pagg. 302, euro 18,50) fa per voi.
La trama, infatti, si dipana, come una scossa sismica, da quelle linee di faglia, mai completamente chiuse, che la Guerra fredda ci ha lasciato in eredità.
La narrazione inizia (quasi) dalla fine. Il 31 ottobre 2019 un diplomatico russo, di nome Egor Abalin e di stanza a Berlino, esce dall’ufficio per godersi la sua pausa pranzo. Costretto a una ferrea dieta antidiabete, questa è la sua giornata di libertà gastronomica mensile, a base di döner kebab. Non se la godrà: uno sconosciuto lo uccide sparandogli con una vecchia pistola Makarov. Perché?
È quello che si chiedono gli agenti dell’antiterrorismo tedesca, a partire dal commissario (di origine italiane) Nina Barbaro. I russi vorrebbero un caso chiuso in fretta, suggeriscono di indirizzare le indagini verso l’Isis e il terrorismo islamico. Ma qualcosa a Nina e ai suoi uomini non torna, né nelle modalità dell’omicidio che sembra portare la firma di un professionista, né nelle rivendicazioni posticce che iniziano a circolare online come su richiesta.
Se la polizia ha dei dubbi, due ex agenti della Stasi, Markus e Greta, hanno delle certezze. Hanno lavorato prima della caduta del Muro a un progetto segretissimo, noto come «Walrus». I loro destini dopo lo sfaldamento della Germania Est sono stati molto diversi. Markus ha annusato l’aria in tempo, se l’è data a gambe cambiando identità e capitalizzando i fondi segreti della Stasi in un tenore di vita che molti occidentali si sognano. Greta, un tempo bellissima e amante di Markus, è rimasta in patria, ha pagato sulla sua pelle il fallimento
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DIRITTI UMANI – IMMIGRAZIONI
È INVASIONE ISLAMICA: +127MILA MUSULMANI IN 1 ANNO
È la prima religione tra gli immigrati
Continua a crescere la minaccia islamica in Italia. Se i cristiani – che poi è una parola grossa visto da dove arrivano – sono ancora la maggioranza degli immigrati residenti in Italia, la presenza musulmana è sempre più minacciosa.
Al 1° gennaio 2019 i ‘cristiani’ sono due milioni e 815mila, pari al 53,6% del totale dei residenti stranieri, di cui solo 977mila cattolici (18,6%), un milione e 560mila ortodossi (29,7%), evangelici e altri cristiani.
I musulmani sono invece già un milione e 580mila fedeli, ossia il 30,1% degli stranieri residenti (nel 2018 erano ancora il 28,2%). A dimostrazione di una crescita costante. E non arrivano sui barconi. Arrivano con i folli ricongiungimenti familiari.
Sono le stime rese note oggi da Fondazione Ismu su dati Istat e Osservatorio regionale per l’integrazione e la multietnicità (Orim).
Dall’analisi emerge che gli stranieri musulmani residenti risultano in aumento di 127mila unità rispetto al 2018 (erano 1 milione e 453mila), mentre i cristiani sono diminuiti di 145mila unità (nel 2018 erano due milioni e 960mila
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https://voxnews.info/2019/07/24/e-invasione-islamica-127mila-musulmani-in-1-anno/
ECONOMIA
FT – Non trattate il FMI come un premio di consolazione per la UE
Di Rododak – 23 luglio 2019
Senza peli sulla lingua, Wolfgang Münchau boccia categoricamente il principale candidato in pectore UE al ruolo di direttore del Fondo Monetario Internazionale, Jeroen Dijsselbloem, e sollecita gli altri Stati membri del Fondo a bloccarlo, per impedire che si diffondano nel mondo le perniciose politiche dell’eurozona, basate su quella che è stata la tregedia degli ultimi anni, l’austerità.
Dal Financial Times.
Di Wolfgang Münchau, 21 luglio 2019
Il mondo ha bisogno di un rimpiazzo forte per la Lagarde.
Ancora una volta l’UE insiste su un candidato europeo per l’incarico di direttore dell’FMI. L’ultima volta, nel 2011, ho sostenuto una candidata del genere, Christine Lagarde, che ha ottenuto il posto. Si è appena dimessa per subentrare a Mario Draghi come presidente della Banca centrale europea a novembre. L’ FMI sta cercando un sostituto.
Otto anni fa, ho sostenuto che Christine Lagarde era nella posizione migliore per gestire il singolo più grande compito che il FMI ha affrontato in questo decennio: assicurare che la zona euro contasse su un certo sostegno professionale durante i suoi anni di crisi e prevenire ricadute sul resto dell’economia globale.
Una cosa è che l’UE insista sul proprio candidato quando ne ha uno buono, come nel 2011. Tutt’altro quando così non è. La scorsa settimana i funzionari europei hanno preso in considerazione una rosa di candidati. Tra i primi c’era Jeroen Dijsselbloem, ex ministro delle Finanze olandese e capo dell’Eurogruppo che riunisce i suoi colleghi dell’eurozona. Sia lui sia diversi degli altri candidati nella lista hanno molto di cui rispondere. Hanno promosso l’austerità durante la crisi dell’eurozona. Dijsselbloem è famoso per avere accusato i paesi in crisi di spendere i loro soldi in “alcol e donne”.
I ministri delle Finanze dell’UE sembrano preferirlo a Mark Carney, il governatore uscente della Bank of England. Dijsselbloem è più simile a loro. È cittadino di un paese dell’eurozona. A dire il vero lo è anche Carney, nato in Canada ma con due passaporti europei, di Irlanda e Regno Unito. Ma i ministri dell’UE non lo considerano abbastanza europeo per il ruolo. Potrebbero anche dirgli di tornarsene da dove è venuto.
Un altro argomento fallace a favore di Dijsselbloem è che è un socialista. I socialisti non hanno ottenuto abbastanza, rispetto a quanto speravano, nel recente mercato delle cariche UE che ha portato alla nomina, tra gli altri, della Lagarde. E quindi meritano un compenso. Il posto al FMI è il premio di consolazione perfetto.
Nel momento in cui scrivo, l’UE non ha ancora preso una decisione in merito al candidato che intende sostenere. Se l’eurozona nominasse Dijsselbloem o qualcun altro che abbia avuto ruoli operativi di spicco nel periodo della crisi, consiglierei agli altri stati membri dell’FMI di sostenere un proprio candidato. Oltre a Carney, c’è Agustín Carstens, l’economista messicano attualmente direttore generale della Bank of International Settlements.
Se Boris Johnson diventasse Primo ministro britannico questa settimana, come sembra probabile, dovrebbe associarsi a Donald Trump, il presidente degli Stati Uniti, per sostenere un candidato congiunto USA / Regno Unito. C’è un forte interesse generale nell’impedire all’eurozona di esportare i suoi politici più tossici – e le loro politiche – nel resto del mondo.
A mio parere, il problema di molti dei principali responsabili politici dell’UE è un profondo analfabetismo economico. L’austerità è stata una delle grandi tragedie politiche del nostro tempo. È ciò che sta dietro l’ascesa
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“Germanizzazione”… quando Rampini nel 1996 scriveva che…
Dalla Bacheca Facebook di Gilberto Trombetta che ringraziamo
Ieri, dopo aver smarcato l’uscita, me ne sono andato in biblioteca di ateneo perché volevo verificare rapidamente un paio di cose su dei testi di Wallerstein.
Naturalmente quello che cercavo non l’ho trovato, riproverò con un po’ più di tempo.
Però nel fondo dove vado a pescare libri di mio interesse, frutto di una donazione da parte di uno storico/geografo che insegnava alla Statale, mentre scorrevo i titoli sugli scaffali alla ricerca di quel che avevo in mente mi sono imbattuto in un libro di Rampini, edito da Laterza nel 1996*.
L’ho preso, mi son messo su un banco e gli ho dedicato un’oretta.
Il libro contiene cose che sappiamo, fino allo sfinimento.
Leggerlo oggi può risultare solo noioso, ma ha decisamente un suo interesse nel fatto che sia stato pubblicato nel 1996 e contenga un sacco di citazioni letterali di uomini potenti di quell’epoca (molti rimasti potenti fino ai giorni nostri, altri un po’ dimenticati come Hans Tietmeyer).
Rampini, che alcuni ultimamente sembrano voler indicare come un intellettuale rappresentativo di una “sinistra” che abbia ritrovato del buon senso, è in realtà sempre stato un nemico e questo testo lo dimostra limpidamente.
Il suo unico “merito” è quello di non essere un idiota, come molti suoi colleghi. Il che lo rende più pericoloso, semmai.
Il 1996 era l’anno nel quale veniva eletto Prodi che prometteva «Con l’euro lavoreremo un giorno di meno guadagnando come se lavorassimo un giorno di più».
Dalla sua posizione di caporedattore a La Repubblica, Rampini, godeva di una posizione assolutamente privilegiata non solo perché certamente ben retribuita a soli 40 anni, ma perché aveva modo di avere rapporti diretti con tutta la gente che conta.
