NOTIZIARIO STAMPA DETTI E SCRITTI
27 NOVEMBRE 2018
A cura di Manlio Lo Presti
Esergo
Afferrare un’idea come si afferra un pezzo di pane
(Cristina Campo)
Cit. di MARCELLO VENEZIANI, La sposa invisibile, Fazi, 2006, pag. 17
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Le opinioni degli autori citati possono non coincidere con la posizione del curatore della presente Rassegna.
Tutti i numeri dell’anno 2018 della Rassegna sono disponibili sul sito www.dettiescritti.com
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SOMMARIO
La Bestia – Misteri d’Italia e democrazie manovrate dai poteri occulti 1
Bertolucci Bernardo
LA STRAGE SILENZIOSA DEGLI OSPEDALI 1
Siria: vogliamo parlare di armi chimiche una volta per tutte?. 1
Religio
Il miliardario americano Mark Cuban non ha dubbi: studiate Filosofia! 1
Europa. Il gioco del cerino dei poteri in crisi 1
Saif Al Islam Gheddafi vuole tornare: ma ecco le incognite che lo frenano. 1
Fascismo, antifascismo, neofascismo e altri miti 1
Appunto su Stupidità & Silicio. 1
Essere una macchina
CARABINIERI DURANTE LA PRIMA GUERRA MONDIALE. 1
IN EVIDENZA
La Bestia – Misteri d’Italia e democrazie manovrate dai poteri occulti
L’ultimo libro di Carlo Palermo – Un direttorio internazionale radicato negli apparati politici e militari degli Stati, nella Chiesa, nei vertici delle oligarchie finanziarie e le sue trame
16 novembre 2018 di Luisa Martini.
Recensione del saggio di Carlo Palermo, La Bestia, Sperling & Kupfer, 2018
Chiudo questo libro sentendomi come qualcuno che abbia preso un gran pugno nello stomaco: quell’impressione di non riuscire più a respirare, per qualche istante addirittura il timore di non riuscirci mai più. Poi l’ossigeno che arriva di nuovo ai polmoni, il dolore e una specie di stordimento. Ho letto con fatica ciò che scrive Carlo Palermo, per diversi motivi. Ho bisogno di metabolizzare, di rendermi conto per davvero, di lasciare che domande prendano forma da tanti collegamenti sconcertanti.
A dispetto di una copertina che sembra ammiccare ai romanzi di Dan Brown, questo volume appena pubblicato da Sperling & Kupfer (ottobre 2018) tutto è tranne che un’opera di fantasia. E’ invece il resoconto delle indagini di una vita, quella di un magistrato, oggi avvocato, che – da uomo di legge – è abituato a seguire i fatti e le carte, disciplinando intuito e ricostruzioni a quei rigorosi termini. Segue gli stessi criteri anche qui: cita persone, relazioni, passaggi, istituzioni e vicende reali e documentati; pubblica in fac-simile documenti, rimanda ad altri consultabili pubblicamente; lascia aperte questioni laddove il segreto di Stato o l’omertà di alcuni bloccano il passo a ulteriori chiarimenti. Non un romanzo, dunque. Lo stile asciutto e scabroconcede pochissimo ai commenti, così come ai riferimenti autobiografici che sono comunque sufficienti a lasciare intravedere quale sia stato il prezzo di certe scelte coraggiose.
Sostituto procuratore negli anni Ottanta, Carlo Palermo subisce unattentato a Pizzolungo, in Sicilia, il 2 aprile 1985: nell’esplosione di un’autobomba destinata a lui restano uccisi, al posto suo, due gemellini di sei anni e la loro mamma. Questo fatto drammatico getta una luce ancora più inquietante sui traffici di armi e droga oggetto delle sue indagini di allora, prima a Trento e poi a Trapani. Indagini clamorose, che avevano già portato alla luce il coinvolgimento di ufficiali dei servizi segreti italiani affiliati alla Loggia P2 e di boss della mafia turca e siciliana.
Per fermare l’inchiesta a Trento era intervenuto l’allora Presidente del Consiglio Bettino Craxi, con un esposto al Consiglio Superiore della Magistratura in seguito al quale a Carlo Palermo era stata tolta l’indagine. Il magistrato aveva chiesto allora il trasferimento a Trapani, dove due anni prima era stato assassinato il collega Ciaccio Montalto, anch’egli collegato a quell’inchiesta. L’attentato di Pizzolungo non impedisce il ritrovamento, da parte degli inquirenti, della più grande raffineria di morfina-base in Europa, nei pressi di Alcamo. Le minacce nei confronti di Carlo Palermo e della sua famiglia si fanno tuttavia sempre più gravi, e alcuni mesi dopo egli accetta il trasferimento a Roma, presso il Ministero di Grazia e Giustizia. Nel 1990 lascia la magistratura dedicandosi all’avvocatura. Fra vari impegni anche politici (tra il 1992 e il 1993 è deputato alla Camera per la Rete, poi consigliere provinciale e regionale a Trento, dove oggi vive), continua a cercare la verità sui fatti che lo hanno coinvolto, formulando varie ipotesi.
Tra il 1987 e il 2002 pubblica alcuni volumi, nei quali rielabora in tappe successive aspetti emersi dalle sue ricerche, in particolare l’esistenza di quello che lui chiama ‘quarto livello’. Nel 1997 difende Rosaria Costa e tutta la famiglia di Vito Schifani, agente della scorta di Falcone, nel processo sulla strage di Capaci a Caltanissetta. Nel 2014 acquisisce elementi nuovi su alcuni snodi essenziali delle sue vecchie indagini, che lo spingono a unarilettura delle stragi mafiose che segnarono la fine della Prima Repubblica. Nel corso di questa rilettura, di cui il volume oggi pubblicato dà conto, emerge il ruolo di gruppi di potere trasversali e sovranazionali di natura occulta, in primis la massoneria, con un corollario di apparati militari, paramilitari e finanziari ad essi collegati. La cifra esoterica diventa sorprendentemente centrale, tratteggiando un quadro nuovo che attende ancora di essere completato del tutto.
Il racconto di questa ricostruzione, che si dipana in poco più di quattrocento pagine, è faticoso da seguire. La prosa, attenta più all’esattezza dei contenuti che all’eleganza della forma, non è sempre fluida. La struttura narrativa non asseconda l’esigenza di chiarezza di un lettore profano, ma piuttosto segue e rispecchia lo svolgersi reale delle indagini, con interruzioni, spostamenti, riprese, interferenze, ripensamenti, zone d’ombra. Una sorta di diario nel quale mancano quasi del tutto commenti e interpretazioni. Traspare chiaramente l’abitudine a “lasciar parlare le carte”, criterio di somma potenza in un’inchiesta giudiziaria, non sempre però altrettanto efficace in una pubblicazione di denuncia come
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ARTE MUSICA TEATRO CINEMA
BERTOLUCCI, Bernardo
di Paolo Bertetto – Enciclopedia del Cinema (2003)
Regista cinematografico, nato a Parma il 16 marzo 1941. Per B. il cinema rappresenta insieme un’estensione della vita e una profonda avventura nell’immaginario, un modo di innervarsi nella soggettività e un’esperienza complessa nell’orizzonte simbolico. Fare un film per lui è al contempo un radicamento nell’esistenza e una relazione con i film già fatti, ossia con l’enorme patrimonio di immagini che costituisce la storia della produzione cinematografica. La sua idea di cinema risulta innestata sulla lezione di André Bazin e della Nouvelle vague: in essa sono articolate ricerca personale e cinefilia, conoscenza degli autori e volontà di parlare in prima persona. Il suo percorso creativo è passato dal nuovo cinema della soggettività degli anni Sessanta al cinema d’autore di grande produzione internazionale, mantenendo sempre uno specifico impegno di stile e una forza espressiva assolutamente personale. E poiché nelle sue opere la soggettività sa misurarsi con il profondo, con le scene psichiche e anche con l’orizzonte sociale, egli ha saputo evolversi da un cinema del soggetto verso un cinema di interpretazione della Storia, da una dimensione lirica verso l’affresco. Interiorità e oggettività, mondo della psiche e storicità si sono così intrecciati e succeduti nei suoi film, mentre la sua abilità di metteur en scène gli ha consentito di compiere progressive opzioni tecnico-formali, di costruire stilemi, modi di ripresa e di montaggio non solo innovativi e complessi, ma programmati per realizzare un progetto cinematografico rigoroso. La sua opzione per un cinema moderno, libero dai condizionamenti delle convenzioni tradizionali, aperto anche alla ricerca sperimentale nell’orizzonte narrativo, si è allargato verso una figurazione visivo-dinamica elaborata, attenta all’iconografia e agli stili della pittura. B. ha saputo comunque sviluppare una riflessione sulla messa in scena che va al di là del moderno, recupera istanze più tradizionali e insieme amplia alcune potenzialità implicite e peculiari. Il suo percorso creativo si può riassumere come un passaggio dal cinema come scrittura al cinema come figurazione, dalla narrazione della soggettività alla configurazione visiva del mondo, dalla caméra-stylo al grande disegno spettacolare che gli è valso il trionfo di The last emperor (1987; L’ultimo imperatore) sancito dalla vittoria dei nove Oscar (tra cui quello alla regia), due Golden Globe e un César per il miglior film straniero. Questo allargamento del progetto registico riflette non solo la volontà di sperimentare le possibilità di evocazione del cinema, ma anche l’impegno a presentare la complessità e l’eterogeneità del mondo, mostrato ora come ambiguità ora come sistema strutturato.
