RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI
1 OTTOBRE 2021
A cura di Manlio Lo Presti
Esergo
E se il ritorno fosse anche più triste della scomparsa?
ELIAS CANETTI, La rapidità dello spirito, Adelphi, 1996, pag. 53
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SOMMARIO
IL SILENZIO E L’ASCOLTO DI BATTIATO
Ecco chi c’è dietro Greta Thunberg
La guerra mondiale del gas: il bello deve ancora arrivare!
La Cia & il “novus ordo missae”
L’abnorme che si vuole “normale”
Veri scopi del GREEN – PASS – TUTTI TRACCIATI E PRONTI PER ESSERE REGISTRATI E POI MACELLATI SE NON SIAMO UTILI
Titolo lungo di un racconto breve
Vecchio documentario di Rai 3: inventori di malattie
Estinzione del Welfare State
Il Congresso USA sta introducendo, zitto zitto, il Dollaro Digitale?
Intelligenza artificiale, priorità dell’UE la quale ha istituito una commissione per esaminare l’impatto della
tecnologia
Impatto ICT sul lavoro: una monografia individua rischi e opportunità
Nura Musse Ali
Diffidenti al siero
Dopo Evergrande: il mercato immobiliare cinese è congelato. Possibile importante calo del PIL mondiale
Una sinistra dalla doppia morale. Letta attacca i giudici per Mimmo Lucano ma su Luca Morisi…
La società futura agisce già su quella presente
“La terza dose ci aumenta gli anticorpi contro un virus che non esiste più” perché è mutato
EDITORIALE
IL SILENZIO E L’ASCOLTO DI BATTIATO
In questo agile volumetto Franco Battiato si intrattiene in quattro conversazioni. Gli interlocutori sono tutti di alto rango: Raimon Panikkar (filosofo, teologo, presbitero e scrittore spagnolo, di cultura indiana e catalana), Alejandro Jodorowsky (drammaturgo, regista, attore, compositore e scrittore cileno naturalizzato francese), Gabriele Mandel (islamista, psicoanalista, psicologo, storico dell’arte, artista e traduttore italiano di discendenza turco-afghana) e Claudio Rocchi (cantautore, bassista e conduttore radiofonico italiano. Fu uno dei protagonisti del rock psichedelico e rock progressivo italiano).
Gli intervistati hanno intrapreso percorsi professionali e spirituali diversi. Il criterio di scelta degli intervistati è quello di essere tutti cercatori di verità come l’autore. I temi sono quelli del misticismo, della reincarnazione, dell’eccellenza nell’arte, della prigionia dell’Ego, della speranza e dell’impossibilità. Con Raimon Panikkar il tema trattato è il Logos come segno del divino, un flusso che “attraversa gli umani”. Spiega pacatamente quanti danni provoca la separazione tra Logos e amore. Ad esempio: la scienza senza amore è calcolo! Con Alejandro Jodorowsky, regista del film La montagna sacra, la conversazione si concentra sulla valenza degli alberi. Per lui il corpo è come un albero, raccoglie energia. Il sacro è energia pura. Con il sufi Gabriele Mandel il dialogo è incentrato sulla prigione dell’Ego e la dualità soggetto-oggetto. L’anima non è dualità. Con Claudio Rocchi, il confronto si focalizza sulla logica dualistica, il mondo dei ruoli, delle identità imposte. La coscienza è il terzo polo che oltrepassa queste divisioni artificiali. Bisogna “fare pulizia” per cambiare ed estendere il livello di coscienza.
Questo piccolo gioiello di Battiato ci consente di percorrere un cammino complicato dalla mancata volontà di dismettere ruoli artificiali e a far capire l’Altrove. I quattro colloqui brevi, semplici, sereni ma profondi possono aiutare i lettori a capire e a percepire la Luce dietro una porta che gran parte di noi tiene socchiusa per timore di cambiare. Dobbiamo avere la consapevolezza di ciò che facciamo nel momento presente. Vivere il momento presente ci fa capire che il passato e il futuro sono costruzioni, opinioni, pregiudizi che ostacolano la coscienza e favoriscono la immobilità dello spirito. L’autore fa di questo libro l’emblema del “prestare ascolto”. Ogni analisi del mondo è un aspetto del grande cammino che ogni individuo deve fare per motivare la propria esistenza.
Buona lettura!
Il silenzio e l’ascolto di Franco Battiato, Castelvecchi, 2014, 55 pagine, 7,50 euro
IN EVIDENZA
Un’operazione mediatica architettata dall’alta finanza internazionale, con la regia di alcuni noti personaggi: è la tesi di un’inchiesta per spiegare il fenomeno Greta.
Greta Thunberg, la diciassettenne attivista svedese, diventata famosa in tutto il mondo per le sue battaglie ambientali al punto di aver parlato all’assemblea dell’Onu e di aver rimproverato i massimi vertici della politica internazionale – a partire dal presidente Usa, Donald Trump – per la loro disattenzione verso i problemi del clima e del surriscaldamento globale, non sarebbe la ragazzina ingenua e spontanea che un bel giorno è diventata per caso un fenomeno; si tratterebbe, invece, del frutto di un’abile operazione costruita alle sue spalle. Così Greta sarebbe, in realtà, una marionetta manovrata dall’alta finanza mondiale, che trarrebbe un grosso profitto dalla sua opera di sensibilizzazione dei popoli sulle tematiche ambientali.
L’addio alla plastica e ai combustibili, le lotte per contrastare i cambiamenti climatici (e, dunque, i sistemi produttivi delle grandi industrie) e per promuovere una mentalità “green” in tutte le categorie sociali, dagli studenti agli imprenditori fino alle casalinghe, costituirebbero una propaganda diffusa attraverso una giovane coraggiosa e che suscita attenzione per far giungere al pubblico un messaggio diffuso da un volto innocente, ma dietro al quale sarebbero mascherati poteri forti e i loro grossi affari economici in ballo. Una volta instillata nei popoli la persuasione sull’importanza del clima, il risultato è raggiunto, ma l’operazione sarebbe stata creata ad arte dall’inizio, non nata dopo semplicemente sfruttando la popolarità raggiunta da Greta.
È questa la tesi sostenuta oltreoceano da un politologo americano, il 75 enne William Engdhal che ha pubblicato la sua documentata ricerca – intitolata “Il capitale finanziario si maschera di verde” – su un sito canadese, Globalresearch, ora riportata nel nostro Paese da alcuni organi di stampa a partire dal quotidiano Italia Oggi. Proprio sul settore climatico si gioca una grossa partita, decisiva a livello mondiale per i colossi industriali e finanziari; per dare un’idea dell’importanza della posta in gioco, basti pensare al nuovo “piano verde” dell’Unione Europea, che prevede – per come anticipa oggi l’agenzia stampa Adnkronos – mille miliardi di investimenti nei prossimi dieci anni, di cui cento destinati alla riconversione economica delle aree più dipendenti dalle industrie inquinanti, e la destinazione per il futuro di almeno un quarto del bilancio comunitario in favore di progetti ‘verdi’.
Ma sarebbero molti di più, almeno 100 trilioni di dollari, stando alla ricerca che ora esporremo. La tesi “complottista” sostiene, in estrema sintesi, che la grande finanza mondiale – in combutta con le maggiori organizzazioni internazionali, dall’Onu all’Unione europea – usa Greta per creare allarmismo sul fenomeno del riscaldamento climatico globale (che, invece, secondo l’autore della ricerca sarebbe una bufala), in modo da sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema e così creare il terreno favorevole per il lucroso business del Green new deal, la rivoluzione dell’economia verde, che sarà il tema dominante dei prossimi decenni.
Si tratterebbe di un’enorme riconversione economica che andrebbe a scapito dei settori dell’economia tradizionale, le industrie e le fabbriche che adesso inquinano l’acqua e l’aria in tutto il mondo con emissioni nocive, scarti di lavorazione tossici e rifiuti non biodegradabili. Queste imprese, spinte dal nuovo corso deciso dalla politica – a sua volta, come vedremo, manovrata dall’alta finanza – dovranno presto adeguarsi e riconvertire i loro sistemi produttivi, facendo investimenti miliardari che farebbero guadagnare soprattutto chi si è sapientemente posizionato in anticipo in questo business redditizio.
Enghdal non fornisce solo le deduzioni generali che abbiamo sintetizzato, ma arriva anche a fare alcuni nomi precisi delle persone coinvolte nell’operazione: cita l’attuale Governatore della banca d’Inghilterra, Mark Carney, 54 anni, e l’ex vicepresidente degli Stati Uniti d’America, Al Gore, 71 anni, che presiede un gruppo internazionale impegnato, guardacaso, negli investimenti produttivi sulla sostenibilità ambientale. La mente del progetto, sostiene Enghdal, sarebbe Carney che, qualche anno fa, aveva intrapreso iniziative per informare gli investitori finanziari sui rischi legati al clima; da qui, il finanziere Michael Bloomberg, insieme ad altri 30 istituti bancari, hanno avviato un programma di investimenti green al quale ha aderito anche il principe Carlo d’Inghilterra. Così sarebbero nati i Green Bonds, titoli speculativi per indirizzare i risparmi dei cittadini, come i piani pensionistici e i fondi di investimento, verso questi nuovi progetti verdi.
In sostanza, quasi tutti i maggiori operatori finanziari del mondo sarebbero coinvolti nell’operazione, che, però, per la sua riuscita, richiedeva il coinvolgimento mediatico da parte di qualcuno in grado di attirare l’attenzione delle masse: appunto Greta. Per cui non sarebbe affatto casuale la sua protesta, quando nel settembre 2018, dopo un’estate caldissima in Svezia, smise di andare a scuola, fondò un movimento studentesco ed andò a sedersi sui gradini del Parlamento europeo, fino a quando fu “scoperta” dai riflettori ed è balzata all’attenzione mondiale, crescendo di successo in successo fino ad arrivare a dialogare con i potenti della terra e conquistare la scena con le sue dirompenti dichiarazioni di allarme e i suoi appelli a reagire, pena la catastrofe. Il report di Enghdal sostiene che attraverso Greta e il suo attivismo questi poteri finanziari forti cercano di «raggiungere obiettivi arbitrari come le emissioni zero di gas serra usando la paura di uno scenario da fine di mondo».
In effetti, la ricostruzione dell’analista americano parte da un principio possibile, ma non verificato né verificabile se non attraverso indizi (il potere enorme e incontrastato dell’alta finanza mondiale riunita in una sorta di “cabina di regia”) e da qui mette insieme alcuni fatti noti – l’inquinamento ambientale, da un lato, e l’entità degli investimenti necessari per la riconversione green dei processi produttivi dall’altro – con fenomeni ancora alquanto contrastati perché non sono ancora ben noti gli effetti a lungo termine, in particolare il surriscaldamento globale del pianeta, che è stato misurato solo a livello di tendenza e su cui gli scienziati non hanno raggiunto una posizione univoca; a questa miscela già instabile, Enghdal aggiunge, per renderla esplosiva, una circostanza effettivamente sorprendente, cioè una ragazza comune e sconosciuta che arriva alla ribalta mondiale e suscita l’attenzione di tutti i popoli e dei loro governanti.
A questo punto, una volta accostati tali elementi, non è difficile credere che si tratti di qualcosa di artificiale anziché spontaneo e che dunque ci sia qualcuno dietro Greta, molto più abile e sapiente di lei e anche molto meno disinteressato. Dunque, tutti questi ingredienti vengono utilizzati per dedurre la conclusione che dietro Greta ci siano sapienti mani che hanno orchestrato l’operazione dall’inizio e la portano avanti a fini di profitto. Una costruzione che regge, forse, da un punto di vista logico, ma non è suffragata da prove concrete e, dunque, rimane nel campo delle ipotesi.
Intanto, Greta continua a parlare e a girare il mondo con le sue iniziative. Ai vertici dell’Onu nel 2018 aveva dichiarato: «Siamo di fronte a una minaccia esistenziale. Questa è la crisi più grave che l’umanità abbia mai subito. Noi dobbiamo anzitutto prenderne coscienza e fare qualcosa il più in fretta possibile per fermare le emissioni e cercare di salvare quello che possiamo.» Rivolta ai governanti aveva detto: «Voi parlate soltanto di un’eterna crescita dell’economia verde poiché avete troppa paura di essere impopolari. La biosfera è sacrificata perché alcuni possano vivere in maniera lussuosa. La sofferenza di molte persone paga il lusso di pochi. Se è impossibile trovare soluzioni all’interno di questo sistema, allora dobbiamo cambiare sistema, Non siamo venuti qui per supplicare i leader di agire. Ci avete ignorato in passato, e ci ignorerete ancora. Voi avete finito le scuse, e noi stiamo finendo il tempo. Il vero potere appartiene al popolo.» E l’anno scorso intervenendo ancora sul tema aveva aggiunto: «Il cambiamento sta arrivando, che vi piaccia o no.»
Poi, l’ultimo vertice di Madrid sul clima a dicembre scorso, che si è unanimemente concluso in un fallimento, perché i leader non hanno raggiunto alcun accordo sulla riduzione delle emissioni dannose per il clima; in quei giorni, c’è stata anche, quasi in contemporanea, la diffusione dello studio di Global Research che abbiamo analizzato. Una coincidenza strana, ma anche significativa: ragionando a parti ribaltate, potrebbe voler dire che proprio in occasione del flop sull’ambiente si è deciso di delegittimare Greta per far perdere credibilità a lei oltre che alle sue idee, già “bocciate” dai leader internazionali (se ne riparlerà soltanto fra un anno, è stato stabilito). E a quel punto, senza Greta di mezzo a sollevare proteste e questioni sul clima, ci guadagnerebbero altri, diversi da quelli indicati nello studio.
FONTE: https://www.laleggepertutti.it/356223_ecco-chi-ce-dietro-greta-thunberg
Dmitry Orlov
cluborlov.wordpress.com
Il prezzo spot del gas naturale in Europa ha appena superato il livello, psicologicamente importante, dei 1000 dollari per mille metri cubi, o un dollaro al metro cubo. Questo ha già avuto alcuni risultati significativi in tutta Europa. Nel Regno Unito, gli impianti che producono fertilizzanti non possono funzionare a questi prezzi e hanno chiuso. Questo causerà, a tempo debito, un’inflazione nei costi dei prodotti alimentari, ma l’effetto immediato sarà quello di privare i consumatori di carne confezionata e birra a causa della carenza di ghiaccio secco, un sottoprodotto della produzione dei fertilizzanti. Nel frattempo, dall’altra parte di ciò che resta dell’Unione Europea, negli Stati Baltici i prezzi dell’energia elettrica sono ora 10 volte più alti che in Russia, appena oltre il confine. Naturalmente, [i Baltici] sarebbero i benvenuti se volessero comprare elettricità economica e abbondante dalla Russia, ma questa dovrebbe passare attraverso la Bielorussia e la Lituania e i Lituani hanno strategicamente distrutto le relazioni con la Bielorussia ospitando la latitante Tikhanovskaya, la “massaia,” una sorta di Juan Guaidó bielorusso.
Dall’altra parte della Bielorussia si trova l’Ucraina, dove le cose sono ancora più divertenti. Già nella primavera del 2019, l’Ucraina aveva rifiutato la generosa offerta della Russia di acquistare gas a 240-260 dollari per mille metri cubi (un quarto dell’attuale prezzo spot) e aveva invece optato per comprarlo sul mercato spot. Il risultato è che l’Ucraina ha bisogno di 13 miliardi di metri cubi di gas in stoccaggio per superare la stagione del riscaldamento, ma, attualmente, ne ha meno di 5. Ma può sempre comprare quello di cui ha bisogno sul mercato spot, giusto? Sbagliato! L’Ucraina è al verde e con un budget uguale a zero per questa operazione. Fortunatamente può ancora comprare elettricità a buon mercato dalla Russia, almeno fino a quando i nazionalisti ucraini non decideranno di far saltare le linee di trasmissione verso la Russia, come avevano fatto con quelle verso la Crimea russa un po’ di tempo fa, provocando carenze di energia nella penisola e costringendo i Russi a costruire un ponte energetico dalla terraferma, un processo che ha richiesto quasi un anno.
Ma, a differenza dell’Ucraina, che è al verde, i paesi dell’UE non devono congelare perché possono semplicemente comprare il gas di cui hanno bisogno sul mercato spot, sotto forma di gas naturale liquefatto, giusto? Sbagliato! Il mercato del GNL è globale e i concorrenti europei dell’Asia orientale – Cina, Corea del Sud e Giappone – possono sempre fare offerte più alte per le forniture disponibili. Questi tre Paesi hanno un deficit strutturale con gli Stati Uniti ormai da decenni e hanno accumulato un’immensa quantità di debito federale statunitense. Con gli Stati Uniti ormai vicini alla bancarotta nazionale e/o a scatenare l’iperinflazione del dollaro permettendo al proprio debito nazionale di superare la soglia dei 30 trilioni di dollari, sono ansiosi di scaricare quanto più possibile di questo gruzzolo, scambiandolo con materie prime necessarie, come il gas naturale. A loro non importa molto quanto costerà il gas, perché il prezzo finale del debito USA sarà zero e qualcosa è sempre meglio di niente. Così, c’è una buona probabilità che l’UE, quest’inverno, batta i denti al buio, in solidarietà con l’Ucraina.
Ma le cose vanno molto meglio negli Stati Uniti che, dopo tutto, sono un fiero esportatore di gas naturale grazie a ciò che resta della loro industria del fracking. Sbagliato di nuovo! L’Industrial Energy Consumers of America (IECA), un gruppo lobbisticdo dell’industria chimica e alimentare, ha appena chiesto al Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti di porre dei limiti alle esportazioni di GNL. Altrimenti, dicono, i prezzi molto alti del gas naturale [sul mercato interno] renderebbero numerose imprese americane non competitive e le costringerebbero a chiudere. I prezzi sono già saliti del 41% nell’ultimo anno. Ma questo non è stato sufficiente per stimolare la produzione: l’estrazione di gas naturale negli Stati Uniti sta scendendo insieme al numero di piattaforme di perforazione e la quantità di gas in deposito è attualmente del 7,4% al di sotto della media degli ultimi cinque anni. Il tentativo di porre dei limiti alle esportazioni di GNL provocherà gli alti lai dei lobbisti dell’industria energetica, che hanno molta influenza a Capitol Hill, e risulterà in lunghe battaglie politiche in un Congresso USA già fortemente diviso e conflittuale.
Nel frattempo, nell’UE, c’è qualcosa che può essere fatto immediatamente per evitare questa crisi: attivare l’appena completato NordStream2, mettendo da parte i protocolli burocratici europei che allungheranno il processo di certificazione e gettando alle ortiche la restrizione, veramente demenziale, che sia usato solo al 50% della capacità. La russa Gazprom sarebbe perfettamente disposta a firmare un accordo di fornitura a lungo termine ad un prezzo ragionevole, proprio come ha fatto con l’Ungheria solo pochi giorni fa. Ma, per ora, un tale cambiamento sembra improbabile. Da un lato i fondamentalisti del libero mercato sono ancora pieni di fede cieca che il libero mercato, in qualche modo, impedirà alla loro gente di congelare; dall’altro, gli ambientalisti sembrano credere che il congelamento sarebbe un atto virtuoso che aiuterebbe a salvare il pianeta dal surriscaldamento. La prossima primavera, lo scioglimento della neve potrebbe rivelare un paesaggio politico disseminato di cadaveri congelati di ambientalisti e fanatici del libero mercato. Naturalmente, dovremmo tutti augurare loro buona fortuna, che lo meritino o no.
Dmitry Orlov
Fonte: cluborlov.wordpress.com
Link: https://cluborlov.wordpress.com/2021/09/28/global-gas-wars-the-fun-has-just-begun/
28.09.2021
Scelto e tradotto da Markus per comedonchisciotte.org
FONTE: https://comedonchisciotte.org/la-guerra-mondiale-del-gas-il-bello-deve-ancora-arrivare/
La Cia & il “novus ordo missae”
don Curzio Nitoglia
il Liberalismo americanista entra nell’ambiente ecclesiale romano
Roberto Marchesini in un interessante libro (Liberalismo e Cattolicesimo, Milano, Sugarco, 2021) dimostra, con prove inoppugnabili, che Padre John Courtney Murray (1904 – 1967), un gesuita americano, fu una vera “quinta colonna”, al servizio della Cia, dentro la Chiesa per eroderne l’identità dal di dentro e cambiarne (“si fieri potest”).
Già sul finire della Seconda Guerra Mondiale gli Usa si apprestavano a conquistare definitivamente l’Europa e poi il mondo intero. Tuttavia, vi era ancora un “Impero” che nonostante tutto non era crollato nel 1945: la Chiesa romana e che andava inglobato nel Nuovo Ordine Mondiale.
In America, soprattutto Roosevelt e il magnate dell’editoria Henry Luce (1898– 1967) avevano capito che persino nella loro Patria (gli Usa) i Cattolici erano organizzati piramidalmente con una specifica gerarchia (parroco e Vescovo, che rispondevano al Papa di Roma), in enclave nazionali (italiani, irlandesi, polacchi, tedeschi…).
Costoro non si erano assimilati all’ideologia “Wasp” ossia dei “Bianchi, anglosassoni e protestanti” e risultavano difficilmente assimilabili.
Inoltre erano prolifici (come oggi lo sono gli Arabi) e sarebbero diventati, entro non molto tempo, maggioranza in America, facendola diventare cattolica per la esplosione della “bomba demografica”.
Occorreva correre ai ripari… Bisognava cambiare la mentalità dei Cattolici e cercare di renderli “sterili” fisicamente e dottrinalmente, modificando la morale matrimoniale, tramite l’introduzione della contraccezione, che avrebbe, così, anche minato la fortezza dogmatica e dottrinale dei Cattolici, impregnandoli di Americanismo o Modernismo ascetico, “sterilizzandoli”.
Roberto Marchesini c’informa che «tra il 1963 e il 1967, presso l’Università cattolica Notre Dame di South Bend in Indiana, l’associazione abortista Planned Parenthood tenne una serie di seminari segreti sul controllo delle nascite, sull’aborto e sulla contraccezione. I destinatari dell’iniziativa erano alcuni docenti dell’Università che, a cascata, avrebbero in séguito diffuso i contenuti delle conferenze sugli studenti. In cambio, l’Università avrebbe ricevuto 100.000 dollari dalla Ford Foundation e, addirittura, 500.000 dalla Rockefeller Foundation. Inoltre, grazie a padre Theodore Martin Hesburgh (1917 – 2015), il rettore dell’Università Notre Dame, John D. Rockefeller ottenne (il 15 luglio 1965) un’udienza privata con Paolo VI per illustrargli i vantaggi dell’applicazione della spirale intrauterina[1]. In cambio dei suoi servigi, padre Hesburgh venne nominato presidente della Rockefeller Foundation» (R. Marchesini, cit., p. 124).
