NOTIZIARIO STAMPA DETTI E SCRITTI 4 LUGLIO 2018
A cura di Manlio Lo Presti
https://www.facebook.com/Detti-e-Scritti-958631984255522/
Le opinioni degli autori citati possono non coincidere con la posizione del curatore della presente Rassegna.
Esergo
L’uomo politico pensa alle prossime elezioni,
l’uomo di Stato pensa alle prossime generazioni
(Alcide De Gasperi)
Il libro aperto degli aforismi, Rubbettino, 2015, pag. 250
IN EVIDENZA
75 milioni di poveri
Sulla crescita della povertà tutto ciò che oggi prevale è mistificazione.
Innanzitutto, i numeri sono inferiori alla realtà o sono costruiti in modo da far apparire meno grave la situazione.
Dal 2005 l’Istat suddivide i poveri in assoluti e relativi con due diverse classificazioni di reddito. Così oggi ci sono 5 milioni di poveri assoluti e tanti altri milioni di poveri relativi. Ma è una distinzione che serve solo ad attenuare l’impatto della catastrofe sociale che ha colpito il nostro paese. Tra l’altro i mass media hanno tutti diffuso la notizia che i 5 milioni di poveri assoluti sarebbero il numero più alto dal 2005, come se prima fossero stati di più. No, naturalmente, il 2005 è solo l’anno di avvio della classificazione e allora i più poveri dei poveri erano solo 1,5 milioni. In tredici anni sono triplicati.
Eurostat, l’istituto europeo di statistica, usa piuttosto dei criteri sociali per contare i poveri, partendo da ciò di essenziale a cui essi debbono rinunciare. Sono considerati poveri i cittadini che, tra l’altro, hanno difficoltà a fare un pasto proteico ogni due giorni, a sostenere spese impreviste, a riscaldare a sufficienza la casa, a pagare in tempo l’affitto e a comprarsi un paio di scarpe per stagione e abiti decorosi.
Continua qui: http://blog-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/?p=25370
Gattopardi, Seep State, e pesci fuor d’acqua in salsa gialloverde
L’esperimento Conte è una copia nella provincia imperiale italiana dell’esperimento Trump nel centro dell’impero, in mezzo a soggetti deboli e forti e un duraturo equilibrio neoliberista
17 giugno 2018megachip.globalist.it
di Piotr.
Marco Travaglio su Il Fatto Quotidiano ha espresso un’analisi interessante su questa compagine governativa. Alcune affermazioni le vedete in fondo. Vorrei integrarle.
1) Salvini non è un Gattopardo. Salvini è Salvini, cioè il leader di un partito che in Italia e in Europa ha fatto passare tutte le leggi e le norme neoliberiste. Non fa altro quindi che proseguire con una mentalità politica-economica e un sostegno sociale che fa della Lega un buono strumento (benché non perfetto per via di alcune contraddizioni interne alla sua base sociale) del “deep state” italiano nel nuovo governo. Dato che, come scrivevo qualche settimana fa, questo governo grazie all’assist alla Lega fornito dal presidente Mattarella …
Torna la polio in Nuova Guinea dopo 18 anni e solo il 61% dei bambini sono vaccinati.
Lisa Stanton – Facebook – 3 luglio 2018
Ma il virus che ha colpito molti di loro è derivato dal vaccino VDPV, ed è trasmissibile.
Era già successo in Venezuela, dove aveva colpito un poliovirus derivato da vaccino che Lascienza aveva assicurato non fosse trasmissibile.
Ma l’anno scorso in Siria, invece, il poliovirus derivato da vaccino si era dimostrato trasmissibile, e non solo in Siria: sempre l’anno scorso sia in Mali che in Ucraina.
Anche lì, la politica sanitaria internazionale e geopolitica (o “dottrina di sicurezza nazionale”) si sono intrecciate.
In breve, il VDPV alle volte è trasmissibile, altre no, a seconda del contesto. Parliamo di OPV, vaccino antipolio orale, che non ha niente a che vedere con il Salk presente nell’esavalente che viene utilizzato in Italia…
Continua qui:
https://www.facebook.com/lisa.stanton111?hc_ref=ARR7u4SM7VPelaxc_JiSvCFJYiKtyeC7u0BB7FTcwH-uLVR6p-n53K9oCZlVF9WcTso&fref=nf
ARTE MUSICA TEATRO CINEMA
di Maurizio Bonanni – 27 giugno 2018
La normalità mostruosa. Come quella mostrata dal personaggio di Nicole Kidman, nel film “Il sacrificio del cervo sacro”, nelle sale dal 28 giugno per la regia di Yorgos Lanthimos. Lei, la protagonista Anna, medico oculista, moglie del famoso cardiochirurgo Steven Murphy e madre di Kim, una giovane adolescente appena sbocciata, e di Bob, un ragazzino di dieci anni. Una donna giovane e molto bella, in grado di sfidare le arti oscure del sortilegio e della magia nera che origina da luoghi imprevedibili, come gli occhi iniettati di sangue di Martin, un sedicenne dislessico con evidenti difficoltà socio relazionali. Ma chi è costui e perché suo marito Steven ne coltiva la conoscenza e la frequentazione presentandolo addirittura in famiglia, lasciando persino che di lui si innamori la sua giovane figlia? L’incubo della morte è un valico tra presente e futuro che la famiglia Murphy è costretta ad attraversare vivendo in tutti i suoi terribili passaggi il dramma di una malattia inspiegabile che improvvisamente colpisce i suoi due figli. Nessuna conoscenza medica è in grado di assicurare una cura efficace per impedire l’esito infausto del sortilegio, che origina dalla vendetta biblica di “occhio-per-occhio, dente-per-dente”…
Continua qui: http://www.opinione.it/cultura/2018/06/27/maurizio-bonanni_il-sacrificio-del-cervo-sacro-nicole-kidman/
ATTUALITÀ SOCIETÀ COSTUME
Presidente ONG pubblica video di finti morti in mare per incolpare Salvini dei naufragi
Incredibile quanto successo su Twitter ieri:
Oscar Camps è il fondatore e grande capo della ong catalana Open Arms.
Vi facciamo notare che si tratta dei cosiddetti ”Crisis Actors”.
Nel video pubblicato dalla Ong che incolpa Salvini delle morti in mare, gli attori in costumi coloratissimi, appoggiati su salvagenti, sono tutti europei, nessuno dei natanti attori è di colore.
Il loop del video non dura nemmeno un minuto ed è facile stare in apnea per poco tempo.
BELPAESE DA SALVARE
Libia, truppe francesi dirigono clandestini verso l’Italia
Le truppe francesi stanziate tra il Niger e la Libia lasciano passare indisturbati migranti e trafficanti di uomini. Lo sostengono Jamal Adel, giornalista libico che vive nella zona sud-est del Kufra, e il Fezzan Libya Group, l’organizzazione che monitora il traffico di persone nella capitale libica del sud di Sebha.
Dopo la proposta del ministro dell’Interno Matteo Salvini di creare dei centri di accoglienza nei Paesi confinanti con la Libia, i libici che si trovano vicini al confine mettono ora in guardia Roma: “I francesi non stanno facendo nulla per fermare il traffico di persone perché non ne soffrono le conseguenze. Quelli che soffrono davvero sono i libici e gli italiani”, dice Adel a Gli Occhi della Guerra.
Le truppe francesi, infatti, starebbero fornendo sostegno medico ai migranti, senza però farli tornare nei loro Paesi d’origine. Anzi: i francesi permetterebbero ai migranti di passare il confine libico dove trovano alcuni trafficanti che li conducono sulle coste per poi iniziare il loro viaggio della speranza verso l’Italia.
Sia la Francia che il Niger ignorano il traffico di persone che avviene sul territorio sotto il loro controllo. “I trafficanti passano liberamente sotto il naso delle truppe francesi”, aggiunge l’organizzazione di Fezzan. “Se il Niger e la Francia pensano che il traffico di persone sia secondario, l’Italia e la Libia pensano sia un problema primario perché sono direttamente colpiti da questo fenomeno”.
Queste le dichiarazioni raccolte dal team di Fausto Biloslavo nella zona da cui passa il 99% dei clandestini che poi prendono i barconi verso l’Italia.
Se poi teniamo presente che la più grande Ong impegnata nel traffico umanitario – la famigerata Méditeranée/Msf, quella dell’Aquarius – è francese, e che appena Malta, pressata dalla chiusura dei porti italiani, ha deciso di cessare il suo appoggio logistico ha fatto rotta verso Marsiglia per rifornirsi, è facile capire chi gestisce il traffico di clandestini verso l’Europa.
Non dimentichiamo, poi, che fu proprio la Francia di Sarkozy a ‘stappare’ il blocco libico con la guerra e l’assassinio di Gheddafi.
Evidentemente, l’élite al potere che gestisce lo Stato francese è impegnata in un’opera di sovversione demografica ai danni degli altri Paesi europei, soprattutto l’Italia. I motivi, al momento, ci sfuggono.
https://voxnews.info/2018/06/27/libia-truppe-francesi-dirigono-clandestini-verso-litalia/
CONFLITTI GEOPOLITICI
Monsanto, con l’inganno e silenziosamente, ha cambiato nome
Sean Adl-Tabatabai
Il gigante agricolo Monsanto è un serial killer. Da quando hanno iniziato a sviluppare l’erbicida cancerogeno a base di glifosato “Roundup” negli anni ’70 e negli OGM negli anni ’80 – milioni di persone in tutto il mondo sono morte come risultato diretto dei loro prodotti tossici.
A seguito di una valanga di denunce e critiche da parte dei leader mondiali , il gigante agricolo ha deciso di cambiare silenziosamente il suo nome nel tentativo di ingannare i consumatori e fargli pensare di non essere più esposti ai loro prodotti tossici e pericolosi.
Giovedì, la casa farmaceutica tedesca e l’azienda chimica Bayer hanno concluso il contratto da 66 miliardi di dollari per acquisire la Monsanto e il rebrand (solo di nome).
Businessinsider.com riporta: In una dichiarazione rilasciata lunedì , Bayer ha dichiarato di voler cancellare il titolo di Monsanto di 117 anni e d’ora in poi sarà conosciuto solo come Bayer.
“Bayer rimarrà il nome dell’azienda. La Monsanto non sarà più un nome aziendale “, ha affermato la società. “I prodotti acquisiti manterranno i loro marchi e diventeranno parte del portafoglio Bayer.”
Il cambio del nome sembra essere parte di una mossa strategica orientata a distanziare il nuovo colosso dalla pubblicità negativa che circonda la Monsanto e gli organismi geneticamente modificati.
Prima annunciato a settembre 2016 come parte di una mossa volta a promuovere la ricerca e l’innovazione in campo agricolo, la fusione rappresenterà la più grande acquisizione della storia di Bayer e il radoppio delle dimensioni dell’azienda agricola.
Distanziandosi dall’etichetta Monsanto
Non si può pronunciare il nome di Monsanto in pubblico e non essere guardati con un ‘occhiata fulminante. Per decenni, l’azienda è stata accolta con indignazione e disgusto pubblico a motivo della sua storia di rapporti controversi con gli agricoltori e al suo ruolo di spicco nella divulgazione degli OGM . Questa primavera, la Monsanto ha ottenuto un posto in un elenco molto noto delle 20 aziende più odiate in America .
La decisione di abbandonare il nome Monsanto, quindi, non è una grande sorpresa.
In una conferenza stanpa di Lunedi, Liam Condon, capo della divisione Crop-Science di Bayer, ha detto che la Monsanto aveva “in realtà considerato di cambiare nome” in una sola volta, ma decise “di non farlo,per motivi di costi.”
Eppure, Condon ha detto, “è stato un problema per un certo tempo per la gestione della Monsanto … cercare di migliorare il marchio Monsanto.”
“Siamo estremamente orgogliosi di tutto quel che abbiamo realizzato come Monsanto e desideriamo continuare ad accelerare l’innovazione in agricoltura mentre attendiamo un futuro con Bayer”, ha detto Christi Dixon, responsabile delle relazioni pubbliche della Monsanto, in una dichiarazione rilasciata a Business. Insider, aggiungendo che nel frattempo, mentre la Monsanto opera indipendentemente da Bayer, “per noi sarà un business normale, compreso il nome della nostra società”.
La Monsanto si sta anche muovendo per investire più profondamente in strumenti avanzati per l’editing genetico, un processo che può essere capitalizzato a fini agricoli per produrre prodotti più economici ma di qualità superiore. Molte aziende si stanno allontanando dal DNA delle colture modificate con OGM e altri metodi di modificazione genetica grezzi a favore di tecniche più precise come Crispr.
A marzo, Monsanto ha messo 125 milioni di dollari dietro la startup di editing genico Pairwise, una società il cui fondatore, Haven Baker, ha dichiarato a Business Insider che intendeva portare il primo frutto aggiustato con Crispr agli scaffali dei negozi, uno sviluppo che si aspetta in cinque o dieci anni. Tom Adams, che era il vicepresidente della biotecnologia globale della Monsanto, è partito per diventare questa primavera CEO di Pairwise .
http://sadefenza.blogspot.com/2018/06/monsanto-con-linganno-e-silenziosamente.html
La confessione di R. Giuliani: “Le proteste in Iran non sono spontanee”
Maurizio Blondet 2 luglio 2018
L’avvocato personale di Trump ed ex sindaco di New York Rudolph Giuliani, parlando ieri nel corso dell’annuale incontro mondiale del gruppo terroristico antirivoluzionario iraniano MKO (“Mojahedin-e Khalq”, più noto in Iran con l’appellativo coranico di “Monafeqin”, ipocriti) che si è tenuto come di consueto a Parigi, a proposito dei recenti disordini in Iran ha tranquillamente affermato:
“Queste proteste non stanno accadendo spontaneamente. Avvengono grazie a molte delle nostre persone in Albania [paese che dal 2015 ospita un quartier generale del MKO] e a molte delle nostre persone qui e in tutto il mondo.”
Ripetendo poi quella che dal 1979 in poi è stata una delle principali illusioni dei nemici interni ed esterni della Rivoluzione Islamica, Giuliani ha affermato: “Adesso siamo realmente in grado di vedere la fine del regime in Iran. La libertà è proprio dietro l’angolo…il prossimo anno voglio tenere questa riunione a Teheran!”
Anche l’ex Primo Ministro canadese Stephen Harper è intervenuto all’assemblea del gruppo terroristico, evocando il “regime change” in Iran.
Lo scorso anno, partecipando alla stessa riunione, l’ex ambasciatore USA alle Nazioni Unite e attuale Consigliere per la Sicurezza Nazionale americana John Bolton aveva promesso che “la Rivoluzione non raggiungerà il suo quarantesimo anno (a febbraio del 2019 la Rivoluzione Islamica compirà 40 anni) e festeggeremo insieme a Teheran!”.