La sua vita fin dall’inizio è stata radicata in un ambiente culturale privilegiato e segnato dal rapporto forte con il padre, Attilio, poeta e critico affermato. Dal 1952 fu a Roma dove, pur mantenendo con la campagna emiliana un rapporto costante, ebbe la possibilità di entrare in contatto con gli intellettuali più noti, Alberto Moravia e Pier Paolo Pasolini innanzi tutto, e quindi esordì giovanissimo nella poesia (In cerca del mistero, 1962, Premio Viareggio opera prima) e nel cinema. Il suo primo film, La commare secca (1962), tratto da un soggetto di Pasolini, descrive l’ambiente sottoproletario delle borgate romane e ha una struttura narrativa complessa, che ricorda L. Pirandello e Rashōmon (1950) di Kurosawa Akira, in quanto propone la storia della morte di una prostituta attraverso i racconti di diversi personaggi. La messa in scena non solo moltiplica il punto di vista, ma si interroga sulla verità, alla luce di un sostanziale relativismo, che attesta l’affermarsi di un nuovo orizzonte culturale, integrato alle ricerche europee. Prima della rivoluzione (1964) è il film più significativo della nuova generazione di cineasti italiani degli anni Sessanta, in cui precipitano e si fondono componenti immaginarie e stilistiche diverse, costruito, come un romanzo di formazione, attorno al definirsi dell’identità di un giovane. Gli umori soggettivi si intrecciano con l’orizzonte sociale e i modi della vita di provincia, mentre la ricerca dell’autenticità si mescola alle istanze politiche (il partito comunista, l’educazione, la scuola). Il protagonista è un soggetto problematico, capace di raccogliere in sé gli interrogativi e le questioni personali di un giovane di quegli anni. La sua spinta verso l’autenticità è frenata da remore, insoddisfazioni e paure, ma è pur sempre un interrogarsi che riprende la lezione dei grandi romanzi del soggetto della tradizione europea ottocentesca. D’altronde la storia raccontata è costruita in parte sul modello di La Certosa di Parma di Stendhal e sul rapporto particolare tra Fabrizio Del Dongo e la zia Gina Sanseverina, ridefinito nel mondo borghese e provinciale dell’Italia di quegli anni. Ma insieme il film è una libera sperimentazione sull’incertezza dell’essere, sull’insoddisfazione e la crisi psicologica sempre incombente, mentre la qualità della messa in scena è profondamente radicata nelle tecniche e nello stile della Nouvelle vague. B. girò con grande libertà, elaborando movimenti di macchina variati nello spazio, puntando su inquadrature lunghe, evitando il più possibile gli schemi convenzionali del campo-controcampo. Il film ha un sapore del tutto singolare che ricorda Jean-Luc Godard, ma sa scoprire una verità visiva ed esistenziale nuova. Intanto l’affermarsi della nuova avanguardia internazionale non lasciò indifferente B. e lo spinse a tentare altre avventure. Così, dopo aver realizzato nel 1966 il documentario in tre puntate La via del petrolio, fu la volta del cortometraggio Agonia (1967) inserito nel film a più voci Amore e rabbia (1969): il tema della parabola evangelica del fico infruttuoso è risolto in una meditazione concreta, in un rituale interpretato da Julian Beck e dal Living Theater. Partner (1968), ispirato a Il sosia di F.M. Dostoevskij, è invece una difficile riflessione sulle contraddizioni dell’intellettuale, che non sempre trova il tono giusto. Fu in quello stesso anno che collaborò alla stesura della sceneggiatura di C’era una volta il West di Sergio Leone, mentre nel 1970 realizzò La strategia del ragno, ispirato a un racconto di J.L. Borges (Tema del traditore e dell’eroe), attraverso cui fece ritorno allo spazio conosciuto della provincia emiliana, interrogandosi sui temi dell’antifascismo, della memoria e della soggettività. Il viaggio del protagonista e la ricostruzione della vita e della morte del padre si colorano di aspetti psicoanalitici, diventano non solo un’esperienza di uccisione simbolica del padre, ma anche un’avventura di complesso confronto con il doppio e di ricerca ambigua sull’identità soggettiva. Lo spazio evocato pare una segreta scena della psiche, ove si gioca una partita simbolica che ha per oggetto la morte del padre e la difficile maturità del soggetto, che in ogni modo non può uscire dal proprio inconscio. Insieme il film è attraversato da un tessuto di citazioni che evocano non solo il mondo del cinema (il paese si chiama Tara, come la tenuta di Gone with the wind, di Victor Fleming), ma soprattutto modelli iconografici e quadri significativi (R. Magritte e G. De Chirico in particolare). Con Il conformista (1970) B. riprese la varietà compositiva dell’opera precedente per rielaborarla in forme più coerenti e rigorose. Tratto da un romanzo di Moravia, ampiamente arricchito in fase di sceneggiatura, il film è una ricostruzione storica degli anni del fascismo e una ricerca su un uomo senza qualità, che spinge le anomalie segrete dell’essere normale sino all’aberrazione dell’omicidio politico. Il protagonista è tutt’altro che un personaggio unidimensionale: le relazioni che vengono sviluppate nel film sono segnate dall’ambiguità e a volte dall’enigmaticità e paiono mescolare inestricabilmente bene e male, negatività ed equilibrio, ossessioni soggettive e coazioni storico-politiche. Egli organizza a Parigi l’assassinio di un professore antifascista che aveva giocato un ruolo importante nella sua formazione, in una sorta di coattiva eliminazione del padre simbolico, che tuttavia non può riscattare il soggetto dalla mediocrità e dalla ineliminabile banalità del male. Il lavoro di messa in scena di B. sembra concretarsi soprattutto nella figurazione dell’immagine e nell’orchestrazione della luce. Nelle sequenze ambientate a Parigi, in particolare, B. e Vittorio Storaro, autore della fotografia, delinearono giochi di luminosità all’interno dell’inquadratura intrecciando luci filtrate, neri, controluce sino a creare veri e propri mosaici visivi. Insieme la figurazione dell’immagine risente ancora delle influenze pittoriche, e riprende lo stile dell’epoca, dal Novecentismo alla pittura di M. Sironi, dal gusto déco alle citazioni di Magritte all’Art nouveau.
Con Il conformista aveva avuto inizio la fondamentale collaborazione con il montatore Kim Arcalli, che proseguì con la realizzazione del documentario La salute è malata (1971) e quindi l’anno successivo con Ultimo tango a Parigi. In quest’opera ‒ che ebbe il privilegio di fare scandalo e ottenne un grande successo internazionale ‒ la ricerca sul profondo e sull’ambiguità dell’eros riprende le mitologie e le ossessioni dell’erotismo di G. Bataille. B. diresse un mostro sacro come Marlon Brando e delineò un percorso di autodistruzione, giocato tutto sulla dialettica di amore e morte. Sull’onda del successo conseguito B. poté realizzare l’ampio affresco in due episodi, Novecento (1976), dedicato alla storia dell’Italia dalla fine dell’Ottocento alla caduta del fascismo, e articolato attorno al passaggio dal mondo contadino alla società industriale e
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BELPAESE DA SALVARE
LA STRAGE SILENZIOSA DEGLI OSPEDALI
I VIRUS UCCIDONO IL DOPPIO DEGLI INCIDENTI STRADALI. E’ RECORD NEGATIVO IN EUROPA – OGNI ANNO 530MILA PAZIENTI SUBISCONO INFEZIONI CHE DIVENTANO MORTALI PER 7800 PERSONE – MELANIA RIZZOLI: “IL PROBLEMA SONO I BATTERI E L’IGIENE DEI MEDICI…”
MELANIA RIZZOLI per Libero Quotidiano – 27 novembre 2018
Ogni anno sono circa 33mila nell’ Unione Europea le persone che muoiono per infezioni da batteri resistenti agli antibiotici, la maggior parte contratte in ospedale, e circa un terzo di questi decessi avviene nel nostro Paese, dove la probabilità di infettarsi durante un ricovero ospedaliero è del 6 per cento. Il Centro Europeo Malattie Infettive (ECDC) ha stimato 530mila casi ogni anno di questi contagi, con oltre 7.800 decessi, pari al doppio delle morti legate agli incidenti stradali.
Una strage silenziosa, che ha classificato l’ Italia all’ ultimo posto in Europa, una maglia nera che non meritavamo. Le infezioni ospedaliere sono la complicanza più frequente e più grave dell’ assistenza sanitaria, e sono quelle che insorgono durante il ricovero in ospedale o subito dopo le dimissioni del paziente, che al momento dell’ ingresso non erano clinicamente manifeste, né erano in incubazione. Esse sono l’ effetto della progressiva introduzione di nuove tecnologie sanitarie, che, se da una parte garantiscono la sopravvivenza di malati ad alto rischio di infezioni, dall’ altra consentono l’ ingresso di microorganismi in sedi corporee normalmente sterili.
Il fattore cruciale di questo tipo di infezioni è rappresentanto dall’ aumento esponenziale di ceppi batterici resistenti agli antibiotici, visto il largo uso di questi farmaci a scopo profilattico o terapeutico, ed anche il graduale aumento dei fattori di rischio specifici, come l’ uso ormai inevitabile dei cateterismi per le indagini vascolari e cardiache o degli endoscopi per il tratto gastro-intestinale o urinario, che costituiscono sistemi invasivi che spesso veicolano anche i batteri.
GRAVI PATOLOGIE Le infezioni ospedaliere non colpiscono i medici che quotidianamente sono a contatto con questi agenti patogeni altamente infettanti, né il personale sanitario, gli assistenti volontari o i tirocinanti, perché le persone a rischio di contrarre questo tipo di infezione sono i pazienti ricoverati per gravi patologie, quindi immunologicamente depressi o con altre gravi malattie concomitanti, come tumori, diabete, anemie, cardiopatie, insufficienza renale o polmonare, o coloro che sono in attesa o hanno subìto un trapianto d’ organo o di midollo, oppure i degenti ricoverati nelle terapie intensive dopo un intervento chirurgico.
La maggior parte dei batteri però viene veicolata al paziente da un operatore sanitario, ed è stato calcolato che il lavaggio frequente delle mani in ambito ospedaliero è in grado di prevenire più del 25% delle infezioni.
