NOTIZIARIO STAMPA DETTI E SCRITTI 24 MAGGIO 2019

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NOTIZIARIO STAMPA DETTI E SCRITTI

24 MAGGIO 2019

A cura di Manlio Lo Presti

Esergo

Per quanto ricchi e potenti fossero,

i figli dell’Occidente ignoravano il cammino

che conduce un uomo verso sé stesso.

(Driss Chraibi, scrittore marocchino)

 

BELTRAMI, Breviario per nomadi, Biblioteca del Vascelo, 1992, pag. 54

 

 

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Le opinioni degli autori citati possono non coincidere con la posizione del curatore della presente Rassegna.

 

Tutti i numeri dell’anno 2018 della Rassegna sono disponibili sul sito www.dettiescritti.com 

 

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SOMMARIO

 

24 maggio. Perché ricordiamo quella data di cento anni fa 1

. 1FUCILATI DAI CARABINIERI APPENA ARRIVATI AL FRONTE DISERTORI E AMMUTINATI, I VERI EROI DELLA GRANDE GUERRA. 1

L’onore (perduto ma restituito) dei soldati fucilati nella Grande guerra

L’egemonia di sinistra ha creato un deserto e l’ha chiamato cultura 1

Giulio Meotti: «I 30 anni in cui l’Europa ha perso la libertà». 1

La critica culturale langue e scandalizza. Un’altra forma di censura 1

Quella Chiesa schierata contro lo Stato nazionale e i sovranisti 1

La guerra dell’Iran alla cultura 1

Sgarbi a Rovigo: «Bergoglio? Il primo papa ateo della storia» 1

Un egemone sotto scacco. 1

Gramsci e il populismo 1

LA DISUBBIDIENZA PER GIORDANO BRUNO GUERRI 1

Libia, è un fiume sotterraneo l’arma segreta nella battaglia di Tripoli

Permessi di soggiorno agli immigrati venduti a tremila euro: poliziotti arrestati a Napoli 1

Migranti, tabacco e carburante: l’ultimo business del contrabbando 1

PRESIDENTE MATTARELLA, NON C’È SOLO LO SPREAD! 1

Quando il PIL non dice tutto

Magistrati arrestati: scoperto il «tesoro» di Savasta: 22 case e 12 terreni. Ex pm interrogato a Lecce per 8 ore 1

Lo “sbarco giudiziario” di Lampedusa

Tremate, i Google Glass sono tornati. E adesso li usano nelle fabbriche 1

La Cassazione e il Jobs act 1

Fantasma 1

La fine di Theresa May? È una lezione da imparare a memoria, per chi combatte i populisti 1

MACRON ADESSO PERSEGUITA ANCHE LA STAMPA. 1

In che modo i dirigenti palestinesi puniscono i pazienti 1

Il caso Salvini

Elezioni europee, i partigiani invitano a votare per il Pd. Con la solita retorica trasudante odio. 1

Quelli di +Europa hanno già governato. Ecco come andò. 1

Otto domande (e risposte) sull’Europa 1

PD, o il partito dell’odio

Primo passo verso l’elettronica senza elettroni 1

Mansueti, guerrieri o maneggioni? 1

 

 

IN EVIDENZA

24 maggio. Perché ricordiamo quella data di cento anni fa

22 maggio 2019

 

Dallo speciale di “Storia in Rete” dedicato al centenario del conflitto mondiale, “1915. L’Italia va alla guerra“, anticipiamo l’editoriale di Fabio Andriola. (SiR)

Per noi di «Storia In Rete» la Grande Guerra è sempre stata un tema un po’ speciale. Ci sembra, infatti, che in quella straordinaria anche se drammatica esperienza l’Italia, come nazione, abbia dimostrato doti e risorse importanti, esemplari. E nei periodi difficili, come gli anni che viviamo, un esempio importante di compattezza e vigore può essere utile anche perché smentisce tanti luoghi comuni che gli italiani per primi alimentano in se stessi. Ma più ci si avvicina alla fatidica data del 24 maggio (giorno in cui si «celebrano» o forse più semplicemente si «ricordano» i cent’anni dall’ingresso italiano nella Prima guerra mondiale) più aumenta la consapevolezza che l’Italia si avvia verso l’ennesima occasione mancata. In un’epoca in cui carta d’identità e passaporto sono ridotti ad un puro fatto amministrativo, mentre i confini e la stessa sovranità nazionale vengono considerati dettagli, quasi fastidiosi, retaggio di un passato lontano, inutile se non vergognoso, che possibilità c’è di ricordare con orgoglio lo sforzo titanico che il giovane Regno d’Italia compì tra il 1915 e il 1918? Uno sforzo fatto proprio per far coincidere i confini naturali con quelli politici e culturali, per chiudere un processo iniziato nel 1848 con la prima guerra di Indipendenza intrapresa dal Regno di Sardegna di Carlo Alberto di Savoia. Certo, non tutto fu lineare e il percorso che portò l’Italia all’Unità non fu tra i più semplici ma alla fine si arrivò all’obbiettivo. Un obbiettivo raggiunto in gran parte nel 1859-1861 (Seconda guerra d’Indipendenza e Impresa dei Mille), consolidato in qualche modo tra il 1866 (Terza guerra d’Indipendenza) e il 1870 (Presa di Roma) e coronato proprio nel 1918 con la riunione alla Madre Patria di Trento e Trieste, dell’Istria e della Dalmazia.

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Tutto questo è costato parecchio, soprattutto vite umane. Sacrifici immensi di almeno tre generazioni di italiani – i nostri nonni, bisnonni, trisavoli – che andrebbero onorati, rispettati e conosciuti nei loro dolori ma anche nei loro successi, nelle loro paure ma anche per il loro coraggio, per come affrontarono le sfide immani che la Storia poneva loro dinanzi. E invece l’orientamento prevalente quale è? Uno squallido appiattimento sulla retorica minimalista che, in televisione e in libreria, al cinema come sui giornali punta esclusivamente a mettere l’accento sulla dura vita del fante in trincea, carne da cannone in mano a generali ottusi, cinici, inumani a loro volta al servizio di politici miopi e ambiziosi ad un tempo. Tutto qui: una lunga, infinita, drammatica «inutile strage» che poteva e doveva essere evitata. Il «perché» doveva essere evitata e come si sarebbero potuti raggiungere in altro modo determinati obbiettivi nessuno però lo dice. Meglio guardare con ostinazione il dito (le sofferenze della vita in trincea) e trascurare la Luna (gli obbiettivi). Un modo molto «politicamente corretto» di affrontare i problemi come dimostra anche la cronaca di questi anni e mesi.

La «strage» ci fu. Ma fu davvero inutile? Dovrebbero star bene attenti i cialtroni che confondono la retorica anti-guerra (ma a chi piace la guerra? Può mai davvero essere bello fare la guerra?) con le guerre necessarie che sono, soprattutto, le guerre di liberazione nazionale, come appunto fu la Prima guerra mondiale per l’Italia. Mica contestano i greci, gli slavi, i russi, i libici, gli abissini che combattevano – legittimamente ma non di rado con eccessi uguali e contrari a quelli che invece vengono imputati ai militari italiani – i nostri soldati nella loro veste di invasori e colonizzatori. Mica contestano i reduci repubblicani della Guerra civile spagnola che – volenti o nolenti – nel 1937-39 combattevano per la Repubblica ma anche a fianco degli uomini di Stalin. O, men che meno, i partigiani che presero il fucile per combattere il tedesco invasore. E ci mancherebbe… Durante le ridondanti celebrazioni per il 70 anni della Liberazione, lo scorso 25 aprile, avete forse sentito qualcuno dire che i partigiani si sono sacrificati e in gran numero sono morti nel corso di una «inutile strage»? Le sofferenze della vita in montagna o comunque della clandestinità nell’Italia occupata dai tedeschi non vanno forse inquadrate nell’ottica di un contesto di guerra finalizzata ad un «obbiettivo superiore»? Ebbene, cosa ha di più il partigiano del 1944-1945 rispetto al fante del ’15-18? La consapevolezza? Ma in quante guerre il soldato ha, inizialmente, una totale consapevolezza di cosa sta facendo e per quali motivi sta combattendo? Del resto, molte lettere e diari ci dicono invece che tanti soldati, anche spesso poco più che alfabetizzati, sapevano cosa stava accadendo e che lo sforzo di tutti era quello necessario per arrivare finalmente in fondo alla strada aperta nel 1848. I nemici? Non a caso erano sempre gli stessi. Lo scopo? Anche lui era sempre quello. Certo i morti si son contati a centinaia di migliaia ma sono morti (a differenza, spiace ma è così, dei soldati austriaci e ungheresi che, più o meno consapevoli, combattevano per l’Imperatore di Vienna) non per conquistare un Paese straniero, per occupare, sfruttare e deportare popolazioni pacifiche, per depredare opere d’arte, industrie e campi stranieri. Sono morti per portare a compimento una cosetta da niente per alcuni. Una cosetta che si chiama Unità nazionale e che si è sempre pronti a rivendicare, giustamente, quando qualcuno, da qualche parte dell’inquieto pianeta Terra la minaccia o la nega a piccole enclave, a minoranze etniche, a paesi economicamente sottosviluppati. Basta che certe rivendicazioni non siano in capo, ieri come oggi, all’Italia: allora diventano populistiche, revansciste, «nazionaliste» (che brutta parola!), antistoriche…

Nel più classico ed esemplare strabismo pseudo-pacifista quello che valeva e vale per chiunque non vale per i nostri nonni che, nel migliore dei casi, erano «inconsapevoli» e mandati a morire senza un perché. Invece, pur con tutte le zone d’ombra che qualunque evento storico si porta dietro (e di cui cerchiamo di dar conto nelle prossime pagine) pensiamo che la Grande Guerra sia stata, per l’Italia, una guerra necessaria e, in una prospettiva storica, perfino una «guerra utile» per le indubbie ricadute che ha avuto non solo per la modernizzazione e la democratizzazione della società ma, soprattutto, per l’opera di formazione e consolidamento di quella strana cosa (almeno in Italia) che si chiama «identità nazionale»: una «consapevolezza di sé» in quanto appartenente ad un gruppo umano e sociale che non solo parla la stessa lingua e vive sulla stessa terra ma che ricorda anche come le generazioni precedenti hanno contribuito a delimitare lo spazio geografico e culturale in cui il gruppo stesso storicamente si muove e opera. L’«identità nazionale» può essere avvertita e affermata anche in modo rustico senza che questo ne infici il valore e il senso. Un esempio interessante: lo scorso 18 novembre 2014, durante la trasmissione di approfondimento politico «Quinta colonna» (in onda su Rete4), nel mezzo del solito collegamento infuocato dove residenti di periferia si confrontano e lamentano della vicinanza di campi rom, un sanguigno signore bolognese, di fronte alla giustificazioni di un peraltro civilissimo contraddittore rom che rivendicava il proprio essere «italiano» ha sbottato così: «Vi dovete comportare come dice la legge italiana. Siete in Italia, cazzo. Mio nonno era sul Carso a combattere. Tuo nonno dove cazzo era?».

Ecco: porsi certe domande mentre il delirio del «multiculturalismo senza se e senza ma» soffia fortissimo può aiutare a capire cosa si vuole o se lo si vuole ancora. Dove erano i nostri nonni e bisnonni nel ’15-’18? A fare che? Secondo noi in moltissimi casi erano a fare qualcosa di difficilissimo, durissimo, bellissimo e che merita non solo rispetto ma rappresenta un valore attuale e da riaffermare: finivano di fare l’Italia, portandola alla sua dimensione naturale e a confini sicuri dopo secoli di invasioni da ogni parte

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http://www.storiainrete.com/10261/in-primo-piano/10261/

 

 

 

 

FUCILATI DAI CARABINIERI APPENA ARRIVATI AL FRONTE DISERTORI E AMMUTINATI, I VERI EROI DELLA GRANDE GUERRA

6 gennaio 2018     RILETTURA OPPORTUNA

Un quadro che racconta la tragedia di centinaia di soldati in grigioverde: morti davanti al plotone d’esecuzione per vigliaccheria o diserzione. Ma in tanti tra loro scelti a caso, per punire il reparto che si era battuto – secondo i comandi – senza sufficiente coraggio

Fucilati dai carabinieri appena arrivati al fronte disertori e ammutinati, i veri eroi della grande guerra

“Presso un reggimento di fanteria, avviene un’insurrezione. Si tirano dei colpi di fucile, si grida non vogliamo andare in trincea. Il colonnello ordina un’inchiesta, ma i colpevoli non sono scoperti. Allora comanda che siano estratti a sorte dieci uomini; e siano fucilati. Sennonché, i fatti erano avvenuti il 28 del mese, e il giudizio era pronunciato il 30.

Il 29 del mese erano arrivati i” complementi”, inviati a colmare i vuoti prodotti dalle battaglie già sostenute: 30 uomini per ciascuna compagnia. Si domanda al colonnello: “Dobbiamo imbussolare anche i nomi dei complementi? Essi non possono aver preso parte al tumulto del 28: sono arrivati il 29 “. Il colonnello risponde:” Imbussolate tutti i nomi”.

Così avviene che, su dieci uomini da fucilare, due degli estratti sono complementi arrivati il 29. All’ora della fucilazione la scena è feroce. Uno dei due complementi, entrambi di classi anziane, è svenuto. Ma l’altro, bendato, cerca col viso da che parte sia il comandante del reggimento, chiamando a gran voce: “Signor colonnello! signor colonnello! “. Si fa un silenzio di tomba. Il colonnello deve rispondere. Risponde: “Che c’è figliuolo? “

“Signor colonnello!” grida l’uomo bendato “io sono della classe del ’75. Io sono padre di famiglia. Io il giorno 28 non c’ero. In nome di Dio!”. “Figliuolo” risponde paterno il colonnello “io non posso cercare tutti quelli che c’erano e che non c’erano. La nostra giustizia fa quello che può. Se tu sei innocente, Dio te ne terrà conto. Confida in Dio”.

Così Silvio D’amico, in “La vigilia di Caporetto”, racconta uno dei tanti episodi di repressione interna operata dai comandi dell’Esercito Italiano durante la Grande Guerra.

D’ Amico, esonerato dal servizio militare si era arruolato volontario.

Infarcito della propaganda bellica e dei proclami interventisti, giunto come tenente artigliere al fronte si era

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http://www.lefotochehannosegnatounepoca.it/2017/10/27/fucilati-dai-carabinieri-appena-arrivati-al-fronte-disertori-ammutinati-veri-eroi-della-grande-guerra/

 

 

 

 

 

L’ONORE (PERDUTO MA RESTITUITO) DEI SOLDATI FUCILATI NELLA GRANDE GUERRA

 

 

Su una targa di bronzo da affiggere in un’ala del Vittoriano, la Repubblica italiana renderà evidente «la volontà di chiedere il perdono» per i caduti dimenticati della Grande guerra condannati a morte per motivi disciplinari o giustiziati sul campo per atti di ribellione: si tratta dei 750 militari fucilati al termine di un regolare processo, dei 350 soldati passati per la decimazione o giustiziati direttamente dai superiori, del numero imprecisato dei soldati uccisi durante i combattimenti da «fuoco amico» per impedire che arretrassero dalle posizioni loro assegnate. Tutto in nome di un codice militare ottocentesco che subì la più spietata applicazione grazie alla circolare Cadorna: un ordine di servizio del capo di Stato maggiore dell’esercito che, come testimonierà la commissione affidata al generale Tommasi a ridosso della fine della guerra, permise agli alti comandi e ai tribunali militari di andare ben oltre i limiti imposti dalla legge. Esattamente dopo cento anni, la Camera ha approvato (331 favorevoli, nessun contrario, un astenuto) la legge per la riabilitazione dei caduti dimenticati (primo firmatario Gian Paolo Scanu, relatore Giorgio Zanin) che è arrivata in aula prima del 24 maggio, la data di inizio delle attività belliche nel 1915, grazie all’impegno del presidente della commissione Difesa Elio Vito (FI). Il testo ora passa al Senato.