In questo libro, senza tante censure, ipocrisie e sposandone a pieno le tesi, dice quello che questa gente che conta pensava e diceva quando governava e non era in campagna elettorale.
La tesi di fondo è “finalmente ci libereremo dello stato sociale ed economicamente interventista, finalmente privatizzeremo tutto”.
Non c’è un solo aspetto della spesa pubblica che non venga bollato come assistenzialismo.
Si dice e ripete più volte che l’apertura dei mercati senza condizionalità politiche serve a imporre ai salari lo standard più basso.
Al di là delle retoriche prodiane si dice apertamente che lo scopo dell’UEM è imporre una “disciplina” alle rappresentanze sindacali – che però si erano per fortuna già vendute ai tempi del compromesso storico facendo cadere la pregiudiziale antiunionista.
Nomi esplicitamente fatti nel testo Amendola e Berlinguer.
Ma per completezza sarebbe stato opportuno citare anche i capi sindacali e lo
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Quello stretto riserbo sulla malattia. L’ospedale: “Era in cura da un anno”
La sofferenza nascosta anche all’azionista. Il nodo dell’eredità
L’urna con le ceneri di Sergio Marchionne si trova accanto alle tombe di mamma Maria, papà Concezio e la sorella Luciana nel cimitero cattolico di Vaughan, nella municipalità di York, a Nordest di Toronto.
Cremazione, estremo saluto e trasferimento delle ceneri da Zurigo al Canada sono avvenuti nel massimo riserbo. Come nel massimo riserbo è stato gestito, da parte della compagna Manuela Battezzato e dai figli dell’ex ad di Fiat Chrysler Automobiles e presidente di Ferrari, sia il ricovero all’Ospedale universitario di Zurigo sia il drammatico percorso clinico che ha portato alla morte.
Marchionne era gravemente ammalato, ma sembra che nessuno – a parte le persone più vicine – lo sapesse, inclusi l’azionista Exor, i vertici di Fca e Ferrari, e i collaboratori più stretti.
Che qualcosa non andasse per il verso giusto lo si notava però chiaramente. Alla presentazione del piano industriale di Fca, avvenuta l’1 giugno 2018, a Balocco, nonostante facesse di tutto per nascondere il problema, Marchionne era visibilmente affaticato e gonfio. Ha comunque scherzato, come faceva sempre, con i giornalisti che aveva voluto salutare nella pausa pranzo, per poi costringere anche il presidente John Elkann, durante la conferenza stampa, a liberarsi dalla cravatta: il debito del Lingotto, come promesso, era stato azzerato; dunque, bisognava festeggiare.
In tanti, in quell’occasione, lo hanno visto sorridere per l’ultima volta. Ma Marchionne, con la vita impossibile che conduceva, aveva abituato chi lo frequentava a mostrarsi una volta in apparente forma e quella dopo l’opposto. «Il dottore
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FINANZA BANCHE ASSICURAZIONI
La vera storia del divorzio tra il Tesoro e la Banca d’Italia, vista dal Ministro delle Finanze che venne subito dopo: Francesco Forte
21 luglio 2019 – Claudio Messora
VIDEO QUI: https://youtu.be/AoMsHRdjrPg
In chiusura, gli ultimi venti minuti, si parla di Output Gap e di Flat Tax. Buona visione.
L’esclusiva intervista, per il gran finale di stagione di Byoblu, al Ministro delle Finanze Francesco Forte, in carica dal dicembre del 1982 all’agosto 1983, quindi pochissimi mesi dopo il cosiddetto divorzio tra il Tesoro e Banca d’Italia, avvenuto nel 1981 su iniziativa di Beniamino Andreatta e Carlo Azeglio Ciampi. Francesco Forte, partendo dagli anni di piombo e dal caso Aldo Moro, e passando per l’ascesa di Bettino Craxi, ripercorre la strada che portò a quella lettera che Andreatta, allora Ministro del Tesoro, scrisse a Ciampi, governatore della Banca d’Italia, il 12 febbraio 1981. Iniziativa che improvvisamente, senza nessun passaggio parlamentare e con ridotti spazi di condivisione perfino con i componenti dei gabinetti ministeriali, si concluse, nell’agosto 1981, con la fine del potere dello Stato di emettere
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GIUSTIZIA E NORME
La tragicommedia del diritto alla privacy
Da Paolo Franceschetti – 7 Febbraio 2018
Il diritto alla privacy nella nostra Costituzione da barzelletta
In questi anni si parla moltissimo di diritto alla privacy. Esiste addirittura una legge apposita, la 196/2003, che comporta una serie di norme minuziose per tutelare la privacy dei cittadini e che ha comportato dal punto di vista fattuale, un’immensa mole di scartoffie da far firmare anche nelle occasioni più demenziali.
Il diritto alla privacy è in realtà una colossale fregatura.
Anzitutto è inesistente nei fatti; qualunque hacker può entrare in ogni pc e sapere vita, morte e miracoli di chiunque.
Inoltre è notorio (e i vari scandali come quello Telecom o quello del dossieraggio illegale del Sisde lo dimostrano) che tutte le categorie di cittadini che presentino possibili potenzialità di rischio per il sistema – quindi politici, giornalisti, avvocati, magistrati, agenti e funzionari delle forze dell’ordine, ma anche dipendenti statali e commercianti – sono sottoposti a continui controlli illegali per monitorare le loro attività.
Le recenti leggi fiscali sugli studi di settore, sullo spesometro, e altre chicche di questo genere, consentono all’agenzia delle entrate di monitorare ogni spesa dei cittadini in tempo reale, tanto è vero che talvolta alcuni acquirenti di auto di lusso si ritrovano il controllo fiscale direttamente all’uscita del concessionario.
Ma allora ci si domanda: se, nella realtà dei fatti, tale diritto è inesistente, perché creare un sistema di regole farraginoso, complesso e sostanzialmente inutile come quello della legge 196/2003?
Tale diritto serve solo a creare una massa di persone paranoiche e ossessionate dalla privacy, e a fornire contemporaneamente a delinquenti di ogni tipo degli strumenti per rimanere impuniti.
E’ difficile descrivere la situazione da barzelletta del diritto alla privacy nell’età contemporanea, ma voglio provarci con due aneddoti.
Il primo riguarda un caso di separazione che mi capitò anni fa. Una signora venne da me per separarsi dal marito, figlio di uno dei massoni più potenti di una grande città del nord. Le dette il mio nome un’amica in comune, una cartomante e sensitiva da cui lei era stata il mattino. Il pomeriggio mi telefonò, prendemmo appuntamento per la mattina dopo, e io il pomeriggio stesso chiamai lo studio legale del padre del marito per prendere i primi accordi.
– Buongiorno, sono l’avv. Franceschetti, da Viterbo, mi può passare l’avvocato X?
– Certo, mi dice la segretaria, attenda che lo chiamo.
Dopodiché sento che quella grida ad alta voce: “Gianni, chiama un po’ l’avvocato X, che c’è al telefono l’avvocato della Carla”.
In 24 ore la notizia era nota pure alla segretaria dello studio legale avversario.
Un altro episodio riguarda un mio compagno di università, oggi magistrato, con cui abbiamo scritto libri insieme e con cui ho condiviso insieme corsi di insegnamento negli anni successivi.
Mi disse che qualcuno lo aveva informato che i magistrati sono sottoposti ad un continuo e costante controllo giorno per giorno su tutta la loro attività. Parlandone con un amico, il cui padre lavorava in Banca d’Italia, costui gli disse: “Non so se è vero. Aspetta che chiedo a mio padre”.
Il giorno dopo questo amico gli portò un dossier di diverse pagine, in cui erano descritti minuziosamente tutti i momenti della sua giornata, dal momento della sveglia al momento di coricarsi.
“Paolo – mi disse il mio amico – c’era tutto. Pure il caffè che prendevo a metà mattinata. E ho letto cose del tipo “ore dieci, preso il caffè con Tizio, mafioso”, ma io non sapevo che era un mafioso, era solo uno che salutavo tutte le mattine andando al lavoro e che mi ha offerto qualche volta il caffè essendo il titolare del bar.
Esemplificando quindi a cosa serve il diritto alla privacy, posso fare questi casi:
– nell’eventualità che venga ripreso un furto in un supermercato o in luogo pubblico, dal momento che le registrazioni devono essere buttate dopo un certo numero di giorni, il delinquente è sicuro nel 99% di farla franca;
– se un datore di lavoro vuole sorprendere un lavoratore che non fa nulla o che ruba durante il lavoro, non può farlo, perché il lavoratore è tutelato dal diritto alla privacy;
– se un cittadino chiede copia di una sentenza penale di condanna riguardante un politico o un qualsiasi delitto, nonostante le sentenze siano rese “in nome del popolo italiano”, si sentirà rispondere che non ne ha diritto, perché vige il diritto alla privacy.
Purtroppo, la demenziale legge sulla privacy ha prodotto questo effetto paradossale: che coloro che vivono nella legalità sono terrorizzati dall’essere spiati e controllati, mentre i delinquenti possono fare tranquillamente tutto ciò che vogliono, tanto sono tutelati dal diritto alla privacy.
