NOTIZIARIO STAMPA DETTI E SCRITTI
9 NOVEMBRE 2018
A cura di Manlio Lo Presti
Esergo
Quello che chiamano neoliberismo
è un capitalismo totalitario.
JOSÉ SARAMAGO, La felicità è egoista, Stampa Alternativa, 2016, pag.12
https://www.facebook.com/Detti-e-Scritti-958631984255522/
Le opinioni degli autori citati possono non coincidere con la posizione del curatore della presente Rassegna.
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EDITORIALE
Il “giovane romano” ex “geometra”
Imperversa sfacciatamente la manomissione delle parole della psicopolizia
Manlio Lo Presti – 9 novembre 2018
Mutamento semantico e creativo attuato da esponenti ed occulti pagatissimi professori dello sterminio sociale (i c.d. SPIN DOCTOR) nei telegiornali di tutte le catene televisive servili italiane ed europee.
Adesso il “geometra” viene denominato “giovane romano”.
Ancora una volta assistiamo ad una manipolazione delle parole, delle metafore, dei significati pur di difendere fino alla stupidità il regime neomaccartista vigente nella ex-italia.
Nel bel libro intitolato, appunto, “La manomissione delle parole” di Carofiglio, edizione Rizzoli, questa manovra da falsari, teppisti, delinquenti viene descritta con dovizia di particolari. Un libro da portare con sé SEMPRE!
Quindi, da domani, avremo notizie di maxiretate di “giovani romani” effettuate dalle forze dell’ordine.
Se vuoi distruggere una nazione:
1) agisci sullo sterminio del 30 percento dei maschi in età fertile (vedere il PIANO GOLDMAN);
2) allarga al massimo la precarizzazione del lavoro che non consente piani di vita e quindi delle nascite;
3) limita o elimina – se possibile – i presidi medici ed ospedalieri con la scusa del contenimento dei costi;
4) manovra lo spread gestito da istituzioni private angloamericane per abbattere l’economia dello Stato-bersaglio. Il conflitto di interessi delle società di rating private angloUSA non viene mai denunciato, chissà perché;
5) enfatizza fino all’ossessione, la necessità dell’eutanasia creando astutamente violenza sulla pubblica opinione mostrando casi estremi per far passare il principio, ma occultando lo sterminio eugenetico – di memoria nazista – che accadrà non appena sarà applicata la cosiddetta interpretazione estensiva della norma: uno strumento tecnico che consentirà l’eliminazione di massa di persone anziane, persone con malattie rare che usano medicinali costosissimi, persone sottoposte all’assunzione di farmaci sperimentali a loro insaputa e che poi devono sparire in caso di esiti negativi della sperimentazione, persone che esprimono opinioni diverse dal neomaccartismo del politically correct;
6) cambia continuamente, incessantemente la struttura concettuale della lingua nazionale con l’alterazione delle strutture della significazione o della costruzione logica. Esempio: ABBIAMO AUMENTATO GLI STIPENDI DAL 30 AL 20 PERCENTO;
7) se la popolazione sfacciatamente continua a resistere e ad opporsi al vangelo immigrazionista-neomaccartista-quadrisex-antropofago-globalista-precarista, allora si passa al disegno secessionista per lo smembramento del territorio nazionale in vari tronconi, rendendo il Paese vittima delle varie banche mondiali: vedi i casi delle repubblichette sorte nell’est europa incapaci di amministrarsi con le proprie risorse a causa della loro piccolezza;
8) se la resistenza continua, passare al bombardamento geoclimatico con terremoti, scie chimiche ed altre finezze del genere. Chi volesse sbirciare le foto satellitari di questi giorni si accorge subito che l’europa è tutta verde, con la presenza (casuale) di nuvole solo sulla ex-italia;
9) se ancora la popolazione demmerda continua a resistere, allora si passa alla classica stagione delle bombe, con migliaia di morti in scuole, ospedali, treni, concerti, ecc. ecc. ecc. ecc. Un passato ben noto che ritorna …
Il “grande gioco” è questo! Ci siamo quasi, alla faccia del 90 percento della popolazione che da finta di non vedere e non capire girando la testa dall’altra parte, pensando di farla franca ancora una volta (leggere attentamente il breve testo di Gramsci, Odio gli indifferenti, per capire bene il concetto)
Questa volta non sarà così.
Sarà necessario un risveglio collettivo da questa narcosi cognitiva omicida!
Ne riparleremo
IN EVIDENZA
Pedofilia, se chi condanna finisce sotto processo
Il caso di Silvana De Mari
Carlo Giovanardi – 23 Mag 2018
Silvana De Mari
Venerdì 18 maggio al Circolo della Stampa di Torino Alessandro Meluzzi, Silvana De Mari, Roberto Cota e chi scrive queste note, hanno tenuto una Conferenza Stampa sul tema “Pedofilia, utero in affitto e diritto di critica”.
Gli spunti per la Conferenza stampa a Torino sono stati due episodi accaduti in quella città.
Il primo è il rinvio a giudizio per diffamazione della dott.ssa Silvana De Mari che ha osato criticare il circolo Mario Mieli, intitolato ad un personaggio che nei suoi scritti incitava a praticare la pedofilia, la pederastia, la coprofagia, il rapporto sessuale con cadaveri, ecc. ecc. e l’iniziativa del sindaco di Torino Chiara Appendino di far registrare come figlio di due madri all’anagrafe di Torino un bambino evidentemente nato con il concorso di un padre biologico, esempi imitati da altri sindaci che hanno allargato la registrazione anche a bambini fatti nascere all’estero con il cosiddetto utero in affitto, che in Italia è reato penalmente perseguibile.
Nella Conferenza stampa i relatori hanno approfondito queste tematiche e le sue ripercussioni sul diritto di opinione, garantito dalla Costituzione, quando si critica lo sfruttamento e la schiavitù delle donne che, a pagamento, devono vendere parte di loro stesse o essere utilizzate come contenitori, per soddisfare la voglia di genitorialità di due uomini e gli ulteriori riflessi di questi comportamenti, testimoniato, per esempio, dal crollo delle adozioni internazionali, a cui ha fortemente contribuito la possibilità non di adottare un bambino tramite defatiganti procedure di autorizzazione dei servizi sociali e del Tribunale dei Minorenni ma un neonato le cui caratteristiche vengono contrattualmente definite con i venditori.
Di questa affollata conferenza stampa, a cui hanno partecipato un ex Presidente della Regione Piemonte, un ex Ministro, un ex Parlamentare ed intellettuale come Alessandro Meluzzi e la stessa De Mari, la stampa locale ha dedicato righe zero, mentre l’Ansa ne ha dato una breve notizia con l’incredibile titolo “Conferenza Stampa a Torino in difesa di una dottoressa omofoba”.
Nel frattempo, giovedì scorso, il TG1 nell’edizione delle 20, in un servizio sulla giornata mondiale contro l’omofobia, annunciava agli italiani che ogni giorno in Italia ci sono 50 casi di persecuzione omofoba, sarebbero quindi circa 15 mila all’anno, mentre, come è noto, l’Osservatorio nazionale presso il Ministero degli Interni che monitorizza tutte le segnalazioni di atteggiamenti omofobi in Italia
Continua qui: https://www.loccidentale.it/articoli/146711/pedofilia-se-chi-condanna-finisce-sotto-processo
Quella (finta) democrazia del totalitarismo politically correct
Carlo Mascio – 16 Ott 2018
“L’Italia è una Repubblica Democratica”.
Dell’articolo 1 della nostra Carta Costituzionale si riempiono la bocca un po’ tutti. Perché fondamentalmente tutti sappiamo che in Italia l’ordinamento democratico è vivo e vegeto (a parte piddini e sinistroidi che a furia di gridare “al lupo al lupo” rischiano di produrre l’effetto contrario, ma questa è un’altra storia).
Tuttavia, anche il lettore più distratto si sarà accorto che quando qualcuno nell’agone mediatico si azzarda ad offrire una opinione poco poco fuori dal coro del politicamente corretto, subisce un linciaggio senza se e senza ma. Linciaggio mediatico, prima di tutto, spalleggiato (e forse fomentato) da quello ancor più feroce dei social.
E’ vero dunque che nel nostro Paese vige un regime democratico, ma a volte si fa fatica a sentirsi in democrazia. Quando tutti debbono avere la medesima opinione, pena il linciaggio, lo spirito, o meglio, l’educazione democratica è andata a farsi friggere da un bel pezzo. E sì perché se dal regime democratico non scaturisce una educazione alla democrazia, allora inevitabilmente si entra nello spirito totalitario.
Di esempi se ne possono fare a bizzeffe. Oggi parlare contro l’aborto, ovvero illustrare le ragioni contrarie all’interruzione di gravidanza, per la legge dello Stato non è (ancora) reato. Per la “legge” del politically correct sì. Gli esempi sui casi di Verona e sugli universitari pro-life sbeffeggiati alla Sapienza sono solo gli ultimi di una lunga serie.
Che dire poi del massacro mediatico riservato all’ex parlamentare Carlo Giovanardi non tanto per aver espresso una opinione (queste possono essere oggetto di discussione) quanto per aver preso posizione sul caso Cucchi basandosi sulle perizie mediche e chiedendo semplicemente di aspettare la fine del processo per conoscere le sentenze e rispettarle? Cosa che in un Paese democratico rasenta la banalità. In Italia (e non solo) no.
E ancora. Se un quotidiano nazionale di primissimo piano domanda con assoluta naturalezza a una coppia di uomini se hanno figli, e loro rispondono che non ne hanno solo perché sono troppo anziani, è tutto normale. Se si prova a obiettare che l’anatomia e la biologia impediscono a due uomini di procreare, e che in questi casi si tratta di bambini generati tramite ovuli scelti sui cataloghi, portati in grembo da uteri affittati di donne per lo più povere, cresciuti senza una mamma e privati della propria identità, giù con le accuse di omofobia, oscurantismo e chi più ne ha più ne metta.
E’ già tanto, inoltre, che fin qui ce la si sia cavata con qualche vagonata di insulti telematici. C’è infatti chi già si trova sotto processo per aver espresso il proprio pensiero, per giunta nel settore professionale di propria competenza (chiedere a Silvana De Mari), e non è un caso che da qualche anno siano continui i tentativi di introdurre nel codice penale, sotto diverse specie, reati di opinione
Continua qui: https://www.loccidentale.it/articoli/146787/quella-finta-democrazia-del-totalitarismo-politically-correct
“SOVRANITA’ O BARBARIE”: detto dalla sinistra vera. In esilio.
Maurizio Blondet 8 novembre 2018
“Socialismo o barbarie” è uno slogan marxista di vecchia data, Rosa Luxembourg lo attribuisce ad Engels: se non si passa dal capitalismo al socialismo, la caduta nella barbarie è il destino dell’Occidente. Adesso un saggio scritto da due marxisti, l’italo-inglese Tomas Fazi e William Mitchell, riecheggia quel motto celebre ma al contrario: “Sovranismo o Barbarie”. Abbiamo capito bene: due marxisti, pubblicati da una editrice “rossa”, invocano il ritorno alla sovranità nazionale, perché (cito dalla recensione che ne fa Carlo Formenti su Micromega) “lo stato-nazione è la sola cornice in cui le classi subalterne possono migliorare le proprie condizioni e allargare gli spazi di democrazia”.
Da marxisti, i due sono convinti che l’ordinamento dello stato dipende dall’economia – la “struttura” da cui nasce la “sovrastruttura”. Quindi attribuiscono la felice lunga stagione dal dopoguerra agli anni ’70, con ” elevati tassi di crescita economica, alti livelli di occupazione, salari e profitti crescenti, un’estensione dei diritti sociali ed economici mai conosciuta nelle ere precedenti, nonché una relativa stabilità finanziaria a livello internazionale” a “uno specifico regime di accumulazione capitalista – il fordismo – associato a un modo di regolazione politica dell’economia fondato sull’interventismo statale”.
La “entrata in crisi” del modello fordista di accumulazione capitalistica sarebbe la causa della “entrata in crisi” della sovrastruttura, l’ideologia e le politiche keynesiane con la loro connotazione “sociale”. Detto così, può sembrare un fenomeno storico inevitabile, e il passaggio al globalismo con l’evirazione dello Stato nazionale, la perdita della sovranità monetaria, e dello stato sociale , eventi “oggettivi”. Inevitabili. Forze storiche contro cui non si vince.