(IslamShia)
https://www.maurizioblondet.it/la-confessione-di-r-giuliani-le-proteste-in-iran-non-sono-spontanee/
CULTURA
Politica e filosofia “da dentro”
di SANDRO CHIGNOLA
Che ruolo può avere la filosofia entro un mondo che ormai si è fatto “uno”, e cioè privo di quel “fuori” rispetto al quale essa ha sempre definito le sue coordinate? Se lo è chiesto Sandro Chignola nell’appena pubblicato “Da dentro. Biopolitica, bioeconomia, Italian Theory” (DeriveApprodi, 2017), libro nel quale si affrontano criticamente molte tendenze della filosofia contemporanea. Del libro pubblichiamo qui l’introduzione, per gentile concessione dell’autore e dell’editore.
I testi che raccolgo in questo piccolo libro hanno avuto tutti la medesima origine. Essi sono stati scritti su invito per seminari, lezioni o convegni di studio all’estero: in Europa o, come avvenuto nella maggior parte dei casi, in America latina. A partire dalla circostanza per la quale sono stati redatti, essi hanno poi ottenuto una certa circolazione: alcuni tra di loro sono stati tradotti in altre lingue, sono stati discussi in altri contesti, hanno dato luogo a riprese.
I motivi per metterli qui assieme a disposizione del lettore sono perciò più di uno. Da un lato, il fatto che alcuni di essi non siano mai usciti in italiano o, quando ciò sia avvenuto, abbiano finito comunque col disperdersi in imprese editoriali differenziate e, in molti casi, occasionali (sintomo, varrebbe la pena di sottolineare, dell’autoimprenditorialità scientifica cui vengono spesso coartati giovani studiosi in cosiddetta, mi viene da sorridere, formazione); dall’altro, offrire la loro serie come indicatore della continuità di un posizionamento: intellettuale, se si vuole, ma soprattutto politico.
Che cosa significa pensare in un mondo che si va facendo – se non si è già fatto – uno? Un mondo nel quale le discussioni che vengono istruite per rispondere a trasformazioni che sembrano evidenziare un tratto, o prodursi come effetto di tendenze, almeno sino a un certo punto omogenei, fanno tutte riferimento, in Europa e «fuori», a uno stesso canone di categorie, concetti o autori? Come interagire con impianti argomentativi che, almeno a mio parere, viene dato per scontato siano condivisi, anche quando alcuni di essi perdono evidentemente di vista i motivi per i quali – si tratti di Foucault o di Deleuze – sono stati inventate alcune delle parole-chiave che risuonano (a volte in maniera vuota, come un puro effetto d’eco) nella teoria critica contemporanea?
Il titolo di questa raccolta rivendica una doppia internità. Quella ad un mondo che un «fuori» non lo ha più, e quella ad una linea di pensiero, inseparabilmente teorica e politica assieme, che è stata chiamata postoperaista, il motore della quale è sempre stata l’assoluta consapevolezza che è nel campo di immanenza del reale, e non nella rarefatta atmosfera della chiacchiera più o meno filosofica, che ci si muove, assumendosi la piena responsabilità di ciò che si scrive e di ciò che si fa. Per riprendere il Foucault lettore degli antichi, è la presa di parola di cui ci si fa carico, che dà valore ad una politica della verità e credito a chi, mettendosi con ciò a rischio, la enuncia.
In questo caso, certo, il rischio è minimo. Quello di procedere per approssimazioni e frammenti di discorso – ma chi scrive non pretende certo, mai lo ha fatto e mai lo farà, a una cifra autoriale – e quello di esplicitare evidenti motivi di critica nei confronti di alcune proposte e di alcuni interlocutori.
Il mondo nel quale viviamo non ha più un «fuori», dicevo poco sopra. Non lo ha, perché i dispositivi dell’accumulazione capitalistica si sono estesi sull’intera superficie del globo estraendo direttamente valore dalla vita – intendo con questo tanto ciò che si suole chiamare, a partire dall’indefinita dilatazione della giornata lavorativa e della rottura della misura del salario, sussunzione reale, quanto l’innestarsi di regimi proprietari sul genoma dei viventi grazie a brevetti e biotecnologie – e perché i processi di unificazione del mondo diretti dalla mercificazione hanno ormai ibdridato culture e tradizioni di pensiero.
Da questi processi non è dato dichiararsi «fuori». Occorre cioè assumersi la responsabilità di insistere nella posizione che essi ci ascrivono, se, come mi sembra necessario, assumiamo che non esiste un luogo pacificato e sottratto alle tensioni che essi producono dal quale giudicare delle cose. Ma, ancora di più, e prendo in carico questo dato proprio per il fatto di aver steso questi testi per occasioni di discussione in luoghi apparentemente molto distanti tra di loro, da Parigi a Belgrado, dall’Argentina, al Chile, al Brasile, per il fatto che la teoria critica, o comunque, la filosofia politica che cerca strumenti interpretativi per accompagnare e per potenziare lotte e percorsi di emancipazione interni al farsi mondo del capitale, tende in molti casi a riferirsi a categorie, concetti e strutture discorsive ricorrenti e, per così dire, unitarie.
È da dentro questo duplice processo di unificazione, anche soltanto per produrre attriti ed effetti di dissonanza correggendo il rischio di politiche della filosofia fatte di marketing, moda o facili stilizzazioni, che questo piccolo libro prende la parola. Lo fa, discutendo di biopoteri e di governance – viene con ciò assunto un punto di soglia, potrebbe dirsi: il determinarsi di formule giuridiche e istituzionali che rispondono decostituzionalizzando, denazionalizzando e desovranizzando la democrazia ai processi di soggettivazione operaia e militante che hanno scosso con potenza il globo a partire dagli anni ’70 del secolo scorso -, di bioeconomia, di Foucault, Benjamin e Deleuze, gli autori che hanno messo a punto gli strumenti per descrivere e per interpretare le linee fondamentali dei processi appena evocati, di quella che altri ha voluto definire Italian Theory, dato che, nella maggior parte degli eventi in cui sono stato invitato a discutere, ricorrente era il riferimento ai più recenti contributi filosofico-politici provenienti dalla parte del mondo nella quale, per buona parte dell’anno almeno, vivo e lavoro.
Come sarà facile intuire, non difendo questa etichetta. Al contrario, essa mi fa problema per almeno due motivi. Il primo: non capisco bene che cosa con essa si intenda. Chi ha inventato e messo in circolazione la formula, ha retrospettivamente costruito una tradizione che forse può avere a che fare con le pratiche – a mio avviso in genere perverse – della storia della filosofia (per di più, e lo sottolineo, italiana), ma certo non con la dura realtà degli scontri, delle vendette, delle miserie e, in alcuni casi almeno, degli autentici opportunismi, che in Italia hanno occupato la scena culturale a partire dagli anni ’80. Il secondo: davvero non credo sia possibile difendere l’idea che ancora esistano culture identificate a usi, costumi o vicende «nazionali» e che le pratiche teoriche possano modificarsi in relazione ai posizionamenti dai quali esse si guardano perimetrandosi l’una rispetto all’altra. Do in qualche modo per scontato che il Gramsci letto in India o in Brasile, il Foucault studiato in Argentina, il Deleuze interpretato negli USA, non esprimano un’appropriazione a stili e tradizioni locali, ma che, al contrario, modifichino proprio quest’ultimi, allineandoli al farsi uno del globo. È perciò, di nuovo, dall’interno di questo processo, che anche i testi che presento al lettore tentano di intervenire, senza difendere la supposta specificità di una maniera italiana nel fare filosofia.
Ho fatto riferimento ai processi di decostituzionalizzazione che segnano da alcuni decenni le nuove modalità di formazione del comando e della decisione politica. Mi riferisco, con questo, non soltanto alla progressiva marginalizzazione dello Stato su scala globale, ma anche allo scivolamento in direzione tecnico-amministrativa – e cioè: postdemocratica e postrappresentativa – del governo. È noto che Foucault, uno degli autori più frequentemente convocati nelle pagine che seguono, fu tra i primi a segnalare questo passaggio, parlando del dischiudersi di un’epoca della governamentalità. Come il lettore avrà modo di verificare, la diagnosi foucaultiana, effetto dello sguardo sagittale che egli rivendicava alla filosofia nei confronti dell’attualità, non si riferiva ad un lineare succedersi di dispositivi – dallo Stato al fatto di governo, dall’anatomopolitica disciplinare ai biopoteri – ma alludeva alla crescente rilevanza acquisita da forme di conduzione delle condotte, e cioè di orientamento della libertà, che si erano rese necessarie per recuperare le traiettorie disegnate da curve di soggettivazione tendenzialmente ingovernabili.
Tutti i testi che il lettore ha davanti a sé – e che potranno, evidentemente, essere letti indipendentemente l’uno dall’altro – cercano di porre a tema, anche quando trattano di biopolitica, anche quando si occupano di nuova penologia o dell’«odore di marcio» che emana dalle tecnologie commissariali che segnano parti significative della contemporanea produzione normativa, anche quando alludono ai progetti biomedici di governamentalizzazione della salute, la trasformazione che, per primo, Foucault ha inteso assumere a problema.
Di qui, non vale forse neanche la pena di sottolinearlo, la rivendicazione di un posizionamento politico. La filosofia, una volta assunta la propria internità al mondo, può solo aiutare a schierarsi, non certo pretendere di descrivere, criticare o afferrare la realtà da un’impossibile posizione esterna rispetto alle cose. Il lettore che abbia voglia di seguirmi potrà allora comprendere anche alcuni dei miei motivi di polemica con alcune delle posizioni presenti nel dibattito e con le quali, qui, direttamente mi confronto: essere fedeli all’evento e il più prossimi e di ausilio possibili a chi si solleva, significa rinunciare alla nobile postura del diretto confronto con la purezza della metafisica – ammesso essa si sia mai data o che essa si dia -, elaborare un altro rapporto tra politica e filosofia e in ogni caso accettare la sfida che arriva dal lato meno immacolato delle cose.
Quello dentro il quale, senza resto, ci troviamo.
Sandro Chignola è ordinario di filosofia politica presso l’Università di Padova e Visiting Professor presso la UNSAM di Buenos Aires. Fa parte della Direzione di “Filosofia politica” e del comitato scientifico di altre riviste italiane e straniere. Ha scritto sull’Ottocento francese e tedesco, su Foucault, sui concetti politici moderni.
(26 aprile 2018)
CYBERWAR SPIONAGGIO DISINFORMAZIONE
Miliardario Democratico USA invoca False Flag nucleare per eliminare Trump?
JD Heyes
Più tempo il Presidente Donald Trump rimarrà in carica, più la sinistra perennemente arrabbiata diventerà sconcertante e inquieta.
La Sindrome Trump è andata così male per lo sconvolto miliardario liberal Tom Steyer che invoca una guerra nucleare che ucciderebbe decine di milioni di persone (incluso lui), così da permettere una “vera correzione di rotta” per il nostro paese.
Questo è assolutamente folle. C’erano molte persone a destra che non erano certamente fan di Barack Obama, ma per quanto ne sappiamo nessun conservatore ha mai pensato di scatenare una guerra nucleare per potersi sbarazzare di lui.
Come riportato dal Washington Free Beacon , Steyer ha fatto la sua dichiarazione sulla altrettanto rimbombante rivista Rolling Stone :
Steyer, lo scorso anno , ha lanciato una campagna nazionale di impeachment contro il presidente Donald Trump , ha parlato con la rivista liberal dei suoi sforzi, che sono stati contrastati da leader democratici come la leader delle minoranze della Camera Nancy Pelosi (D., Calif.).
L’intervistatore Tim Dickinson ha sottolineato la strategia di Pelosi di opporsi all’impeachment del presidente George W. Bush, per rimuovere la questione dal tavolo nel 2006. I democratici hanno ritirato da entrambe le Camere del Congresso in rotta elettorale in quell’anno.
Steyer ha detto che ricorda il 2006 e che Bush è stato responsabile di aver coinvolto l’America in “due guerre disastrose” – che non erano realmente “disastrose” se non a sinistra, e una delle quali era legata al nostro paese sotto attacco l’11 settembre 2001 (di cui Steyer incolpa l’America).
Ha pure detto che gli Stati Uniti sono diretti verso la rovina finanziaria – che sarebbe diventata la Grande Recessione, anche se in realtà non è iniziata che dalla fine del 2007 / inizio 2008.
“Quindi se la risposta è che abbiamo bisogno di quelle tre cose per una correzione del corso, preferirei spostarmi un po più velocemente. Che ne dici di quello? Ma prendo il tuo punto. Forse potremmo avere una guerra nucleare e poi ottenere una vera correzione di rotta. “
… proprio Malato.
L’ha portato indietro, ma …
Dopo essere stato interpellato sull’osservazione, Steyer ha detto che avrebbe ritirato il riferimento alla guerra nucleare, ma è ovvio come si sente che si è appena tirato fuori dal suo assurdo pronunciamento .
Poi ha continuato a fare i conti e impone la postura come fa sempre la sinistra quando stanno cercando di “fare la cosa giusta“, come se i liberal fossero i veri arbitri della coscienza e della morale nazionale.
Ma è chiaro che il Trump Derangement Syndrome ha infettato l’anima, il giudizio e l’abilità di ragionamento di Steyers. Oppue non ha mai fatto riferimento alla “guerra nucleare” per cominciare il discorso?
E non erano queste stesse libere scappatoie che recentemente dicono che Trump non avrebbe ottenuto nulla nel disarmo nucleare dalla Corea del Nord? Ovviamente, dopo che hanno sostenuto, come hanno fatto con Ronald Reagan, che Trump ci avrebbe portato in una guerra nucleare, perché,come fanno capire è un maldestro idiota autoritario che opera sotto il comando di Vladimir Putin.
O qualcosa di simile.
Come riportato da Breitbart News all’inizio di questo mese , Steyer ha speso $ 40 milioni nella sua ricerca di illegalità per far imputare Trump. È strano, data l’attuale composizione della Camera; I repubblicani – partito del presidente – controllano la camera, e sebbene ci siano alcuni #NeverTrump RINO tra loro, non ce ne sono abbastanza per sostenere un impeachment. (Related: OUTRAGE: Washed up lib law prof Lawrence Tribe uses ‘shoot to kill’ metaphor discussing Trump impeachment.)
Inoltre, Trump non ha fatto nulla perché sia giustificato l’impeachment. Obama, al confronto, regolarmente governato dalla executive fiat è stato il maestro delle cerimonie di tanti scandali, ha dimostrato che, a meno di buttare giù un minimarket e di aver catturato l’intera macchina fotografica, non c’è praticamente alcun modo di imputare un presidente .
Non solo, sembra che Steyer e il suo alleato “Impeach 45“, a manovrare Maxine Waters, stiano cercando le vittorie democratiche dell'”onda blu” a novembre, con questo problema .
Ma, almeno , speriamo che questo ipocrita miliardario lunatico almeno usi lo stesso grande scrupolo per indagare sul presidente per pagare le tasse allo stato nazionale.
Per saperne di più sulla follia della sinistra Dem andate su LeftCult.com .
JD Heyes è editore di The National Sentinel e uno scrittore senior per Natural News and News Target.