Il contagio avviene per via diretta tramite un veicolo contaminato (cibo, sangue, liquidi di infusione, disinfettanti), per via indiretta attraverso un endoscopio od uno strumento chirurgico, oppure per via aerea, a causa di microorganismi che sopravvivono nell’ aria e vengono trasmessi a distanza (tosse, starnuti) ed inalati.
Tutti i pazienti ricoverati sono potenzialmente a rischio di infezione ospedaliera, ma i soggetti ricoverati nelle unità di cura intensiva, quindi quelli più gravi, hanno il rischio più alto, ed il 70% dei batteri coinvolti nel contagio sono resistenti ai comuni antibiotici. L’ 80% di tutte le infezioni ospedaliere riguarda quattro sedi principali: il tratto urinario, l’apparato respiratorio, le ferite chirurgiche e le setticemie, e negli ultimi anni si sta assistendo ad un aumento delle batteriemie e delle polmoniti.
QUALITÀ DELL’ ASSISTENZA Non tutte le infezioni ospedaliere sono prevenibili, ma è opportuno sorvegliare selettivamente quelle che sono attribuibili a problemi nella qualità dell’assistenza, con l’adozione di misure più sicure, che garantiscano le maggiori condizioni asettiche. Purtroppo per evitare questo rischio fatale, e per diminuire la proliferazione di batteri multi resistenti che provocano setticemie letali, è necessario rivedere e riconsiderare l’ uso spesso inappropriato di antibiotici a largo spettro, molto potenti, che spesso vengono somministrati per patogeni che potrebbero essere curati con molecole più comuni, con tempi e dosaggi minori.
Il Piano Nazionale di contrasto all’ antibiotico -resistenza (Pncar) 2017-2020, a cura del Ministero della Salute, ha emesso linee guida e programmi con corrette pratiche di prevenzione, che potrebbero ridurre del 20/30% questo rischio nel percorso ospedaliero, concorrendo a migliorare anche l’impatto economico sul SSN, considerato che i costi di trattamento di una singola infezione pesano dai 5 ai 9mila euro a paziente.
Nel 2050 le infezioni batteriche causeranno circa 10milioni di morti all’ anno, superando ampiamente i decessi per tumore (8,2milioni), per diabete (1,5milioni), o incidenti stradali (1,2milioni), a causa dell’antibiotico resistenza, una emergenza ormai internazionale.
- INFEZIONI IN OSPEDALE: 7800 MORTI L’ ANNO
ALESSANDRO GONZATO per Libero Quotidiano
I numeri gelano il sangue: in Italia, a causa di infezioni provocate da batteri resistenti agli antibiotici, muoiono 10.762 persone all’ anno. Nel 72,4 per cento dei casi, che equivalgono a circa 7.800 pazienti, l’infezione è correlata all’ assistenza ospedaliera.
Stando a quest’ ultimo dato la media è di 21 decessi al giorno, quasi uno all’ ora, quanto le morti per Aids, tubercolosi e influenza messe assieme, addirittura il doppio rispetto al numero delle vittime provocate dagli incidenti stradali. Nel nostro Paese, maglia nera di questa preoccupante classifica, la probabilità di contrarre un’ infezione più o meno grave mentre siamo in cura in un ospedale è del 6 per cento: ogni anno i casi sono 530 mila e le cure per ogni singolo trattamento costano dai 5 ai 9 mila euro.
I dati, riferiti al 2015-2016 – gli ultimi disponibili – sono stati diffusi dal Centro Europeo Malattie Infettive (Ecdc) durante la settimana mondiale sull’ uso consapevole degli antibiotici. In Europa sono 33mila le persone che ogni 12 mesi muoiono per infezioni da batteri resistenti agli antibiotici.
In Italia la situazione è dovuta soprattutto all’ aumento del numero dei pazienti più fragili, ossia quelli con più di 65 anni, all’ uso di sistemi sempre più invasivi per l’ organismo come cateteri o endoscopi – portatori di batteri – e, denuncia l’ Ecdc, per la scarsa adozione di strategie di prevenzione.
UTILIZZO SCORRETTO «Dobbiamo fare molto in questo campo» ci conferma il professor Silvio Brusaferro, ordinario di Igiene e Sanità Pubblica dell’ Università di Udine e nel gruppo di ricerca del ministero della Salute. Da una parte, come evidenzia lo studio, le infezioni vengono contratte a causa dell’ utilizzo scorretto degli strumenti medici.
Talvolta viene sottovalutata anche la più semplice norma igienica del lavaggio delle mani. Dall’ altra – prosegue il professore – prima di ricorrere alle cure ospedaliere succede che facciamo un uso sbagliato degli antibiotici, ne prendiamo troppi, magari senza la prescrizione perché abbiamo avanzato dei blister in casa dalle volte precedenti, oppure sbagliamo i modi e i tempi,
Continua qui: http://www.dagospia.com/rubrica-29/cronache/strage-silenziosa-ospedali-virus-uccidono-doppio-188941.htm
CONFLITTI GEOPOLITICI
Siria: vogliamo parlare di armi chimiche una volta per tutte?
Cronistoria di una narrazione falsa e insistita sulla guerra in Siria, quella delle armi chimiche attribuite a Damasco, in rimbalzo fra cancellerie e redazioni per prepararci alla guerra
15 ottobre 2018 di Germana Leoni von Dohnanyi.
Lo scorso agosto il portavoce del Ministero della Difesa russo, il generale Igor Konashenkov, lanciava un sinistro allarme. Sosteneva cioè che specialisti stranieri erano arrivati in Siria in supporto ai ribelli antigovernativi riparati nella provincia di Idlib, ultima sacca di una guerriglia eterogenea dominata da Jabhat al–Nusra, la versione siriana di al-Qa’ida (oggi Tahrir al–Sham) e da gruppi jihadisti affini, fra i quali apparentemente anche cellule dormienti dell’Isis.
Mosca accusava ora i ribelli di progettare un attacco con armi chimiche contro la popolazione civile come ultima disperata mossa in anticipazione della temuta e ritenuta imminente offensiva governativa finale: un crimine di guerra (l’uso di armi chimiche) da attribuire al presidente siriano Bashar al-Assad al fine di giustificare un intervento armato occidentale, l’unico in grado ormai di scongiurare la definitiva disfatta militare dei jihadisti sul campo di battaglia. Una “false flag” dunque, e cioè un’operazione sotto falsa bandiera.
Al riguardo un carico di armi chimiche sarebbe stato consegnato alle formazioni salafite dagli White Helmets, organizzazione di sedicenti soccorritori umanitari locali osannati dalla stampa mainstream al punto da essere addirittura proposti per il Nobel. Attivi esclusivamente in aree controllate dai ribelli e sempre nella più assoluta assenza di osservatori neutrali, il loro ruolo di “testimoni” e “soccorritori” è ormai da più parti messo in discussione.
Sono infatti in odore di collusione con gruppi jihadisti, e come tali ritenuti meri strumenti di propaganda bellica occidentale da giornalisti del calibro dell’australiano John Pilger, del britannico Robert Fisk (The Independent) e di un premio Pulitzer, l’americano Seymour Hersh. L’ex agente della Cia Philip Giraldi ne ha denunciato la collusione con al Nusra (al Qaeda) e la partecipazione in episodi di tortura ed esecuzione di soldati governativi. E l’ex ambasciatore britannico a Damasco Peter Ford li ha definiti “professionisti della disinformazione a pagamento” e “ausiliari jihadisti” in un’intervista alla BBC.
Tutto opinabile naturalmente ma…. Creato nel 2013 in Turchia da James Le Mesurier, ex ufficiale dell’esercito britannico, il gruppo è finanziato da alcuni governi europei, dalla USAID (US Agency for International Development) e dal britannico Foreign Office… il ché non può non destare qualche legittimo sospetto….
Secondo il Cremlino, il cui obbiettivo dichiarato era eliminare ogni residuo di jihadismo dalla Siria, nella provincia di Idlib stava dunque per essere inscenato un nuovo attacco chimico, una provocazione sostenuta da un Occidente poco propenso ad accettare la vittoria militare dell’Esercito Arabo Siriano e conseguentemente a rinunciare a un cambio di regime a Damasco. E il dispiegamento di fine agosto nel Mediterraneo della USS Ross, cacciatorpediniere con 28 missili Tomahawk a bordo, lasciava poco margine alla speranza di un soluzione pacifica di un conflitto che ormai da quasi otto anni insanguina la Siria
L’attuale Segretario alla Sicurezza Nazionale John Bolton aveva peraltro pubblicamente tuonato che Washington era pronta a colpire nel caso Bashar al-Assad avesse usato i gas. Precostituzione di alibi? Uno scenario inquietante…. Ma importante qui è capire chi è John Bolton!
Neo-con doc, ex ambasciatore americano alle Nazioni Unite sotto la presidenza di George W. Bush e architetto dell’invasione in Iraq, nel 2015 Bolton aveva teorizzato lo smembramento di Siria e Iraq per far spazio a un fantomatico “Sunnistan”, Stato indipendente (si fa per dire…) rigorosamente sunnita interposto fra i due paesi e costituito su un territorio che all’epoca grossomodo coincideva col l’area geografica conquistata dall’Isis. Quasi una legittimazione del Califfato sotto mentite spoglie e un nuovo nome insomma, un piano secondo Bolton mirato a neutralizzare l’Isis.