Per questo motivo mi fanno ridere tutti quelli che sono attentissimi alla loro privacy. E in questi anni, quando mi sono occupato di casi legali riguardanti massoneria e dintorni, a coloro che mi dicevano “vorrei però mantenere la massima riservatezza” o “non posso parlarne al telefono, meglio vederci di persona”, rispondevo: “Guardi che non è lei che deve nascondersi e che sta commettendo un’illegalità, ma casomai quelli che la intercettano e ascoltano le chiamate; sia sereno e faccia tutto liberamente”.
In questi anni poi la Cassazione si è inventata addirittura il diritto all’oblio; cioè il diritto del delinquente, dopo un certo numero di anni, a far sparire da internet tutto ciò che lo riguardi.
A chi insisteva con la paranoia della riservatezza, rispondevo (e rispondo): “Lasci perdere… non mi interessa l’incarico e non ritengo ci siano i presupposti affinché io possa tutelarla in qualche modo. Sono contrario alla riservatezza”.
Ecco perché spesso dico cose anche riservate pubblicamente; perché so che non posso difendere la mia privacy da coloro che avrebbero, se vogliono, il potere di nuocermi; inutile quindi che la difenda rispetto ai miei lettori o ai miei contatti Facebook, che certamente non potranno mai nuocermi.
Qualcuno mi domanda: “Ma non ti dà fastidio che qualcuno possa accedere ai tuoi dati personali?”. La domanda mi pare proprio da paranoici. Infatti:
a) Chi accede illegalmente ai dati personali, comunque non li potrà mai diffondere.
b) Chi ha accesso ai dati personali dei cittadini, non conosce individualmente la persona, quindi non gliene frega nulla di sapere le sue abitudini intime. In definitiva, quindi, non dovrebbe interessarci se qualcuno che non conosciamo accede alla nostra posta e legge le nostre lettere d’amore, o vede che tipo di sito porno consultiamo nel tempo libero.
c) I dati personali dei cittadini non vengono mai diffusi, per il semplice fatto che l’opinione pubblica non è interessata a conoscere le abitudini personali di cittadini anonimi; quindi non esiste il pericolo della diffusione dei dati personali acquisiti illecitamente.
Il cittadino, insomma, può dormire sonni tranquilli anche se viene spiato notte e giorno.
Il discorso cambia, invece, per chi è un personaggio pubblico, sia un politico o un cantante/attore famoso; perché tali dati sono interessanti per un vasto pubblico, quindi anche le abitudini sessuali diventano un problema (il caso Clinton in America, o Marrazzo in Italia, ma anche le vicende di Berlusconi).
Ovviamente il rischio aumenta in modo esponenziale se il fatto che si vuole tenere riservato è un reato.
Il mito della privacy, insomma, è solo una colossale invenzione del sistema per far perdere tempo, compilare scartoffie, firmare documenti, e poter poi, quando bisogna difendere un delinquente, opporre questo inesistente diritto alla privacy.
Tempo fa ad una mia amica bloccarono i conti correnti e protestarono degli assegni; si scoprì che una truffatrice aveva preso i suoi dati e falsificato i documenti, aprendo conti correnti a suo nome e rilasciando assegni a vuoto. Questa telefonò alla banca e chiese di sapere gli importi e tutti gli estremi degli assegni protestati.
– Ma li ha emessi lei gli assegni? chiese il solerte impiegato.
– No certo che no. Le ho detto che è stato effettuato un furto di identità, è stato usato il mio nome.
– Allora non posso darglieli i dati, signora. Sa, c’è il diritto alla privacy.
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https://petalidiloto.com/2018/02/la-tragicommedia-del-diritto-alla-privacy.html
BIBBIANO, RIFORMA DURANTE L’ULTIMO GOVERNO PD HA RESO PIÙ FACILE TOGLIERE I BAMBINI ALLE FAMIGLIE
Le statistiche nazionali rivelano che l’80% delle sottrazioni di minori coatte sono conseguenza dell’ex art. 403 del Codice Civile.
VIDEO QUI: https://streamable.com/c6778
Il Pd si dice estraneo allo scandalo dei bambini rubati a Bibbiano. Ma sempre più strade portano in quella direzione. Non solo i tre sindaci indagati, dei quali uno agli arresti, per avere dato “copertura politica al sistema degli affidi”, anche convocazioni in Parlamento:
E strani intrecci. Ad esempio, l’articolo 403 del Codice Civile che è stato rivisto nel 2017, durante l’ultimo governo Pd e approvato insieme al M5s, in modo che la sottrazione dei minori fosse più facile:
Caso Bibbiano. Il senatore @LucioMala spiega la modifica all’articolo 403 del Codice Civile,
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Non vedere la propria figlia da tre mesi
Walter Buscema, Avvocato, 23 07 2019
Un mio assistito non riusciva a vedere la figlia da 3 mesi e io l’ho invitato a far venire sul posto i Carabinieri per sole 3 volte in due mesi al fine di certificare le opposizioni della madre a far andare la minore con il Papà.
Oggi in sede di Udienza Collegiale, un PM, moderno e filosofo mi ha accusato di praticare STALKING GIUDIZIARIO E DI ABUSARE DEL DIRITTO
Grandissima testa di m…. Come facevo a certificare le resistenze della madre in sede di Giudizio???
Ho concluso dicendo che il PM dovrebbe fare il PM e lasciare all’Avvocato il compito di tutelare il diritto della minore a stare con il Papà ovvero il diritto del padre a stare con la figlia.
Ah, caro PM idiota, vatti a rivedere il concetto di Stalking.
E probabilmente idiota senza figli
https://www.facebook.com/1641624691/posts/10217102146299415/
PER LA PROCURA LA RACKETE NON ANDAVA SCARCERATA
Redazione – 24 luglio 2019
Per la Procura di Agrigento la scarcerazione di Carola Rackete, la comandante della nave Ong Sea-Watch 3, decisa dal Gip Alessandra Vella, è una “conclusione contraddittoria, errata e non adeguatamente motivata”.
Questo si legge nel ricorso presentato alla Corte di Cassazione dai procuratori della città siciliana contro la mancata convalida dell’arresto della Rackete.
Nel documento, di cui è in possesso l’Adnkronos, si legge che il gip “avrebbe dovuto verificare se rispetto alla condotta contestata […] il dovere di soccorso invocato potesse avere efficacia scriminante”.
I Pm hanno scritto che il gip “si è limitato ad affermare tout court che legittimamente Carola Rackete avesse agito poiché spinta dal dovere di soccorrere i migranti. L’impostazione offerta dal gip sembra banalizzare gli interessi
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PANORAMA INTERNAZIONALE
L’Europa sta morendo, solo che non se ne è accorta
Sisto Ceci 21 07 2019
Il primo segno? Non si fanno più figli. L’opera di Giulio Meotti raccontata da Gennaro Malgieri
L’Europa sta morendo, ma gli europei sono distratti, sembrano non accorgersene. E gettano il loro destino come se fosse un’inutile ingombrante carabattola. Conta il presente. Del passato non sanno che farsene. Del futuro non hanno la benché minima percezione. È come se si fossero costruiti una prigione che li tiene in qualche modo costretti a guardare attraverso le sbarre ciò che accade intorno a loro, il tempo e lo spazio che si assottigliano.
Diventano irrilevanti, mentre il mondo che era stato costruito da chi li aveva preceduti diventa babelico, preda di interessi famelici, oggetto degli appetiti di nuovi colonizzatori che appartengono ad altri universi culturali ed antropologici. Come nel passato, anche la civiltà europea è destinata a sparire nella maniera più lenta e cruenta: rinunciando ad esistere, a riprodursi attraverso le nascite, abdicando al ruolo che umanamente dovrebbe preservare. Negli anni Venti fece scalpore in Germania e in Italia il libro di uno studioso delle civiltà e della decadenza, Richard Korherr, significativamente intitolato Regresso delle nascite, morte dei popoli. In esso, applicando il metodo comparatistico, Korherr dimostrava come ed in qual misura l’infertilità voluta, programmata, motivata dall’egoismo e dall’assuefazione al soddisfacimento dei fittizi bisogni immediati, abbia fatto precipitare nell’abisso culture che avevano dominato vaste aree del pianeta e contribuito alla formazione della civiltà euromediterranea.
Oggi, nell’indifferenza dei popoli e delle loro classi dirigenti, sta accadendo la stessa cosa per cui non è improprio, né tantomeno allarmistico sostenere che il disfacimento dell’Europa sia legato a due fattori primari: la denatalità e la crisi identitaria. Tanto la prima quanto la seconda sono strettamente correlate e danno il senso al declino su cui non mancano di esercitarsi analisti capaci di scorgere tra le pieghe del malessere europeo quello che sarà l’avvenire di un Continente che anno dopo anno sembra assumere i connotati di una landa desolata nella quale pochi ricercatori tentano di tenere in piedi una certa idea dell’Europa che possa attrarre, con scarse speranze, è il caso di dire, soprattutto le giovani generazioni la cui evidente noncuranza di quello che sarà il loro domani nel contesto geo-politico e culturale che rapidamente sta mutando è il sintomo più doloroso di un declino inevitabile.