Gli oltre 1000 davanti al plotone d’esecuzione

Nel corso della Grande Guerra, davanti ai tribunali militari comparvero 323.527 imputati di cui 262.481 in divisa, 61.927 civili e 1.119 prigionieri di guerra. Le condanne interessarono il 60 per cento dei processi. 4.028 dibattimenti si conclusero con la pena capitale (2.967 con gli imputati contumaci). Le sentenze di morte eseguite furono 750. A un secolo di distanza – dopo che nel 2007 la pena di morte è stata definitivamente cancellata anche dal codice militare di guerra – queste cifre danno il senso di una tragedia dimenticata così come appaiono anacronistiche le motivazioni utilizzate dai giudici militari davanti agli episodi di insubordinazione: «Il tribunale non ritiene di dover concedere le attenuanti generiche nell’interesse della disciplina militare per la necessità che un salutare esempio neutralizzi i frutti della propaganda demoralizzatrice». E anche in caso di denuncia per «sbandamento» le toghe militari usavano il massimo del rigore «in chiave di ammonimento e di prevenzione generale».

«La richieste deve essere proposta dall’interessato…»

Le famiglie di alcuni dei caduti dimenticati della Grande Guerra hanno

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http://www.corriere.it/cronache/15_maggio_21/grande-guerra-onore-perduto-ma-restituito-soldati-fucilati-grande-guerra-95e68902-fffd-11e4-8e1b-bb088a57f88b.shtml

 

 

 

 

 

 

L’egemonia di sinistra ha creato un deserto e l’ha chiamato cultura

L’intellettuale organico ha dissolto concetti, valori e modelli positivi lasciando la società in balia del conformismo e della volgarità

Marcello Veneziani – 08/02/2015

Ma è vera o falsa la leggenda dell’egemonia culturale di sinistra? Cos’era e cosa resta oggi di quel disegno di conquista e dominio culturale? In principio l’egemonia culturale fu un progetto e una teoria che tracciò Gramsci sulla base di due lezioni: di Lenin e di Mussolini, via Gentile e Bottai.

La tesi di fondo è nota:

la conquista del consenso politico e sociale passa attraverso la conquista culturale della società.

Poi fu Togliatti che, alla caduta del fascismo, provò su strada il disegno gramsciano e conquistò gruppi di intellettuali, spesso ex fascisti, case editrici e luoghi cruciali della cultura. Ma il suo progetto non bucò nella società che aveva ancora contrappesi forti, dalle parrocchie all’influenza americana, dai grandi mezzi di comunicazione come la Rai in mano al potere democristiano ai media in cui prevaleva l’evasione.

La vera svolta avviene col ’68: l’egemonia culturale non si identifica più col Pci, che pure resta il maggiore impresario, ma si sparge nell’arcipelago radicale di sinistra. Quell’egemonia si fa pervasiva, conquista linguaggi e profili, raggiunge la scuola e l’università, il cinema e il teatro, pervade le arti, i media e le redazioni.

In che consiste oggi l’egemonia culturale? In una mentalità dominante che eredita dal comunismo la pretesa di Verità Ineluttabile (quello è il Progresso, non potete sottrarvi al suo esito).

Quella mentalità s’è fatta codice ideologico e galateo sociale,

noto come politically correct,

intolleranza permissiva e bigottismo progressista.

 

Chi ne è fuori deve sentirsi in torto, deve giustificarsi, viene considerato fuori posto e fuori tempo, ridotto a residuo del passato o anomalia patologica.

Ma lasciamo da parte le denunce e le condanne e poniamoci la domanda di fondo: ma questa egemonia culturale cosa ha prodotto in termini di opere e di intelligenze, che impronta ha lasciato sulla cultura, la società e i singoli? Ho difficoltà a ricordare opere davvero memorabili e significative di quel segno che hanno inciso nella cultura e nella società. E il giudizio diventa ancor più stridente se confrontiamo gli autori e le opere a torto o ragione identificate con l’egemonia culturale e gli autori e le opere che hanno caratterizzato il secolo. Tutte le eccellenze in ogni campo, dalla filosofia alle arti, dalla scienza alla letteratura, non rientrano nell’egemonia culturale e spesso vi si oppongono. Potrei fare un lungo e dettagliato elenco di autori e opere al di fuori dell’ideologia radical, un tempo marxista-progressista, se non contro.

L’egemonia culturale ha funzionato come dominazione e ostracismo ma non ha prodotto e promosso grandi idee, grandi opere, grandi autori. Anzi sorge il fondato sospetto che ci sia un nesso tra il degrado culturale della nostra società e l’egemonia culturale radical. I circoli culturali, le lobbies e le sette intellettuali dominanti hanno lasciato la società in balia dell’egemonia sottoculturale e del volgare. E l’intellettuale organico e collettivo ha prodotto come reazione ed effetto l’intellettuale individualista e autistico che non incide nella realtà ma si rifugia nel suo narcisismo depresso. Ma perché è avvenuto questo, forse perché ha prevalso un clero intellettuale di mediocri funzionari, anche se accademici? Ci è estraneo il razzismo culturale, peraltro assai praticato a sinistra, non crediamo perciò che sia una questione «etnica» che riguarda la razza padrona della cultura.

Il problema è di contenuti: l’egemonia culturale non ha veicolato idee, valori e modelli positivi ma è riuscita a dissolvere idee, valori e modelli positivi su cui si fonda la civiltà. Non ha funzionato sul piano costruttivo, sono

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http://www.ilgiornale.it/news/legemonia-sinistra-ha-creato-deserto-e-lha-chiamato-cultura-1090970.html

 

 

 

 

 

 

Giulio Meotti: «I 30 anni in cui l’Europa ha perso la libertà»

31 Maggio 2019 di Ilaria Myr

Un libro sull’autocensura dell’occidente.

Il massacro a Charlie Hébdo non è stato soltanto un atto barbarico di violenza islamista nel cuore dell’Europa. È stato anche un grande test per tutto l’Occidente e per la libertà di espressione nelle democrazie. E ha dimostrato che stiamo tutti fallendo. È in corso una servile resa su più fronti. La stampa, la politica e i media hanno adottato una politica dell’autocensura forzata”. È sintetizzata in queste poche righe, contenute nelle ultime pagine, la tesi di fondo del nuovo libro di Giulio Meotti Hanno ucciso Charlie Hébdo. Il terrorismo e la resa dell’Occidente: la libertà di espressione è finita (Lindau, 161 pagg, 16 €): un testo in cui l’autore, giornalista de Il Foglio, inserisce la tragica vicenda della strage al giornale satirico francese del 7 gennaio 2015 in un contesto molto più ampio, costellato di altri episodi importanti di limitazione della libertà di pensiero e di espressione che hanno colpito tanti intellettuali, scrittori e registi che hanno “osato” esprimersi sulla religione islamica in termini non apprezzati dal mondo musulmano. Le vicende di Salman Rushdie, autore de I versi satanici, sul quale già nel 1989 venne lanciata una fatwa proprio per i contenuti del libro; del regista olandese Theo Van Gogh, assassinato per strada nel 2004 come ritorsione contro alcune immagini mostrate nel suo film Submission, o della politica e scrittrice somalo-olandese Ayan Hirsi Ali, autrice della sceneggiatura del film di Van Gogh, che vive sotto scorta per le proprie posizioni critiche sulla condizione delle donne nell’Islam: insieme alla strage di Charlie Hébdo sono tutti anelli di una stessa catena, quella della limitazione della libertà di espressione da parte del mondo islamico, nel cuore della civilissima Europa.

«La storia di Charlie Hébdo non può essere considerata solo come un tragico episodio francese o che riguarda solo un giornale satirico: è invece il culmine di una guerra che dura da 30 anni, che ha colpito molti scrittori, registi e intellettuali, alcuni dei quali si sa poco – dichiara Meotti al Bollettino Magazine -. E che inizia per i giornalisti del settimanale satirico francese ben prima del 2015, già nel 2006, quando decidono di pubblicare le vignette su Maometto uscite sul giornale danese Jyllands-Posten l’anno prima, che

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https://www.mosaico-cem.it/attualita-e-news/personaggi-e-storie-attualita-e-news/giulio-meotti-i-30-anni-in-cui-leuropa-ha-perso-la-liberta

 

 

 

 

La critica culturale langue e scandalizza. Un’altra forma di censura

Assuefatti all’uso compulsivo di internet, non ci facciamo più tentare dai libri pericolosi

 

di Alfonso Berardinelli – 2 Marzo 2019

Mentre cercavo sull’Enciclopedia della letteratura Garzanti la voce Cicerone, per verificare alcuni titoli delle sue orazioni, mi sono imbattuto nella voce Censura e lì sono rimasto per un po’. Mi sono rinfrescato la memoria ma ho anche appreso cose che mi erano sfuggite. Nel corso dei secoli le varie censure di tipo religioso e politico avevano colpito, come tutti sanno, una quantità di opere e autori, ovviamente Giordano Bruno, Copernico, Keplero, Galileo, ma anche vari romanzi: Madame Bovary, Il richiamo della foresta, l’Ulisse, L’amante di Lady Chatterley, Il Maestro e Margherita, Tropico del Cancro, Il dottor Zivago, Ragazzi di vita, La noia e perfino Harry Potter (non viene detto perché). Ma colpiscono e insieme appaiono ovvie le conclusioni della voce: “Un’altra censura oggi molto attiva è quella del mercato: la diffusione di un libro ‘scomodo’ può infatti essere frenata attraverso strategie di marketing, ovviamente ‘a rovescio’. Che si compiaccia in un ottuso conformismo, che inalberi un anticonformismo di facciata esibito ‘perché tutto resti uguale’, o che addirittura osi una totale libertà, conscia che nel caos frastornante le voci ‘pericolose’ si perdono, la censura è ancora al lavoro…”.

 

Evidentemente “nel mondo libero” si è passati da una censura aperta a una censura subdola, di fatto, astutamente mascherata. In passato si era diffusa nella sinistra intelligente un’idea ingegnosa ma non priva di fondamento, secondo cui i regimi totalitari o autoritari che censurano brutalmente, senza pudori, anzi in spirito di propaganda, sono meno ipocriti di quelli liberaldemocratici: e in più mostrano di prendere più sul serio la letteratura e la parola scritta perché le temono, credono davvero nei loro effetti liberatori e critici e dunque se ne difendono con la repressione. Noi invece non temiamo la libertà di parola perché non teniamo in grande considerazione né la parola scritta né la letteratura. Cioè: “Scrivi pure quello che vuoi, tanto noi ce ne freghiamo… Anzi, puoi anche tacere, perché tanto nessuno ti ascolterà”. Come dice l’Enciclopedia Garzanti, “nel caos frastornante le voci pericolose si perdono”. Il libero mercato produce un tale rumore o fracasso di fondo, offre una tale varietà di diversivi e distrazioni, che si fa presto a catturare l’attenzione del grande pubblico trascinandola lontano da libri e autori “scomodi” (un aggettivo che si usò fieramente fino agli anni Sessanta, poi sparì).

 

Ho letto su questo giornale l’articolo di Giulio Meotti sulla censura che dal 1979 colpisce i libri in Iran, dopo l’arrivo dell’ayatollah Khomeini: “Pochi giorni fa, in un hangar a Teheran, è stato scoperto un deposito di mezzo milione di libri. C’erano La fattoria degli animali di Orwell, testi di George Bernard Shaw, l’Iliade e alcuni romanzi di Albert Camus. Questa specie di sepolcro della cultura è uno dei lasciti più terribili della rivoluzione islamica iraniana che ‘celebra’ i suoi quarant’anni”. Nella pratica della censura, l’Iran ha oggi il primato mondiale. L’attuale guida suprema Ali Khamenei paragona i libri “pericolosi” alle droghe. Temo però che in occidente la tendenza sia opposta: invece di leggere libri pericolosi, ci si droga. Del resto l’uso compulsivo di internet via smartphone crea assuefazione peggio del gioco d’azzardo e come una droga, perché non riguarda una minoranza, ma quasi tutti. Non si sono ancora trovati rimedi né pratiche disintossicanti. Dubito che se ne troveranno.

L’economia mondiale giudicherebbe una spaventosa calamità che nel mondo anche un solo milione di persone, su sei miliardi di viventi, smetta di connettersi per una settimana. Che c’entra la censura? E’ che i libri si censurano non soltanto non pubblicandoli, ma non leggendoli, rendendo impensabile sia andarli a cercare che trovare il tempo per leggerli. Siamo infatti liberi di non leggerli, e infatti li leggiamo sempre meno. Non si vieta la lettura di un libro, non si scoraggia la lettura, si dice anzi che è un bene. Ci si limita piuttosto all’essenziale: si fa in modo che ci sia sempre qualcosa di più comodo e veloce da fare.

 

Ho appreso da un articolo di Lorenzo Tomasin uscito sul Sole di domenica 24 (“Testo digitale, tu ci inganni”) che un gruppo internazionale di ricerca sull’E-read è arrivato alla seguente conclusione: “La lettura su schermo, nelle modalità tipiche del cosiddetto e-learning attuale, ha pesanti ripercussioni sulla possibilità di lettura approfondita: cioè sulla piena comprensione dei concetti, sulla loro articolazione e complessità, sulla loro memorizzazione”. Se il testo è costruito per veicolare rapidamente messaggi semplici e schematici adatti al supporto digitale, allora va bene. Ma se si tratta di testi del passato o scritti oggi per la stampa su carta, allora la e-reading se ne lascia sfuggire integrità e sfumature. Insomma: se vogliamo continuare a leggere, a capire ciò che è stato scritto nell’arco di trenta secoli, la lettura concentrata e lenta è un rituale che non si può evitare senza seri danni.

E ora un piccolo caso personale, che certo non ha a che fare con la censura ma con la scarsa tolleranza che si sta diffondendo, proprio in ambienti culturali, nei confronti della critica letteraria e culturale in genere. Sull’Espresso sempre del 24 febbraio, leggo

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https://www.ilfoglio.it/cultura/2019/03/02/news/la-critica-culturale-langue-e-scandalizza-unaltra-forma-di-censura-240526/

 

 

 

 

 

Quella Chiesa schierata contro lo Stato nazionale e i sovranisti

Si moltiplicano gli appelli della Chiesa cattolica in vista delle elezioni europee. L’ultimo, quello del consiglio pastorale di Vicenza, è una traccia già ascoltata: Unione europea, migranti ed ecologia

Francesco Boezi – Ven, 17/05/2019

La “promozione del bene comune”, stando al diritto canonico, è una delle deroghe che consente ai membri consacrati della Chiesa cattolica di partecipare, in maniera attiva, alle attività proprie della politica.

Considerando il numero di interventi pubblici di sacerdoti e vescovi in vista delle prossime elezioni europee, con tanto d’indicazioni più o meno mascherate, si potrebbe pensare che quella norma giuridica sia stata oltrepassata. C’è chi pensa che la Chiesa debba agire sul piano della storia e chi ritiene che la mission debba limitarsi alla cura delle anime.

Il consiglio pastorale diocesano di Vicenza, per esempio, non sembra avere alcuna

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http://www.ilgiornale.it/news/politica/chiesa-schierata-contro-stato-nazionale-e-i-sovranisti-1696485.html

 

 

 

 

 

La guerra dell’Iran alla cultura

Nel 1979 il paese è diventato la tomba di scrittori e poeti. Milioni di libri distrutti e un ministero per cancellare le parole

 

di Giulio Meotti – 25 Febbraio 2019

 

Pochi giorni fa, in un hangar a Teheran, è stato scoperto un deposito di mezzo milione di libri. C’erano “La fattoria degli animali” di George Orwell, testi di George Bernard Shaw, l’Iliade di Omero e alcuni romanzi di Albert Camus. Questa specie di sepolcro della cultura è uno dei lasciti più terribili della rivoluzione islamica iraniana che “celebra” i suoi 40 anni.

 

In una giornata di pioggia in una piccola libreria a Teheran, un uomo intanto nascondeva il viso con un libro. Sulla copertina c’è una ragazza, avvolta in un lenzuolo, giace sul pavimento, vicino a un paio di scarpe da uomo. In farsi, la lingua iraniana, la parola “Lolita”. “Questa è la mia traduzione venduta per le strade di Teheran”, dice Akram Pedramnia al Boston Globe di questa settimana. “Il libro è vietato, ma le persone mi mandano queste fotografie, nascondendo i loro volti, ovviamente. E pubblicano queste immagini su piattaforme social, mostrando il contrabbando”. Pedramnia, nato in Iran ma residente in Canada da circa vent’anni, traduce il proibito, da Francis Scott Fitzgerald a Margaret Atwood. Le autorità iraniane hanno chiesto tagli significativi ai libri della Atwood, che Pedramnia ha rifiutato. Sta attualmente traducendo l’“Ulisse” di James Joyce, finora sempre bandito.