Infatti questo ci ripetono le “sinistre” salottiere, stilistiche botuliniche che parlano da tutti i talk-show televisivi. Le giornaliste botulinate e strapagate perché “progressiste”. Invece, il vostro cronista che si è occupato (anche) di economia per trent’anni, ha visto e documentato (in “Schiavi delle Banche”) come la “sovrastruttura” del globalismo che ha distrutto il “keynesismo” (e il benessere e la crescita) siano state progettate e imposte da leggi dello Stato, che abolivano le leggi precedenti. Tipicamente, ciò che era punito come “fuga dei capitali” quale crimine, divenne “libera circolazione dei capitali”; i dazi furono abbassati per legge esponendo i nostri lavoratori alla concorrenza di messicani, cinesi, romeni. Le borse internazionali furono coordinate apposta per trasformarle in una borsa mondiale aperta 24 ore su 24,dove quando chiudeva Wall Street aprivano Londra, e poi Tokio. Trucchi della “ingegneria finanziaria” come i derivati, che prima sarebbero stato soggetti ai rigori del codice penale, furono legali. Le leggi che su imitazione della Glass-Steagall Act vietavano alle banche di giocare nel casinò finanziario i depositi dei risparmiatori, furono abolite in tutti gli Stati occidentali. I mutui concessi dalle banche americane non restarono più nei libri contabili di dette banche, con il loro rischio di insolvenza dei debitori; furono macinati insieme a migliaia e rivenduti a pezzetti a fondi-pensione con la promessa che questi oggetti “davano un interesse”. In pratica le banche sbolognarono il rischio che s’erano assunte prestando soldi a ragazze-madri negre con salario precario da 600 dollari a mese, a terzi ignari: roba da codice penale, una volta. Le norme penali adesso non valevano più.
Insomma, il supercapitalismo finanziario terminale non è un fenomeno naturale. E’ stato progettato, voluto, preparato con leggi che abolivano le leggi. Apprendo con piacere che anche “per Fazi e Mitchell è sbagliato interpretare tale processo come un “indebolimento dello stato”, occorre al contrario prendere atto che proprio gli stati – a partire dal nostro – hanno scelto autonomamente di subordinare le proprie scelte a vincoli esterni, il che non significa che si sono suicidati, bensì che hanno attuato con successo un progetto radicale di indebolimento delle classi lavoratrici e di svuotamento della democrazia”.
I due hanno la franchezza di notare che “le sinistre” hanno responsabilità primarie nell’aver creato la nuova ideologia neoliberale diventata Stato: come le “ teorie nate negli stessi ambienti di sinistra, come la tesi secondo cui una delle cause fondamentali della crisi era la spirale incontrollata della spesa pubblica”.
Non dimenticano che “già a partire dagli anni Settanta Enrico Berlinguer tesserà l’elogio dell’austerità come strumento per rilanciare crescita e occupazione”, come un odierno Cottarelli o una tanto de sinistra come la Veronica de Romanis, che si ritiene una economista essendo moglie del banchiere Bini Smaghi, miliardaria, e autrice dell’aureo libretto “L’austerità fa crescere”
“Dai primi anni Ottanta all’ingresso nell’area dell’euro – scrive il recensore – su Micromega la frana diverrà inarrestabile. I Carli, gli Andreatta, i Ciampi e il grande privatizzatore Prodi avranno mano libera per scandire le tappe di una marcia accelerata verso la de-sovranizzazione, de-politicizzazione e de-democratizzazione dello stato italiano: adesione allo SME, divorzio fra Tesoro e Banca centrale, approvazione del Trattato di Maastricht, fino al colpo di grazia della rinuncia al potere di emissione della moneta e all’integrazione nell’area dell’euro, che imporrà” l’inserimento obbligatorio del neoliberismo in Costituzione e il divieto di adottare politiche keynesiane”.
Conclusione dei due marxisti:
“Oggi, dopo decenni di smantellamento sistematico, non resta altra alternativa se non riconquistare la sovranità nazionale e popolare come presupposti irrinunciabili per rilanciare quel progetto politico che venne accantonato quarant’anni fa, a partire dalla sovranità monetaria e dalla conseguente possibilità di finanziare il fabbisogno della spesa pubblica attraverso l’emissione di moneta”.
” Le ragioni dell’esplosione del debito pubblico italiano negli anni ottanta non sono da ricercare in un improvviso aumento della spesa pubblica – che anzi è rimasta in linea con la media europea per tutto il periodo – ma piuttosto nella decisione di far aumentare vertiginosamente i tassi di interesse (funzionale alla partecipazione dell’Italia al Sistema monetario europea (SME), in primis attraverso il “divorzio” tra Banca d’Italia e Tesoro del 1981 (Fazi)
Insomma, i due marxisti arrivano alle stesse conclusioni di Claudio Borghi, Savona e Bagnai. Tornare a quegli anni ’70 in cui “in cui abbiamo fatto ampiamente ricorso alla spesa in deficit – e il nostro rapporto debito/PIL è rimasto relativamente stabile intorno al 50-60%, grazie soprattutto alla parziale monetizzazione del deficit pubblico e al calmieramento dei tassi di interesse da parte della Banca d’Italia” (Thomas Fazi).
La “sinistra tv” ha usurpato il loro nome
Che dire? E’ evidente che tutte le personalità che nello spazio pubblico, giornalistico, televisivo e accademico, parteggiano per l’euro e fanno il tifo per lo spread, invocano il ritorno dei “tecnici” e idolatrano Draghi che ci punirà e farà cadere il governo “fascista” e “razzista” – i Formigli e le Gruber, i Floris e i direttori di Repubblica – stanno usurpando. Usurpano il nome di “sinistra” – l’hanno portato via a Fazi e Michell – e usurpano lo spazio pubblico televisivo – politico che spetterebbe a loro, i marxisti.
A ben pensarci, la cosa è evidente.
Salvo errori, mai Thomas Fazi o Fassina vengono invitati nel salottino della Gruber o della Berlinguer.
Nei talk show “progressisti” pro-euro invitano sì Diego Fusaro, ma come si mostra in gabbia un animale estinto, pittoresco per il suo linguaggio antiquato, il “Marxista di un tempo”; avendo cura di tagliarne l’audio al momento giusto e farne svanire il collegamento. Gli usurpatori del nome Sinistra non danno alcuno spazio a quelli di cui hanno usurpato lo spazio politico, e lo danno alle miliardari-economiste. E i Fazi e i Fassina sono dei senza-casa, impossibilitati ad esporre le loro idee di sinistra vera nei media di massa.
Esiliati .
Chi può capirli meglio del vostro cronista.
Da cattolico, constata e soffre l’occupazione del Vaticano della setta sodomitica, che usurpa il nome di “Chiesa” per benedire nozze gay, lavare piedi a musulmani, e proclamarla “accoglienza senza limiti”, facendo passare tutto questo per “misericordia”.
Da vecchio “conservatore”, ha visto usurpare il nome e il concetto dalla potente setta degli ebrei ex trotzkisti americani, definitisi “neocon”, ossia neoconservatori, e compiere sovversioni dall’Ucraina alla Siria ed oltre, e cercare di distruggere ogni valore di destra e chi lo incarna, come Putin.
E’ un’epoca dove dominano le contraffazioni in ogni campo, di mascherature e di camuffamenti dovunque. In questo politica “populismo” diventa “l’anatema da scagliare contro ogni forma di opposizione al pensiero unico liberal liberista”. Sovranismo, per accreditare cioè l’associazione automatica fra ogni posizione politica che rivendichi la riconquista della sovranità nazionale e l’uscita dall’Unione europea – e i nazionalismi di destra” (Formenti). Marxisti che siano allo stesso tempo sovranisti, sono in grado di dimostrare e argomentare che il recupero della sovranità non è una patologia “identitaria” pulsionale parafascista, ma una necessità
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Moiso: via il Che da quelle magliette, metteteci Draghi
Scritto il 09/11/18 – Marco Moiso
Che strana questa sedicente sinistra che critica coloro che parlano di sovranità, che pensa di dover organizzare le proprie iniziative politiche partendo dalla necessità assoluta e imprescindibile di tagliare il debito pubblico, e che crede che l’accoglienza indiscriminata di quelle povere persone che vengono dall’Africa e dal Medio Oriente possa essere una soluzione giusta e sostenibile. Che strana, questa sedicente sinistra che da giovane appendeva, vestiva e si tatuava “Che” Guevara, Marx e Sankara; avrebbe piuttosto dovuto vestire le maglie con la faccia di Mario Draghi, appendere i poster di Visco in cameretta affianco a quelli dei Guns’n’Roses e farsi i tatuaggi di Mattarella o Monti sulla spalla; questo sì che sarebbe stato coerente con le loro posizioni odierne! Viene da pensare, perché mi ricordo chiaramente Marx ed Engels scrivere di come l’immigrazione indiscriminata irlandese – in condizioni di scarsità di risorse – potesse danneggiare le condizioni dei lavoratori inglesi, nonché sottoporre i lavoratori irlandesi a condizioni disumane.
Mi ricordo chiaramente come Sankara avesse smascherato platealmente, alle Nazioni Unite, come il debito pubblico fosse un’arma di controllo post-coloniale, rivendicando la necessità di aiutare il popolo africano in Africa; e mi ricordo ancora più chiaramente come Ernesto “Che” Guevara, sempre alle Nazioni Unite, rivendicò il principio della sovranità del popolo di fronte all’imperialismo del mondo finanziario. Ora… o mi ricordo male io, o gli elettori progressisti non sono progressisti (e in effetti tra i progressisti si nascondono molti conservatori e comunisti) o la classe politica sedicente progressista ha mantenuto la narrativa progressista ma si è completamente venduta al neoliberismo. Alcuni potrebbero guardare al nazionalismo e al comunismo con nostalgia, come reazione alle politiche neoliberiste dell’attuale sedicente sinistra… La verità è che nonostante “Che” Guevara e Sankara si dicessero comunisti, non è certo nel comunismo che troviamo l’esempio che hanno lasciato nella storia.
Piuttosto, queste persone ci hanno insegnato che non c’è niente, nella vita, che valga più della lotta per il bene della collettività; della lotta per creare un mondo giusto ed equo. Oggi, ci sentiamo dire che dobbiamo fare i conti con
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La Francia ci dichiara guerra usando le direttive Onu sul cibo
8 novembre 2018 – Andrea Muratore
Il 2 novembre scorso, nel corso di una riunione informativa tenutasi a Ginevra, i sette Paesi del Foreign Policy and Global Health Initiative (Brasile, Francia, Indonesia, Norvegia, Senegal, Sudafrica e Thailandia), tavolo di lavoro dell’Organizzazione Mondiale della Sanità(Oms) hanno presentato un progetto di risoluzione sulla nutrizione, che poi a partire dal lunedì successivo è stato depositato all’Assemblea Generale dell’Onu per iniziare un iter di discussione.
Al centro della risoluzione vi sono una serie di cibi considerati “insani”, sulla base di un’analisi che va in netta controtendenza contro quanto deciso a fine settembre in occasione dell’Assemblea Generale, quando nella Dichiarazione Politica adottata da Capi di Stato e di Governo si è inserito un chiaro riferimento alla lotta agli stili di vita poco salutari. E la questione acquisisce una valenza politica non indifferente se si pensa che tra i cibi portati sul banco degli imputati vi sono numerosi componenti della dieta mediterranea che per l’Italia sono importanti sotto il profilo economico.
La dieta mediterranea torna sul banco degli imputati dell’Oms
Come riporta La Verità, “nel mirino finiscono ancora una volta olio extravergine, parmigiano e grana, prosciutto e salumi, panettoni”. La dieta mediterranea torna sul banco degli imputati, senza alcuna mediazione scientifica, dopo esservi già salita prima dell’ammorbidimento della dichiarazione politica dell’Assemblea Onu.