Fonti:
http://sadefenza.blogspot.com/2018/07/il-miliardario-democratico-usa-vuole-un.html
ECONOMIA
Gli economisti italiani insistono a chiedere all’Europa, ma quelli esteri dicono che l’Italia può crearsi una sua moneta
2 luglio 2018 DI GIOVANNI ZIBORDI
cobraf.com
Tre degli economisti più noti in Italia, Francesco Giavazzi, Lucrezia Reichlin e Luigi Zingales, hanno scritto una lettera al Presidente del Consiglio Conte sulla “dichiarazione di Meseberg” della settimana scorsa, in cui Macron e la Merkel avrebbero concordato delle proposte che rafforzino l’Euro e l’Eurozona secondo quello che leggi sui giornali.
I nostri economisti chiedono nella loro lettera al nuovo governo “populista” di eliminare “ogni dubbio sull’impegno dell’Italia” per restare nell’Euro, di apprezzare lo sforzo franco tedesco e avanzare anche proposte da parte dell’Italia.
Non menzionano però che la proposta che è più cara agli economisti e partiti fedeli all’Euro in Italia, i famosi “eurobonds” (titoli di stato comuni tra tutti gli stati), di cui da anni sentiamo parlare come la soluzione ai problemi di spread e default, la “dichiarazione di Meseberg” li esclude.
Nonostante la Commissione UE li abbia in qualche proposti, la Germania li ha esclusi in modo fermo a Meseberg, come ha notato il Financial Times ad esempio. che Giavazzi, Reichlin e Zingales forse non leggono perchè elegantemente glissano sullo smacco.
Riguardo all’altro punto cruciale della “solidarietà” europea, il bilancio comune per gli investimenti e altra spesa comune per far convergere le economie, non c’è nella proposta franco-tedesca nessun numero e dettaglio specifico.
Come si sa, per ora il budget comune comunitario è l’1% del PIL e negli USA il 22% del PIL per cui è irrilevante in termini di politica economica. Anche qua, se leggi la stampa finanziaria inglese, impari che Olanda, Finlandia e Austria e altri governi minori (12 in totale) hanno già detto che sono contrari, per cui la Germania si può permettere vaghe dichiarazioni di intenti perchè sa che poi i suoi alleati si incaricano di bloccare il budget comune. Se c’erano altri dubbi, il Ministro delle Finanze ha subito detto “Il bilancio dell’Eurozona ha un certo valore simbolico e comunicativo, ma non uno sostanziale. Bene ha fatto la cancelliera a dare il suo sostegno” cioè, è solo un gesto simbolico.
Anche il Wall Street Journal ha sintetizzato “Macron è tornato a mani vuote”. Giavazzi, Reichlin e Zingales si dilungano su altre cose secondarie, ma senza mettere in comune parte del debito pubblico (come appunto si proponevano gli “eurobonds”) e senza mettere in comune un bilancio pubblico di spesa, il piano franco-tedesco è vuoto di contenuto per l’Italia.
Ricordiamo allora qual’è il problema vero dell’Austerità e dell’Euro. L’Italia, negli ultimi dieci anni, ha perso un 20% della produzione industriale, gli investimenti sono calati del 25% circa, ci sono 180 mld di crediti marci nelle banche italiane, il reddito medio pro capite è calato dell’8-9% (e per alcune fasce più deboli del 20%, con 5 milioni di persone in povertà assoluta), la natalità degli italiani è crollata ai minimi del mondo, 300mila figli l’anno, mentre i decessi sono 620 mila e 110mila giovani l’anno emigrano. Questo è il mondo reale in cui la maggioranza degli italiani vivono.
Forse per i segmenti di popolazione italiana garantiti qualche gesto “simbolico” come dice Schauble, lodato negli editoriali di Giavazzi, che era consigliere economico della Commissione UE fino al 2010 e Lucrezia Reichlin che era capo economista alla BCE quando imponevano l’austerità e che ora siede nel CdA di Unicredit, sono sufficienti per rassicurarsi.
C’è intatti una fascia di popolazione garantita, ad esempio chi ha ricchezza finanziaria l’ha mantenuta grazie al fatto che ad esempio i Btp hanno reso in media circa un 70% tra cedole e apprezzamento, grazie alle politiche della BCE di acquisto massiccio di circa 700 miliardi di Btp.
Ma questi rendimenti enormi dei Btp sono stati pagati con l’Austerità che serve a garantire i creditori. La BCE ha infatti comprato e fatto comprare alle banche italiane e Bankitalia 700 miliardi di Btp, solo a condizione che il governo di Monti e poi Renzi imponesse l’austerità, che ha prolungato la depressione in cui versa gran parte dell’economia italiana.
Il mondo in cui vivono i prof. di economia, che siedono anche nei consigli di amministrazione di banche, assicurazioni, grandi aziende o hanno incarichi presso la UE e firmano le lettere sul Corriere è diverso dal mondo reale in cui vivono la maggioranza degli italiani, quelli che hanno votato e mandato al governi Salvini e Di Maio.
E li hanno mandati al governo perchè hanno promesso di ridurre le tasse e spendere per 130 miliardi in più, come indicato nei programmi della Lega e del M5S e riaffermato nel loro “contratto”. Ma per farlo occorre che l’Italia esca dai vincoli dell’Euro. Il modo più pratico, come ha scritto proprio in questi giorni un altro economista dal’’America, Joseph Stiglitz, è che “con la Lega al potere, Matteo Salvini, può mettere in pratica, quello che altri governi più deboli hanno avuto paura di fare.
L’Italia è abbastanza grande come economia e ci sono abbastanza economisti creativi, da essere in grado di gestire una un’uscita de facto, istituendo una seconda moneta a cambio flessibile e riportando così la prosperità.
Questo sposterebbe l’onere di un eventuale uscita de iure con tutte le sue conseguenze su Francoforte e Bruxel e l’Italia potrebbe contare su una situazione di paralisi della UE per evitare la rottura finale (e continuare con una seconda moneta”.
Giovanni Zibordi
Fonte: http://cobraf.com
Link: http://cobraf.com/forum/forum/economia-europea-249/topic/il-problema-%C3%A8-leuropa-20093/?post=1073739#1073739
Priceless, i concetti di natura e capitale
Aldo Femia – 3 luglio 2018
La Gran Bretagna, e anche l’Italia si sta inserendo in questo solco, sta tentando di dare un prezzo alle risorse naturali, una tendenza nefasta che passa per il concetto di 2capitale naturale”. Un articolo di Monbiot mette in guardia e propone un’agenda diversa in quattro punti
Il governo britannico vuole mettere un prezzo sulla natura – ma questo la distruggerà. Definire le risorse della Terra come ‘capitale naturale’ è moralmente sbagliato, intellettualmente vacuo, e soprattutto controproducente.
Così scrive anche George Monbiot, editorialista del Guardian, che qui di seguito ho tradotto con la collaborazione di Emanuele e Marta Femia cercando di preservare l’immediatezza della prosa di Monbiot.
L’ho voluto tradurre perché dice, in maniera semplice ed efficace, cose di fondamentale importanza per chi vuole perseguire lo sviluppo dell’ambiente – non solo naturale, ma anche umano e sociale – e opporre questa prospettiva a quella mortifera dell’economia (di rapina) capitalistico-finanziaria. Quest’ultima ha già cominciato a mettere le mani su titoli che rappresentano “asset ambientali” e loro derivati (i “servizi ecosistemici”).
La stessa finanziarizzazione che – come Monbiot altrove ricorda – ha spinto le nostre economie e società in una crisi senza precedenti, distruggendo capitali di entità inaudite; che facendo pagare la crisi ai popoli, li ha spinti verso quell’insicurezza che la politica oggi capitalizza come paura e fa ricircolare come inumanità, non potrà certo salvare la natura, ma solo ‘valorizzarla’ in quanto ‘capitale’ iscritto nei bilanci degli stati, e poi bruciarla rubando futuro (di tutti) per salvare il presente (di pochi).
A quando l’emissione di titoli di stato garantiti direttamente dalle Cime di Lavaredo e non più dal gettito delle imposte sui pedaggi dei visitatori? Il vero gioco è un gioco di potere e, come ha insegnato Bordieu, chi ha il potere gioca con le regole, non dentro le regole. Pensare di battere il potere dell’economia giocando in casa sua e secondo le sue regole è illusorio, dice pure Monbiot.
Monbiot espone quattro fondamentali ragioni per rigettare il programma (“agenda” nell’originale) del capitale naturale in una magistrale lecture disponibile all’indirizzo https://www.youtube.com/watch?time_continue=4704&v=ni1tX0bpTR8.
Monbiot espone i suoi argomenti senza impigliarsi in tecnicismi, andando dritto al cuore del problema. In questo articolo si limita alla più importante delle quattro.
Su questa come su altre materie, l’Italia rischia di andare ad accodarsi ai Paesi che hanno spinto più in là la frontiera del calcolo economico e del cinismo. L’istituzione, due anni fa, di un comitato ispirato a quello britannico e di pari nome, ha segnato la rinuncia – speriamo solo temporanea, sebbene fatta per legge – a designare semplicemente come Natura “l’aria, l’acqua, il suolo e gli ecosistemi che supportano tutte le forme di vita”, per trattare tutto ciò come capitale, valutabile, anche se non (ancora) scambiabile con denaro. Ecco ciò che scrive Mobiot:
Spero la lettura dell’articolo sia fonte di ispirazione per quelli che, animati da sani propositi, scelgono come campo di gioco quello prediletto dalla parte avversa rinunciando al potere dei valori intrinseci, e che incoraggi tanti a mobilitarsi per affermare di valori alternativi a quelli di mercato. Lo stesso Monbiot invita a farlo con il suo più recente libro – disponibile già anche in italiano – che promette di ispirarci mostrandoci “a bordo del suo kayak lungo le coste gallesi, o mentre vaga nelle foreste dell’Europa orientale e nei boschi in ripresa delle Highlands scozzesi … come poter alleviare la nostra «noia ecologica» e sfuggire dall’addomesticamento tecnologico, donando di nuovo alle nostre vite il senso della meraviglia e della sorpresa”.
Non importa che il nuovo controllore ambientale non avrà denti. Non importa che il governo abbia in animo di rimuovere la protezione dai siti faunistici locali[1]. Non importa che il suo piano ambientale venticinquennale sia tutto chiacchiere e niente azione. Non abbiamo più bisogno di regole. Abbiamo una borsetta di polverina magica da spargere su ogni problema per farlo sparire.
Questa polvere è la valutazione monetaria del mondo naturale. Grazie al mercato, possiamo evitare conflitti e scelte difficili, leggi e misure d’intervento, rimpiazzando le decisioni politiche con calcoli economici.
Quasi tutti i documenti ufficiali su questioni ambientali sono oggi infarciti di riferimenti al “capitale naturale” e al Comitato per il Capitale Naturale, l’organismo laputiano[2] che il governo ha creato per prezzare il mondo vivente e sviluppare un set di “conti nazionali del capitale naturale”. Il governo ammette che “al momento non possiamo dare una valutazione robusta in termini economici a tutto ciò cui vorremmo darla; in particolare, la wildlife (l’insieme delle forme di vita selvatiche, ricco di biodiversità; n.d.t) costituisce una sfida”. Speriamo che questo gap possa essere presto colmato, così sapremo esattamente quanto vale una primula.
Il governo sostiene che senza un prezzo, al mondo vivente non viene dato alcun valore, sicché vengono prese decisioni irrazionali. Assegnando un costo alla natura, ci si assicura che essa attragga investimenti e protezione, come le altre forme di capitale. Questo modo di pensare si basa su una serie di straordinarie misconcezioni. Persino il nome rivela una confusione: capitale naturale è una contraddizione in termini. Il capitale è propriamente inteso come la parte della ricchezza creata dall’uomo che è impiegata nella produzione per generare ricavi finanziari. Concetti come capitale naturale, capitale umano o capitale sociale possono essere utilizzati come metafore o analogie, sebbene anche queste siano depistanti. Ma il piano venticinquennale definisce il capitale naturale come “l’aria, l’acqua, il suolo e gli ecosistemi che supportano tutte le forme di vita”. In altre parole, la natura è capitale. In realtà, ricchezza naturale e capitale creato dall’uomo non sono né commensurabili né intercambiabili tra loro. Se il suolo viene dilavato dalla superficie terrestre, non possiamo far crescere raccolti su un letto di titoli derivati.
Una fallacia simile riguarda il prezzo. Un segno di sterlina o dollaro piazzato davanti a qualcosa che non sia acquisibile con denaro è privo di senso: un prezzo rappresenta un’aspettativa di pagamento, corrispondente all’andamento del mercato. Nel prezzare un fiume, un paesaggio o un ecosistema, o lo si sta mettendo in vendita, nel qual caso l’esercizio è sinistro, o no, nel qual caso siamo nel nonsense.
Ancor più illusoria è l’aspettativa che si possa difendere il mondo vivente applicando la stessa mentalità che lo sta distruggendo. Idee come quella che la natura esista per servire a noi; che il suo valore stia nei benefici strumentali che possiamo estrarne; che questo valore possa essere misurato in moneta contante; e che ciò che non può essere misurato non ha importanza, si sono dimostrate letali per il resto della vita sulla Terra. I nomi che diamo alle cose e il modo in cui pensiamo ad esse – in altre parole gli schemi mentali che utilizziamo – contribuiscono a determinare il modo in cui le trattiamo.
Come nota il linguista cognitivo George Lakoff, quando usi gli schemi e il linguaggio dei tuoi avversari, non li persuadi ad adottare il tuo punto di vista. Viceversa, tu adotti il loro, e rafforzi la loro resistenza ai tuoi obiettivi. Lakoff sostiene che la chiave del successo politico è promuovere i propri valori, piuttosto che blandire la mentalità che si contesta.
Il ‘programma’ del capitale naturale rinforza la nozione che la natura non ha valore se non se ne può estrarre moneta. Dieter Helm, che presiede l’assurdo comitato governativo, esplicita questo punto: l’idea che la natura abbia un valore intrinseco, indipendente da ciò che gli umani possono trarre da essa, dice, è “pericolosa”[3]. Ma questa pericolosa idea è stata la forza motivante di tutte le campagne ambientali di successo.
La risposta più comune alla causa che sto perorando è che possiamo utilizzare, per proteggere la natura, sia argomenti intrinseci che estrinseci[4]. Il programma del capitale naturale, dicono i suoi difensori, è “un’arma aggiuntiva per lottare in difesa del territorio”. Ma esso non aggiunge, sottrae. Come sostiene il filosofo Michael Sandel in “Ciò che il denaro non può comprare”, i valori di mercato spiazzano quelli non di mercato. I mercati cambiano il significato delle cose di cui discutiamo, rimpiazzando gli obblighi morali con relazioni commerciali. Questo corrompe e degrada i nostri valori intrinseci e svuota la vita pubblica privandola degli argomenti etici.