Geniale! … Come creare uno stato rigorosamente ariano per combattere il neonazismo, o uno per soli bianchi per combattere l’apartheid…
Bolton auspicava dunque la creazione di uno stato sunnita-salafita (lui stesso concedeva che non sarebbe stata una democrazia) interposto fra due entità sciite a garanzia di una conflittualità permanente. Mirava insomma a balcanizzare l’intera regione, a frammentarla lungo linee di demarcazione etnico-confessionali e a cancellare definitivamente dalle mappe geografiche il Medio Oriente così come lo aveva definito nel 1916 l’accordo Sykes-Picot. Nei fatti legittimava qualcosa che all’epoca già esisteva, e cioè quel Califfato che aveva accorpato parte di Iraq e Siria e che nel 2014 era stato ufficializzato dallo stesso Abu Bakr al-Baghdadi, il terrorista iracheno a capo dell’Isis, quel sedicente Califfo che era stato in assoluto il primo a smantellare i confini fra i due paesi: piano curiosamente riproposto da John Bolton.
Ma il progetto del Califfato stentava ad andare in porto. A partire dal 2015 infatti quei guastafeste dei russi intervenivano in sostegno dell’esercito Arabo Siriano, che gradualmente riconquistava postazione su postazione. E ora, col sostegno dell’aviazione russa, sembrava preparare l’offensiva finale su Idlib, ultima roccaforte per decine di migliaia di jiadisti, 10.000 dei quali definiti senza mezzi termini “terroristi in possesso di armi chimiche”, da Staffan de Mistura, inviato speciale delle Nazioni Unite in Siria. Rivelazioni in base alle quali i timori di Mosca potrebbero non essere del tutto campati in aria, come suggerito dalla narrativa dei media mainstream.
Vale allora la pena di fare luce sui precedenti, estrapolando i fatti dalla propaganda.
Nella primavera del 2013 l’Esercito Arabo Siriano di Bashar al-Assad era già militarmente in vantaggio sui ribelli, mettendo così in stallo il progetto di ingegneria geopolitica atlantica mirato a frazionare il paese per ridisegnare la mappa del Grande Medio Oriente: mappa che ha nella Siria un tassello essenziale. Il progetto era peraltro stato pubblicamente denunciato già il 3 ottobre 2007 al Commonwealth Club di California da Wesley Clark, generale americano a quattro stelle ed ex comandante supremo della Nato. Ecco un stralcio del suo intervento:
- “Dopo l’11 settembre abbiamo avuto un colpo di Stato della politica… Il controllo di questo paese è stato assunto da un gruppo di ben noti individui… Vogliono destabilizzare il Medio Oriente, stravolgerlo e assumerne il controllo… Non vedono l’ora di farla finita con l’Iraq per iniziare con la Siria…”
Chi controlla la Siria controlla infatti anche buona parte delle risorse energetiche del Mediterraneo e del Golfo. Ma una sconfitta di al Nusra e Isis implicava (e implica) la possibile permanenza al potere di Bashar al-Assad, alleato di Mosca e unico vero ostacolo alla realizzazione del progetto.
Particolarmente allarmato era anche Recep Tayyp Erdoğan, che all’epoca aveva bisogno di tutta la potenza di fuoco di cui solo l’Occidente disponeva per rovesciare le sorti della battaglia, relegare definitivamente alla storia Bashar al-Assad e realizzare il suo progetto neo-ottomano.
Ma per i Tomahawk e i B-52 sulla Siria non bastavano le morti dei civili, danni collaterali di ogni guerra e di tutti gli eserciti. Tutti, occidentali inclusi. Serviva di più, molto di più!
Già nel marzo del 2013 un attacco di armi chimiche contro Khan al-Assal, un villaggio a maggioranza sciita della provincia di Aleppo, aveva causato la morte di circa due dozzine di persone. Ma all’epoca tanto Alex Thomson, il corrispondente di Channel 4, quanto il magistrato svizzero Carla del Ponte, membro della Commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite, erano stati tempestivi nell’addossarne la responsabilità ai ribelli: conclusioni che sconfessavano la narrativa ufficiale, e che come tali erano state messe a tacere. Non si canta fuori dal coro….
Mosca, dal canto suo, aveva inviato un dossier di 80 pagine alle Nazioni Unite, sollecitando l’invio di una Commissione d’inchiesta, che arrivava a Damasco il 18 agosto. Tre giorni dopo missili terra-terra armati di gas sarin si abbattevano su Ghouta, un sobborgo della capitale.
Centinaia le vittime, che americani, inglesi e francesi si affrettavano ad addossare a Bashar al-Assad, l’unico, a detta loro, che aveva armi chimiche in dotazione. Era falso!
Già da mesi l’intelligence anglo-americana sapeva che al–Nusra era in grado di ottenerle, e pare persino di fabbricarle direttamente in Siria. Al-Qa’ida poi le aveva da tempo, e anni prima la CNN aveva diffuso immagini che ne ritraevano la sperimentazione in Afghanistan sui cani.
Ma l’attacco di Ghouta veniva comunque attribuito al presidente siriano, prima naturalmente di qualsivoglia inchiesta. Ed era l’attacco che oltrepassava la “linea rossa”, quella soglia fittizia oltre la quale il presidente Barack Obama avrebbe considerato legittima un’aggressione militare. Un’aggressione “umanitaria” naturalmente!
All’epoca, e più precisamente nella notte fra il 20 e il 21agosto, l’esercito siriano aveva inflitto una pesante sconfitta ai ribelli nel contesto dell’operazione Shield of the Capital(Scudo della Capitale), una massiccia offensiva militare condotta all’ingresso di Jobar, sobborgo a pochi chilometri dal centro di Damasco in mano agli insorti. E per insorti si intendono 25.000 jihadisti prevalentemente affiliati a Jabhat al Nusra e Jaysh alIslam.
Bashar al-Assad stava dunque vincendo sul campo di battaglia. E perché mai avrebbe dovuto scatenare un pandemonio che avrebbe fermato l’avanzata del suo esercito e fornito al tempo stesso a Washington un pretesto su un vassoio d’argento? Perché mai scatenarlo alle porte di Damasco proprio nei giorni in cui i commissari delle Nazioni Unite soggiornavano a pochi chilometri di distanza in un albergo della capitale? Lo avevano demonizzato in tutti i modi, ma nessuno lo aveva ancora descritto come un cretino. Perché dunque?
Una prima risposta la forniva Yossef Bodansky, ex direttore della task-force del Congresso americano su Terrorismo e Guerra non Convenzionale:
“Recenti scoperte portano alla conclusione che l’attacco di armi chimiche in Siria sia stato un attacco auto-inflitto al fine di provocare un intervento militare americano e occidentale contro il governo baathista di Bashar al-Assad.”[1]
Aveva inoltre rivelato un alto ufficiale dell’Intelligence a Seymour Hersh:
– “Sappiamo che è stata un’azione coperta pianificata dagli uomini di Erdoğan per spingere Obama oltre la “linea rossa”. Dovevano provocare un attacco chimico nei pressi di Damasco quando le Nazioni Unite erano lì. L’idea era di fare qualcosa di spettacolare. La DIA aveva informato i nostri ufficiali che il sarin era arrivato dalla Turchia….”[2]
Yossef Bodansky ricordava ancora che, circa una settimana prima dell’attacco, i leader dell’opposizione stavano preparandosi a un evento destinato a cambiare il corso della guerra:
– “Dal 21 al 23 agosto iniziava una distribuzione senza precedenti di armi all’opposizione da depositi controllati dai servizi segreti di Turchia e Qatar, sotto la supervisione dell’intelligence americana… in previsione di sfruttare l’impatto degli imminenti bombardamenti americani sulla Siria…..”[3]
E già si levava il rombo dei tamburi di guerra. Barack Obama ripeteva ormai come un mantra che Assad se ne doveva andare, del tutto incurante di cosa ne pensassero i siriani. Poi, con un’improvvisa inversione di marcia, fermava tutto, afferrava al volo il salvagente lanciatogli da Vladimir Putin e accettava lo smantellamento dell’arsenale chimico offertogli da Bashar al-Assad. Cos’era successo?
Secondo Seymour Hersh, dai laboratori britannici di Porton Down, segretissima installazione militare dello Wiltshire che
CULTURA
Religio
Cos’è un Dio?
Un Dio è uno stato mentale eterno.
Cos’è un fauno?
Un fauno è una creatura degli elementi.
Quando si manifesta un Dio?
Quando gli stati mentali prendono forma.
Quando l’uomo diventa Dio?
Quando entra in uno di questi stati mentali.
Qual è la natura delle forme in cui un dio si manifesta?
Esse sono variabili, ma conservano alcune caratteristiche specifiche.
Tutti gli stati mentali sono dei?
Non lo sono.
Da quale caratteristica possiamo riconoscere le forme divine?
Dalla bellezza.
E se le forme che si presentano non sono belle?
Sono demoni.
Se sono grottesche?
Potrebbero essere geni benevoli.
Quali sono i tipi di conoscenza?
Sono la conoscenza immediata e il sentito dire.
Il sentito dire ha qualche valore?
Qualcuno.
Qual è il sentito dire più grande?
Il sentito dire più grande è la tradizione degli dei.
Che utilità ha questa tradizione?
Ci dice di esser pronti a guardare.
In quale modo appaiono gli dei?
Dotati di forma e senza forma.
A cosa appaiono quando hanno una forma?
Al senso della visione.
E quando sono senza forma?
Al senso della conoscenza.
Una volta che abbiano una forma, possono apparire ad altro che non sia il senso della visione?
Possiamo acquisire una sensazione della loro presenza, come se stessero dietro di noi.
E in questo caso possono possedere una forma?
Possiamo sentire che ce l’hanno.
Ci sono nomi per gli dei?
Gli dei hanno molti nomi. È con i nomi che vengono trattati nella tradizione.
È dannoso usare questi nomi?
Non è dannoso pensare agli dei con i loro nomi.
Come si può percepire un dio attraverso il suo nome?
È meglio percepire un dio attraverso la forma o attraverso il senso della conoscenza e, dopo averlo
così percepito, prendere in considerazione il suo nome, o «pensare quale dio potrebbe essere»
Conosciamo il numero degli dei?