“Si trattava di adottare la risoluzione per combattere le malattie della modernità: quelle cardiovascolari, il diabete legate in qualche modo all’ alimentazione. […] Il nostro governo e la diplomazia italiana sono stati così convincenti da far sì che la risoluzione adottata non solo non ha assunto nessuna iniziativa contro i nostri prodotti, ma ha spostato – correttamente – l’ accento sugli stili di vita. Anche perché l’Onu si sarebbe trovato di fronte al paradosso di aver promosso la dieta mediterranea come patrimonio mondiale dell’ umanità e poi penalizzare i prodotti cardine, come l’ olio extravergine di oliva, della stessa dieta mediterranea”.
Tutto questo fino al cambio di marcia impressa dal Fpgh nella giornata del 2 novembre, che rappresenta una forzatura non indifferente. Dietro cui si possono individuare facilmente chiare operazioni politiche e commerciali da parte di tutti i Paesi membri del forum, meno uno: la Francia.
La Francia di Macron contro l’export italiano
Obiettivo dei proponenti del nuovo rapporto è far sì che i prodotti messi all’indice siano colpiti da restrizioni, dazi e regolamentazioni stringenti sulla loro commercializzazione.
E tutto questo risponde agli interessi di numerosi Paesi propositori. A farci da guida è nuovamente l’articolo di Carlo Cambi sul quotidiano milanese: ” Il Brasile ha tutto l’ interesse a deprimere il consumo di frutta europea e d’ incrementare quello di pesce, egualmente vale per il Sudafrica, la Norvegia deve spingere al massimo sulla nutrizione a base di Omega 3 visto che vive di salmoni […] la Thailandia deve fare spazio al suo olio di palma e al suo riso, Indonesia e Senegal devono conquistare il mercato dei legumi attraverso l’esportazione di soia”.
Grande assente, in questo contesto, la Francia. Paese che ha molto da temere dall’ottimo stato di salute delle esportazioni italiane nel settore agroalimentare. “Le vendite all’estero nel 2017 sono arrivate alla bella cifra di 41,03 miliardi di euro, il 7% in più rispetto al 2016”, riporta Avvenire. Una sfida diretta per la forte posizione francese in questo campo, che ha spinto Parigi a muoversi in concerto con le altre nazioni in chiara direzione antitaliana. Posizione a dir poco autolesionista quella di Parigi, che ha condiviso in sede europea numerose battaglie comuni con l’Italia, prima fra tutte quella sulla regolamentazione del glifosato.
Conferma, se ancora ce ne fosse bisogno, della miopia strategica del
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ATTUALITÀ SOCIETÀ COSTUME
La sinistra e gli insulti a Salvini
Artisti, scrittori, attori “di sinistra” impegnati nel nuovo sport nazionale: l’offesa al ministro dell’Interno. Anche a costo di incredibili figuracce
Domenico Alessandro Mascialino – 08/11/2018
In Italia da qualche tempo non è più il calcio ad essere lo sport nazionale. La nuova disciplina che la fa da padrona è diventata l’offesa al ministro dell’Interno, Matteo Salvini.
Specie ad opera di quella galassia di sedicenti artisti, musicisti, scrittori che si colloca nell’area più sinistra del nostro Paese. Tutti accomunati da grandi valori e buone intenzioni, per carità. Ma soprattutto dall’insulto facile.
Salvini, se muori facciamo una festa
Il primo caso da citare è quello del rapper Gemitaiz, che a giugno su Instagram postò la frase “Salvini ti auguro il peggio, se muori facciamo una festa” per protestare contro il respingimento della nave Aquarius.
Evidentemente il buonismo vale solo per gli immigrati clandestini.
Poi c’è la ineffabile Asia Argento, che tra un’accusa di molestie da parte di qualche attore e un’offesa alla sua stessa madre, a luglio è riuscita anche a dare della “merda” al ministro dell’Interno su Twitter.
Saviano: “Ministro della malavita”
La Argento con il suo insulto entrava a gamba tesa in una polemica social già avviata tra Salvini e Roberto Saviano, il quale a giugno lo definì “ministro della malavita” su Facebook per aver accennato a un possibile ritiro della scorta.
Come non citare, poi, quel finissimo intellettuale di Oliviero Toscani, che ha
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CONFLITTI GEOPOLITICI
Perché gli israeliani evitano la vittoria
di Daniel Pipes
L’Informale
19 ottobre 2018
Pezzo in lingua originale inglese: Why Israelis Shy from Victory
Immaginate che un bel giorno un presidente americano dica a un primo ministro israeliano; “L’estremismo palestinese danneggia la sicurezza americana. Abbiamo bisogno che tu vi ponga fine conseguendo la vittoria sui palestinesi. Fare ciò che serve entro i limiti legali, morali e pratici”. E il presidente continua: “Imponi la tua volontà su di loro, inducili a pensare di essere stati sconfitti in modo che rinuncino al loro sogno settantennale di eliminare Israele. Vinci la tua guerra”.
I presidenti americani incontrano da molto tempo i premier israeliani:
a partire da Harry Truman e David Ben Gurion (con Abba Eban sullo sfondo), l’8 maggio 1951.
Come potrebbe rispondere il primo ministro? Coglierà l’attimo e punirà l’incitamento e la violenza sponsorizzati dall’Autorità palestinese (Ap)? Informerebbe Hamas che ogni aggressione porrebbe temporaneamente fine a tutti i rifornimenti di acqua, cibo, medicine ed elettricità?
O declinerebbe l’offerta?
La mia previsione a riguardo è la seguente: dopo intense consultazioni con i servizi di sicurezza israeliani e le accese riunioni di governo, il primo ministro risponderebbe al presidente dicendo: “No grazie, preferiamo lasciare le cose come stanno”.
Davvero? Non è quello che ci si aspetterebbe, visto come l’Ap e Hamas cercano di eliminare lo Stato ebraico, vista la violenza persistente contro gli israeliani e visto come la propaganda palestinese danneggia la posizione internazionale di Israele. Sì. E per quattro ragioni: una diffusa convinzione israeliana che la prosperità mini l’ideologia, la soggezione della determinazione palestinese, il senso di colpa ebraico e la riluttanza dei servizi di sicurezza. Ognuna di queste argomentazioni può essere facilmente confutata.
La prosperità non pone fine all’odio
Molti israeliani ritengono che se i palestinesi traessero sufficienti benefici economici, medici e legali e di altro genere che il sionismo apporta loro, cederanno e accetteranno la presenza ebraica. Fondata sull’assunto marxista secondo cui il denaro è più importante delle idee, questa visione sostiene che le scuole eccellenti, i nuovi modelli di automobili e i belli appartamenti sono l’antidoto ai sogni nazionalisti islamisti o palestinesi. Come gli abitanti di Atlanta, i ricchi palestinesi saranno troppo occupati per odiare.
Questa idea ebbe origine oltre un secolo fa, raggiunse il culmine all’epoca degli accordi di Oslo del 1993 ed è strettamente associata all’ex ministro degli Esteri Shimon Peres, autore del libro Il Nuovo Medio Oriente. Peres mirava a trasformare Israele, la Giordania e i palestinesi in una versione mediorientale del Benelux. Ancora più grandiosa, la sua visione sperava di emulare l’accordo franco-tedesco siglato dopo la Seconda guerra mondiale, quando i legami economici servirono a porre fine a una inimicizia storica e a formare alleanze politiche positive.
In questo spirito, i leader israeliani hanno lavorato a lungo per costruire le economie della Cisgiordania e di Gaza. Hanno esercitato pressioni sui governi stranieri per finanziare l’Ap. Hanno aiutato Gaza finanziando l’approvvigionamento di acqua ed elettricità, promuovendo altresì gli impianti di desalinizzazione dell’acqua. Hanno proposto un sostegno internazionale alla creazione di un’isola artificiale al largo delle coste di Gaza con tanto di porto, aeroporto e strutture alberghiere. Hanno persino concesso a Gaza un giacimento di gas.
Ma questi tentativi sono falliti in modo spettacolare. La furia palestinese contro Israele rimane immutata. Inoltre, i gesti di buona volontà non sono stati accolti con gratitudine, ma con rifiuto. Ad esempio, dopo il ritiro unilaterale di tutti gli israeliani da Gaza nel 2005, le serre di questi ultimi sono state consegnate ai palestinesi come un gesto di buona volontà, per poi essere immediatamente saccheggiate e distrutte.
Forse quelli più eclatanti sono i casi dei palestinesi ricoverati negli ospedali israeliani che mostrano la loro gratitudine tentando di uccidere i loro benefattori. Nel 2005, una donna di Gaza di 21 anni fu curata con successo dopo aver riportato delle ustioni in seguito all’esplosione di un serbatoio di benzina, per poi restituire il favore tentando di attaccare l’ospedale con un attentato suicida. Nel 2011, una madre di Gaza il cui figlio aveva una malattia del sistema immunitario ed era stato salvato in un ospedale israeliano disse davanti a una telecamera che voleva che il bambino crescendo diventasse un attentatore suicida. Nel 2017, due sorelle entrate in Israele da Gaza affinché una delle due si sottoponesse a delle cure contro il cancro hanno tentato di contrabbandare esplosivi per conto di Hamas.
Perché questi tentativi sono falliti? Il modello franco-tedesco includeva un fattore non presente nella scena israelo-palestinese: la disfatta dei nazisti. La conciliazione non avvenne con Hitler ancora al potere, ma dopo che lui e i suoi obiettivi erano stati polverizzati. Al contrario, la grande maggioranza dei palestinesi crede ancora di potere vincere (ossia di eliminare lo Stato ebraico). Questi palestinesi vedono anche con sospetto gli sforzi volti a costruire la loro economia, mentre Israele ottiene in modo subdolo il controllo egemonico.
Già nel 1923, il leader sionista Vladimir Jabotinsky previde questo fallimento, definendo infantile “pensare che gli arabi acconsentiranno volontariamente alla realizzazione del sionismo in cambio dei vantaggi culturali e economici che potremo accordare loro”.
Più in generale, l’aver incrementato i finanziamenti ai palestinesi non ha creato consumismo e individualismo, ma rabbia. Come ci si potrebbe aspettare, aiutare un nemico a sviluppare la sua economia mentre la guerra è ancora in corso, significa fornirgli le risorse necessarie per continuare a combattere. Il denaro è stato utilizzato per incitare, indottrinare al “martirio”, acquistare armi e costruire tunnel per compiere attacchi terroristici. Una decina di anni fa, Steve Stotsky dimostrò la stretta correlazione esistente tra i finanziamenti per l’Autorità palestinese e gli attacchi contro gli israeliani; ogni 1,25 milioni di euro in aiuti, come da Stotsky riportato sul grafico, si sono tradotti nell’uccisione di un israeliano l’anno.
Il grafico elaborato da Steven Stotsky nel 2007
correlava gli aiuti all’Autorità Palestinese e il numero di omicidi perpetrati dai palestinesi contro gli israeliani. |
Nonostante la perenne delusione, persiste la convinzione israeliana legata all’idea che la prosperità palestinese conduca alla conciliazione. Ovviamente, la vittoria non desta alcun interesse negli israeliani che sognano, per quanto tristemente, la magia dei nuovi modelli di automobili.
Le guerre finiscono, come mostra l’esperienza storica, non arricchendo il nemico, ma privandolo delle risorse, riducendo le sue capacità militari, demoralizzando i suoi sostenitori e incoraggiando le rivolte popolari. A tal fine, gli eserciti, nel corso degli anni, hanno tagliato le strade per i rifornimenti, costretto le città alla fame, stabilito blocchi e applicato embarghi. In questo spirito, se Israele avesse intrapreso una guerra economica trattenendo alla fonte il denaro dei contribuenti, negando l’accesso ai lavoratori e interrompendo le vendite di acqua, cibo, medicine ed elettricità, le sue azioni avrebbero portato alla vittoria.
Quanto all’argomento secondo cui la rovina economica palestinese porta a più violenza, beh, è una fandonia. Solo le persone che sperano ancora di vincere continuano con la violenza; coloro che hanno perso si arrendono, si leccano le ferite e cominciano a ricostruire intorno ai loro fallimenti. Si pensi all’America del Sud nel 1865, al Giappone nel 1945 e agli Stati Uniti nel 1975.
