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SOMMARIO
Così gli Stati Uniti finanziano le “rivoluzioni colorate” Rivoluzioni Colorate, un fenomeno ambiguo “Rivoluzioni colorate”: una riflessione ARMENIA: Una rivoluzione colorata? Neoimperialismo americano, da Gheddafi all’est Europa Le cause di Euromaidan ed il futuro dell’Ucraina – I parte Il fallimento delle rivoluzioni colorate Le rivoluzioni colorate in Eurasia Obama ha finanziato le rivoluzioni colorate di Soros Fallisce in Iran la «rivoluzione colorata» Ucraina: l’ombra di Otpor e delle Ong sulle “rivoluzioni colorate” filoamericane (parte I) Libano 2005-2015: da una “rivoluzione” colorata a un’altra COME FUNZIONANO LE “RIVOLUZIONI COLORATE”, DALL’EGITTO AL VENEZUELA
CONFLITTI GEOPOLITICI
Così gli Stati Uniti finanziano le “rivoluzioni colorate”
Influenzare la politica di Paesi stranieri attraverso il soft power e sponsorizzare le “rivoluzioni colorate” contro i regimi ostili. Pochi giorni fa, al Congresso americano, i tre presidenti di altrettante organizzazioni no-profit che operano in tutto il mondo, hanno rivelato le modalità attraverso cui gli Stati Uniti si intromettono negli affari interni di altri Paesi. A darne notizia è Lobelog. I tre presidenti – Carl Gershman, Daniel Twining e Kenneth Wollack – hanno raccontato al Congresso come sostengono e finanziano gli alleati degli Stati Uniti nel mondo: hanno spiegato come hanno aiutato le forze filo-Usa ad acquisire potere politico in Malesia, come hanno formato migliaia di attivisti in Nicaragua e hanno discusso di come promuovere possibili “rivoluzioni colorate” in Cina, Russia e Corea del Nord.
Gershman è il presidente del National Endowment for Democracy (Ned), un’organizzazione no-profit finanziata dai contribuenti statunitensi e fondata dal governo degli Stati Uniti nel 1983 sotto l’amministrazione Reagan. Come presidente del Ned, Gershman supervisiona l’emissione di sovvenzioni alle sue organizzazioni associate e ai partiti politici, tra cui l’International Republican Institute (Iri), che è guidato da Twining, e il National Democratic Institute (Ndi), diretto da Wollack.
Ecco come Ned influenza la politica dei Paesi esteri
“Non stiamo chiedendo alla gente di fare qualcosa che non vogliono fare”, ha sottolineato Gershman. “Stiamo sostenendo le loro stesse aspirazioni e dando loro alcuni degli strumenti per realizzarle”. Come spiega Lobelog, la strategia generale del Ned è quella di aiutare gli attivisti politici che hanno la stessa visione a formare nuovi movimenti nei rispettivi Paesi d’origine in grado di rovesciare i governi ostili agli Stati Uniti. Il Ned aiuta questi attivisti a diventare attori politici influenti, “promuovendo la democrazia”. In particolare, i tre presidenti hanno spiegato come “introdurre la politica democratica in Paesi governati da leader autoritari”.
“Questi leader – ha spiegato Twining – hanno un loro tallone d’Achille strategico, che è la paura della loro stessa opinione pubblica”. I funzionari hanno citato numerosi esempi. Twining ha detto che l’Iri ha lavorato con le forze dell’opposizione in Malesia dal 2002, aiutandole a vincere le recenti elezioni parlamentari nel Paese. L’opposizione filo-Usa è al governo di questo Paese definito “molto strategico poiché sul Mar Cinese Meridionale, vicino al mondo islamico e al resto dell’Asia. E questo va bene per l’America” ha detto il presidente di Iri. Ned, invece, è stato molto attivo in Nicaragua, dove le forze di opposizione stanno organizzando importanti proteste contro il governo con l’obiettivo di far cadere il governo del presidente Daniel Ortega.
Sostegno ad “EuroMaidan” e alle Primavere Arabe
Prima del 2014, in Ucraina, Ned ha dichiarato di aver speso 3.381.824 dollari in programmi che comprendono il sostegno a quelle Ong che hanno animato “EuroMaidan”. “Se l’Ucraina avrà successo, ciò significherà anche la sconfitta dello sforzo di Putin di ripristinare l’impero russo. Il presidente russo tenta di invertire il corso della storia, che nel corso dell’ultimo secolo ha visto il crollo di tutti gli altri imperi” ha sottolineato il presidente Gershman nel settembre 2016. “Non da ultimo, se l’Ucraina può prevalere contro l’aggressione militare di Putin, è probabile che metta in moto un processo di cambiamento democratico nella stessa Russia”. Un modus operandi consolidato: come riporta il New York Times queste tre influenti organizzazioni no-profit hanno sostenuto le Primavere arabe del 2011 in Tunisia, Libia, Egitto e Siria.