Tra gli osservatori più attenti alla mutazione europea da tempo si segnala Giulio Meotti, autore di diversi volumi dedicati agli aspetti della crisi strutturale afferenti alle questioni identitarie e demografiche soprattutto, che con il volume dal suggestivo titolo Notre-Dame brucia. L’autodistruzione dell’Europa (Giubilei Regnani editori, prefazione di Richard Millet. pp.144, euro 13.00), mette a fuoco le ragioni di una catastrofe annunciata da tempo e verso la quale la cultura europea, la politica degli Stati e quella parodistica dell’Unione hanno tenuto gli occhi chiusi.
L’incendio che nell’aprile scorso distrusse buona parte della cattedrale francese è la metafora, per Meotti, della fine dell’Europa.
Quell’evento, che scosse il mondo, non è stato “letto” come meritava: in fondo, per quasi tutti, a cominciare dai capi di Stato e di governo, non si trattò che di un deprecabile incidente. Eppure, esso ha avuto e continua ad avere un significato altamente simbolico. Il fumo di Notre-Dame si è portato via un millennio di fede, di tradizione, di storia, di bellezza. Ed in un momento particolare, oltretutto: quando la visione del vuoto si è fatta più nitida, il senso di smarrimento più marcato, la defezione dal culto religioso delle memorie, pratica incivile che tiene le masse europee avvinte all’effimero.
Si ha l’impressione che Notre-Dame continui a bruciare davvero. E se ci vorranno dieci, quindici o vent’anni per restaurarla, poco male: resterà la sensazione che quelle fiamme sono state l’ammonimento tragico per gli europei inconsapevoli che non si avvedono di tante altre distruzioni che giorno dopo giorno attorno a loro creano un allucinante paesaggio di rovine. “Il problema – osserva Meotti – non sarà adesso ricostruire Notre-Dame, ma l’identità che quella chiesa rappresentava. Di fronte alla cattedrale in fiamme piangevamo l’immagine di una civiltà in frantumi. La deliquescenza dell’Europa”.
Ma le lacrime sono state presto asciugate. I sottoscrittori di cospicue somme per il titanico restauro hanno fatto la loro compassata, si sono guadagnati i titoli sui giornali. I politici non sono stati da meno. Le archistar hanno detto la loro. Ma non una voce si è levata per sottolineare che con Notre-Dame è finita un’èra, ben più tragicamente di quando divenne una sorta di succursale rivoluzionaria ridotta da degenerati giacobini a deposito e poi addirittura a Tempio della Dea Ragione. È la coscienza dell’Europa, a dirla tutta – e se vogliamo dell’Europa cristiana – che è bruciata a Parigi. E ancora brucia, per chi riesce a vedere la tragedia che emblematicamente essa ha evidenziato raccontandoci di un mondo che non ha più ragion d’essere, dominato da disvalori che la tecnologia esalta senza porsi freni.
E soprattutto demolisce le fondamenta di una civiltà che si fondava sulla centralità della persona, sulla famiglia naturale, sui corpi intermedi, sulle memorie e sulla fede. Chi può dire che l’incendio di tutto questo non continui, anzi che le fiamme si fanno di giorno in giorno più alte, ma a Strasburgo, a Bruxelles, a Francoforte non le vedono? E non le vedono neppure nel Mediterraneo, mare di civiltà, dove l’umanità è morta per la politica dal respiro corto. Quel che sta accadendo in Europa ha un nome che viene usato spesso a sproposito, ma che Meotti mette nella giusta dimensione: relativismo culturale. Il cui prezzo, scrive “è diventato dolorosamente quantificabile, al punto che la progressiva decomposizione degli stati-nazione occidentali è oggi una possibilità.
Il multiculturalismo – costruito su uno sfondo di decadenza demografica, scristianizzazione massiccia e di ripudio culturale – non è altro che una fase di transizione che rischia di portare alla frammentazione dell’Occidente. Con il crollo della Chiesa cattolica e i suoi pastori che abbandonano le pecore, il “tradimento dei chierici”, la distruzione della famiglia naturale, la fine delle ideologie e un politicamente corretto che sta facendo tabula rasa di qualsiasi riferimento culturale rimasto.
L’ondata di populismo in Occidente non è stato altro che una reazione a questo choc di civiltà”.
Quanto potrà incidere il populismo nella speranza di un’inversione di tendenza? Credo niente. Anzi, da quel che si capisce, sembra votato ad aggravare il problema. Non ha ricette per opporsi alla crisi, non ha orizzonti da indicare, non ha visioni da proporre. È un grido. Dunque, non basta. Ci vuole ben altro. Una politica realistica e di equilibrio fondata su una visione del mondo e della vita coerente con i valori della vecchia Europa, per esempio. Meotti, opportunamente, cita una frase del cardinale Robert Sarah, una delle poche speranze della Chiesa e della rinascita della cristianità: “Un albero senza radici muore, temo che l’Occidente morirà: ci sono molti segni, niente più natalità”, ha detto. Ed è tragicamente vero. Una civiltà che rinuncia alla propria identità e coltiva il mito delle culle vuote come suprema forma di benessere, è una civiltà morta. Una civiltà che si sbriciola come Notre-Dame.
Il grande conservatore americano Russell Kirk in Civilization without religion?, ricorda Meotti, spiegò che nessuna civiltà è sopravvissuta senza una tradizione religiosa. Senza Dio, insomma, non c’è futuro. E se chi dovrebbe indicarci la via dell’eternità ha sostanzialmente abdicato, abbracciando il relativismo, si capisce bene perché Notre-Dame continuerà a bruciare nei nostri cuori.
La grande cattedrale di Parigi è come se fosse lì a ricordarci “che non doveva rimanere nulla in piedi di una Europa giudicata obsoleta, una Europa addormentata. Tutto doveva scomparire. E della nostra identità non doveva che restare una ferita cauterizzata, come dopo quel rogo”.
È vero: siamo in terra incognita, una Terra desolata, per dirla con T.S. Eliot. E quel che è peggio è che non riusciamo ancora a decifrare l’avvenire. Ma una speranza possiamo nutrirla: come San Benedetto da Norcia fuggì Roma all’apogeo della sua decadenza, rinunciando a lussi e dissolutezze, noi possiamo seguire la strada dei padri, riscoprire l’opzione Benedetto, come viene chiamata, rinnegando il determinismo ed il materialismo pratico, trovando in noi stessi la forza che fa nascere nuove comunità. È il messaggio nella bottiglia, da me così interpretato, del lucido, avvincente, drammatico saggio di Giulio Meotti.
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Sciismo, iranismo, e sunnismo. Perchè perdura la confusione
Di Raffaele Mauriello e Biancamaria Scarcia Amoretti il 02 Maggio 2019.
L’Iran viene generalmente presentato come la culla dell’eresia più vistosa dell’ecumene islamica, lo shi‘ismo. Non è così. Lo shi‘ismo, vale a dire quel ramo dell‘islam che trova il suo referente principale nella discendenza di ‘Ali, il quarto califfo, sia in termini politici/dinastici che religiosi è fenomeno prevalentemente arabo.
Infatti, la geografia religiosa shi‘ita ha i suoi centri più importanti in Iraq, Najaf e Kerbela; luoghi in cui è avvenuto lo scontro con il potere sunnita in carica nei primi secoli dell‘islam. In Iran ci sono presenze shi‘ite che risalgono alle prime conquiste dell’altipiano iranico, com’è il caso di Qom, ma lo shi‘ismo diventerà dominante in tempi relativamente recenti e per motivi politici.
Dal Cinquecento in poi, cioè dall’inizio di quella che possiamo chiamare modernità sia nel mondo occidentale che vicino orientale, l’evento cruciale è l’avvento al potere di una dinastia che ha radici in una confraternita sufi, la Safawiyya. Il nuovo regime adotta come suo credo lo shi‘ismo e dà inizio alla conversione della quasi totalità del paese. Lo shi‘ismo safavide riprende spunti dalla devozione per i discendenti del cugino di Muhammad e marito di sua figlia Fatima, ‘Ali, inaugurata in maniera importante in Iran nel secolo precedente, dominato dalla figura di Tamerlano il quale si considera spiritualmente e ideologicamente parte della Famiglia Alide. Interessa in questa sede il fatto che la dinastia qui in oggetto si presenta come riformatrice e rivendica come suo carattere primario la devozione alla Famiglia del Profeta, come predica lo shi‘ismo.