La determinazione palestinese
Alcuni osservatori sostengono che la resilienza (sumud) palestinese sia troppo vivace per una vittoria israeliana. In una lettera dell’aprile 2017 indirizzata al sottoscritto, lo storico Martin Kramer spiegava così questa visione:
Nel 1948, metà della popolazione palestinese (700 mila) fuggì. Ogni centimetro della Palestina fu perso nel 1967, quando altri 250mila palestinesi fuggirono. Il loro movimento di “liberazione” fu successivamente guidato da una forza schiacciante dalla Giordania e dal Libano. Secondo i palestinesi, gli israeliani uccisero il loro leader-eroe, Arafat. Tuttavia, nulla di tutto questo li ha persuasi del fatto che loro sconfitta fosse definitiva. In questa luce, non so come le misure relativamente modeste che Israele può prendere in tempo di pace potrebbero convincerli che hanno perso.
Se i palestinesi hanno sopportato un secolo di batoste, come afferma questa linea di pensiero, sono in grado di assorbire tutto ciò che ora Israele offre loro. Qualunque sia la ragione – la fede islamica; l’influenza duratura di Amin al-Husseini; l’unica rete di sostegno globale – questa straordinaria forza d’animo indica che la determinazione palestinese non si spezzerà.
La risposta a questo? Israele era sulla buona strada per la vittoria fra il 1948 e il 1993, ma poi i disastrosi accordi di Oslo lo fecero deragliare. La determinazione palestinese fu distrutta nel 1993, in seguito al crollo sovietico e alla sconfitta di Saddam Hussein, quando Arafat strinse la mano del primo ministro israeliano e riconobbe Israele.
Poi, anziché basarsi su questa vittoria, gli israeliani procedettero al ritiro unilaterale dal territorio (Gaza-Gerico nel 1994, Aree A e B della Cisgiordania nel 1995, Libano nel 2000 e Gaza nel 2005), e questo fece credere ai palestinesi di aver vinto. Dopo questi ritiri, nel 2007, Gerusalemme abbandonò qualsiasi piano a lungo termine e affrontò i problemi più impellenti. Qual è, dunque, l’attuale obiettivo di Israele per Gaza? Non ne ha nessuno.
Pertanto, la storia israeliana si divide in 45 anni volti a puntare alla vittoria e 25 anni di confusione. Ritornare all’obiettivo della vittoria rimedierà a quegli errori.
Il senso di colpa ebraico
Essendo i più perseguitati della storia – vittime di persecuzioni religiose, razzismo, pogrom e dell’Olocausto – gli ebrei hanno sviluppato un forte senso della moralità. La prospettiva di costringere i palestinesi a sopportare l’amaro crogiolo della sconfitta è un’idea che la maggior parte degli ebrei israeliani e dei loro sostenitori nella Diaspora sono restii a mettere in atto. Prevalentemente, gli ebrei preferirebbero usare la carota anziché il bastone, la ragione e non la coercizione.
Questo aiuta a spiegare perché, durante la guerra tra Hamas e Israele del 2014, la società elettrica israeliana inviò dei tecnici per riparare i cavi elettrici che furono distrutti a Gaza da un razzo lanciato da Hamas, mettendo a rischio la vita dei propri dipendenti.
Allo stesso modo, quando la situazione economica di Gaza è peggiorata all’inizio del 2018, ci si immaginava che gli ebrei israeliani, oggetto delle intenzioni omicide di Hamas, fossero indifferenti o persino compiaciuti dei problemi dei loro nemici. Ma non è stato così. Come recita un titolo: “Mentre Gaza è prossima alla ‘carestia’, Israele, e non il mondo intero, sembra più preoccupato”. In parte, ciò è dovuto a motivi pratici – perché Israele si preoccupa del prezzo che pagherebbe per un collasso economico a Gaza – ma questo ha anche una dimensione morale: i prosperi ebrei di Israele non possono stare a guardare mentre i loro vicini, per quanto ostili, affondano nella melma.
Anche mesi dopo, quando Hamas ha messo a punto il lancio degli aquiloni incendiari e l’esercito israeliano non ha fermato questo attacco, Gadi Eizenkot, capo di stato maggiore dell’Idf, le Forze di difesa israeliane, ha spiegato per quale motivo ciò non sia accaduto, in uno scambio di opinioni con il ministro dell’Istruzione Naftali Bennett, nel corso di una riunione di gabinetto a porte chiuse.
Bennett: Perché non sparare a chi maneggia armi utilizzate per via aerea [palloncini e aquiloni incendiari inclusi] contro le nostre comunità? Non ci sono vincoli legali. Perché non sparargli invece di sparare colpi di avvertimento? Stiamo parlando di terroristi da ogni punto di vista.
Eizenkot: Non penso che sparare a bambini e ragazzi che a volte fanno volare i palloncini e gli aquiloni sia la cosa giusta da fare.
Bennett: E che dire di quelli chiaramente identificati come adulti?
Eizenkot: Proponi da sganciare una bomba su persone che fanno volare palloncini e aquiloni?
Bennett: Sì.
Eizenkot: Questo è contrario alla mia posizione operativa e morale.
Tale “posizione morale” ovviamente ostacola la vittoria.
Tuttavia, mentre le tendenze di voto e i dati dei sondaggi elettorali indicano che questa posizione rimane ferma come sempre tra gli ebrei della Diaspora, soprattutto negli Stati Uniti, gli ebrei israeliani sono diventati più forti e resistenti. Quando le dolorose concessioni fatte ai palestinesi non hanno portato benefici, ma violenza, molti ebrei israeliani hanno perso le speranze nell’approccio delicato ed erano pronti a imporre la loro volontà ai palestinesi attraverso misure approssimative. L’osservazione di Eizenkot ha destato furore. Un recente sondaggio ha mostrato che il 58 per cento degli ebrei israeliani concorda sul fatto che “sarà possibile raggiungere un accordo di pace con i palestinesi, quando questi ultimi riconosceranno di aver perso la loro guerra contro Israele”.
La riluttanza dei servizi di sicurezza
Coesistono due apparati di sicurezza israeliani: uno che combatte per ottenere la vittoria sull’Iran e altri nemici lontani; e uno difensivo, in stile polizia, che si occupa dei palestinesi. Il primo punta alla vittoria, il secondo a mantenere la calma. È Entebbe contro Jenin. È sottrarre l’archivio nucleare dell’Iran contro il lasciare che coloro che lanciano aquiloni incendiari esercitino il loro mestiere.
L’apparato di sicurezza di tipo difensivo conta enormemente perché spesso ha l’ultima parola sulla politica palestinese, come mostrato dall’episodio avvenuto sul Monte del Tempio del luglio 2017. Dopo che i jihadisti palestinesi avevano ucciso due poliziotti israeliani con le armi nascoste nella sacra spianata, il governo israeliano installò dei metal detector all’ingresso del Monte del Tempio, una decisione apparentemente indiscutibile. Ma Fatah chiese la loro rimozione e nonostante la popolazione e i politici israeliani desiderassero nella stragrande maggioranza che questi dispositivi rimanessero posizionati, essi scomparvero rapidamente perché l’apparato di sicurezza – compresi la polizia
Continua qui: http://it.danielpipes.org/18563/perche-gli-israeliani-evitano-la-vittoria
Il rischio di mettere l’Iran con le spalle al muro
8 novembre 2018 – di Gianandrea Gaiani
“Siamo in una situazione di guerra economica. Non penso che nella storia americana ci sia mai stato qualcuno alla Casa Bianca che abbia violato a tal punto il diritto e le convenzioni internazionali”. Lo ha detto lunedì il presidente iraniano Hassan Rohani nel giorno della reintroduzione delle sanzioni contro l’Iran da parte degli Usa.
“Aggireremo queste sanzioni illegali e ingiuste con fierezza”, ha aggiunto commentando le misure varate da Washington ed entrate in vigore alla mezzanotte tra domenica e lunedì, alla vigilia delle elezioni di metà mandato in Usa.
Un’iniziativa che di fatto azzera il processo distensivo iniziato con l’accordo internazionale sul nucleare iraniano del luglio del 2015 e che Teheran non risulta aver mai violato.
Donald Trump continua dunque per la sua strada utilizzando durissime sanzioni economiche con l’obiettivo evidente non solo di colpire la già fragile economia iraniana ma di favorire un “regime-change” a Teheran.
Washington lancia inoltre un ultimatum agli Stati più coinvolti negli scambi commerciali con l’Iran e nell’acquisto di greggio e gas iraniano dando loro sei mesi per chiudere ogni relazione economica con Teheran.
Infatti l’amministrazione Trump ha esentato temporaneamente dalle sanzioni 8 Stati (Italia, Cina, India, Grecia, Turchia, Giappone, Corea del Sud e Taiwan) ma solo per sei mesi.
Per questo è difficile comprendere il senso dei commenti entusiastici di molti osservatori italiani che vedono il “bicchiere mezzo pieno” con l’esenzione temporanea dalle sanzioni alle aziende italiane coinvolte in Iran ma sembrano non vedere il “bicchiere mezzo vuoto” rappresentato dal diktat di Washington che pretende di dettare al mondo la lista degli Stati con cui si può o meno commerciare.
Valutazione ben espressa da Parigi che contesta la pretesa di Washington di porre sanzioni (guarda caso sempre a Stati con cui gli Usa hanno scarsi o nulli rapporti commerciali) al di fuori del diritto internazionale.
Il segretario di Stato Mike Pompeo e il segretario al Tesoro Steve Mnuchin hanno confermato che chiunque commercerà petrolio con l’Iran o farà affari con le sue banche sarà a sua volta oggetto di sanzioni Usa: le società straniere coinvolte potranno essere multate ma anche escluse dal sistema finanziario Usa.
Un enorme deterrente quest’ultimo, visto che le società che operano su scala globale hanno la necessità di svolgere le proprie transazioni in dollari. Pretese che violano in modo palese il diritto internazionale e la sovranità degli Stati.
Solidarietà a Teheran è giunta dalla Turchia. Le sanzioni imposte dagli Stati Uniti all’ Iran “mirano a distruggere l’equilibrio mondiale”. Così il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, in un discorso ai deputati del suo Akp ad Ankara. Queste misure, ha aggiunto, “sono contrarie al diritto internazionale e alla diplomazia. Noi non vogliamo vivere in un mondo imperialista”.
Israele invece festeggia l’iniziativa di Trump mentre poco peso sembra venire attribuito alla notizia che Teheran ha messo in allarme le forze armate e terrà una grande esercitazione militare interforze.
Mettere con le spalle al muro l’Iran e il suo regime non solo rischia di indurlo a continuare a perseguire il suo programma nucleare militare ma potrebbe spingerlo ad attuare altre rappresaglie. Al tempo stesso il poderoso strumento di controllo della sicurezza interna potrebbe contenere fino a un certo livello moti e proteste mentre gli esperti di sicurezza americani temono che gli hacker al servizio dell’Iran si stiano preparando ad attaccare per rappresaglia le compagnie petrolifere occidentali e delle monarchie sunnite del Golfo. Attracchi cyber simili a quelli che colpirono la saudita Aramco nel 2012c e 2016
Ma non si possono escludere neppure azioni più eclatanti come la chiusura “manu militari” dello Stretto di Hormuz, arteria vitale per l’export petrolifero del Golfo Persico.
Ipotesi finora improbabile finora ma resa oggi plausibile dalla consapevolezza sempre più diffusa a Teheran che il regime iraniano si gioca il tutto per tutto e un conflitto aperto con i sauditi e gli altri allearti degli USA nella Penisola Arabica potrebbe avere conseguenze difficilmente valutabili considerando gli ampi arsenali disponibili su ambo i lati del Golfo Persico.
Di certo provocherebbe un brusco rialzo del prezzo del greggio e delle possibilità di approvvigionamento per molti Stati: uno scenario apocalittico per mezzo mondo ma che non metterebbe certo in difficoltà gli Stati Uniti che ormai esportano petrolio a ritmi superiori a quelli del Kuwait.