Obiettivo: “Regime change” in Russia, Cina e Corea del Nord
Nel mirino del Ned e delle altre organizzazioni ci tutti i governi “ostili” agli Stati Uniti. I tre funzionari si sono dichiarati particolarmente entusiasti delle opportunità che ora offre l’Armenia, dove Nikol Pachinian, ex giornalista e volto dell’opposizione, è diventato il nuovo primo ministro dell’ex repubblica sovietica dopo le proteste in piazza durante circa tre settimane. Twining ha sottolineato la possibilità di sostenere un cambio di regime in Russia, definendo Putin un leader “molto fragile” e “piuttosto insicuro”. Gershman auspica un Regime change anche in Corea del Nord, sottolineando che quello nord-coreano è “un sistema totalitario in erosione”, benché gli sforzi, a suo parere, debbano concentrarsi sulla Cina da lui descritta come “la minaccia più grave che il nostro Paese deve affrontare oggi”.
“Finanziano le rivoluzioni colorate”
Le critiche a questo sistema non mancano. Nel 2005, il senatore Ron Paul ha osservato che Ned “ha molto poco a che fare con la democrazia: è un’organizzazione che usa il denaro delle tasse Usa per sovvertire la democrazia, facendo piovere finanziamenti su partiti o movimenti politici favorevoli all’estero”. Più che autentici movimenti democratici dal carattere endogeno, ha sottolineato il senatore, “si tratta di rivoluzioni colorate spacciate per rivolte popolari”.
Il giornalista investigativo Robert Parry ha inoltre definito il Ned come un “covo di neocon“, la cui fondazione è stata ideata dal direttore della Cia dell’amministrazione di Reagan William Casey e da Walter Raymond Jr. Ciò che il presidente Donald Trump pensa di queste organizzazioni, poco importa: certe faccende sono di competenza dell’apparato. Che le porta avanti, a prescindere dalla volontà dell’inquilino della Casa Bianca.
Secondo una visione non mainstream le Rivoluzioni Colorate non sono manifestazioni sociali spontanee, come le dipingono i media, ma piuttosto dei piani strategico-militari per la destabilizzazione di un’area-bersaglio geopolitica.
Le caratteristiche delle Rivoluzioni Colorate
Le Rivoluzioni Colorate hanno sempre queste sei caratteristiche in comune: 1. il Paese viene dichiarato non libero da una delle organizzazioni internazionali americane; 2. gli USA e le altre organizzazioni internazionali allineate dichiarano di intervenire in nome del loro diritto-dovere di instaurare la democrazia, attivando nel frattempo movimenti come Otpor (protagonista della sconfitta di Milosevic in Serbia nel 2000 – ndr); 3. questi movimenti, anche se minoritari, vengono presentati come il vero portavoce della volontà e degli interessi di gran parte della popolazione; 4. le manifestazioni provocheranno l’intervento delle forze dell’ordine che forniranno così un’ottima occasione per dimostrare il grado di ira popolare contro il regime e la mancanza di libertà dell’opposizione; 5. in caso di elezioni, se il risultato non è conforme a quanto desiderato, si metterà in dubbio la capacità del sistema elettorale di assicurare un conteggio dei voti imparziale ed accurato; 6. questo condurrà infine, grazie ad un monitoraggio internazionale, alle conclusioni auspicate (intervento ONU e NATO).
Il ruolo di George Soros
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Quelle di Praga e Budapest furono tra le prime Rivoluzioni Colorate, la più recente in Macedonia; spesso sono state finanziate dal magnate George Soros, per sua stessa dichiarazione. La crisi ucraina ne è l’esempio più evidente: blocchi di protesta popolare in rivolta contro un governo, colpevole di non essere allineato o particolarmente favorevole alle linee politiche occidentali/statunitensi. Secondo molti studiosi di geopolitica, la vera causa di queste strategie è che la FYROM (Repubblica di Macedonia – ndr) è un importante transito per i gasdotti russi diretti verso l’Europa occidentale, e quindi è interesse USA destabilizzare la zona e far così crollare o quanto meno delegittimare l’attuale governo, moderatamente filo-russo.
Prossima fermata: Africa
Il ruolo chiave dei media
Secondo Gianluca Vannucchi (Ufficio Geopolitico USN) anche in Africa sono in arrivo diverse “primavere” o finte rivoluzioni, sulla scia di quelle precedenti, ormai ben collaudate, come recentemente dichiarato dall’attivista nazionalbolscevico belga-francese Luc Michel a “La voce della Russia”. L’Africa francofona, infatti, sarà la regione designata ad ospitare queste colorate rivolte, le quali si prevedono in Gabon, Burkina Faso, Repubblica Centrafricana e forti destabilizzazioni anche nel Congo. Ancora non sono ben chiare le modalità con cui avverranno i suddetti disordini, ma probabilmente si succederanno tramite l’utilizzo di mercenari e successivamente di diversi tiranni locali ancor più asserviti a Francia e Stati Uniti, con relative multinazionali alle spalle.