È anche, mostrano i suoi esempi, controproducente. Gli incentivi finanziari minano la nostra motivazione ad agire per il bene pubblico. “Altruismo, generosità, solidarietà e spirito civico sono… come muscoli che si sviluppano e fortificano con l’esercizio. Uno dei difetti della società guidata dal mercato è che fa languire queste virtù”. E dunque, chi resisterà a questa mentalità arida e distruttiva? Non, sembra, i grandi gruppi conservazionisti. Nella BBC Wildlife Magazine di questo mese [maggio 2018, n.d.t.], Tony Juniper – per altri aspetti un ammirevole difensore del mondo vivente – dice che utilizzerà la sua nuova posizione di direttore per le campagne del WWF per promuovere il programma del capitale naturale[5].
Forse non sa che nel 2014 il WWF ha commissionato una ricerca per testare questo approccio. Ha mostrato che quando alle persone si ricordava il valore intrinseco della natura, erano più propense a difendere il pianeta vivente e supportare il WWF di quando venivano messi di fronte con argomenti finanziari. Ha scoperto anche che usare i due argomenti insieme produceva gli stessi risultati di quello finanziario da solo: il programma del capitale naturale minava la motivazione intrinseca delle persone.
È stato dimenticato? Talvolta mi chiedo se si sia appreso niente sulla conservazione, o se le grandi ONG siano per sempre destinate a seguire un sentiero circolare, ripetendo senza fine i loro errori. Piuttosto che contribuire all’alienazione e al disincanto che la mentalità commerciale nutre, dovrebbero aiutare ad arricchire la nostra relazione con il mondo vivente.
Il programma del capitale naturale è l’espressione definitiva del nostro distacco dal mondo vivente. Prima perdiamo la nostra fauna selvatica e le meraviglie naturali. Poi perdiamo la connessione con quanto rimane della vita sulla terra. Poi perdiamo le parole che descrivono ciò che un tempo conoscevamo. Poi lo chiamiamo capitale e gli diamo un prezzo. Questo approccio è eticamente sbagliato, intellettualmente vacuo, emotivamente alienante e autolesionista.
Quelli di noi che sono motivati dall’amore per il pianeta vivente non dovrebbero esitare a dirlo. Mai sottostimare il potere dei valori intrinseci. Essi ispirano ogni lotta per un mondo migliore.
[1] Aree di particolare importanza per la biodiversità, identificate a livello locale sulla base di criteri e indagini scientifici [n.d.t.]
[2] Riferimento al film “Laputa – il castello nel cielo”, del grande Hayao Mihazaki.
[3] Citazione da un articolo scritto da Helm in risposta ad un altro, ancora precedente, di Monbiot sullo stesso tema – anche questi meritano di essere portati all’attenzione dei lettori italiani. Per il momento, si rimandano gli interessati agli originali.
Il primo articolo di Monbiot:
https://www.theguardian.com/commentisfree/2014/apr/22/price-natural-world-agenda-ignores-destroys
La risposta di Helm, pedissequo richiamo alla definizione neoclassica della ‘scienza’ economica:
[n.d.t.]
[4] Cioè, che riguardano l’essenza stessa del soggetto (intrinsic) oppure no (extrinsic). Il soggetto, qui, è la natura, considerata in sé e per sé, oppure per il suo valore economico [n.d.t.].
[5] Si può leggere qui la (deludente) risposta di Juniper e alcuni altri interventi che mostrano la vivacità del dibattito:
https://www.theguardian.com/environment/2018/may/18/will-putting-a-price-on-nature-devalue-its-worth
Gioverebbe all’Italia mutuare dal Regno Unito, anziché l’approccio utilitarista al governo della società e della natura, l’abitudine ad affrontare in maniera esplicita e aperta le questioni controverse. Si vedano in proposito anche:
http://sbilanciamoci.info/price-less-i-concetti-di-natura-e-capitale/
FINANZA BANCHE ASSICURAZIONI
Rothschild Bank è sotto inchiesta penale dopo che il barone David De Rothschild è stato messo sotto accusa
Matt Agorist
thefreethoughtproject
L’anno scorso, il barone David de Rothschild è stato incriminato dal governo francese accusato di frode, avrebbe sottratto ingenti somme di denaro ai pensionati britannici.
Ci sono voluti molti anni per portare in tribunale il caso contro Rothschild e la sua società di servizi finanziari del Gruppo Rothschild, che ha intrappolato centinaia di pensionati in un regime di prestito fasullo tra gli anni 2005 e 2008.
Uno per uno i pensionati hanno perso i loro soldi e sporto denuncia contro il noto banchiere, è l’inizio di un caso che potrebbe richiedere molti anni per ottenere anche un atto d’accusa.
Nel mese di giugno, il giudice di collegamento con sede a Parigi Javier Gómez Bermúdez ha stabilito che Rothschild deve affrontare un processo per i suoi crimini, e ha ordinato alla polizia locale di cercarlo nei suoi vari palazzi che sono sparsi in tutto il paese.
“E’ un buon passo nella giusta direzione. I tribunali sono ormai d’accordo con noi che ci sono prove sufficienti per interrogare il Barone Rothschild. La prima cosa che si dovrà fare è trovarlo. Una volta fatto questo passiamo iniziare a interrogarlo. Si tratta di un vero e proprio momento di svolta per tutti i soggetti coinvolti, ” ha detto a Olive Press dopo la sentenza l’avvocato Antonio Flores del Lawbird .
“In breve, indipendentemente da quello che è successo agli investimenti, Rothschild ha pubblicizzato un prestito al fine di ridurre la tassa di successione, che è una violazione del diritto fiscale”, ha poi aggiunto.
Mentre la notizia che un Rothschild è stato incriminato e certamente degno di nota, un annuncio particolarmente importante è stato fatto questo Venerdì.
Il governo francese ha annunciato di aver avviato un’indagine su tutta la filiale svizzera della impero bancario del Rothschild.
Secondo Bloomberg,
Il gruppo svizzero di Edmond de Rothschild ha comunicato che è oggetto di una indagine francese per quanto riguarda una relazione d’affari gestito da un ex dipendente.
“Edmond de Rothschild (Suisse) SA partecipa attivamente con l’inchiesta penale in corso”, ha detto la banca con sede a Ginevra in una dichiarazione via e-mail di venerdì. “La banca nega tutte le accuse che le sono state attribuite.”
Edmond de Rothschild, una società bancaria e di gestione patrimoniale privata fondata a Parigi nel 1953, sovrintende a circa 150 miliardi di euro ($ 164 miliardi) ed è guidato oggi dal Barone Benjamin de Rothschild e sua moglie Ariane. L’unità svizzera affonda le sue radici nella acquisizione della Banque Privee di Ginevra nel 1965.
La società non ha dato ulteriori commenti finora, secondo quanto detto nella dichiarazione. I funzionari a Ginevra non hanno dato la loro disponibilità a una chiamata telefonica venerdì da Bloomberg News.
L’impero Rothschild è stato determinante per spostare la ricchezza della élite globale da paradisi fiscali tradizionali come le Bahamas, Svizzera e Isole Vergini britanniche verso gli Stati Uniti
Lo scorso mese, il Free Thought Project ha riferito in merito alla legge sul paradiso fiscale stabilito negli Stati Uniti dai Rothschild.
Dopo aver aperto una società fiduciaria a Reno, Nevada., Rothschild & Co. hanno iniziato usando le massicce fortune della maggior parte di soggetti ricchi del mondo fuori paradisi fiscali tipici, e nella Rothschild corrono fondi comuni degli Stati Uniti, che sono esenti dagli obblighi di segnalazione internazionali.
La dinastia dei banchieri Rothschild è una linea di famiglia che è stata accusata di tirare le fila politiche di molti diversi governi attraverso il controllo dei vari sistemi economici in tutto il mondo.
Storicamente, ci sono ampie prove per dimostrare che la famiglia ha utilizzato insider trading per truffare soldi da entrambi i fondi sia pubblici che privati.
Durante la battaglia di Waterloo nelle guerre napoleoniche, Nathan Rothschild era responsabile di uno dei più antichi casi di “insider trading“, che hanno portato alla famiglia Rothschild truffando un’intera nazione cieca. Nel 1815 quando ha avuto luogo la battaglia di Waterloo , non cerano mezzi di comunicazione veloci, come abbiamo oggi, così sono stati utilizzati messaggeri per la comunicazione in tempo di guerra. I Rothschild hanno approfittato di questo avendo spie in prima linea nella battaglia che avrebbero riportato informazioni alla famiglia più velocemente di quanto facevano i messaggeri utilizzati dai militari.
Quando gli inglesi hanno vinto la guerra, Nathan Rothschild, era ovviamente il primo a saperlo, è andato subito alla borsa e ha iniziato a vendere le scorte mettendo in giro la voce che i francesi avevano vinto la guerra. Questo ha creato il panico alla borsa e gli investitori in tutta l’Inghilterra hanno iniziato a vendere freneticamente le loro scorte. Con il prezzo crollato di tutti gli stock i Rothschild sono stati in grado di acquistare l’intero mercato inglese per una frazione del suo costo. Quando il passaparola diffuse che gli inglesi erano effettivamente i vincitori, il valore del mercato è risalito, e durante la notte Nathan Rothschild ha espanso la ricchezza della sua famiglia, e ha cementato la loro posizione come una delle famiglie più ricche del mondo.
Matt Agorist è un veterano congedato con onore del USMC ed ex operatore di intelligence direttamente incaricato dalla NSA. Questa prima esperienza gli fornisce una visione unica nel mondo della corruzione del governo e lo stato di polizia americano. Agorist è un giornalista indipendente da oltre un decennio ed è stato descritto sulle reti tradizionali di tutto il mondo.
http://sadefenza.blogspot.com/2016/03/rothschild-bank-e-sotto-inchiesta.html
A Bruxelles si parla del nulla ma esiste un’agenda parallela: perché sui mercati già scavano trincee
Di Mauro Bottarelli , il 28 giugno 2018
Cosa decideranno al Consiglio UE in corso a Bruxelles? Francamente, non mi importa. Sarà la solita pagliacciata e, alla fine, se si vorrà evitare ondate sgradite (a tutti) di migrazioni, toccherà pagare. I libici, la Turchia, il Niger. Salcazzo chi altro ma è l’unica via. Perché se anche l’Italia terrà duro con la linea dei porti chiusi, se Tripoli o Tobruk non fanno qualcosa, ci ritroveremo con il Mediterraneo ridotto a una zuppa di bagnarole cariche di persone. E al primo incidente, al primo ferito, al primo morto, addio linea dura. E’ inutile che ci prendiamo per il culo, sappiamo tutti che è così. Quindi decidano un po’ il cazzo che vogliono. Tanto, le uniche due cose davvero importanti su cui si è presa una decisione, le si è sapute prima ancora che tutti i leader arrivassero nella capitale belga. Ovvero, Budget europeo uscito dal programma del Consiglio e utilizzo dell’ESM per finanziare il fondo di risoluzione bancario.
Quindi, tradotto: le cose importanti le decideranno i soliti direttori privati e gli accordi di potere bilaterali e, soprattutto, sta arrivando un’ondata di merda destinata a sommergerci peggio che nel 2008. Quindi, meglio parare il culo alle banche. Ovviamente, non a tutte. Ormai è corsa contro il tempo e, come vi dicevo, qui rischiamo doppio in vista della fine del QE, ammesso e non concesso che mai avvenga, almeno nei termini prospettati da Mario Draghi a Riga. Primo, le banche – come certificato dalla BRI – sono stracariche di merda nei bilanci, assortimento che va dai titoli di Stato a rischio a un vaghissimo utilizzo del leverage che potrebbe risultare fatale, il tutto a fronte di una riattivazione del meccanismo di credito verso l’economia reale praticamente a zero.
I grafici ci mostrano che la dinamica è destinata a peggiorare, proprio facendo riferimento al comparto corporate europeo e alla fine di quella pacchia chiamata CSPP, ovvero l’ampliamento della platea di bond eligibili all’acquisto da parte della BCE anche al ramo aziendale, di fatto un bypassaggio del finanziamento per via tradizionale, ovvero bancario. Qual è il problema? Il solito, cioè che dal dito si è passati al braccio e poi alle gambe. Ed ecco che hanno emesso cani e porci a badilate, tanto che oggi ci ritroviamo con circa 800 miliardi di bond con rating BBB non finanziari a fronte di un mercato dell’alto rendimento europeo con un controvalore di 285 miliardi. Due volte e mezzo, una ratio che non si vedeva dal 2008. Bell’annata, se ricordate. E perché tutto questo?
Semplice, con la BCE che ha reso i costi delle emissioni obbligazionarie alla portata di tutti, ecco che proprio tutti si sono messi a emettere come pazzi, unendosi alla grande festa del mark-to-salcazzo. Il problema, ora, è un po’ più che potenziale e ipotetico: perché in tempi di mercato europeo dell’high yield che comincia a contrarsi, ci troviamo con un esercito di potenziali “fallen angels”, ovvero bond sulla soglia dell’alto rendimento, che potrebbero causare un grosso mal di stomaco da congestione al mercato, sufficiente a procurare un bel blocco intestinale. Il tutto, senza più gli acquisti onnivori e senza rating della BCE. Capito perché, al netto dei guai borsistici di giganti come Deutsche Bank o del portafoglio titoli di Stato delle banche francesi, si è ben pensato di utilizzare l’ESM come backstop per il sistema bancario?
Ma non pensiate che sia solo questione europea. Anzi. I grafici ci mostrano come, udite udite, nel loro ultimo studio addirittura quei rincoglioniti senza redenzione dell’FMI si siano resi conto che a livello globale c’è un vaghissimo problema legato al debito ad alto rendimento, addirittura arrivando a conclusioni da candidatura al Nobel per l’economia come questa: “Più alto il livello del debito ad alto rendimento, più alto il rischio finanziario”. Non so voi ma io sono commosso: di fronte a tanta geniale arguzia, a tanta capacità di leggere con anticipo le dinamiche, non si può che levarsi il cappello. Per chiedere l’elemosina, perché a occhio e croce il rischio è di finire così. Ovviamente, sul medio termine. Forse anche sul lungo, perché non scordiamoci mai l’arma segreta delle Banche centrali: calciare in avanti il barattolo, sperando in un miracolo. O una guerra, ipotesi più probabile. E, soprattutto, ottenibile a tavolino. Nel frattempo, godiamoci il capolavoro degli antesignani di ogni mark-to-salcazzo globale, eccolo: a furia di acquistare ETF, infatti, la Bank of Japan oggi è uno dei primi dieci azionisti di oltre il 40% delle aziende giapponesi quotate, per l’esattezza di 1.446 su 3.735, stando a dati Nikkei al 31 marzo. E non basta, perché come vedete, la stessa istituzione monetaria di Tokyo detiene anche il 42% di tutti i bond sovrani del Giappone! In un mondo così, chi ha bisogno di un bravo trader? Basta non andare contrarian alla Banca centrale e il miracolo centralista-statalista dei mercati sempre in rialzo per legge diviene realtà, la “price discovery” è una pratica del passato come la caccia con arco e frecce! Unicorni per tutti, non c’è rischio di farsi male!