Ma non è tutto qui. Infatti, gli Usa avrebbero voluto impadronirsi della struttura della Chiesa romana, così efficientemente funzionante, per impiantare rapidamente ed efficacemente un Nuovo Ordine Mondiale nell’universo intero.
L’intelligence americana aveva notato che i Cattolici erano compatti e obbedienti; diffusi in tutto l’orbe, ben strutturati in parrocchie e diocesi sotto la direzione del Papa, quindi fortemente gerarchizzati.
Insomma, la Chiesa era l’arma migliore per esportare in tutto l’universo l’ideologia americana, ma occorreva infiltrarla, occuparla, prenderne la guida e neutralizzarla.
Per far ciò, si pensò anche di sfruttare l’arma “anticomunista”, ossia di far entrare i Cattolici nell’orbita degli Usa con lo spauracchio della lotta del Patto atlantico contro l’Impero sovietico; insomma, lo spettro della paura del Comunismo avrebbe spinto i Cattolici europei a gettarsi in braccio al Liberalismo atlantico; proprio come oggi la paura del Covid/19 spinge gli uomini all’inoculazione del vaccino sperimentale i cui effetti avversi (non ancora totalmente conosciuti a lungo termine) iniziano già a farsi sentire.
L’intelligence statunitense affidò al generale C. D. Jackson (1902 – 1964) della Cia (e uno dei principali artefici del Bildelberg group) il compito d’infiltrare la Chiesa e di renderla aperta alla mentalità americana.
Tuttavia, occorreva edulcorare alcuni princìpi cattolici eccessivamente dogmatici, i quali non avrebbero reso possibile un proficuo “dialogo” tra Washington e Roma.
Innanzitutto bisognava smussare il dogma “fuori della Chiesa non c’è salvezza”, troppo esclusivista per il pluralismo inclusivista liberal/americano, che faceva un tutt’uno con l’indifferentismo liberale di stampo massonico.
Il secondo punto da ammorbidire riguardava la dottrina dei rapporti tra Stato e Chiesa, che (per il Cattolicesimo) debbono collaborare nell’ordine della gerarchia dei fini, ossia lo Stato, che è ordinato al benessere comune temporale deve essere subordinato alla Chiesa, deputata al benessere spirituale; come il corpo è subordinato all’anima, la luna al sole.
L’America, paladina del Liberalismo della Massoneria e del Giudaismo talmudico, riteneva che ci dovesse essere totale separazione tra Stato e Chiesa e che questa non potesse presentarsi come l’unica arca di salvezza.
Tuttavia, per portare a termine quest’operazione non bastava un “agente” esterno (la Cia), ma occorreva una “talpa” interna, ossia una “quinta colonna” o un “cavallo di Troia” all’interno della Chiesa stessa. Questa “talpa” fu padre John Courtney Murray.
Ancora Marchesini (p. 126) spiega che il 26 aprile del 1948 la National Conference of Christians and Jews organizzò a Baltimora una conferenza segreta su “Stato e Chiesa”. Erano presenti, ebrei, protestanti e un solo cattolico: padre Murray.
Lo stesso legame tra Ebraismo e Libertà religiosa lo ritroveremo tra poco trattando la questione della genesi dei due Documenti del Concilio Vaticano II sui rapporti tra Stato e Chiesa (Dignitatis humanae personae) e tra Giudaismo e Cristianesimo (Nostra aetate).
Scopo della conferenza era quello di arrivare a far cambiare rotta all’insegnamento della Chiesa su questo tema. «Da quel momento, Murray divenne noto per le sue posizioni a favore della separazione tra Stato e Chiesa» (R. Marchesini, cit., p. 126), pure essendo questa una teoria condannata dalla Chiesa.
La seconda moglie dell’Editore Luce era Claire Boothe Luce (1903 – 1987), che si era convertita al Cattolicesimo nel 1946 e che divenne ambasciatrice degli Usa in Italia, con delega ai rapporti con il Vaticano dal 1953 al 1956.
Nel 1955 il S. Uffizio intimò al Murray di non scrivere più sul tema dei rapporti tra Stato e Chiesa nel senso della separazione totale tra di loro; ma invano, oramai egli era più americanista che romano e lavorava alacremente per la Cia alla elaborazione della dottrina che sarebbe stata “canonizzata” anche a Roma con la Dichiarazione Dignitatis humanae personae del 7 dicembre 1965.
Tuttavia, nonostante le ingiunzioni del Sant’Uffizio, nel 1962 padre Murray venne a Roma per partecipare come perito del cardinal Spellman ai lavori del Concilio Vaticano II, e specificatamente per far passare de facto nell’ambiente ecclesiale la nuova teoria della “Libertà religiosa” come avverrà con il Decreto Dignitatis humanae personae (7 dicembre 1965).
Non si può capire ciò che è successo al Concilio senza studiare il ruolo giocato in esso dai servizi segreti soprattutto americani e israeliani molto più che sovietici.
Roncalli, bea e Jules Isaac: il Liberalismo Talmudico s’infiltra nell’ambiente ecclesiale
Ora, se già dal 1948 la Cia (non senza la National Conference of Christians and Jews) si occupava del concetto di “Libertà religiosa” da far accettare all’ambiente ecclesiale romano; nel 1960 il Bené Berith, ossia la Massoneria ebraica (non senza il Mossad), fece gli ultimi passi per addivenire alla stesura della Dichiarazione Dignitatis humanae personae (7 dicembre 1965) sulla “Libertà religiosa” e a quella sui rapporti tra Cristianesimo e Giudaismo che si chiamerà Notra aetate (28 ottobre 1965). Vediamo come…
I personaggi più rappresentativi che lavorarono alla stesura di questa Dichiarazione furono Giovanni XXIII, il cardinal Bea e Jules Isaac.
L’incontro tra Roncalli e Jules Marx Isaac (13 giugno 1960) fu organizzato dal Bené Berith (d’ora innanzi B.B.)[2].
L’altro artefice di Nostra aetate (d’ora innanzi “NA”) fu il card. Agostino Bea[3], che volle incontrare – sùbito dopo aver ricevuto da Roncalli l’incarico di arrivare ad un documento “revisionista” sui rapporti giudaico/cristiani – Nahum Goldman (Presidente del Congresso Mondiale Ebraico, nonché ideatore del Processo di Norimberga nel 1946) a Roma il 26 ottobre 1960. Bea chiese a Goldman, da parte di Roncalli, una bozza per il futuro documento del Concilio sui rapporti cogli Ebrei e sulla libertà religiosa (“NA” e “Dignitatis humanae personae”). Il 27 febbraio 1962 il memorandum fu presentato a Bea da Goldman e Label Katz (anche lui membro del B.B.), a nome della Conferenza Mondiale delle Organizzazioni Ebraiche. Ebbene, questa bozza ispirata dalla Massoneria ebraica (B.B.) e dal Congresso Mondiale Ebraico, ha prodotto Dignitatis humanae (d’ora in poi “DH”) e “NA”[4].
Lo stesso Bea, sin dal 1961, incontrava spesso, a Roma, il rabbino Abraham Yoshua Heschel, professore al “Seminario Teologico Ebraico” statunitense. Egli fu il padre spirituale dei “teo/conservatori” cristianisti dell’amministrazione Bush jr., e «come collega scientifico di Bea… esercitò un notevole influsso sulla elaborazione di “NA”»[5].
Nel 1986 Jean Madiran ha svelato l’accordo segreto di Bea/Roncalli con i due dirigenti Ebrei (Isaac/Goldman), citando due articoli di Lazare Landau, sul Quindicinale ebraico/francese “Tribune Juive” (n. 903, gennaio 1986 e n. 1001, dicembre 1987).
Landau scrive: «Nell’inverno del 1962, i dirigenti Ebrei ricevevano in segreto, nel sottosuolo della sinagoga di Strasburgo, un inviato del Papa […] il padre domenicano Yves Congar, incaricato da Bea e Roncalli di chiederci ciò che ci aspettavamo dalla Chiesa cattolica, alla vigilia del Concilio […] la nostra completa riabilitazione, fu la risposta […]. In un sottosuolo segreto della sinagoga di Strasburgo, la dottrina della Chiesa aveva conosciuto realmente una mutazione sostanziale»[6].
Uno spauracchio deleterio: O liberisti o comunisti, tertium non datur?
Infine, uno dei cavalli di battaglia dei teocon per perorare la causa del Liberalismo è la contrapposizione radicale tra il Liberismo e il Comunismo. Per cui il dilemma sarebbe: “O comunisti o liberisti, tertium non datur!”; insomma: “Chi non si vaccina con il il siero del Liberalismo contro il virus del Comunismo, muore!”.
Il paladino di questa posizione è stato un allievo del Murray, Michael Novak, che sotto il ricatto della paura del Comunismo, ha fortemente spinto non solo l’Europa ma anche l’ambiente ecclesiale verso l’Atlantismo e il Sionismo.
La dottrina cattolica, invece, insegna che il Socialcomunismo è un “effetto collaterale” del Liberalismo filosofico/politico e della sua versione economica (Liberismo).
Infatti, il Socialismo spinge alle conclusioni estreme e radicali ciò che è contenuto potenzialmente, anche se in maniera meno accesa quanto al modo, nel Liberalismo; insomma, tra di loro vi sono le medesime differenze che vi erano tra Rivoluzione britannica e francese, tra Massoneria di destra e di sinistra.
Ancora Marchesini cita – per provare la sostanziale identità (nella accidentale diversità) tra Liberalismo e Comunismo – un interessante libro di Ettore Bernabei (L’Italia del “miracolo” e del futuro, Siena, Cantagalli, 2012), secondo cui gli Usa avrebbero voluto favorire il Marxismo/leninismo per impedire alla Russia, che possedeva le materie prime, di diventare – da Paese agricolo e medievale – una potenza industriale capace di competere con il super/capitalismo atlantico e occidentale, mantenendo le sue radici cristiane, le quali invece furono cancellate dal Bolscevismo.
Divenendo comunista, la Russia avrebbe perso molte delle sue potenzialità di arricchirsi industrialmente e di competere con gli Usa.
Alcuni esempi tratti dalla storia della Rivoluzione bolscevica del 1917 sono abbastanza significativi.
Leon Trotskij, ad esempio, sbarcò con la famiglia a New York il 13 gennaio del 1917, ampiamente foraggiato dal super/capitalismo statunitense. Il 27 marzo del 1917 lasciò l’America diretto in Norvegia, su una nave piena di rivoluzionari comunisti, ma venne intercettato dalla marina britannica ad Halifax e fu arrestato come spia tedesca. Qualcuno telegrafò in sua difesa al Presidente Usa (Woodrow Wilson) che fece arrivare a Trotskij e “compagni” regolari passaporti statunitensi per tornare in Russia (a fare la Rivoluzione). Trotskij arrivò in Russia il 17 maggio 1917[7].
Inoltre la Federal Reserve Bank di New York finanziò i bolscevichi nell’agosto del 1917, mentre nel maggio del 1918 venne fondata – con lo scopo di poter commerciare liberamente con la neonata Urss – la American League to Aid and Cooperate with Russia. Infine, il più grande ente finanziario americano Kuhn Loeb and Company partecipò al finanziamento del primo piano quinquennale ideato e realizzato da Stalin tra il 1928 e il 1933[8].
Perciò il super/capitalismo liberista statunitense fece tutto il possibile per aiutare il Comunismo sovietico a non morire di fame e a portare avanti la Rivoluzione bolscevica.
Ciò non significa che i banchieri statunitensi fossero comunisti, ma solo che la loro ideologia era il mercato, il profitto e il guadagno, insomma il super/liberismo, il quale era dispostissimo a servirsi del Comunismo per arricchirsi maggiormente.
Essi, come avevano fatto i Rothschild nel 1800 finanziando sia Napoleone sia Wellington, aiutavano economicamente sia i bolscevichi sia i “bianchi” rimasti fedeli allo Zar, guadagnando sia con gli uni sia con gli altri.
Tuttavia, in questo campo, non si può considerare unicamente il fattore dello sfruttamento da parte della finanza americana del Bolscevismo sovietico per mantenere la Russia in una posizione di dipendenza economica nei propri confronti; invece, occorre pure studiare il ruolo giocato dal risentimento della finanza ebraica contro lo Zarismo per la sua politica marcatamente antigiudaica (A. Solgenitsin, Due secoli assieme, Napoli, Controcorrente, 2007, 2° vol.).
Tuttavia, è innegabile che uno dei motivi primari che muovevano gli Usa nei confronti della Russia fosse proprio quello di togliere di mezzo un pericoloso concorrente. Infatti, sotto i Soviet la Russia non era in grado neppure di poter pensare di avvicinarsi all’America dal punto di vista economico/commerciale.
Tutto questo prova che la Rivoluzione comunista e l’alta finanza liberista non solo non sono contrapposte, ma sono in un rapporto di cooperazione per lo stabilimento di un Nuovo Ordine Mondiale, che possa controllare il mercato mondiale e anche la politica dell’universo orbe, in cui il mondo sovietico potrebbe fornire mano d’opera a bassissimo prezzo al mondo occidentale e liberale, per di più senza diritto di sciopero.
Insomma, conclude Marchesini: “Il Comunismo sovietico in Russia è stato tutt’altro che un nemico per il capitalismo occidentale” (cit., p. 144).
Un altro indizio di questa complementarità nella diversità tra Comunismo e Liberismo è il fatto che la principale istituzione del Socialismo mondiale la Fabian Society e la maggiore Istituzione del Liberismo, la London School of Economics, non hanno lottato tra di loro ma si sono correlate…, vediamo come.
La Fabian Society fu fondata nel 1884, essa si proponeva di raggiungere i suoi scopi in maniera graduale ed è per questo che si chiama Fabian da Quinto Fabio Massimo il Temporeggiatore, colui che lottò contro Annibale temporeggiando ed evitando lo scontro frontale.
Analogamente la Fabian Society si proponeva di raggiungere i suoi scopi iper/liberisti senza scosse violente, senza lotte frontali, ma gradualmente e dolcemente. Essi erano e sono ancora: 1°) l’eliminazione delle Nazioni e delle Patrie; 2°) la loro sostituzione con un Governo Unico Mondiale, guidato da una élite di ultra/plutocrati che governano su una massa di ultra/poveri; 3°) il controllo poliziesco sulla popolazione mondiale tramite la pratica sanitaria e eugenetica; 4°) l’abolizione della vera religione tramite la cancellazione del culto pubblico reso all’unico Mediatore e Redentore del genere umano, ossia il Sacrificio della Messa di Tradizione apostolica; 5°) l’abolizione della piccola e media proprietà e impresa privata a pro del latifondo e della grande industria.
Ecco perché lo stemma primitivo della Fabian Society era un lupo travestito da pecora, ossia il turbo/capitalismo che si nasconde sotto sembianze di agnello per scannare i popoli e succhiare il loro sangue.
Ma non è tutto, anzi qui viene il bello. Infatti la socialistissima Fabian Society nel 1895 dette nascita alla London School of Economics and Political Science: il tempio del super/liberismo mondiale e mondialista.
Mi sembra, perciò, molto difficile negare che vi sia stata una certa simbiosi tra Socialismo e Liberismo per la futura dominazione universale del mondo intero da parte di una piccola élite; insomma, Liberismo e Socialismo non solo non sono contrapposti, ma sono due facce della stessa medaglia, due rami dello stesso albero e due tentacoli della medesima piovra: un materialismo di “destra” e per ricchi e un materialismo di “sinistra” e per poveri.
La cia, la messa beat (1965/66) e la “Nuova Messa” (1969)
Un’altra ulteriore tappa dell’instaurazione del Nuovo Ordine Mondiale, come trampolino di lancio del Regno dell’Anticristo finale, dopo il Concilio Vaticano II (1962 – 1965) fu la promulgazione (3 aprile 1969) della Nuova Messa di Paolo VI, ossia il famigerato Novus Ordo Missae.
Questa riforma promulgata nel 1969 fu preceduta dalle orribili Messe beat, la prima delle quali fu celebrata ufficialmente il 27 aprile 1966, ma ufficiosamente già nel 1965.
Verso la metà degli anni Sessanta, il maestro Marcello Giombini (1928 – 2003), autore di colonne sonore di western all’italiana[9], ebbe l’idea di scrivere in collaborazione con il paroliere Giuseppe Scoponi (1925 – 2017), delle canzonette a sfondo vagamente “religioso”, con ritmi beat (cfr. M. Scaringi, La Messa dei giovani di Marcello Giombini all’indomani della Riforma liturgica, Roma, Ufficio Liturgico Nazionale, 1996; T. Tarli, Le messe beat, Roma, Castelvecchi, II ed. 2007; F. Marchignoli, Pop italiano d’ispirazione cristiana, Villa Verrucchio, La Pieve Poligrafica, 2008).
Nel 1965 un complessino yé-yé ascolano “Gli Amici” incise un disco di canzoni “sacre” che avrebbero iniziato ad animare le messe beat ancor prima che venisse promulgata la Nuova Messa Montiniana. Sùbito dopo salì alla ribalta il complesso sardo de “I Barrittas”.
Questi veri e propri scempi, precursori della Nuova Messa Montiniana, furono sùbito elogiati dal Generale dei Gesuiti di allora, padre Pedro Arrupe (1907 – 1991). Il gesuita Arrupe fu affiancato dal padre domenicano Gabriele Sinaldi della Università “Pro Deo”, consigliere di Giuseppe Scoponi, che incoraggiò Marcello Giombini a comporre la cosiddetta “Messa dei giovani”, ossia la quasi ufficializzazione della Messa beat in attesa della promulgazione del Novus Ordo Missae.
Questa “Messa beat ufficiosa” e non ancora ufficiale fu eseguita (più che celebrata) la prima volta nella chiesa di San Filippo Neri alla Vallicella, il 27 aprile del 1966, alla presenza di migliaia di persona, della TV e di molti giornalisti.
La Messa beat non deve essere considerata una scappatella effimera di qualche giovane o prete scapestrato, ma ha segnato in maniera molto seria la Liturgia cattolica, che già da allora iniziò a essere luteranamente riformata.
Purtroppo dall’Italia la “Messa beat” si trasferì anche all’estero e persino oltre/oceano.
Ebbene, non mi sembra eccessivo dire che il “Sessantotto studentesco” fu ampiamente anticipato dal “Sessantacinque clericale”.
Venne così introdotto (1965/66), già prima della promulgazione della Nuova Messa (1969), un nuovo rito della Messa, molto più simile alla “Cena luterana” (forse trattandosi di Messe beat sarebbe più opportuno dire “Baldoria luterana”) che al rinnovamento incruento del Sacrificio del Calvario, con la lingua volgare, il tavolino al posto dell’altare, la comunione in piedi e persino sulle mani, il celebrante che officia rivolto al popolo e non a Dio.
Padre Morlion, la “Pro Deo” e la “Luiss”
Attenzione! Il domenicano padre Gabriele Sinaldi, come abbiamo visto, insegnava alla Università “Pro Deo”, che fu fondata esattamente nel fatidico 1966 dal padre domenicano Felix Morlion (1904 – 1987). Roberto Marchesini (cit., p. 155) ci spiega che essa era “l’ennesimo progetto della Cia gestito da Henry Luce”, cara amica di padre Murray.
Padre Morlion nacque a Dixmude in Belgio il 16 maggio del 1904 e arrivò, con l’Esercito Usa, in Sicilia e poi a Roma nel 1944 – accompagnato da una lettera di presentazione di Alcide De Gasperi firmata da don Sturzo – con alcuni compiti di carattere politico affidatigli dal fondatore del Partito Popolare Italiano, esule negli Usa (1924/1940).
Ora, Morlion era un esperto di tecniche della guerra psicologica e di propaganda di massa, lavorava per i servizi segreti americani (Oss e poi Cia).
Egli fondò a Roma, con il nulla osta di monsignor Montini, nel 1946, la Università Internazionale degli Studi Sociali (UISS) “Pro Deo” della quale divenne il Presidente nel medesimo anno, con a capo il Presidente (dal 1921 al 1966) della Fiat Vittorio Valletta[10] e con la protezione dei ministri democristiani Scelba, Gonella e Andreotti.
Attualmente la “Pro Deo” si chiama Libera Università Internazionale degli Studi Sociali (LUISS) “Guido Carli” fondata a Roma nel 1974 da Umberto Agnelli, che rilevò la “Pro Deo”, ma che ne cambiò nome solo nel 1977.
Padre Morlion ne restò Presidente sino al 31 ottobre 1975, fu rimpiazzato da Carlo Ferrero sino al 1978, poi dal Governatore della Banca d’Italia (1960/1975) e, quindi, Ministro del Tesoro (1989/1992) Guido Carli dal 1978 al 1993, in séguito da Luigi Abete (1993/2001), quindi da Antonio D’Amato, Luca Cordero di Montezemolo (2004/2010), Luisa Marcegaglia (2010/2019) e da Vincenzo Boccia nel 2019.
Egli era stato incaricato di ridurre l’influenza comunista in Italia, anche attraverso la propaganda, il cinema e la cultura. Collaborò con Roberto Rossellini alla produzione di due film: Stromboli e Francesco giullare di Dio entrambi del 1950 (cfr. F. Scottoni, Il pio frate che lavorava per la Cia, in la Repubblica, 27 novembre 1991; N. Tranfaglia, Come nasce la repubblica, Milano, Bompiani, 2004).
[1] Che è anche abortiva e non solo anticoncezionale.
[2] N. Goldmann, Staatmann ohne Staat. Autobiographie, Koln–Berlin, 1970, pp. 378 ss.
[3] J. Madiran, L’accord secret de Rome avec les dirigeants juifs, in «Itineraires», n. III, settembre 1990, p. 3, nota 2.
[4] C. Schmidt, Il cardinal Agostino Bea, Roma, Città Nuova, 1987 , p. 612, nota 179.
[5] J. Madiran, in «Itinéraires», autunno 1990, n. III, pp. 1–20.
[6] Cfr. T. Federici, Israele nella storia della salvezza, in «Humanitas», n. 22/1–2, (anno 1967), pp. 75–109.
[7] Cfr. Antony Cyril Sutton, Wall Street And The Bolshevik Revolution, Cutchogue / New York, Buccaneer Books, 1974.
[8] Charles Levinson, Vodka Cola, Firenze, Vallecchi, 1978, p. 257.
[9] Inoltre ha musicato anche film horror e scabrosi. Si è occupato anche di “numerologia” (ossia di cabala) e di fantascienza
[10] Valletta fu iniziato alla Massoneria il 24 novembre 1917, nella Loggia XX settembre di Roma e il 20 giugno del 1919 raggiunse il 32° grado del Rito scozzese antico e accettato. Cfr. P. Bairati, Valletta, Torino, Utet, 1983.