 

Nel famoso San Valentino del 1979, l’imam Khomeini condannava a morte uno scrittore (Salman Rushdie) e il suo romanzo (“I versetti satanici”). Ma anche dentro all’Iran il Censore Supremo si avviava a un purga immensa. Come scrive “Censorship: A World Encyclopedia” a cura di Derek Jones, il cui database è fermo al 2001, “la rivoluzione islamica dell’Iran ha comportato la distruzione di cinque milioni di libri”. Un paio di anni fa, sotto il “moderato” presidente Hassan Rohani, sono state diffuse le nuove linee guida. “Quando vengono registrati nuovi libri, il nostro staff deve prima leggerli pagina per pagina per accertare che non richiedano alcuna modifica editoriale in linea con la promozione dei principi della rivoluzione islamica, per affrontare efficacemente l’offensiva culturale dell’occidente e per censurare qualsiasi insulto contro i profeti”, ha affermato Mohammad Selgi, responsabile del dipartimento del ministero della Cultura che si occupa della pubblicazione dei libri. “Secondo le nuove regole, è vietato l’uso di parole come vino, i nomi di animali stranieri anche domestici e quelli di alcuni presidenti stranieri”, ha spiegato Selgi, citato dalla Bbc in lingua farsi.

L’attuale Guida Suprema, Ali Khamenei, ha paragonato i “libri pericolosi” alle droghe (esiste un mercato nero di libri invisi al regime, specie attorno alle università. Ne è un esempio la “Lolita” di Nabokov, stampata nel vicino Afghanistan e passata dal confine). L’amore per la parola scritta è profondamente radicato nella società iraniana, grazie alla sua straordinaria storia delle arti, delle scienze e della letteratura (pensiamo ai poeti Rumi e Khayyam). Ma oggi le librerie in Iran sono una rarità, con circa 1.500 negozi per una popolazione di quasi 80 milioni.

 

L’Iran è il primo censore al mondo. Quando si tratta di pubblicare, il processo è molto meticoloso: possono essere necessari mesi, a volte anni, per ottenere il vaglio di un libro attraverso la burocrazia islamico-kafkiana del paese. I libri devono essere prima sottoposti al ministero della Cultura e alla Guida islamica per essere esaminati da almeno un censore anonimo, il cui compito è quello di assicurarsi che il testo segua le regole e i regolamenti della Repubblica islamica. Ad esempio, le scene di baci e danze, così come ogni citazione dell’alcol, sono state modificate nella traduzione iraniana della serie di Harry Potter. A volte, interi capitoli vengono rimossi e alcuni libri non vengono mai stampati. Il ministero della Cultura iraniano ha anche invitato gli scrittori ad autocensurarsi.

L’ex ministro Mohammad Hossein Safar ha dichiarato: “Questo è ciò che chiediamo agli editori e agli scrittori: ‘Siete a conoscenza del codice di controllo, quindi censurate le pagine che potrebbero creare una disputa’”. Un centinaio di scrittori, poeti e traduttori iraniani ha chiesto la fine della censura. “L’Iran è uno dei pochi paesi, all’inizio del XXI secolo, in cui gli autori sono obbligati a chiedere l’autorizzazione dello stato per pubblicare le proprie opere”, scrivono i firmatari, fra cui i poeti Simin Behbahani e Yadollah Royaï, che vive a Parigi. “Lo scrittore è diventato un censore, siamo diventati tutti censori”, ha detto Farkhondeh Hajizadeh, romanziere ed editore indipendente, anch’egli firmatario di quella lettera, in un’intervista a Radio Farda. In questa situazione, alcuni autori e traduttori rinunciano a pubblicare il loro lavoro, come il famoso poeta iraniano Seyed Ali Salehi. Il ministero gli aveva chiesto di rimuovere 120 pagine su 150 da una raccolta delle sue poesie, se voleva vedere il titolo uscire nelle librerie.

 

Durante il regime dello Shah c’era un elenco con 278 titoli proibiti. Sotto i mullah, sono tutti censurati salvo pubblicazione

 

La censura iraniana ricorda quella della Ddr. Si chiamava “Hauptverwaltung Verlage und Buchhandel”, amministrazione per l’editoria e il commercio dei libri e sorgeva in Clara-Zetkin-Strasse a Berlino, l’ufficio per la censura nella Repubblica democratica tedesca. I peggiori vizi di un libro al tempo erano il “pessimismo” e il “solipsismo”, non molto diverso da quanto accade oggi in Iran. Invece di scrivere da soli fino a che non erano arrivati a un manoscritto finito, gli autori solitamente inviavano agli editori le prime bozze e piccoli segmenti. I redattori rispondevano con suggerimenti per le modifiche, e un processo di negoziazione continua fino a quando entrambi raggiungevano un accordo finale. La censura agiva da subito nel processo di scrittura.

 

Da quando, nel 2013, è cominciata in Iran la presidenza Rouhani, qualche miglioramento è stato apportato alla sfera culturale. Sono stati revocati i divieti su alcuni autori, tra cui Ernest Hemingway, Marguerite Duras e José Saramago. Si dice che la Guida suprema Khamenei sia un avido lettore di romanzi occidentali. Come “Les Misérables” di Victor Hugo, la storia di Jean Valjean, che si trova dalla parte sbagliata della legge ma dalla parte giusta della virtù. Khamenei ha lodato il libro come “un miracolo”. Va da sé che l’Inferno dantesco, con la sua descrizione del Maometto dannato, sia proibito, sebbene Khamenei lo abbia letto. Si era appassionato anche a “Cuore di cane” di Mikhail Bulgakov, una parodia del regime sovietico, che l’ayatollah ha elogiato ma poi liquidato come “non rivoluzionario”. Questa sua passione per la cultura lo avrebbe portato anche a prendere di mira e a far uccidere numerosi intellettuali e scrittori “mercenari”, “lacchè” e “penne avvelenate” dell’occidente. Nell’ottobre 1995, il regime ha ucciso lo scrittore e traduttore letterario Ahmad Mir-Alaei, che aveva incontrato lo scrittore britannico V. S. Naipaul. È quasi certo che il leader supremo ha autorizzato tutti gli omicidi di intellettuali in patria e all’estero dal 1989 in poi.

 

Al famoso poeta Seyed Ali Salehi, il regime aveva imposto di togliere 120 pagine su 150 se voleva far uscire la propria raccolta

 

Fra i “libri dannosi”, Khamenei ha inserito il Simposio di Platone, “Viaggio al termine della notte” di Louis-Ferdinand Céline, le opere di Joyce, Gabriel García Márquez e Kurt Vonnegut (il suo “Ghiaccio-Nove” è stato ripubblicato nel 2013). Il ministero ha deciso di censurare “Khosrow e Shirin”, una storia d’amore stile Romeo e Giulietta, scritto da Nezami nel XII secolo e presente nelle case iraniane da secoli. O Sadeq Hedayat, il capostipite della letteratura iraniana moderna. Pur essendo morto nel 1951, esule e suicida a Parigi, i suoi libri sono stati ritirati dalle librerie iraniane. L’autore di racconti come “Sepolto vivo”, poderoso atto d’accusa contro “l’Iran dei religiosi inturbantati”, si è visto censurare anche le traduzioni de “Il muro” di Sartre e “La metamorfosi” di Kafka.

 

Va a ondate la censura letteraria. Dopo che il predecessore riformista di Mahmoud Ahmadinejad, Mohammed Khatami, rilassò il clima culturale, a questo fece seguito una ondata di repressione. Da “Caligola”, una famosa commedia di Albert Camus, i censori rimossero dal testo le parole “economia” e “giustizia” perché erano spesso usato dall’allora presidente Mahmoud Ahmadinejad durante i suoi discorsi. Faraj Sarkouhi, che ha curato il settimanale culturale iraniano Adineh prima di essere imprigionato per “propaganda” negli anni Novanta e che è fuggito in Germania dopo la sua liberazione, dice che i censori iraniani sono ossessionati dall’idea che il romanzo occidentale possa essere una forza corruttiva nella società. “Fanno dell’Iran un inferno per la letteratura, indipendentemente dal fatto che sia

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https://www.ilfoglio.it/esteri/2019/02/25/news/la-guerra-dell-iran-alla-cultura-239848/

 

 

 

 

 

ATTUALITÀ SOCIETÀ COSTUME

Sgarbi a Rovigo: «Bergoglio? Il primo papa ateo della storia»

 

22 Maggio 2019

 

Bergoglio è «il primo papa ateo della storia». A dirlo è il critico d’arte Vittorio Sgarbi, ieri sera a Rovigo a sostegno della candidata sindaco di centrodestra Monica Gambardella. «Il Cristianesimo è religione di vita a cui dobbiamo essere grati, ma lo Stato non dev’essere oggetto di ingerenze», ha affermato.

 

Sgarbi ne ha anche per il Movimento 5 Stelle e il suo

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https://www.vvox.it/2019/05/22/sgarbi-a-rovigo-bergoglio-il-primo-papa-ateo-della-storia/

 

 

 

 

 

CONFLITTI GEOPOLITICI

Un egemone sotto scacco

24 Maggio 2019 DMITRY ORLOV

 

Secondo l’opinione di molti commentatori, in ogni caso intelligenti e ben informati, una guerra tra Stati Uniti e Iran potrebbe scoppiare in qualsiasi momento. Le loro prove a favore di questa teoria consistono in alcune portaerei americane che si suppone siano in rotta verso il Golfo Persico, zona di mare che l’Iran ha minacciato di bloccare in caso di attacco. Per arrivare ad un risultato del genere, l’Iran non dovrebbe comunque fare nessuna azione cinetica; sarebbe sufficiente la minaccia di attaccare qualche petroliera, in modo da annullare la copertura assicurativa, per impedire loro di imbarcare il greggio o di salpare. Una cosa del genere bloccherebbe le consegne di quasi i due terzi di tutto il petrolio trasportato via mare e causerebbe un danno economico veramente impressionante, talmente sbalorditivo che le economie basate sul petrolio delle nazioni importatrici (e persino di quelle esportatrici) potrebbero non riprendersi mai.

Per prima cosa, analizziamo questo tipo di situazione. Dal mio punto di vista, la presenza di portaerei statunitensi nelle vicinanze di un potenziale avversario ben armato come l’Iran, la Cina o la Russia, è un segnale evidente che non ci sarà alcun tipo di escalation militare. La matematica qui è semplice. Per essere efficace in un’azione bellica, una portaerei deve trovarsi in un raggio di 500 km dagli obiettivi che i suoi aerei dovranno bombardare. Questo è il tipico raggio d’azione di un aereo senza rifornimento in volo. Ma, se la suddetta portaerei si avvicina a meno di 1000 km dal suo avversario potenziale, può essere affondata da una numerosa schiera di armi moderne, contro cui non ha difese. Ovviamente, in tali circostanze, il comandante della portaerei eviterà di assumere atteggiamenti anche lontanamente provocatori, mentre farà tutto il possibile per far capire la completa assenza di intenti ostili da parte sua.

Alcuni sostengono (senza nessuna prova) che gli Stati Uniti vorrebbero, a tutti gli effetti, che una delle loro portaerei venisse affondata, in modo da avere il pretesto per un’escalation. Ma in che modo potrebbe avvenire questa escalation? Affondando qualche altra portaerei? Aggiungeteci il fatto che gli Stati Uniti non sembrano più costruire portaerei. Il loro ultimo sforzo, la Gerald R. Ford, che giustamente prende il nome da un presidente “diversamente intelligente,” è costantemente in riparazione, nella speranza che un giorno possa servire a qualcosa. Poi c’è il fatto che gli Stati Uniti non hanno più i soldi per costruire questi giganteschi giocattoli da guerra: per come stanno andando le cose, entro pochi anni l’intero bilancio federale sarà inghiottito dai pagamenti degli interessi sul debito federale.

Apparentemente, è estremamente difficile per gli Americani accettare il fatto che esiste un lungo e crescente elenco di cose che non possono più fare:

  • Gli Stati Uniti non riescono più a fare le rivoluzioni colorate. L’Ucraina è un imbarazzo fuori controllo, dove metà della popolazione è pronta a votare per Putin, mentre alcuni oligarchi ebrei molto cattivi si sono praticamente comprati un presidente ebreo. E se l’esempio dell’Ucraina è tragico (attualmente è il paese più povero in Europa), quello del Venezuela è assolutamente farsesco. Lì, un fantoccio addestrato dagli Stati Uniti, di nome Juan Guaidó, se ne va in giro dicendo di essere il presidente fin dal primo di aprile. In questi giorni, quando gli Stati Uniti parlano di “cambio di regime” la gente alza gli occhi al cielo e sospira.
  • Gli Stati Uniti non riescono più a mettere in scena attacchi falsi flag e a fare in modo che la gente ci creda. Il cosiddetto attacco con armi chimiche a Douma, in Siria, che era servito a Donald Trump come scusa per l’ultimo inutile bombardamento della Siria (in cui un gruppo di missili da crociera Tomahawk era caduto in mare e un altro era stato abbattuto dalle difese aeree siriane) è stato dimostrato in modo inconfutabile essere un falso. E l’ultimo tentativo del genere, causare qualche danno ad alcune petroliere nel Golfo Persico e tentare di incolpare gli Iraniani, non ha avuto molto seguito, essendo assolutamente ridicolo.
  • Gli Stati Uniti non possono più ritirare le proprie truppe. Queste sono bloccate in Afghanistan, dove non hanno più alcun tipo di missione da compiere, ora che i Talebani sono nuovamente vittoriosi. Per poterle ritirare bisogna trovare una sorta di accordo che salvi la faccia, ma qui ci sono due problemi: primo, non sanno come negoziare un accordo del genere, secondo, nessuno vuole negoziare con loro. E così la loro strategia è “marcire sul posto.” Questo è molto brutto, perché c’è la possibilità che evolva in “abbandono sul posto,” smettere di rifornire le truppe quando finiscono i soldi. Oltre a salvare la faccia e a far sembrare la ritirata qualcosa di diverso da una disfatta, ci sono alcune considerazioni pratiche sulla fattibilità del rimpatrio dell’equipaggiamento pesante. Ce n’è troppo per il trasporto via aerea. È arrivato lì attraverso la Russia, ma chiedere nuovamente l’aiuto della Russia sarebbe troppo umiliante. Potrebbe forse essere recuperato attraverso il Pakistan, ma le relazioni USA-Pakistan sono in pessime condizioni. Lasciare tutte le attrezzature in loco renderebbe i Talebani molto ben equipaggiati, e questo sarebbe uno scandalo internazionale. Infine, la scelta migliore sarebbe quella di distruggere tutto il materiale sul posto, ma la cosa farebbe un’impressione terribile, sia in patria che all’estero. Ma l’Afghanistan è solo la punta dell’iceberg: ci sono oltre 1000 basi militari statunitensi in tutto il mondo che dovranno essere smantellate e abbandonate perché, come ho già detto, fra pochi anni gli Stati Uniti avranno un budget per la difesa nazionale pari esattamente a 0 dollari, essendo l’intero bilancio federale stato inghiottito dai pagamenti degli interessi sul debito nazionale.
  • Gli Stati Uniti non possono più combattere guerre commerciali. Quella con la Cina è andata a rotoli in modo spettacolare. La strategia cinese è sempre stata quella di guadagnare tempo, senza mai accettare accordi di sorta, mentre si ingegnava, in modo febbrile, sul come sostituire gli Stati Uniti nel suo, veramente imponente, commercio internazionale. Ad ogni passo, gli Stati Uniti, come risultato, hanno sempre aiutato la Cina, danneggiando contemporaneamente i propri interessi. Qui ci sarebbe troppo da approfondire, quindi ecco solo tre punti salienti. In primo luogo, gli agricoltori statunitensi sono destinati alla bancarotta perché la loro soia contaminata da OGM viene sostituita dalla soia russa ecologicamente free (gli OGM sono illegali in Russia), con importanti benefici per la salute dei Cinesi. In secondo luogo, le sanzioni contro Huawei, che produce la metà degli smartphone e molto altro, hanno tagliato fuori gli Stati Uniti dai prossimi e importanti progressi nella tecnologia di rete. E, a causa della recente decisione di Google di non supportare le versioni future dei telefoni Huawei o di fornire aggiornamenti a quelli attuali, gli smartphone non utilizzeranno più Android, estromettendo gli Stati Uniti dal grosso del mercato degli smartphone. Terzo, la prossima serie di contromisure cinesi, il divieto per le esportazioni di terre rare, manderà a monte le speranze degli Stati Uniti di continuare la produzione di tecnologie energetiche alternative, auto elettriche, semiconduttori e molto altro. Infine, gli Americani finiranno con il pagare caro la loro follia di credere di poter ancora resistere economicamente alla Cina in presenza tassi di interesse molto più alti: la Cina continuerà a vendere quote del debito

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CULTURA

Gramsci e il populismo

Recensione di Nicolò Pennucci

Guido Liguori (a cura di): Gramsci e il populismo, Unicopli, Milano 2019, pp. 173, ISBN: 884002056X

Gramsci e il populismo ha l’ambizione di affrontare un problema fondamentale nel dibattito politico contemporaneo, quello della relazione del pensiero politico della sinistra con il populismo e in particolare il rapporto tra la categoria della classe sociale, centrale nell’elaborazione marxista, e quella di popolo, che sembra negare in toto la portata sociologica e politica dell’unità d’analisi marxista. Partire da Gramsci è imprescindibile, in quanto la teoria politica contemporanea che avoca la possibilità di un populismo di sinistra si riferisce direttamente al suo pensiero nell’elaborazione concettuale della propria proposta. Ciò solleva non pochi problemi alla base dei contributi che si susseguono nel volume collettaneo.