E, in effetti, ad oggi nessuno è così stronzo da andare a vedere il bluff di un player che da solo muove mezzo mercato, il problema si porrà quando le promesse di tapering – sia della FED che della BCE – dovranno diventare realtà, ovvero quando Mario Draghi sarà costretto a passare dagli annunci ai fatti e, soprattutto, quando la Banca centrale USA smetterà di poter contare sull’impulso creditizio cinese e comincerà a fare i conti con la realtà. Già, perché al netto di metà delle Borse emergenti in “bear market” e l’altra metà in correzione, la rogna maggiore arriva proprio dalla Cina, quantomeno come segnale. Primo, questo: https://www.zerohedge.com/…/leaked-note-chinese-think-tank-… // WeAreTheNewMedia.com
ovvero il fatto che in un Paese dove non filtra nemmeno una scoreggia se il governo non vuole, casualmente salta fuori un documento riservato che dice chiaro e tondo come stiano per partire cazzi finanziari della magnitudo di uno tsunami, ovviamente legati all’indebitamento da schema Ponzi che caratterizza il paradiso del capitalismo centralizzato (anche se, avanti di questo passo, il Giappone è destinato a spodestare Pechino senza pietà dal gradino più alto del podio). Bruttissimo segno. Secondo, il fatto che il governo cinese sarebbe intenzionato ad arrivare addirittura a un bando sulle vendite di bond denominati in dollari con durata inferiore a un anno.
Il perché è presto detto ed è legato al comparto più strategico ma anche sistemico e delicato dello schema Ponzi cinese, quello immobiliare. Grazie al dollaro relativamente debole e stabile degli scorsi anni, infatti, i costruttori cinesi si sono indebitati come cani malati in dollari, peccato che oggi il rafforzamento della divisa USA determinato dalla politica della FED e il contemporaneo indebolimento dello yuan anche per l’attività di svalutazione della Banca centrale cinese (PBOC) stanno facendo lievitare il carico debitorio di quei soggetti verso livelli insostenibili, ovvero innescando il rischio di una catena di default.
come mostra questo grafico,
i costruttori cinesi hanno venduto qualcosa come oltre 10 miliardi di dollari di notes con maturazione inferiore a un anno. Di fatto, se passerà la draconiana riforma governativa, moltissimi soggetti del comparto vedranno sparire la principale fonte di rifinanziamento e si ritroveranno impossibilitati al roll-over: come impatterà tutto questo sul mercato azionario (6,8 trilioni di market cap), con Shanghai già a -22,8% da inizio anno? Pechino sta “stimolando” un deleverage tale da permetterle di lanciare il suo QE ufficiale, quello alluvionale sulla cui prospettiva stanno sperando tutte le altre Banche centrali? Di fatto, è questo il miracolo che si attende, mentre si calcia avanti il barattolo, in Europa come negli USA come in Giappone? Se è così, auguroni. In compenso, vedrete che supereremo il Trattato di Dublino. Ne sono certo.
L’Italia è in una tempesta perfetta sui mercati, complice l’instabilità politica. Urge fissare nuove regole per la finanza.
Andrea Baranes – 13 giugno 2018
Lo spread – Lo spread è la differenza tra il rendimento dei Btp a 10 anni e quello degli analoghi titoli tedeschi. In pratica misura quanto l’Italia sia considerata a rischio. La Germania è presa a riferimento perché ultrasicura. Se i mercati pensano che l’Italia sia solida e possa ripagare il proprio debito senza problemi, il governo potrà offrire un basso tasso di interesse. Se al contrario siamo percepiti come rischiosi e inaffidabili, il rendimento sui titoli, ovvero lo spread, salirà.
A differenza di quanto potrebbe sembrare leggendo i titoli allarmistici sui media, un aumento dello spread non implica un rischio immediato per lo Stato o un brusco peggioramento dei conti pubblici. Bot o Btp hanno una durata (mesi o anni rispettivamente). Quando stanno per scadere, se il debito pubblico non cala il governo deve emettere titoli nuovi per sostituire quelli in scadenza. Se lo spread è alto, questi nuovi titoli avranno un rendimento maggiore, ovvero solo su quelli lo Stato dovrà pagare interessi più alti. Progressivamente più soldi pubblici vanno quindi a pagare gli interessi sul debito e peggiorano i nostri conti, ma l’impatto di uno spread alto o basso si manifesta su periodi medio-lunghi.
Impatti su banche e imprese – Gli impatti a breve si hanno per le banche. Se sale lo spread e lo Stato deve emettere titoli con un alto rendimento, quelli analoghi e già in circolo perdono di valore. Per semplificare, se domani arrivano BTP che rendono il 5%, quelli che ho acquistato l’anno scorso e che rendevano solo il 2% valgono meno. Ancora prima il valore cala, e bruscamente, se con l’aumento dello spread circolano voci di un possibile default. Può essere un problema per i risparmiatori, ma lo è prima di tutto per le nostre banche. Queste, anche se negli ultimi tempi hanno progressivamente ridotto l’esposizione, hanno comunque a bilancio centinaia di miliardi in titoli di Stato.
Un peggioramento dei conti per un sistema bancario già fragile rischia di riversarsi sulle imprese che ricevono meno finanziamenti e a costi più alti. Per le imprese i problemi sono anche altri: se sale lo spread e quindi circolano titoli che danno elevati rendimenti, le imprese che si finanziano tramite emissione di obbligazioni dovranno fronteggiare la concorrenza di tali titoli, il che si traduce in maggiori costi e difficoltà. Questo senza considerare che voci di un possibile default impattano il “sistema Paese” e quindi a cascata non solo lo Stato ma anche le imprese nostrane.
Siamo in crisi? – La situazione quindi è così preoccupante? A guardare i fondamentali no. Siamo in un contesto molto diverso da quello dell’ultima impennata dello spread, nel 2011. Erano gli anni successivi alla bolla dei subprime e alla conseguente crisi finanziaria internazionale, in un momento di fortissima recessione e con prospettive a dire poco nere all’orizzonte. Oggi l’Italia è in relativa ripresa, in particolare riguardo PIL ed economia. Sembra difficile giustificare l’allarmismo di questi giorni. Difficile se si guarda ai soli fondamentali dell’economia, meno analizzando il funzionamento dei mercati e degli elementi su cui basano il loro insindacabile giudizio.
Probabilmente la prima regola dell’economia è quella della domanda e dell’offerta. Se tutti vogliono qualcosa il prezzo sale, se nessuno la vuole il prezzo scende. O meglio, cosi dovrebbe funzionare. Perché con il dominio della finanza sull’economia e della speculazione sulla finanza, sempre più spesso sono le aspettative o peggio ancora le voci di aumento o diminuzione di domanda e offerta a guidare i prezzi. Se in giro si dice che un’impresa – o uno Stato – potrebbe avere dei problemi, tutti vorranno venderne i titoli. I mercati cercano di anticipare i fondamentali dell’economia, e fin qui tutto bene. Ma se sulla base delle aspettative e delle voci di peggioramento tutti vendono, per la legge della domanda e dell’offerta il prezzo crolla. Se crolla il valore dei titoli e nessuno si fida più, i problemi iniziano davvero. Le aspettative si auto-realizzano e la profezia si auto-avvera.
La speculazione e l’instabilità – La speculazione si nutre di queste aspettative e soprattutto dell’instabilità dei prezzi. Nessuno specula sui titoli tedeschi perché il loro valore è praticamente immutabile, non posso estrarre profitti aspettandomi di comprarli a poco e venderli a tanto grazie a oscillazioni sui mercati. Se però l’Italia è in una fase di instabilità, ecco che la cosa si fa interessante. Li posso comprare a un certo prezzo e sperare di rivenderli a uno molto diverso entro pochi giorni, realizzando così un ampio margine di profitto. Sui mercati è oggi possibile scommettere tanto sul rialzo quanto sul ribasso di un titolo. Il problema è che se in molti si lanciano a scommettere sul valore di un dato titolo, l’enorme afflusso di capitali genera volatilità. Questa volatilità, ovvero la possibilità che il prezzo vari molto in poco tempo, è proprio quello che attira altri speculatori, il che aumenta l’instabilità, nuovamente in una spirale che si auto-alimenta.
Attenzione, qui non stiamo solamente dicendo che sono le aspettative sul futuro a guidare i prezzi, ovvero che i mercati anticipano l’andamento dell’economia. Il problema centrale è che sono proprio gli speculatori a generare o per lo meno ad amplificare le oscillazioni e la volatilità che consente agli stessi speculatori di realizzare profitti.
Lupi e greggi – Ma possono pochi scommettitori influenzare in questo modo l’andamento dei mercati, in particolare per una delle maggiori economie del pianeta come l’Italia? La risposta, almeno in parte è si, perché contemporaneamente entrano in gioco altri meccanismi. Il primo è l’effetto gregge. E’ noto che una regola fondamentale del commercio (e della finanza) è compra a poco e vendi a tanto. Purtroppo i piccoli risparmiatori solitamente si comportano all’esatto opposto. Quando un titolo è sulla bocca di tutti e il prezzo è altissimo perché tutti lo vogliono, ecco che buoni ultimi arrivano i piccoli risparmiatori. In maniera speculare, è facile che in situazioni di difficoltà si scateni il panico sui mercati con una corsa a vendere, provocando un crollo ulteriore.
È in questo modo che si creano e poi scoppiano le bolle finanziarie, e che spesso piccole oscillazioni si trasformano in inarrestabili valanghe. Chi è in posizione di forza compra per primo (a prezzi bassi) e vende per primo (ai massimi). I piccoli risparmiatori arrivano per ultimi, comprando ai massimi, e solitamente rimangono con il cerino in mano quando arrivano i disastri.
Nel merito, se l’Italia è in una fase di instabilità sale lo spread; questo alimenta timori di futuro peggioramento dei conti pubblici; alcuni investitori venderanno i titoli italiani; aumenta l’offerta e cala la domanda di titoli; per lo Stato italiano è più difficile piazzarli; deve aumentare l’interesse offerto; ovvero sale lo spread; il che alimenta i timori… E via con l’ennesima spirale che si avvita su sé stessa.
Che voto mi hanno messo? – Una delle preoccupazioni principali viene però da un’altra parte. È vero, come accennato in precedenza, che l’aumento dello spread non implica un peggioramento immediato dei conti pubblici. Però l’Italia può essere giudicata meno affidabile o più rischiosa non solo dai mercati, ma prima ancora dalle agenzie di rating. Parliamo delle agenzie (di fatto un oligopolio in cui quattro aziende si contendono quasi tutto il mercato) che “danno un voto” agli Stati, alle imprese e ai loro prodotti finanziari. Una tripla A segnala il massimo dell’affidabilità, poi progressivamente si scende con vari “+” e “-” verso le B o ancora più giù. Il voto riflette la rischiosità dell’emittente, e quindi si traduce nel rendimento che questo dovrà offrire agli investitori. Ovviamente, tra due titoli che danno lo stesso rendimento tutti sceglierebbero quello dell’emittente con il voto più alto, o in altri termini, più basso è il voto maggiore è l’interesse che devo offrire per finanziarmi.
Per l’Italia in particolare i problemi non sono unicamente il maggiore o minore tasso di interesse. Siamo solo un paio di gradini sopra il voto spesso indicato come investimento “junk” ovvero speculativo (o letteralmente “spazzatura”). Se le agenzie di rating ci assegnassero al livello “junk”, la Banca Centrale Europea non comprerebbe più i nostri titoli di Stato. In questi anni lo spread si è mantenuto basso anche perché la BCE, con il quantitative easing, ha acquistato titoli italiani, alimentando la domanda e quindi portando a una riduzione di interessi. Se questo acquisto si interrompesse di colpo, per l’Italia sarebbero problemi.
Ancora, il voto delle agenzie di rating è centrale per gli algoritmi che regolano le strategie di innumerevoli investitori. I fondi pensione devono tutelare i risparmi dei lavoratori, e per regolamento non possono investire in strumenti eccessivamente rischiosi. La maggior parte di loro non può comprare titoli di Stato al di sotto di un voto minimo. Se per l’Italia il giudizio delle agenzie di rating peggiorasse ancora, i programmi nei computer dei gestori di tutto il mondo darebbero indicazione di vendere. Crollo immediato della domanda, con tutte le conseguenze immaginabili. È tramite simili meccanismi che, anche se lo spread non implica un peggioramento immediato dei nostri conti pubblici, di fatto siamo sotto il pesante ricatto dei mercati.
In questo quadro appare a dire poco preoccupante la decisione di Moody’s di dichiarare lo scorso 25 maggio che l’Italia era sotto osservazione per un possibile declassamento, con una procedura al di fuori del normale percorso di aggiornamento del voto dato agli Stati. Il giorno cruciale in cui si decideva il nominativo di un possibile premier e la formazione di un governo, una delle principali agenzie di rating pensava bene di mandare questo messaggio a mercati e investitori.
La tempesta perfetta? – Quanto scritto si interseca con altri elementi ancora. Un’incertezza sulle future decisioni della BCE, soprattutto con l’uscita di scena di Draghi tra pochi mesi e il possibile arrivo di un “falco” alla guida delle politiche monetarie europee. Ancora a monte, la crisi italiana si inserisce in un quadro non proprio ottimista sul futuro: sono sempre di più gli analisti che segnalano il possibile scoppio di una nuova crisi, o comunque di un brusco riallineamento dei corsi dei mercati finanziari. Con il moltiplicarsi di tali notizie, molti investitori potrebbero avere iniziato, in silenzio, il cosiddetto “flight to safety”, ovvero a spostare i propri investimenti verso titoli più sicuri, vendendo quelli che in una situazione di difficoltà dei mercati potrebbero oscillare di più. In questo momento, in prima fila ci sono ovviamente i nostri titoli di Stato.
In tutto questo discorso ovviamente ha un peso, e un peso decisamente rilevante, la situazione politica. La crisi istituzionale, i dubbi – che siano più o meno fondati – sulla volontà di un nuovo governo di uscire dall’euro, l’instabilità e la debolezza mostrate in questi giorni sono chiaramente alla base di quanto sta avvenendo. Su questo si incardinano però meccanismi squisitamente finanziari che incrementano le incertezze e le difficoltà iniziali, generando essi stessi instabilità. Più che i meccanismi in sé, colpisce osservare lo spropositato potere che i mercati finanziari hanno nel condizionare le scelte politiche e ancora prima come l’intera attenzione sia rivolta non alla crisi istituzionale in sé ma alle conseguenze che questa può avere in termini di spread e reazioni sui mercati.
Conclusioni: come uscirne? – Sarebbe possibile spezzare i meccanismi descritti fino a qui? La risposta per fortuna è positiva, anche se complessa. Nel breve dobbiamo togliere benzina al fuoco della speculazione, il che significa evitare che un passaggio politico si trasformi in una crisi istituzionale tanto lunga quanto conflittuale. E’ su questo che sembrano insistere tanto i politici quando i media, chiedendo stabilità e una soluzione rapida. Giusto, ma parliamo unicamente di come limitare gli effetti dello strapotere della finanza sulla politica, non di rimuoverne le cause.