FONTE: https://www.maurizioblondet.it/la-cia-il-novus-ordo-missae/
L’abnorme che si vuole “normale”
Nessun eterosessuale, nemmeno altamente vizioso, in faccende di sesso con prostitute sì è mai comportato come risulta facesse regolarmente questo Morisi, l’ex media manager di Salvini: assoldare più escort rumene giovani su un sito d’incontri “specializzati”, allo scopo di darsi ad “orge gay con consumo di droghe miste” come scrisse lui stesso, condite droghe come regola per far durare erezioni ed eccitazioni oltre i limiti, coca più droga “dello stupro” per continuare quando il corpo e la natura ti dicono basta così; e con una frequenza, svergognatezza e chiassosità da disturbare ed esasperare i vicini al punto di indurli forse a fare segnalazione ai carabinieri; e con un esibizionismo incontrollato tanto da scadere dalla propria posizione sociale, e rovinarsi professionalmente e buttare alle ortiche prestigio e successo.
In questa oltranza voluta come essenziale alla soddisfazione sessuale, in questa voglia di superare ogni limite e di perdere il controllo di sé e degli eventi, si esibisce una pulsione di morte e di autodistruzione nichilista, che nessun eterosessuale può praticare: il sesso per l’eterosessuale anche vizioso ha per lo più un aspetto di intimità a due, a massimo a tre; scambi di mogli possono organizzarsi in siti specializzati; il corpo appagato, con l’orgasmo raggiunto, pone un limite naturale e invita al riposo, a fare altro.
Perché nell’omosessuale ciò non succede? Perché la droga – “droghe miste” – quando il corpo direbbe basta? Si può dire che il comportamento di Morisi, così evidentemente dannoso per sé, la causa politica e Salvini, non è “normale”? Abnorme, più precisamente? Che è patologico comportarsi così? No, non si può dire. Se passa il ddl Zan, è un reato dirlo, e si viene trascinati in giudizio: i militanti omosessuali vogliono essere ritenuti ”normali”, esigono che non si parli di disturbo psichico quando praticano l’abnorme. Ciò è distruttivo della civiltà. Le civiltà infatti servono a “contrastare l’anomia, l’assenza di norma ma anche di nome, l’irruzione del sub-umano nella cultura, dell’anomia nella norma, il caos nel cosmo ordinato dell’organizzazione umana”.
Qui di seguito il magistrale articolo del grande Roberto Marchesini su La Nuova Bussola Quotidiana, sulla stessa temperie che ci aduggia
Italia, aleggia un’ombra di morte (e forse un motivo c’è)
Cosa succede all’Italia? Tra referendum per legalizzare cannabis ed eutanasia da una parte e il terrore costante di prendersi un pericolosissimo virus mortale, pare che un velo mortifero sia sceso sul nostro Paese.
Non è un modo di dire: il 2020 è stato l’anno in cui, in assoluto dall’unità del Paese, sono nati meno bambini e sono morte più persone. E il futuro sembra ancora più nero. Un sito di analisi ha previsto per il 2025 (quattro anni) un calo della popolazione del 31%, rispetto al numero attuale di abitanti. Ovviamente i «debunker» si sono affrettati a smentire la notizia che, curiosamente, è sparita dal sito originale. Eppure la sconvolgente previsione ha ricevuto recentemente una drammatica conferma da parte dell’Istat: nel giro di pochi anni la popolazione italiana sarà dimezzata.
Insomma: l’Italia sta danzando una danza macabra guidata dalla morte che ci conduce per mano verso la tomba. A pensarci c’è da restare a bocca aperta: per chi ricorda l’Italia degli anni Settanta è difficile pensare ad un Paese più vitale. Erano gli anni nei quali la gente andava al lavoro cantando e fischiettando (persino con la paura del terrorismo), il nostro era «Il paese dei campanelli», ai bambini si insegnava «Viva la gente» e una delle canzoni di maggior successo recitava «io lavorerò, tu mi aspetterai e una sera impazzirò quando mi dirai che un figlio avrai, avrò». Di tutta questa vitalità non resta più nulla. C’è aria di morte, odore di morte, voglia di morte.
«È stato un tempo il mondo giovane e forte
Odorante di sangue fertile
Dimora della carne, riserva di calore
Sapore e familiare odore
Il nostro mondo è adesso debole e vecchio
Puzza il sangue versato è infetto»
(CSI, Del mondo)
A dar retta a Freud, sembra che la ragione abbia capitolato e che siano emerse dagli inferi le pulsioni sessuali e, soprattutto, di morte. Quest’ultima, Freud la chiamava Thanatos, usando lo stesso nome dei Greci. Un antico dio che ora sembra governare, se non il mondo, almeno il nostro Paese. C’è un brano di Jung particolarmente inquietante che parla proprio di questo: «Siamo ancora così posseduti dai nostri contenuti psichici autonomi come se essi fossero divinità. Ora li chiamiamo fobie, coazioni e così via, in una parola, sintomi nevrotici. Le divinità sono diventate malattie, e Zeus non governa più l’Olimpo, ma il plesso solare ed è motivo di interesse per i medici, nella loro ora di consultazione, o di turbamento per il cervello degli uomini politici o dei giornalisti, che a loro insaputa scatenano epidemie psichiche nel mondo». Un brano molto caro a Hillman, celebre allievo di Jung che ha fatto di queste affermazioni il fulcro del suo pensiero. Ciò che Hillman propone è un «ritorno alla Grecia», cioè a una situazione nella quale gli dei abbiano il dominio e il controllo del mondo. La sua è una «psicologia archetipica» ma non dell’individuo, dell’umanità, anzi: del mondo. Esiste un’anima del mondo – un’anima mundi, secondo una locuzione platonica – della quale gli dei sono espressione. Restituire agli dei il loro posto nel mondo significa ripristinare l’anima mundi. Il dominio degli dei è, ovviamente, orrendo e spietato; comporta, ad esempio, lo stupro e il suicidio.
Forse è quanto sta accadendo in Italia? Gli antichi dei hanno riconquistato la terra, la nostra terra? E ricordiamo il Salmo: gli dei delle nazioni sono demoni (Sal 96, 5). Alcune inquietanti immagini dei mesi seguenti si impongono alla memoria.
Ottobre 2019: al Colosseo, luogo dove la tradizione vuole che sia scorso il sangue dei martiri cristiani, compare una statua di Moloch, la divinità alla quale i popoli mediorientali sacrificavano i bambini. In seguito si scoprirà che si trattava «solamente» della pubblicità per l’apertura di un parco di divertimenti (per bambini…) a Cinecittà, al cui ingresso sarà posto proprio Moloch. Poche settimane dopo scoppierà la «pandemia» di Covid.
Aprile 2021: a Milano, in Piazza Gae Aulenti, spunta dal nulla un enorme caprone ligneo. Non pensate male: anche in questo caso era solo una pubblicità e un monumento «alla resilienza».
Settembre 2021: arriva al Quirinale (sede del presidente della Repubblica Italiana e precedentemente Palazzo Apostolico) la «Porta dell’Inferno» dello scultore francese Rodin. Tranquilli: si tratta semplicemente di una esposizione in occasione dei settecento anni dalla morte (aridaje…) di Dante. Circolare, non c’è nulla da vedere.
La morte, dicevamo, aleggia sopra l’Italia, scorrazza per l’Italia. Ripensando all’Apocalisse, verrebbe da dire che cavalca: in compagnia, dice il testo sacro, di altri due cavalieri, la guerra e la carestia. Ma restiamo in tema. Il punto è che la morte dell’Italia non ha un significato locale, ma cosmico. Non ci credete? Rileggiamo il Discorso di Ratisbona (2006), di Benedetto XVI: «Il qui accennato vicendevole avvicinamento interiore, che si è avuto tra la fede biblica e l’interrogarsi sul piano filosofico del pensiero greco, è un dato di importanza decisiva non solo dal punto di vista della storia delle religioni, ma anche da quello della storia universale – un dato che ci obbliga anche oggi. Considerato questo incontro, non è sorprendente che il cristianesimo, nonostante la sua origine e qualche suo sviluppo importante nell’Oriente, abbia infine trovato la sua impronta storicamente decisiva in Europa. Possiamo esprimerlo anche inversamente: questo incontro, al quale si aggiunge successivamente ancora il patrimonio di Roma, ha creato l’Europa e rimane il fondamento di ciò che, con ragione, si può chiamare Europa».
L’Italia ha, nel provvidenziale piano divino, un compito particolare: da qui è nata l’Europa, da qui il cristianesimo si è diffuso nel mondo. Forse è per questo che la morte ha scelto proprio l’Italia? Forse è questo il motivo per cui, mentre sempre più Paesi hanno deciso di derubricare il Covid a semplice influenza, noi stiamo ancora vivendo misure emergenziali mai così gravi e non adottate in nessun altro Paese? Insomma, che dire? Meglio tacere e lasciar parlare Joseph Roth: «Sopra i calici dai quali noi bevevamo la morte invisibile incrociava già le sue mani ossute».
FONTE: https://www.maurizioblondet.it/labnorme-che-si-vuole-normale/
BELPAESE DA SALVARE
Veri scopi del GREEN – PASS – TUTTI TRACCIATI E PRONTI PER ESSERE REGISTRATI E POI MACELLATI SE NON SIAMO UTILI
Beh, non sarà candidabile al premio pulitzer, anche per lo scarso italiano, ma è il primo che sento mettere in chiaro un progetto lobbistico ormai alla luce del sole, unendo i puntini…
CULTURA
Titolo lungo di un racconto breve
Francesca Sifola – 270 marzo 2018
“Racconto breve per chi sa, di più di un essere umano normale, che controllare uomini e cose intorno a noi è una dura battaglia che, alla lunga, non porta mai alla vittoria”.
Era fatto così! Fin da bambino, senza che nessuno gli avesse insegnato come fare, riusciva ad addentrarsi nella vita degli altri, sgranando i suoi grandi occhi neri. Quando qualcuno gli diceva: “Che occhi grandi che hai!”, non rispondeva mai: “E’ per controllarti meglio!”, parafrasando la favola di ‘Cappuccetto Rosso’, ma in effetti gli servivano proprio a questo. Guardava il suo interlocutore, pensando a come intrufolarsi nella sua vita.
“Ma chi è? Cosa fa? Come mangia? Come cammina? Quali sono i suoi pensieri?” Poi, man mano crescendo, le domande si erano cristallizzate soprattutto su: “Quanto guadagna?”, oppure: “Quanti beni mobili e immobili possiede?”
Il tempo passava e, accumulando una schiera di conoscenti, da vero uomo di mondo, i quantitativi di soldi di cui era informato e di immobili da elencare erano talmente aumentati che passava molto tempo a contare e ad annoverare. Era ovvio che quelle amicizie diventavano sempre più strette, quanti più soldi e beni avessero le persone adatte a essergli amiche.
Poi, gli anni passarono tra un controllo e l’altro, contando e controllando, sorridendo banconote a getto dai suoi grandi occhi neri, ora diventati leggermente più piccoli, finché non fu colto da una strana e inspiegabile forma di orticaria che nessuna cura riusciva a debellare. I focolai sembravano calmarsi a periodi alterni, ma lui non riusciva a rendersi conto che quando quei focolai lo prostravano al punto da non dargli più la forza di contare e controllare, allora si apriva la via della guarigione. Non capì mai che l’unica cura dalla sua insopportabile orticaria fosse di smettere di contare e controllare, al punto che, anche se non troppo giovane, ne morì, lasciando tutti attoniti e preoccupati dal fatto che, avendolo frequentato troppo, si trattasse di una malattia contagiosa.
Questo fu l’ultimo pensiero dei suoi amici dei quali aveva controllato, passo dopo passo, ogni bene mobile e immobile.
Chiedo scusa ai miei amici di Facebook, per essere stata così sarcastica, ma lo ripeto, uno scrittore è come una talpa: vede, sente e poi scrive.
É come se avesse tra le mani uno strumento che registra ogni cosa senza, però, alcun desiderio di controllare!
FONTE: https://m.facebook.com/story.php?story_fbid=1874908745913116&id=100001820256565
CYBERWAR SPIONAGGIO INFORMAZIONE DISINFORMAZIONE
Vecchio documentario di Rai 3: inventori di malattie
C’era una volta il giornalista Silvestro Montanaro,. Conduttore del programma RAI “C’era una volta”, raccontava di come l’industria farmaceutica “crea” le malattie facendo poi profitti sui consumatori di farmaci. Che cosa ci fa pensare che oggi sia cambiato qualcosa? Nulla!
Inventori di malattie – STRANAMENTE questa puntata è scomparsa dalle teche RAI.
Il sistema farmaceutico
Le industrie dei farmaci sono le stesse industrie che producono farmaci e mangimi per gli animali da macello e dei concimi per produzioni massive in agricoltura.
E’ il cerchio che si chiude e induce ad un arricchimento immorale delle industrie.
Le stesse industrie che provvedono a colonizzare con guerre “virtuali” intere nazioni riducendo alla fame le popolazioni e creando emigrazione.
Le stesse industrie che alimentano il sistema bancario mondiale. – video di Luigi Piccirillo
FONTE: https://www.imolaoggi.it/2021/08/27/inventori-di-malattie-sistema-farmaceutico/
ECONOMIA
Estinzione del Welfare State
La dottrina del welfare si contrappone decisamente alla dottrina marxista, eppure è per noi del massimo interesse, perché ci dimostra che l’avversario deve ormai accettare il combattimento aperto sulla teoria, e male si arrocca nella farragine del soggettivismo o del mercantilismo ondeggiante e inafferrabile. Matematicamente e storicamente parlando, quella modernissima dottrina mette in chiaro il bisogno di un’estrema difesa del capitalismo (cfr. Partito Comunista Internazionale, Vulcano della produzione o palude del mercato? 1954).
Nella società futura sarà immediatamente abolita la previdenza a tipo mercantile, che sarà sostituita da una forma superiore di produzione e riproduzione cui partecipano tutti i membri della società, anche quelli oggi non produttivi (cfr. punto “f” del Programma rivoluzionario immediato, riunione di Forlì del Partito Comunista Internazionale, 1952).
OGGI
Dal welfare allo “stato assistenziale”
Da un punto di vista storico generale, il capitalismo nasce con il problema dei poveri che esso stesso crea, nasce quindi con la sua politica sociale, che è in fondo il tentativo di trovare una soluzione alla povertà. E’ una sua caratteristica quella di produrre di continuo, oltre che merci e plusvalore, una popolazione in esubero. La quale però è ridondante e povera solo relativamente alla possibilità di soddisfare i propri bisogni. Siccome questi sono in rapporto allo stadio raggiunto dalla forza produttiva sociale, ecco che il confronto fra l’enorme quantità di valore prodotto dal proletariato e la quota che in totale (considerando cioè occupati e disoccupati) gli viene lasciata, permette di rilevare una legge, quella della miseria crescente, definita da Marx come “legge assoluta, generale, dell’accumulazione capitalistica”. In questo modo di produzione il pauperismo è dunque un fenomeno permanente che si accompagna allo sfruttamento, tanto che per lo stesso Marx è “l’ospizio di invalidità dell’esercito operaio attivo”.
Se nei paesi a vecchio capitalismo questa legge si presenta in modo relativo (il livello di consumo del proletario aumenta, ma non in proporzione al valore che egli produce), nell’insieme del sistema capitalistico tende ancora all’assoluto, dato che in alcune aree del pianeta una buona parte della popolazione muore letteralmente di fame per il fatto che l’accumulazione avviene altrove e produce un drenaggio di valore locale.
La teoria borghese soggiacente a quello che viene comunemente chiamato Welfare State inizia a svilupparsi nel periodo fra le due guerre mondiali e si afferma definitivamente nel secondo dopoguerra. Ma per quanto riguarda l’assistenza (e la coercizione) sociale ha origini ben più antiche. Già Malthus affronta il problema di quale atteggiamento lo Stato debba assumere nei confronti dei poveri, basandosi sulle apposite leggi che il capitalismo inglese si diede fin dalle sue origini, all’inizio del ‘600.
Nell’accezione attuale, il termine “Stato del benessere” viene utilizzato come sinonimo di “Stato sociale”, nel senso di una politica di spesa pubblica tesa a garantire sia la copertura economica degli strati poveri della popolazione, sia la distribuzione del reddito affinché non cadano i consumi di tutte le classi. Ciò viene ottenuto mediante leggi ed istituti con il compito di contrastare l’anarchia insita nel sistema capitalistico, in modo che questo non sia lasciato a sé stesso, e di indirizzare perciò una quota del valore totale prodotto dall’intero sistema.
Le forme specifiche di questo intervento permeano talmente la società moderna che gli individui ne sono assuefatti, percepiscono il fenomeno come naturale, come se fosse sempre esistita una distribuzione di valore. In realtà l’unico fenomeno paragonabile ha tutt’altra natura, ed è quello della distribuzione di cibo e spettacoli alla plebe nell’antica Roma. Fenomeno costoso e a volte rovinoso per l’imperatore e per lo Stato, mentre il welfare è per il capitalismo salvifico e promotore di nuova accumulazione.
Il welfare è figlio del liberismo, e lo ha ucciso per sempre. Oggi chi si atteggia a liberista dimentica che combatte contro le misure di protezione escogitate di fronte ai disastri provocati dal capitalismo “spontaneo”. Crede di “liberalizzare” il mercato imponendogli la legge, quindi delle regole, senza accorgersi che proprio in questo modo impedisce d’autorità il decorso naturale del capitalismo verso forme chiuse, accentrate e monopolistiche. Lo fa naturalmente per mezzo dello Stato, del suo apparato legislativo, esecutivo e di controllo poliziesco. E si dimostra così più statalista di coloro che critica, introducendo forme di salvataggio nei confronti di capitalisti altrimenti destinati liberamente a soccombere.
Se, parlando di welfare, vengono in mente nell’immediato la previdenza, l’assistenza sociale, quella sanitaria, l’edilizia popolare o il programma di lavori pubblici, non hanno minore importanza gli interventi sul controllo generale dell’economia, come l’abbassamento del tasso di sconto, che regala ai capitalisti vantaggi nell’accesso al credito, o le leggi di sostegno alla produzione, che drogano il mercato interno a favore dei capitalisti nazionali e delle loro esportazioni.
In questo sistema, contrariamente a quanto affermano le volgarizzazioni del capitalismo da parte degli stessi capitalisti, non è affatto rilevante che vi sia uno “Stato imprenditore” o una serie di imprenditori privati. Se le leggi che regolano gli investimenti, il mercato interno e lo stimolo verso quello estero sono uguali per lo Stato e per l’imprenditore singolo, non fa nessuna differenza che quest’ultimo venga eliminato o meno. Tanto più che la “privatizzazione” è generalmente basata sulla vendita pubblica di azioni, titoli di possesso legale che vengono distribuiti nella società a migliaia di “capitalisti” che non contano nulla e che sono guidati dalle leggi dello Stato più che da minuscoli gruppi di maggioranza in balìa essi stessi della concorrenza. Il capitalismo funziona in quanto tale anche senza capitalisti (ex URSS) così come i capitalisti possono essere tali anche senza possedere le grandi quantità di denaro che maneggiano (azionariato diffuso, concessioni, appalti, intermediazione finanziaria, ecc.).
Lo stesso Keynes afferma che occorre “eliminare la figura del possessore di capitali” quando il suo “oppressivo potere addizionale” si affianca al funzionamento di un capitalismo che sfrutta il valore conferito al capitale in tempi di ridotta disponibilità; per giungere a questo è necessario ampliare le funzioni dello Stato affinché sia possibile “una discretamente vasta socializzazione dell’investimento”. Ed ecco il punto cruciale, che milioni di stalinisti non erano riusciti a digerire: “La cosa importante – scrive Keynes – non è che lo Stato si faccia carico della proprietà dei mezzi di produzione; se è in grado di minare il volume totale delle risorse da dedicare all’aumento di questi mezzi o di variare il tasso base per gli stanziamenti a loro favore avrà già fatto tutto il necessario […] L’ampliamento delle funzioni dello Stato ci sembra necessario per evitare una completa distruzione delle istituzioni economiche attuali e anche la condizione per un fruttuoso esercizio dell’iniziativa individuale”.
Del resto anche l’esperienza empirica dimostra, se pur ce ne fosse ancora bisogno dopo le dimostrazioni teoriche di Marx, che il capitalismo funziona meglio con pochi capitalisti e con molti salariati, con una raccolta centralizzata di capitali altrimenti inutilizzabili, con una massa crescente di profitto nelle mani di pochi centri di accumulazione per poter contrastare la tendenza al ribasso del saggio. Perciò al Capitale in generale conviene, indipendentemente dalla volontà dei capitalisti, che si devono adeguare alle sue leggi, un vasto rastrellamento di capitali nella società, ma un ristretto numero di gruppi di controllo, integrati con la politica dello Stato. Insomma, la vittoria della moderna centralizzazione dei capitali sulla vecchia concentrazione. Siccome lo Stato è al servizio del Capitale e non viceversa, ecco che diventa conveniente e necessario un controllo stretto dei pochi capitalisti o gruppi borghesi, accompagnato dalla massima libertà (di vendersi) per i proletari.
L’insopportabile piagnisteo populista sulle malefatte delle multinazionali e dei governi costituiti da borghesi corrotti e da lobby di potere rovescia i termini della questione: esistono certamente i fenomeni denunciati, ma nel lungo periodo si impone sempre l’interesse dell’accumulazione, non quello dei singoli. Durante l’interessante fenomeno detto “mani pulite” si calcolò, sulla base di ciò che era emerso dalle indagini e dai processi, che in quarant’anni l’intero ammontare del valore dirottato dalle varie lobby stataliste più o meno mafiose e dai politici corrotti fosse qualcosa come 125 miliardi di euro attuali. Un cifra impressionante se sparata ad effetto per campagne politiche atte a convincere i fessi, ma una sciocchezza dal punto di vista pratico: 25 centesimi a testa all’anno per ogni italiano. Lo Stato liberista, aumentando di un millesimo di euro la tassa sulla benzina o concedendo a un “privato” linee elettriche o telefoniche per “favorire la concorrenza e quindi i consumatori” e prelevando poi da capitalisti e restante “popolo” la sua tangente, spenna tutti infinitamente di più.
Ciò che in realtà il sistema ormai non sopporta è il fatto che, quando diminuisce l’incremento del plusvalore totale prodotto, si fa difficile la sua distribuzione presso strati sociali nullafacenti, parassitari o semplicemente addetti ad attività improduttive. Questa vera e propria assistenza pubblica di quel magma piccolo-borghese che serve da supporto alla politica della borghesia è il l’effettivo “costo” che il capitale deve affrontare. La mazzetta al disonesto, la corruzione individuale, pur eretta a sistema, è una goccia nel mare rispetto a quel che costa l’ammortizzazione sociale, la corruzione di classe, il mantenimento della palude.