Ciò a dire che la ben nota disputa per la successione al Profeta – che diventerà ratio della divisione della comunità fra sunniti e shi‘iti – avviene in prima battuta in ambito arabo e che l’Iran è, fino al Cinquecento, nella sua stragrande maggioranza sunnita, segue le dinamiche del potere in carica a Baghdad, dove domina il califfato sunnita, e diviene poi oggetto di conquista da parte di dinastie turche provenienti dall’Asia centrale, anch’esse per lo più sunnite. Il dato che qui è da segnalare è di natura cultural-politica: l’Iran è sempre stato terra di conquista, ma il risultato finale è che esso ha sempre inglobato l’altro, almeno in termini culturali. Si deve rimarcare che nel wahhabismo, la forma di islam affermatasi nella Penisola Araba con la dinastia saudita – il nemico per eccellenza dell’Iran –, la parola shi‘a è poco usata e, quando lo è, si tratta spesso di un espediente per dire Iran, usando una terminologia che metta in risalto in primis la negatività del fenomeno, il suo essere fuori dell’islam. Di qui, un’ulteriore ambiguità nel definire lo shi‘ismo da parte del suo alter ego, il wahhabismo, termine che equivale a dire Dinastia Saudita. Non a caso, se si spoglia una bibliografia wahhabita sul tema qui in oggetto, anche l’aggettivo ‘imamita’ è tabù, visto che ‘Imam’ è incontrovertibilmente parola che non può essere cassata come ‘innovazione linguistica’, qualunque sia il significato che le si può attribuire. L’Iran in linea di principio ha una sua identità specifica a prescindere dal dato religioso.
Il paese ha una storia imperiale che non nasce con l’islam, ma che lo porta ad assimilare esperienze diverse, ‘iranizzandole’ e riportandole, in un modo o nell’altro, al suo DNA che legge la storia, la propria storia, in una linea di continuità. Tale continuità viene elaborata in maniera diversa, ma il dato che non viene mai messo in discussione è appunto l’aspirazione del paese a configurarsi come impero, come dimostra tutta la sua storia anche recente. Il che è perfettamente logico, ed è su questa base che le specifiche declinazioni del significato di impero vanno collocate. L’Iran è tra i primi paesi a essere sottomesso dagli arabi nel corso delle guerre di conquista dei primi musulmani. Diventa protagonista culturale della neonata civiltà islamica e delle terre che entrano nell’orbita dell’islam nel momento di espansione. Le conversioni permettono la formazione di un’entità culturale e politica prima ancora che economica quale l’impero abbaside, entità che senza l’apporto iranico non ci sarebbe stata. Qui il discorso religioso diventa strumento, o meglio, componente essenziale dell’identità imperiale e dell’integrità del paese, che è sostanzialmente sunnita.
Lo shi‘ismo all’epoca è, infatti, praticato da una minoranza della popolazione. Bisognerà attendere il Cinquecento e l’avvento della dinastia Safavide, il cui fondatore, Isma‘il, impone lo shi‘ismo come religione di stato. Lo shi‘ismo
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https://berlin89.info/it/l-europa-paga-la-guerra-di-trump-all-iran.html?view=article&id=471&catid=2
Come furono inventati i palestinesi
Di Robert Spencer – 22 Luglio 2019
Nel 1948, il nascente Stato di Israele sconfisse gli eserciti di Egitto, Iraq, Siria, Transgiordania, Libano, Arabia Saudita e Yemen che volevano distruggerlo completamente. Il jihad contro Israele proseguì, ma lo Stato ebraico tenne duro, sconfiggendo ancora Egitto, Iraq, Siria, Giordania e Libano nella guerra dei Sei Giorni nel 1967 e l’Egitto e la Siria ancora una volta nella guerra dello Yom Kippur del 1973. Nell’ottenere queste vittorie contro enormi difficoltà, Israele riscosse l’ammirazione del mondo libero, vittorie che comportarono l’attuazione più audace e su più ampia scala nella storia islamica del detto di Maometto: “La guerra è inganno”.
Per distruggere l’impressione che il piccolo Stato ebraico stesse fronteggiando ingenti nemici arabi musulmani e che stesse prevalendo su di loro, il KGB sovietico (il Comitato sovietico per la sicurezza dello Stato) inventò un popolo ancora più piccolo, i “palestinesi”, minacciato da una ben funzionante e spietata macchina da guerra israeliana. Nel 134 d.C., i Romani avevano espulso gli ebrei dalla Giudea dopo la rivolta di Bar Kokhba e ribattezzarono la regione Palestina, un nome tratto dalla Bibbia, il nome degli antichi nemici degli Israeliti, i Filistei. Ma il termine palestinese era sempre stato riferito a una regione e non a un popolo o a una etnia. Negli anni Sessanta, tuttavia, il KGB e il nipote di Hajj Amin al-Husseini, Yasser Arafat, crearono tanto questo presunto popolo oppresso quanto lo strumento della sua libertà, l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP).
Ion Mihai Pacepa, già vicedirettore del servizio di spionaggio della Romania comunista durante la Guerra Fredda, in seguito rivelò che “l’OLP era stata una invenzione del KGB, che aveva un debole per le organizzazioni di ‘liberazione’. C’era l’Esercito di liberazione nazionale della Bolivia, creato dal KGB nel 1964 con l’aiuto di Ernesto ‘Che’ Guevara (…) inoltre, il KGB creò il Fronte democratico per la liberazione della Palestina, che perpetrò numerosi attacchi dinamitardi. (…) Nel 1964, il primo Consiglio dell’OLP, composto da 422 rappresentanti palestinesi scelti con cura dal KGB, approvò la Carta nazionale palestinese – un documento che era stato redatto a Mosca. Anche il Patto nazionale palestinese e la Costituzione palestinese nacquero a Mosca, con l’aiuto di Ahmed Shuqairy, un influente agente del KGB che divenne il primo presidente dell’OLP”.
Affinché Arafat potesse dirigere l’OLP avrebbe dovuto essere un palestinese. Pacepa spiegò che “egli era un borghese egiziano trasformato in un devoto marxista dall’intelligence estera del KGB. Il KGB lo aveva formato nella sua scuola per operazioni speciali a Balashikha, cittadina a est di Mosca, e a metà degli anni Sessanta decise di prepararlo come futuro leader dell’OLP. Innanzitutto, il KGB distrusse i documenti ufficiali che certificavano la nascita di Arafat al Cairo, rimpiazzandoli con documenti falsi che lo facevano figurare nato a Gerusalemme e, pertanto, palestinese di nascita”.
Arafat potrebbe essere stato marxista, almeno all’inizio, ma lui e i suoi referenti sovietici fecero un uso copioso dell’antisemitismo islamico. Il capo del KGB, Yuri Andropov, osservò che “il mondo islamico era una piastra di Petri in cui potevamo coltivare un ceppo virulento di odio antiamericano e antisraeliano, cresciuto dal batterio del pensiero marxista-leninista. L’antisemitismo islamico ha radici profonde… . Dovevamo solo continuare a ripetere i nostri argomenti – che gli Stati Uniti e Israele erano ‘paesi fascisti, imperial-sionisti’ finanziati da ricchi ebrei. L’Islam era ossessionato dall’idea di evitare l’occupazione del suo territorio da parte degli infedeli ed era assolutamente ricettivo al ritratto da noi fatto del Congresso americano come un rapace organismo sionista volto a trasformare il mondo in un feudo ebraico”.
Il membro del Comitato esecutivo dell’OLP, Zahir Muhsein, spiegò in modo più esaustivo la strategia in una intervista del 1977 al quotidiano olandese Trouw:
Il popolo palestinese non esiste. La creazione di uno stato palestinese è solo un mezzo per continuare la nostra lotta contro lo stato di Israele per la nostra unità araba. In realtà, oggi non c’è alcuna differenza fra giordani, palestinesi, siriani e libanesi. Solo per ragioni politiche e strategiche parliamo oggi dell’esistenza di un popolo palestinese, dal momento che gli interessi nazionali arabi esigono che noi postuliamo l’esistenza di un distinto “popolo palestinese” che si opponga al sionismo. Per ragioni strategiche, la Giordania, che è uno stato sovrano con confini definiti, non può avanzare pretese su Haifa e Jaffa mentre, come palestinese, posso indubbiamente rivendicare Haifa, Jaffa, Bee-Sheva e Gerusalemme. Tuttavia, nel momento in cui rivendicheremo il nostro diritto a tutta la Palestina, non aspetteremo neppure un minuto a unire Palestina e Giordania.
Una volta che era stato creato il popolo, il loro desiderio di pace poteva essere facilmente inventato. Il dittatore romeno Nicolae Ceausescu insegnò ad Arafat come suonare l’Occidente come un violino. Pacepa raccontò: “Nel marzo del 1978 condussi in gran segreto Arafat a Bucarest per le istruzioni finali su come comportarsi a Washington. ‘Devi solo far finta di rompere con il terrorismo e riconoscere Israele, ancora, e ancora e ancora’, disse Ceausescu ad Arafat. (…) Ceausescu era euforico all’idea che Arafat e lui potessero
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iL FLOP DI PAPA FRANCESCO NELLE MARCHE
di Ruggiero Capone – 23 luglio 2019
La notizia che ha fatto meno notizia in questa estate 2019 è certamente la visita di Bergoglio ai terremotati. Un mesetto fa Papa Francesco aveva fatto tappa nelle zone colpite dal sisma. Si era spinto sino a Camerino, dove c’è una cattedrale ancora danneggiata dal terremoto. Ma questo viaggio, nelle Marche, regione un tempo religiosissima, s’è rivelato un vero e proprio fallimento: pochissima gente ha atteso il pontefice, e solo i “rappresentanti istituzionali” (tutti in tiro) hanno garbatamente sgomitato per aggiudicarsi un selfie che li immortalasse nell’atto del bacio dell’anello. Grande delusione per il pontefice, ed ancor più grande per il notabilato locale. Il Papa non ha concesso foto che ritraessero il baciamano dei fedeli importanti.