Meglio ricordare, in una prospettiva storica, che il Giappone strangolato dalle sanzioni si vide costretto a muovere guerra agli Usa e alle potenze europee nel dicembre 1941 o che la morsa della grave crisi economica fu tra i fattori chiave che
Continua qui: https://www.analisidifesa.it/2018/11/il-rischio-delliran-con-le-spalle-al-muro/
CULTURA
Frankenstein ci insegna che i mostri siamo noi
Compie 200 anni il primo libro di fantascienza della storia. Fu scritto da una ragazza prodigiosa di soli 19 anni: Mary Shelley
Daniele Zaccaria 22 Settembre 2018
Un’estate fredda e piovosa, quella del 1816, un gruppo di amici in vacanza sul lago di Ginevra. La sera bevono vino rosso, flirtano, scherzano e discutono; di poesia, di scienza, di letteratura, del futuro, il loro gioco preferito è un concorso letterario in cui ti devi inventare storie di fantasmi, racconti estemporanei costruiti sulla falsariga del romanzo gotico, genere snobbato dalla critica letteraria dell’epoca. Ci vuole immaginazione e rapidità di pensiero, la più brava di tutti è Mary, che è anche la più giovane, 19 anni e un talento mostruoso. È figlia della filosofa femminista Mary Wollstonecraft e del romanziere e giornalista William Godwin, il gusto letterario, l’amore per le scienze, un clima di sferzante anticonformismo accompagnano tutta la sua infanzia. Con lei a Ginevra ci sono i poeti George Byron e Percy Shelley che presto diventerà suo marito, il medico e aspirante scrittore John Polidori che nel 1819 pubblicherà Il Vampiro, primo romanzo della letteratura moderna dedicato al celebre succhiasangue. Ogni tanto viene a trovarli il fisico e chimico Humphry Davy, pioniere nello studio dei fenomeni elettrici, scopritore e mentore del grande Michael Faraday, a sua volta pioniere dell’elettromagnetismo.
È in quelle eccentriche notti a Villa Diodati tra fumi dell’alcol e i lampi di genio che Mary Shelley concepisce il suo Frankenstein, che non è solo un libro fantasy ma il primo grande romanzo di fantascienza.
Il mostro, anzi la Creatura non è il frutto di un sortilegio, non è il prodotto di oscure forze del male o di astruse stregonerie, al contrario è figlio della ricerca scientifica, nasce in laboratorio, il suo fattore è un essere umano, la scintilla della vita è un “fluido galvanico” che rianima le fibre morte di carni ricucite, come il medico italiano Galvani faceva contrarre i muscoli dei cadaveri di rana, Viktor Frankenstein, professore di filosofia naturale, crea un essere umano dotato di coscienza, capace di provare sentimenti estremi come la paura e l’odio e di consumare una tremenda vendetta nei confronti del “padre”.
Nella sua prefazione Mary Shelley rende omaggio alle esperienze di Galvani, ai lavori di Benjamin Franklin, alle ricerche poco note di un anatomista chiamato George von Frakenau che sosteneva la tesi della rigenerazione spontanea della materia inerte. Aderisce al meccanicismo filosofico che utilizza la metafora della macchina come schema di spiegazione dei fenomeni naturali. Studi di sapienti e accademici che legge con passione, per accrescere la sua cultura personale ma soprattutto per trarre ispirazione letteraria.
Viktor Frankenstein non è ancora un uomo di scienza a tutto tondo, vive in bilico tra esoterismo e ragione, cerca suggestioni anche nel mondo della magia e dell’alchimia, ha letto i libri di Cornelius Agrippa, un occultista del Rinascimento, si entusiasma per gli scritti di Paracelso e rimprovera ai suoi colleghi di condurre studi banali e privi di coraggio. Ma è anche il miglior studente di anatomia e fisiologia alla prestigiosa Università di Ingolstadt e il più innovativo ricercatore dell’epoca; ammira la magìa per la sua sfrontatezza, per le biografie “storte” dei suoi fautori, ma realizzerà il sogno di penetrare il segreto della vita seguendo il metodo scientifico. Il flusso elettrico che attraversa e anima le carni morte ha la stessa intensità dei Lumi della ragione che brillavano in Europa.
Il tragico corso di eventi che nasce dal rifiuto della Creatura le cui sembianze abnormi provocano estremo ribrezzo in Viktor, non è un monito moralista rivolto alla superbia degli scienziati che osano “sostituirsi a Dio” come hanno scritto in molti. La malvagità della Creatura è la reazione a una società che non ha la forza e la maturità di accettare il diverso, il difforme, e che lo emargina rendendolo un mostro incattivito. La vendetta feroce della Creatura che uccide il fratello e la moglie del suo creatore è in fondo una reazione umanissima di un uomo odiato da tutti a causa del suo aspetto esteriore. In questo Viktor Frankenstein ha avuto un successo perfetto, ha creato un essere umano con tutte le sue debolezze e imperfezioni, con il suo bisogno di amore e la sua sete di rivalsa.
Eppure nel corso dei secoli l’immagine della Creatura, confusa con il nome del suo creatore, ha subito una progressiva “mostrificazione” rappresentata poi nel cinema dal colosso con la testa quadrata cosparso di cicatrici, tutto grugniti e movenze robotiche, un figuro bestiale e repellente privo di intelligenza e senso morale. Andando nei dettagli Mary Shelley non descrive la sagoma espressionista di Boris Karlov che tanta fortuna ha avuto nell’immaginario collettivo, ma un uomo affetto da gigantismo e dall’aspetto molto sgradevole, nulla di più. Una creatura intelligente, che impara a leggere e a scrivere, che capisce i sentimenti degli umani e si allontana da loro per sopravvivere fino al tragico suicidio quando si dà fuoco tra i ghiacci dell’Artico.
Ma noi continuiamo a immaginarlo e a rappresentarlo come “Frankenstein il mostro”, una specie di zombie formato gigante. Perché questo slittamento?
I mostri in fondo ci rassicurano perché sono corpi estranei. Eccezioni alla regola, anomalie selvagge che non appartengono all’umano. Presenze minacciose, certo, ma soprattutto entità aliene e reiette dalla comunità. Le sembianze ibride e deformi fungono da segni visibili delle sventure di cui il mostro è portatore, mentre le sue mille metamorfosi seguono il corso dell’immaginario popolare in modo che ogni epoca sia in grado di partorire e di specchiarsi nei suoi peculiari mostri.
Le società hanno un bisogno disperato di fabbricarli proprio perché, strappano l’orrore dalla sua dimensione anodina e quotidiana per assegnarlo al cliché dello straordinario, le loro incursioni nel mondo reale sono tanto spaventose quanto effimere. Nominato, isolato, eliminato il mostro, tutto sembra tornare nella norma.
Nell’antichità il terrore e il ribrezzo suscitati dai mostri sono spesso associati allo stupore, alla contemplazione dei portenti e delle mirabilia di cui queste creature sono capaci, dei fantasmagorici poteri che sovvertono le leggi della fisica e della natura come l’invisibilità, l’invulnerabilità o addirittura l’immortalità. Se non proprio epifanie diaboliche i mostri sono la faccia oscura del
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La lingua impossibile del manoscritto Voynich, il più misterioso del mondo
8 Novembre 2018 di Riccardo De Pal
Se esiste un antico codice minato che sembra scaturito dalla fantasia di Jorge Luis Borges, questo è il manoscritto Voynich. Gremito di illustrazioni arcane e scritto in una lingua misteriosa, ha fatto impazzire centinaia di studiosi, da quando è stato presentato al pubblico, nel 1912, da un commerciante polacco di libri rari, Wilfrid Woynich. Il libro faceva parte della collezione di un enigmatico personaggio della Roma del Seicento, Athanasius Kircher, studioso dagli interessi vastissimi, che spaziavano dai geroglifici egiziani alla microbiologia. L’antiquario ne era venuto in possesso tramite la Compagnia di Gesù: il manoscritto era tra i volumi del Collegio Romano, e provenivano da Villa Mondragone, nei pressi di Frascati. Woynich ne era affascinato, e non se ne separò mai; ma sembrava più interessato alla sua storia, piuttosto che a decifrarne il contenuto.
Dapprima si pensò che il manoscritto provenisse dalla collezione di John Dee, mitico mago al servizio di Elisabetta I, e che fosse opera del filosofo Ruggero Bacone; oppure che fosse frutto del suo amico, abile falsario, Edward Kelley. Ma le ipotesi, seppure affascinanti, si rivelarono prive di fondamento. Le prime tracce documentate di questo libro di dimensioni modeste, dipinto su pergamena fatta di pelle di capra, 16 cm per 22 di altezza, per un totale di 204 pagine (ora pubblicato in edizione integrale da Bompiani, con tanto di riepilogo delle ricerche sul tema, a cura di Stephen Skinner, Rafal T. Prinke e René Zabdbergen), arrivano da Praga, da una lettera scritta da Johannes Marcus Marci all’amico Kircher, il 19 agosto del 1665. Marci era professore di medicina all’Università Carolina del regno di Boemia e medico personale di ben due imperatori del Sacro romano impero. Non era un ciarlatano: nel 1667 fu riconosciuto membro della Royal Society di Londra, per i suoi meriti scientifici; la rifrazione dei colori l’aveva scoperta lui, una ventina di anni prima di Isaac Newton.
Nella lettera lo studioso scriveva all’amico esperto in decrittazione di lingue perdute, nonché fondatore delle moderne egittologia e sinologia, di volergli consegnare il manoscritto, perché questo «non poteva essere letto da nessun altro al mondo»; soltanto Kircher poteva «trovarne le chiavi d’accesso con la consueta facilità». La lettera (oggi conservata, assieme al manoscritto, presso la biblioteca Beinecke di Yale) non è apocrifa; nell’immenso corpus di lettere del gesuita, conservato negli archivi della Pontificia Università Gregoriana di Roma, si trovano diverse altre missive inviategli da Marci.
La lettera contiene altri dettagli: il libro sarebbe appartenuto all’imperatore Rodolfo, «che
Continua qui: https://www.ilmessaggero.it/spettacoli/cultura/lingua_impossibile_del_manoscritto_voynich_misterioso_mondo-4094033.html
ECONOMIA
La figuraccia di Veronica De Romanis
Pizzicata da Bagnai, l’economista toppa sul debito
VIDEO QUI: https://youtu.be/wdf8wpTZXIw
Se è stato un errore, è stato di gravità inaudita.
La signora ha sventolato dei fogli di pseudodati per screditare un senatore della Repubblica con l’acquiescenza di una conduttrice del servizio pubblico.
Atto di teppismo inaccettabile! #FlatTax
Veronica De Romanis @VeroDeRomanis
pensavo aver detto “aumentato” e invece ho detto “diminuito”, … l’ho capito rivendendo il video.
se legge il mio libro, ci sono tutti i dati.
Filippo Di Franco @fildifranco
Oltretutto con questo tweet qualunque dubbio sulla buona fede sparisce. Se
Continua qui: http://m.dagospia.com/video-la-figuraccia-di-veronica-de-romanis-pizzicata-da-bagnai-l-economista-toppa-sul-debito-175484
Il sacrificio della sovranità e la globalizzazione della povertà
31 ottobre 2018 ilariabifarini
Nigrizia, una delle principali riviste dedicate all’Africa e agli africani, segnala il mio libro “I coloni dell’austerity. Africa, neoliberismo e migrazioni di massa”, con una breve recensione.
Riporta la mia critica al neoliberismo che, attraverso il modello del debito, ha colonizzato il mondo
Continua qui: http://ilariabifarini.com/il-sacrificio-della-sovranita-e-la-globalizzazione-della-poverta/
FINANZA BANCHE ASSICURAZIONI
Una sciagura chiamata euro
24 ottobre 2018 ilariabifarini
A volte affermare l’ovvio per confutare l’assurdo non basta, così occorre farsi scudo di personaggi illustri, la cui autorevolezza viene universalmente riconosciuta. E’ quello che farò in questo sintetico pezzo, citando l’economista premio Nobel Joseph Stiglitz. In verità egli non amerebbe prestare il fianco alla “causa sovranista”: il suo credo democratico e progressista è così radicato che, di fronte alle assurdità delle politiche di austerity sposate dalle UE -da lui denunciate più volte e senza mezzi termini- preferisce pensare che si tratti di un metodo congegnato per decretare il fallimento delle sinistre e l’ascesa dei partiti nazionalisti di destra nel Vecchio Continente.