Sarebbe avventato dire di si. Bisogna accontentarsi di un numero ragionevole.
Quali sono gli dei di questo rito?
Apollo, e in un certo senso Helios, Diana in alcune delle sue fasi e anche la dea citerea.
A quali altri dei è bene, in armonia o in aggiunta a questi riti, offrire l’incenso?
A Kore e a Demetra, e anche ai lari, alle oreadi e ad altre creature degli elementi.
Come è bene accontentare questi lari e le altre creature?
È bene accontentarli e nutrirli con fiori.
Hanno bisogno di tale nutrimento?
Sarebbe sciocco credere di si, nondimeno per noi è di buon augurio che per apparire debbano essere compiaciuti.
Le cose stanno così anche in Oriente?
Questo rito è fatto per l’Occidente.
EZRA POUND, Dal naufragio di Europa, Neri Pozza, 2016, pag. 77
Il miliardario americano Mark Cuban non ha dubbi: studiate Filosofia!
Nonostante l’evocativo cognome, Mark Cuban è un miliardario americano da tempo segnalato su Forbes come uno degli uomini più ricchi degli Stati Uniti. Agli sportivi è più noto per essere il Presidente dei Dallas Mevericks, la squadra texana di basket. Di economia ne capisce parecchio visto che vanta quasi 4 miliardi di dollari di patrimonio nonostante l’umile famiglia (padre tappezziere) ed un cognome originario, Chabenisky, che tradisce l’origine russa, mentre la madre era una casalinga rumena. E’ stato il tipico ragazzo americano povero che si arrangiava con i lavoretti, ma con notevole fiuto per gli affari, se è vero che da studente universitario si è aperto un bar, subito divenuto famoso e frequentatissimo, poi una microsocietà di produzione di software, rivenduta a breve per 6 milioni di dollari. E’ proprietario di una televisione, e si è saputo gestire anche come investitore in campo finanziario.
Da uno così non ti aspetteresti il consiglio di studiare filosofia, eppure lo ha fatto in una recente intervista, pure sbilanciandosi in una previsione per certi punti di vista facile, che non posso fare mia solo perché sostengo la medesima cosa già da anni.
Il portale Glassdoor che si occupa di dare informazioni in ambito di lavoro afferma che i laureati in informatica o ingegneria saranno i più pagati in futuro, cioè con uno stipendio migliore degli altri rispetto ai laureati in discipline umanistiche. A parte che chi sostiene che la filosofia sia “solo” umanistica, non sa di cosa sta parlando, non ci pare che il celebre portale dica una cosa sconosciuta sulle differenze stipendiali tra laureati in storia dell’arte o lettere e quelli in ingegneria meccanica. Nel prendere atto del segreto di Pulcinella svelato da Glassdoor, Mark Cuban prevede che le cose cambino. In una intervista rilasciata alla ABC, ha sostenuto che tra dieci anni una laurea in filosofia varrà molto di più di una laurea in informatica.
Perché?
La spiegazione è tecnica ed economica, niente affatto romantica o legata alle preferenze personali di Cuban. Secondo il miliardario americano la tecnologia relativa all’Intelligenza Artificiale (A.I.) cambierà completamente il mercato del lavoro, ma non nel senso che ci saranno lavori per i tecnici, bensì nel senso che arriverà ad auto-programmarsi
“Con l’intelligenza artificiale automatizzeremo l’automazione – dice Cuban – e l’A.I. non avrà bisogno di me o di voi per farlo, nei prossimi dieci o quindici anni sarà capace di capire da sola come rendere automatici questi
Continua qui: http://micidial.it/2018/09/il-miliardario-americano-mark-cuban-non-ha-dubbi-studiate-filosofia/
DA QUELLO CELEBERRIMO DI “CENT’ANNI DI SOLITUDINE” A “L’OROLOGIO” DI CARLO LEVI FINO A QUELLO, BRUTTINO, DE “I GUERMANTES” DI PROUST: IL LIBRO “INCIPIT” RACCOGLIE 2001 MODI PER INIZIARE UN ROMANZO – ECCO I MIGLIORI E I PEGGIORI
Lucia Esposito per “Libero Quotidiano” –27 NOV 2018
Non è facile trovare l’attacco di un articolo che parla di incipit. La pagina che leggete, infatti, è rimasta bianca a lungo, le dita bloccate sulla tastiera alla ricerca delle parole giuste per non deludere chi, da un pezzo che parla di buon attacchi, si aspetta chissà quali artifici letterari.
L’ inizio di uno scritto è come un aratro che traccia il solco, è una promessa di ciò che accadrà, un accordo tacito con il lettore. Può essere folgorante come un amore a prima vista, oppure tortuoso e faticoso come una camminata in montagna.
C’ è chi sostiene che un buon attacco debba contenere l’ annuncio della fine. Come fa Gabriel Garcia Marquez in Cent’ anni di solitudine: «Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Adriano Buendia si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio».
In tre righe c’ è tutto: un uomo che sta per essere ucciso, il suo mestiere di colonnello, la sua infanzia, anzi un giorno particolare dei suoi primi anni di vita. Altri studiosi ritengono che l’attacco di un romanzo debba alludere senza concedere troppi dettagli al lettore, proprio come nell’ arte della seduzione.
Il volume Incipit. 2001 modi per iniziare un romanzo di Giacomo Papi, Federica Presutto, Riccardo Renzi e Antonio Stella (Skira, pagg. 538, euro 19) è una riedizione aggiornatissima di Era una notte buia e tempestosa, 1430 modi per iniziare un romanzo uscito nel 1993. La prefazione è di Umberto Eco, il quale amava studiare gli incipit.
L’ IDEA SBAGLIATA
Per il semiologo scomparso nel 2016 non è vero che chi ben comincia è a metà dell’ opera. «È divertente vedere come cadano in questa rete anche alcuni narratori grandissimi, con libri famosi, che poi si sono dimostrati migliori del loro inizio (…) La Quinta di Beethoven inizia bene mentre l’ Incompiuta di Schubert inizia in sordina, e se hai un giradischi o un mangianastri che funzionano male, non ti accorgi neppure che è incominciata (…)».
E cita L’ orologio di Carlo Levi «un libro modesto che ha un inizio che pare una zampata: “La notte, a Roma, par di sentire ruggire i leoni”». Il libro dimostra come la bellezza di un incipit non cambi sostanzialmente le cose: le prove sono nel capitolo «Fahrenheit 451», quello che raccoglie gli attacchi più brutti della storia. Esistono libri meravigliosi che iniziano male, almeno secondo gli autori del volume.
Continua qui: http://www.dagospia.com/rubrica-2/media_e_tv/principio-era-verbo-ndash-quello-celeberrimo-188922.htm
PANORAMA INTERNAZIONALE
Europa. Il gioco del cerino dei poteri in crisi
Il contesto dell’impuntatura europea sui 5 miliardi di scostamento italiani, mentre corrono crisi nordeuropee da migliaia di miliardi di euro.
Redazione20 novembre 2018
di Giuseppe Masala.
Diciamoci le cose come stanno: rompere le scatole all’Italia per uno sforamento (sulle previsioni econometriche) dello 0,5% del rapporto deficit/pil dell’anno fiscale 2019 può essere letto in due modi diversi: il primo è che a Bruxelles siano completamente matti oppure significa che è partito il gioco del cerino per fare in modo che il più fesso si bruci le dita.
In altri termini, non si può creare ad arte una crisi per pochi miliardi di europer un’impuntatura su quale sia il modello econometrico più corretto. Viene da pensare che ci sia qualcosa sotto, e seguendo l’insegnamento di Leonardo Sciascia che diceva di guardare il contesto forse possiamo anche arrivare a capire.
La Germania è sotto schiaffo da parte degli USA per la guerra commerciale, le sue banche più importanti Deutsche Bank e Commerzbank sono dei veri e propri crateri senza fondo, la Francia è in piena rivolta contro il suo presidente, i paesi del Nord Europa hanno il sistema bancario investito da un enorme scandalo di riciclaggiodi danaro sporco (Danske Bank), le aziende dell’automotive tedesca sono sotto tiro per lo scandalo Diesel Gate, la Renault sta rischiando l’arresto in Giappone del suo presidente e questo potrebbe rompere il matrimonio Nissan-Renault, la Bayer verrà travolta dalle richieste di risarcimento danni per un pesticida cancerogeno utilizzato in USA dalla controllata Monsanto.
Continua qui: https://megachip.globalist.it/kill-pil/2018/11/20/europa-il-gioco-del-cerino-dei-poteri-in-crisi-2033908.html
Saif Al Islam Gheddafi vuole tornare: ma ecco le incognite che lo frenano
MAURO INDELICATO – 27 novembre 2018
Atteso da chi “rimpiange” i 42 anni di regno del padre, in Libia e non solo, ma anche in qualche modo oggetto del mistero da almeno sette anni a questa parte. Saif Al Islam Gheddafi è un nome che nel paese nordafricano non ha mai smesso di circolare, nemmeno quando il suo destino ad un certo punto sembra segnato dopo la condanna a morte decretata nel 2015. Liberato prima su iniziativa delle stesse milizie di Zintan, le stesse che all’epoca lo hanno in custodia, e poi definitivamente dall’amnistia promulgata a Tripoli nel 2016, da allora secondo molti Saif rappresenta il legame perfetto tra passato e futuro della Libia. Ma di lui nessuna traccia e, come sottolinea la docente Michela Mercuri, il suo nome non è mai stato fatto nemmeno a Palermo in occasione del recente vertice voluto dal governo Conte. Qual è allora la verità su Saif e sul suo futuro?