“Nelle Marche non ho mai visto, né rammento, gesti d’indifferenza verso il papato”, ha confessato un pubblico funzionario, sconvolto dal fatto che la popolazione nemmeno si voltasse o interrompesse le proprie faccende per rivolgere l’attenzione a Papa Francesco. “Di fronte a quello che avete visto e sofferto, di fronte a case crollate, edifici ridotti in macerie, viene questa domanda: che cosa è mai l’uomo? Che cos’è, se quello che innalza può crollare in un attimo? Che cos’è, se la sua speranza può finire in polvere? Che cosa è mai l’uomo?”, ha detto Bergoglio nell’omelia.
Un discorso da vero francescano, da fedele e coerente propalatore della Teologia della liberazione: corrente del pensiero cattolico sviluppatasi in seno a quel “Consiglio episcopale latinoamericano” del 1968, come diretta estensione dei principi riformatori romani del Concilio Vaticano II.
Corrente che vede oggi in Papa Francesco il suo fondamentale assertore. Si stenta comunque a credere che le popolazioni colpite dal sisma possano ravvisare nella povertà la più fulgida opportunità per arricchire le proprie anime. E non si può certo dire a dei terremotati che la fatica nel costruire una casa, nel curarla in ogni dettaglio, sia uno spreco dettato dall’ambizione umana, e che basta un cataclisma per riportare l’uomo a dormire sotto le stelle. Intendiamoci, Bergoglio è perfettamente coerente col principio fondamentale della Teologia della liberazione, ovvero che l’opzione fondamentale per lo spirito è la povertà, perché necessiterebbe essere poveri così come si evince all’interno del dato biblico.
Altro postulato cardine è che tutti gli uomini occidentali debbano rinunciare alle proprie ricchezze per risarcire i popoli che hanno subito schiavitù e colonialismo: in questa chiave che il Papa lancia il ponte alla omologa Teologia islamica della liberazione, auspicando che l’Italia possa diventare il grande villaggio delle migrazioni. Ed in questo incontra il consenso del protestantesimo olandese, danese e tedesco. L’uomo solidale, creativo e senza radici (in continuo viaggio) è per i seguaci della “liberazione” l’antidoto alla
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IL FONDO DEL BARILE
Niram Ferretti . 13 luglio 2019
Dopo il Nobel proposto per la Capitana, dal propalestinista Mario Vargas Llyosa, ora è il turno di altri altari, quelli di Bruxelles, dove la Commissione Libertà Civili e Giustizia, avrebbe chiesto di ascoltarla a proposito dei noti fatti della Sea Watch. Intanto, da Parigi, in mancanza della disponibilità della Legion d’Onore, le verrà conferita la Medaglia Grand Vermeil.
Tout se tient.
La UE pro-immigrazionista sotto tutela franco-tedesca, la Francia che la premia, un modesto scrittore insignito del Nobel, che considera Israele uno Stato fascista e gli arabi-palestinesi vittime di soprusi, non possono che essere fans di questa “eroina dei nostri tempi” che in nome dell’Umanità avrebbe trasgredito le leggi “disumane” di uno Stato sovrano.
Viviamo tempi assai mediocri, in cui i custodi del marxismo culturale che ha dominato incontrastato dal dopoguerra a oggi avvertono che il loro dominio sta franando e dunque gridano al fascismo risorgente, alla democrazia in pericolo. E’ così in Italia, in Israele, in USA.
La paura rende isterici ma anche più aggressivi. Rende anche patetici e grotteschi, come avere fatto di Carola Rackete un’emula di Antigone, e nel dirlo non provocarsi una risata incontenibile.
POLITICA
Di Stefano: “fascismo e antifascismo? Non c’è nessuna guerra civile in atto: è una truffa montata ad arte per distrarci”
di Aurora Pepa
pubblicato il 01 Marzo 2018
Attualmente segretario nazionale di Casapound, Simone Di Stefano è nel pieno del turbinio vorticoso delle elezioni politiche che lo vedono concorrere come candidato premier di un partito nato dieci anni fa che, pur non riconoscendosi esplicitamente ed ufficialmente nelle categorie di destra e sinistra, va a collocarsi nell’area estrema della destra nazionale.
Questa campagna elettorale è stata caratterizzata dal ritorno in vita delle ormai superate classificazioni fascismo/antifascismo…
È un clima montato ad arte per cercare di spaventare gli italiani e convincerli a digerire il futuro governo tecnico: è una vecchia logica che abbiamo già visto negli anni. C’è chi soffia sul fuoco e, secondo me, chi paga la campagna elettorale ad Emma Bonino è proprio lo stesso che soffia sul fuoco per tentare di aizzare i cosiddetti “opposti estremisti”. Non c’è nessuna guerra civile in atto e spero che gli italiani lo abbiano capito: da questo punto di vista, direi piuttosto che quella in atto è una grande truffa. Ci vogliono convincere che la guerra civile è proprio fuori dalla nostra porta di casa e quindi, tutto sommato, sarebbe meglio votare per i vecchi partiti. Pur considerando l’appartenenza storica ed ideologica di Casapound alla politica del fascismo italiano, ci sono i cento anni di distanza a parlare. Noi non proponiamo alcuno Stato totalitario, ma ci riconosciamo nella bandiera tricolore e nella Costituzione e, anzi, pensiamo che proprio la Costituzione sia lo strumento con cui creare la nazione che vogliamo. Speriamo che in essa possano riconoscersi tutti gli italiani: facciamola finita con la storia della guerra civile e guardiamo al futuro; la guerra è finita settant’anni fa, abbiamo il dovere di andare avanti.
La posizione antieuro e anti-Unione Europea di Casapound è ormai nota…
Nel nostro progetto di recupero di sovranità, vi è sicuramente anche l’idea di una nostra moneta e di una nostra banca centrale, di rompere i vicoli del pareggio di bilancio e di uscire dall’Unione Europea, che ormai è una sovrastruttura impossibile da riformare. Anzi, l’Unione Europea è stata congeniata totalmente per favorire la situazione economica che stiamo vivendo, dove il grande capitale la fa da padrone. Per noi abbandonare l’euro e l’Unione Europea è il primo passo da fare, perché essi sono irriformabili.
C’è una stretta connessione tra economia e lavoro, nel vostro progetto politico?
Si, perché c’è un collegamento diretto tra Unione Europea, euro e lavoro: con una nostra moneta potremmo, ad esempio, tornare a fare degli investimenti pubblici, necessari per far ripartire la situazione dal punto di vista economico, sia per quanto riguarda l’abbassamento delle tasse ai piccoli imprenditori, che non riescono più a sopravvivere con una pressione fiscale di questo tipo, sia aumentando i servizi sociali, soprattutto con le assunzioni nel comparto pubblico.
Cioè?
Tanti ragazzi e giovani non hanno un lavoro, ma c’è anche tanta gente che esce dal mondo del lavoro a quaranta, cinquanta anni, e poi non riesce più ad entrare. Si dovrebbe valutare la possibilità di impiegarli nel settore pubblico proprio per generare quel lavoro e quella piena occupazione così come sono stabiliti dalla Costituzione. L’idea è quella di una moneta sovrana utilizzata come strumento per far ripartire la nazione e far tornare l’Italia ad essere quella che era un tempo: ovvero la quarta economia del mondo.
L’immigrazione è un altro dei temi “protagonisti” di questa campagna elettorale. Quali sono le vostre proposte in merito?
Al momento è necessario assolutamente fermare i flussi, quali che siano e qualunque che sia la provenienza. Bisogna iniziare a fare dei piani di sviluppo in Africa per cercare di far tornare indietro le persone: questo si può fare se sei uno Stato sovrano e se hai la tua moneta e la tua capacità di bilancio. L’acquisto di prestigio conseguente faciliterà la realizzazione di accordi bilaterali
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Il capro espiatorio. Israele e la crisi dell’Europa
DI ADMIN · PUBBLICATO 22 LUGLIO 2019
Uno stralcio del primo capitolo del nuovo libro di Niram Ferretti, Il capro espiatorio, Israele e la crisi dell’Europa, in uscita a settembre presso Lindau.
Niram Ferretti
La demonizzazione di Georges Bensoussan, massimo tra gli studiosi francesi di storia culturale dell’Europa e autore, tra gli altri, di libri decisivi come Genocidio, una passione europea, L’eredità di Auschwitz, Israele un nome eterno. Lo Stato di Israele, il sionismo e lo sterminio degli ebrei di Europa, si iscrive a pieno titolo in quell’ampio fenomeno che dietro l’alibi di combattere le discriminazioni e il razzismo, colpisce senza appello chiunque abbia parole critiche nei confronti dell’Islam.