Cercare di analizzare un problema contemporaneo con le lenti di un pensatore di un’altra epoca pone infatti un problema metodologico. Quentin Skinner in un lavoro paradigmatico per la storia del pensiero politico insegna che il pensiero si conosce attraverso i testi che devono essere letti sotto la doppia luce di testo e contesto per evitare distorsioni e imprecisioni ermeneutiche (SKINNER, QUENTIN, 1969: Meaning and Understanding in the History of Ideas,“History and Theory”, Vol. 8, No. 1 pp. 3-53). Sradicare completamente un testo dal suo contesto storico-politico è un’operazione che si apre alla possibilità di distorsioni pericolose e all’abuso di categorie che diventano completamente snaturate. Ciononostante, un pensatore, soprattutto un pensatore come Gramsci che ha fatto della praxis la nota definitoria del suo progetto filosofico, non può restare relegato all’uso dei filologi. Come conciliare la corretta lettura filologica con l’uso politico del pensiero gramsciano nella contemporaneità è la grande domanda che sottostà all’intero sviluppo del libro e valutare i limiti e le potenzialità di questo sforzo è uno dei compiti del presente lavoro. Che questo doppio filo leghi tutti i contributi è dimostrato dallo stesso curatore. Liguori, infatti, nell’introduzione dichiara «presentiamo i contributi che compongono il volume non nell’ordine nel quale si sono susseguiti nel corso del seminario di Roma, ma cercando di collocarli in una sequenza che, partendo da Gramsci e dalla lettura dei suoi testi, cerchi di interrogare il presente del dibattito sul neo-populismo contemporaneo» (p. 10).

Dalla filologia ad una filologia vivente è quindi il percorso tracciato nel libro. Gli interventi di Cingari, Mordenti, Frosini, Meta si concentrano su una lettura filologica che è spesso ignorata negli usi contemporanei di Gramsci, mentre Voza, Prospero, Anselmi, Campolongo, Cortés, Durante e Forenza si dedicano ad un tentativo applicativo delle categorie gramsciane alla contemporaneità, con un notevole sforzo di dialogo critico con alcuni usi consolidati.

La lettura filologica del lemma populismo nell’opera di Gramsci è affidata all’intervento di Salvatore Cingari Populismo e nazionalpopolare. Egli si affretta a precisare che «in Gramsci il lemma populismo significa tutt’altro» (p.14). Stando al testo gramsciano, le sue argomentazioni sul fenomeno del populismo non hanno niente a che vedere con l’accezione contemporanea del lemma, il populismo in Gramsci si riferisce ad un movimento letterario di andata al popolo, condotto dagli scrittori sulla scia del naturalismo francese. Non c’è da stupirsi, del resto, considerando che il populismo contemporaneo nasce da una crisi del liberismo nella fase della globalizzazione avanzata, che non aveva possibilità d’esistere negli anni ’30 del secolo scorso. Questo amplifica il problema della volontà di usare categorie vecchie per nuovi problemi. In parte gli autori del libro si svincolano dalla criticità indicando una distinzione tra un populismo e un neo-populismo, con la quale intendono precisare la distanza tra i due concetti. Tuttavia, questa distinzione necessita di essere precisata in futuri lavori sul tema, onde evitare di mantenere vaga la concettualizzazione del populismo vecchio e nuovo. Lo stesso Cingari ricorda come sia necessario seguire l’indicazione di Fabio Frosini e leggere nei testi gramsciani alcuni esempi paradigmatici del populismo, sebbene chiamati in altri modi, come cesarismo, bonapartismo o boulangismo. Tuttavia questa suggestione non viene sviluppata in modo organico nel proseguo del testo. Nel primo intervento si precisa come il lemma populismo sia legato a doppio filo in Gramsci con quello di nazionale-popolare. Questa dimensione assume un’importanza non secondaria se si considera che Gramsci in carcere deve rifondare un discorso comunista che sia all’altezza dell’innovazione politica del fascismo come fenomeno europeo. L’avanzata delle masse in politica e la sua conseguente trasformazione morfologica sono alla base delle riflessioni del carcere e il dibattito sul nazionalpopolare deve tenere presente questa novità, che è stata indagata dalla più autorevole storiografia, come il citato George Mosse (MOSSE, GEORGE, 2009: La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo politico e movimenti di massa in Germania (1815-1933), Il Mulino, Bologna).

Raul Mordenti nel suo Il concetto di popolo in Gramsci e il populismo cerca di identificare il nesso tra popolo e populismo nel pensiero Gramsciano. Egli inizia la sua argomentazione cercando di identificare come il populismo venga rappresentato nella contemporaneità per ricostruirne poi l’accezione nei testi gramsciani. Salta all’occhio la natura giornalistica e divulgativa delle definizioni contemporanee elencate, senza un più ampio riferimento alla letteratura scientifica sul tema, che non viene concettualizzata negli interventi di questo volume. Per quanto riguarda il pensiero gramsciano, egli segnala la novità del concetto di popolo all’interno della storia del marxismo. Infatti, la tradizione marxista concettualizza lo spazio sociale nell’antagonismo delle classi, che sembra negato qualora ci si rifaccia ad un concetto, quale quello di popolo, in cui la dimensione della conflittualità non solo non può essere considerata nei termini della classe ma sembra del tutto assente. Tuttavia, esiste un’altra tradizione rivoluzionaria che si è appellata al popolo, ed è quella dei giacobini e della Rivoluzione francese. Gli autori di riferimento di questa tradizione rivoluzionaria altra dal marxismo sono Rousseau e Robespierre. La categoria di popolo appartiene dunque storicamente ad un’altra tradizione rivoluzionaria che nega la dimensione di classe del marxismo. Questa ricostruzione è estremamente significativa, dal momento che il pensiero politico di sinistra oggi fa fatica a dialogare con le istanze populiste proprio per il rapporto ambiguo che esse intraprendono con il concetto di classe sociale. Gramsci sembra porsi come mediatore tra queste due tradizioni rivoluzionarie in quanto il suo concetto di rivoluzione è legato all’egemonia, che non è operata da una singola classe ma da un’alleanza tra le classi subalterne: «direi che “popolo-nazione” o “nazionalpopolare”, ecc. indica il popolo che esce dalla subalternità, che è se non egemone almeno avviato verso una nuova egemonia» (p. 44). La costruzione di un soggetto controegemone è ciò che permette un contatto tra il pensiero marxista e la categoria del popolo.

Il socialismo nazionale nei quaderni del carcere di Fabio Frosini è un intervento il cui pregio è quello di restituire il contesto della riflessione gramsciana sulla politica. Non solo questa contestualizzazione è necessaria per ridare rigore filologico all’argomentazione, ma anche, e soprattutto, cerca di fare un’archeologia del populismo, per usare un gergo di Foucault, che analizzi in quale circostanza e con che conseguenze il popolo si è costituito storicamente come soggettività politica. «Ogni politica moderna deve porsi il problema di istituire una relazione tra il popolo come parte e come tutto» (p.58) e questa necessità si deve all’insorgenza delle masse nella scena politica, che è una delle più pesanti eredità politiche della Prima guerra mondiale. Tali riflessioni sostanziano la analisi gramsciana del processo risorgimentale che ha avuto il suo esito principale nella debolezza dello Stato. In quest’ottica, si Ciò analizzano anche la politica coloniale e l’emigrazione italiana tra le due guerre mondiali. ha avuto come conseguenza centrale per la storia politica italiana il sovversivismo delle masse. Come è noto, la diagnosi gramsciana del Risorgimento come rivoluzione passiva ha il suo esito nella mancanza di egemonia. Sarebbe proprio questo concetto a garantire la risoluzione al problema della politica moderna, ossia la riconcettualizzazione del rapporto tra tutto e parte nel popolo. Infatti, un’alleanza di classe che unisca i subalterni in uno sforzo controegemonico riesce a essere insieme parte e tutto, a catturare dunque l’essenza stessa della politica come trasformata dall’irruzione delle masse.

Educazione, egemonia e masse popolari in Gramsci di Chiara Meta costituisce una cerniera nello sviluppo del volume: nel concentrarsi sul testo gramsciano tenta infatti di interpretare alcuni fenomeni della contemporaneità con le categorie che espone. La sua domanda di partenza è infatti protesa verso la contemporaneità: «L’interpretazione fornita da Laclau della categoria di popolo, inteso come definitivo superamento delle classi sociali, è adatta all’oggi?» (p.77). Gramsci appare come il pensatore che è in grado di condurre il marxismo alla problematica del popolo, in quanto è l’autore che «spiega in maniera esemplare come avviene molecolarmente il passaggio dell’interesse particolare di un gruppo o classe che nasce sul terreno economico a quello universale rappresentato dalla saldatura ideologica» (p.78). In particolare, la sua analisi si concentra sulla critica gramsciana alla riforma Gentile, che è espressione di una politica vecchia, incapace di stare al passo con la trasformazione morfologica del politico già esaminata come punto focale da cui osservare le posizioni gramsciane. Ciò che sembra essere una potente intuizione gramsciana è il passaggio ad una nuova soggettività politica. Gramsci pone una domanda intelligente che è in grado di interpretare un cambio di paradigma nella storia politica europea. Egli è interessato a capire chi è il nuovo soggetto politico e quale ruolo debba svolgere per una rivoluzione di stampo marxista. Mutatis mutandis, questa è la domanda che la sinistra deve porsi nel cercare di comprendere un altro mutamento del politico su scala globale, che coincide con l’ondata populista i cui effetti si fanno ogni giorno più presenti nelle nostre vite. E il compito non è secondario, dal momento che la sinistra sembra incapace di affrontare questo problema e consegna alla destra il monopolio di una contro- narrativa che rischia di diventare l’unica possibile risposta all’egemonia neoliberale, di cui i partiti della sinistra non radicale sembrano diventati portavoce.

Con questo intervento si chiude idealmente la prima metà del volume. Il lavoro filologico sul pensiero gramsciano ha il pregio di restituire chiarezza a usi di Gramsci che sono stati, anche a ragione, spesso etichettati come abusi. Ciononostante, spesso il concentrarsi sul testo rischia di far perdere centralità all’obiettivo di chiedersi quale sia il rapporto di Gramsci con l’interpretazione di un fenomeno contemporaneo e quale possa essere il suo ruolo nel costruire una narrativa di sinistra per la crisi contemporanea. A questo proposito, sembra urgente un’analisi concettuale di alcuni lemmi gramsciani che sono centrali nel dibattito attuale e che vengono invece trattati solo di passaggio in questa prima parte. Penso alla concezione gramsciana della crisi e al suo rapporto con l’egemonia, al suo tentativo di restituire un significato politico ad un termine che nel dibattito marxista resta troppo spesso confinato all’elemento economico. Chiedersi in che modo la nozione gramsciana di crisi possa essere integrata in una interpretazione del populismo per la sinistra contemporanea è un problema centrale che rende un’analisi filologica molto attuale e funzionale alla risoluzione di un urgente problema politico. Inoltre, un’analisi delle categorie gramsciane come cesarismo e bonapartismo, così come della sua interpretazione del rapporto tra governanti e governati sembra necessaria per cercare di dibattere in che misura sia possibile pensare a un populismo che non si concentri sulla leadership come suo elemento peculiare. Ancora, Gramsci utilizza una coppia concettuale molto persuasiva per concettualizzare la democrazia e sarebbe interessante chiedersi come questo possa contribuire al dibattito, centrale nelle scienze politiche contemporanee, sulla relazione tra populismo e democrazia, che la maggior parte della letteratura confina al rango di patologia, e che viene accettata dagli autori del volume. Creare una nuova forma di democrazia tramite un momento populista è invece un compito a cui la sinistra è chiamata e che ha provato a portare avanti in alcune esperienze (ormai da considerare storiche) nell’immediato periodo successivo alla crisi del 2008. Un ragionamento su questi temi potrebbe condurre ad una analisi filologica che permetterebbe un dialogo più sereno tra il pensiero politico gramsciano e il dibattito contemporaneo sul populismo.

La seconda parte di questo testo inizia idealmente con il contributo di Pasquale Voza Dal popolo-nazione al populismo. Il suo intervento si concentra nell’analizzare l’interpretazione che Laclau dà al concetto gramsciano di egemonia. La sua critica è interessante in quanto rimprovera al filosofo argentino di avere estremizzato il carattere discorsivo con cui concettualizza il significante vuoto popolo. In Gramsci non c’è una dimensione discorsiva e la critica molecolare dell’egemonia dominante è la molla dello sforzo controegemonico. Al contrario, un appiattimento discorsivo del concetto di egemonia rende impossibile una critica dell’ordine neoliberale come fondamento della costruzione di una alternativa. La forza di questa critica sta nel fatto che nel dialogo tra i due pensatori egli individua una inadeguatezza nella diagnosi della crisi presente. Ciò che importa non è sapere in che misura Laclau sia fedele o meno alla lettera gramsciana, ciò che viene rimproverato è l’impossibilità di dare una risposta concreta a un problema reale da parte di una interpretazione del pensiero gramsciano.

Sulla stessa scia di un dialogo critico tra i due pensatori si inserisce l’intervento di Michele Prospero Egemonia versus ragione populista, che incentra il suo ragionamento sulla contrapposizione tra egemonia gramsciana e ragione populista in Laclau. Egli insiste che «la riflessione gramsciana sembra destituita di fondamento filologico» (p. 101). Come osservato con riferimento all’intervento precedente, la fedeltà filologica ai testi dovrebbe essere un problema secondario nel discutere il rapporto di Gramsci sul populismo. Preme infatti ricordare che lo stesso Gramsci imposta la sua concezione del partito politico come moderno principe su un’interpretazione non filologicamente corretta del pensiero di Machiavelli. Tuttavia, ciò che interessa è capire in che modo il Machiavelli di Gramsci è utile a risolvere il problema della trasformazione del politico nel tempo di Gramsci. Non si dovrebbe considerare Gramsci uno storico del pensiero politico, ma un teorico della politica che concettualizza tutta la sua riflessione in direzione della realizzazione della praxis.

Guardare all’interpretazione di Laclau dal punto di vista meramente filologico sembra ridurre la portata filosofica della sua operazione, soprattutto se si analizza con le lenti della praxis, che è un approccio prettamente gramsciano. Ancora, la lontananza tra Gramsci e Laclau viene argomentata sostenendo che il populismo sarebbe un sinonimo di leadership carismatiche verso cui Gramsci sembrerebbe sempre avere una posizione contraria. Questa affermazione può essere accettata solo se si considera un’interpretazione particolare del populismo. Non solo una tale interpretazione non è menzionata nel testo, ma si deve aggiungere che altre definizioni sono possibili, e forse un compito lasciato in eredità da questo libro è proprio quello di cercare di sistematizzare le accezioni del populismo contemporaneo, come portate avanti dai più autorevoli autori nella scienza politica contemporanea, da Moffitt a Panizza passando per Mudde, per citare solo i più rappresentativi (MOFFIT, BENJAMIN, 2016: The Global Rise of Populism: Performance, Political Style and Representation, Stanford U.P., Stanford; MUDDE , CASS 2007: Populist radical right parties in Europe , Cambridge, UK New York, Cambridge U.P.; PANIZZA , FRANCISCO , ED., 2005: Populism and the Mirror of Democracy , Verso, London). Altrimenti si rischia di appiattire il dibattito tra Gramsci e Laclau, come se quest’ultimo fosse l’unico o il più autorevole studioso del fenomeno.