Il dato certo è che il fenomeno delle Primavere Colorate è in forte aumento negli ultimi anni, dato che forse le potenze mondiali hanno capito che sono assai più convenienti e meno dispendiose delle guerre “canoniche”.
Riflettere sul complesso “arco di fenomeni” costituito dalle cosiddette “Rivoluzioni Colorate” (quelle succedutesi nei paesi dell’area ex-comunista e, quindi, le rivolte arabe, chiamate “colorate” perché associate ad un colore eletto simbolo delle proteste) è davvero difficile: già il solo costituirne un’unica categoria di eventi lontani tra loro nello spazio, nel tempo e nei contesti culturali potrebbe far gridare al “complottismo” mentre proprio la suggestione complottarda è ciò che dobbiamo scrollarci di dosso.
Pensare che eventi che portano in piazza in modo pacifico, violento o criptoviolento che sia migliaia di persone siano frutto di alchimie concepite negli antri oscuri dei servizi segreti delle grande potenze e da innominabili finanziatori occulti è semplicemente superficiale: guarda caso, i complotti sono così misteriosi ed inenarrabili che il popolo di Facebook ne è sempre informatissimo al minimo dettaglio. Oltre a ciò, non è necessario scomodare la teoria dei giochi per sottolineare come fenomeni di tale complessità e che coinvolgono da centinaia di persone a popoli interi non possano essere gestiti in toto e nel silenzio da occulti burattinai ed orologiai.
Vien quasi da credere – come diceva tra il serio ed il faceto Umberto Eco – che i megacomplotti siano davvero storie messe in giro dagli apparati di potere – come appunto i servizi segreti – per distrarre l’opinione pubblica dai molto più semplici e pedestri complotti reali: in questo la vicenda dei Protocolli dei Savi di Sion primeggia come esempio. Del resto, credere al totale spontaneismo, all’assoluto pacifismo delle piazze delle Primavere e delle Rivoluzioni e all’ingenuo idealismo dei loro animatori – e sostenitori politici occidentali – è ancor peggio che superficiale: è fanciullesco, e pericoloso ai fini della comprensione del mondo di oggi. Un mondo che – oggi come sempre – non è nero come i complotti o bianco come l’idealismo, ma grigio come la complessità dei fenomeni sociali.
Un lavoro di infiltrazione, provocazione e sovversione di agenti di servizi delle grandi potenze – che è sempre presente – non porterebbe certo a rivolte di massa che scalzano regimi apparentemente solidissimi senza che vi sia una base di vero malcontento popolare, di sincera esasperazione se non mai di tutta una società quantomeno di settori importanti di quella. D’altra parte, senza che qualcuno organizzi la rivolta, la incanali verso un concreto obiettivo di breve termine o ne stimoli quantomeno la deflagrazione nulla può accadere. Molto spesso, il gioco è ancora più raffinato: proteste di piazza vengono spinte nella giusta direzione mediatica a coprire e giustificare l’estromissione di un governo pure legittimo, o a spingerlo verso le dimissioni.
Come vediamo, torniamo con insistenza sul tema della narrazione, sul ruolo che gioca l’interazione media – politica: chi imbecca chi? Chi manipola chi altro? E’ un confine difficile da stabilire. La narrazione pronta all’uso sui media e per i media, nel caso delle Rivoluzioni Colorate è quella del tipo “tutto il popolo unito contro dittatore”, contingenza che nella realtà non si dà mai. Non c’è dittatura che non si regga su di un consenso attivo di una parte della popolazione, consenso ora comprato ora ottenuto per convinzione ideologica, e sul silenzio di un’altra parte – silenzio ora ottenuto col terrore, ora per afasia di quella fetta di opinione pubblica che costituisce la “maggioranza silenziosa” di ogni nazione.
E’ sempre solo una parte della popolazione ad opporsi: quella esclusa dalla spartizione del potere e delle risorse o ancora quella ideologicamente avversa al regime. In Ucraina, ad esempio, a protestare a Majdan contro il governo filorusso di Janukovic non c’era “l’intero popolo ucraino”, ma un misto di cittadinanza urbana avversa in generale alla classe dirigente del paese, ritenuta a ragione corrotta in toto, esponenti dell’ultradestra che andavano dagli ultranazionalisti ai neonazisti da un secolo almeno nemici di un’Ucraina saldata alla sfera di influenza russa, russofobi per tradizione, filoamericani per convenienza e non certo per convinzione, e per finire cittadini dell’ovest del paese, regione la cui economia agricola è legata a quella dell’Unione Europea più che non a quella della Federazione Russa.