In breve, dopo “stato del benessere” e “stato sociale”, l’ulteriore termine escogitato dagli economisti, “stato assistenziale”, è ben azzeccato, e in realtà non si riferisce affatto ai poveri veri, ai paralitici falsi o ai milioni di pensionati elettorali. Per gli economisti, sottolineare in modo spregiativo una pretesa degenerazione dello statalismo, colpevole di lesa libertà di mercato, è un modo come un altro per non essere fuori dal coro piagnone dei capitalisti in crisi. Ma capitalisti ed economisti non sono il capitalismo. La parabola del welfare, cui l’economia politica aveva dato corso per il salvataggio dell’asfittico sistema, si chiude con un attacco al welfare stesso per salvare il capitalismo… e tornare alle condizioni di partenza. Forse i capitalisti possono pensarlo, ma il capitalismo non si ferma certo per questo, e macina inesorabilmente un’altra dura realtà. Addirittura opposta a quella fatta bere anche ad ingenui sinistri.
Malthusianesimo di ritorno
Fin dalla sua nascita il capitalismo, osannato per la sua capacità di produrre ricchezza, si presenta con tremende contraddizioni. Quella più immediatamente riscontrabile riguarda la condizione di vita degli uomini, ai quali – come abbiamo appena ricordato – non è affatto distribuita la ricchezza che producono, mentre dilaga la miseria relativa e assoluta. Quando il Capitale s’impossessa della terra, l’espropriazione dei contadini porta in breve alla distruzione della solidarietà di famiglia e di villaggio. I vecchi vincoli sociali non sono sostituiti da nuovi. L’uomo non diventa solo povero, rimane anche solo. Nasce l’uomo libero da proprietà e da antichi vincoli famigliari allargati, vagabondo o proletario, quindi passibile di forca o di sfruttamento, cioè libero di scegliere se morire ancor giovane, di colpo, sulla forca, o poco per volta, di sfruttamento. Non prima però di aver figliato altra forza-lavoro a beneficio del Capitale. Ma non troppa, per non insidiare col numero la ricchezza da distribuire.
Qui entra in gioco Malthus, passato alla storia per aver detto che non ci può essere ricchezza per tutti se la popolazione cresce a ritmo esponenziale mentre la produzione cresce solo in progressione aritmetica (Saggio sul principio della popolazione, 1798). Da allora si parla di “malthusianesimo” per indicare un controllo della popolazione rispetto alla bassa capacità produttiva mirato ad innalzare la quantità pro capite di merci; oppure, paradossalmente, un controllo dell’alta capacità produttiva per adattare la quantità di merci al mercato e impedire la rovinosa caduta dei prezzi. C’è così un malthusianesimo “terapeutico”, come quando si distrugge frutta in eccesso, e uno “profilattico”, come quando si pagano i contadini per estirpare i frutteti o si tassano certi prodotti industriali.
Malthus aveva notato che i capitalisti potevano produrre in quantità illimitata e perciò vendevano alle classi ricche prodotti industriali a prezzo sempre più basso, mentre gli operai consumavano prevalentemente prodotti agricoli che invece rincaravano; e la crescita demografica sproporzionata degli operai in rapporto a quella della produzione agricola rendeva eccedente il loro numero. Per quanto le sue teorie da prete riformato, santificanti il capitalismo e lo sfruttamento, fossero aberranti dal punto di vista della teoria economica e della specie umana, Malthus non era così fesso da limitare la sua concezione unicamente a un fattore di popolazione, se non altro perché aveva scopiazzato da autori più bravi di lui. In realtà il suo schema completo, quello del Trattato di economia politica applicata (1820), è basato sul prodotto netto, cioè quella parte della produzione che può essere consumata senza intaccare la capacità produttiva esistente. Al pari di quello di Quesnay, dal quale deriva, è una funzione della produzione.
Marx criticò Malthus non tanto per il suo modello quanto per la sua difesa pretesca dell’accumulazione capitalistica primitiva sotto l’ordine feudale. Con l’esaltazione del consumo improduttivo e la mortificazione di quello vitale, Malthus difendeva condizioni sociali retrograde, in polemica con Ricardo, che almeno era per lo sviluppo della forza produttiva sociale in sé stessa senza preoccuparsi di ciò che sarebbe successo agli uomini in quanto agenti della produzione. Malthus esaltava la produzione borghese in quanto reazionaria, conservatrice di vecchi rapporti; Ricardo in quanto rivoluzionaria, demolitrice. Marx è sprezzante nei confronti di un modello di capitalismo che, disegnato da un prete, contempla una distribuzione del plusvalore non soltanto fra le classi capitalisticamente produttive ma tra “parassiti, fannulloni gaudenti, parte padroni e parte servi, che si appropriano gratuitamente dalla classe capitalista, a titolo di rendita o a titolo politico, una massa considerevole di ricchezza, pagando però le merci al di sopra del valore col denaro sottratto agli stessi capitalisti”. Nel capitalismo il modello distributivo, qualunque esso sia, pensato alla Malthus o secondo criteri di moderno “benessere”, deve necessariamente portare ad una ripartizione di classe del plusvalore. Mentre il modello ricardiano fa esplodere il sistema per troppa produzione, troppa energia, troppa velocità, il modello malthusiano lo fa esplodere come una fogna intasata. Ancora Marx: “Mentre la classe capitalistica è sferzata a produrre dall’impulso all’accumulazione, gli elementi economicamente improduttivi sono spinti solo dall’impulso al consumo e rappresentano la dissipazione. Ed è questo, invero, l’unico mezzo per sfuggire alla sovrapproduzione, che coesiste con una sovrappopolazione in rapporto alla produzione. Il miglior rimedio per entrambe è il sovraconsumo delle classi che stanno al di fuori della produzione. Lo squilibrio fra la popolazione operaia e la produzione è così soppresso dal fatto che una parte del prodotto viene divorato da non produttori, da fannulloni. Lo squilibrio della sovrapproduzione dei capitalisti [è soppresso] dal sovraconsumo della ricchezza sgavazzante“.
Il welfare state è in fondo figlio di Malthus, dato che nasce dalla stessa preoccupazione distributiva che aveva il suo genitore, compresa la convinzione che le leggi per l’assistenza ai poveri siano inutili, anzi, dannose. I benesseristi sono molto preoccupati dell’esistenza e soprattutto della tendenza dei “poveri” ad aumentare con ritmo geometrico. In genere, alle leggi per una mera assistenza sociale contrappongono un sistema assicurativo, pubblico o privato ma del tutto capitalistico, abbinato ad una politica economica redistributiva del reddito che fa leva soprattutto sulla tassazione progressiva e su una legislazione economica appropriata.
Keynes è un economista che in genere non viene affiancato a quelli che hanno fatto la storia del welfare state (Marshall, Pigou, ecc.), ma ha molto a che fare con la sua realizzazione. Anch’egli disegna un modello a-classista in cui ciò che importa è il rapporto fra grandezze, per esempio risparmio, investimento, consumo, occupazione. O meglio: in cui il risultato del sistema è funzione del valore delle varie grandezze. Siccome queste grandezze non influiscono in modo proporzionale sul sistema, ecco che lo Stato avrebbe notevoli possibilità di influenzarne il comportamento agendo su di esse. Per esempio, il consumo non aumenta in proporzione al reddito, ma tende ad appiattirsi man mano che questo cresce; di conseguenza, aumentando il reddito di milioni di “poveri”, c’è la sicurezza che tutto l’aumento finisca in consumo, mentre ciò non succede se aumenta della stessa percentuale il reddito di poche migliaia di “ricchi”. Puntando sulla maggiore “propensione marginale al consumo” propria dei poveri e sulle altre leve politico-economiche in mano allo Stato, Keynes si prefiggeva di pilotare la distribuzione del valore prodotto nella società, alimentare la produzione ed eliminare crisi e lotta di classe.
Invece di convincere malthusianamente i proletari a non proliferare, sarebbe stato più proficuo adibirli a un lavoro qualsiasi in modo che ricevessero, con il crisma della legge e della moderna morale classista, la quota di valore derivante dall’imposta progressiva (togliere ai ricchi per dare ai poveri, una moderna versione di Robin Hood cara anche ai falsi comunisti, specie i più sinistrorsi). Gli uomini in esubero, insomma, invece di non nascere avrebbero dovuto non vivere, essere più che mai mero tramite di valore, “scavare buche al solo scopo di riempirle”, affinché il ciclo dell’accumulazione non s’inceppasse sul crollo di produzione e consumi. La peggiore alienazione umana, gabbata per “benessere”. Keynes ammise che lo schema fisiocratico del prodotto netto, e quindi la legge della domanda effettiva di Malthus, avevano influenzato la sua teoria economica.
Certo, la nascita del proletariato, fenomeno complementare a quello dell’espropriazione del contadino e dell’esplosione urbana occidentale, comporta anche teorie sul proletariato, da parte della conservazione (l’economia politica), ma anche e soprattutto della rivoluzione (Marx e la teoria del comunismo). Proprio per paura della rivoluzione la borghesia moderna ritorna sul problema. La feroce trasformazione sociale mette in pericolo l’assetto borghese, e la borghesia risponde con il cannone e con le riforme, in un alternarsi naturale, a seconda delle esigenze. Le nuove forme di pauperismo sono pericolose per due aspetti: il primo è la degenerazione sociale, la violenza, l’illegalità, terreni poco fertili per il senso civico del buon cittadino, più consoni al rifiuto dell’ordine produttivo della fabbrica e dell’ambiente di cui essa ha bisogno; il secondo, opposto e sicuramente il più importante per noi, è la tendenza spontanea all’organizzazione proletaria, non quella episodica, ma quella mutuata dallo stesso ambiente produttivo che obbliga alla razionalità, entra nei comportamenti collettivi e si manifesta con regolarità sempre maggiore attraverso inaspettate forme di lotta.
In Inghilterra le poor law, le leggi per i poveri, produssero più impiccati e deportati che operai produttivi e furono abbandonate nel 1834, dopo oltre due secoli d’inefficacia. La Germania di Bismarck, paese a capitalismo giovane e quindi sviluppatosi velocemente con le contraddizioni più moderne, fu la prima a istituire, tra il 1883 e il 1892, un sistema di misure sociali moderne a favore degli strati più poveri della popolazione. Ancora in Germania, dai ranghi stessi della borghesia nasceva, a cavallo della Prima Guerra Mondiale, la non troppo strana utopia borghese di un “socialismo del capitale”, il cui massimo esponente fu il capitalista Walther Rathenau: “L’ordinamento cui noi perverremo sarà un ordinamento di economia privata, ma non di un’economia senza freni […] Noi rideremmo di qualcuno che volesse comprarsi un cannone per rendersi indipendente[…] nessuno si sogna di pretendere per sé un tratto di ferrovia o di rete telegrafica, di fondare un proprio sistema particolare di giurisdizione privata, ma ciò per l’economia viene accettato senza discussione […] L’economia dovrebbe invece essere suscettibile di un ordinamento razionale, di un’organizzazione cosciente, di una penetrazione scientifica e di una responsabilità solidale, in modo che possa rendere molte volte di più di quanto oggi si ottiene con la lotta di tutti contro tutti”. Rathenau proponeva qualcosa di più di uno “stato sociale”, vagheggiava uno stato integrato in tutte le sue componenti, una popolazione senza classi tutt’uno col Capitale. Il suo allarme e il suo programma furono riecheggiati nell’impressionante film Metropolis di Fritz Lang (1926), il cui finale di riconciliazione sociale piacque ai nazisti. Fu ammazzato nel ’22 da un destro che non aveva capito nulla di come evolve il movimento reale.
Gli Stati Uniti, altro capitalismo giovane, furono costretti dalla Grande depressione, mezzo secolo più tardi, a varare il Social Security Act (1935), il primo corpo completo e articolato di leggi sulla moderna politica di protezione sociale da parte dello Stato. Nel frattempo l’Italia e la Germania avevano adottato misure simili, portando alle estreme conseguenze non solo il problema della protezione sociale, ma quello del controllo globale del fatto economico, almeno all’interno dei confini nazionali (all’esterno questa esigenza si manifestava ancora con necessità di controllo territoriale diretto). Naturalmente un tale controllo presupponeva come elemento fondamentale l’eliminazione – prima violenta e in seguito istituzionale – dei conflitti sociali e la collaborazione di classe.
Il capitalismo imperialista più vecchio, quello d’Inghilterra che aveva dato il via alle politiche sociali fin dal ‘600, arriva buon ultimo sulla scena del welfare moderno, nel 1942, scrivendone però il manifesto compiuto ad opera dell’economista Beveridge. A dire il vero questo lord di vecchio stampo, tra il riformista e l’utopista, studiando i disastri del capitalismo a cavallo del secolo, aveva prodotto un documento già nel 1909, ma era rimasto inascoltato. Nel 1944 ripubblicava una versione privata del suo rapporto, che conteneva un programma di keynesismo puro. L’autore di questo programma fu individualmente sconfitto in politica, e si ritirò a studiare le utopistiche new town, presto degenerate in squallide periferie metropolitane chiamate eufemisticamente “città giardino”; ma in generale la politica del welfare divenne ordinaria amministrazione in tutti i maggiori paesi capitalistici, raggiungendo l’apice negli anni ’60 del secolo scorso nei paesi del Nord Europa, specie in quelli scandinavi.
L’Italia, che non aveva per nulla smantellato l’economia controllata dello stato fascista, fu caposcuola anche per tutto il dopoguerra, soprattutto con una politica mirata alla spesa pubblica, alle sovvenzioni industriali e ad una pesante redistribuzione del reddito. Per quanto il sistema, specie nel Sud, apparisse disastrato e a basso rendimento a causa di una borghesia parolaia pasticciona, nel suo complesso fu in realtà abbastanza efficiente, tanto da portare l’economia nazionale quasi alla pari con quelle di Francia, Inghilterra e Germania (valore prodotto pro-capite in unità di potere d’acquisto).
Il significato delle liberalizzazioni fasulle
Fu negli anni ’70 che si raggiunge il massimo livello di applicazione delle politiche espansive dirette, vale a dire dell’intervento dello Stato per sostenere la produzione e i consumi attraverso tre canali principali: incentivi all’industria, distribuzione del reddito al fine di elevare la capacità totale di consumo delle fasce sociali senza reddito, investimenti pubblici (case popolari, infrastrutture, industria di stato, ecc.). Ma la generale caduta del saggio di profitto, ben evidenziata dalla caduta relativa della produzione industriale che ne è l’indice principale, provocò una conseguente difficoltà ad attingere alle fonti di valore per il sostegno di tali politiche. La conseguenza fu un generalizzato disavanzo nei conti pubblici, un ricorso al debito statale e quindi un aumento dello stesso debito consolidato e della pressione fiscale per la sua gestione nel tempo.
Negli anni ’80 Inghilterra e Stati Uniti (tramite i “battilocchi” del momento Tatcher e Reagan, che diedero luogo ai rispettivi “ismi” nei loro paesi) furono costretti per primi ad abbandonare le vecchie politiche di controllo dell’economia per adottarne di nuove, poste genericamente sotto l’ombrello del termine deregulation. Non si trattava affatto, si noti bene, di eliminare il controllo, ma di istituirne un altro di tipo diverso e più efficace, quindi più stretto. Al controllo diretto dello Stato sugli elementi della produzione e del reddito, subentrò quindi un controllo indiretto, basato principalmente sulla manovra dei flussi finanziari.
Ora, è ovvio che i due unici paesi in grado di controllare mondialmente tali flussi (mediante i due storici strumenti da cui passa la quasi totalità della finanza mondiale che conta, Wall Street a New York e la City finanziaria a Londra), ne traessero vantaggio. Questo non poteva succedere agli altri paesi, e infatti il resto del mondo, pur costretto a seguire le politiche di deregulation, di cui avrebbero volentieri fatto a meno, non riuscì a mettersi al passo nemmeno in vent’anni.
Il capitale finanziario che muove da e verso i maggiori centri mondiali di smistamento è meno “speculativo” di quanto appaia a prima vista nelle quotidiane transazioni. In generale e nel volgere di qualche anno, questa circolazione smista e fissa effettivo valore, nel senso che si trasforma in proprietà industriale, e finisce per controllare all’origine, almeno in parte, il plusvalore che fluisce nelle mani dei maggiori possessori di capitali. Attraverso le borse mondiali e le banche di peso internazionale vengono acquistate aziende, effettuate fusioni, influenzati programmi di sviluppo, viene insomma modificato l’assetto della proprietà e della concorrenza a favore ovviamente dei gruppi capitalistici e delle nazioni più forti.
Un tale tipo di razzia sul plusvalore internazionale è possibile da parte di pochi paesi solo se molti altri paesi allentano il controllo interno sui flussi di valore. Questa è la ragione per cui gli Stati Uniti, l’Inghilterra, i maggiori gruppi finanziari e gli speculatori internazionali hanno iniziato a battere la grancassa sulla liberalizzazione del mercato, cioè sulla facoltà di dirigere meglio i flussi di capitali nel mondo intero. Questa è la ragione per cui i paesi che non hanno il potere di governare i flussi esteri non possono smantellare il vecchio sistema di protezione sociale interno, malgrado le roboanti prese di posizione dei gruppi borghesi più legati agli interessi del capitale internazionale o semplicemente più stupidi o servili. Questa è anche la ragione per cui paesi che hanno rigidità interne intrinseche, come Germania e Giappone, si trovano oggi in grande difficoltà: non potendo contare sulla possibilità di sfruttare internazionalmente i proletari del resto del mondo, sono costretti a trarre il massimo profitto dai propri, senza tuttavia ridurli ad una condizione da Terzo Mondo (non per bontà d’animo, ma per il sostegno dei consumi interni).
Così facendo, cioè mantenendo lo stato sociale e una politica di relativamente alti salari, perdono sempre più di competitività sul mercato mondiale. Essendo esportatori netti, questa loro condizione si è tramutata in disastro non appena la stagnazione mondiale si è fatta sentire. Il Giappone è in ginocchio da dieci anni e la Germania è sul punto di seguire la stessa parabola discendente. E così gli altri paesi con caratteristiche analoghe. La Corea, la cui produzione è sensibilissima al mercato mondiale, è precipitata nella rivolta sociale non appena ha provato ad adeguarsi alla concorrenza liberalizzando il mercato interno della forza-lavoro. L’Italia, che era in condizioni anche peggiori, sfruttando paradossalmente il corporativismo classista ereditato dal fascismo è invece riuscita, dal 1992-93 (quando si sfiorò una grave crisi sociale e la rivolta proletaria), a coinvolgere partiti e sindacati in una deregulation selvaggia che di fatto ha smantellato completamente il sistema di garanzie precedente (le attuali manovre come quella sull’articolo 18 non sono che scaramucce politiche all’interno degli schieramenti borghesi, come vediamo in altro articolo).
Stati Uniti e Inghilterra hanno semplicemente fatto da battistrada per tutto il resto del mondo capitalistico, costringendolo, nel volgere di vent’anni, a sintonizzarsi sulle esigenze del capitale mondiale, cioè a liberare il proletariato dei vari paesi da ogni tutela nazionale.
Siamo quindi di fronte ad un paradosso: Stati Uniti e Inghilterra furono i paesi che diedero corpo teorico, adottarono e portarono alle estreme conseguenze le sperimentazioni fascista, nazista e staliniana in campo sociale, tanto che le politiche del welfare furono sinonimo di economia anglo-americana e non altro; ma proprio Inghilterra e Stati Uniti furono i primi paesi a soffrire di questa politica. Che, per ammissione dello stesso Keynes, era già un tentativo di rimedio, una toppa. E’ difficile andare oltre rattoppando la toppa, ritornare alle condizioni di partenza; anzi, un assurdo, dato che non si può far girare all’indietro né la storia né tantomeno lo sviluppo della forza produttiva sociale.
Evoluzione del sistema
Nelle intenzioni, la politica del Welfare State avrebbe dovuto prima di tutto rappresentare un rimedio alle tensioni sociali attraverso l’attenuazione delle contraddizioni del capitalismo, che sono dovute, ricordiamolo, agli effetti dello sviluppo continuo della forza produttiva sociale. Keynes lo disse apertamente: se il capitalismo fosse lasciato a sé stesso, avremmo una inevitabile rivoluzione. E’ la stessa osservazione che fece Marx quando notò le capacità di auto-limitazione del sistema di cui stava rilevando le leggi: “Uno sviluppo delle forze produttive che avesse come risultato di diminuire il numero assoluto degli operai, che permettesse in sostanza a tutta la nazione di compiere la produzione complessiva in un periodo minore di tempo, provocherebbe una rivoluzione perché ridurrebbe alla miseria la maggior parte della popolazione”. Il passo continua con un’altra osservazione su questo limite contro cui urta il modo di produzione capitalistico, forma per nulla assoluta di sviluppo come pretendono i borghesi, anzi, forma che entra necessariamente in conflitto insanabile con lo sviluppo stesso.
Per Marx, è noto, l’andamento del sistema è una funzione della produzione, mentre le scuole borghesi introducono parametri diversi, come i prezzi, la soddisfazione marginale o le propensioni psicologiche. Se Keynes non fu uno specifico cantore dell’economia del benessere e della protezione sociale, fu però il primo fra gli economisti a elaborare, per il capitalismo, una teoria sulla necessità di correttivi economico-sociali di utilizzo pratico, e lo fece lavorando su un modello dinamico atto a modificare il disequilibrio dei flussi di valore nel sistema. Voleva in ultima analisi ottenere una modifica dei fattori della produzione-distribuzione. C’è da sospettare che Keynes, senza mostrarlo, abbia attinto non solo da Quesnay e da Malthus, ma anche da Marx: la sua impostazione è un modello dinamico di flussi di valore a partire dalla sua origine, cioè dall’industria. Anche se molto più complicata di quella marxiana, noi la possiamo riferire con facilità allo scambio di valore fra le classi. Se Malthus aveva copiato malamente da Quesnay, Keynes lo ha fatto da Marx, con l’aggravante di nasconderlo.
Ciò non è per nulla strano: per dimostrare da un punto di vista materialistico la caducità del capitalismo sottoposto al lavorìo della rivoluzione che avanza (comunismo), Marx dovette sviluppare uno schema dinamico già preparato da un feudalesimo che, sopraffatto, registrava la vittoria dell’avversario mentre sulla carta lo descriveva sterile; Keynes dovette ricorrere alla dinamica nel tentativo ideologico di rattoppare il capitalismo e renderlo eterno, nascondendo a sé stesso il fatto che la sua classe era ormai sterile nella realtà. E in effetti sterile è una società che ha bisogno di drogare il proprio sistema non più in grado di funzionare da solo. Quest’operazione dell’economista inglese, più filosofica che scientifica, potrebbe spiegare sia la madornale incoerenza fra gli scritti dei diversi periodi della sua vita, sia la teorizzazione col senno di poi, quando fascismo e nazismo avevano già imboccato la strada “keynesiana”. Incoerenza e rattoppismo riflessi in seguito su tutta la sua scuola e rinfacciatigli senza pietà dai liberoscambisti.