In questa direzione sembra andare l’intervento che segue Gramsci nel dibattito sul populismo contemporaneo di Manuel Anselmi, il quale si chiede a che punto sia il dibattito contemporaneo sul populismo. Senz’altro questa domanda necessita di essere ampliata in future pubblicazioni che vogliano approfondire il complesso rapporto tra Gramsci e la teoria politica contemporanea sul tema. L’autore insiste ulteriormente sulle ragioni dell’errata interpretazione filologica che Laclau dà di Gramsci, sia per ragioni storiche – egli media il testo gramsciano sull’esperienza togliattiana del PCI e soprattutto degli anni ‘30 in Argentina -, che teoriche -un accento sul popolo nel dispositivo politico che in Gramsci risulterebbe assente. La parte finale del contributo indica alcune aree di intervento nell’uso di Gramsci sul dibattito sul populismo che risultano di grande interesse. L’autore auspica una maggiore riflessione sul nesso tra fascismo e populismo, così come sulla relazione tra governanti e governati nelle trasformazioni contemporanee della democrazia.

Francesco Campolongo propone un interessante intervento sul caso di Podemos come applicazione pratica della teoria di Laclau in L’ipotesi populista. Il caso di Podemos. Del resto, Pablo Iglesias, e soprattutto Íñigo Errejón si sono richiamati direttamente al pensatore argentino. Egli esordisce: «Il caso di Podemos ci permette di analizzare una caso empirico di strategia populista ispirata dal contributo teorico di Antonio Gramsci attraverso la rilettura fattane da Ernesto Laclau» (p.115). Questo incipit contiene diversi elementi di interesse. In primo luogo, concettualizza il Gramsci di Laclau come una rilettura, e questo sembra dare giustizia a quella che non dovrebbe essere considerata una ricostruzione filologica. Podemos come caso empirico dimostra poi che l’oggetto del contendere non è tanto in che misura Laclau è fedele a Gramsci, quanto fino a che punto il Gramsci di Laclau è capace di ispirare un’esperienza di populismo democratico di sinistra. Questo mi sembra un approccio gramsciano nella direzione della filosofia della praxis, che è comune anche agli interventi che seguono. Egli evidenzia in maniera chiara quale è il ruolo della crisi nell’emergere di un movimento populista. Tuttavia, questo elemento non è concettualizzato in maniera organica nel contributo. Comunque, è interessante, partendo da questo intervento, provare a immaginare che cosa il concetto gramsciano di crisi (crisi organica-crisi di egemonia) può apportare alla concezione del fenomeno populista. Infatti, in un recente articolo, Moffitt ha insistito sul carattere performativo della crisi come elemento interno al populismo stesso e si avverte la necessità di far dialogare Gramsci con questa interessante concettualizzazione, anche nel tentativo di andare oltre il monopolio di Laclau nel discorso gramsciano sul populismo (MOFFIT, BENJAMIN, 2015: How to Perform Crisis: A Model for Understanding the Key Role of Crisis in Contemporary Populism, “Government and Opposition”, vol. 50, No. 2, pp. 189-217).

Martín Cortés nel suo Il populismo in Argentina e Gramsci. Alcuni malintesi si concentra ancora su un caso di studio, che concerne l’Argentina. Si cerca di concettualizzare come Gramsci sia stato utilizzato per interpretare il peronismo. L’aspetto interessante di questa ricostruzione è quello di rendere l’idea di come Gramsci sia stato tradotto in un contesto altro. Sia le sue teorizzazioni che le sue esperienze storiche sono tradotte nel contesto argentino per diventare lenti interpretative della storia nazionale.

Ancora una volta non ci troviamo di fronte ad un’interpretazione corretta filologicamente. Ciononostante, appare chiaro un interesse nel creare una narrativa delle vicende della sinistra argentina per cui Gramsci diviene un elemento imprescindibile.

Lea Durante discute un altro caso di appropriazione gramsciana da parte del movimento dei neoborbonici. Gramsci icona dei neoborbonici ha il pregio di contestualizzare la nascita del movimento neoborbonico in una cornice europea di movimenti separatisti, indipendentisti e autonomisti. Ancora una volta, Gramsci è utilizzato per costruire una contro-narrativa storica. Molto più della fedeltà al testo, ciò che appare significativo nell’appropriazione neoborbonica di Gramsci è farne il perno di una narrazione contro-egemonica. Ciò che viene alla mente leggendo questo intervento è che la sinistra dovrebbe essere in grado di riappropriarsi di Gramsci in modo vivo, per rispondere alle esigenze di un presente in cui l’elemento di crisi diventa sempre più pervasivo. Lasciare il monopolio di una contro-narrativa a istanze destrorse, con riferimenti anche a pensatori dell’area comunista, è un errore che appare ben più grave di un’imprecisione filologica.

L’ultimo intervento è affidato a Eleonora Forenza. Sembra concludersi il passaggio dalla filologia alla filosofia vivente su cui l’intera impalcatura editoriale del libro si regge. Autocoscienza del 99% o populismo? Le ragioni femministe e comuniste oggi si interroga infatti sulle possibilità del movimento femminista di fronte alle sfide della contemporaneità. Forze e istanze progressiste stanno incontrando un processo di incorporazione nel neoliberismo. Questa commistione di interessi tra progressismo e neoliberismo è all’origine della crisi di forze di sinistra, non da ultimo quella italiana, ed è argomentata da Nancy Fraser con riferimento alla vittoria di Trump

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LA DISUBBIDIENZA PER GIORDANO BRUNO GUERRI

di Vanessa Seffer10 maggio 2019

 

 

Il giornalista polemico, lo studioso attento del XX secolo italiano, del ventennio fascista e dei rapporti fra gli italiani e la Chiesa Cattolica con cui ha un rapporto bizzarro. Giordano Bruno Guerri è tutto questo e anche di più. Un passaggio estratto da un suo libro del 2011, Gli italiani sotto la Chiesa, sintetizza bene il pensiero dello storico:

“Gli italiani hanno generalmente deciso di fingere obbedienza e poi fare come gli pare, sviluppando un’ipocrisia collettiva che non ha eguali neanche negli altri Paesi cattolici.

Gli italiani hanno imparato a convivere con una doppia morale, necessaria per conciliare l’esistenza eterna con quella quotidiana, i peccati con i desideri, l’apparenza con la realtà, la morale con il moralismo.

Per cui sì, gli italiani saranno “cattivi”, fino a quando, fingendo di essere cristiani, saranno cattolici senza via di scampo e senza Stato”.

Oggi Giordano Bruno Guerri presenta Disobbedisco, il suo ultimo libro, che ricostruisce, la poliedrica personalità di Gabriele D’Annunzio con il suo stile inconfondibile, attraverso migliaia di documenti inediti provenienti dagli Archivi del Vittoriale, con una narrazione coinvolgente, che porta alla luce aspetti inediti del grande poeta.

Lei è un disubbidiente?

Cerco di esserlo, non sempre ci riesco, a volte non è giusto esserlo. Però disubbidienza significa, in sostanza, valutare le cose e decidere in proprio cosa ci sembra giusto fare. A volte per fare le cose giuste bisogna disubbidire.

Questo periodo storico ha più bisogno di disubbidienti o di qualcuno che rimetta un po’ d’ordine? Perché sembra che ciascuno faccia un po’ come gli pare!

Ha bisogno di entrambe le componenti, guai se ci fosse solo ordine e guai se ci fossero solo disubbidienti. Ci deve essere chi fa ordine e chi fa disordine.

Abbiamo secondo lei qualcuno nel nostro Paese capace di mettere ordine?

È molto difficile mettere ordine in Italia. Perché siamo un popolo sostanzialmente anarchico e individualista. Ma è la nostra bellezza. È il “mi bello”, diceva la mia mamma, il “tu bello” o il “mi bello”.

Bello il dialetto senese. Il suo libro infatti dice “Disobbedisco”: il tema non è casuale. Ma i giovani si riesce a coinvolgerli?

I miei libri sono scritti apposta perché siano alla portata di tutti. Faccio un grande sforzo di limpidezza quando scrivo, per cui sono leggibili da tutti. Certo, bisogna essere interessati alla storia. Bisogna capire che se non si conosce la storia non si può capire il presente e non si può progettare il futuro, perché veramente la storia è la nostra base, è il nostro passato. Questo libro, in particolare, apre una visione nuova sulla storia non solo di Fiume e di D’Annunzio, ma dell’intero Novecento, perché fu uno snodo da cui nacquero idee, movimenti, personalità che si svilupperanno per tutto il secolo. Basti pensare alla Carta del Carnaro, la Costituzione che D’Annunzio scrisse per

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http://opinione.it/cultura/2019/05/10/vanessa-seffer_giordano-bruno-guerri-libro-disobbedisco-anarchico-individualista-dannunzio-carta-del-carnaro-fiume/

 

 

 

 

 

 

CYBERWAR SPIONAGGIO INFORMAZIONE DISINFORMAZIONE

Libia, è un fiume sotterraneo l’arma segreta nella battaglia di Tripoli

Mauro Indelicato – 24 MAGGIO 2019

In Libia non c’è solo il petrolio: c’è un altro oro, non nero questa volta ma “blu” che per i libici è ancora più importante. Si tratta dell’acqua. E se con il greggio il paese negli anni riesce ad avere insperati introiti economici, con l’acqua i cittadini devono vivere. La stragrande maggioranza del territorio del paese nordafricano è desertico, la sabbia e l’aridità di queste terre sono una costante e costituiscono spesso un freno allo sviluppo delle condizioni di vita. Trovare l’acqua è più importante che scavare per trovare il petrolio. La casa che ha un pozzo è una casa ricca.

Per questo l’acqua ancor più del petrolio potrebbe costituire un elemento di ricatto durante questa delicata fase del conflitto per la presa di Tripoli. E dimostrazioni in tal senso non tardano ad arrivare.

A rischio la sicurezza del grande fiume artificiale

I libici, si sa, sono caratterizzati come popolazione da un’accentuata divisione tribale. La tribù viene prima dell’appartenenza alla comunità, alla regione ed allo Stato. Ma c’è una cosa che però accomuna tutti e che costituisce forse l’unica cosa per la quale gli stessi libici usano l’espressione “orgoglio nazionale”: si tratta del grande fiume artificiale. Costruito durante l’era di Gheddafi, certamente l’enorme complesso infrastrutturale che garantisce acqua nelle città del paese per almeno 200 anni dona al rais a suo tempo grande popolarità, ma l’opera di fatto per i libici non costituisce il puntello solo di una determinata era politica. Si tratta di un qualcosa che va oltre: è il frutto di anni di lavoro a cui tutta la popolazione direttamente od indirettamente partecipa e che, alla fine, dona a tutte le tribù ed a tutte le comunità la possibilità di avere acqua.

Il progetto ha origini molto lontane, come spiega AgenziaNova risale addirittura ai tempi di Re Idris: durante una campagna di esplorazioni petrolifere nel sud della Libia, invece che il greggio a saltare fuori dal deserto è l’acqua. Un immenso bacino idrico di acqua dolce viene quindi scoperto sotto le dune del Sahara, Gheddafi nel 1979 affida ad una società americana il progetto di portare quell’acqua fino a Tripoli e nelle città della costa, dove risiede più dell’80% dei libici. I lavori durano a lungo, vista la complessità dell’opera e le intemperie politiche di quegli anni. Ma alla fine il grande fiume artificiale, con la sua rete di 4.000 km di canali sotterranei diventa realtà alla fine degli anni ’90.

Se oggi Tripoli e Bengasi possono contare su una regolare erogazione idrica, che non dipenda dai costosi impianti di desalinizzazione dell’acqua del mare, è grazie al grande fiume artificiale orgoglio di tutti i libici. Forse proprio per quello che rappresenta fino ad oggi, nonostante otto anni di caos, nessuno di quei canali artificiali viene intaccato, nessuno osa toccare nemmeno una singola pietra dell’unico punto fermo nazionale della Libia. Fino ad oggi, per l’appunto. Perché invece alcuni segnali iniziano ad andare in una tragica ed inquietante controtendenza.

Tripoli a secco per tre giorni

La capitale, che vive la guerra da vicino a partire dallo scorso 4 aprile, vede i prezzi dei generi alimentari aumentare, la quotidianità ancora una volta condizionata dal conflitto, ma i suoi abitanti sono sicuri che almeno l’acqua

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https://it.insideover.com/guerra/libia-fiume-artificiale-tripoli.html

 

 

 

DIRITTI UMANI – IMMIGRAZIONI

Permessi di soggiorno agli immigrati venduti a tremila euro: poliziotti arrestati a Napoli

Giovedì 23 Maggio 2019

 

permessi di soggiorno agli immigrati venivano venduti ad un prezzo fino a 3 mila euro da un’organizzazione criminale che comprendeva un poliziotto in servizio all’Ufficio immigrazione della Questura di Napoli ed altri tre colleghi ed ex colleghi, oltre a tre immigrati algerini, due tunisini ed un cinese. Almeno 136 le pratiche di rilascio e rinnovo di permessi manipolate dalla banda accertate dalle indagini, ma in una intercettazione uno degli indagati affermava «ne abbiamo fatti entrare a migliaia».

Sette arresti, due dei quali ai domiciliari, sono stati finora eseguiti dal Gico della Guardia di Finanza e dalla Squadra Mobile di Napoli, 10 in totale gli indagati, decine le perquisizioni domiciliari eseguite nell’ ambito dell’inchiesta dalla Dda di Napoli condotta dai Pm Catello Maresca e Maria Di Mauro. Alla banda dei permessi di soggiorno gli investigatori sono arrivati seguendo la pista del terrorismo islamico: una segnalazione della Procura di Roma del Giugno 2016 su trasferimenti di denaro eseguite attraverso le Agenzie

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https://www.ilmessaggero.it/italia/immigrazione_clandestina_napoli_poliziotti_arrestati-4510273.html

 

 

 

 

 

 

 

Migranti, tabacco e carburante: l’ultimo business del contrabbando

 

Venerdì 17 Maggio 2019 di Valentina Errante

 

Uomini, petrolio e tabacchi. La rotta è quasi sempre la stessa, il Mediterraneo, la merce parte dalla Libia o dalla Tunisia per arrivare nei porti europei. E se per “scaricare” il materiale umano, che spesso viaggia con sigarette da immettere sul mercato, la destinazione naturale è quasi sempre quella dei porti siciliani, per gli altri traffici è ancora aperta la via Balcanica: dal nord Africa alla Turchia fino alla Slovenia e poi all’Italia. Il bilancio 2018 dell’attività della Guardia di Finanza nella lotta al contrabbando racconta di organizzazioni criminali che controllano i traffici di uomini e gestiscono quello di sigarette. Affari paralleli che consentono alle organizzazioni criminali un doppio business. I fascicoli aperti dalla Dda di Palermo rivelano l’esistenza di associazioni per delinquere accusate di favoreggiamento dell’immigrazione

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ECONOMIA

PRESIDENTE MATTARELLA, NON C’È SOLO LO SPREAD!

di Mauro Mellini21 maggio 2019

 

È vero che nella storia della nostra Repubblica i presidenti hanno fatto del loro meglio tacendo e del loro peggio parlando troppo. Ma per ogni regola arriva il momento che deve essere invertita o, almeno, messa da parte.

Per un presidente tacere è uno strumento per dar forza alle parole quando arriva il momento che non si può fare a meno di pronunciarle. Del resto, pare che Sergio Mattarella non abbia bisogno di ricorrere a pubblici proclami, ad allocuzioni televisive per far conoscere il suo pensiero, quando un suo pensiero c’è (ed è giusto e doveroso che ci sia).