Attori sociali eterogenei sono quindi stati dalla contingenze politiche saldati insieme verso un fine unico, concreto e di breve termine: la cacciata di Janukovic, cacciata operata dal Parlamento ucraino che – sotto pressione da parte della Piazza, degli USA e dell’UE – ha destituito il presidente, pare in via illegittima ed incostituzionale e comunque ignorando bellamente la parte del paese a questo favorevole (ci riferiamo ai militanti degli storici partiti di sinistra nemici degli ultranazionalisti e alle popolazioni russofone o etnicamente russe dell’est industriale che con la Russia commercia).
Certo, senza alcuni scatenanti episodi nulla sarebbe avvenuto: senza la controversa tragedia degli spari dei cecchini sulla folla della piazza – a detta degli oppositori mandati dal governo, a detta dei filorussi agenti provocatori stranieri – e senza la pressione enorme dei governi europei su quello ucraino la situazione molto probabilmente non sarebbe precipitata: alla polvere pirica sarebbe mancato il detonatore, detonatore costituito soprattutto da rivoltosi organizzati che hanno agito sul combustibile del malcontento popolare. Esauritasi l’efficacia della narrazione “popolo contro regime” entra in gioco la narrazione settario/etnica: tutto ciò che accade fuori dai confini del cosiddetto “occidente” (Nord America ed Europa Occidentale) si spiega (diciamolo: razzisticamente!) con l’arretratezza dei popoli asiatici, africani e mediorientali quando anche non dell’Est Europa, popoli confinati in un’eterna preistoria in cui sono solo le dinamiche tribali a fare da motore immobile a qualsiasi evento.
Ancora in Ucraina, est russofono contro ovest ucrainofono, mentre nel Medio Oriente tutto si spiega nello scontro sciiti-sunniti (a sentire gli “esperti” da prima serata, anche il clima o la cottura del kebab). Urge ricordare che le Primavere Arabe sono deflagrate nel Nord Africa che – se escludiamo i berberi ed altre piccole minoranze cristiane – è tutto sommato omogeneamente arabo e sunnita. La stessa crisi siro-irachena si spiega più alla luce della rivalità politica iraniano-saudita che non dello scontro di religione sciita-sunnita.
In Siria, ad esempio, non c’è stata un rivolta di tutto il popolo contro Assad e nemmeno una guerra di tutti i sunniti (il 70% circa della popolazione pre-conflitto) contro sciiti, cristiani e drusi, e nemmeno degli arabi (90%) contro i curdi: se Assad si fosse appoggiato solo su quel 30% di minoranze (che non lo sostenevano nemmeno monoliticamente, datasi la generale freddezza di molti drusi e il dissociarsi anche di sparuti intellettuali cristiani e persino alawiti, la confessione sciita cui Assad appartiene) non sarebbe durato un giorno.
Nemmeno possiamo affermare che tutti i sunniti della Siria si siano votati alla ribellione: tra questi sunniti figurano diverse classi della media borghesia urbana ed ancora i curdi, gente che con la ribellione ha avuto poco a che fare al principio e nulla a che fare dopo il rapido netto prevalere dei fondamentalisti islamisti tra le fila di questa. La Guerra Civile Siriana è meglio leggibile alla luce di uno scontro città-campagna, con vasti ma non necessariamente maggioritari settori delle classi urbane – e studentesche – sunnite avverse al blocco di potere siriano nella sua totalità, sciita-politico o sunnita-mercantile che fosse. Iniziata come rivolta “sociale”, è stata quindi rapita dagli islamisti radicali, spesso giunti dall’estero e sempre armati e finanziati dal Golfo. Sottolineiamo un’altra complessità: “cittadino avverso” non significa automaticamente “militante armato”.
In ultima istanza per capire le rivolte dobbiamo sempre analizzare il contesto sociopolitico ed economico locale (più che non quello “antropologico”) e le effettive ingerenze delle grandi potenze. Su quest’ultimo urge investire una riflessione. Non ci è dato sapere quanto invasive fossero state, prima delle rivolte, le ingerenze straniere negli stati collassati e di quanto abbiano preceduto le “rivoluzioni colorate” medesime. Sappiamo però, per certo, che tali ingerenze ci furono.
La rivolta ucraina trovò pronta ad attenderla un’estrema destra locale strutturata, violenta, spesso armata e finanziata da potenti oligarchi locali come il famigerato Igor Kolomois’kij – mentre i partiti nazionalisti ucraini come il neo-nazista Svoboda hanno intrecciato legami con quelli dell’estrema destra europea sin dagli anni ’90; legami che hanno portato volontari europei occidentali in armi nel conflitto del Donbass. Quanto le intelligence ed i gruppi politici occidentali siano estranei a questo sottobosco è argomento di legittimo dubbio, dato il comprensibile attivismo polacco e statunitense nell’appoggiare le forze politiche ucraine antirusse, anche se ogni dubbio privo di prova e fondato su soli indizi rischia di tramutarsi in illazione. E’ certo però che i governi occidentali, la Open Society Fundation del finanziere Soros e le ONG occidentali hanno negli anni lavorato in modo carsico sulla società ucraina creando movimenti locali di opinione e pressione, attivisti già visti all’opera nella Jugoslavija di Milosevic col movimento Otpor e il Centre for Applied Nonviolent Action and Strategies (CANVAS), non solo ricalcando il modello vincente dell’appoggio a Solidarnosc ma arrivando addirittura a ricreare tante Solidarnosc “in vitro”.