Dunque mi limiterò a riportare alcune citazioni della sua opera massima sul tema della moneta unica e del fallimento delle attuali politiche europee, “L’EURO, Come una moneta unica minaccia il futuro dell’Europa” (Einaudi, 2017).
La sua posizione è già chiara dalla prefazione:
“L’euro è una costruzione dell’uomo. I suoi contorni non sono il risultato di leggi di natura ineluttabile. Gli accordi monetari europei si possono rimodulare; se necessario, si potrà addirittura lasciar perdere l’euro. In Europa come altrove, possiamo resettare la bussola, riscrivere le regole dell’economia del governo, arrivare a una prosperità maggiormente condivisa, con una democrazia più forte e una maggiore coesione sociale.”
E ancora:
“L’agenda economica neoliberista non è riuscita a migliorare i tassi di crescita, ma una cosa è certa: è riuscita a far aumentare la disuguaglianza. L’euro ci fornisce un case study dettagliato di come si è arrivati a questo.”
Infatti:
“Mentre numerosi sono i fattori che contribuiscono alle traversie dell’Europa, l’errore alla base di tutto è uno solo: la creazione dell’euro come moneta unica”.
Come se non bastasse:
“Ma a volte la realtà ci trasmette messaggi dolorosi: il sistema dell’euro non funziona e il prezzo da pagare, se non vi si porrà rimedio, sarà altissimo”
Sul tema delle politiche neoliberiste messe in atto in Europa e sulle sciagurate misure di austerity che hanno devastato la Grecia, Stiglitz afferma categorico:
“Il mondo ha pagato a caro prezzo la devozione a questa sorta di religione neoliberista, e ora tocca all’Europa.”
“Sempre e dovunque nel mondo, il rigore ha avuto gli effetti controproducenti osservati in Europa: quanto più severa è l’austerità tanto maggiore è la contrazione economica. Resta un mistero capire perché la Troika abbia potuto pensare che questa volta, in Europa, le cose sarebbero andate diversamente.”
Postfazione
L’economista illustra tutte le aporie della costruzione della moneta unica europea e come essa sia stata la causa del divario crescente tra Paesi “forti” e “deboli” al suo interno, nonché dell’impossibilità di questi ultimi di uscire dalla crisi del 2008, tanto da affermare che “la crisi dell’euro l’ha creata l’euro”.
La costituzione dell’Eurozona è basata infatti sul credo neoliberista, una visione eccessivamente semplicistica di come funziona l’economia, che non prevede la flessibilità necessaria per rispondere al modificarsi delle contingenze e non recepisce alcuna nuova acquisizione della scienza economica. La fallimentarietà di tale teoria è comprovata: si tratta dello stesso modello applicato dal Fondo monetario internazionale nel Terzo mondo che, imponendo la riduzione dei deficit nazionali, ha trasformato la crisi in
Continua qui: http://ilariabifarini.com/una-sciagura-chiamata-euro/?fbclid=IwAR0oHB668S9B4PgE6aL5-91j8FpgnThAkNQCfBfjb38wmh3HRqpzmaRc9YE
GIUSTIZIA E NORME
Carabiniere muore per catturarli. Ma uno dei ladri è subito libero
Emanuele investito dal treno durante l’inseguimento: uno dei ladri già libero, gli altri due ai domiciliari. Ira del papà: “Sacrificio inutile”
Giuseppe De Lorenzo – 08/11/2018
Si chiamava Emanuele. Emanuele Reali, carabiniere. Eroe? Forse. Di sicuro una delle tante, troppe vittime di uno Stato che elogia i suoi militi e poi sembra sfregiarne la memoria.
Emanuele indossava una divisa e voleva portare a termine il suo compito: catturare i banditi. Lo ha fatto sprezzante del pericolo, senza badare a quel treno che sfrecciava sui binari. Troppa foga? Forse. Troppa dedizione al Paese? Sicuramente. Emanuele è morto per un innato senso del dovere: un treno lo ha schiacciato mentre rincorreva un bandito sfuggito alla cattura. Era sera, la visibilità bassa. È spirato sul colpo.
“Non avrà strade né piazze – scriveva ieri l’Arma nel post di commiato – perché è ‘solo’ l’ennesima vittima di una guerra combattuta tutti i giorni, quella silenziosa contro il crimine. E perché il suo nome a breve non lo ricorderà nessuno. Per noi però Emanuele Reali, Vice Brigadiere dei Carabinieri, sarà eternamente giovane e bello. Sarà per sempre un eroe”.
Trentaquattro anni, una moglie e due figli. Lascia anche il padre in lacrime e una madre inconsolabile. “Gli dicevo sempre di stare attento”, ripete il babbo senza darsi pace. Ma i generosi son fatti così: sono pronti a tutto pur di portare a termine una missione.
Ecco, la missione. Emanuele stava partecipando ad un’operazione dei carabinieri di Caserta contro un gruppo di ladri di appartamento. Ne avevano già catturati due all’interno del parco La Selva subito dopo un furto. In auto sono stati trovati due radio trasmittenti complete di auricolari, una valigia contenente arnesi da scasso, un marsupio con una pistola giocattolo, due
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Sergio Mattarella, i dubbi del Colle sulla prescrizione: l’ipotesi della mossa estrema
www.liberoquotidiano.it – 9 novembre 2018
L’accordo raggiunto nel governo sulla prescrizione dopo il vertice tra leghisti e grillini potrebbe avere il respiro cortissimo. Già arrivare a quell’accordo è stato un massacro di nervi per i due vicepremier Matteo Salvini e Luigi Di Maio. I segni di quelle tensioni sono ancora vivi sulla pelle degli ambasciatori che hanno portato avanti la trattativa, le ritorsioni sull’iter dell’emendamento frutto dell’accordo saranno all’ordine del giorno.
E poi c’è l’incognita del Quirinale. Già il premier Giuseppe Conte si era allarmato quando ha visto che
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PANORAMA INTERNAZIONALE
Libia, sgambetto di Merkel e Macron: ma Usa e Russia sostengono l’Italia
8 novembre 2018 – Mauro Indelicato
Mentre a Palermo si ripuliscono le strade dopo il maltempo e la città inizia a prepararsi per diventare, per due giorni, epicentro della politica mediterranea, a Roma proseguono i preparativi di natura prettamente politica. E non mancano certamente le tensioni. A Palazzo Chigi tutto è in fermento, molto più che a Villa Igiea, lo splendido scorcio sul mar Tirreno dove si terrà la conferenza in Sicilia. Il presidente del consiglio ha il suo bel da fare al momento, questo perché non è certo semplice poter unire al meglio tutti i pezzi dell’intricato mosaico inerente la conferenza sulla Libia. Ed il tutto poi, tra le altre cose, mentre il governo affronta alcuni punti ed alcune tematiche interne in grado di creare tensione nella maggioranza. Fonti di palazzo Chigi affermano che al momento ogni occasione è utile per parlare con i principali protagonisti dell’esecutivo della conferenza in Libia. Anche in riunioni fissate per discutere sulla prescrizione o sulla manovra, diventano possibilità per trattare i dettagli del summit siciliano.
Mercoledì sera, si legge su La Stampa, si è svolto poi un vertice ad hoc sulla conferenza di Palermo. E qui sono arrivate alcune notizie che di certo non permettono sonni tranquilli a quattro giorni dall’apertura dei lavori. Tra tutte, l’annunciato forfait di Emmanuel Macron e quello, molto più clamoroso, di Angela Merkel.
La Francia prova ad isolare l’Italia e trascina la Germania
Che il rappresentante dell’Eliseo difficilmente potesse accettare l’idea di prendere un aereo per Palermo per assistere ad una passerella tra attori libici voluta dall’Italia, è chiaro da diverso tempo. Per Macron, che da quando si è insediato prova in tutti i modi a ritagliarsi sempre più spazio in Libia a scapito di Roma, vedere il fedele generale Haftar stringere la mano ad Al Serraj con sullo sfondo una bandiera italiana non deve essere certo un qualcosa di facilmente digeribile. E questo sia sotto il profilo politico che, probabilmente, anche personale. Dunque è già da quando il governo ha annunciato date e sede della conferenza che, da Roma, si prende in considerazione l’idea dell’assenza del presidente francese. Mal si digerisce però, specialmente dalle parti della Farnesina, l’azione che lo stesso Macron sta compiendo in questi giorni sul dossier libico. All’Eliseo giovedì pomeriggio arriveranno alcuni rappresentanti di Misurata, mentre è proprio di mercoledì la notizia che la presidenza francese ha invitato a Parigi il presidente tunisino per un bilaterale. La data scelta per questo incontro, manco a dirlo, è quella di lunedì 12 novembre e quindi giorno dell’inizio della conferenza di Palermo.
Tentativi palesi dunque non solo di portare dalla propria parte attori libici e dei Paesi vicini in vista del summit siciliano, ma anche di creare le condizioni per un ridimensionamento delle presenze a Palermo. Mosse che mirano, in poche parole, ad isolare l’Italia. La conferenza si farà a prescindere e, secondo quanto trapelato da Roma, per il premier Conte è già un successo portare Haftar ed Al Serraj a Palermo. Ma la Francia, proprio per questo, prova a giocare le ultime carte a sua disposizione per evitare che da villa Igiea possa uscir fuori una forte linea filo italiana a discapito di quella filo francese. E Macron, in tal senso, sembra aver trovato una sponda in Europa. Infatti, nonostante l’annuncio della sua presenza è stato tra i primi ad arrivare a Roma, a dare forfait è anche Angela Merkel. La cancelliera tedesca era data, fino a pochi giorni fa, sicura partecipante alla conferenza di Palermo. Dal vertice di mercoledì di Palazzo Chigi emerge invece il contrario. Da Berlino arriverà qualche rappresentante, ma non il capo dell’esecutivo. Francia e Germania, due Paesi europei di un certo peso, “bucheranno” l’appuntamento siciliano lasciando l’Italia isolata nel contesto del vecchio continente.
Usa e Russia “salvano” la diplomazia italiana
Isolata dunque in Europa, l’Italia certamente ha di che consolarsi. Gli Stati Uniti, sfumato il “sogno” di aver Trump, manderanno comunque un importante interlocutore che dovrebbe rispondere al nome del segretario di Stato Mike Pompeo. La Russia, dal canto suo, conferma l’appoggio all’Italia per l’organizzazione della conferenza. La situazione dal 24 ottobre scorso, da quando cioè Putin ha dato ampie rassicurazioni a Conte durante un incontro al Cremlino, non appare mutata. Da Mosca dovrebbe arrivare il primo ministro, Dmitri Medvedev. L’appoggio di Stati Uniti e Russia appare fondamentale e decisivo per dare un senso all’appuntamento di Palermo. Come già affermato in questi giorni, Washington e Mosca convergono su Roma per i propri reciproci interessi: gli Usa per quanto riguarda la sicurezza e la lotta al terrorismo, la Russia per motivi di natura geostrategica. Proprio il disco verde dato dal Cremlino a fine ottobre, ha anche convinto Haftar ad atterrare in Sicilia lunedì mattina. Dopo alcune incertezze, anche se non c’è ancora ufficialità, il generale avrebbe sciolto definitivamente la riserva dopo un viaggio lampo proprio a Mosca, avvenuto nelle scorse ore.
Rimasta senza appoggio europeo, l’Italia dunque si affida ad Usa e Russia. Da palazzo Chigi e dalla Farnesina sperano anche in un appoggio pubblico di Trump alla conferenza in risposta alle azioni francesi. Da Roma si fa affidamento anche
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I partiti civilizzazionisti europei
Non evitare i populisti europei: collaborare e imparare da loro
di Daniel Pipes
L’Informale
24 ottobre 2018
http://it.danielpipes.org/18562/i-partiti-civilizzazionisti-europei
Pezzo in lingua originale inglese: Europe’s Civilizationist Parties
Traduzioni di Angelita La Spada
L’Europa sta tornando agli orrori degli anni Trenta? In un’analisi, Max Holleran scrive su New Republic che “negli ultimi dieci anni, i nuovi movimenti politici di destra hanno assembrato coalizioni di neonazisti con i tradizionali conservatori fautori del libero mercato, normalizzando le ideologie politiche che in passato hanno a ragione destato allarme”. Holleran ritiene che questa tendenza stia causando un’ondata di “populismo xenofobo”. Sulle pagine di Politico, Katy O’Donnell concorda: “I partiti nazionalisti ora si sono insinuati ovunque dall’Italia alla Finlandia sollevando timori che il continente stia facendo marcia indietro verso il tipo di politiche che hanno portato alla catastrofe nella prima metà del XX secolo”. Leader ebraici come Menachem Margolin, a capo della Associazione ebraica europea, avvertono “una reale minaccia dai movimenti populisti in tutta Europa”.