Ad ogni modo l’intervento massiccio e totalitario dello Stato in economia fu necessario per superare la catastrofica crisi mondiale degli anni ’30. Più tardi, fino a pochi anni fa, in condizioni di accumulazione non troppo perturbata come in quest’ultimo lungo dopoguerra, le politiche keynesiane furono parimenti necessarie al sistema sia per controllare e indirizzare la crescita economica, sia per frenare i fenomeni depressivi e bloccare, soprattutto, la tendenza a quegli effetti cumulativi che avevano dato luogo alla reazione a catena sfociata nella Grande Depressione. In Vulcano della produzione o palude del mercato?, un testo della nostra corrente, vengono sottoposti a critica i risultati di un’altra scuola neo-malthusiana (attraverso un modello di J. J. Spengler), e si dimostra che tutti questi tentativi portano alla fine i borghesi ad inchinarsi di fronte alla marxiana funzione di produzione se vogliono capire i meccanismi economici e trarre conclusioni per le politiche nei confronti della loro stessa società.
La politica sociale dei vecchi paesi capitalistici avrebbe dovuto garantire un’attenuazione delle contraddizioni sommando l’assicurazione previdenziale a base contributiva e l’efficienza produttiva dovuta alla “programmazione” economica. Si doveva investire, per mezzo di politiche adatte ad un utilizzo razionale, l’enorme accantonamento di capitali in attesa del loro consumo differito. Di qui un benessere diffuso in una società più equilibrata e sicura, caratterizzata naturalmente dalla pace sociale benedetta da sindacati, partiti e preti progressisti. In quegli anni questo processo influenzò anche il soglio pontificio: l’enciclica Mater et Magistra, del 1961, rigettava il principio liberista secondo cui la socializzazione era una minaccia per la società. Accettava dunque la socializzazione e la dichiarava elemento irreversibile della crescita umana, nell’ambito della quale i credenti avrebbero dovuto dare il loro contributo. Naturalmente vi fu gran tripudio degli stalinisti fino a Mosca, dove non si era affatto capito la lungimiranza della Chiesa rispetto al processo storico che avrebbe portato alla loro distruzione.
La quantità di valore rastrellata nella società dalle politiche sociali fu enorme. In Italia giunse a rappresentare fino alla metà del cosiddetto costo del lavoro, circa il 10% dell’intero valore prodotto ex novo in un anno. Naturalmente nacquero anche sottoprodotti ideologici, come una specie di alternativa fra capitalismo e socialismo, vie di mezzo esplicitamente teorizzate o sottoposte a critica. Ma al di là delle intenzioni, cioè della programmazione o del liberismo sfrenato degli addetti ai lavori nello Stato, tutta la società ebbe a beneficiare dell’aumentata possibilità di consumo, compresi, seppure in misura ovviamente minore, i proletari, che ebbero accesso ad alcuni beni durevoli prima negati. Classicamente, alla corruzione delle classi sfruttatrici o parassitarie corrispose anche una corruzione del proletariato, tramite il veicolo delle sue organizzazioni degenerate. E’ un fatto materiale, non certo da valutare in termini moralistici. Di qui la crescita di atteggiamenti consociativi che portarono il mondo politico, sindacale e del grande capitale apparentemente a “cooperare in nome del Bene Comune del Paese”, in realtà ad accaparrarsi quote di plusvalore la cui distribuzione era permessa dal sistema keynesiano di controllo dei flussi.
Si assistette, lentamente ma inesorabilmente, all’espansione degli strati sociali “sgavazzanti” che vivevano sul plusvalore altrui, descrivibili esattamente con le parole che Marx utilizza contro Malthus e citate più sopra. Specialmente in Italia, gli ex partiti operai e i sindacati parteciparono al festino, radicandosi, direttamente o con organismi paralleli, nel campo delle cooperative, dei supermercati, delle assicurazioni e della vendita di servizi agli utenti tramite lo Stato (per esempio tramite i Centri di Assistenza Fiscale). Per molti anni il sistema funzionò senza troppi impedimenti, precisamente finché ci fu plusvalore da distribuire in abbondanza.
Il numero e la dimensione delle “istituzioni”, cioè degli apparati sorti esclusivamente sull’onda della possibile “distribuzione del reddito” crebbe a dismisura, e con essi la burocrazia e la pratica clientelare, con gran danno per l’efficienza e l’adeguatezza dell’intero sistema. Mentre in Inghilterra e negli Stati Uniti il fenomeno coinvolgeva un vecchio e inefficiente apparato produttivo, che si sarebbe poi riconvertito prevalentemente ai servizi abbandonando allo sfacelo intere città ex industriali con gli impianti invasi dalle erbacce (la Rust belt, fascia della ruggine), in Italia si assisteva al conflitto mortale fra un apparato produttivo che stava diventando uno dei più moderni ed efficienti del mondo (con livelli di automazione e competitività studiati anche all’estero), e il bassissimo rendimento del sistema complessivo. Passati ormai guerra e piano Marshall da troppo tempo, i trasferimenti di plusvalore fra le classi e mezze classi si slegarono da qualunque programma di ricostruzione industriale e sociale, seguendo semplicemente gli interessi dei beneficiari.
Travolsero persino il sistema della sicurezza sociale propriamente detta, dilagando nella società intera, fin nelle sue pieghe nascoste, per esempio con la distribuzione, specie al Sud, di benefici esigui ma elargiti su larga scala. Mentre negli anni ’50 la spesa pubblica rappresentava il 30% del valore complessivo prodotto, nel 1970 saliva al 36,3%, nel 1980 al 48,8% e nel 1985 quasi al 60%. Questa situazione, la cui genesi è implicita nella gran quantità di plusvalore disponibile nella società, nei problemi posti dalla sua distribuzione specie verso le mezze classi, e quindi nella teoria comunista della miseria relativa crescente del proletariato, non poteva evidentemente durare. Il sistema incominciò a perdere colpi negli anni ’80, dopo che la crisi petrolifera e la concorrenza internazionale avevano eroso quote di plusvalore sia facendo aumentare il prezzo delle materie prime, sia rendendo evidente il divario di efficienza fra i diversi sistemi produttivi nazionali.
Senza una crisi generalizzata e una altrettanto generalizzata guerra che distruggano lavoro morto, cioè capitale accumulato, non si potrà dar luogo a un rinnovato ciclo di applicazione di lavoro vivo nella ricostruzione. Non si potrà neppure avere plusvalore a sufficienza per garantire il livello di vita attuale di tutte le classi. I meccanismi produttivi e distributivi, sotto la spinta della legge marxiana dei rendimenti decrescenti, stanno già provocando da tempo un accumulo enorme di valore in pochissime mani e una distribuzione di miseria enorme a scala planetaria. Gli strati intermedi della popolazione stanno già subendo un drastico salasso, i cui effetti si manifestano per ora in un indeterminismo politico dei governi, in una loro incapacità ad agire rispetto ai problemi e in una confusione di ruoli fra le classi, tutti fenomeni generalizzati ai maggiori paesi capitalistici.
Non c’è dubbio che, con le persistenti difficoltà d’accumulazione, nei prossimi anni il problema si farà gravissimo, come del resto evidenziano tutti i modelli macroeconomici, anche solo con la proiezione dei fenomeni dovuti al calo demografico e all’aumento dell’età media degli individui. Ma ci sono altri dati che aggravano la situazione, primo fra tutti l’integrazione mondiale, che provoca effetti catastrofici sul vecchio assetto del mondo diviso in nazioni sovrane. L’immensa circolazione dei capitali attraverso le frontiere, il non meno importante spostamento di uomini e attività produttive con il conseguente confronto diretto fra i salari in tutto il mondo, l’impotenza dei governi nazionali a far fronte alle nuove esigenze con legislazioni idonee a mantenere, se non il “benessere”, almeno la pace sociale, sono tutti elementi che tendono a eliminare di fatto, nel tempo, le politiche nazionali del Welfare State per sostituirle con programmi mondiali di sopravvivenza del capitalismo e di esorcismo nei confronti della rivoluzione.
Brancolamenti economici e tentativi di progetto sociale
L’economia capitalistica moderna ci offre molti spunti per comprendere il passaggio necessario alla non-economia della società futura, dove sarà molto più semplice il controllo generale dei flussi di beni e di lavoro sulla base di una contabilità per oggetti e non per valore. Dove non vi saranno “ammortizzatori sociali” ma armonizzazione fra le varie componenti della società, che siano produttive o non ancora produttive, o non più. Per comprendere il passaggio alla società futura non c’è niente di meglio che comprendere ciò che già sta realizzando questa società, così com’è, con il suo controllo autoritario dei flussi di valore. Vi sono alcune difficoltà da superare, dovute soprattutto all’abitudine: per poter vedere la necessaria rottura dobbiamo avere in mente la società di domani, con tutte le sue caratteristiche di negazione della presente. Il procedimento contrario, cioè l’immaginare un’evoluzione graduale di questa società in una “migliore” non ci mostra nulla: invece di una trasformazione (passaggio ad altra forma attraverso la rottura della vecchia forma sociale) avremmo una ri-forma.
La forma sociale presente, basata sul valore, ha un “rendimento” bassissimo. Il fenomeno è stato analizzato a fondo in Scienza economica marxista e rimandiamo il lettore al testo. Ricordiamo soltanto che la nostra teoria dello sciupìo capitalistico non è un rigurgito di moralismo contro i capitalisti che s’ingozzano di plusvalore “rubato” ai proletari, ma una teoria della fisica dissipazione dovuta ad un sistema che cresce a ritmi e a rendimenti sempre più bassi. Una volta eliminata la dissipazione dovuta al capitalismo, la forza produttiva sociale esploderà verso utilizzi più razionali rispetto ai bisogni umani; eliminata la proprietà, non ci sarà ormai bisogno di Stato per indirizzare le energie (non più “valore”) in ogni direzione a salvaguardare nel miglior modo la riproduzione della specie nel suo ambiente. La società di transizione sarà abbastanza matura da adoperare lo Stato solo per eliminare in fretta le ragioni materiali della sua stessa esistenza, cioè per far estinguere le classi. Non per divinizzarlo insieme con la Patria Socialista, come successe in ambito di rivoluzione arretrata.
Non ci saranno più crisi da superare o da evitare. Ogni provvedimento per l’indirizzo delle energie sarà attività di specie e non stratagemma per continuare il ritmo dello sfruttamento e dell’accumulazione. Si estinguerà allora anche il partito di classe, sostituito da un organo specifico del corpo sociale. In questo contesto una diminuzione dell’utilizzo-dissipazione di energia non sarà considerata una catastrofe, come quando diminuiva il PIL, bensì sarà perseguita, progettata, in armonia con l’attenzione prestata a tutta la biosfera, di cui l’umanità è solo una parte.
Quando borghesi come i citati Keynes, Spengler e neo-malthusiani vari, affrontano il problema della dissipazione di valore sotto la spinta di una crisi gravissima quale la Grande Depressione degli anni ’30, lo fanno nell’ottica di chi vuole riprendere un ciclo aumentato di dissipazione senza che ad essa seguano effetti catastrofici. E per farlo cercano la cura per il capitalismo malato, lo drogano con ogni genere di doping. Keynes è il massimo esponente delle teorie dissipative dell’economia politica, il teorizzatore del lavoro inutile e del consumo sfrenato che rivitalizzano il Capitale. Egli non scherza affatto quando dice che scavare buche al solo scopo di riempirle, fare la guerra e costruire piramidi sono mezzi per sfruttare energia sociale a scopo di profitto. Anche quando traccia schemi asettici è come se impegnasse l’umanità ad un contratto faustiano con il Capitale: gli vende l’anima per avere punti di crescita, ma l’inferno è assicurato.
Di fronte alla catastrofe già avvenuta una volta, l’economista spaventato ha una sola preoccupazione: “Potrebbe ripetersi?”. La domanda è anche il titolo della celebre ricerca di Hyman Minsky, il quale afferma senza mezzi termini: “Due generazioni di cittadini e di uomini politici hanno vissuto nel terrore che lo spettro di quel grande crollo ritornasse. Uno degli obiettivi principali dei riformatori era quello di organizzare le istituzioni economiche e finanziarie in modo che il grande crollo non potesse ripetersi”.
Bene, finora ci sono riusciti, e c’interessa moltissimo sapere come hanno fatto, perché se il capitalismo è obbligato ad autolimitarsi, significa che ha incominciato a non essere più capitalismo. Siccome questo particolare modo di produzione è intrinsecamente instabile – ammette l’autore citato – il maggior avvenimento di questo dopoguerra è in realtà qualcosa che non è avvenuto: cioè, non c’è stata un’altra crisi catastrofica. I meriti di questo fatto straordinario, dato che c’erano invece tutte le premesse perché si ripetesse, sono attribuiti interamente all’intervento dello Stato. Se dunque lo Stato ha il potere di modificare l’indirizzo dei profitti e dei consumi (salari e investimenti), dovrebbe anche avere quello di esorcizzare le crisi catastrofiche per sempre. Esse infatti sono catastrofiche, storicamente inevitabili e cicliche solo quando non si sappia governare il processo di formazione del valore e la sua distribuzione. Keynes aveva una fiducia enorme nella possibilità di governare il capitalismo, perciò di eliminare le crisi e far vivere l’umanità nel benessere consumistico. Questo inno all’eternità del Capitale è significativo non tanto perché lo si può rinfacciare efficacemente nella polemica storica sulla realtà della miseria crescente, quanto perché ha un elemento tecnico di estrema importanza per noi comunisti: il valore prodotto può essere utilizzato al di fuori della volontà di coloro che ne hanno proprietà giuridica; vale a dire che i capitalisti, quando non siano eliminati dalla concorrenza, sono, almeno in parte, espropriati dal Capitale.
Sia Keynes che Minsky (quest’ultimo era consulente del governo americano quando scrisse il suo saggio), capitolano clamorosamente di fronte al marxismo: mentre nella teoria neoclassica dell’equilibrio – dice Minsky – il profitto è dato dalla produttività marginale degli investimenti moltiplicata per la massa del capitale investito (per noi: saggio di profitto per capitale anticipato), in una teoria dinamica che permetta di prevenire le crisi occorre sapere prima che cosa succede al profitto, cioè indirizzarlo; non basta un dato rilevato da serie passate. Affermazione davvero interessante perché, oltre a rappresentare in qualche modo un tentativo di rovesciamento della prassi, una politica secondo progetto, fa comparire nuovamente la nostra funzione di produzione. Infatti è il profitto-plusvalore che determina la produzione futura. La quale, a sua volta dovrà essere venduta, e lo sarà solo se posta di fronte ad una domanda solvibile. Alla fine questa dev’essere trovata per forza, a costo di stimolare il mercato, cioè suscitarlo, inventarlo. Da che il capitalismo è maturo, non è più il salario, cioè la parte di domanda solvibile rappresentata dai lavoratori, che stabilisce il livello della produzione di beni di consumo, ma viceversa. Il fenomeno è qualcosa di molto differente rispetto alla legge di Say (ogni volume di produzione trova da sé il suo mercato), che rifiutiamo. Nel nostro modernissimo caso interviene una doppia regolazione dovuta proprio alla maturità del capitalismo: 1) se il salario è, come lo definiamo sempre, la quantità di beni che serve a riprodurre la forza-lavoro, il valore di quest’ultima, cioè il suo prezzo medio di mercato, è stabilito dalla quantità di beni compatibile con date condizioni medie di vita (quelle cui si rivolge l’attacco pubblicitario prima di dar luogo alla produzione); 2) anche senza ipotizzare una produzione totalmente just in time, cosa impossibile, è comunque normale per l’industria adeguare con margini ristretti d’errore la produzione all’assorbimento del mercato. Lo stesso vale per i consumi industriali, cioè gli investimenti: essi sono richiesti non tanto dall’aumento della produzione e dall’obsolescenza materiale degli impianti quanto dalla concorrenza, che impone un ciclo di rinnovo sempre più frenetico, e sono programmati in base a dati abbastanza attendibili.
Come da antica polemica dei comunisti contro l’economia politica, la teoria del valore è in grado di informare in anticipo su che cosa succede nella società che produce e si riproduce, mentre la forma fenomenica prezzo è una realtà aleatoria che si forma in ritardo rispetto alla produzione e al comportamento del mercato. La nostra è una teoria e insieme un metodo di previsione, l’economia politica è una constatazione e un tentativo di rattoppo. Avendo rigettato la teoria del valore per ragioni di classe, i singoli capitalisti tentano di ricavare previsioni basandosi sull’andamento statistico della produzione e del consumo e ne proiettano la tendenza nel futuro. Ma lo Stato, capitalista collettivo, non può limitarsi a questo, deve avere un programma e intervenire sulla realtà cercando di prevenire disastri come quello del ’29 che ebbe uno sbocco solo con la più terribile guerra.
Ora, la Grande Depressione ha avuto l’effetto di illuminare parzialmente alcuni borghesi, far loro abbandonare le teorie meccaniche dell’equilibrio e spingerli alla ricerca di modelli dinamici. Avrebbero potuto raggiungere più in fretta i loro risultati copiando direttamente Marx. Avendo a disposizione gli strumenti matematici successivi, le teorie delle relazioni, quelle dei sistemi complessi e i modelli computerizzati, sarebbero stati in grado di capire meglio il loro stesso sistema. Ma non potevano ammettere il meccanismo principale di questo sistema, lo sfruttamento. Nel citato Vulcano della produzione è scritto a chiare lettere che il capitalismo descritto da Marx è meno disastrato e più efficiente di quello che scoprono i capitolatori quando smettono di farne l’apologia pura e semplice. Se non fosse così sarebbe già morto e sepolto. Quando i moderni economisti si spaventano per i disastri sociali che il capitalismo provoca, diventano apocalittici e indagano sui “limiti dello sviluppo” predicando la necessità di prendere misure drastiche altrimenti sarà la fine. Con tutti i loro computer non ne azzeccano una e i loro scenari si dimostrano persino più catastrofici dei nostri. Ciò avviene perché tengono conto soltanto del livello dei prezzi, della disponibilità di risorse fisiche (in fondo, della teoria della rendita) e della degenerazione dell’ambiente. Nella loro visione soggettivistica vedono i capitalisti correre verso il fallimento, ed è vero, ma non realizzano il fatto che il capitalismo si avvantaggia con la distruzione continua di capitalisti e capitali (lavoro passato, morto) e che ciò comporta un effetto sulla durata storica dello sfruttamento (dominio sul lavoro attuale, vivo). Il capitalismo non è eterno comunque, Marx in ciò era “crollista”, ma la sua esistenza può essere abbreviata soltanto dalla possibilità di un rovesciamento politico.
Se lo Stato, mediante una politica economica e sociale (Welfare State) si prende l’incarico di controllare il rovesciamento già avvenuto nella società, di controllare quindi il gioco della concorrenza, degli investimenti innovativi e produttivi, l’accesso ai mercati e il livello dei consumi, è chiaro che determina o perlomeno salvaguarda il livello dei profitti e dei salari (questi ultimi, proprio allo scopo di evitare la lotta di classe, sono intesi in senso lato, cioè sociale, come reddito destinato ai lavoratori produttivi, alle fasce improduttive, ai disoccupati, all’intervento di assistenza propriamente detta). La leva è quella ormai classica dell’imposta progressiva, del credito, dei tassi e dei sistemi assicurativi e previdenziali; agendo su di essa lo Stato controlla il mondo finanziario. Anzi, coalizioni di Stati tentano ormai di farlo anche a livello internazionale.
Che ciò avvenga operando direttamente o indirettamente non ha importanza, ma succede a livelli tali che parlare di capitalismo alla vecchia maniera per definire questo stato di cose è ormai un non-senso. In un testo della nostra corrente, Proprietà e Capitale, c’è un capitolo dedicato alla materiale formazione di una “economia comunista” già nella società attuale. Perciò la necessità di superare la vecchia forma sociale non si presenta nel programma comunista solo come “rivendicazione ideale”, ma come evidenza concreta dell’inutilità di strutture sopravviventi all’erompere della forza produtiva sociale, anche molto prima della rottura politica rivoluzionaria.
La forma schiavistica era già morta al tempo del tardo latifondo romano; la forma feudale era già permeata di traffici e manifatture capitalistiche; la forma capitalistica matura ha già sviluppato completamente tutte le strutture materiali utili alla società futura. Il sistema di massiccia ripartizione sociale del plusvalore, abbinato al controllo drogato dell’economia è addirittura un qualcosa che va oltre il “normale” capitalismo. Esso ci permette di anticipare possibilità pianificatrici ben più potenti, ricordandoci che l’umanità ha già conosciuto antiche società urbane, ancora comunistiche, in grado di indirizzare immense energie verso la costruzione di opere che lasciano stupiti ancor oggi. Chi si accinga a studiarle dal punto di vista dell’utilizzo dell’energia sociale si rende conto facilmente come, dal capitalismo alla società comunistica sviluppata, verranno liberate potenzialità ben più grandi per mezzo della scienza e della tecnologia moderne.
DOMANI
Premesse per la società futura
Ma allora, seguendo la nostra teoria che fa del capitalismo la base reale del comunismo, dobbiamo vedere anche in queste realizzazioni lo zampino della vecchia talpa che scava sotto lo scranno della borghesia. Dobbiamo provare soddisfazione di fronte all’insensato balletto dei neo-classici neo-liberisti, i quali predicano ad ogni piè sospinto privatizzazione e demolizione dello stato sociale. Di fronte a processi di socializzazione irreversibile, vorrebbero tornare all’epoca precedente la Grande Depressione, quando misure come quelle attuali non erano neppure immaginabili. Insensati, perché saranno costretti a fare il contrario: a rafforzare lo Stato, non a indebolirlo; ad investire di più per il controllo sociale, non di meno; ad essere proiettati verso il mondo, non verso la patria.
La crisi catastrofica incombe come una spada di Damocle sulla testa della borghesia, che non può più accontentarsi di descrivere i processi, ma deve prevederli e prevenire le conseguenze di andamenti rilevati da una continua e ossessiva osservazione. Per questo è costretta a scendere sul nostro terreno e a mostrare, più chiaramente che mai, con quanta ansia tenti di difendere il suo sistema barcollante.
Benché l’approccio keynesiano non sia inserito nella storia del Welfare State, o perlomeno sia tenuto separato, è evidente per noi che il maturare parallelo di entrambe le esigenze terapeutiche per il sistema capitalistico malato si inserisce in un capitolo unico della controrivoluzione. Per gli economisti classici e neo-classici l’approccio alla realtà della produzione e del mercato era quello di dare – con espedienti analitici – spiegazione dei fenomeni in un modello di equilibrio fra produzione, occupazione, consumo e altre variabili strettamente connesse. Per gli economisti keynesiani – e in questo consiste, nonostante le incongruenze teoriche, l’interesse del loro approccio – produzione, occupazione, consumo, ecc., vanno spiegati nel loro processo di variazione.