Ora lo spread ha fatto registrare uno di quei momenti in cui il Quirinale “dice la sua”, “ammonisce”, “pone limiti”. Benissimo. La matematica non è un’opinione e l’economia, se non è matematica pura, è un modo per girarle attorno. Ma con quello che sta accadendo in Italia, un presidente che interviene (o fa sapere che è sul punto di farlo) solo per lo spread, francamente è

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http://opinione.it/editoriali/2019/05/21/mauro-mellini_mattarella-economia-spread-mercati-magistrati-governo-rissa/

 

 

 

 

Quando il Pil non dice tutto

21.05.19

Gli indici di benessere sociale non vogliono sostituire gli indicatori economici tradizionali. Ma possono fornire strumenti utili per valutare le condizioni di un paese. Ecco perché anche l’Italia li ha inseriti nel quadro della programmazione economica.

Gli indici di Bes

Tra i vari allegati al Documento di economia e finanza ve ne è uno dedicato interamente agli indici di benessere equo e sostenibile, i Bes (qui alcune nostre slide che li spiegano). Il loro obiettivo è catturare in maniera statisticamente rigorosa vari aspetti del benessere e fornire all’opinione pubblica strumenti (da affiancare agli indicatori economici tradizionali) per valutare le condizioni del nostro paese. Tuttavia, nel dibattito pubblico i nuovi indicatori hanno ricevuto una accoglienza molto tiepida, come avevamo avuto già modo di sottolineare. Possono quindi sorgere dubbi riguardo la loro efficacia e la loro utilità, sia da un punto di vista politico che da quello scientifico. Non tutti gli economisti, infatti, sono d’accordo sul loro utilizzo. La questione in discussione è se gli indici di Bes apportino sufficienti informazioni aggiuntive oppure rischino di complicare la diagnosi della situazione economica, incorporando una eccessiva discrezionalità nella scelta delle aree del benessere da misurare e sviando l’attenzione dall’andamento degli indicatori tradizionali.

La correlazione con il Pil

Un esercizio utile può essere allora lo studio delle serie storiche (a partire dal 2005, laddove i dati sono disponibili) dei 12 indicatori di Bes utilizzati dal ministero dell’Economia, selezionati dal governo nel 2016 tra gli oltre 120 elaborati dall’Istat come i più rappresentativi del benessere degli italiani. Abbiamo calcolato la correlazione fra l’evoluzione temporale annua del tasso di variazione del Pil reale delle regioni italiane e quello degli indicatori Bes presi sempre a livello regionale.

La domanda cui cerchiamo di rispondere è se, a livello descrittivo, rispetto a ciò che possiamo capire guardando al Pil, gli indicatori di benessere ci forniscono informazioni ulteriori o differenti. La necessità di considerare dati regionali nasce dall’obiettivo di ampliare il numero delle osservazioni disponibili. La tabella 1 riassume i risultati.

Tabella 1 – Correlazione tra variazioni indicatori di Bes e variazioni Pil

Nota: la correlazione va da -1 a +1; -1 indica che la correlazione è

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https://www.lavoce.info/archives/59181/quando-il-pil-non-dice-tutto/

 

 

 

 

GIUSTIZIA E NORME

Magistrati arrestati: scoperto il «tesoro» di Savasta: 22 case e 12 terreni. Ex pm interrogato a Lecce per 8 ore

Oltre agli immobili intestati a lui (anche con i fratelli), ci sono quelli della moglie (non indagata). I versamenti sui conti

 

MASSIMILIANO SCAGLIARINI – 19 Marzo 2019

È durato otto ore l’interrogatorio in carcere a Lecce dell’ex pm di Trani Antonio Savasta arrestato per corruzione il 14 gennaio scorso dalla magistratura salentina assieme al collega ex gip tranese Michele Nardi. Assistito dal proprio legale avvocato Massimo Manfreda, Savasta è stato ascoltato dal pm di Lecce Roberta Licci, titolare dell’inchiesta insieme al procuratore capo Leonardo Leone De Castris. All’uscita del carcere l’avvocato Manfreda si è detto soddisfatto dell’esito dell’interrogatorio. «Una lunghezza necessaria – ha detto Manfreda ai giornalisti che lo attendevano all’uscita del carcere – necessaria per fornire i dovuti chiarimenti. La durata dell’interrogatorio è sintomatica dell’atteggiamento processuale che non è di chiusura. Ci sono delle cose sulle quali abbiamo lealmente fornito la nostra versione, ci sono altri aspetti su cui ci siamo confrontanti altrettanto lealmente e chiaramente». «È stato il terzo interrogatorio – ha detto ancora – e probabilmente almeno in questa fase, l’ultimo. In settimana depositeremo istanza di sostituzione della misura cautelare con la concessione degli arresti domiciliari». «Nel corso dell’interrogatorio la difesa ha anche prodotto un piccolo memoriale difensivo – ha concluso – Sette pagine inerenti questioni oggetto di imputazione e contestazioni provvisoria e sui risultati delle indagini».

BARI – Il tesoro di Antonio Savasta, l’ormai ex Pm arrestato il 14 gennaio per corruzione in atti giudiziari, potrebbe essere nascosto nel mattone. La vecchia regola dei tempi di Giovanni Falcone («segui i soldi») potrebbe risultare decisiva anche nell’inchiesta della Procura di Lecce sulla giustizia svenduta nel Tribunale di Trani, inchiesta che ha finora fatto finire in carcere anche l’ex gip Michele Nardi e che nelle ultime settimane si sta allargando con l’esame di numerosi altri fascicoli. L’ipotesi è sempre la stessa: sentenze e indagini potrebbero essere state truccate in cambio di soldi.

E Savasta, che nell’ultimo mese ha assunto un atteggiamento di collaborazione (dopo aver parlato a lungo ha presentato le dimissioni dall’ordine giudiziario, preludio a una richiesta di scarcerazione) potrebbe aver utilizzato i soldi per accumulare un enorme patrimonio: risulta infatti proprietario (da solo o insieme ai familiari) di 22 unità immobiliari e di 12 terreni nella provincia di Bari, cui si aggiungono altre 8 unità immobiliari (più un terreno) intestati alla moglie dell’ex Pm (che non risulta indagata).

A scattare la fotografia del patrimonio di Savasta è stata la Finanza di Firenze, nell’ambito di una inchiesta (quella sui presunti favori all’imprenditore barlettano Luigi D’Agostino) poi trasferita per competenza a Lecce quando sono emersi gli elementi a carico del magistrato in servizio a Trani.

Dal 2015 al 2017, gli anni in cui si sono svolti i fatti contestati nella prima parte

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https://www.lagazzettadelmezzogiorno.it/news/home/1122471/magistrati-arrestati-scoperto-il-tesoro-di-savasta-22-case-e-12-terreni.html

 

 

 

 

 

 

 

LO SBARCO “GIUDIZIARIO” DI LAMPEDUSA DISCREDITA NON UN MINISTRO, MA IL PAESE

 

Nessun italiano serio e responsabile può esultare per lo sbarco “giudiziario” di Lampedusa, che pone la governabilità, la stabilità e la vivibilità dell’Italia a un livello molto prossimo a quello della Libia: là c’è la guerra perenne fra le tribù, qui c’è la guerra perenne fra politici, politica e magistratura. Le circostanze sono diverse, ma gli effetti sono eguali.

 

Quale credibilità rimane alla parola di un ministro, che può essere sempre smentita da un procuratore? Quale affidabilità può essere attribuita da un investitore estero a un governo, che si schiera di fatto contro un proprio ministro e di fatto lo isola? Quale rispettabilità può essere riconosciuta dagli stessi cittadini a un governo che non difende la propria collegialità e non chiarisce – senza penose ambiguità – la propria linea su un problema sociale molto grave e molto sentito dall’opinione pubblica, come quello dell’immigrazione incontrollata?

 

Tutti gli italiani seri e responsabili devono oggi porsi questi interrogativi, pensando al Paese e non alla propria fazione politica. Devono interrogarsi ancora una volta su una Costituzione che, in nome di un equilibrio forse “troppo” sommo, contrappone da sempre le istituzioni fra loro, alimentando bufere che non hanno mai giovato alla governabilità, alla stabilità e alla credibilità del Paese.

 

Lo sbarco “giudiziario” di Lampedusa non discredita Salvini, discredita l’Italia e il suo supposto “governo”: sissignori, anch’esso tra virgolette. Un altro passo verso il baratro.

 

(Gianni de Felice/Facebook.com)

 

 

 

 

LAVORO PENSIONI DIRITTI SOCIALI

Tremate, i Google Glass sono tornati. E adesso li usano nelle fabbriche

Di fronte al flop non si sono arresi: hanno ripensato la fascia di mercato e il pubblico e alla fine hanno inventato una nuova versione per aiutare gli operai. Lato positivo: funzionano. Lato negativo: il datore di lavoro sa tutto

23 maggio 2019

 

La prima volta non ha funzionato. I Google Glass, nonostante il grande battage pubblicitario con cui furono lanciati nel 2012, si rivelarono un flop. Inutili, pretenziosi, goffi, inefficaci. Le vendite crollano e il prodotto viene ritirato dal mercato. Però la sperimentazione, dietro le quinte, continua. E così nel 2017, due anni dopo, Google ci riprova Con un posizionamento più studiato, ambizioni più modeste ma – forse per questo – anche più efficaci: le fabbriche.

Si chiama edizione “Enterprise” che aiuta i lavoratori, addetti alle macchine, a ridurre gli errori migliorandone le prestazioni. È un cambiamento che toglie tutto il sex appeal originario del device, ma che almeno garantisce un mercato. Non solo: al modello base è possibile aggiungere delle modifiche, che li adattano alle diverse tipologie di catene produttive. La realtà aumentata non è più un gioco, ma uno strumento per lavorare. L’inserimento di nuovi software permette di attivare comandi che rispondono alle

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https://www.linkiesta.it/it/article/2019/05/23/google-glass-ritorno/42249/

 

 

 

 

La Cassazione e il Jobs act

22.05.19 – Pietro Ichino

 

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La recente sentenza della Corte Suprema sui licenziamenti ingiustificati conferma un principio in sé ovvio. Ma l’applicazione di questo principio nel caso concreto sembra indicare il persistere di una “fronda giudiziale” contro la riforma dei licenziamenti del 2012-2015.

Nei primi commenti a caldo, la sentenza della Corte di Cassazione dell’8 maggio 2019 n. 12174, in tema di sanzioni contro i licenziamenti ingiustificati, da alcuni viene additata come un terzo episodio – dopo il “decreto dignità” e la sentenza n. 194/2018 della Corte costituzionale – di sgretolamento della riforma di questa materia varata col Jobs act del 2015; da altri invece viene considerata come la riconferma di un principio da tempo pacifico, sul quale nessuno può ragionevolmente dissentire. Cerchiamo di capire come stanno davvero le cose.

Dalla property rule alla liability rule

La riforma Fornero del 2012 contiene la regola generale secondo cui la reintegrazione nel posto di lavoro – qualificabile secondo la teoria generale come una property rule – deve essere disposta dal giudice soltanto quando l’invalidità del licenziamento dipenda dall’accertamento di un fatto: la lesione di un diritto assoluto della persona. Per esempio, la discriminazione razziale o religiosa, la rappresaglia antisindacale, il fatto che la lavoratrice licenziata fosse incinta o che avesse appena partorito, e così via. Quando, invece, l’invalidità del licenziamento viene dichiarata sulla base di una valutazione discrezionale, da parte del giudice, circa la gravità del motivo economico o disciplinare addotto dal datore di lavoro, la sanzione applicabile non è la reintegrazione nel posto di lavoro ma soltanto – come in tutti gli altri ordinamenti europei – un indennizzo, entro un minimo e un massimo stabilito dalla legge: quella che la teoria generale qualifica come una liability rule. In questo quadro, è logico che la stessa legge Fornero preveda la reintegrazione anche per il caso in cui il fatto contestato dall’impresa al lavoratore come infrazione disciplinare non sia mai accaduto: qui la pronuncia del giudice non si basa su di una valutazione discrezionale circa la sufficienza del motivo addotto dall’impresa, ma sull’accertamento di un fatto: un vero e proprio grave abuso del potere disciplinare, che si concreta in una contestazione menzognera.

Negli anni immediatamente successivi, tra il 2012 e il 2014, si registra però una diffusa tendenza dei giudici del lavoro a ridurre la portata effettiva di questa riforma, attraverso un’interpretazione estensiva dei casi nei quali si deve applicare la reintegrazione e non l’indennizzo. Sono espressione di questo orientamento le sentenze che equiparano al caso di “inesistenza del fatto contestato” il caso in cui il fatto contestato sia effettivamente accaduto, ma sia ritenuto dal giudice (talora molto opinabilmente) poco rilevante sul piano disciplinare. Per contrastare questa tendenza giurisprudenziale il legislatore del 2015, nell’articolo 3 del decreto n. 23 (Jobs act), aggiunge all’espressione “insussistenza del fatto” l’aggettivo “materiale”. Perché si applichi la reintegrazione occorre proprio che il fatto non sia “materialmente” accaduto.

L’ultima pronuncia della Cassazione

Nel caso a cui la sentenza n. 12174 si riferisce, i giudici di merito avevano in precedenza applicato rigorosamente la nuova norma. L’impresa aveva contestato alla lavoratrice l’abbandono del posto di lavoro; la lavoratrice aveva ammesso il fatto (dunque, il fatto “materialmente” sussisteva); i giudici avevano ritenuto quel fatto non sufficientemente grave da giustificare il licenziamento e avevano quindi condannato l’impresa all’indennizzo. Senonché la Corte suprema ora cassa la sentenza e rinvia la causa al giudice di merito perché accerti che il fatto (pur materialmente accaduto) abbia un qualche rilievo disciplinare.

In astratto, quel che la Corte dice è ragionevole e tutto sommato conciliabile con il dettato della norma vigente: per esempio, se la lavoratrice avesse lasciato il posto di lavoro alla fine dell’orario, a ben vedere non si potrebbe neanche parlare di “abbandono del posto di lavoro”; la contestazione sarebbe sostanzialmente vuota di qualsiasi significato apprezzabile. In quel caso il licenziamento dovrebbe essere annullato non sulla base di una opinabile valutazione discrezionale del giudice circa il grado di gravità della mancanza, ma perché la mancanza è radicalmente inesistente. Se però esaminiamo la controversia concreta sulla quale la Corte è intervenuta con questa sentenza, le cose appaiono in un’altra luce: perché in questo caso – e la sentenza ne dà conto esplicitamente – la lavoratrice ha ammesso non solo di aver abbandonato il posto, bensì anche di averlo abbandonato durante l’orario di lavoro. La sentenza di merito non si basa sull’“inesistenza della mancanza”,

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https://www.lavoce.info/archives/59236/la-cassazione-e-il-jobs-act/

 

 

 

LA LINGUA SALVATA

Fantasma

fan-tà-sma

SIGNSpettro, ombra, immagine di persona defunta; essere malridotto; essere senza autorità; immagine illusoria creata dalla fantasia, pensiero angoscioso e ossessivo, proiezione di desideri inconsci; come aggettivo, abbandonato

voce dotta, recuperata dal latino phántasma, che è dal greco phántasma, derivato di phantázein ‘apparire’.

Ovviamente c’è da parlare di lenzuoli bianchi e catene che sferragliano, ma visto che questa parola è colossale, è importante cercare di scoprirne la vena primaria: ci sono alcune sfumature sottili da cogliere.

‘Fantasma’ è una parola che viene recuperata in italiano alla fine del Duecento, e si manifesta al femminile. ‘La fantasma’, all’orecchio inusuale e bellissima. E inizia la sua carriera raccontando l’immagine spettrale della persona defunta – un significato piuttosto specifico. Ci vorranno un paio di secoli (le prime attestazioni sono di Savonarola!) perché ‘fantasma’ prenda il genere con cui lo conosciamo e un respiro più vasto di significati, portandoci nel grande alveo delle apparizioni, delle manifestazioni, delle impressioni, delle fantasie allucinate di cui le larve dei morti sono solo una specie.