Nei paesi arabi abbiamo assistito non solo alla diffusione di questi gruppi di attivisti direttamente finanziati dalle agenzie americane ed europee per la cooperazione ma anche al crescere nella società civile di movimenti islamisti, efficaci – specie in Egitto – nel supplire all’assenza di stato sociale efficace. La svolta “islamica” dell’Egitto arriva con Sadat e con la sua rottura delle relazioni con l’URSS e il conseguente, correlato allontanamento dagli altri regimi arabi laici ed avvicinamento ad Israele e monarchie del Golfo – presso le quali molti giovani egiziani si recarono a studiare ed in cerca di lavoro, tornandone influenzati. La protesta egiziana contro Mubarak è scoppiata ad opera dei giovani urbani, spesso convintamente laici e democratici, ma dopo iniziali tentennamenti la rivolta fattasi protesta è stata “rapita” dai Fratelli Musulmani, capillarmente organizzati ed in grado di mobilitare le campagne ed i ceti urbani più poveri. Non è mancata la relativa presa degli islamisti salafiti. Sia i Fratelli Musulmani che i salafiti godevano di appoggi politici e fondi provenienti dal Qatar, ai quali i soli salafiti univano un convinto appoggio saudita. Marcato anche l’appoggio della popolarissima rete televisiva qatarina Al Jazeera alle proteste. Paragoniamo le Rivoluzioni Colorate ai recenti fatti catalani e coglieremo ancora meglio quanto stiamo dicendo, per “modus tollens”. Innanzitutto è mancato al tentativo di rivolta contro il governo di Madrid il primo combustibile e cioè un blocco sociale compatto e prevalente, nel numero o nel “fragore”, votato all’indipendenza. Non sarebbe stato necessario un 51% di indipendentisti ma sarebbe bastato anche “solo” un 49 o un 33% di questi pronto a tutto e capace di prevaricare la maggioranza silenziosa degli indeterminati o degli agnostici: quel che i catalanisti non hanno avuto, né sotto la prima né sotto la seconda fattispecie. E’ mancato poi il catalizzatore, il corpo detonante: un’organizzazione politica strutturata ed orientata ad un obiettivo concreto, reale e di breve termine.
Per concludere, la causa catalana non ha trovato e non avrebbe potuto trovare mai l’appoggio di nessuna potenza straniera: non vi è al mondo una sola grande potenza che possa avere interessi in una Repubblica Catalana, così come non vi è al mondo una sola grande potenza che possa gradire un nuovo, ulteriore fattore di instabilità in un pianeta già sufficientemente caotico di proprio. Urge sottolineare un tema che non deve passare in secondo piano rispetto alle argomentazioni che abbiamo esposto: la necessità di un obiettivo che sia chiaro, visibile e rapidamente realizzabile (“via il governo”, “fuori dall’Unione Eurasiatica a guida russa”), prima che nel medio o lungo termine gli eterogenei blocchi sociali della rivolta si spacchino – borghesie ucraine liberali contro ultranazionalisti, islamisti radicali contro studenti laici. Se gli “ingredienti” delle Rivoluzioni Colorate sono ben quattro – una cospicua fetta di popolo compatta su di un tangibile e visibile obiettivo di breve termine (creare uno stato richiede tempi lunghi, “storici”), uno o più catalizzatori organizzativi politici strutturati e determinati e magari un appoggio straniero – la rivolta blaugrana non ne ha avuto nemmeno uno.
Per concludere, e per smontare dunque tanto le fantasie complottare che le ingenuità idealiste come ci proponevamo all’inizio, c’è un aspetto che non dobbiamo mai scordare: la rilevanza (geo)politica di questi eventi, l’interesse delle grandi potenze a posizionarsi sullo scacchiere strategico, ad avere gruppi sociali “pronti a farsi trovare pronti” in caso di mutamenti politici, quando non a catalizzarli. Non possiamo affermare che siano le grandi potenze e i loro servizi ad orchestrare le rivolte di piazza: possiamo però ricostruire come, sempre, le potenze abbiano interesse a mantenersi opzioni sul tavolo, a legarsi alla parte più a loro favorevole della società civile di un paese, ad influenzarne il corso politico. Se questo non può essere fatto con classici colpi di stato e congiure di palazzo – strumento di cambi di regime più efficiente ma meno efficace sul piano dell’immagine e del consenso dei nuovi governi – si procede lavorando sul lungo periodo, con un’opera di vera e propria infiltrazione.