Beninteso, Bensoussan, già direttore editoriale del prestigioso Memoriale della Shoah di Parigi, non ha, come Robert Redeker, il docente di filosofia francese il quale ha scritto nel 2006 su Le Figaro un pezzo di critica frontale e aspra nei confronti della religione islamica che lo ha poi costretto a vivere sotto scorta, attaccato la figura di Maometto o evidenziato la violenza che impregna le sure medinesi del Corano.
No, egli si è limitato durante una trasmissione radiofonica andata in onda su France 2 il 10 ottobre del 2015 a citare un sociologo francese di origine algerina, Smain Laacher il quale aveva affermato, “L’antisemitismo [degli immigrati arabi], è già archiviato nello spazio domestico[…] ed è quasi naturalmente depositato nella lingua. Uno degli insulti da parte dei genitori ai loro figli quando li vogliono rimproverare, consiste nel chiamarli ebrei. Questo tutte le famiglie arabe lo sanno”.
La colpa dello storico francese è stata quella di pronunciare pubblicamente una condensazione icastica di questo assunto, ovvero, che in queste famiglie “l’antisemitismo si succhia con il latte materno”.
Su questa frase impronunciabile si è attivato immediatamente l’allarme rosso di associazioni che hanno ereditato la convinzione giacobina di essere custodi della virtù e della sanità pubblica francese.
Le sigle che le contraddistinguono sono emblematiche, Ligue des droits de l’homme, Licra, MRAP, SOS-Racisme ainsi que le Collectif contre l’islamophobie en France – CCIF. Si stagliano qualifiche nobilitanti come “diritti dell’uomo” e “collettivo contro l’islamofobia“. Oggi, soprattutto in Francia, il paese che raggruppa la maggiore “presenza islamica europea, “l’slamofobia”, lo “psicoreato del nuovo millennio”, nella definizione di Robert Spencer e David Horowitz, è diventata secondo la religio laica del politicamente corretto, lo stigma peggiore con cui essere bollati.
Si difendono i “diritti dell’uomo” in modo speciale quando è l’antisemitismo islamico a essere messo sotto accusa. E’ uno dei paradossi della nostra epoca, perché nessun paese musulmano ha mai aderito alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948, preferendo confezionarsi la propria il 19 settembre 1981 fondandola sul Corano e sulla Sunna.
Georges Bensoussan, come Robert Redeker prima di lui, paga lo scotto di avere evidenziato ciò che non può essere più detto, che il discorso antisemita è un fatto ereditario e trasmesso di generazione in generazione nel mondo islamico straripante di stereotipi antigiudaici ben fondati sulla tradizione islamica come ricordava, per ribadirli, Ahmad al Tayyib, il Grande Imam dell’Università di Al Azhar al Cairo, considerato un “moderato”, e quindi copiosamente importati da quella occidentale.
La conseguenza di tutto ciò è riassunta nell’ordalia a cui è stato sottoposto lo storico francese. Due processi a cui seguiranno due distinte sentenze di assoluzione (e nel momento in cui scriviamo pende il terzo grado di giudizio), ma, tra l’una e l’altra, la messa all’indice, l’applicazione dello stigma, la vergognosa mancanza di solidarietà nei suoi confronti della notabilità ebraica francese e soprattutto del Memoriale per la Shoah al quale Bensussan ha contribuito con l’estrema qualità del suo lavoro di ricerca e di divulgazione.
Memoriale che, non solo non l’ha appoggiato e difeso ma gli ha dato il ben servito estromettendolo. Una storia emblematica e il segno tangibile di una capitolazione culturale, intellettuale, di una resa delle armi occidentale difronte all’imperio di una doxa interamente prona allo spirito del tempo, al suo micidiale soffio livellante.
E colpiscono, per discordanza le parole di Boualem Sensal, il più celebre scrittore algerino contemporaneo il quale, durante il processo di primo grado, scrisse una lettera alla Presidente della XVII Camera Penale del Tribunale di Parigi in veste di testimone a favore dello storico francese: “In Algeria, non c’è e non c’è mai stato, e spero che non ci sarà mai, un affaire Bensoussan. Come non c’è mai stato un affaire Sansal. In Francia, per aver denunciato l’islamismo e attirato l’attenzione del pubblico sulla sua incredibile capacità di attrazione sui giovani privi di riferimenti, e per aver dichiarato che l’islam non è compatibile con la democrazia, sono stato considerato da alcuni un islamofobo. In Algeria niente di tutto questo, esprimo le stesse opinioni, i miei libri vendono e sono letti, i miei interventi in Francia sono ripresi quasi ogni giorno dai media algerini, e spesso duramente commentati, ma mai sono stato accusato di islamofobia.
Le parole che si rimproverano a Georges Bensoussan in Francia fanno parte dei discorsi che tengo quasi quotidianamente in pubblico in Algeria… Dire che l’antisemitismo fa parte della cultura islamica, è semplicemente ripetere ciò che dice il Corano, ciò che viene insegnato nella moschea (che è prima di tutto una scuola) e senza dubbio in molte famiglie tradizionaliste. L’antisemitismo è un riflesso acquisito molto presto. Poi la vita farà sì che si praticherà o si respingerà ciò che si è appreso”.
La società algerina come esempio di libertà di pensiero maggiore riguardo all’Islam rispetto alla Francia lascia poco spazio a commenti ulteriori se non all’ovvia considerazione che si è interrotto in modo drammatico e lacerante il rapporto con la realtà e la verità dei fatti, con il loro ordine preciso, consequenziale.
E tutto questo è la conseguenza di nuove parole d’ordine, e del glutine ideologico che ha invischiato profondamente la cultura e la società francese in primis ma certo non solamente, trasformando la pharresia in onta, in esercizio rischioso e quasi impraticabile. Non è questo in fondo lo scopo che si sono sempre prefissati i regimi autoritari nella loro volontà di silenziare le parole di dissenso, nello sterilizzare il vocabolario da ciò che non fosse conforme alla vulgata egemone, come ci ricorda Alain Besancon commentando 1984 di Gorge Orwell:
“Blocchi di parole, e gruppi di nozioni corrispondenti, sono stati messi fuori corso. Non è più possibile raggiungerli, né con le parole della vecchia lingua, dimenticate e proscritte, né con le parole del newspeak che sono costruite per eliminare ogni pensiero non conforme”.
E negare che la democrazia non possa a suo modo-non attraverso i mezzi coercitivamente violenti della forza bruta, ma tramite l’imposizione di un conformismo del pensiero costruito su parole e simboli costantemente reiterati, introdotti nel discorso pubblico senza sosta-farsi antiliberale e intollerante nei confronti del dissenso, è negare ciò che è così evidente, così palpabile. Soprattutto quando una determinata narrativa si è imposta culturalmente come koiné imperante ed è riuscita a farlo, sempre per citare Besancon, falsificando il bene, adottando formule linguistiche allettanti, vere e proprie parole magiche, amuleti lessicali, come “diritti umani”, “antirazzismo”, “discriminazione”.
Sono questi gli apriti sesamo che spalancherebbero le porte del progresso, lo renderebbero tangibile e, contemporaneamente, additerebbero al pubblico ludibrio come “fascista”, “razzista”, “reazionario” chi vorrebbe verificare effettivamente di che consistenza sono fatte, cosa indichino realmente. E’ lo stesso Georges Bensoussan ad aiutarci a decifrare meglio lo scenario nel quale ci troviamo collocati: “L’islamofobia è una delle forme adottate in Occidente di quella che viene definita correttezza politica. Il termine stesso è un’invenzione dei circoli islamisti. È destinato a far sentire gli occidentali colpevoli, a schiacciarli sotto questa accusa che porta con sé la promessa della morte sociale, il razzismo.
L’obiettivo di questi ambienti sta diventando sempre più noto, tuttavia dobbiamo leggere attentamente i loro testi. Ai loro occhi, l’Occidente è un ventre molle, un gruppo di deboli e decadenti che hanno da tempo dimenticato il linguaggio delle armi. Questi
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LE SUORE DI CLAUSURA DEL PD E I RUBLI
Niram Ferretti – 11 luglio 2019
Dunque grande scandalo perché la Lega avrebbe preso soldi da Putin. Si scandalizza il PD, che quando era PCI percepiva regolarmente fondi da Mosca, al tempo in cui l’Unione Sovietica rappresentava la minaccia più concreta per la sicurezza occidentale.
Zingaretti, il fratello di Montalbano, intima “Chiarire subito!”. Quando si è virtuosi dalla nascita non si possono ammettere finanziamenti occulti che peraltro non sono stati dimostrati.
Ora, alcune cose da dire, a scanso di equivoci, lo sanno anche i sassi che Putin ha una particolare affinità con i partiti cosiddetti sovranisti, in quanto sarebbero avversi all’Europa unita che la Russia ha tutto l’interesse sia unita il meno possibile. E il fatto che soldi arrivino nelle casse della Lega, se ci arrivano, come in quelle del Rassemblemant National di Marine Le Pen (giusto un esempio), può stupire solo le anime belle, ma molto belle, come Matteo Renzi, il rottamatore che fu, il quale dichiara: “O questa è una fake news o questo è uno scoop clamoroso. Usare il petrolio russo per finanziare la Lega? Sarebbe pazzesco. L’unico che può chiarire è Salvini: deve chiarire lui, subito”.