La Germania e l’Austria, culle del nazionalsocialismo, destano ovviamente maggiori preoccupazioni, soprattutto dopo le elezioni del 2017, quando Alternativa per la Germania (AfD) prese il 13 per cento dei voti e il Partito della libertà austriaco (FPÖ) ne ottenne il 26 per cento. Felix Klein, commissario tedesco per la lotta all’antisemitismo, afferma che l’AfD “contribuisce a rendere nuovamente presentabile l’antisemitismo”. Oskar Deutsch, presidente della Comunità ebraica austriaca, sostiene che il FPÖ “non ha mai preso le distanze” dal suo passato nazista.
Sarà poi vero? Oppure questa insurrezione riflette una sana reazione da parte degli europei per proteggere il loro modo di vivere dall’immigrazione libera e dall’islamizzazione?
Innanzitutto, come si può definire il fenomeno in discussione? I partiti in questione tendono a essere considerati di estrema destra, ma ciò è inaccurato, poiché essi offrono una combinazione di politiche di destra (incentrate sulla cultura) e di sinistra (focalizzate sull’economia). Ad esempio, in Francia, il Rassemblement National (l’ex Front National, N.d.T.) attira il sostegno della sinistra invocando la nazionalizzazione delle banche del paese. In effetti, gli ex comunisti costituiscono un elemento fondamentale del sostegno: Hénin-Beaumont, che ora è tra le città francesi più favorevoli al Rassemblement National, in passato era fra le più comuniste.
Un manifesto elettorale
dell’AfD nel 2017 recita: “Burqa? Noi preferiamo il bikini”. |
Charles Hawley di Der Spiegel afferma che “tutti questi partiti sono, di base, nazionalisti“, ma questo è storicamente sbagliato. Sono patriottici e non nazionalisti; sono difensori e non aggressivi. Tifano per le squadre di calcio e non per le vittorie militari. Apprezzano le usanze britanniche, ma non l’impero britannico; il bikini, ma non il lignaggio tedesco. Non rimpiangono gli imperi né rivendicano la superiorità nazionale. Il nazionalismo tradizionalmente concerne potere, ricchezza e gloria e questi partiti puntano sulle usanze, sulle tradizioni e sulla cultura. Anche se definiti neofascisti o neonazisti, tali partiti considerano fondamentali la libertà personale e la cultura tradizionale; concetti come “Un Popolo, Una Nazione, Un Leader” esercitano uno scarso potere di attrazione.
Meglio definirli “civilizzazionisti”, concentrandosi sulla loro priorità culturale, perché provano una grande frustrazione nel vedere sparire il loro modo di vivere. Amano la cultura tradizionale dell’Europa e dell’Occidente e vogliono difenderla dall’assalto dei migranti aiutati dalla sinistra. (Il termine “civilizzazionista” ha l’ulteriore vantaggio di escludere quei partiti che odiano la civiltà occidentale, come il partito neonazista greco Alba Dorata.)
La donna ammonita da
Angela Merkel ha detto di recarsi in chiesa molto spesso. |
I partiti civilizzazionisti sono populisti, contrari all’immigrazione e all’islamizzazione. Essere populisti significa nutrire risentimento verso il sistema e sospetti verso una élite che ignora o denigra tali preoccupazioni. L’élite è costituita dalle cosiddette 6P: polizia, politici, preti, stampa [press], procuratori e professori universitari. Al culmine dello tsunami migranti nel 2015, la cancelliera tedesca Angela Merkel rispose a una elettrice preoccupata per la migrazione incontrollata con un tipico biasimo riguardo alle colpe dell’Europa e con un consiglio spocchioso su una più frequente partecipazione alle funzioni religiose in chiesa. Dimitris Avramopoulos, il commissario europeo per la Migrazione, ha categoricamente annunciato che l’Europa “non può e non sarà mai capace di fermare la migrazione” e ha continuato a dare lezioni ai suoi concittadini dicendo: “È ingenuo pensare che le nostre società resteranno omogenee e senza migranti se si costruiscono barriere (…) tutti dobbiamo essere pronti ad accettare la migrazione, la mobilità e la diversità come la nuova norma”.
L’ex premier svedese Fredrik Reinfeldt si è detto favorevole ad accogliere più migranti: “Spesso sorvolo la campagna svedese e consiglierei agli altri di farlo. Ci sono campi e foreste sterminati, c’è più spazio di quanto si possa immaginare”.
utti e tre questi leader politici europei sono considerati conservatori. Altri, come il francese Nicolas Sarkozy, e il britannico David Cameron hanno assunto toni decisi, adottando però una linea di governo morbida. Il loro sprezzante rifiuto dei sentimenti ha creato una opportunità per i partiti civilizzazionisti in gran parte dell’Europa. Dal venerabile FPÖ (fondato nel 1956) al neonato Forum per la Democrazia nei Paesi Bassi (fondato nel 2016), essi colmano un vuoto elettorale e sociale.
I partiti civilizzazionisti, guidati dalla Lega italiana, sono contrari all’immigrazione, cercando di controllare, ridurre e persino invertire l’immigrazione degli ultimi decenni, in particolare quella di musulmani e africani. Questi due gruppi si distinguono non a causa del pregiudizio (“l’islamofobia” o il razzismo), ma per il fatto che sono meno assimilabili degli stranieri per una serie di problemi a essi associati, come l’attività lavorativa e criminale e per timore che essi imporranno la loro visione all’Europa.
Infine, questi partiti sono contrari all’islamizzazione. Man mano che gli europei imparano a conoscere la legge islamica (la Shari’a) focalizzano sempre più l’attenzione sul suo ruolo rispetto alle questioni riguardanti le donne, come l’uso del niqab e del burqa, la poligamia, i taharrush (gli assalti sessuali di massa), i delitti d’onore e le mutilazioni genitali femminili. Altri motivi di preoccupazione riguardano l’atteggiamento dei musulmani nei confronti dei non musulmani, tra cui la cristofobia e la giudeofobia, la violenza jihadista e l’insistenza con cui si sottolinea che l’Islam gode di uno status privilegiato nei confronti delle altre religioni.
I musulmani formano una membrana geografica intorno all’Europa, dal Senegal al Marocco, all’Egitto, alla Turchia, alla Cecenia, consentendo con relativa facilità a un elevato numero di potenziali migranti di entrare illegalmente nel continente via mare o terra. Il continente è a 75 km dall’Albania all’Italia; a 60 km dalla Tunisia all’Italia (alla piccola isola di Pantelleria); a 14 km attraverso lo Stretto di Gibilterra dal Marocco alla Spagna; a 1,6 km dall’Anatolia all’isola greca di Samo; a meno di 100 m attraverso il fiume Evros dalla Turchia alla Grecia e a 10 m dal Marocco alle enclave spagnole di Ceuta e Melilla.
Un numero crescente di aspiranti migranti si aggira intorno ai punti di accesso al continente, in alcuni casi ricorrendo alla violenza per entrare.
Nel 2015, Johannes Hahn, commissario europeo per l’Allargamento, stimava che “alle porte dell’Europa ci sono 20 milioni di rifugiati”. Potrebbe sembrare un gran numero, ma se a questa cifra si aggiungono i migranti economici, i numeri aumentano ancora di più; e tenuto conto del fatto che la penuria d’acqua spinge gli abitanti del Medio Oriente a lasciare i loro paesi d’origine, il numero degli aspiranti migranti potrebbe iniziare ad avvicinarsi a quello della popolazione europea di 740 milioni di abitanti.
Quasi senza alcuna eccezione, i partiti civilizzazionisti sono afflitti da gravi problemi. Composti principalmente da neofiti, annoverano un numero allarmante di personaggi stravaganti: estremisti antiebraici e antimusulmani, razzisti, svitati assetati di potere, cospirazionisti, revisionisti storici e nostalgici nazisti. Autocrati gestiscono i loro partiti in modo antidemocratico e cercano di dominare i parlamenti, i media, i sistemi giudiziari, le scuole e altre istituzioni chiave. Nutrono risentimenti antiamericani e prendono soldi da Mosca.
Queste lacune in genere si traducono in debolezza elettorale, dal momento che gli europei si oppongono all’idea di esprimere un voto a favore di partiti che vomitano bile e idee bisbetiche. I sondaggi mostrano che circa il 60 per cento dell’elettorato tedesco mostra preoccupazioni relative all’Islam e ai musulmani, ma che solo un quinto degli elettori ha votato per l’AfD. Quindi, per avanzare elettoralmente e realizzare il proprio potenziale, i partiti civilizzazionisti devono convincere gli elettori che possono fidarsi di loro per governare. Soprattutto i partiti più longevi, come il FPÖ, stanno cambiando, come dimostrano le perpetue lotte intestine, le divisioni e altri problemi, ma per quanto disordinato e spiacevole possa essere questo processo è necessario e costruttivo.
L’antisemitismo, la questione che maggiormente delegittima i partiti civilizzazionisti e suscita i dibattiti più accesi, richiede un’attenzione speciale. Questi partiti hanno spesso origini dubbie, annoverano elementi fascisti e danno segnali antisemiti. I leader ebraici europei, di conseguenza condannano i civilizzazionisti e insistono affinché lo Stato di Israele faccia lo stesso, anche se i civilizzazionisti sono al governo e Israele deve avere a che fare con loro. Addirittura, Ariel Muzicant, presidente onorario della Comunità ebraica austriaca, ha minacciato Gerusalemme che se smettesse di boicottare il Partito della libertà austriaco: “Sicuramente deplorerò il governo di Israele”.
Ma tre punti mitigano queste preoccupazioni. Innanzitutto, i partiti civilizzazionisti in genere prendono le distanze dalle ossessioni per gli ebrei quando si evolvono e maturano. A causa dell’ostinato antisemitismo di Jean-Marie Le Pen, sua figlia Marine Le Pen lo espulse nel 2015 dal Rassemblement National da lui fondato nel 1972. In Ungheria, lo scorso dicembre, il partito Jobbik ha rinunciato al suo pedigree antisemita.
In secondo luogo, i leader civilizzazionisti cercano di essere in buoni rapporti con Israele. Vi si recano in visita, rendono omaggio allo Yad Vashem e in alcuni casi (come il presidente ceco e il vicecancelliere austriaco) appoggiano il trasferimento delle loro ambasciate a Gerusalemme. Guidato dal partito civilizzazionista Fidesz, il governo ungherese è quello che in Europa ha relazioni più strette con Israele. Questo schema non è passato inosservato in Israele: ad esempio, Gideon Sa’ar, membro del partito Likud, definisce i partiti civilizzazionisti “gli amici naturali di Israele”.
E per finire, a prescindere dai problemi dei civilizzazionisti con gli ebrei, tali asperità perdono rilevanza rispetto al dilagante antisemitismo e antisionismo della sinistra, soprattutto in Spagna, Svezia e nel Regno Unito. Jeremy Corbyn, leader del partito Laburista britannico, simboleggia questa tendenza: definisce gli assassini degli ebrei suoi amici e li frequenta pubblicamente. Mentre i leader civilizzazionisti lottano per abbandonare l’antisemitismo, molti dei loro avversari politici si buttano a capofitto nella feccia.
Nell’arco di vent’anni, i partiti civilizzazionisti, da quasi irrilevanti che erano, sono diventati una forza importante in quasi la metà dei paesi europei. Forse l’esempio più lampante di questa ascesa è offerto dalla Svezia, dove i Democratici svedesi hanno pressoché raddoppiato i loro voti ogni quattro anni: ottenendo lo 0,4 per cento delle preferenze nel 1998, l’1,3 per cento nel 2002, il 2,9 per cento nel 2006, il 5,7 per cento nel 2010 e il 12,9 per cento nel 2014. Non è stato così nel 2018, perché conquistare il 17,6 per cento dei voti non è servito a far loro acquisire una consistente forza nella politica svedese.