Per non fermarci alla superficie, è necessario introdurre di regole diverse, tanto per la finanza privata quanto per quella pubblica. Parliamo di controlli sui movimenti di capitale, di ridiscutere alla base i meccanismi che regolano il debito pubblico (ne abbiamo parlato qui), di funzionamento del sistema bancario e più in generale di misure che riaffermino alla base il primato della politica sulla finanza.
Basta guardare l’incredibile discrepanza sui tempi – i mercati pretendono soluzioni politiche nel giro di pochissimi giorni e la democrazia non può permettersi di non ubbidire – per rendersi conto dell’urgenza e della profondità del lavoro da fare per ribaltare gli attuali rapporti di forza. La speranza è che almeno questa – ennesima – crisi possa servire per aprire uno spazio politico di riflessione. Purtroppo il desolante livello di un dibattito che si limita a “con noi o contro di noi” tra opposte fazioni appare lontanissimo da questo obiettivo, ed è questo probabilmente l’elemento più preoccupante dell’attuale situazione.
(31 maggio 2018) Link articolo: La democrazia dell’algoritmo
http://sbilanciamoci.info/la-democrazia-dellalgoritmo/
PANORAMA INTERNAZIONALE
SANCHEZ, CARICATURA DELLA “SINISTRA PER SOROS”
Maurizio Blondet 30 giugno 2018
La notizia è che il 27 giugno, il capo del governo spagnolo, il socialista Pedro Sanchez, ha incontrato il noto Georges Soros. Alla Moncloa, il palazzo del governo. In segreto, e tentando di negare l’incontro, dato che il portavoce del governo, ai giornalisti che chiedevano conferma, ha diramato di “non poter confermare con chi si vede il presidente se non è previsto dall’agenda ufficiale”. Sui motivi dell’incontro si fanno ipotesi.
http://ilsapereepotere2.blogspot.com/2018/06/il-primo-ministro-spagnolo-incontra-in.html
D’altra parte, anche quando Gentiloni, allora primo ministro in carica, ricevette Soros a palazzo Chigi il maggio 2017 come fosse un capo di Stato, non avemmo il diritto di sapere di più.
Del resto le somiglianze sono molte. Gentiloni non è stato mai letto da nessuno; Sanchez è a capo di un governo che gli spagnoli non hanno votato; è lui stesso salito al successo in votazioni interne al suo partito (il PSOE) vincendo contro la corrente che gli si oppone; quel che ha fatto è di organizzare in parlamento una maggioranza occasionale – 180 deputati – per votare la sfiducia al governo Rajoy, mentre il suo partito ne ha solo 84; ha preso il posto di Rajoy solo perché in Spagna esiste l’istituto della mozione costruttiva – bisogna indicare un primo ministro alternativo quando si sfiducia quello in carica. Una salita al potere strana e sospetta. “I social si agitano, parlano di un golpe mondialista in Spagna”, scrive Nicolas Bonnal, lo scrittore francese che abita a Barcellona.
Infatti tutta la carriera di Sanchez deve pochissimo agli elettori e molto ai circoli mondialisti. Comincia come portaborse al parlamento europeo di una eurodeputata socialista. Ma ben presto diventa braccio destro del rappresentante delle Nazioni Unite in Bosnia, Carlos Westendorp Cabeza (un ex ministro degli Esteri). Sono gli anni ’90, dello smantellamento della Yugoslavia. In cui Javier Solana, allora segretario della NATO e membro del PSOE, ordinava i bombardamenti sulla Yugoslavia; illegali nei termini della Nazioni Unite, ma poteva Westendorp, anche lui del PSOE, adombrarsi? Frattanto il suo giovane braccio destro Sanchez “consigliava imprese straniere” che si volevano impiantare “per lo sviluppo” della Bosnia. Un lavoro che permette a Sanchez di avviare collaborazioni proficue (per sé) con i dirigenti del Fondo Monetario e della Banca Mondiale. Il risultato fu quello previsto: i creditori internazionali dettarono la nuova costituzione della Bosnia, il debito jugoslavo diviso tra le repubbliche, accordi di “ristrutturazione del debito” e con “programmi di aggiustamento” e le misure di austerità, insomma l’armamentario della ricolonizzazione, Sanchez è uno di quei socialisti che aderiscono a quel programma ben noto ed applicato da noi dai governi “di sinistra”-.
Infatti Sanchez si è subito schierato con la Germania contro il governo italiano sulla questione dei migranti; ha dichiarato subito che accetterà di riprendersi i migranti secondari; si fa benvolere dalla Merkel (del resto lei gli ha promesso i soldi per tutti i campi chiusi, paga bene i suoi servi fedeli che le hanno salvato il governo) , aspira a diventare il primo della classe nell’europeismo oligarchico. E’ la vocazione delle “”sinistre” anche da noi, no? Prime della classe nell’applicazione dei programmi di austerità, pareggi di bilanci, tagli, accoglienza, jus soli…
Ma nessuno dica che Sanchez ha dimenticato di essere di sinistra. Lo sta provando. Con un governo di minoranza assoluta, retto da 82 deputato su 355,che dipende dagli indipendentisti baschi e català, che cosa ritiene urgente e necessario fare, Sanchez? Una legge sull’eutanasia, che per di più neghi ai medici il diritto all’obiezione di coscienza, il suicidio assistito dei vecchi malati per sedazione totale. Seconda urgenza: togliere i resti di Francisco Franco dalla Valle del los Caidos, il grande santuario dove sono i morti della guerra civile delle due parti; e l’asportazione della grande croce che orna la Valle, perché il tutto “sia convertito in un monumento di lotta contro il fascismo”. Insomma un pericoloso fanatico, che si vuol prendere antiche vendette “repubblicane” della sconfitta del 1939 – ma globalista ed europeista. Manca solo (vuole farlo) la confisca dei beni ecclesiastici, commenta Bonnal, ed è la caricatura rozza e dura del neo-sinistro ormai perfezionato: insieme servo della finanza multinazionale, LGBT come una Cirinnà al cubo, austeritario come un Padoan, pendente dalle labbra di Soros come un Gentiloni, ma per di più con una malvagità da reduce comunista della Guerra Civil, pronto a fucilare suore che non esistono più, e a praticare un anticlericalismo feroce senza più Chiesa (i vescovi spagnoli infatti sull’eutanasia senza diritto all’obbiezione di coscienza non hanno alzato nemmeno un sospiro: veri seguaci di Bergoglio, firmando la propria inesistenza, e subiranno la persecuzione imminente).
Insomma, la sinistra in Europa è Soros. Ed anche gli spagnoli sono sotto golpe globalista, come noi sotto Monti. Reagiranno? Bonnal cita lo storico americano Stanley Payne, che è stato il maggior storico delle poca franchista: “Lo spagnolo medio si è convertito in un essere anestetizzato privo di ambizioni trascendentali”. Frase che possiamo applicare anche a noi italiani. E ai francesi. E ai tedeschi.
https://www.maurizioblondet.it/sanchez-caricatura-della-sinistra-per-soros/
Quegli invasati assurdi populisti che cercano la pace
3 luglio 2018 DI ROSANNA SPADINI
comedonchisciotte.org
Come mai persone di sinistra abbiano cominciato da alcuni anni a votare M5S o Lega non è difficile capirlo, anzi chi voleva capire lo ha fatto diversi anni fa. La questione migranti e la chiusura dei porti italiani alle ONG lo dimostra ampiamente.
Provate a chiedere agli USA se per caso i servizi segreti francesi e tedeschi abbiano provato a destabilizzare il governo italiano.
Il consigliere per la Sicurezza nazionale americano a Roma ha visto i vertici del governo italiano con cui ha condiviso la linea sull’avvicinamento alla Russia e sulla partnership Italia/Usa
Dietro le ONG che traghettavano i migranti sembra ci fossero proprio Francia e Germania, e gli USA ne avrebbero le prove.
Inoltre, Trump a fine giugno ha inviato a Roma John Bolton, il suo duro consigliere alla sicurezza nazionale, il quale dopo aver fatto tappa a Roma per incontrare i vertici del governo italiano e Salvini è volato a Mosca per preparare il vertice del 16 luglio tra Putin e Trump.
La visita romana conferma l’importanza che Washington dà al ruolo italiano nei contatti con la Russia (con la presidenza di turno dell’Osce affidata all’Italia potrebbe fare da cornice ai talks tra i due super-leader). Trump ha definito l’Italia un «paese leader» dell’Alleanza Atlantica in una lettera inviata alla presidenza del Consiglio.
Poi il refrain è stato ripetuto da Salvini: «le navi straniere finanziate in maniera occulta da potenze straniere in Italia non toccheranno più terra». Quindi l’odio di Macron per l’Italia si spiegherebbe anche con il legame di stretta collaborazione che la Casa Bianca intende stringere con il governo giallo/verde.
Probabilmente Bolton a Roma ha portato informazioni sul ruolo dei servizi segreti, soprattutto di quelli francesi, che oltre a organizzare le provocazioni delle ONG, rappresentano il background del governo fantoccio del generale Khalifa Haftar di Tobruk, che si oppone al governo di Tripoli di Fayez El Serraj, riconosciuto dall’Onu, vicino all’Italia. Haftar invece è appoggiato dalla Francia. Bolton sembra aver confidato ai vertici del governo che i droni americani di base a Sigonella sostengono la nostra presenza in Libia con quotidiane missioni armate contro gli avversari delle milizie di Misurata.
Intanto il cosiddetto «fallimento diplomatico» di Conte al vertice UE sulla mancata gestione dei migranti sembra aver avuto un impatto devastante per zia Angie, dato che perfino i corrispondenti della ARD (Rai 1 tedesca) hanno chiesto le sue dimissioni.
Tutto il mondo occidentale appare investito da una violenta virata a destra, spinto dal vento inaugurato dalle politiche populiste, che in realtà identificano le forze nazionaliste sovraniste che negli ultimi tempi stanno sostenendo la loro battaglia contro la globalizzazione degli oligarchi mondialisti.
Del tutto malvisto anche il prossimo incontro organizzato tra i presidenti Trump e Putin il 16 luglio a Helsinki, osteggiato del resto da molti settori del mondo occidentale, e in particolare dal comparto militare-industriale, la cabala degli oligarchi statunitensi ed europei, profittatori della guerra infinita.
Pace nel mondo, Siria, Ucraina e presunte interferenze nelle elezioni americane. Sarà un incontro a 360 gradi sui temi caldi del momento quello in Finlandia.
Il Daily Mail afferma che «I timori crescono sul fatto che Donald Trump voglia un accordo di pace con Vladimir Putin che potrebbe minare fatalmente la NATO. I ministri stanno diventando sempre più allarmati per il fatto che il presidente degli Stati Uniti potrebbe offrire al presidente russo profonde concessioni come il ritiro delle forze dall’Europa».
Probabilmente sarebbe una vera pace, perché ciò che la Russia sembra volere sono relazioni amichevoli e commercio con gli USA, UE, Cina e tutti i paesi che vogliano commerciare (compresi a sorpresa gli Stati baltici).
Il ministro della Difesa dell’Estonia Jüri Luik ha incontrato il segretario alla Difesa statunitense James N. Mattis
Però il Deep State non dorme, dato che il segretario alla difesa James Mattis avrebbe detto al ministro della difesa dell’Estonia che «la Russia sta cercando di cambiare i confini internazionali con la forza» e alle riunioni di maggio con il presidente lituano e i ministri della difesa del Baltico «avrebbe rassicurato gli alleati degli Stati baltici che la solidarietà americana è con loro e che la determinazione degli Stati Uniti vuole difendere il Baltico e altri territori della NATO contro ogni aggressione».
L’idea che la Russia voglia invadere Estonia, Lettonia o Lituania sembra probabilmente una fake paradossale, e Putin non è certo così incauto da non rendersi conto che un’azione del genere comporterebbe inevitabilmente un conflitto più ampio.
Inoltre sarebbe notevolmente imbarazzante per i media occidentali dare risalto alla indiscutibile affermazione del Rapporto mondiale 2018 della SIPRI di Stoccolma che «Nel 2017 gli Stati Uniti spendono di più in campo militare [610 miliardi di dollari] rispetto ai successivi sette paesi alleati a più alta spesa… a 66,3 miliardi di dollari, le spese militari della Russia nel 2017 erano del 20% inferiori rispetto al 2016».
Il segretario generale della NATO Jens Stoltenberg
La Russia sta riducendo le spese per la difesa mentre l’alleanza militare USA-NATO, come rilevato da Radio Free Europe, ha concordato il 7 giugno di «rafforzare la presenza della NATO in una potenziale crisi europea con lo schieramento di 30 battaglioni di truppe, 30 squadroni di aerei e 30 navi da guerra entro 30 giorni – il cosiddetto piano ‘Four 30s’». Questo quanto ha sostenuto il segretario generale dell’alleanza militare USA-NATO, Jens Stoltenberg, e ne sembrava fermamente convinto.
Questo è l’uomo che ha dichiarato nel marzo 2018 che il comparto militare USA-NATO stava aumentando il numero di schieramenti conflittuali. Mostrandosi anche orgoglioso del fatto che alla fine del 2017 c’erano più di 23.000 soldati coinvolti nelle operazioni NATO, con un aumento di oltre 5.000 dal 2014. Non sembra essere il modo più singolare di lottare per un «migliore rapporto» con la Russia, i cui confini e le coste sono invece costantemente minacciati attacchi NATO e da aerei da guerra elettronica, navi equipaggiate con missili e manovre di truppe pesanti.
A giugno, immediatamente prima dell’inizio del torneo di calcio della Coppa del Mondo in Russia, l’alleanza USA-NATO (più Israele) ha condotto un’esercitazione militare di due settimane in Estonia, Lettonia, Lituania e Polonia.
Le truppe americane del 2 ° reggimento di cavalleria partecipano a esercitazioni militari nei pressi di Kaunas, in Lituania, 18.000 soldati hanno preso parte alle manovre che, secondo il quartier generale del Pentagono in Europa, non erano per nulla «una provocazione della Russia». Proprio nell’imminenza dei mondiali di calcio in Russia, il Pentagono e Bruxelles hanno fatto del loro meglio per creare tensione verso il paese il cui bilancio della difesa è un terzo rispetto a quello dell’Europa e un decimo degli Stati Uniti e il cui presidente ha dichiarato che la sua stragrande priorità è la riduzione della povertà e «il benessere della popolazione e la prosperità della Russia famiglie».
Più o meno nello stesso periodo in cui il senatore americano Ben Sasse si accorgesse che «Putin non è nostro amico e non è il compagno del presidente. È un delinquente che usa l’aggressione in stile sovietico per scatenare una guerra ombra contro l’America». Certo che con quel tipo di atteggiamento, diffuso al Congresso, sarà difficile realizzare il desiderio di Trump di «andare d’accordo con la Russia».