“Saif sta bene e parteciperà alla conferenza nazionale”
Del perchè Saif è così gettonato sotto il profilo mediatico, si fa presto a capirlo. Si tratta del secondogenito di Muammar Gheddafi, quello più spiccatamente politico e probabile erede alla guida della jamahiriya quando ancora primavere arabe e bombe Nato a Tripoli appaiono elementi ben lontani dai pensieri di tutti. Inoltre, a differenza di Mutassim, quartogenito anch’egli ritenuto molto competente sotto il profilo politico, Saif è sopravvissuto alla guerra ed al caos seguito al rovesciamento del padre. In parole povere, se un giorno ci deve essere spazio per un nuovo Gheddafi in politica in Libia, quello spazio è destinato a Saif. Ma in video non lo si vede da anni. Da uomo libero le ultime sue immagini si riferiscono ai discorsi tenuti alla tv di Stato per provare a placare le proteste nel 2011. Le ultime in assoluto invece, hanno a che fare con la sua cattura avvenuta poco dopo l’uccisione del padre. Poi il nulla più assoluto, un silenzio che già in passato ha destato più di un sospetto.
“Non sono morto, come falsamente asserisce qualcuno. E neppure mi ritiro nella clandestinità e la fuga. Tutt’altro”. Queste parole sono attribuite proprio a Saif e sono riportate, nei giorni scorsi, in un articolo del Corriere della Sera a firma di Lorenzo Cremonesi. Queste frasi, che hanno come obiettivo quello di sgomberare il campo da ogni dubbio, sarebbero state riportate da persone vicine al secondogenito di Gheddafi presenti a Roma. Nella capitale risiedono alcune figure che hanno fatto parte dell’entourage gheddafiano e che avrebbero dunque contatti diretti con Saif. Ed è proprio a loro che il mancato erede del rais si rivolge per far arrivare un messaggio che appare tanto semplice, quanto netto: il più popolare tra i Gheddafi è in buone condizioni ed è pronto a scendere in campo. Già a gennaio, secondo i fedelissimi di Gheddafi, l’uomo più atteso di Libia potrebbe partecipare alla conferenza nazionale.
Si tratta della riunione prevista nel piano dell’Onu elaborato alla vigilia della conferenza di Palermo. È l’appuntamento verso cui si guarda con un certo interesse, utile soprattutto a comprendere se il percorso per la Libia di cui si è discusso proprio in Sicilia può o meno avere reali velleità di successo. Un appuntamento che, secondo quanto riportato dai suoi fedelissimi, appare molto sentito dallo stesso Gheddafi. Proprio la conferenza di gennaio potrebbe rappresentare il primo trampolino di lancio verso una candidatura alla presidenziali del secondogenito del rais. Qualora, ovviamente, da qui alla prossima primavera la Libia possa tornare nelle condizioni di organizzare normali e regolari consultazioni.
Ma su Saif permangono molte incognite
Il rampollo del colonnello più vicino alla politica che, sfruttando l’insicurezza e l’instabilità di questi anni, riesce ad avere appoggio di popolazione e tribù della Libia per tornare a proporsi come unica garanzia di pace per il paese. Si è di fronte, seguendo questa ricostruzione, ad una trama già scritta? Non tutto in realtà è così semplice. Al di là degli annunci e dei proclami affidati a uomini più o meno vicini a sé ed al padre, resta però il fatto che Saif continua a non farsi vedere. Forse per davvero le voci sulla sua salute od addirittura sulla sua morte sono del tutto infondate, ma silenzi e mancate apparizioni obbligano comunque a vedere la situazione in tutte le sue possibili sfaccettature. A partire dall’attuale reale status di Saif Gheddafi: è realmente libero il secondogenito del rais? Ciò che si sa è che quasi sicuramente vive a
Continua qui: http://www.occhidellaguerra.it/la-libia-e-lincognita-di-saif-al-islam-gheddafi/
POLITICA
Fascismo, antifascismo, neofascismo e altri miti
Assimilare al fascismo una serie di fenomeni politici che fascismo non sono? Come non far rientrare di tutto nell’arco della definizione e delimitare invece il campo con maggiore precisione.
4 novembre 2018kelebeklerblog.com
Riproponiamo qui un testo scritto nel 2008 da Miguel Martinez di fronte al dilagare di una pratica che poi si sarebbe diffusa presso i media mainstream e i partiti di sinistra: il tentativo di assimilare al fascismo una serie di fenomeni politici che fascismo non sono. Lo schema di Martinez è molto utile, rispetto ad altri metri che fanno rientrare di tutto nell’arco della definizione, perché cerca invece di delimitare il campo con maggiore precisione.
di Miguel Martinez.
La legge italiana vieta l’abigeato. Per poterlo vietare, innanzitutto lo definisce (in 29 parole). E in base a quella definizione, i giudici assolvono o condannano.
Allo stesso modo, chi dichiara di opporsi al fascismo ha il dovere prima di tutto di definirlo, anche sapendo che la storia è complessa. Ma solo una definizione permette di capire se siamo di fronte a qualche forma di fascismo oppure no.
Io ci provo, dando, come vedremo, una definizione in undici parole. Chi non è d’accordo, presenti la sua, ma che non sia così generica da indicare tutto e niente.
Bisogna partire dal fascismo reale, quello storico, quello che tutti sono d’accordo fosse fascista insomma. Se quello che chiamiamo “fascismo” non somiglia per niente al fascismo reale, sarà pure una cosa terribile, ma non sarà fascismo.
Il fascismo reale lo guardiamo troppo spesso al contrario, scambiandone la fine per il principio.
Mussolini entrò nella Seconda guerra mondiale facendo lo stesso ragionamento con cui Berlusconi avrebbe partecipato all‘invasione dell’Afghanistan (e Prodi ci sarebbe rimasto e Berlusconi ci sarebbe tornato): saltare sul carro dei vincitori. Possiamo immaginare che se Mussolini avesse avuto idea di come sarebbe andata a finire, si sarebbe schierato dall’altra parte, e da qui possiamo costruire anche divertenti ipotesi di fantapolitica.
Comunque, la parte meno significativa del fascismo fu una guerra in cui Mussolini entrò per sbaglio lasciandoci le penne. Se qualcuno è contrario a ciò che voleva il fascismo, deve partire da ciò che voleva Mussolini, che non era certo finire a Piazzale Loreto.
Il fascismo reale è stato il governo dell’Italia durante un periodo di grandi trasformazioni. L’antifascismo non è ovviamente l’opposizione a tutto ciò che è stato fatto in quegli anni, che comprendeva anche – ad esempio – la bonifica delle paludi pontine. Insomma, per definire il fascismo, si corre il rischio di perdersi in tutti i dettagli e i cambiamenti divent’anni di storia di un paese di diverse decine di milioni di persone.
Per quanto possibile, occorre andare all‘essenziale.
Il fascismo reale riflette un’epoca europea con tre caratteristiche fondamentali: una tremenda trasformazione economica, una violenta guerra di classe e imperialismi concorrenziali armati. Comunque la giriamo, è questione di capitalismo. Quindi, o si parla di capitalismo, di scontro di classe e di imperialismo, o è meglio lasciar perdere ogni discorso sul fascismo. [1]
Oggi va di moda rimuovere ogni riflessione su queste cose, e questo costituisce il peggiore revisionismo: perché non mette in discussione fatti di sessant’anni fa, ma ci nasconde la stessa realtà in cui viviamo.[2]
Diciamo che il 90% della storia dell’Italia tra il 1919 e il 1945 fu il frutto di quel clima, mentre il 10% – a essere generosi – è dipeso dalla volontà di Benito Mussolini o dei dirigenti del suo partito.
Il fascismo è la maniera in cui Benito Mussolini ha cercato di far cavalcare quel momento storico mondiale a un paese operettistico e artificiale, nato dai delitti, gli intrighi e i massacri (rimossi e nascosti) del Risorgimento. Un paese ferocemente diviso per classi, per regioni e dallo scontro tra laici e clericali.
Mussolini si è attorniato di un gruppo di parvenu della politica, sistemati nelle leve dello stato, in difficile coabitazione con gli eterni gestori del pantano italico.
Questi parvenu riflettevano e diffondevano un modello antropologico che li giustificava e riproduceva il loro potere.
Infatti, non è esistita solo un’economia o una politica fascista. E’ esistito anche un “uomo” fascista, che però il fascismo non ha affatto inventato. C’era infatti già il modello: l’uomo-massa forgiato, sincronizzato e anonimizzato dalle fabbriche ottocentesche e poi fordiste, dalla leva di massa e della trincee della prima guerra mondiale e dall’istruzione obbligatoria giacobina del libro Cuore.
Uno strumento costruito socialmente per la disciplina, l’obbedienza e il sacrificio, legato a un comando unico, militare, partitico o imprenditoriale; e che conviveva, spesso nello stesso corpo, con l’opposta e riottosa umanità di Pulcinella, la nuda, indisciplinata sopravvivenza. [3]
Cosa voleva Mussolini?
Direi questo: mettere a tacere gli scontri sociali attraverso una forzata unificazione nazionale attorno a uno stato mobilitatore che riproduceva il modello fabbrica-trincea, ma in compenso garantiva la sicurezza ai ricchi e una certa ridistribuzione sociale a operai e contadini. [4]
Come far quadrare il cerchio, cioè far stare bene i poveri senza espropriare i ricchi?
La soluzione riprendeva un filone già presente nel tardo Risorgimento. L’idea di realizzare, in una generazione, ciò che l’Inghilterra aveva fatto in quattro secoli: costruire un impero.[5] Anziché litigare per le risorse tra italiani ricchi e italiani poveri, bisognava rubarle al resto del mondo, come avevano fatto appunto gli inglesi, ma anche i francesi, i belgi, gli olandesi, gli spagnoli, i portoghesi e gli statunitensi. Che se non avessero fatto i loro imperi, oggi sarebbero tutti conciati come i tunisini o i colombiani.