Per molti economisti borghesi Marx è da annoverare fra i classici, in quanto egli avrebbe utilizzato le categorie adattandole vuoi alla filosofia che da lui prende il nome, vuoi alle esigenze della lotta di classe. Tali enormi sciocchezze sono spazzate via da una sola considerazione: lo schema di riproduzione allargata è un modello a retroazione positiva altamente dinamico, tanto da portare ad una crescita esponenziale; invece i fattori politici e sociali che stanno intorno alla produzione rappresentano un modello a retroazione negativa, in grado di frenare e addirittura far saltare il sistema. Keynesismo e Welfare State rappresentano il tentativo di conciliare l’intervento politico sullo schema di riproduzione, cioè di trasformare la retroazione negativa in positiva. La crescita eterna.
Ovviamente è una stupidaggine. Dal punto di vista fisico e biologico niente può crescere eternamente. Perciò se il sistema cresce, salta in virtù del sopravvento della prima retroazione; se non cresce, salta lo stesso in virtù del sopravvento della seconda, che lo annichilisce. In ogni caso la forza produttiva sociale è frenata dal modo di produzione capitalistico. Il comunismo, come movimento reale fortemente distruttivo nei confronti del presente, è un processo dinamico perfettamente descritto da Marx. Il quale svolge nello stesso tempo la critica contemporanea ai classici e quella preventiva ai neoclassici, keynesiani e neo-liberisti (ai quali ultimi lo Stato piace un sacco quando privatizza i profitti e socializza le perdite).
Se ad un certo punto il capitalismo, nella sua corsa a permeare il mondo, invece di espandere internazionalmente il sistema del controllo sociale, che si chiami Welfare State o altro non importa, dovesse restringerne la portata e basare la propria sopravvivenza, rispetto all’inevitabile attacco della classe proletaria, soltanto sulla forza delle armi, sarebbe spacciato. Non è impossibile che si giunga a quel punto, ma sarebbe veramente una non-soluzione, disperata, finale. Per adesso assistiamo ad una espansione rozza e primitiva che si traduce in fondi d’aiuto e d’investimento a favore di zone disastrate, in proliferazione di organizzazioni internazionali di aiuto, in migliaia di campi profughi e rifugiati di tutti i tipi, in interventi per assorbire eccedenze agricole e industriali invendibili. Sta di fatto che oggi, come negli schemi di supporto alla produzione o in quelli di protezione sociale, c’è una crescente ripartizione di plusvalore non solo all’interno dei singoli paesi ma del mondo. L’ONU si occupa quasi esclusivamente di un dibattito politico sull’argomento, mentre la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, l’Organizzazione Mondiale per il Commercio, autentici organi dell’esecutivo del Capitale, se ne occupano dal punto di vista pratico.
Non essendoci nello schema keynesiano le classi, il modello diventa farraginoso e poco chiaro. Non si capisce per esempio da dove piovano le difficoltà del sistema che si vuole “salvare”. Sembrerebbero alla fin fine dovute a semplici scompensi di distribuzione, perciò recuperabili con espedienti fiscali e di bilancio pubblico, mentre per noi sono dovute allo scontro fra produzione sociale e appropriazione privata del valore. Nonostante tutto, una cosa è chiara: lo schema keynesiano ci dice che il consumo è una funzione del reddito globale, anche se in maniera non proporzionale: cioè cresce l’investimento, cresce la produzione, cresce il reddito ma il consumo non cresce nella stessa misura. Come mai? Ecco la confessione: le fasce di reddito basso, quelle che potrebbero consumare di più, le più numerose, non possono; quelle di reddito alto sono poco numerose e hanno già tutto; gli investimenti si bloccano perché è bloccato il consumo e quindi si blocca la produzione. E’ una teoria del sottoconsumo? No, perché, esattamente come dice Marx, non esiste crisi da mancanza di consumatori solvibili (è una tautologia, ogni consumatore è sempre solvibile per quel che consuma). C’è crisi perché s’inceppa il sistema intero della produzione. Nella farragine keynesiana sono riflesse le leggi reali della crisi capitalistica.
Dunque il consumo totale non cresce della stessa quantità del reddito, dunque il capitale prodotto non è reimmesso nella circolazione. Paradossalmente, in questo schema assolutamente borghese, i proletari consumano per definizione tutto ciò che ricevono, mentre i colpevoli di poca “propensione marginale” sono proprio i “ricchi”. Se parte della popolazione possiede valore e non lo può consumare, la ripartizione forzata dei redditi esiste in potenza prima che a qualcuno venga in mente di escogitare teorie sociali per imporla. Nel sistema in quanto tale, la forza produttiva sociale mostra già la sua dirompente esuberanza, ma la sovrastruttura politica di classe non sa e non può far altro che utilizzare il valore in eccesso per rattoppare falle. Invece di sfruttare un gran numero di proletari, è costretta a mantenerli. A noi tutto ciò fa pensare immediatamente alle potenzialità della società futura, mentre a Keynes venne in mente una “teoria del rilancio della domanda effettiva” per eliminare definitivamente la povertà e salvare il capitalismo per sempre. In fondo era un ottimista.
Ma, ci chiediamo, se il capitalismo è giunto a questo punto, certamente irreversibile a meno di non immaginare uno scontro generalizzato e violentissimo fra le classi, e se la ripartizione del reddito all’interno della società ha raggiunto proporzioni così vaste da rappresentare un vero e proprio processo di espropriazione parziale delle proprietà, che cosa resta del libero mercato e soprattutto dell’essenza stessa del capitalismo?
Cancellazione immediata del Welfare State
Supponiamo di essere in una società che abbia messo una pietra sopra al dominio della borghesia. Nell’immediato essa si troverebbe ancora in una fase di transizione in cui vigono tutte le categorie precedenti, nessuna esclusa, perché è pura utopia pensare che dall’oggi al domani esse si possano eliminare con una serie di decreti. Che esistano capitalisti singoli inquadrati nel nuovo sistema politico o che vi sia capitalismo di stato non ha importanza, il problema è, appunto, politico, non economico, giacché anche l’economia sarà destinata ad estinguersi (lasciamo a fantasiosi utopisti frustrati l’immagine di una dittatura del proletariato giacobina, dove per “eliminazione” della borghesia si immagina qualcosa di molto letterale e tutto sommato meschino). In questo sistema la produzione avviene ancora per un mercato, le merci si scambiano secondo il loro prezzo oscillante intorno al valore, esiste l’equivalente generale denaro, e perciò esistono ancora gli asili, le scuole, gli ospedali, le pensioni e le assistenze a pagamento, non importa se nella forma differita dell’assicurazione sociale pagata con una ripartizione del valore tra le classi (che ci sono ancora, altrimenti a che servirebbe la dittatura del proletariato?).
Tale società futura ha già il potere effettivo di rompere i vincoli di valore anche se produce ancora valori, se cioè sfrutta ancora il lavoro umano per trarne plusvalore. Incomincia da subito a distruggere i rapporti di valore perché la produzione sociale viene spinta alle massime conseguenze; l’azienda viene gradualmente integrata in un sistema d’industria fino ad estinguersi; il complesso produttivo viene considerato sempre più un unico elemento della società, così come l’operaio globale già descritto da Marx produrrà una unica merce globale. Questa merce particolare verrà distribuita fra la popolazione, non da un’autorità al vertice di una piramide, ma da un sistema che l’umanità avrà progettato in modo che esso funzioni da solo, così come funzionano da sole le cellule di un organismo in base al loro DNA. L’autorità non sarà un uomo o un comitato, ma un programma sul quale saranno basati i movimenti degli uomini (che ne saranno i realizzatori) e dei prodotti.
In questa società il denaro circola come mezzo di conteggio e di scambio, ma non si accumula né nelle mani dei privati né viene raccolto da qualche ente statale per essere investito. Poco per volta il surplus si armonizza con le esigenze di riproduzione sociale e perciò si adegua a quanto è necessario per ristabilire le scorte e i processi di logorìo dell’apparato produttivo o, se così fosse utile, per aumentare le potenzialità generali e dare soddisfazione a nuovi bisogni. Nel tempo, certamente in tutto il mondo e non in un periodo molto lungo, la soddisfazione di questi bisogni perderà sempre più i suoi caratteri quantitativi (produzione per la produzione) e assumerà caratteri esclusivamente qualitativi (produzione per i bisogni umani).
Il primo passaggio è dunque una specie di capitalismo a riproduzione semplice e non più allargata, dove tutto il plusvalore viene “consumato”. Infatti l’accumulazione avviene a favore di tutta l’umanità, nessuno si appropria del surplus, l’investimento diventa direttamente consumo sociale. Finché esistono ancora capitalisti tramandati dalla società precedente, essi possono soltanto fornire le loro esperienze tecniche e organizzative, se ancora ne hanno. In una situazione del genere l’umanità impara presto a produrre solo ciò che è umanamente utile e dimentica persino il concetto di profitto. Poco per volta il conteggio in denaro viene sostituito con il conteggio in quantità fisiche: nel sistema produttivo generale, contano i “pezzi” prodotti e le ore occorrenti ad ottenere il risultato. Non più fabbrica per fabbrica, posto di lavoro per posto di lavoro, ma nell’insieme, in modo da tenere sotto controllo soltanto il rendimento generale del sistema.
In tale sistema, che avrà certamente un rendimento sempre più alto grazie al superamento dello sciupìo capitalistico, le quantità prodotte saranno distribuite secondo criteri di circolazione naturale, vi sarà una sorta di osmosi sociale, per cui non vi sarà più ripartizione sociale di plusvalore ma solo una diffusione naturale del prodotto.
L’asilo, la scuola, l’assistenza medica, le pensioni ecc. saranno “gratuiti”, ma non perché da qualche parte nella società gli uomini “pagheranno” l’ammontare dell’assicurazione sociale o le imposte come adesso. La società intera sarà come un sistema vivente in cui ogni organo svolge la sua funzione in armonia col tutto, e sarà quindi consapevole che l’asilo, la scuola, l’ospedale sono parte di sé, come lo sono la fabbrica o le strutture che ne rappresentano il sistema nervoso, come la circolazione sanguigna, il ricambio, le relazioni che rappresentano il metabolismo complessivo.
Non vi sarà “ripartizione del reddito”, perché nonostante la sopravvivenza di categorie ancora capitalistiche non vi saranno più redditi. Non vi sarà neppure prelievo di valore “alla fonte” perché sarà la società stessa a programmare la distribuzione di risorse là dove sono necessarie all’armonia del tutto. Invece di separare merci, servizi, produzione e “prestazioni gratuite”, essa unificherà ogni sfera dell’attività umana spazzando via la divisione sociale del lavoro, la differenza di natura fra le attività umane.
I salari, se avranno ancora questo nome, saranno rapportati a tempo di lavoro generico semplice e tutta la popolazione avrà qualche compito da svolgere. Il controllo che la società eserciterà su sé stessa tramite l’inventario e il movimento di quantità fisiche e non di valore, eliminerà alla fine ogni forma di “retribuzione”, registrando l’attività lavorativa di ognuno su un supporto qualsiasi come per esempio una scheda elettronica. Su di essa, anche quando ci sarà ancora scritta una cifra che ricorda il vecchio denaro, sarà registrata in realtà una semplice quantità di lavoro. Vale a dire che a questo punto non avrà nessuna importanza se un numero significa “dollari” oppure “ore di lavoro”, perché nessuno potrà accumulare quei numeri, chiedere un interesse, anticiparli come capitale che frutta plusvalore. Poi cadrà anche la necessità di “valutare” secondo il tempo di lavoro anche se rimarrà il rilevamento statistico di esso.
In una società che non sia basata sulla produzione di valore ogni programma keynesiano di previsione e di orientamento della domanda totale di merci non ha senso. E le specifiche politiche del welfare, essendo basate sulla ripartizione guidata del valore, si estingueranno rapidamente. Nell’immediato, anche quando il rovesciamento sociale avrà ancora a che fare con tutte le vecchie categorie del capitalismo, il Welfare State potrà essere abolito con una semplice decisione, stabilendone i tempi e i modi. E non saranno necessari molti anni.
Come dicevamo, non ci riferiamo a una “dittatura del proletariato” dura e pura che emana decreti tramite l’onnisciente partito da un centro pianificatore unico mondiale, visione caricaturale della rivoluzione che lasciamo ad altri. Nessun sistema complesso si lascia trattare come un teatro di burattini “cartesiano” e forse occorre precisare per l’ennesima volta, prima di concludere con la trasformazione reale della società, che cosa significhi per un comunista “rovesciamento della prassi”.
Lo faremo non con le parole dello schema classico della nostra corrente, ma con termini equivalenti mutuati dalla stessa conoscenza cui essa attinse. Cartesio partiva dal presupposto che gli elementi complessi, poco conoscibili, fossero più accessibili all’indagine qualora fossero scomposti nei loro elementi semplici. Il mondo cartesiano, rivoluzionario per la sua epoca, era un mondo riducibile alla somma delle sue parti, ognuna delle quali analizzabile separatamente, anche nello spazio e nel tempo. Cartesio immaginava di poter trattare a questo modo anche i corpi viventi, organi con funzioni specifiche, macchine fatte di “pezzi”, impalcature, collegamenti, leve. Prospettando una riduzione del complesso a semplice, del tutto alle sue parti costitutive, per poterle trattare e conoscere, aveva separato il corpo dall’anima, operazione al suo tempo temeraria. E una volta che le parti fossero state analizzate in quanto tali, esse potevano essere riunificate nel complesso da cui erano state divise, per cui il tutto risultava evidente all’indagine ancora e solo come somma aritmetica delle parti stesse. Oggi sappiamo che il pensiero “meccanicistico” è inadeguato rispetto alla conoscenza profonda dei fenomeni, ma già questa era una rivoluzione (più o meno contemporanea, tra l’altro, alla condanna di Galileo; fatto che spaventò Cartesio inducendolo a sospendere la pubblicazione dei suoi studi).
Questo approccio a una nuova teoria della conoscenza era rivoluzionario all’epoca perché frutto dello sviluppo delle forze produttive, che caratterizzava il capitalismo nascente. C’era la necessità di occuparsi delle applicazioni pratiche, di costruire macchine, di fare calcoli, di dare sistemazione alla tecnologia. La vecchia conoscenza speculativa era del tutto inadeguata a dare risposte. Occorreva quindi fondare una nuova conoscenza, renderla condivisa, toglierla dalle mani dell’artigiano, che la trasmetteva individualmente al figlio o al garzone, e metterla in quelle di una scuola che l’avrebbe trasmessa socialmente. Soprattutto occorreva toglierla dalle mani del vecchio Dio, che non la teneva in minima considerazione, quando invece sarebbe stata alla base della nuova società fondendosi con la nuova scienza.
L’inglese Francis Bacon, studiato e ammirato da Marx come progenitore del materialismo, poneva le questioni che qui c’interessano allo stesso modo razionalistico, e il filone si può seguire nei suoi sviluppi fino all’illuminismo e al positivismo scientifico. Tutto il capitalismo e specialmente l’economia moderna poggiano su una concezione cartesiana del mondo. Ma il mondo funziona in un altro modo, e la borghesia stessa l’ha ultimamente scoperto, utilizzando questa sua nuova consapevolezza con ottimi risultati.
In breve, la dinamica dei sistemi complessi dimostra che l’approccio alla conoscenza, e soprattutto il modo di intervenire per cambiare la realtà (applicazione della “volontà”, rovesciamento della prassi), non possono essere basati sui “pezzi” di un problema visti separatamente, e che anche il tutto va affrontato come un qualcosa in movimento, che non è mai uguale a sé stesso e che soprattutto è formato da parti interagenti, per cui la loro aggregazione dà risultati assai diversi che se fossero semplicemente sommate l’una all’altra. E per “dinamica” non si deve semplicemente intendere il passaggio fra un punto definito nel tempo e nello spazio ad un altro punto dopo che sia trascorso altro tempo; in questo caso non saremmo per nulla usciti dal “meccanicismo”, avremmo semplicemente fatto un confronto tra due fotografie scattate in istanti diversi.
Ciò significa che la conoscenza della dinamica insita nel modernissimo capitalismo – un sistema complesso che marcia verso la sua trasformazione – permetterà la progettazione del cambiamento ulteriore. Con questa conoscenza sarà cioè possibile varare un’apposita politica per trasformare gli iniziali flussi di valore in flussi di “valori d’uso”. I quali non hanno bisogno di rapporto sociale (tra classi) ma di rapporto umano (di specie). Per dare un’idea in flussi di valore di scambio basta riferirsi a poche cifre: in un paese moderno risulta mediamente occupato in attività qualsiasi, produttive e improduttive circa il 40% della popolazione; il reddito dei soli lavoratori produttivi è il 20% del monte totale dei redditi, cioè del valore totale da essi prodotto in un anno; il valore redistribuito dallo Stato in welfare è superiore all’ammontare dei salari dei lavoratori produttivi (di circa un 25%); ciò significa che l’energia sociale complessiva devoluta al welfare per mantenere la pace sociale costa alla borghesia più di quanto le costi l’intera produzione di merci e servizi vendibili (il capitale costante è anch’esso lavoro e come al solito lo rapportiamo a zero).
Inoltre non si tratta di un prelievo alla fonte per investimento da utilizzare in consumo differito nel tempo da parte del diretto interessato (pensione, malattie, incidenti, istruzione, ecc.), ma di un prelievo dal reddito attuale per pagare i beneficiari del welfare attuale, senza legami con coloro ai quali il prelievo viene fatto. In poche parole, è ormai superato il concetto di assicurazione, mentre vige una pura e semplice diversione immediata di valore a fini sociali. Già questo ci permette di immaginare quali risultati potrebbe raggiungere una società in cui raddoppiasse la popolazione dedita alla produzione vera e propria e in cui tutti i suoi componenti, dai bambini agli anziani, partecipassero in quanto cellule differenziate alla vita complessiva dell’organismo sociale.
Oggi invece la cosiddetta protezione sociale esiste perché ci sono i poveri cronici, coloro che sono sbattuti fuori dal ciclo produttivo, coloro che devono studiare per entrarvi, i malati e gli incidentati, i neonati che devono crescere e gli anziani da rottamare. Tutte categorie sociali che, non essendo direttamente produttive, servono solo a fabbricare plusvalore attraverso l’industrializzazione della crescita, della vita e della morte. Che soffrano o meno al Capitale non importa niente. Come si vede, già facendo un elenco discretizziamo il problema, dividiamo cartesianamente i “pezzi” della società, classificando grossolanamente fra produttori di valore e non, cioè, dal punto di vista capitalistico, tra utili e non. In una società organica questa divisione non esiste e l’individuo entra ed esce dal ciclo vitale (nasce e muore) senza aver smesso per un attimo di essere parte attiva della società.
Il capitalismo, come vanno strepitando gli economisti e i governanti, ha effettivamente un problema grave, gravissimo, mortale. Oggi un individuo è “ragazzo” fino a trent’anni e rimane nel ciclo produttivo per ben poco tempo rispetto alla durata della vita; la maggior parte della popolazione attiva si dedica ad attività che sempre più riciclano valore altrui anziché produrne; gli anziani non possono essere trattenuti al lavoro lasciandone fuori i giovani. Perciò fra non molto l’uomo, in grado di raggiungere facilmente 90 anni di media e mandato magari in pensione a 70, dovrà essere mantenuto per una cinquantina d’anni in confronto ai quaranta di lavoro (cfr. figura). Ma da chi? Nessuna società capitalistica, per quanto opulenta, riuscirà a risolvere questo assurdo. Invece la società futura lo risolverà immediatamente, semplicemente eliminando la differenza fra tempo di lavoro e tempo di vita, e mettendo così da parte la suddivisione cartesiana in categorie distinte dedite a produrre valore, distribuirlo, fagocitarlo da parassiti. Semplicemente considerando la specie intera come un insieme complesso e dinamico che vive ed evolve, non che consuma (cioè, secondo i sinonimi: sciupa, logora, distrugge, guasta, esaurisce, erode, dilapida, sperpera, dissipa, ecc. ecc. Com’è potente la lingua, strumento più antico della società del valore, e quindi più sincero).
Una formazione economico-sociale già pronta
Il capitalismo moderno ha già lavorato per noi, le potenzialità per una formazione sociale più avanzata ci sono già. Basterà la liberazione delle potenzialità attuali non solo ad aprire la strada ad una forma di economia superiore, ma a condurre al superamento dell’economia stessa. Ritorniamo all’immagine dell’avvenuta conquista del potere in un paese capitalisticamente avanzato e dei problemi che si presentano all’amministrazione della società nuova. Sappiamo che la somma dei prezzi è il valore totale e che questa grandezza di valore, di fronte ad una situazione generalizzata che non permette più l’appropriazione privata del plusvalore, è assimilabile a mera energia sociale, rappresentabile con ore di lavoro o unità di misura qualsiasi. La vecchia suddivisione, che vedeva il 20% della produzione totale andare ai produttori e l’80% a qualcun altro che ne beneficiava senza produrre, è caduta ed ora si possono fare altri calcoli. Per esempio, se ci basiamo sulla situazione giapponese mostrata dalla figura, vediamo che coinvolgendo nella produzione i giovani e gli anziani si può tranquillamente recuperare già immediatamente un buon 30% di energia produttiva e giungere al 50 invece del 20%.
Un altro recupero di rendimento si può agevolmente ottenere dalla natura della produzione, che ora potrà essere mirata al contenimento dello spreco: l’Istituto Battelle di Ginevra aveva calcolato qualche anno fa che la produzione di un’automobile che durasse vent’anni invece di dieci richiedeva un dispendio di energia (in tep, tonnellate di petrolio equivalenti) superiore del 16%, ma per via della durata permetteva un saldo finale, del 42% netto di risparmio. Ora, è certo che avere a disposizione i dati sull’automobile non è la cosa migliore, poiché la razionalizzazione sociale in questo campo sarà ancora più drastica con la limitazione del folle proliferare del trasporto privato; ma essi sono molto indicativi e vanno per esempio considerati insieme con quelli sul rendimento in altri settori, come l’agricoltura (cfr. l’articolo sul numero scorso). Oppure con gli effetti che avrebbe l’eliminazione di settori che non producono nulla e dissipano soltanto, come tutti i servizi legati al denaro, banche ecc.