Cercando di toccare il nocciolo, il fantasma ci descrive un’immagine (un’entità, una figura, un pensiero) che per quanto sia percepibile, che per quanto compaia, è vuota, impalpabile – se non morta, sospesa in uno stato simile alla morte. Non ha sostanza, non ha realtà, vitalità, fertilità, corpo. Un’ombra che senza vibrare può avere voce, che può spaventare o attrarre. Se è un

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https://unaparolaalgiorno.it/significato/F/fantasma?utm_source=newsletter&utm_medium=mail&utm_content=parola&utm_campaign=pdg

 

 

 

PANORAMA INTERNAZIONALE

La fine di Theresa May? È una lezione da imparare a memoria, per chi combatte i populisti

Il disastro di Theresa May è dedicato alle anime belle che pensano basti mettere i populisti di fronte ai propri errori per vaccinarsi dal virus. Non succede. Nel Regno unito non succederà, e nemmeno da noi

23 maggio 2019

 

Non giratevi dall’altra parte, adesso. Guardatela, Londra. Guardatela soprattutto voi, europeisti, anti-populisti, o come vi volete chiamare. Voi che alzavate il sopracciglio, serafici, nel dire che la Brexit sarebbe stata il più grande spot a favore dell’Unione Europea. Voi che dicevate, parafrasando Montanelli, che mettere i populisti di fronte alle loro responsabilità, sarebbe stato il grande vaccino contro il populismo. Voi che nelle piazze piene di bandiere europee vedevate la riscossa di un popolo e chiedevate a gran voce un secondo referendum che avrebbe mondato il Regno Unito dal suo peccato originale. Voi che ridevate sotto i baffi per lo psicodramma delle negoziazioni e per tutte le nefaste conseguenze che i sudditi di Sua Maestà avrebbero subito per aver esercitato male il loro diritto di voto.

Le cattive notizie sono per voi, oggi. Perché oggi è il giorno in cui il Regno Unito vota per le europee e a distanza di tre anni dalla Brexit a finire sotto un treno saranno i Tories di Theresa May e i laburisti di Jeremy Corbyn, mentre il Brexit Party di Nigel Farage, nato meno di due mesi fa, è annunciato sopra il 30%.

Sponsorizzato da CAFFEINA MAGAZINE

Theresa May, all’indomani del voto, presenterà le dimissioni da premier, chiudendo ignominosamente una delle peggiori carriere politiche che si siano mai viste

Perché Theresa May, all’indomani del voto, presenterà le dimissioni da premier, chiudendo ignominosamente una delle peggiori carriere politiche che si siano mai viste, tra campagne elettorali fallimentari e quattro proposte di accordo con l’Ue su quattro bocciate dal parlamento nonostante i Tories avessero la maggioranza. Perché gli ultimi sondaggi su un ipotetico secondo referendum raccontano che, ops, la Brexit avrebbe buone probabilità di essere confermata: «Non credo che un nuovo voto produrrebbe effetti tanto diversi», ha dichiarato giusto ieri Nathalie Loiseau, viceministra agli affari europei del governo francese, colei che per Emmanuel Macron segue il dossier della Brexit. 

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https://www.linkiesta.it/it/article/2019/05/23/theresa-may-populismo-sovranismo-governo-salvini-di-maio/42253/

 

 

 

MACRON ADESSO PERSEGUITA ANCHE LA STAMPA

Maurizio Blondet  24 Maggio 2019

Sono otto (per il momento) i giornalisti che  sono stati “convocati” dal servizio segreto interno francese (Direction générale de la sécurité intérieure (DGSI)), alcuni  per aver  rivelato dati scomodi sulle armi che la Francia vende ai sauditi per il genocidio in Yemen,  altri per informazioni sullo scandalo Benalla, l’ex capo della sicurezza  personale di Macron. Sarebbero stati minacciati d’incriminazione secondo l’articolo  413-14  del Codice penale, che punisce fino a 5 anni di galera e 750 mila euro di multa chi divulga “Informazioni che, direttamente o indirettamente, persone specializzate nella lotta al terrorismo”  – è una legge che è andata  in vigore  nel 2016, quando l’Eliseo  aveva  prorogato lo stato d’emergenza –   opportune queste leggi anti-terrorismo.

Così minacciati, i giornalisti  sono stati premuti a dare i nomi delle loro fonti (la cui protezione da  parte dei giornalisti   è garantita in Francia da una legge  del 1881).  Una redattrice  del Quotidien, Valentine Oberti, ha rivelato d’essere stata chiamata  alla DGSI per rispondere appunto di un suo articolo sulle vendite d’armi francesi   a Riyad. Anche il suo tecnico del suono e il cameraman  erano stati convocati – prima, l’11 e il 15 aprile. La giornalista di Le Monde Ariane Chemin,  ha ricevuto  il 21 maggio un invito a presentarsi il 29, a giustificarsi  per aver fatto il nome del  militare compagno di Marie-Elodie Poitou, capessa della sicurezza a Matignon (sede  del primo ministro), entrambi nel  giro  o tribù di Benalla, oggi licenziati. Anche il presidente del direttorio di Le Monde (che è un giornale autogestito in cooperativa,  praticamente il direttore) è stato convocato per quella data: ed ha un nome delicato Louis Dreyfus.

Poi è stata la volta di  Geoffrey Livolsi e Mathias Dental, fondatori di Disclose  (un mezzo appena nato, “il primo medium investigativo senza scopo di lucro”), il loro collaboratore Michel Despratx; poi   anche Benoît Collombat di Radio France, sempre per inchieste sull’uso di armi francesi contro i civili nello Yemen.  Proteste generali dei sindacati giornalisti e no,  una quarantina di redazioni che esprimono solidarietà  alla redazione di Le Monde, invito a manifestare in piazza il 29.

Le armi francesi sono effettivamente onnipresenti in Yemen, come  rivela un dossier  dello stesso  spionaggio francese (ma militare…DRM)

http://www.wikistrike.com/2019/05/des-armes-francaises-omnipresentes-dans-la-guerre-au-yemen.html

https://www.lemonde.fr/societe/article/2019/05/22/affaire-benalla-la-convocation-inquietante-d-une-journaliste-du-monde_5465501_3224.html

“La Macronia apre la porta alla dittatura”, scrive la redazione di 24Heures  Actu, e si domanda: “E’  la  fine della (lunga) luna di miele fra i media e il potere macroniano? Per proteggere un certo Benalla e i segreti che detiene, la Macronia è pronta a qualunque eccesso”.

“Adesso che sulla Germania pesano incertezze storiche sul suo modello economico, un confronto da parte di Macron  sarebbe fecondo: per esempio strappando  la modifica del mandato della BCE, perché esca dal suo ruolo di “macchina anti-inflazione”  e si occupi invece in odo prioritario di crescita e pieno impiego. Se  si alleasse con paesi che hanno gli stesi interessi economici come l’Italia – il che supporrebbe che smettesse di insultarli  – Macron  potrebbe smuovere in profondità le linee della euro-economia.

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https://www.maurizioblondet.it/macron-adesso-perseguita-anche-la-stampa/

 

 

 

 

 

In che modo i dirigenti palestinesi puniscono i pazienti

di Bassam Tawil – 23 maggio 2019

Pezzo in lingua originale inglese: How Palestinian Leaders Punish Patients

Traduzioni di Angelita La Spada

“Per Allah, anche se rimanessimo con un solo centesimo, lo spenderemo per le famiglie dei martiri e dei prigionieri e soltanto in seguito presteremo attenzione agli interessi del resto della popolazione.” – Il leader palestinese Mahmoud Abbas, Palestinian Media Watch, 24 luglio 2018.

  • A quanto pare, il “resto della popolazione” include non solo i dipendenti dell’Autorità palestinese (Ap), ma anche i malati palestinesi che hanno bisogno di cure mediche. Abbas ha ora deciso di punire questi pazienti impedendo loro di ricevere assistenza sanitaria in Israele.
  • La decisione dell’Ap di impedire ai pazienti di ricevere cure mediche in Israele non si applica agli alti funzionari palestinesi. L’Autorità palestinese (Ap) ha deciso che i palestinesi non potranno più farsi curare in Israele. Lo scorso marzo, il ministero della Sanità dell’Ap con sede nella città cisgiordana di Ramallah, di fatto la capitale dei palestinesi, ha annunciato che avrebbe interrotto i trasferimenti medici verso gli ospedali israeliani, promettendo di trovare alternative per i pazienti palestinesi in strutture ospedaliere private e governative.

L’Ap afferma di aver preso la decisione in risposta alla detrazione effettuata da parte del governo israeliano – dalle entrate fiscali raccolte per conto dei palestinesi – del denaro versato dal governo palestinese alle famiglie dei prigionieri e dei “martiri”.

Una nuova legge israeliana consente al governo di imporre sanzioni finanziarie all’Ap per la sua politica del “Pagati per Uccidere”, che incoraggia i terroristi a compiere attacchi contro gli israeliani perché sanno che loro stessi e le loro famiglie percepiranno retribuzioni finanziarie a vita da parte del governo dell’Ap.

Secondo un articolo, l’Autorità palestinese ha speso non meno di 502 milioni di shekel [126 milioni di euro] del suo bilancio del 2018 in retribuzioni e stipendi ai prigionieri terroristi e ai detenuti che sono stati rilasciati. Almeno 230 milioni di shekel [58 milioni di euro] sono stati sborsati in stipendi ai prigionieri terroristi e altri 176 milioni di shekel [44 milioni di euro] sono stati versati in retribuzioni ai terroristi dopo il loro rilascio dalle prigioni, come rivelato dal report. I rimanenti 96 milioni di shekel [24 milioni di euro] coprono le retribuzioni supplementari e altri sussidi destinati ai terroristi e alle loro famiglie.

Nonostante le detrazioni israeliane, i terroristi e i loro familiari continuano a percepire interi stipendi. Gli unici a farne le spese sono decine di migliaia di dipendenti pubblici palestinesi, i quali negli ultimi tre mesi hanno percepitosoltanto il 50-60 per cento dei loro stipendi.

Negli ultimi mesi, il presidente dell’Ap, Mahmoud Abbas, ha promesso di continuare a pagare i sussidi ai terroristi e alle loro famiglie, anche se questo costerà al governo palestinese il suo ultimo centesimo. “Noi non accetteremo tagli o cancellazioni di stipendi alle famiglie dei martiri e dei prigionieri, come qualcuno sta cercando di imporci”, ha affermato Abbas. In un’altra dichiarazione, il presidente dell’Ap ha detto: “Per Allah, anche se rimanessimo con un solo centesimo, lo spenderemo per le famiglie dei martiri e dei prigionieri e soltanto in seguito presteremo attenzione agli interessi del resto della popolazione”.

A quanto pare, il “resto della popolazione” include non solo i dipendenti dell’Autorità palestinese (Ap), ma anche i malati palestinesi che hanno bisogno di cure mediche. Abbas ha ora deciso di punire questi pazienti impedendo loro di ricevere assistenza sanitaria in Israele.

Osama al-Najjar, portavoce del ministero della Sanità dell’Autorità palestinese, ha dichiarato che il governo dell’Ap ha deciso di interrompere il finanziamento delle cure mediche dei pazienti palestinesi negli ospedali israeliani, in risposta al congelamento da parte del governo israeliano dei sussidi erogati ai terroristi e alle loro famiglie. Secondo le stime di Al-Najjar, il costo dei trasferimenti medici verso gli ospedali israeliani ammonta a 100 milioni di dollari ogni anno.

Il giornalista palestinese Fathi Sabbah ha definito la decisione presa dal ministero della Sanità dell’Ap come “sbagliata, avventata e sconsiderata”. Osservando che il provvedimento è stato adottato prima di trovare delle alternative agli ospedali israeliani, Sabbah ha affermato che la “decisione è pericolosa perché ai pazienti viene negato il diritto di ricevere cure mediche che non sono disponibili negli ospedali palestinesi, mettendo a repentaglio la loro vita. È una scelta pregna di conseguenze”.

Secondo Sabbah, mandare i pazienti negli ospedali giordani ed egiziani aumenterebbe le loro sofferenze. Molti di questi pazienti, egli afferma, hanno già iniziato le cure in Israele e ora dovranno ricominciare da capo sottoponendosi a nuovi trattamenti sanitari in Giordania e in Egitto.

“Gli ospedali giordani ed egiziani non saranno in grado di curare questi pazienti con le necessarie cure mediche professionali e i pazienti saranno costretti a tornare al punto di partenza e sottoporsi a nuovi test clinici”, ha aggiunto Sabbah.

“Questo significa ulteriore sofferenza per i pazienti e maggiori spese per il governo palestinese. Inoltre, i pazienti dovranno sopportare i disagi di lunghe ore di viaggio per arrivare in Egitto e in Giordania. Il viaggio dalla Striscia di Gaza al Cairo dura due o tre giorni, e quello di ritorno dura tre o quattro giorni. Questo significa che i pazienti malati di cancro trascorreranno un’intera settimana per sottoporsi a una seduta di chemioterapia, mentre occorre solo un giorno o qualche ora per poterlo fare in Israele”.

La decisione dell’Ap non si applica però agli alti funzionari palestinesi.

La scorsa settimana, Jibril Rajoub, un alto dirigente di Fatah, la fazione guidata da Mahmoud Abbas attualmente al potere in Cisgiordania, è stato ricoveratoall’Ichilov Hospital, la più grande struttura ospedaliera israeliana per il trattamento di patologie acute. Rajoub, che è anche presidente della Federcalcio palestinese e ha trascorso 17 anni in un carcere israeliano per reati legati al terrorismo, è stato portato d’urgenza in ospedale nonostante la decisione dell’Ap di vietare ai pazienti palestinesi di ricevere cure mediche in Israele.

Tuttavia, mentre i medici israeliani dell’Ichilov Hospital si prodigavano a prestare a Rajoub le migliori cure, l’alto dirigente palestinese ha inviato una lettera alle associazioni calcistiche europee e alla Federcalcio spagnola chiedendo che l’Atletico Madrid, gigante del calcio spagnolo, annulli una partita amichevole con una squadra israeliana, a Gerusalemme. “Non siamo contrari a giocare in Israele, ma non nella Gerusalemme occupata”, ha scritto Rajoub nella sua lettera. Il presidente della Federcalcio palestinese non ha menzionato che il Teddy Stadium, dove si disputerà la partita il prossimo 21 maggio, di fatto si trova a Gerusalemme Ovest.

Giorni prima di essere ricoverato nell’ospedale israeliano, Rajoub aveva inoltre

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https://it.gatestoneinstitute.org/14266/dirigenti-palestinesi-puniscono-pazienti

 

 

 

POLITICA

IL CASO SALVINI

 

Andrea Zhok 21 05 2019

 

Il vicepremier Salvini mostra con sempre maggiore frequenza i suoi limiti. Sono limiti noti, limiti culturali, limiti umani, limiti politici e ora emergono anche limiti tattici.

 

Il cattivo gusto della recente strumentalizzazione di simboli cristiani è solo l’ultima di una serie di forzature che, se da un lato lo pongono sempre al centro delle discussioni pubbliche (e ciò è naturalmente voluto), dall’altro però crea anche un’assuefazione ed una stanchezza crescenti, non solo in chi non ne ha mai avuto stima, ma anche in chi ha dato recente consenso alla Lega.

 

Pian pianino la gente comincia a fare i conti. Come già accaduto per suoi predecessori nell’uso spregiudicato dei media (vedi Renzi), anche in questo caso il continuo rilancio personalistico ad un certo punto innesca una fase parabolica: la gente comincia a guardare a cosa hai fatto concretamente, e se quel che hai fatto non è all’altezza delle aspettative suscitate a colpi di rilanci retorici e rodomontate, allora gli entusiasmi popolari si smontano così rapidamente come sono cresciuti.

 

Il caso di Salvini tuttavia ha una caratteristica specifica, che lo mette al momento al riparo da parabole discendenti catastrofiche. Il vicepremier leghista è riuscito ad accreditarsi (grazie alla totale latitanza di tutte le altre forze politiche), come LA risposta ai problemi dell’immigrazione.

Salvini è identificato, in Italia, ma anche fuori d’Italia, come il portatore, rozzo, sgarbato, ma assolutamente fermo, di una politica che per la prima volta dice semplicemente di NO ad ulteriori flussi migratori.

 

Fino a quando questa sovrapposizione di Salvini con il NO all’immigrazione viene accreditata pubblicamente, la posizione del vicepremier leghista è al sicuro per quanto inadempiente o volgare egli possa apparire.