L’Italia è un paese così provinciale da non accorgersi del suo stesso imperialismo: ma credo che questo sia il dato fondamentale per capire il fascismo, che è stato un regime relativamente moderato al proprio interno (se facciamo un confronto, ad esempio, con le stragi commesse dal non imperialista Francisco Franco), ma costantemente predatore verso l’esterno. La Seconda guerra mondiale è stata semplicemente la prima andata male al fascismo, dopo gli scippi riusciti a sudtirolesi, sloveni, libici, albanesi ed etiopi.
Tutto questo non nasce nel 1922: se vogliamo fissare una data, dobbiamo scegliere il 1911, quando l’Italia liberale invase la Libia, proprio con gli obiettivi che qui abbiamo attribuito a Benito Mussolini. Al massimo, scegliamo come data di inizio il Grande Delitto del 1914-15. [6]
Date le circostanze dell’Italia allora, il progetto fascista comportò una serie di compromessi e aspetti a volte comici, a volte tragici, che sono ciò cui si pensa di più quando si parla del fascismo; ma in realtà il passo dell’oca, le mascelle quadrate, i preti a braccetto con i gerarchi, erano solo manifestazioni esteriori di qualcosa di piuttosto semplice: uno stato protagonista, unitario e imperialista, dentro un sistema economico capitalista.
E con questo, abbiamo dato la nostra definizione in undici parole di fascismo: uno stato protagonista, unitario e imperialista, dentro un sistema economico capitalista. Ciò che somiglia a questo è fascismo; ciò che non vi somiglia non lo è.
Note:
[1] Un brillante testo su questo tema lo scrisse Daniel Guérin, Fascismo e gran capitale, Massari editore, 1994.
[2] Non vogliamo dire che la storia del fascismo si esaurisce guardando i fattori economici; e nemmeno dire che Mussolini era un semplice “agente del grande capitale”. Ma un approccio che parte dalla realtà economica, imprenditoriale e militare di quegli anni è infinitamente superiore agli approcci moralistici che vanno di moda oggi.
[3] Imporre l’unità dentro la nazione significa livellare le diversità etniche
Continua qui: http://kelebeklerblog.com/2008/11/24/fascismo-antifascismo-neofascismo-e-altri-miti-3/
SCIENZE TECNOLOGIE
IL CERVELLO CONTINUA A FUNZIONARE ANCHE DOPO CHE IL CUORE SMETTE DI BATTERE. GLI ESSERI UMANI CONTINUANO A MANTENERE LA PROPRIA CONSAPEVOLEZZA PER QUALCHE MOMENTO – I RICERCATORI HANNO STUDIATO LA PERCEZIONE DEI SOPRAVVISSUTI AD UN ARRESTO CARDIACO, E HANNO SCOPERTO CHE…
James Perugia per www.leggo.it – 26 novembre 2018
“Tutta la vita ti passa davanti un attimo prima di morire”: potrebbe essere più di una semplice suggestione da film. Recenti studi dimostrano, infatti, che il cervello umano continua a funzionare dopo la morte, anche se per un limitato spazio di tempo. Come riportato in un articolo del Mirror, i ricercatori non escludono la possibilità che una persona appena passata a miglior vita sia ancora consapevole e in grado di capire mentre i medici la dichiarano deceduta.
In base allo studio gli esseri umani continuerebbero a mantenere la loro consapevolezza anche dopo che il cuore ha smesso di battere. In pratica è come se si rimanesse intrappolati nel proprio corpo senza vita, con il cervello che funziona ancora per pochi momenti. La ricerca si è concentrata soprattutto sulla percezione che le persone che riescono a sopravvivere ad un arresto cardiaco hanno di
Continua qui: http://www.dagospia.com/rubrica-39/salute/sapere-che-morte-morire-ndash-nbsp-cervello-continua-funzionare-188837.htm
Appunto su Stupidità & Silicio
Confondere libertà di informazione e presidio dei cancelli, per presidiare i cancelli.
Marco Dotti – 28 ottobre 2018tysm.org
1) Struttura lineare. Soggetti più o meno malamente informati farfugliano o scribacchiano per soggetti ancor meno informati. Struttura (?: non c’è struttura, la linea è retta): soggetto (a) attivo – soggetto (b) passivo.
2) Struttura banale. (Definirla comunque “complessa”, crea un’aura: la linea non è retta, è spezzata). Quando A) si disarticola: soggetti malamente informati, farfugliano o scribacchiano per soggetti (b) sicuramente più informati di loro. Crisi del gatekeeping. Chi è attivo? Tutti. Chi è passivo? Il gatekeeper.
Conseguenza: avvelenare i pozzi, diffondere teorie del complotto sul complotto. Fornire elementi di innesco alle seconde. Confondere libertà di informazione e presidio dei cancelli, per presidiare i cancelli.
Spingere su dinamiche mimetiche e di contagio informativo. Innescare, denigrare. Uccidere la critica favorendo il sarcasmo. Insistere sulla retorica della parresia: dire il vero (forse), ma non dirlo mai a sé stessi.
“Dire il vero”: zittire l’altro, colonizzare l’altro. Innestare in lui rabbia, mettergli in testa fantasmi. Chiamarli “verità”. Confondere “verità” e fatti. The Effort to Drive the Other Person Crazy. Tutto va preso alla lettera, come i piccioni di Skinner: zero ermeneutica, bonificare ogni parola atto omissione dal suo contesto. Tutto va preso alla lettera. Obiezione: “ma è la matrice della violenza!”.
Ribattere: “è un fatto. È verità”. Anche la violenza è un “fatto”. È anche “verità”? Ridurre ogni
Continua qui: http://tysm.org/appunto-su-stupidita-silicio/
ESSERE UNA MACCHINA
Il libro di Mark O’Connell, “Essere una macchina”, uscito lo scorso settembre è il resoconto di un viaggio del 2016 in America sulle tracce dei transumanisti, un gruppo non sempre identificabile di individui che, in diverse forme e modalità, credono nel superamento della morte grazie all’ausilio della tecnologia avanzata. Ma il volume è anche e soprattutto un’immersione nel mondo delle Big Tech che costellano la Silicon Valley, capace di portare a galla le connessioni profonde tra apparati securitari, piattaforme tecnologiche e mondo finanziario.
22 novembre 2018
Il libro di Mark O’Connell, Essere una macchina, uscito lo scorso settembre (Adelphi, 2018) è il resoconto di un viaggio del 2016 in America sulle tracce dei transumanisti, un gruppo non sempre identificabile di individui che, in diverse forme e modalità, credono nel superamento della morte grazie all’ausilio della tecnologia avanzata.
Potrebbero esser classificati come tecno-utopisti, ma in realtà i personaggi che incontra O’Connell scavalcano questa definizione, in quanto le loro pratiche e studi oltrepassano l’immanenza delle problematiche della vita stessa e sfociano in una trascendenza tecnologica che può essere letta alla stregua di un vero e proprio culto religioso.
Il tono della narrazione assume tinte spesso ciniche e distaccate, ma mai canzonatorie e irriverenti. A un primo approccio potrebbe ricordare Una cosa divertente che non farò mai più di David Foster Wallace, per il sarcasmo di alcune descrizioni grottesche.
Eppure a una lettura attenta è evidente che il tema viene trattato con molta serietà e se alcuni personaggi descritti risultano essere degli outsiders totali – quasi degli strampalati – alla fine l’autore si sottrae dall’intento di un’analisi antropologica (alla DFW) e si concentra più sullo spirito del tempo e lo stato dell’arte in merito alla ricerca tecnologica più accelerata.
Il “viaggio” di O’Connell si svolge ai confini del mondo a noi finora noto, e per fare un parallelo con il secolo scorso le ricerche dei transumanisti sembrano aver sostituito le scorribande spaziali del ‘900, giacché lo spirito utopico non è più declinato nella scoperta di pianeti nuovi da colonizzare, ma è rivolto all’interno del corpo umano, nuova frontiera del sogno di vita eterna, immortalità.
L’indagine, allora, ruota intorno al concetto di “singolarità”, ossia in quello snodo dell’evoluzione del rapporto uomo-macchina nel quale le macchine superano le potenzialità della mente umana e sono in grado di sostituire l’uomo in qualsiasi aspetto pratico della vita.
Pur essendo ancora lontani da quel punto di svolta, è ormai la singolarità il faro al quale guardano i transumanisti, come racconta anche Giuseppe Genna nel suo ultimo romanzo History, un’operazione di fiction che, tuttavia, al pari di O’Connell porta a galla contraddizioni e sorti di questo imminente salto verso la post-umanità.
A fianco a personaggi davvero singolari, nel “viaggio” si incontrano anche molti volti noti dell’industria dell’high tech che negli ultimi anni hanno incrementato in maniera esponenziale i loro investimenti e guadagni con le tante aziende che costellano la Silicon Valley.
C’è Peter Thiel, fondatore di PayPal e finanziatore della prim’ora di Facebook.
E c’è Ray Kurzweil, uno dei grandi ideologi della Silicon e adesso ai vertici di Google Engineering e di Google Brain che, insieme ad altri, sonda la possibilità di uploadare un cervello umano, pratica che darebbe un’accelerazione definitiva al sopravvento dell’intelligenza artificiale.
L’upload cerebrale consisterebbe nello scaricare i dati di un cervello umano su un cloud in modo tale, poi, da poterli ritrasferire su di un corpo sano e funzionante. Quello che fino al secolo scorso avremmo liquidato come “fantascienza”, oggi diviene realtà. Con tutte le contraddizioni a carico, certo.
Il viaggio prosegue infatti in quella che viene avvertita dall’autore come una sorta di “fabbrica dell’immortalità”, in cui si sperimentano la crioconservazione dei corpi e altre pratiche al di là dell’immaginazione.
Non può non tornare alla mente, allora, anche Zero K, l’ultimo romanzo di Don DeLillo la cui trama si dipana attorno alla volontà del protagonista di crioconservarsi.