Nelle ultime settimane abbiamo raccontato delle manifestazioni di massa in Armenia contro l’elezione a primo ministro dell’ex presidente Serzh Sargsyan. Nel giro di pochi giorni, un sistema di potere che sembrava intoccabile ha ceduto alla forza della piazza. Il leader della rivolta, Nikol Pashinyan, è stato poi nominato premier dal parlamento e ha formato un nuovo governo.
Un paese ex sovietico, un presidente rappresentante di un’oligarchia economica e vicino al Cremlino che si dimette dopo una serie di proteste pacifiche e, infine, un personaggio carismatico che emerge dalla piazza; gli ingredienti ci sono tutti: inevitabile pensare a una rivoluzione colorata.
Sin dall’inizio, Pashinyan ha, però, preso le distanze dal passato; il nuovo premier armeno, da un palco sulla Piazza della Repubblica di Erevan, ha indetto una “Rivoluzione di velluto” e ha spiegato che la dimensione esclusivamente interna degli eventi nel paese caucasico li differenzia dalle rivoluzioni colorate.
La dialettica del leader delle proteste si è rivelata efficace in quanto il riferimento alle rivoluzioni colorate è stato quasi completamente omesso dai media che hanno coperto la situazione in Armenia. La spiegazione di Pashinyan non giustifica appieno il motivo per cui il concetto, tanto popolare fino a poco tempo fa, sia diventato uno spauracchio da evitare per il nuovo primo ministro armeno.
Le rivoluzioni colorate tra realtà e rappresentazione
Nei primi anni duemila il continente eurasiatico è stato attraversato da una serie di movimenti di protesta che vennero presto ribattezzati rivoluzioni colorate.
Nell’area post sovietica le dinamiche di queste rivoluzioni, pur in paesi diversi tra loro, sono state piuttosto simili al caso armeno: dopo elezioni farsa iniziavano proteste di massa contro i brogli e la corruzione del vecchio sistema politico che, in poco tempo, portavano alle dimissioni dei leader al potere e alla scalata al governo degli ex oppositori grazie a nuove consultazioni elettorali.
Tre casi hanno seguito questo paradigma: la Rivoluzione delle Rose in Georgia (2003), quella Arancione in Ucraina (2004) e la Rivoluzione dei Tulipani in Kirghizistan (2005). Inoltre, le opposizioni in Azerbaijan e Bielorussia hanno tentato di emulare questi modelli nel corso del 2005. Se negli ultimi due esempi non è avvenuta una transizione di potere, essi rivelano comunque quanto l’idea di una rivoluzione colorata fosse attraente nella regione.
Questi sono i fatti, ma esiste una componente imprescindibile legata all’idea che abbiamo delle rivoluzioni colorate: le aspettative, rivelatesi presto fallaci, che esse generavano in occidente che ne hanno, inevitabilmente, influenzato la rappresentazione sulla stampa internazionale.
Secondo la giornalista Anne Applebaum, il mito delle rivoluzioni colorate che si è venuto a creare in occidente si basava sull’idea che esse fossero parte di un processo ineluttabile di transizione democratica nello spazio post sovietico. Riecheggia la famosa tesi di Francis Fukuyama sulla fine della storia; se la democrazia liberale era il modello uscito vincente dalla Guerra fredda, la sua affermazione globale era solo una questione di tempo. Il ruolo del cosidetto mondo libero era quello di favorire – ideologicamente e finanziariamente – le forze che si facevano promotrici del processo.
Le aspettative disattese
La realtà risulta ben diversa da quanto ci si attendeva all’epoca. La retorica filo occidentale degli ex oppositori non si rivelò efficace nel cambiare le società, nello sconfiggere la corruzione dilagante o nel creare istituzioni democratiche stabili.
Già nel 2010 si chiudeva la carriera politica di due dei leader politici usciti vittoriosi dalle rivoluzioni colorate. Nel corso dell’anno, Viktor Juščenko venne sconfitto alle elezioni in Ucraina, mentre Kurmanbek Bakiyev era costretto alle dimissioni da una nuova rivoluzione in Kyrgyzstan.
La Georgia, invece, è rimasta per qualche anno il fiore all’occhiello della narrativa occidentale sulle rivoluzioni colorate. La spettacolare – e per molti versi efficace – campagna di lotta alla corruzione, l’inglese fluente e la dialettica politica occidentale imparata alla Columbia University dal presidente Mikheil Saakashvili erano strumenti sufficienti per ammaliare gli alleati americani. Tuttavia, “il faro della democrazia” descritto da Bush nel 2005, si rivelò un paese in cui gli oppositori politici venivano arrestati e condannati grazie a prove false e dove si ricorreva alla tortura nelle prigioni.