Ciò che importa è che, da qualunque punto di vista si effettui il confronto, si riesce a salire agevolmente e grandiosamente sulla scala del rendimento sociale e quindi a distribuire meglio sia l’attività degli individui che gli individui stessi in confronto alle attività necessarie. Se invece del lavoro coatto e mercificato abbiamo semplice e libera attività umana, non c’è nulla di strano nel farvi partecipare anche i bambini e gli anziani, come succedeva nel comunismo primitivo. I primi assorbiranno esperienza e dilateranno le loro possibilità conoscitive e sociali imparando e producendo utilmente in compagini altamente organizzate come l’industria (la scuola come viene intesa oggi sarà un ricordo del passato e il bambino utilizzerà gli strumenti del linguaggio, mano, parola, scrittura, capacità di relazione, gesto produttivo, in un processo unitario); i secondi metteranno a disposizione capacità affinate dall’esperienza e conoscenze che oggi, in mancanza di una staffetta fra generazioni sui luoghi di lavoro, devono essere ricostituite ogni volta con una “formazione” specifica e anch’essa sottoposta alle leggi del valore, essendo la conoscenza trattata come “investimento” sull’uomo, esattamente come si fa con le macchine, gli impianti e le infrastrutture.
La società attuale produce pseudo-programmi prospettando di far lavorare gli anziani solo perché non può mantenerli in pensione (né sterminarli), e di far studiare – e quindi mantenere – i giovani fino a trent’anni solo perché non ha lavoro per essi; prospettando nello stesso tempo investimenti produttivi e perciò il licenziamento di lavoratori che vanno ad ingrossare ancor più l’esercito della sovrappopolazione inutile; prospettando l’eliminazione del pensionamento pubblico a favore di quello privato senza chiedersi dove saranno investite “produttivamente” le immense, ulteriori raccolte di capitali. Quest’ultimo ritornello della moderna economia politica è addirittura il più assurdo: i paesi che si basano sulla raccolta previdenziale privata devono gestire fondi pensione per una massa finanziaria che va dal 60% del PIL canadese al 140% di quello svizzero, passando dall’80% di quello degli Stati Uniti. Innalzare ulteriormente l’età pensionabile, come si continua a predicare, quando i posti di lavoro non aumentano e quindi l’unica via d’uscita diventa quella di ritardare l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro, è un non-senso che fa ingigantire il problema dei fondi raccolti. La tabella ci ha mostrato chiaramente che nelle fasce d’età precedente e successiva a quella lavorativa ci saranno molto presto più anziani che giovani, perciò per ogni anno di non-pensionamento degli anziani occorrerebbe già da adesso ritardare più di un anno l’assunzione dei giovani. L’età media effettiva di ingresso al lavoro nell’Unione Europea è 28 anni, quella effettiva di pensionamento è 60 anni (62,5 negli USA): portare quest’ultima a 65 significa innalzare l’ingresso dei giovani a più di 33, con tutto ciò che ne consegue rispetto all’economia e all’impaludamento sociale.
I pochi numeri che abbiamo presentato, rapportati non a denaro ma a ore di lavoro e sfrondati dallo sciupìo capitalistico, ci permettono di percepire con chiarezza che la società futura non avrà i problemi attuali, per la semplice ragione che anche solo dal punto di vista quantitativo della distribuzione del lavoro (che comunque non è certo un obiettivo sufficiente) tutto è già risolto. La nuova società non ha bisogno che del passo politico, nulla deve maturare ancora. Naturalmente neppure il processo politico s’inventa, ma è chiaro che l’umanità si trova di fronte a molti fenomeni che si potrebbero già trattare come non-problemi se “soltanto” si potesse dar corso alle nuove potenzialità. Già da oggi saremmo perfettamente in grado di integrare l’attività di tutti, dai neonati ai vecchietti non nel lavoro salariato che produce plusvalore, che poi occorre obbligatoriamente investire, ma nell’attività di produzione e riproduzione globale, senza partita doppia e surplus monetario finale.
La proprietà privata non solo degli oggetti e dei capitali, ma di tutto il globo terrestre apparirà assurda e l’homo faber, artefice della sua vita e dell’ambiente che lo circonda, cancellerà in fretta la sua storia “proprietaria”, brevissima parentesi tra i due milioni d’anni di comunismo primitivo del passato e gli ancor più numerosi di comunismo sviluppato che verranno. Quando Marx affronta il problema della proprietà basilare, quella della terra, lo imposta nella dinamica storica che vede un passaggio continuo di generazioni, per cui “un’intera società, una nazione, e anche tutte le società di una stessa epoca prese complessivamente, non sono proprietarie della terra. Sono soltanto i suoi possessori, i suoi usufruttuari e hanno il dovere di tramandarla migliorata, come boni patres familias, alle generazioni successive”. La borghesia, per parte sua, ha capitolato clamorosamente anche di fronte al suo ultimo baluardo, quello della proprietà, perché tutto il discorso sul welfare e sul keynesismo verte sul fatto che nel mondo sviluppato attuale una buona metà del capitale esistente è espropriato e indirizzato artificialmente nella società. Il capitalista, invece di essere il soggetto della proprietà privata, cioè chi priva qualcun altro del capitale, diventa l’oggetto della privazione, è espropriato. Certo, lo è a favore della proprietà e per la salvaguardia dei suoi stessi interessi (finché sopravvive), ma la proprietà non è più l’elemento essenziale, quel che conta è la sopravvivenza della classe che la rappresenta, ormai classe virtuale, memoria di sé stessa.
Ma la capitolazione più significativa sul piano della percezione da parte della classe dominante è proprio l’indirizzarsi di alcuni borghesi verso forme ibride di teoria economica. Un esempio è la scuola di J. W. Forrester, legata alla dinamica dei sistemi, che si basa su modelli computerizzati in grado di elaborare migliaia di relazioni in successione, modelli che vengono “caricati” con i dati dell’economia reale, verificati su serie di variabili del passato, quindi conosciute; i loro risultati sono, è vero, influenzati dall’operatore che gestisce il programma, ma offrono una buona visione dell’andamento critico e “al limite” del capitalismo, mostrano cioè curve di sviluppo dall’andamento asintotico, verso lo sviluppo zero o addirittura verso catastrofi irreparabili (com’è noto i comunisti sono “catastrofisti”). Un altro esempio è la scuola di Georgescu-Roegen, che tratta l’economia come scambio di energia in un sistema termodinamico chiuso, quindi entropico (dissipativo), e che viene anch’essa sul nostro terreno degli schemi di riproduzione allargata a rendimenti decrescenti. A livelli ancor più vicini a un approccio globale, sono stati sviluppati, presso istituti come il MIT, modelli dinamici di simulazione che vanno oltre il semplice schema economico e incominciano a tener conto di fattori diversi dalle risorse, dai capitali e dalle politiche economiche, e a integrare il mondo intero, la biosfera e anche l’energia che giunge dal Sole (pioniere di questa tendenza fu Carl Madden, scomparso prima di poter dare sistemazione alle sue teorie). Infine, serbatoio di inaspettate quanto fertilissime capitolazioni di fronte al marxismo, la scuola interdisciplinare, o meglio, olistica (una sola disciplina onnicomprensiva e non un collegamento fra discipline separate) di Santa Fe, che esplora il movimento delle molecole umane in relazione all’ambiente che le ha prodotte e a quello che esse stesse producono, tendendo a considerare il mondo come un unico sistema complesso, prodotto particolare di un universo dal quale dobbiamo smettere di sentirci estranei.
Insomma, la società nuova preme con forza su quella presente e ne scombussola persino le premesse ideologiche e scientifiche. Questo fenomeno ci dà la misura di come sia diversa dall’utopismo la dottrina che impropriamente deriva il suo nome da Marx. La nostra previsione sulla scomparsa del Capitale e della proprietà va ben oltre ogni immaginario sistema “pensato” od ogni “realistico” trasferimento di valore e proprietà dal soggetto individuale a quello sociale (si estinguerà pure questo soggetto, lo Stato). La nostra previsione si legge nella dinamica di questa società, nel suo necessario divenire, cioè nella liberazione quantitativa dovuta allo sviluppo capitalistico della forza produttiva sociale, dinamica che ormai si esprime, per chi in essa sa leggere, anche come liberazione qualitativa. E’ oltremodo interessante notare che sta contemporaneamente morendo la visione volgare del partito, organismo che gli opportunisti e i sinistri poco preparati considerano ancora in termini quantitativi, mentre nel cervello sociale stanno esplodendo ovunque gli interessi verso i fenomeni qualitativi, anche dal punto di vista dell’organizzazione sociale.
Il passaggio dal welfare e dalle alchimie sulla ripartizione del plusvalore ad un organico metabolismo sociale con il suo ricambio molecolare, biologico, tra uomini e tra questi e l’ambiente, è uscito dai lavori di Marx e ha conquistato la scienza del nemico, tanto che lo si può leggere agevolmente nella sua produzione di punta. Per quanto occorra saper sfrondare i vari documenti dai fronzoli ideologici della borghesia, l’utopia è uccisa per sempre dalla realtà in movimento.
Mentre la natura utopica dei modelli ideali predispone i loro fautori ad attendersi la realizzazione di una società migliore da un’opera di persuasione e di reclutamento alle idee giuste ecc., la natura materiale del movimento che cambia la società ci mette sotto gli occhi un potenziale che nessuno dovrà creare; esso esiste, trasforma, distrugge ostacoli verso il futuro, dimostra le leggi del comunismo in divenire e resiste a qualsiasi critica. Chi rinuncia alla possibilità di mostrare con ogni mezzo la società futura sulla base delle evidenze attuali o addirittura lo rifiuta come metodo comunista e si culla nel metodo opposto, nell’utopia dei costruttori di società e di partiti non fa parte dell’attuale rivoluzione: “Nella sua sufficienza filistea – afferma la nostra scuola – questo metodo non è che il preparato alibi per le cricche politiche professionali, che non hanno mai sentita l’altezza della forma partito e l’hanno ridotta a palcoscenico per le contorsioni di pochi attivisti”. E aggiunge: se queste cricche dovevano ritornare a concezioni esoteriche, non visibili a tutti, o limitarsi a manovre politiche per conquistare adepti in quantità, tanto valeva che restassero nelle sacrestie ad attendere il rivelarsi del verbo divino o stazionassero in permanenza nelle anticamere del potere, dove per i servi ci sono sempre dei piatti da leccare.
Il Welfare State non è argomento da rivendicazione comunista e neppure sindacale. L’operaio deve rifiutare l’ingabbiamento della sua condizione in contratti che lo legano all’avversario; deve rifiutare gli automatismi stabiliti per legge che lo inchiodano alla società capitalistica. La sua garanzia è nella forte organizzazione, in grado di mobilitare i proletari in qualsiasi momento, senza preavviso e senza programmazioni, per gettare in campo la forza e non la legislazione. Ma questa prospettiva può essere capita solo da chi non ha nulla a che fare con la mentalità leguleia del riformista e del “sindacalista” di professione, azzeccagarbugli che invece vivono sulla definizione delle regole, sul loro mantenimento e sull’attività sbirresca per farle rispettare in quanto legge.
Noi vediamo nel sistema della protezione sociale a carattere mercantile un ostacolo da demolire e da sostituire con ben altro che gli articoli di un codice e i trasferimenti di plusvalore. Siamo per la negazione perché nella società futura non ci saranno politiche del welfare, e ribadiamo che la vera politica comunista consiste nel proiettare il futuro nell’oggi, mentre in genere non si fa che proiettare l’oggi nel futuro, come nei peggiori film di fantascienza (qualcuno riesce a definirsi comunista addirittura proiettando il passato nel futuro, come fa chi fonda la propria concezione del mondo sulle arretratezze borghesi dello stalinismo, del maoismo e di altri “ismi” analoghi).
Esplosione della società futura
Sviluppando i temi sfiorati da Carl Madden, un filone economico-sociale tra quelli prima elencati elabora le sue valutazioni sulla società e sul suo progresso a partire dalla trasformazione dinamica che avviene su uno stock globale che l’umanità in un certo momento della sua esistenza eredita dalla storia del pianeta e da quella delle società e generazioni precedenti (cfr. Giarini). L’accumulazione sarebbe un fenomeno complesso che riguarda non solo il Capitale, coinvolto in minima parte nel sistema-Terra (e Terra-Sole) ma soprattutto l’intero ambiente e l’intero percorso storico che ha portato all’esistenza della “società monetizzata”, la quale, a sua volta, evolve in modo contraddittorio: da una parte accumula nel suo ciclo; dall’altra disaccumula nel ciclo globale, cioè consuma ciò che la natura ha accumulato in milioni di anni. In questo curioso modello gli impianti, le costruzioni ecc., tutto ciò che normalmente viene considerato capitale fisso, è invece considerato capitale che fluisce con il perenne suo utilizzo nel ciclo di produzione: come in Marx viene rapportato a zero. Il capitale monetario, inoltre, è considerato a parte, come un valore d’uso necessario, nell’attuale periodo che l’umanità sta vivendo, per sviluppare la forza produttiva sociale e andare oltre.
Qualunque utilizzo venga fatto di un modello del genere (ed è chiaro che si tratta, nel caso degli autori, di salvaguardia di un capitalismo “dal volto umano”), a qualunque linguaggio si ricorra per descriverlo, le conseguenze estreme che se ne possono trarre è che non più di capitalismo si tratta ma di altro. La “gestione” dello stock è la chiave di volta del modello, ma anche in Marx la proprietà della terra, intesa quest’ultima in senso lato, è la chiave di volta di tutto il problema sociale. Proprio il trattamento della terra, che gli uomini ereditano e che hanno il compito di tramandare ai posteri intatta o migliorata, mai esausta e peggiorata, dev’essere indirizzato al miglior sviluppo futuro dell’umanità. Tutta la specie umana sarà dedita a questo compito. Non sarà suddivisa in lavoratori “produttivi”, non produttivi, capitalisti, sovrappopolazione relativa, madri, bambini, vecchi, malati e parassiti. Nel nuovo metabolismo sociale non ci saranno poveri da assistere, pensionati da pagare o “propensioni marginali al consumo” da stimolare. Il lavoro delle madri e dei cuccioli umani nel garantire la continuità biologica della specie avrà “valore” identico a quello degli anziani nel garantire la continuità della conoscenza e dell’esperienza, complemento biologico delle biblioteche cartacee ed elettroniche. E non si chiederà a nessuno se ha pagato la tessera sanitaria quando si ammalerà o si spaccherà la testa cadendo.
Sistemato l’individuo al suo posto come cellula dell’organismo sociale, neppure i miliardi di individui che popoleranno la Terra saranno l’umanità, la specie umana, ma rappresenteranno una parte di essa entro il limite temporale delle esistenze singole, delle generazioni, delle epoche. Per la prima volta nella sua storia, coscientemente, scientificamente, l’uomo che vivrà nell’arco di un certo periodo si subordinerà alla specie, cioè si organizzerà in funzione non dell’attimo fuggente della sua propria vita e dell’aumento di capitale altrui ma ai fini dell’umanità a venire. Solo così l’individuo realizzerà anche sé stesso come uomo.
L’ingenua visione dell’economista che immagina uno stock universale con tanto di denaro e accumulazione capitalistica è ibrida, ma è certamente il frutto di una forte pressione materiale da parte della realtà in movimento. Marx fonda la sua teoria del futuro sulla differenza tra proprietà e usufrutto. Nel linguaggio corrente la proprietà è permanente, l’usufrutto è temporaneo. Nel diritto borghese la proprietà comporta il diritto di usare e di abusare del suo oggetto, mentre nell’usufrutto il diritto prevede solo l’uso ed esclude l’abuso. L’economista vede il problema e rileva che gli obiettivi della produzione capitalistica cozzano contro il limite dello stock, della sua natura, la quale non può sopportare una pura e semplice dissipazione. Introduce quindi un concetto giuridico: l’obiettivo locale non può essere disgiunto da quello globale, ma quest’ultimo comprende la natura e le generazioni future, ergo non si può affrontare il problema della produzione e dell’accumulazione attuale, transitoria, senza porre limiti alla libertà. Occorre cioè che vi sia uso senza abuso, un’assunzione di responsabilità verso il genere umano. L’economista borghese, costretto dalla teoria della dinamica dei sistemi, recita a modo suo un requiem alla proprietà.
Siamo già andati oltre le argomentazioni del politico, del giurista e dell’ambientalista che disquisiscono sui limiti sociali dell’inquinamento ecc.; la loro preoccupazione è di rattoppare il sistema in modo che si possa respirare e continuare a produrre, ricavando magari ulteriore plusvalore anche con i rattoppi, sperando di evitare problemi fra le classi, disturbi della tranquillità di sfruttamento o addirittura ribellioni. Siamo quindi, di nuovo, andati oltre la società borghese già in ambito borghese. Questa concezione olistica borghese scaturita nel tentativo di risolvere problemi della borghesia, non somiglia più né agli schemi keynesiani né alle misure legislative di Lord Beveridge per la protezione sociale. Ci dimostra come una prova sperimentale che il passaggio è stramaturo.
Integrata ogni componente sociale nella produzione e riproduzione di specie, sarà anche bloccata la dissipazione della conoscenza operata dalla società attuale, che giunge ad elaborare scienza ma poi la sterilizza, la rinnega, se questa dimostra la caducità del capitalismo o se non produce immediatamente profitto. Perciò, ridotto anche al minimo il tempo di lavoro necessario, che sarà collegato al tempo di vita in cui lavoro e altre attività anche gioiose non sono distinte, l’umanità farà esplodere ogni possibilità di conoscenza per badare a sé stessa in un tutto organico, e non avrà bisogno di uno Stato con i suoi “interventi sociali”. Sparito il Capitale, lavoro morto che dominava il lavoro vivo, anche l’enorme accumulo di manufatti che ricopre il pianeta – altra ex manifestazione solida e palpabile del lavoro morto – rappresenterà un patrimonio da rigenerare a nuovi compiti e da passare alle future generazioni. Come la terra non può essere data in proprietà a nessuna classe in particolare senza consegnare l’intera società a quella classe, così l’industria e tutto ciò che rappresentava “capitale fisso” e “immobiliare” saranno trattati al pari della terra e presi in usufrutto dall’umanità vivente. Nessuno avrà “diritti”, nessuno dovrà essere salvaguardato dalle differenze di distribuzione di valore.
Letture consigliate
- Karl Marx, Il Capitale, Libro I, cap. XIII (sul pauperismo, su Malthus, sulla sovrappopolazione relativa come legge generale dello sviluppo capitalistico).
- Partito Comunista Internazionale, Vulcano della produzione o palude del mercato? (dal paragrafo 30: “L’economia del welfare”, al paragrafo 44: “Parassitismo e malessere”); Scienza economica marxista come programma rivoluzionario; Proprietà e Capitale. Tutti pubblicati nella nostra collana Quaderni Internazionalisti.
- Bruno Jossa, Economia Keynesiana, Etas Libri.
- Pierre Delfaud, Keynes e il keynesismo, Lucarini.
- Hyman P. Minsky, Potrebbe ripetersi?, Einaudi.
- Orio Giarini, Dialogo sulla ricchezza e il benessere, Mondadori Est.
- The Economist, “Pensions – Time to grow up”, 16 febbraio 2002.
- Federico Caffè, Economia del benessere; Ernesto Rossi, Sicurezza sociale, entrambi in Dizionario di economia politica, Edizioni Comunità.
- Attilio Esposto e Mario Tiberi (a cura di), Federico Caffè, realtà e critica del capitalismo storico, Donzelli Editore.
- Mariano d’Antonio (a cura di), La crisi post-keynesiana, Boringhieri.
- Istat, Rapporto sull’Italia 2001, Il Mulino.
“È chiaro che una critica basata sul richiamo ad una situazione futura che nessuno ha ancora osservata o rilevata incontrerà sempre la fiera derisione di quelli che sono soliti dileggiare il dogmatismo, o perfino la ricaduta nella utopia, di noi marxisti rivoluzionari. In tutte le nostre lunghe ricerche noi abbiamo citato mille e mille passi in cui si vede che Marx fa sempre in modo esplicito il paragone tra le caratteristiche del processo capitalistico e quelle della produzione futura e società futura, dato preciso per il quale egli tiene il comunismo in atto, pur designandolo sotto diversi nomi e perifrasi. Ciò in tutte le opere, nei tre Libri del Capitale, opera massima, e possiamo dire in ogni capitolo di essa, anche se per mostrarlo appieno il lavoro critico deve saper gettare ponti sicuri tra pagine anche lontanissime tra loro” (da Scienza economica marxista come programma rivoluzionario).
FONTE: https://www.quinterna.org/pubblicazioni/rivista/07/estinzione_welfare.htm
FINANZA BANCHE ASSICURAZIONI
Il Congresso USA sta introducendo, zitto zitto, il Dollaro Digitale?
Lo scorso 28 luglio il deputato Don Breyer ha presentato un disegno di legge, che dovrebbe andare presto il discussione, per la regolamentazione delle valute virtuali e dei cryptoasset, denominata “Digital Asset Market Structure and Investor Protection Act” Questa proposta di legge però contiene una norma che emenda le attuali leggi in vigore e che rischi di mutare radicalmente il funzionamento del denaro negli USA.
Premettiamo che la FED non emette denaro fisico (banconote etc) a caso, né lo distrugge, se non con un’autorizzazione federale ed entro precisi limiti fissati dalla normativa che ne guida e dirige i poteri. Il deputato Breyer, nella sua proposta, viene ad introdurre il seguente emendamento riguardante i poteri della FED:
d) Supervisionare e regolamentare, tramite il Segretario del Tesoro, l’emissione e il ritiro delle banconote della Federal Reserve (sia fisiche che digitali), fatta eccezione per la cancellazione e la distruzione, e la contabilizzazione in relazione a tale cancellazione e distruzione, delle banconote non idonee alla circolazione , e per prescrivere norme e regolamenti (inclusa la tecnologia appropriata) in base ai quali tali banconote possono essere consegnate dal Segretario del Tesoro agli agenti della Federal Reserve che ne fanno richiesta”.
Fin qui tutto bene. Questa è la norma attuale che regolamenta l’emissione e la distruzione delle banconote. Ecco la proposta di integrazione Breyer:
“Sono autorizzate le banconote della Federal Reserve, da emettere a discrezione del Consiglio dei governatori del Federal Reserve System allo scopo di effettuare anticipi alle banche della Federal Reserve attraverso gli agenti della Federal Reserve come di seguito stabilito e per nessun altro scopo. Nonostante qualsiasi altra disposizione di legge, il Consiglio dei governatori del Federal Reserve System è autorizzato a emettere versioni digitali delle banconote della Federal Reserve oltre alle attuali banconote fisiche della Federal Reserve. Inoltre, il Consiglio dei governatori del Federal Reserve System, previa consultazione con il Segretario del Tesoro, è autorizzato a utilizzare la tecnologia Distributed Ledger (la blockchain ndr) per la creazione, la distribuzione e la registrazione di tutte le transazioni che coinvolgono banconote della Federal Reserve digitali. Le suddette banconote saranno obbligazioni degli Stati Uniti e saranno considerate a corso legale e saranno esigibili da tutte le banche nazionali e membri e dalle banche della Federal Reserve e per tutte le tasse, dogane e altri diritti pubblici. Saranno riscattati in moneta legale su richiesta presso il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti, nella città di Washington, Distretto di Columbia, o presso qualsiasi banca della Federal Reserve”.