Nessun altro partito civilizzazionista è cresciuto in modo così matematico, ma i voti e i sondaggi stanno a indicare che otterranno l’appoggio. Come Geert Wilders, il leader del partito civilizzazionista olandese, osserva: “Nella parte orientale dell’Europa, i partiti anti-islamizzazione e contrari alla migrazione di massa vedono un aumento del consenso popolare. L’opposizione è in aumento anche in Occidente.” Questi partiti hanno tre modi per arrivare al potere.
(1) Da soli. I partiti civilizzazionisti governano l’Ungheria e la Polonia. Le popolazioni di questi due ex paesi membri del Patto di Varsavia, che hanno conquistato la loro indipendenza solo una generazione fa e che guardano con sgomento gli sviluppi in Europa occidentale, hanno deciso di seguire la loro strada. Entrambi i loro premier hanno esplicitamente respinto i migranti musulmani illegali (pur mantenendo la porta aperta ai musulmani che rispettano le regole). Altri paesi dell’Europa orientale hanno scelto con più titubanza questa stessa via.
(2) Unirsi ai vecchi partiti conservatori. Per sottrarre elettori ai partiti civilizzazionisti i vecchi partiti conservatori adottano politiche contrarie all’immigrazione e all’islamizzazione e uniscono le proprie forze con quelle dei civilizzazionisti. Finora, questo è accaduto solo in Austria, dove il Partito popolare austriaco e il FPÖ hanno conquistato congiuntamente il 58 per cento dei consensi e hanno formato un governo di coalizione nel dicembre 2017, ma sono probabili più collaborazioni di questo tipo.
Il candidato repubblicano alle presidenziali francesi nel 2017 si è mosso in direzione del civilizzazionismo e il suo successore, Laurent Wauquiez, ha seguito la stessa falsariga. In Svezia, il partito teoricamente conservatore, i Moderati, ha virato verso la direzione finora inconcepibile della cooperazione con i Democratici svedesi. In Germania, anche il Partito democratico libero si è mosso verso il civilizzazionismo. La Merkel potrebbe ancora essere la cancelliera della Germania, ma qualcuno nel suo governo ha respinto la sua incauta politica in materia di immigrazione; in particolare, Horst Seehofer, ministro dell’Interno e leader di un partito alleato, ha articolato delle politiche intransigenti in materia di immigrazione e ha perfino asserito che l’Islam non appartiene alla Germania.
(3) Unirsi ad altri partiti: In Italia, l’eccentrico, anarchico e più o meno di sinistra Movimento 5 Stelle nel giugno scorso ha fatto squadra con la Lega civilizzazionista per formare un governo. In Svezia, per impedire l’avanzata civilizzazionista, alcuni partiti di sinistra, come i socialdemocratici svedesi, stanno adottando a denti stretti delle politiche vagamente contrarie all’immigrazione. In modo più drastico, il partito socialdemocratico danese ha fatto un salto in questa direzione quando la sua leader, Mette Frederiksen, ha annunciato di essersi prefissata l’obiettivo di limitare “il numero degli stranieri non occidentali che possono venire in Danimarca” creando centri di accoglienza fuori dai confini dell’Unione europea, dove i richiedenti asilo risiederebbero in attesa che la loro domanda di asilo venga esaminata e lì mantenuti a spese dei contribuenti danesi. Più in generale, il teorico politico di sinistra Yascha Mounk sostiene che “il tentativo di trasformare i paesi con identità monoetniche in nazioni realmente multietniche è un esperimento storicamente unico”. È comprensibile, egli osserva che questo abbia “incontrato un’aspra opposizione”.
Mentre i partiti civilizzazionisti acquisiscono sostegno e potere, essi aprono gli occhi degli altri partiti alle sfide legate all’immigrazione e all’Islam. I conservatori, i cui sostenitori che operano nel settore dell’imprenditoria traggono vantaggio dalla manodopera a basso costo, tendono a rifuggire da questi problemi. I partiti di sinistra di solito promuovono l’immigrazione e sono miopi per quanto concerne i problemi legati all’Islam. Il confronto tra la Gran Bretagna e la Svezia, i due paesi europei più flaccidi di fronte ai migranti culturalmente aggressivi e criminalmente violenti, mostra chiaramente il ruolo dei partiti civilizzazionisti.
In Gran Bretagna non esiste un partito del genere, pertanto, questi problemi non vengono affrontati; a Rotherham e altrove, alle bande islamiche dedite all’adescamento di minori a scopo sessuale (in realtà, bande di stupratori) è stato consentito di agire per anni e addirittura per decenni, con le 6P che hanno distolto lo sguardo. Al contrario, i Democratici svedesi hanno talmente cambiato la politica del paese che i blocchi parlamentari di destra e sinistra hanno formato una grande coalizione per impedire loro di esercitare una reale
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STORIA
Beatrice Cenci, il fantasma dell’ingiustizia
Il suo processo fu una farsa, la sua barbara esecuzione l’11 settembre 1599 venne seguita da migliaia di persone
Daniele Zaccaria 13 Ottobre 2018
Il carro che porta i Cenci al patibolo si fa largo tra grappoli di folla; e grida, singhiozzi, ululati provengono dai marciapiedi, dalle carrozze, dai balconi dei palazzi, in un misto di compassione e ferocia, di eccitazione e paura, nobiltà e popolino a formare un unico, delirante branco.
E mentre la processione attraversa Santa Maria di Monserrato, i Banchi, Tordinona, e si avvicina al luogo dell’esecuzione l’aria è satura di calore: quell’ 11 settembre 1599 a Roma fa un caldo torrido, l’estate sembra non voler finire più.
C’è un momento però in cui la schiera si azzittisce, un istante sospeso, quasi a raccogliere pensieri e spiriti animali prima del supplizio: la figura sdegnosa di Beatrice appare sul ciglio di San Celso, neanche uno sguardo rivolto agli astanti, gli occhi dritti su ponte S. Angelo dove di lì a poco verrà decollata, ceppo e mannaia, l’ombra del boia già occhieggia sinistra sul palco.
Sul carro, dietro di lei, la matrigna Lucrezia Petroni tremante e inebetita, e il corpo già afflitto ma ancora in vita del fratello Giacomo: durante il tragitto lo hanno mazzolato sul cranio, divelto con tenaglie roventi, alla fine morirà per squartamento nel più brutale dei martirii. Lucrezia non sopporta la scena e perde i sensi, Beatrice, che è già il suo fantasma, rimane muta e altera. Al fratello Bernardo, che ha appena 15 anni, viene risparmiato il patibolo ma non lo strazio di assistere alla morte dei suoi cari, anche lui perde i sensi per l’orrore e rimane svenuto per mezz’ora. La prima testa a cadere è quella di Lucrezia, tagliata di netto dallo spadone del boia. Poi tocca a Beatrice, la star, ha 22 anni, ed è di una bellezza rara.
Le cronache raccontano di una preghiera sussurrata, di un bacio lieve al crocifisso e, anche qui, di un istante di esitazione da parte del carnefice prima che le vibrasse il colpo fatale: «Intimorito si trovò impacciato a vibrarle la mannaia. Un grido universale lo imprecava, ma frattanto il capo della vergine fu mostrato staccato dal busto, ed il corpo s’agitò con violenza. La testa di Beatrice fu involta in un velo come quella della matrigna, e posta in lato del palco; il corpo nel calarlo cadde in terra con gran colpo, perché si sciolse dalla corda». In piazza quel giorno c’erano migliaia di persone, tra di loro anche un giovane pittore lombardo, Michelangelo Merisi, in arte Caravaggio. In dodici persero la vita, chi per insolazione, chi schiacciato nella calca, chi affogato nel Tevere. Una cupa giornata di morte e di delirio, quell’ 11 settembre 1599.
Erano stati condannati alla pena capitale direttamente da Papa Clemente VIII per l’uccisione del conte Francesco Cenci, padre di Beatrice, Giacomo e Bernardo e marito di Lucrezia, sua seconda moglie. Un delitto premeditato per porre fine alle violenze di quell’uomo malvagio di cui tutti dicevano un gran male.
Francesco Cenci, ultimo esponente di una nobile e influente casata che acquistò i titoli del medioevo, era arrogante, brutale e perverso, coinvolto in risse e diversi fatti di sangue, finito più volte a processo per violenze sessuali e pedofilia ( aveva violentato il figlio 12enne di un popolano) era sempre riuscito a comprarsi un’assoluzione, sfruttando la sua posizione e le sue ricchezze. Ma era con le donne della sua famiglia che riusciva a esprimere al meglio la sua crudeltà. La figlia maggiore Antonina scrive addirittura a Clemente VIII per sfuggire agli abusi paterni, il pontefice, che non aveva alcuna simpatia per Francesco, accoglie la richiesta combinandole un matrimonio con un nobiluomo di Gubbio. Costretto a pagare una ricca dote si sfoga su Beatrice che fa segregare assieme a Lucrezia in un castello in provincia di Rieti che appartiene alla famiglia Colonna, nel territorio del Regno di Napoli. È il 1595 e, fino alla morte avvenuta nel 1598, il castello sarà teatro di sevizie e percosse, di continue umiliazioni, accentuati dall’animo sempre più incarognito di Francesco, malato di gotta e di rogna e assediato dai debiti e dai creditori. Con l’aiuto dei domestici Olimpio Calvetti e Marzio da Fioran, Lucrezia, Beatrice e Giacomo tentano di ucciderlo per ben tre volte, provando ad avve- lenarlo, tentando di pagare dei briganti locali, stordendolo con l’oppio. Alla fine è Olimpio a ucciderlo nel sonno, a colpi di martello e a chiodate. Ufficialmente Francesco Cenci è morto per una brutta caduta da una balaustra, ma la messa in scena è goffa, amatoriale. Fanno ritrovare il corpo in un orto ai piedi del castello. Non ci vuole molto agli investigatori mandati sia dal viceré del Regno di Napoli che dal Vaticano per capire che quello non era un incidente, ma un delitto. Riesumano il cadavere, trovano i segni delle martellate sul cranio e alcuni buchi nel collo, due chirurghi certificano l’omicidio.
Il movente è limpido: tutti sapevano delle brutalità del conte nei confronti dei familiari che avevano più di una buona ragione per liberarsi di lui.
I Cenci vengono portati a Roma, in un primo momento ai domiciliari nel loro palazzo sotto la sorvegianza delle guardie pontificie. Si dichiarano innocenti, sono una famiglia molto in vista, dei “vip” e il loro processo, che oggi verrebbe definito uno show mediatico, calamita l’attenzione morbosa dell’opinione pubblica ed è condotto dai più noti giuristi dell’epoca. Il dibattimento vede affrontarsi infatti due autentici principi del foro, Pompeo Molella per la pubblica accusa e Prospero Farinacci per la difesa, il giudice è Ulisse Moscato che due secoli più tardi il francese Stendhal ( grande appassionato della tragedia dei Cenci) descrive nelle sue Cronache Romane come «uomo dalla profonda sapienza e dalla superiore sagacità dell’intelletto». Ma Clemente VIII, lo stesso che l’anno successivo farà ardere vivo Giordano Bruno, non può accettare una sentenza che non si concluda con la morte per gli accusati. L’avidità, la cupidigia untuosa di Papa Aldobrandini, beneficiario naturale della confisca dei beni dei Cenci, rende il processo una farsa, fosse stato per lui non ci sarebbe stato nessun processo, li avrebbe fatti squartare tutti appena arrivati a Roma. Irritato dalla ragionevolezza e dalla moderazione di Moscato e preoccupato che possa venire colpito dalla grazia della giovane, lo fa sostituire dal giudice Cesare Luciani, noto per la facilità con cui spedisce gli imputati dal boia fin dai cupi tempi di Sisto V, soprannominato “il Papa della delazione e delle forche”.
Ma soprattutto c’è Beatrice, superba e altezzosa, che rifiuta di ammettere le violenze e gli stupri del padre, un po’ per scongiurare il movente, un po’ per orgoglio e vergogna. A nulla servono le suppliche del suo avvocato, che la
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