Insomma Trump è il presidente più imprevedibile che gli Stati Uniti abbiano mai conosciuto. Si muove con disinvoltura tra tweet malevoli e discorsi indisponenti, e sa destare reazioni scomposte, dal fanatismo feroce dei fans suprematisti, all’odio viscerale dei neocons guerrafondai. Non ha tutti i torti il ministro degli Esteri iraniano Mohammad Javad Zarif che è un presidente «impulsivo e illogico» ma al momento presenta le migliori possibilità di riavvicinamento e amicizia con la Russia. Il fatto che i guerrafondai di Washington si oppongano così violentemente ai suoi imminenti colloqui con il presidente Putin è una prova sufficiente che la strada è quella giusta, insieme all’accordo storico sul nucleare appena ottenuto con Kim Jong-un.
Nella società dello spettacolo in cui l’informazione è solo spettacolo, sarebbe giusto muoversi tra i fatti e le affermazioni dei big della politica, e in questo momento il gioco irragionevole, precipitoso, apparentemente illogico condotto da The Donald sembra tornarci comodo, per sostenere soprattutto le istanze del governo italiano nel riavvicinamento alla Russia e per mettere in crisi gli oligarchi del liberismo mondialista.
Che stia scoppiando la pace tra Russia e Usa??
https://comedonchisciotte.org/quegli-invasati-assurdi-populisti-che-cercano-la-pace/
POLITICA
2 luglio 2018 – DI MARCELLO VENEZIANI
marcelloveneziani.com
Lo psicodramma collettivo sulla fine della sinistra continua imperterrito da settimane, forse da mesi, sotto sotto da anni. C’è qualcosa di esagerato nel piangere e denunciare il collasso del Pd. Non successe la stessa cosa quando sparì il partito-paese, la Dc, dopo mezzo secolo ininterrotto di governo, di potere a ogni livello e di maggioranza. Tantomeno, figuriamoci, quando scomparve la destra con Fini. Ma la tragedia della sinistra tocca direttamente le fabbriche dell’opinione pubbliche, gli influencer, dalla Rai all’Istat, dai giornali agli intellettuali, perché alla fine i due mondi coincidono.
A volte ti sembra di vedere due tragedie umanitarie trasmesse in contemporanea: i barconi dei migranti che arrivano, i cartoni dei morenti – sindaci, ministri, governanti – che sloggiano. E le due tragedie, pur così diseguali, vengono collegate, perché intanto sorgono problemi di approdo per i migranti in quanto non ci sono più i demosinistri e i cattoumanitari al potere, rossi dentro e neri fuori, perché filo-migranti.
Sullo psicodramma si sono cimentati in tanti, e tanti hanno dato consigli alla sinistra per riprendersi il potere smettendo di essere sinistra. Consiglio doppiamente assurdo perché sottintende una considerazione inaccettabile: che la sinistra può rinunciare alle sue idee ma non al potere a cui per diritto divino è destinata.
Io non do consigli, constato solo il decesso. O meglio, il male incurabile, il declino irreversibile, lo scivolare verso posizioni di netta minoranza. E torno a dire: se evaporò in poco tempo la dc, riducendosi a pochi reduci, non vedo perché non possa sparire la sinistra e se ne debba fare una malattia. Tanto più che il declino è mondiale, come ben si vede, e a furor di popolo.
Faccio solo tre notazioni in margine.
La prima è che trovo grottesca la sfilata dei maestrini che hanno rimproverato alla sinistra di essersi allontanata dalla realtà, dal popolo, dai suoi disagi e dal suo sentire. E lo dicono mentre dappertutto loro stessi, i maestrini, i loro giornaloni, le loro tv, continuano a somministrare al Paese la stessa pappa che ha portato al disastro la sinistra: pro-migranti, prima loro poi gli italiani, pro-rom e pro-gay come se fossero temi di priorità epocale, antifascisti e antirazzisti. E via dicendo. Ma non avete capito che la sinistra è crollata proprio perché si è identificata col messaggio ossessivo che i suoi mass media, i suoi agenti, funzionari, ideologi propinano ogni giorno, disertando la realtà e i suoi disagi?
La seconda è che è inutile arrovellarsi su chi sarà il miracoloso resuscitatore della sinistra. Sfilano in tanti, Zingaretti (che aderisce fin nel cognome all’afflato di sinistra ma si dovrebbe ribattezzare Rometti per rispettare la cultura rom), Calenda, che è entrato tre mesi fa nel Pd e ora vuole già seppellirlo per collocarlo all’incrocio pigliatutto, più il coro delle prefiche piangenti della sinistra perduta o della cattosinistra, appena usciti disfatti dalle esperienze di governo. Sullo sfondo dal sarcofago di D’Alema si sentono risate sataniche.
Scherzi a parte, penso una cosa: la sinistra che verrà, non sarà radical chic, radical chec o proveniente dalla Ditta. Ma verrà, come è giusto e coerente, dal basso, da fuori e da lontano. Lasciate che mi esponga in un’ardita profezia: il prossimo leader della sinistra, come il suo popolo del resto, sarà un papa straniero. Sarà negro. Sarà venuto dai barconi o avrà trovato nei barconi il suo elettorato maggiore e la sua base militante. Sarà pop, e non snob. Che saranno poi i milioni di migranti che la sinistra, il papa, i mattarelli umanitari, avranno agevolato a far entrare nel paese e in Europa. Riprenderà, come è giusto, la bandiera del proletariato e farà la concorrenza ai grillini pauperisti. Non ha senso per la marea di migranti avere tutori che parlano in loro nome pur vivendo da agiatissimi borghesi, lontani dai sobborghi e dagli spazi pubblici affollati dai migranti. Lo faranno direttamente loro. La sinistra, una mattina si è svegliata e ha trovato l’invasor.
E allora, terzo punto, che destino avrà la sinistra residua in Italia e non solo? La sinistra, finché dominerà il populismo, continuerà ad essere quella che è stata, un centro di potere mediatico, culturale, bioetico, giudiziario; una fabbrica di influenze, codici e sentenze, una lobby trasversale che raggruppa al suo interno tante altre lobby che fanno setta, business o potere sui temi sensibili. Smetterà di essere un partito, perché è un’oligarchia capace di orientare le opinioni ma non di prevalere nel voto. Fino a che ci sarà democrazia, sovranità e libertà, la sinistra sarà minoritaria, perché avvertita non dalla parte del suo popolo ma fuori, sopra e contro di esso.
Renzi, a cui è stata attribuita una disfatta molto più grande e molto più radicale di lui, è un caso esemplare: ora si dà ai media, come già fece il suo precursore Veltroni. Va in tv perché, lo dicemmo dagli inizi, lui è un animatore. Sono piccoli esempi vistosi di un processo più grande: la sinistra proletaria e sudata la faranno i neri, magari islamici, la sinistra da passeggio e da salotto sarà nei poteri che non passano dal consenso popolare. Brutta ciao.
Marcello Veneziani
Fonte: www.marcelloveneziani.com
http://www.marcelloveneziani.com/articoli/il-capo-del-pd-sara-negro/
STORIA
A 50 anni dal ’68: il Vietnam tra mito e realtà
2 luglio 2018 DI ALESSANDRO GUARDAMAGNA
comedonchisciotte.org
Il 1968 fu l’annus mirabilis, l’anno delle rivoluzioni che segnarono l’avvento della “fantasia al potere”; l’anno che mise in crisi il sistema socio-politico uscito dalla Seconda Guerra Mondiale per lasciare spazio ad una società diversa, ad un modo più aperto di vedere i rapporti sociali e a un pensiero più libero. In altre parole il 1968 fu lo spartiacque culturale e politico del mondo nel secondo dopoguerra.
Ma siamo sicuri che il pensiero nato e manifestatosi nel 1968 sia stato così radicalmente libero e avverso al potere costituito? Emblematico è il caso della stampa, che dal ’68 si sarebbe trasformata da “cane da guardia” dei poteri forti a voce del popolo, al punto da diventare fattore determinante di scelte politiche. Esempio eclatante di tale trasformazione è la guerra in Vietnam, dove la stampa avrebbe – secondo una corrente di pensiero diffusasi proprio a partire da 1968 in poi – addirittura causato la vittoria di Hanoi e dei Vietcong sul più potente esercito del mondo.
ALCUNI INTERROGATIVI
La stampa in Vietnam fu più libera di mostrare il conflitto per quel che era, diversamente da quanto sarebbe accaduto in conflitti precedenti? Grazie a questa maggiore libertà, l’opinione pubblica americana – e più in generale quella mondiale – fu informata più di quanto non avvenne per altri conflitti che videro impegnati gli USA e quindi, confrontatasi per la prima volta con gli orrori della guerra, avrebbe smesso di supportare la politica della Casa Bianca e avviato quella stagione di marce di protesta che fecero vacillare le risoluzioni degli uomini forti di Washington. Fu questo che determinò la progressiva uscita di scena dell’America? Rispondendo a queste domande vedremo se la “nuova stampa” ebbe la capacità di portare al disimpegno degli USA determinandone infine la sconfitta.
Vediamo alcune immagini del conflitto a partire da 1968. In questa si vede il generale della polizia sud-vietnamita Nguyen Ngoc Loan fredda con un colpo alla tempia un sospetto Vietcong (foto di copertina). Vi è poi un’immagine del massacro di Mylai, dove tra i 347 e i 504 civili sudvietnamiti furono uccisi da militari USA.
Andando a ritroso vediamo la foto di una donna Vietnamita interrogata con un fucile automatico M16 puntato alla testa, scattata a Tam Ky, nel Novembre 1967 e soldati feriti durante l’operazione Praire del 1966.
Spostandoci ad altri conflitti precedenti il Vietnam abbiamo la foto di un soldato americano ucciso a sangue freddo durante la guerra di Corea.
E ancora la testa scarnificata e bruciata di un fante giapponese esposta su un carro armato nel corso della battaglia di Guadalcanal nel 1942, e fatta circolare sulla copertina della rivista Life.
Le immagini indicano chiaramente che il pubblico americano, ben prima del 1968, era abituato a scene brutali del conflitto e di altri che avevano impegnato l’America, sia in Corea che nella Seconda Guerra Mondiale. Raccogliere souvenir in forma di denti, orecchie, dita, mani mozzate o teschi di soldati Giapponesi nel Pacifico era considerato normale, e per nulla riprovevole. A cambiare furono quindi non la qualità intrinsecamente cruda delle immagini, ma i mezzi usati dai media per offrirle all’opinione pubblica.
Mentre a partire dalla Prima Guerra Mondiale le informazioni venivano divulgate tramite cinegiornali in sale cinematografiche – nel pieno della Seconda Guerra Mondiale e di quella di Corea, il pubblico interessato ai reportage di guerra era addirittura maggiore in percentuale di quello odierno – in Vietnam il filo diretto con la guerra fu garantito dalla televisione. A partire dal 1966 il 93% degli Americani disponeva di un apparecchio televisivo.
L’OFFENSIVA DEL TET
Sgombrato quindi il campo da dubbi su una sorpresa del pubblico alla visione dei “nuovi” orrori della guerra, concentriamoci su che cosa avvenne in Vietnam nel 1968, dove dal 1965 gli Stati Uniti erano impegnati a sostenere il governo filo-occidentale Sudvietnamita contro quello comunista di Hanoi e i guerriglieri Vietcong.
L’anno si aprì con quella che passerà alla storia come l’Offensiva del Tet, dal nome del Capodanno lunare Vietnamita, che cadeva in Gennaio. Il Vietnam del Nord aveva annunciato che avrebbe osservato una tregua di 36 ore in occasione del Tet, tuttavia, mentre le famiglie iniziarono le celebrazioni e i comandanti sud Vietnamiti concedevano licenze al 50% dei militari, i Viet Cong lanciarono una massiccia offensiva a partire dall’alba del 30 gennaio 1968 con l’obiettivo di scatenare una rivolta generale nel Sud Vietnam.
Il mattino successivo 80.000 fra soldati Nord Vietnamiti e Vietcong sferrarono più di cento attacchi coordinati, invadendo 36 dei 44 capoluoghi di provincia. Nella capitale Saigon attaccarono il palazzo presidenziale e l’ambasciata americana, dove un commando di 19 guerriglieri si aprì un varco nel muro di cinta.
Nonostante l’elemento sorpresa e la violenza dell’offensiva portarono ad un successo iniziale, i contrattacchi USA e sudvietnamiti respinsero i comunisti infliggendo loro pesanti perdite. Solo nell’antica capitale imperiale di Hué e attorno alla base di Khesanh i combattimenti si protrassero per altri due mesi, per concludersi con una sconfitta per Nordvietnamiti e Vietcong, che ebbero complessivamente 40.000 morti. Eppure, nonostante l’offensiva non riuscì a scatenare una rivolta generale nel Sud Vietnam, come Hanoi aveva auspicato, essa finì per acquisire un impatto significativo negli Stati Uniti. Questo, sebbene non fosse stato pianificato dai comandi militari Nord Vietnamiti, ebbe alla lunga l’effetto di allontanare l’opinione pubblica americana dalla guerra. Come?
LO SHOCK DEL PUBBLICO AMERICANO
Gli obiettivi che i nordvietnamiti e i vietcong si erano posti erano dunque falliti miseramente. Ripresisi dalla sorpresa iniziale le forze americane e sud-vietnamite avevano recuperato velocemente il controllo della situazione, ma a partire dal giorno stesso dell’offensiva e per un’intera settimana 60 milioni di telespettatori americani videro un quadro ben diverso dell’accaduto. Le troupe televisive arrivate per prime all’ambasciata trasmisero le immagini dei 4 marines di guardia uccisi dal commando, per mostrare poi carri armati e semoventi che sfrecciavano a tutta velocità per le strade della capitale, con titoli che a più riprese scandivano “La guerra colpisce Saigon”, considerata il centro della potenza USA in Vietnam.
Per giorni interi la televisione ripropose l’immagine di Eddie Adams che operava per la rivista Life e con cui vincerà il premio Pulitzer. Il fotogramma è tratto da un video in cui si assiste ad una scena impressionante. In essa il generale della polizia Nguyen Ngoc Loan spara a bruciapelo alla tempia ad un prigioniero vietcong con le braccia legate dietro la schiena. Allora nessuno commentò sul fatto che la vittima aveva ucciso diversi uomini delle forze di sicurezza di Loan, tra cui un ufficiale con la moglie e i figli nella sua residenza privata. L’immagine di quel cervello che andava in pezzi – che i “rivoluzionari” telegiornali USA in realtà non mostrarono ai telespettatori tagliando le scene finali in cui il corpo senza vita si accascia e il fiotto di sangue schizzava dalla tempia – riassumeva alla perfezione lo sfacelo del Tet: un carosello di americani esauriti incapaci di difendere il centro nevralgico del proprio potere in Vietnam, e sadici e corrotti alleati sudvietnamiti che uccidevano prigionieri a sangue freddo. E tutto questo mentre si era assicurato alla nazione che in Vietnam ormai “si vedeva la luce alla fine del tunnel!” In questo vortice di immagini gli americani non sapevano più a chi o cosa credere.