GIUSTIZIA E NORME
LAVORO PENSIONI DIRITTI SOCIALI
Impatto ICT sul lavoro: una monografia individua rischi e opportunità
La diffusione delle Information and Communication Technology (ICT) ha comportato profondi cambiamenti nel mondo del lavoro e nelle abitudini di vita delle persone. Questi processi collegati alle ICT, oltre a creare nuove opportunità di lavoro e migliorarne la qualità, possono tuttavia determinare l’insorgenza di nuovi rischi che devono essere individuati e valutati in un’ottica di salute e sicurezza sul lavoro. Del resto il digitale sta modificando da tempo anche la modalità di fruizione delle informazioni sui luoghi di lavoro e gli stessi percorsi formativi e di apprendimento stanno abbandonando il tradizionale contesto d’aula orientandosi verso l’adozione di strumenti social e piattaforme collaborative e interattive. La recente monografia ICT e lavoro: nuove prospettive di analisi per la salute e la sicurezza sul lavoro realizzata da alcune ricercatrici INAIL analizza proprio l’impatto relativo alla introduzione delle ICT e all’uso dei social media in termini di rischi ed opportunità per i lavoratori in termini di salute e sicurezza.
I fattori di successo delle politiche in materia di salute e sicurezza sul lavoro di cui si occupa INAIL dipendono in larga misura dalla efficacia ed efficienza dei canali di comunicazione e degli strumenti utilizzati per raggiungere i differenti stakeholder. Anche nel settore dunque i nuovi canali di comunicazione quali Internet, le applicazioni online e i social network possono rappresentare una vasta gamma di strumenti che contribuiscono a rendere più efficaci i processi comunicativi, informativi e formativi.
La monografia si articola in cinque aree tematiche:
- Cambiamenti nel mondo del lavoro. La globalizzazione, la maggiore concorrenza, la rapida diffusione delle ICT, di Internet e delle nuove tecnologie hanno un grande impatto sull’organizzazione del lavoro, determinando una graduale transizione da un’organizzazione con orari relativamente standardizzati verso modelli più complessi e fluidi all’interno di ambienti di lavoro molto diversificati in termini di spazi e luoghi, siano essi fisici o virtuali. Questo consente da un lato di creare network sempre più fluidi e globali dando la possibilità alle aziende di usufruire dell’utilizzo di lavoratori di Paesi con forza lavoro a basso costo con conseguenti ricadute economiche significative, dall’altro di lavorare da qualsiasi postazione fisica o in mobilità in ogni momento nell’arco della giornata, determinando quindi un incremento delle ore lavorative, una dispersione dell’attenzione sul lavoro e una frammentazione delle attività (cyberloafing).
- Evoluzione della normativa. Lavorare in modo più flessibile rappresenta non solo un’opportunità, ma anche una necessità sempre più sentita dalle organizzazioni che andrebbe supportata anche per favorire un maggiore benessere e una maggiore soddisfazione dei lavoratori. In questa ottica la normativa che riguarda il lavoro agile tiene conto sia delle aziende per quanto riguarda gli aspetti produttivi, sia dei lavoratori in relazione al bilanciamento dei tempi di vita e di lavoro.
- Social media nei luoghi di lavoro. Le piattaforme social e collaborative sono sempre più utilizzate in ambito lavorativo e ciò determina una nuova organizzazione del lavoro che può presentare vantaggi per i lavoratori, a livello di performance e benessere, e per le organizzazioni, in termini di crescita e sviluppo. Si parla oggi, infatti, di social organization, intesa come un modo nuovo di fare impresa che consente a un vasto numero di persone di lavorare collettivamente, valorizzandone competenze, talento e creatività.
- Benessere dei lavoratori. L’aumento dell’internalizzazione e della concorrenza, il maggiore utilizzo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, i cambiamenti della forza lavoro, la flessibilità e le nuove pratiche organizzative hanno effetti sulle caratteristiche e sul benessere dei lavoratori. È importante, pertanto, monitorare i cambiamenti nell’organizzazione del lavoro e studiare i loro effetti sulla salute e sicurezza, con una particolare attenzione ai lavoratori vulnerabili.
- Apprendimento nei luoghi di lavoro. Le ICT hanno un impatto significativo sulla crescita di un Paese quando agli investimenti in infrastrutture si affiancano anche quelli per la riorganizzazione dei processi aziendali (complementarietà tra tecnologia e organizzazione), tra cui quello della formazione. La formazione ha un ruolo chiave all’interno delle aziende, non solo come strumento per supportare lo sviluppo di nuove competenze digitali, ma anche per abilitare i cambiamenti nei modelli di lavoro e per l’impatto positivo che essa ha sull’engagement e la valorizzazione dei talenti.
Le sfide e le prospettive future riguardano la capacità da parte delle organizzazioni di sfruttare appieno le potenzialità dell’innovazione tecnologica, non soltanto per raggiungere gli obiettivi esterni di business, ma anche per supportare i cambiamenti a livello organizzativo in termini di competenze, ruoli, relazioni e modalità lavorative. Sono necessarie, pertanto, policy aziendali che valutino le potenziali ripercussioni a seguito dell’introduzione delle ICT e stabiliscano regole, come la definizione delle modalità di accesso a Internet e di utilizzo delle ICT, anche in relazione alla privacy e al rispetto della legalità, per evitare possibili conseguenze negative e atteggiamenti di rifiuto delle scelte tecnologiche espressioni della resistenza al cambiamento.
Poiché lo sviluppo delle ICT in ambito lavorativo introduce cambiamenti relativi agli aspetti economico–produttivi e alla qualità del lavoro, è dunque importante riuscire a valutarne l’impatto sul benessere dei lavoratori al fine di definire adeguate misure di prevenzione e di gestione del rischio.
Molti Enti preposti alla tutela della salute sicurezza sul lavoro a livello europeo e internazionale riconoscono, nell’ambito della comunicazione, l’importanza degli strumenti social per raggiungere diversi target di pubblico e per diffondere raccomandazioni efficaci.
Importante, come emerge dal volume, riuscire a ripensare la formazione per la salute e sicurezza dei lavoratori, sia in termini di progettazione che di erogazione, utilizzando le potenzialità dell’innovazione tecnologica in termini di maggiore coinvolgimento e partecipazione per promuovere il benessere organizzativo.
FONTE: https://www.techeconomy2030.it/2017/04/21/impatto-ict-sul-lavoro-monografia-individua-rischi-opportunita/
NOTIZIE DAI SOCIAL WEB
Nura Musse Ali
Alessandro Perrone 28 08 2021
Ok! Ora la questione Durigon è risolta. L’indignazione generale verso la sua dichiarazione stupida e improvvida lo ha costretto ad autoliquidarsi. Bene ha fatto. Non è consentito a chi commette sciocchezze di occupare delicati ruoli di governo.
Ora, però, chiarita la questione e sventato il tentativo di golpe fascio-toponomastico, parliamo di cose tremendamente più serie che incidono sulla vita degli Italiani più del nome di un parco di una città di provincia, peraltro fondata dal duce che lo si voglia o meno.
Nura Musse Ali, trentacinquenne di origini somale designata dal PD alla commissione delle pari opportunità della Regione Toscana, si è detta favorevole alla presa del potere dell’Afghanistan da parte dei Talebani in una intervista concessa quotidiano Il Tirreno e non smentita nella sua sostanza, nonostante il successivo tentativo di correggere il tiro sostenendo si sia trattato di una sorta di malinteso da parte dell’intervistatore.
Rimane un dato di fatto non smentito: il suo giudizio positivo sull’inizio di un “percorso virtuoso” del paese a guida degli integralisti islamici da cui si auspica il meglio, nonché la sua condanna dei vent’anni di occupazione che, a suo parere, non ha portato al miglioramento delle condizioni del paese (opinione per la quale ci era bastato sopportare la versione talebana di Michela Murgia).
Tale promozione degli integralisti sanguinari ma moderati (non come l’ISIS, ovviamente, quella è altra roba), peraltro, non è disdegnata da buona parte dei musulmani residenti in Italia, recentemente interpellati sulla eventuale applicazione in afghanistan (e altrove) della legge coranica.
A tutt’oggi non sembra che le dichiarazioni della gentile signora abbiano sortito un invito perentorio da parte del suo partito, di rinuncia all’ incarico ricevuto. Si prendono in generale le distanze ma non si intima il giusto distanziamento della sostenitrice di questa singolare teoria, forse perchè non ritenuta così grave come quella dell’ “indegno” Durigon.
Le indignazioni sporadiche di alcuni rappresentanti del PD non dissipano il dubbio che l’interpretazione delle “pari opportunità” di Nura Musse Ali siano intese nel senso dichiarato di promozione della sharia anche nel paese che si onora di ospitarla. Allo stesso tempo, dovrebbe essere sgombrato un dubbio molto più preoccupante relativo alla propensione del PD di individuare tra i suoi rappresentanti, uomini o donne appartenenti alla cultura islamica al fine acquisire consensi sotto l’insegna di un ecumenico multiculturalismo.
Si tratta di una strategia che ha innalzato a modello personaggi legati ad organizzazioni come i fratelli musulmani in un operazione che non aiuta affatto l’integrazione ma permette piuttosto all’integralismo islamico di affondare le radici anche nel nostro paese come già avvenuto nel resto d’Europa.
La questione, converrete, (non se ne dolga l’Enrico Letta che ha avuto modo di bagnar panni non in Arno ma ma nella “rive gouche” filoislamica transalpina) è ben più grave della richiesta di attribuire ad un parco di latina il suo nome originario non certo per esaltare il personaggio a cui è stato, a suo tempo, disgraziatamente titolato.
Ma tant’è. La gerarchia dei valori e dei disvalori la redigono loro, i “migliori”. Solo loro che concedono patenti o impongono fogli di via. Difficile per tutti gli altri stabilire gerarchie alternative. Compresa quella del buon senso.
FONTE: https://www.facebook.com/groups/209056506174846/permalink/1264326200647866/
Diffidenti al siero
Sara Angel – 28 08 2021
Secondo il CdS i più diffidenti nei confronti del siero magico sarebbero i cinquantenni. E ci metterei anche i sessantenni e un po’ di tardo-quarantenni.
Forse perchè sono ancora troppo giovani per preoccuparsi di una malattia che persino nelle statistiche ufficiali vede morti di età media 81 anni.
Forse perchè sono troppo vecchi per credere alla Tv, ai giornali, alla scienzah e agli esperti di regime, a Speranza, a Draghi, a De Luca, a Burioni…
Forse perchè, subito dopo le fiabe, sono cresciuti con i racconti di Piazza Fontana, delle stragi di stato, dei servizi deviati e nessuno chiamava “complottisti” gli autori di quei racconti.
Forse perchè nel mondo dove hanno vissuto da ragazzi se i politici avessero provato a fare il 10% di quello che stanno facendo ora, come ha detto un mio amico, come minimo sarebbero finiti già nei cassonetti.
Forse perchè si sono formati in una scuola dove gli insegnanti migliori erano quelli che ti aiutavano ad accedere allo spirito critico, alle autonome capacità di ragionamento, al doveroso esercizio del “sospetto” nei confronti delle parole del Potere.
Forse perchè i libri che hanno letto, i film che hanno visto gli hanno insegnato che certamente, divenuti adulti, bisogna anche scendere a compromessi con la realtà, ma che se si vuole conservare la propria dignità bisogna tracciare anche una linea e dire “potete spingermi fin qui, ma da questo punto non faccio più un passo indietro”…
Vabbè, la finisco qui, perchè sto scrivendo un inno alla mia generazione, che ha fatto tanti errori, che ha tante responsabilità, nella quale tantissimi hanno fatto “una pessima riuscita”, ma dove ancora splende una debole luce in queste tenebre spaventose.
E per questo, nonostante tutto, la mia generazione in fondo in fondo la amo ancora.”
FONTE: https://m.facebook.com/story.php?story_fbid=10221716688959896&id=1035559526
PANORAMA INTERNAZIONALE
Dopo Evergrande: il mercato immobiliare cinese è congelato. Possibile importante calo del PIL mondiale
Sinora la crisi della cinese Evergrande sembra superata, in parte, nei mercati finanziari e nell’economia mondiale, ma si tratta solo di un effetto ottico e propagandistico. In realtà il mercato immobiliare cinese, come nota il Financial Times, sembra essere completamente congelato e questo rischia di essere un problema in primis per la Cina, ma anche per l’economia mondiale.
Stanno iniziando a emergere alcune crepe molto inquietanti nel mercato immobiliare cinese, che secondo Goldman è la più grande classe di attività a livello globale, affermazione più che credibile, considerando che la sola Evergrande ha teorici asset immobiliari per 60 mila miliardi di dollari.
In una lettera al governo municipale di Shaoxing nella provincia orientale dello Zhejiang, l’ufficio locale dello sviluppatore immobiliare Sunac China ha fatto appello per “assistenza politica” mentre stava lottando per quello che ha definito un “punto di svolta nel settore immobiliare cinese”.
“Non abbiamo mai sperimentato un cambiamento così radicale nell’ambiente esterno”, ha affermato l’ufficio di Sunac a Shaoxing, indicando un calo del 60% su base annua delle vendite di case durante l’estate.
“Il mercato è quasi congelato”, ha aggiunto nella lettera, riportata per la prima volta dal Financial Times. “Il cambiamento radicale nella politica e nell’ambiente economico ha seriamente interrotto la nostra attività e reso molto difficile il mantenimento della normale operatività”.
L’improvviso, brusco crollo del mercato immobiliare cinese è mostrato nei grafici sottostanti che mostrano prima di tutto come le transazioni di terreni edificabili, per la prima volta, siano in calo nonostante l’aumento di soazi disponibili. Quindi, novità assoluta, ci sono lotti edificabili non utilizzati:
Nello stesso tempo le transazioni immobiliari nelle maggiori 30 città cinesi sono calate del 45% al di sotto dei livelli del 2020.
Mentre il crollo delle transazioni è indotto dal calo della domanda, ci sono anche preoccupazioni che un’insolvenza di Evergrande e un eventuale collasso potrebbero portare a una crisi dell’offerta. A luglio una città cinese ha interrotto le vendite di due progetti Evergrande accusando lo sviluppatore in difficoltà di aver sottratto fondi depositando solo una parte dei proventi delle vendite di abitazioni nei conti di garanzia. Per garantire che Evergrande non dirotta questi fondi, questo mese l’ufficio immobiliare del distretto di Nansha ha creato un conto di deposito a garanzia con il proprio nome per incassare i proventi degli acquirenti di case di Evergrande, tagliando l’accesso diretto al denaro da parte dello sviluppatore.
La mancanza di fondi ha già portato a un arresto della costruzione di alcune proprietà immobiliari incompiute, innescando disordini sociali tra gli acquirenti. Nel Guangzhou, gli acquirenti hanno circondato un ufficio immobiliare locale all’inizio di questo mese per chiedere a Evergrande di riavviare la costruzione. Chi ha investito anche parzialmente negli immobili, magari nella propria casa, la vorrebbe vedere finita, ma la crisi Evergrande insieme a problemi nel settore energetico viene a porre dei freni produttivi che ne ritardano la conclusione. Al blocco della domanda rischia di corrispondere un blocco dell’offerta.
Purtroppo, come sottolinea Goldman Sachs, il mercato immobiliare cinese ha un peso enorme nella ricchezza della Cina, con legami molto stretti sia con i consumi sia con il settore del risparmio e degli investimenti. Il governo del resto ha spinto verso gli investimenti immobiliari in passato. Ecco un grafico che mostra i legami case-economia:
Goldman Sachs ha creato tre diversi scenari per quantificare l’effetto del rallentamento economico nell’economia:
L’effetto del rallentamento dell’immobiliare cinese avrà sull’economia un effetto variabile fra il -1,5% nel migliore dei casi al -4% del peggiore dei casi.
Come questo disastro nella crescita cinese si trasmetterà al resto del mondo? La Cina ha agito come un enorme turbocompressore per la crescita globale dall’inizio del secolo ed è responsabile di oltre un terzo della crescita del PIL mondiale.
Adesso la Cina giudica questa crescita legata all’immobiliare “Di bassa qualità”, e anche per questo Xi Jinping la vuole contenere. Però gli effetti generali sull’economia rischiano di essere importanti, e non solo per la Cina, ma per tutto il globo. Nella peggiore delle ipotesi potremmo assistere a una componente negativa pari a circa 1,2% alla crescita dovuto al mercato immobiliare cinese, il tutto in un momento in cui la crescita post covid sta rallentando.
FONTE: https://scenarieconomici.it/dopo-evergrande-il-mercato-immobiliare-cinese-e-congelato-possibile-importante-calo-del-pil-mondiale/
POLITICA
Una sinistra dalla doppia morale. Letta attacca i giudici per Mimmo Lucano ma su Luca Morisi…
Il doppiopesismo continua a essere un boomerang per la sinistra. Questa volta, nel mirino dei compagni ci sono i giudici. L’occasione, la condanna a tredici anni e due mesi di carcere all’ex sindaco di Riace, Mimmo Lucano, il paladino degli immigrati tanto caro proprio alla sinistra. Tra i primi a sparare parole a volontà, il segretario del Pd, Enrico Letta, secondo cui con questa sentenza «si dà un messaggio terribile, pesantissimo, che credo farà crescere la sfiducia nei confronti della magistratura». Inequivocabile affermazione del capo del Nazareno ma che manda alle ortiche la loro cara dottrina, secondo la quale, le sentenze non si commentano ma si rispettano.
Letta, tra l’altro, si dice «esterrefatto per quello che è accaduto», aggiungendo «non so quante volte capita una cosa di questo genere, è rarissimo». Non sappiamo se sia «rarissimo», per dirla con l’ex premier Dem, sappiamo di certo – in quanto la cronaca in merito è sovrana – che quando un esponente della sinistra rimane incastrato tra le maglie della giustizia, i compagni possono criticare e commentare i giudici (è il caso di Lucano è l’ultimo in ordine cronologico); quando invece una sentenza colpisce un esponente di centrodestra, per gli stessi compagni, i magistrati non si attaccano perché fanno il loro mestiere. E così, avanti tutta con la doppia morale.
«Una condanna così non l’abbiamo vista nemmeno per i peggiori criminali in Italia – sbotta il segretario di Sinistra Italiana, Nicola Fratoianni – Siamo all’incredibile, viene da chiedersi se questo sia compiutamente un Paese democratico». Del coro fa parte anche Liberi e Uguali che parla anche di giustizia politicizzata, divenuta, a questo punto, anche musica per le orecchie del centrosinistra. «È impossibile non concludere che la Corte abbia voluto punire non qualche reato ma la politica d’accoglienza che Lucano ha incarnato» tuona la senatrice di LeU, Loredana De Petris. In sostanza, per l’esponente del partito di Speranza, «non siamo di fronte a una condanna infamante ma a una sentenza politica».
Un fatto è certo, la condanna all’ex sindaco di Riace arriva alla vigilia delle elezioni in Calabria, dove l’ex sindaco di Riace è candidato al Consiglio regionale a sostegno del candidato presidente Luigi de Magistris ed è anche capolista di «Un’altra Calabria è possibile». Da qui la Lega chiede a Lucano un passo indietro «per coerenza e rispetto delle istituzioni». «Non vorremmo che trasparenza e correttezza valessero solo per alcuni ma non per tutti», dicono dal Carroccio. Per la presidente dei senatori di FI, Anna Maria Bernini, «è insopportabile l’ipocrisia di chi sostiene che la condanna di Lucano alimenterà la sfiducia nella magistratura dopo aver taciuto per anni di fronte alle offensive giudiziarie contro il centrodestra». Come dire, «per la sinistra la giustizia è credibile solo se colpisce gli avversari politici?».
Infine, FdI, che invece apre il tema nella gestione della televisione di Stato. In pratica, la senatrice Daniela Santanchè, capogruppo di FdI in commissione di Vigilanza sulla Rai si chiede «chi pagherà per i tanti soldi pubblici, oltre 1,6 milioni, buttati dalla Rai per produrre la fiction dai toni esegetici sulle gesta di Lucano?». Staremo a vedere.
FONTE: https://www.iltempo.it/politica/2021/10/01/news/una-sinistra-dalla-doppia-morale-enrico-letta-attacca-giudici-per-mimmo-lucano-non-per-luca-morisi-28874507/
La società futura agisce già su quella presente
“La società borghese, basata sullo scambio di valore, genera rapporti di produzione e circolazione che rappresentano altrettante mine per farla esplodere. Esse sono una massa di forme che si oppongono alla unità sociale, il cui carattere antagonistico non potrà mai essere eliminato attraverso una pacifica metamorfosi. D’altra parte, se noi non potessimo già scorgere nascoste in questa società – così com’è – le condizioni materiali di produzione e di relazioni fra gli uomini, corrispondenti ad una società senza classi, ogni sforzo per farla saltare sarebbe donchisciottesco.”
(Karl Marx, Grundrisse)
“Quando gli operai comunisti si riuniscono, essi hanno in un primo tempo come scopo la dottrina, la propaganda, ecc. Ma con ciò si appropriano insieme di un nuovo bisogno, del bisogno di società, e ciò che sembrava un mezzo è diventato lo scopo”.
(Karl Marx, Manoscritti)
Elementi della transizione rivoluzionaria come manifesto politico
“I rapporti di economia e di proprietà privata formano un involucro che non corrisponde più al suo contenuto. Esso deve andare inevitabilmente in putrefazione qualora ne venga ostacolata l’eliminazione”.
(Lenin, L’imperialismo)
- Operaio parziale e piano di produzione
- Patologie dell’investimento (de-industrializzazione rivoluzionaria)
- Elevare i “costi di produzione” (centralità dell’uomo, estinzione della merce)
- Tempo di lavoro, tempo di vita
- Controllo dei consumi, sviluppo dei bisogni umani
- Rottura dei limiti d’azienda (la società futura e le migrazioni)
- L’uomo e il lavoro del Sole (l’agricoltura di domani)
- Estinzione del Welfare State nella società umana
- Decostruzione urbana (la città nella storia e nella società futura)
- La dimora dell’uomo (la casa nella storia e nella società futura)
- Evitare il traffico inutile (programma rivoluzionario e automobile)
- Abolizione dei mestieri e della divisione sociale del lavoro
- L’estinzione della scuola e la formazione dell’uomo sociale
- Informazione e potere (società che conoscono sé stesse, dal comunismo originario a quello futuro)
FONTE: https://www.quinterna.org/index.htm
SCIENZE TECNOLOGIE
“La terza dose ci aumenta gli anticorpi contro un virus che non esiste più” perché è mutato
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