 

Il fatto che rispetto a queste posizioni tutte le forze politiche che aspirano ad essere ‘tutt’altro’ rispetto alla Lega presentino profili vaghi, compromissori, quando non addirittura neghino il problema, lascia a Salvini il monopolio di una posizione che è vincente, e resterà vincente per decenni.

 

La strategia della minimizzazione del problema migratorio, strategia perseguita

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Elezioni europee, i partigiani invitano a votare per il Pd. Con la solita retorica trasudante odio

giovedì 23 maggio 17:53 – di Redazione

“Il 26 maggio dobbiamo dare forza alla lista unitaria del Partito democratico per respingere l’attacco ai valori repubblicani figli della Resistenza, per affermare ancora una volta l’uguaglianza di tutti gli esseri umani e difendere l’Europa come spazio di pace e diritti”. Così in un appello firmato dai partigiani, dall’Anpi, da “storici”, “insegnanti” e “ricercatori” che invita a votare per il Partito democratico alle prossime elezioni europee di domenica 26 maggio. ”L’Italia vive un momento di estrema tensione sociale – scrivono i firmatari dell’appello – e si riaffacciano con forza fenomeni pericolosi che si pensava potessero essere chiusi nel passato più triste del nostro Paese. Con la rabbia e il disagio si ripresentano l’estremismo razzista e xenofobo, la retorica della violenza, delle armi e degli uomini forti. Il tutto accompagnato dal disprezzo per le autorità morali e le istituzioni di garanzia. Quando pensiamo alla nascita del fascismo e del nazismo emergono con chiarezza le condizioni sociali difficili di quel tempo, la disoccupazione, la fragilità delle istituzioni”. “La Storia non si ripete mai nelle stesse identiche forme. Non si può, tuttavia, sottovalutare che oggi, in tempi di crisi di valori e di rappresentanza, milioni di italiani vivono una situazione economica difficile, spesso drammatica. In un clima generale che si è fatto più cattivo e violento, diritti come il lavoro, la salute, la casa, per molte famiglie rischiano di essere un miraggio. Il Governo italiano e i suoi massimi esponenti invece di affrontare con serietà questi problemi soffiano sul fuoco delle paure, mettono gli ultimi contro i penultimi, alimentano in molti casi campagne d’odio contrapponendo immigrati ad abitanti delle periferie delle nostre città”, si

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https://www.secoloditalia.it/2019/05/elezioni-europee-i-partigiani-invitano-a-votare-per-il-pd-con-la-solita-retorica-trasudante-odio/

 

 

 

 

 

 

Quelli di +Europa hanno già governato. Ecco come andò

23/05/2019 Massimo Bordin

Il 2011 sembra ieri, ma se da un lato gli italiani hanno una memoria politica cortissima, dall’altro alle elezioni europee di domenica 26 maggio andranno a votare molti giovanissimi, che nel 2011 erano undicenni alle prese con gli insiemi di matematica ed i primi turbamenti ormonali. Dunque, meglio rinfrescare a tutti la memoria. I partiti europeisti che si presentano all’agone politico delle prossime europee fanno proposte, analisi e dichiarazioni come se fossero appena arrivati sulla scena. Invece, dietro il trucco nominalistico di sofistica memoria e l’italica abitudine al trasformismo non solo poggiano i loro culi nei parlamenti di tutta Europa da decenni, ma in Italia hanno proprio governato, e persino senza esserne eletti come maggioranza(!)

La formazione più europeista di tutte, +Europa, che per la prima volta si presenta alle elezioni europee, è rappresentata sui manifesti di propaganda da Emma Bonino, già Ministro per il Commercio Internazionale con Prodi e con Letta Ministro degli Esteri (…), è stata commissaria europea. Deputata all’europarlamento per 4 legislature, è stata nel parlamento italiano per ben 7 legislature. A Palazzo Chigi entrò a 28 anni ed oggi ne ha 71. In pratica stiamo parlando di una sequoia della politica italiana ed internazionale con più poltrone che denti. Roba da far impallidire Andreotti.

Il Segretario nazionale della neonata formazione +Europa è Benedetto Della Vedova. Anche per lui un curriculum politico lunghissimo che parte dai radicali (movimento cuore di +E) e passa per il Governo Monti, il governo tecnico voluto da Bruxelles e che arrivò alla maggioranza in parlamento nel novembre del 2011 dopo aver rovesciato il governo precedente con la vetusta tecnica della Rivoluzione Parlamentare. Tecnica usata per la prima volta in Italia da Agostino De Pretis nel 1876 e che consiste nel condizionare i parlamentari a formare governi diversi da quelli indicati dai cittadini col voto.

Della Vedova, oggi leader con la Bonino di +Europa, fu sostenitore di Monti ed eletto nel 2013 tra le fila del suo partito, poi continuò la carriera come sottosegretario agli esteri nei governi europeisti di Renzi e Gentiloni.

Questi i nomi più noti della lista, ma che annovera tantissimi altri politicanti che hanno esercitato già la loro attività come decisori di cose pubbliche, da Pizzarotti a Taradash.

Ebbene, come andò l’Italia negli anni di Mario Monti e Letta che governarono grazie all’appoggio ideologico +Europeista?

Secondo diversi media, con l’arrivo dell’austerità voluta dai tecnici, Monti in primis, in Italia aumentarono i suicidi economici. I dati non sembrano confermare questa convinzione, che sarebbe dunque in linea con quanto avveniva purtroppo anche negli anni precedenti. Ciò che è fuori discussione, invece, sono gli altri dati macroeconomici.

Il Prodotto Interno Lordo, cioè la ricchezza del paese, con Monti calò drasticamente fino a far parlare qualche economista di depressione stile 1929.

Se escludiamo il calo del 2008/2009 che riguardò tutte le economie avanzate dell’Occidente causa bolla americana, nel 2012, anno di governo europeista di Monti, mentre tutti i paesi risalivano la china, l’Italia fece un capitombolo a – 2,4 (reale – 2,8 secondo la fonte AMECO)

La produzione industriale risulta essere in calo da anni, e non è questo il momento

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http://micidial.it/2019/05/quelli-di-europa-hanno-gia-governato-ecco-come-ando/

 

 

 

 

 

Otto domande (e risposte) sull’Europa

di Redazione

  1. Cosa è in gioco con le elezioni europee? Il Parlamento europeo ha veri poteri?

Tra meno di due settimane tutti i cittadini dell’Unione europea saranno chiamati alle urne per eleggere i propri rappresentanti nel Parlamento Ue. La data sembra particolarmente carica di significati, si tratta infatti di un appuntamento che cade a 40 anni esatti dalle prime elezioni europee a suffragio universale, nel 1979. Saranno anche le prime senza il Regno Unito. Alle elezioni europee storicamente hanno votato meno persone che nelle elezioni politiche. Negli anni ’80, in un sistema di partiti ancora molto strutturato, la differenza era più contenuta ma già significativa: nelle politiche votava quasi il 90% dell’elettorato, nelle europee circa l’82-83%. Un divario che nei decenni successivi si è progressivamente allargato. 58,69% gli elettori che sono andati a votare alle europee del 2014 in Italia.

Il Parlamento europeo è l’assemblea dell’Unione europea, ad oggi è l’unica istituzione direttamente eletta dai cittadini e dalle cittadine dell’Unione europea. E’ composta da 750 deputati e deputate, più il presidente. Svolge una funzione legislativa con il Consiglio europeo, elegge il Presidente della Commissione e approva o respinge la nomina dell’intera Commissione.

Questo è quanto si può leggere sulla “carta”, ma che cosa accade nella realtà?

Il parlamento nasce come organo consultivo sin dalla nascita della Comunità europea, ma è solo partire dal 1999, con il Trattato di Amsterdam, quello che poi è diventato a tutti gli effetti la Costituzione dell’Unione europea, che i suoi poteri sono stati in parte rafforzati. Sebbene sia intervenuta questa “riforma” attualmente ancora non dispone di reali funzioni legislative, non ha infatti potere di iniziativa legislativa, che spetta invece alla Commissione, se non limitatamente ad alcuni casi.

Di fatto la “Legge Primaria” in Europa rimangono i Trattati, come Maastricht, Lisbona, o il Fiscal Compact, limitando pertanto la sovranità di elettori e elettrici quando vengono chiamati alle urne per indicare l’unica istituzione europea a carattere elettivo.

E’ molto dubbio quindi che i risultati delle prossime elezioni europee possano influenzare in modo determinante e diretto il funzionamento dell’Unione europea, dato che sulle materie più importanti per noi, come le riforme economiche, è la Commissione e un complesso meccanismo di equilibri tra governi nazionali ad assumere le decisioni. Queste elezioni serviranno indubbiamente a tastare il polso delle opinioni pubbliche dei vari paesi europei sulle prospettive dell’Unione dopo un lungo periodo di scricchiolii, che ha visto l’accumularsi di più crisi, da quella economica internazionale a quella dell’euro, dalla crisi dei rifugiati all’agonia infinita della Brexit.

Ciò che ad oggi ci appare chiaro è che la risposta dei paesi e delle istituzioni europee a questi shock ripetuti è stata tardiva e insufficiente, in parte per i conflitti tra i paesi e in parte per i limiti stessi del funzionamento dell’Unione europea e di quella monetaria, che alimentano una protesta anti-europea.

 

  1. Chi concretamente decide la politica europea?

Attualmente l’Unione Europea (UE) è composta da 28 Paesi (17 dei quali hanno adottato l’Euro come moneta comune). Gli Stati, pur restando indipendenti, hanno scelto di delegare una parte dei poteri decisionali in determinate materie a istituzioni create da specifici accordi.

Sulla base di quanto stabilito, l’Europa ha competenze esclusive su alcune materie, mentre in altre le competenze sono concorrenti. Di fatto si è definito un quadro in cui la competenza legislativa primaria è dell’Unione, mentre il ruolo degli Stati è residuale e quindi possono legiferare in tali campi solo conformemente a quanto deciso dall’Unione o dove questa non è intervenuta. L’Unione europea ha, infatti, competenza esclusiva in ambiti come il mercato unico, la politica monetaria dei paesi euro, il commercio internazionale. La competenza concorrente riguarda il mercato interno, l’agricoltura, l’ambiente, i trasporti, la protezione dei consumatori, l’energia, le reti transeuropee e pochi altri temi.

L’Unione è caratterizzata da un sistema istituzionale ibrido: molto più vincolante e

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PD – O , il partito dell’odio 

 

Sisto Ceci 20 05 2019

 

Siamo tornati  60 anni indietro , si è ricostituito e in grande stile il Partito dell’Odio e della Guerra Civile  , ovvero uno schieramento composito che va dal  PD , a papa Bergoglio e tutti i settori  cattocomunisti della Chiesa, vedi Famiglia Cristiana, S. Egidio , le ONG , Caritas , le ONLUS e tutte quelle organizzazioni DISINTERESSATE al fenomeno migratorio, i pennivendoli e talks show di regime ,  di Repubblica e del Corriere della Pera ,si proprio Pera, la 7, Lilli ” GOMMONI ” Gruber, la Lucia Annunziata, detta la sbilenca , non Maria , sono loro che con articoli , proclami , interviste , talks show preparano l’humus ideologico, l’incitamento ossessivo all’odio , per giustificare gli assalti quotidiani violentissimi  delle squadracce nazicomuniste dei centri sociali e di tutte le schegge impazzite della sinistra estrema, la peggio gioventù, i pretoriani della sinistra radical-shit che non si sporca le mani , agli stands , ai gazebo , ai comizi  , alle sedi  SOLO della Lega.

 

Salvini è il bersaglio comune , l’uomo da odiare irriducibilmente, l’Hitler

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SCIENZE TECNOLOGIE

Primo passo verso l’elettronica senza elettroni

Più veloce ed efficiente

E’ il primo passo verso una nuova elettronica senza elettroni, più veloce, più efficiente e più versatile: a rimpiazzare per la prima volta gli elettroni in un circuito sono delle particelle quantistiche che si comportano come onde magnetiche, chiamate magnoni. Il circuito è stato realizzato negli Stati Uniti, presso l’Università dello Utah, ed è descritto nella rivista Nature Materials.

I ricercatori, guidati da Christoph Boehme, Joel Miller e Valy Vardeny, hanno dimostrato che èpossibile convertire le onde dei magnoni in segnali elettrici attraverso una tecnologia basata sul carbonio. Sono nati cosìi primi circuiti magnonici, nei quali l’informazione e’ veicolata da queste bizzarre particelle che si comportano come onde, sfruttando la proprietà chiamata spin: immaginando uno stadio di calcio pieno di tifosi entusiasti e con le braccia sollevate, la direzione in cui

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http://www.ansa.it/canale_scienza_tecnica/notizie/tecnologie/2018/03/21/primo-passo-verso-lelettronica-senza-elettroni_1f15e85c-3240-48be-a464-6b27669b7595.html

 

 

 

 

STORIA

Mansueti, guerrieri o maneggioni?

DI CARLO BERTANI – 22 Maggio 2019

carlobertani.blogspot.com

E ci guardano pure. Dai loro manifesti elettorali, ci scrutano, ci osservano: speranzosi, languidi, concilianti, battaglieri, consolatori, fidanti, consueti, suadenti e complici, integerrimi e scontrosi…ce n’è per tutte le razze e le solfe…hanno dedicato tempo e soldi per quelle immagini…no, così, un po’ più a destra…il ciuffo…la piega sulla giacca…

E finiamo per crederci, che quelle immagini rappresentino il succo dell’ideologia, la sterzata fra il desueto, il coraggio fra la contiguità…e ci scanniamo pure.

Poi, per cinque anni, le parole più gettonate saranno: variante, ponte, autostrada, tangente, palazzo, appartamenti, attico, tangente, voti, scambio, cupola, tangente. E, infine: avviso, garanzia, indagine, intercettazione, cellulare, processo, patteggiamento, rinvio, giudizio, assoluzione, condanna, dimissioni, corruzione…

Finiamo, inconsciamente, per lottare su basi ideologiche per gente che l’ideologia la snobba, la usa solo come grimaldello per far saltare tutti i chiavistelli del potere, per arrivare a possedere cinque telefonini, quattro automobili, tre uffici, due amanti, lo yacht, la faraonica villona al mare ed il gentile chalet sulle nevi.

Poi, ci provò Grillo. Non sappiamo molto di questa vicenda, perché l’inquietante presenza dei Casaleggio lancia un dubbio su tutta l’avventura: forse, il Beppe si rese conto che senza l’appoggio di gente abile nella comunicazione avrebbe soltanto gridato al vento per anni. Ma tant’è: nacque il Movimento.

Nacque mentre i partiti tradizionali – che avevano sbaragliato la vecchia classe politica ai tempi di Tangentopoli – finivano massacrati dai loro stessi atti, ossia dall’incapacità di generare felicità nelle menti degli italiani e, parallelamente, di mostrare una protervia inconcepibile nel traghettare risorse dai bilanci pubblici ai loro portafogli. Gli italiani sono il popolo meno prolifico del mondo, e il generare figli non dipende da asili nido o quant’altro, ma solo nella felicità intrinseca, la gioia di guardare al futuro. Che manca. Irrimediabilmente?

Giunti a questo punto, si dovrebbe parafrasare il titolo di un noto testo storico – Ascesa e declino delle grandi potenze di Paul Kennedy – in “Ascesa e declino dei partiti politici italiani”: quasi una rottamazione.

L’UDC conquistata e spartita (pare quasi una Polonia del 1939!) fra i due blocchi, Alleanza Nazionale morta per un appartamento a Montecarlo. Sì, avete letto bene: per un appartamento a Montecarlo. Trovarne uno più stupido di Gianfranco Fini, fra i tanti fessi italioti al potere, non è facile.

Sopravvive un barlume del ceppo originario, legato alla sopravvivenza fisica di Silvio Berlusconi, dove trova rifugio la gran maggioranza di quel 10% d’italiani che possiedono il 50% della ricchezza nazionale: hanno ragione a farlo, perché B. non li ha mai traditi.

Dall’altra parte, invece, i tradimenti consumati nel nome di un’Europa che sarebbe stata in grado d’aprire la cornucopia urbi et orbi sono stati infiniti, tanto che non si deve perdere tempo a citarli. Veltroni – “Celestino” (V, come lo chiama De Gregori) – il poco prode Prodi, qualche rottame ex DC ed ex PCI, robetta di poco conto. Se D’Alema è la “ mens maxima” che riescono ad esprimere, saluti e baci. Il resto sono

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