A Hué una troupe televisiva intervistò i marines che combattevano casa per casa per snidare i 10.000 soldati nordvietnamiti asserragliati, impresa che conseguirono in 3 settimane al prezzo di 147 morti e 857 feriti.
Ecco la breve intervista di uno di loro, riportata da Stanley Karnow in Storia della Guerra del Vietnam:
“Qual è la cosa più difficile?”
“Non sapere dove sono: ecco la cosa peggiore. … nascosti nelle fogne, ovunque. Potrebbero essere ovunque. Si spera solo di restare vivi, giorno per giorno.”
“Hai perduto degli amici?”
Parecchi… uno l’altro ieri. E’ uno schifo, uno schifo.”
I marines fecero saltare in aria edifici storici per eliminare i cecchini che vi erano nascosti. Per questo si attirarono la riprovazione della stampa, la quale però si guardò bene dal presentare al pubblico americano le storie delle esecuzioni sommarie che Nordvietnamiti e Vietcong avevano condotto in città all’indomani del loro arrivo. Giravano con liste di proscrizione compilate in precedenza. Almeno 5.000 persone “sparirono” da Hué – medici, sacerdoti, insegnanti, funzionari governativi furono i bersagli principali – tra cui anche cittadini di nazioni europee estranee al conflitto, per finire uccise a bastonate, a colpi di pistola o a volte sepolti vivi nella giungla, con esecuzioni sommarie simili a quelle recenti dell’ISIS. Per la prima volta nel corso della storia della guerra di un qualsiasi conflitto in qualsiasi luogo e tempo, uomini nello stress e pericolo della battaglia potevano essere visti da milioni di loro connazionali, tra cui vi erano i loro familiari ed amici nel confort delle proprie abitazioni a poche ore dagli scontri in cui erano stati coinvolti.
Lo sbigottimento di fronte ai combattimenti che avevano raggiunto l’ambasciata – che addirittura alcune fonti in un primo momento avevano dato caduta in mano vietcong – e le devastazioni sistematicamente riproposte fecero nascere grandissimi dubbi nell’opinione pubblica su quello che era l’effettivo ruolo degli USA e il progresso della guerra in Vietnam. Non fu quindi – facciamo attenzione – l’orrore della immagini proposte a produrre la reazione, bensì l’incredulità a quanto stava accadendo. Incredulità alimentata da quanto i comandi dell’esercito, e la stampa vicina a questo, avevano detto fino a poche settimane prima del Tet, dichiarando nel Novembre 1967 e ancora nel Gennaio dell’anno successivo, che la guerra si avviava ad una conclusione vittoriosa. Il Tet, una chiara vittoria militare americana, portò invece alla ribalta un’altra visione della realtà.
I MEDIA “CONTRO” LA GUERRA
Sarebbero quindi stati i media a causare la disfatta militare USA a partire dal Tet, assumendo posizioni sempre più critiche su come Washington conduceva la guerra ed alienando l’opinione pubblica. Questa si sarebbe stancata di mandare i propri figli, coscritti già recalcitranti a servire nell’esercito per via del clima di ribellione degli anni ’60, a morire per una guerra inutile. Per la prima volta l’opinione pubblica aprì gli occhi e si rifiutò di schierarsi con l’esercito e i propri leader. Da quel punto la guerra fu irrimediabilmente perduta. Questa è il lascito del Tet rimasto nell’immaginario collettivo. E’ vero?
Abbiamo visto che la “brutalità” della guerra che impegnava gli USA non costituiva una novità per l’opinione pubblica. Mentre un movimento pacifista – che includeva fra gli altri Noam Chomsky, Joan Baez, Jane Fonda, Martin Luther King e decine di giornalisti di sinistra – esisteva ben prima del Tet, la maggioranza dell’opinione pubblica e dei media sosteneva la guerra in Vietnam. Nel 1965, quando vi furono inviate truppe combattenti e un primo contingente di 3.500 marines sbarcò a Da Nang, gli americani erano sostanzialmente favorevoli all’intervento.
Perfino nello sconquasso del Tet, lo storico Victor David Hanson ha sottolineato come certi sondaggi rilevarono che “il 70% degli americani auspicavano una vittoria militare anziché una ritirata”. Lo stesso può dirsi della stampa. Il cronista Walter Cronkite – l’uomo più rispettato d’America – colui che di ritorno da Saigon il 27 Febbraio offrì un’analisi spassionata a 50 milioni di telespettatori, concludendo che “la sanguinosa esperienza del Vietnam è destinata a finire in una situazione senza uscita”, era inizialmente noto come sostenitore dell’intervento e schierato con la Casa Bianca. A lui facevano coro decine di autorevoli cronisti le cui storie dal fronte erano caratterizzate da una linea comune: “bravi ragazzi americani che combattono i comunisti”.
Questo nasceva da due motivi; in primis un forte senso patriottico, unito al fatto che seguire la linea del governo di Washington era vista come la cosa giusta da fare. Questo non significa che la stampa mentisse come regola, ma che tendeva, su indicazioni dei resoconti militari, a sostenere che in Vietnam le truppe USA facevano progressi e stavano vincendo la guerra, e da un punto di vista strettamente militare era così. Cronkite rifletteva nella sua serietà di giornalista gli atteggiamenti e i pensieri dei suoi connazionali molto più di quanto non contribuisse a condizionarli o formarli. Favorevole all’intervento nel ’65, dopo nel ’68 iniziò a palesare i dubbi che gli Americani avevano dopo aver visto il Tet in televisione.
IL MITO: TET, AMERICA E GUERRA
Il Tet rappresentò uno spartiacque non per la violenza degli attacchi, o per nuovi orrori visti dagli spettatori americani, ma per l’incredulità di questi ultimi rispetto a quanto avevano appreso da anni sull’andamento della guerra. Nel novembre 1967 il comandante in capo delle forze USA, generale Westmoreland, dichiarò in una serie di conferenze stampa che il nemico era sulla difensiva, e che il corso della guerra stava dando ragione agli Stati Uniti. I suoi ottimistici rapporti si basavano in realtà su un falso senso di sicurezza, perché i comunisti stavano pianificando da tempo l’offensiva del Gennaio ’68, nonostante le perdite subite fino ad allora. Quando questa scoppiò, gli americani abituati a sentire notizie incoraggianti, iniziarono a chiedersi cosa stesse in realtà succedendo in Vietnam.
Come era possibile che un nemico dichiarato quasi battuto avesse potuto organizzare un’offensiva simile, attaccare le principali basi USA, le città del Sud Vietnam e l’Ambasciata americana a Saigon? Che tipo di guerra era quella che da due anni e mezzo si stava combattendo? L’opinione pubblica chiedeva di sapere di più, comprensibilmente, e media – che operano per vendere notizie e vicini ai bisogni del pubblico – amplificarono tale input, iniziando a riversare in modo sempre crescente resoconti che parlavano di una guerra dura, contro un nemico che non poteva essere vinto con logiche da supermercato come quelle che aveva applicato McNamara segretario alla difesa dell’amministrazione Johnson ed ex-presidente della Ford. Inondare il Vietnam di truppe per togliere spazio al mercato della concorrenza aveva poco senso nel momento in cui la concorrenza poteva fare a meno del mercato per sopravvivere.
Questo era un nemico che nelle parole di Giap e Ho Chi Minh, era disposto a perdere 10 uomini per ogni uomo perso dall’avversario, sicuro che anche così avrebbe vinto. Giap infatti comandava un esercito che non inviava le bare dei propri caduti ad Hanoi, e misurava il proprio successo in base al numero di bare americane fatte rientrare negli Stati Uniti. Era la dura realtà che gli alti comandi ed i politici di Washington conoscevano, e che sarebbe emersa di lì a pochi anni con la pubblicazione dei Pentagon Papers, che costituiscono la vera prova tangibile dell’immoralità del Vietnam. Nel 1964, l’anno precedente l’invio dei marines a Da Nang, a Washington era stata fatta una simulazione – nome in codice SIGMA I – che aveva chiaramente dimostrato che in caso di conflitto convenzionale, che escludeva l’uso di armi atomiche, gli USA potevano vincere in Vietnam solo stanziandovi almeno 4 milioni di uomini, di cui mezzo milione in prima linea, cosa che avrebbe messo a rischio le loro capacità di intervento in altri teatri del mondo.
Avrebbero dovuto vuotare le basi in Europa del loro personale ed inviarlo in Vietnam, e le perdite americane sarebbero state assai più sostenute che le 150.000 vittime finali. Questo perché una società poco sviluppata come quella nord vietnamita, che mancava di gas, luce e con limitate infrastrutture, poteva sostenere un conflitto con poco. La macchina bellica USA aveva bisogno di mastodontici rifornimenti logistici e apparecchiature elettroniche; al Vietnam del Nord, paese rurale con una popolazione potenzialmente inesauribile, bastavano riso e kalashnikov – che importava in massa dall’URSS e dalla Cina – a cui poi si aggiunsero lanciagranate e lanciamissili.
Con pochi mezzi i Nord Vietnamiti e Vietcong erano in grado di condurre una guerra di attrito che poteva paradossalmente arrivare all’auto-annientamento in difesa di una causa in cui credevano: la liberazione della propria terra dagli imperialisti stranieri, di cui gli americani, dopo francesi e giapponesi, erano l’ultimo esempio. Erano disposti gli USA a pagare tale prezzo? L’opinione pubblica americana l’avrebbe accettato? Il wargame fu rigiocato nel settembre 1964 col nome di SIGMA II, e l’esito fu il medesimo, quindi la conclusione parlava da sé sul “vantaggio” di impegnarsi militarmente in Vietnam. Il presidente decise l’intervento comunque, e questo finì poi, conosciuti i fatti, per alienare definitivamente l’opinione pubblica americana.
Il ’68 in Vietnam non portò quindi ad uno sconvolgimento della presenza USA per via della potenza dell’offensiva comunista presentata vincente da una stampa “ribelle”. La svolta fu piuttosto dovuta alla mancanza di credibilità che l’opinione pubblica in modo crescente riversò nei confronti del governo di Washington e che questo non riuscì a rimediare. Fu una rivoluzione abbastanza “istituzionale”.
Il mito della vittoria comunista del Tet fu più potente della realtà come spesso accade per i miti. L’olocausto in Francia riporta ai deportati nei campi di sterminio, o alle trincee di Verdun nella Prima Guerra Mondiale. Nessuno pensa mai che il più grande sterminatore delle popolazioni autoctone della Francia fu Giulio Cesare, che nel corso delle sue campagne militari (58-50 A.C.) ne uccise un milione e ne vendette un altro milione come schiavi. I popoli messicani sono stati spesso visti come nobili esempi di resistenza alla brutale avidità e ai massacri perpetrati dai conquistadores.
Quasi nessuno ha messo in relazione le vittime dei sacrifici umani degli Aztechi allo sterminio nazista. Se venisse fatto si scoprirebbe che quando gli Aztechi inaugurarono il grande tempio di Huitzilopochtli a Tenochtitlàn nel 1487, uccisero 80.400 prigionieri in una carneficina durata 4 giorni, con una media di vittime più alta di quelle comunemente registrate giornalmente ad Auschwitz – e va tenuto conto che la morte era data senza mezzi chimici. I carnefici erano così stravolti dalla fatica che dovevano continuamente avvicendarsi. Si parla dei 58.000 morti americani in 8 anni di guerra in Vietnam, e si trascura che in un solo pomeriggio a Canne nel 216 A.C., l’esercito della Repubblica Romana ne perse 75.000. Questa è la forza del mito, dell’assolutizzazione di un evento rispetto ad altri e alla realtà.
CONCLUSIONI
A 43 anni dalla fine del conflitto a 45 dal disimpegno americano, qual è il lascito di quanto avvenne in Vietnam nel 1968? Per la prima volta nella storia dei conflitti moderni – in senso lato di tutti i conflitti – avviene la “spettacolarizzazione” della guerra, tramite l’impiego di mezzi tecnologici, filmati, video, diffusione televisiva, che è diventata da allora prassi e a cui siamo tuttora abituati. Il ’68 segnò il declino della credibilità Americana in Vietnam e la progressiva ascesa dei comunisti verso la vittoria, che conseguirono senza aver mai vinto battaglie campali, o ottenuto il controllo di vaste aree del territorio, senza che la popolazione del Sud Vietnam diventasse de facto comunista. Tuttavia, vinsero.
Il governo di Hanoi vinse la guerra, ma finì col perdere la pace. Segno ne furono oltre il milione di vietnamiti internati nei campi di rieducazione dopo il 1975, dove 165.000 morirono, e oltre il milione e mezzo di rifugiati, the boat people, che fra il 1975 e il 1980 lasciarono il paese via mare su mezzi improvvisati per trovare rifugio altrove, in un esodo con modalità simili per certi versi a quello che da oltre 20 anni vediamo nel Mediterraneo. L’adesione, tipica della cultura occidentale, al principio di autocritica, che nella rappresentazione dell’offensiva del Tet operò in modo spesso distorto, contribuì in parte a far perdere la guerra agli USA, ma fu determinante nell’estendere globalmente l’influenza occidentale nei decenni successivi.
Questo avvenne anche in Vietnam, dove l’esercito dopo il 1975 combatté per un governo in bancarotta e spesso screditato, che paradossalmente dovette aprire al consumismo e alla produzione di beni di massa, accettando a livello economico parte di quel capitalismo che aveva avversato nel conflitto coi sudvietnamiti e gli imperialisti Americani – aspetto, quest’ultimo, spesso ignorato o taciuto dai veterocomunisti di tutto il mondo. Sottolineiamo infine un dato finale, che smonta definitivamente il mito del soldato-cittadino perdente e squilibrato e che dovrebbe far riflettere i policymakers e gli storici di oggi: il 91% di coloro che servirono in Vietnam si dichiarano contenti di averlo fatto e il 74% – e questo comprende la maggior parte di coloro che vi furono inviati dopo il 1968 – dichiarano che sarebbero pronti a servire ancora, nonostante siano a conoscenza dell’esito del conflitto.
L’episteme, il sapere certo, è il fatto. Il mito, capace di polarizzare sogni volontà ed interessi a prescindere dai fatti medesimi, può anche aver conseguenze più forti del fatto – come accade, come quelle del Tet nel ’68 – ma il sapere che si fonda sul mito, rimane illusorio. Illusoria fu la scelta di intervenire in Vietnam, alimentata da fortissimi interessi economici, e basata sul mito dell’invincibilità dell’America. Quest’ultimo come tutti i miti, è falso, ma tale falsità, come quella della “bontà assoluta” della causa comunista in Vietnam (quale governo buono rieduca forzatamente milioni di suoi cittadini, ne uccide 165.000 e ne costringe 1.500.000 all’emigrazione?), non può essere sistematicamente diffusa a detrimento di una cultura millenaria, quella occidentale basata su democrazia, uguaglianza e libertà, e delle scelte politiche che essa esprime.
Alessandro Guardamagna
https://comedonchisciotte.org/a-50-anni-dal-68-il-vietnam-tra-mito-e-realta/
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