Con l’affermazione elettorale del miliardario Bidzina Ivanishvili nel 2012, anche l’esperienza dell’ultima rivoluzione colorata poteva dirsi conclusa.
Il caso armeno
Quella armena non è definibile come una rivoluzione colorata proprio perché i leader politici che l’hanno organizzata non la ritengono o non la vogliono fare passare come tale.
Sebbene le motivazioni che hanno spinto gli armeni a protestare non sono poi così diverse da quelle dei georgiani o degli ucraini nel recente passato, il marchio ha perso di appetibilità in occidente ed è, anzi, diventato sinonimo di fallimento. La storia politica del ventunesimo secolo si è rivelata più complessa di una semplice corsa alla democrazia liberale e la narrativa positivista degli anni novanta ha lasciato spazio a una visione contemporanea del futuro più realista e, per certi versi, cinica.
Al contempo, nella retorica del Cremlino, rivoluzione colorata equivale a un complotto americano per sganciare i paesi dell’ex Unione sovietica dall’orbita russa. In un paese come l’Armenia che, come spieghiamo spesso nei nostro articoli, è legato militarmente ed economicamente a Mosca, andare allo scontro frontale con la Russia è un rischio che nessun leader politico può permettersi di correre.
In ultima analisi, Pashinyan è riuscito a ritagliarsi lo spazio di manovra per presentarsi come una novità in occidente e non scontentare il potente alleato a nord. La tattica si è rivelata vincente in quanto Mosca ha mostrato un’insolita quieta accondiscendenza rispetto a quanto stava avvenendo in Armenia, mentre la stampa internazionale celebrava la vittoria della piazza. Il futuro ci dirà se il pragmatismo di Pashinyan è il giusto approccio per lasciare un’impronta duratura sul destino del paese.
FONTE: https://www.eastjournal.net/archives/90571
Neoimperialismo americano, da Gheddafi all’est Europa
L’anno che sta volgendo al termine ha prodotto sommovimenti e traumi di inaudita potenza e gravità sulla scena internazionale. E’ impossibile analizzare gli ultimi fatti senza uno sguardo d’insieme sulle politiche aggressive tenute dall’Occidente negli ultimi anni. L’ undici settembre 2001, su cui le ombre e le menzogne ufficiali sono molto più dense della verità (si legga l’edizione aggiornata del volume Zero di Giulietto Chiesa – Piemme) ha permesso agli Stati Uniti di inaugurare una politica di invasioni nel Medio Oriente : prima la guerra in Afghanistan e successivamente, grazie all’utilizzo di false informazioni da servire all’opinione pubblica, l’invasione dell’Irak dell’ex alleato Saddam Hussein.
L’avanzata verso oriente è stata completata da tentativi di infiltrazione in Asia Centrale, con l’apertura di basi militari in Kirgizistan e, temporaneamente, in Uzbekistan. Dove non potevano arrivare le armi sono stati utilizzati i dollari : le rivoluzioni colorate in Georgia (riuscita) e in Ucraina (ormai quasi del tutto riassorbita) hanno goduto di robuste sovvenzioni esterne. A quel punto, la Russianon poteva restare indifferente, e si è data ovviamente da fare per arrestare l’infiltrazione, con gli strumenti di pressione disponibili.
L’attacco proditorio della Georgia all’Ossezia del Sud nel 2008, probabilmente frutto di cattivi consigli ricevuti dall’esterno, ha consentito alla Russia di reagire, mostrando che era finito il tempo delle provocazioni e che oltre un certo limite non era consentito andare. Alla luce dei comportamenti dell’Occidente negli ultimi anni, si può capire maggiormente la tradizionale ossessione da accerchiamento di cui soffre la Russia, e che già si manifestava ai tempi dell’Unione Sovietica. La ricchezza petrolifera e la stabilizzazione interna hanno permesso all’orso russo di far sentire nuovamente la sua voce a livello internazionale, superando la politica remissiva e supina dell’era Eltsin, quando l’estrema fragilità economica aveva annullato ogni autorità internazionale.
Le vicende di quest’ anno, con le presunte “Rivoluzioni arabe”, hanno mostrato come anche il disordine e l’indebolimento di regimi fedeli all’Occidente possano comunque essere manipolati a buon fine. In Egitto l’apparato militare non intendeva accettare la successione del figlio di Mubarak nel ruolo del padre: in qualche modo, sfruttando il risentimento popolare, e con ogni probabilità servendosene, si è ottenuto il risultato sperato; il presidente Obama ha scaricato pubblicamente in pochi minuti un equilibrato e fedele alleato trentennale, quando ha percepito di poterne fare a meno. L’esercito mantiene il controllo sul paese, e non si prevedono ulteriori sommovimenti strutturali, o rivolte che non possano essere, questa volta, stroncate con decisione.