Renzi, dovrebbe pensare di più ai suoi genitori, soprattutto al babbino suo prima di stracciarsi le vesti per presunti finanziamenti illeciti.
Non è da meno, Andrea Romano: “Oggi emergono nuove e decisive prove sulle manovre orchestrate dalla Lega di Salvini per avere dalla Russia di Putin finanziamenti illeciti da usare in campagna elettorale. Salvini non può più tacere: dica la verità agli italiani su quanti soldi ha ricevuto illecitamente da Mosca e come ha usato quei soldi”.
Sì, Salvini dica la verità.
“Ventitré milioni e 300 mila dollari in sette anni. Dal ’70 al ’77 questa è la cifra versata dai sovietici ai comunisti italiani, secondo quanto si ricava dal “rapporto Impedian numero 122″ del dossier Mitrokhin.
Ventitre milioni di dollari, con un andamento irregolare negli anni, corrisposti nel giardino della villa dell’ambasciatore dell’Urss a Roma nelle mani, in una prima fase, di Anelito Barontini, funzionario del partito e uomo al quale Armando Cossutta, che sovraintendeva al flusso finanziario delegava le delicate funzioni”.
Cito da un vecchio articolo di “La Repubblica”, oggi uno dei principali quotidiani forsennatamente antisalviniani. Ma si sa, i propri peccati non assolvono quelli altrui, solo che bisognerebbe avere un pochettino di pudore, giusto un pochettino prima di stracciarsi le vesti a proposito di soldi illeciti, il cui arrivo nelle casse della Lega deve essere, ovviamente, dimostrato.
E di nuovo, anche se lo fosse, rappresenterebbe sicuramente un fatto su cui riflettere, ma niente di cui rimanere basiti. A meno di non essere, come Zingaretti, Renzi e Romano, suore di clausura.
SCIENZE TECNOLOGIE
Sarà la Microsoft a creare il primo Terminator
Tiene banco in queste ore la notizia che Bill Gates ha puntato un miliardo di dollari sull’Intelligenza Artificiale realizzata dalla startup OpenAI che annovera tra i suoi fondatori un certo Elon Musk. Lo scopo è quello di sdoganare finalmente l’intelligenza artificiale dal limbo per smanettoni e nerds in cui si trova ora. Un po’ come accadeva ai computer nei primi anni ’80, anche oggi l’AI è qualcosa di cui tanto si parla, ma che quasi nessuno usa. E ciò avviene perché la tanto decantata intelligenza artificiale non è ancora poi così intelligente: le automobili non si guidano da sole, i robot non vengono a casa a ripararti il tubo della doccia e non si trova una sexy doll in plastica sui marciapiedi neanche a pagarla oro.
Ma ora è arrivato Bill Gates, che ci mette la faccia e soprattutto il grano: 1 miliardo di dollari. Si, insomma, tanta roba. Tutti ne stanno parlando, non solo per gli attori che sono saliti sul palcoscenico (oltre a Gates anche Musk e Altman), ma anche perché sulla carta l’obiettivo è sociale: «La visione di OpenAI e Microsoft è che l’intelligenza artificiale generale lavorerà con le persone per aiutarle a risolvere i problemi multidisciplinari attualmente intrattabili, comprese le sfide globali come i cambiamenti climatici, l’assistenza sanitaria e l’istruzione personalizzata».
Tutto bene dunque; secondo gli estimatori della AI a breve gli esseri umani non avranno più bisogno di lavorare (quanto meno non nel senso “fisico” dell’espressione) e ogni manufatto sarà completamente gratuito. Dunque, anche le critiche sulla disoccupazione prodotta dall’aumento esponenziale della tecnologia verranno temperate dal tema della gratuità dei beni essenziali prodotti con i nuovi sistemi
Ciò di cui si parla pochissimo, invece, è dell’applicazione dell’Intelligenza Artificiale in campo militare.
Eh già, anche se qualcuno ritiene che il sorpasso delle macchine nella velocità di calcolo non sarà mai un problema perché le decisioni saranno in capo all’uomo, le cose si complicano molto quando trattiamo la questione del controllo delle armi.
E’ passato un po’ in sordina, infatti, il disappunto dei tecnici Microsoft che all’inizio del 2019 hanno protestato contro la società per gli impieghi militari della realtà aumentata da loro stessi prodotta nei laboratori scientiffici del gruppo. Meno di un anno fa l’esercito americano avrebbe ordinato a Microsoft circa 100 mila dispositivi di realtà aumentata firmando un contratto dal valore di 479 milioni di dollari. L’”aggeggio” contestato dai dipendenti è una specie di cannocchiale per i soldati, l’hololens2, dotato nella nuova versione di una telecamera FLIR (Forward looking infrared) frontale leggermente più prominente sopra la fronte dell’utilizzatore.
Sulla stampa specializzata si legge che :
Il visore mostra una bussola in corrispondenza del campo visivo del soldato e la posizione rispetto agli altri membri del commando. Inoltre, sovrappone un reticolo per agevolare la mira del soldato che lo indossa. La telecamera FLIR, inoltre, contribuisce a rendere il visore un dispositivo con visione agli infrarossi o notturna, per permettere di scorgere eventuali minacce all’interno della vegetazione o in una coltre di fumo.
Fino a qua niente di male, ma i dipendenti sono preoccupati: “non siamo entrati in Microsoft per sviluppare armi – hanno scritto in una lettera inviata ai dirigenti del gruppo – e chiediamo che il nostro parere venga preso in considerazione quando
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STORIA
IL FARSI DELLA STORIA
Niram Ferretti – 17 luglio 2019
“Li uomini hanno meno rispetto ad offendere uno che si facci amare che uno che si facci temere; perché l’amore è tenuto da uno vincolo di obbligo, il quale, per essere gli uomini tristi, da ogni occasione di propria utilità è rotto: ma il timore è tenuto da una paura di pena che non abbandona mai.”
Niccolò Machiavelli, “Il Principe”
Bisognerebbe rileggersi il libro V della “Guerra del Peloponneso” di Tucidide, quello in cui si svolge il celebre dialogo tra gli Ateniesi, all’apogeo del loro potere e i Meli. Nulla è cambiato in questo senso da allora a oggi per quanto riguarda i rapporti di forza e il determinarsi della storia.
Davanti ai Meli, in evidente posizione di inferiorità Tucidide mette in bocca queste parole agli ateniesi:
“Da parte nostra, non faremo ricorso a frasi altisonanti; non diremo fino alla noia che è giusta la nostra posizione di predominio perché abbiamo debellato i Persiani e che ora marciamo contro di voi per rintuzzare offese ricevute: discorsi lunghi, che non fanno che suscitare diffidenze. Però riteniamo che nemmeno voi vi dobbiate illudere di convincerci col dire che non vi siete schierati al nostro fianco perché eravate coloni di Sparta e che, infine, non ci avete fatto torto alcuno. Bisogna che da una parte e dall’altra si faccia risolutamente ciò che è nella possibilità di ciascuno e che risulta da un’esatta valutazione della realtà. Poiché voi sapete tanto bene quanto noi che, nei ragionamenti umani, si tiene conto della giustizia quando la forza incombe con parità da ambo le parti; in caso diverso, i più forti esercitano il loro potere e i più deboli vi si adattano”
I trattati, diceva Otto Von Bismarck, poi seguito da Georges Clemenceau, sono solo “pezzi di carta”.
Chi ha la forza la usa, sia militarmente sia economicamente. La diplomazia, senza avere alle spalle la forza, non ha alcun reale potere di persuasione.
Maometto, nel 628, stipulò, nel piccolo villaggio di Hudaybiyyah, una pace con i meccani che sarebbe dovuta durare dieci anni. Lo fece perchè sapeva che all’epoca disponevano di un esercito più forte del suo. Quando fu lui a essere più forte di loro, interruppe la tregua, stracciò il trattato di pace, li attaccò e li massacrò tutti.
Molti altri esempi possono essere citati per giungere alla cruda brutalità di Adolf Hitler il quale sosteneva che l’unico diritto che contasse in politica era quello della forza. In questo senso non faceva che ripetere in forma estrema quello che Tucidide fa dire agli ateniesi. Ciò che, con modalità espresse e praticate meno crudelmente e terribilmente, è sempre stato fatto sotto il sole da tutti i grandi imperi.
L’Europa filoislamica che cerca di ribellarsi al fatto che il paese più potente del mondo, gli Stati Uniti, abbia deciso di imporre sanzioni economiche severissime all’Iran, fa sorridere. Gli Stati Uniti sono infatti come gli ateniesi a Melo, e gli europei che vorrebbero tenere in piedi i loro affari con l’Iran, sono come i Meli.
“I più forti esercitano il loro potere, e i più deboli vi si adattano”.
In questa frase, scritta duemilaquattrocentotrentuno anni fa, è riassunto, a ciglia asciutte, il farsi impietoso della storia.
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