Protagonista che, a ben vedere, risulta totalmente imbevuto delle teorie del già citato Kurzweil sull’immortalità. Nella sua tappa alla “Alcor”, il centro di crioconservazione sito in Arizona, O’Connell si addentra nei laboratori per descrivere al lettore le diverse tecniche di congelamento dei corpi e scoprire che i cadaveri sono chiamati «pazienti», quelli che decidono di congelare solo la testa vengono definiti «neuro-pazienti» e la loro testa “mozzata” prenderà il nome di «cephalon».
Dopo l’assalto allo spazio per una futuribile messa a profitto turistica, ecco dunque l’assalto al cyber-corpo, ancora per possibili modelli di business del futuro. Ma insieme alla logica speculativa, in entrambi i casi si manifesta lampante la natura capitalistica in quanto, come spiegava Rosa Luxemburg, lo spazio esterno non ancora colonizzato (sia esso interstellare o virtuale) è necessario al Capitale per superare il virus della crisi iscritto nei suoi geni.
L’itinerario dell’autore continua poi tra fiere tecnologiche e gare di robotica con particolare attenzione alle applicazioni militari o di sicurezza, attraverso cui emergono i risvolti più inquietanti.
Lo sguardo a tratti dissacrante lascia ora il posto a uno sguardo realista: le grandi platform tecnologiche della Silicon Valley, che ormai capitalizzano singolarmente quanto un’intera borsa europea, sono legate a doppio filo col DARPA (agenzia governativa per la difesa degli Stati Uniti che ha come obiettivo lo sviluppo e l’applicazione delle nuove tecnologie in campo militare) e tutte stanno sviluppando progetti di intelligenza artificiale in grado di dar vita a nuovi dispositivi securitari e armi sempre più avanzate, quali i già utilizzati droni da combattimento.
Compare, tra le altre, la Boston Dynamics, società di robotica nata all’interno del Mit (Massachusets Institute of Technology) e cresciuta con i finanziamenti del DARPA, poi comprata da Google e rivenduta a Soft Bank.
La Boston Dynamics produce robot dalle sembianze animali ma dalla spendibilità in campo militare. La creazione più nota è “Big Dog”, un robot modellato sulle forme di un cane in grado di trasportare armamenti a fianco di un soldato su tutti i tipi di terreno. Il nuovo prototipo si ispira invece ai felini, si chiama “Wildcat” e potrà raggiungere la velocità di un ghepardo. Anche questo, progettato per spendibilità belligeranti.
La storia della BD è allora emblematica per comprendere le strette connessioni tra apparati militari, piattaforme tecnologiche e mondo finanziario.
La tecnologia risulta allora completamente inserita nella logica estrattivista del tardo capitalismo e la sicurezza (ma anche le strategie e tecniche d’offesa) rappresenta un bacino fondamentale sul quale accumulare e difendere ricchezze reali.
L’iniziale e solo apparente distacco ironico cede definitivamente il passo a uno scenario niente affatto rassicurante, in cui non può che rifrangersi una visione amara e critica della retorica libertaria che ha animato tutta l’industria tecnologica dalla “rivoluzione digitale” in poi.
Il “tour” di O’Connell torna quindi su toni più “leggeri” (ma non meno paradossali) quando l’autore si imbatte nel mondo delle associazioni filantropiche, veri e propri think tank che si interrogano su come difendere l’umanità dalle macchine nel momento in cui la singolarità verrà raggiunta.
Il paradosso è che proprio molti di questi filantropi sono gli stessi che finanziano gli studi sull’upload cerebrale. In altre parole, gli individui che finanziano con milioni di dollari l’accelerazione tecnologica verso un superamento dell’umanità per come la conosciamo, sono gli stessi a covare inquietanti ossessioni per queste scoperte al punto da finanziare al contempo gli
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STORIA
CARABINIERI DURANTE LA PRIMA GUERRA MONDIALE
La Prima Guerra Mondiale, conosciuta anche come la Grande Guerra o Guerra di Trincea sconvolse il mondo tra il 1914 e il 1918. L’Arma dei Carabinieri si trovò ad affrontare l’imponente impegno bellico a cent’anni esatti dalla sua fondazione. Infatti, il Corpo dei Carabinieri era stato costituito da Vittorio Emanuele I di Savoia al suo rientro in Piemonte dall’esilio, dopo la caduta di Napoleone Bonaparte. Per ristabilire l’ordine e cancellare il passato rivoluzionario della Rivoluzione francese, il Re ritenne opportuno istituire il Corpo dei Carabinieri Reali che modellò come la Gendarmeria francese. Esso nacque il 13 luglio 1814 con la promulgazione delle Regie Patenti firmate dal Generale d’Armata Giuseppe Thaon di Revel, 1° Comandante Generale del Corpo, che il 3 agosto di quell’anno venne nominato Presidente Capo del Buon Governo, una specie di Ministero dell’Interno istituito per sovrintendere all’apparato di polizia, di cui i Carabinieri sarebbero stati la forza militare a disposizione.
Allora, come ora, la militarità dei Carabinieri li rese protagonisti di tutti gli eventi di guerra che interessarono la nostra penisola e non solo. Dopo le 5 Giornate di Milano (18-22 marzo 1848) e la vittoriosa insurrezione di Venezia, scoppiò la 1ª guerra d’Indipendenza. I Carabinieri in quel periodo erano attivi nel Lombardo-Veneto per impedire le insurrezioni e si contraddistinsero, il 30 aprile del 1848, nella battaglia di Pastrengo (VR). Nella 2ª guerra d’Indipendenza ai Carabinieri Reali, che si distinsero particolarmente nelle battaglie di Montebello, di Palestro, di Magenta e di San Martino, vennero concesse 20 Medaglie d’Argento al Valor Militare (di cui 6 nella battaglia di San Martino) e 25 di bronzo. Eroici furono i comportamenti anche nel corso della campagna per l’Unità d’Italia del 1860-1861 e durante la 3ª guerra d’Indipendenza. Il 24 gennaio 1861, con il Regio Decreto di riordinamento dell’Esercito Nazionale, il Corpo dei Carabinieri Reali venne più volte indicato come Arma, nel senso di milizia, forza armata. Occorrerà attendere il 1873 affinché l’appellativo Arma diventi ufficiale.
Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale i Carabinieri, mobilitati in unità organiche e reparti speciali, furono inviati su tutti i fronti. Si presentarono a quella dura prova non più con l’uniforme di panno turchino ma con il grigio verde. Incorporati nell’Invitta III Armata, fecero del Podgora, dove si immolarono in una cruenta battaglia (19 luglio 1915), il monumento del loro valore.
Anche per la Benemerita la Grande Guerra fu un banco di prova per gli impegni che avrebbero dovuto affrontare da lì a venire; infatti, accanto all’assolvimento dei compiti tradizionali, dovette cimentarsi nell’espletamento di nuove mansioni quali l’assistenza alle popolazioni in fuga; il coordinamento dei più urgenti e indispensabili provvedimenti a protezione delle colonne in ritirata; la salvaguardia dei ponti ancora agibili, alcuni minacciati dalla piena, per assicurare il deflusso delle artiglierie pesanti campali; il contenimento di interi reparti di soldati, in parte sbandati e smarriti, altri decisi a sottrarsi al combattimento; la disciplina del deflusso dei profughi prima del brillamento delle mine per rendere impraticabile al nemico il transito su strade, ferrovie e corsi d’acqua; il recupero di materiale bellico abbandonato e la custodia di documenti militari riservati da trasferire in zone sicure; il contrasto allo sciacallaggio. Sicuramente, però, la mansione più impegnativa fu l’acquisizione e la trasmissione di notizie spionistiche e antispionistiche. La forza disponibile da schierare in caso di conflitto ammontava a una unità a livello di Reggimento. Il reparto si articolava su tre battaglioni composti da altrettante compagnie per un totale di circa sessantacinque Ufficiali e circa duemilacinquecento Sottufficiali, Appuntati e Carabinieri. La disposizione, che risaliva al 1905, trovò applicazione dieci anni dopo allorché, nell’imminenza della mobilitazione generale, il Comando Supremo dispose che il Reggimento dei Carabinieri Reali venisse formato da aliquote di volontari affluiti dalla Legione Allievi e dalle Legioni Territoriali di Palermo, di Bari, di Napoli, di Ancona e di Firenze. Il comando del Reggimento fu affidato al Colonnello Antonio Vannugli.
Nel piano di mobilitazione, elaborato dallo Stato Maggiore del nostro Esercito nel 1914, era previsto che ai Carabinieri Reali competesse un ruolo molto complesso: essi avrebbero partecipato come forza combattente e come polizia militare; inoltre avrebbero dovuto provvedere all’organizzazione del servizio di pubblica sicurezza nei territori da liberare, cioè nel Trentino e nella Venezia Giulia, regioni in cui occorreva istituire immediatamente una rete di Stazioni da inserire nel sistema ordinativo già consolidato in tutto il paese. In tal senso il Ministero della Guerra impartì opportune disposizioni affinché l’Arma rispondesse alla complessa esigenza con l’affidabilità che il compito esigeva. Il Comando Generale, di conseguenza, predispose un piano di attuazione delle direttive ministeriali, tali da rispondere con immediatezza alla decisione di entrare in guerra.
Il 24 maggio 1915 l’Arma era già sulla sua linea d’azione alla frontiera delle Alpi con un contingente di 172 Ufficiali e 881 uomini di Truppa. Nucleo principale era il Reggimento Carabinieri Reali Mobilitato costituito presso la Legione Allievi di Roma con personale acquisito dalla varie Legioni Territoriali. Mentre il Reggimento e un Gruppo Squadroni costituivano unità combattenti, 5 drappelli e 80 Sezioni vennero assegnati al Comando Supremo, alle Intendenze d’Armata e a ogni Comando Divisionale di
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