Per quanto riguarda Libia e Siria, le vicende si sono sviluppate diversamente. La Russia ha posto il veto a sanzioni nei confronti della Siria, paese tradizionalmente a lei vicino, mentre ha sorprendentemente consegnato la Libia alla mercè dell’Occidente e ad un attacco palesemente imperialista, che ha potuto spazzare via il regime di Gheddafi prendendo come pretesto una rivolta ordinata ed armata dall’esterno, che avrebbe potuto facilmente essere sedata. Con l’ipocrita giustificazione di una missione umanitaria, la Nato ha attaccato un paese sovrano e ha continuato a bombardarlo sino alla fine, cercando di eliminare fisicamente il vecchio nemico Gheddafi, sino a riuscirci quasi direttamente, macchiandosi così di un crimine di guerra.
Il corrispondente del Sole-24 Ore, Alberto Negri, ha citato la relazione di un alto esponente del controspionaggio francese inviato in Libia, in cui si afferma esplicitamente che la ribellione di Bengasi non è “né spontanea, né democratica”. Le forze che hanno preso il potere, spinte sin dall’inizio da Francia e Inghilterra (la Francia ha portato a termine ora il lavoro iniziato nel 1980, quando a detta dell’ex Presidente Cossiga, abbattè il Dc9 di Ustica nel tentativo eliminare Gheddafi), sono tutt’altro che unitarie e fortemente contaminate dagli integralisti : il rischio di aver creato un nuovo paese estremista di matrice islamica potrebbe ricadere presto sui suoi padrini occidentali.
In Siria il regime, protetto in sede Onu, può stroncare sanguinosamente la rivolta, di cui non conosciamo bene le matrici : i sostenitori di Assad sostengono che, sulla falsariga delle altre presunte rivolte, si tratti in realtà di movimenti sostenuti e finanziati dall’esterno, per completare in direzione atlantica il sommovimento arabo.
In Italia, misteriosamente, la sinistra si è appiattita sulla pronuncia Onu, accettando in modo passivo e miope un attacco neocolonialista alla Libia che in altri tempi avrebbe fatto gridare allo scandalo: curiosamente, sono stati i conservatori e la destra a pronunciarsi con maggiore avvedutezza sulla questione, vedendo ciò che sarebbe stato impossibile non vedere. Per evitare di perdere le forniture energetiche e “convinto direttamente dagli emissari statunitensi” il governo Berlusconi ha dovuto, obtorto collo, salire sul carro dei vincitori e collaborare ai bombardamenti.
E’ evidente, comunque, in presenza di una grave crisi economica già incombente nel 2001 e riesplosa negli ultimi anni, che le potenze occidentali si siano rivelate capaci di una aggressività insospettabile, forse giustificata proprio dalla crisi. Ci si può augurare che le prossime mosse non siano di nuovo volte ad oriente, così da calpestare nuovamente e pericolosamente l’”orto” russo.
FONTE: https://www.eastjournal.net/archives/10013
Le cause di Euromaidan ed il futuro dell’Ucraina – I parte
Euromaidan e le sue conseguenze per l’Ucraina recano con sé diverse lezioni sul futuro dell’Europa Orientale e non solo.
L’anno è il 2014, alla mente sovviene un inverno come indistinguibile da tanti altri. I luoghi sono troppi per ricordarli tutti. L’ambientazione generale, però, è nota a tutti: la regione del Donbass e la penisola di Crimea. Gli eventi furono a tal punto precipitevoli da non esser compresi nemmeno dall’élite e l’intellighenzia ucraina. Quanti da anni sostenevano che la «nuova generazione» avrebbe «cambiato l’Ucraina» parvero improvvisamente diventare maggioranza quando iniziarono le protese di Piazza Maidan tra la fine del 2013 e l’inizio del 2014. In questo e nei successivi otto articoli si ripercorreranno gli eventi salienti di quella che i media ucraini prima, ed occidentali poi, hanno definito «Euromaidan». Alcuni ritengono gli eventi del 2014 un’endogena «rivoluzione della dignità» in continuità con la Rivoluzione Arancione (2004) ma ancora «incompiuta». Altri credono si sia trattato di un «colpo di stato» anti-russo, «insurrezionale» ed indubbiamente sospinto e/o eterodiretto da forze esterne. In ogni caso, Euromaidan è un fenomeno complesso che non può essere compreso senza tenere in conto del ben più ampio contesto socio-politico.
L’obiettivo di questo saggio è di provare a dare un ordine causale ai fatti che offra diversi spunti di riflessione sul futuro del paese. Punto di partenza è l’intervista, ripresa anche dall’agenzia di stampa russa RIA Novosti, rilasciata dal deputato ucraino Yevgeny Murayev, esponente del partito filorusso Piattaforma d’Opposizione. Ospite negli studi del canale televisivo in lingua russa Nash [lett. “Nostro”] Murayev ha espresso fortissimi timori per il futuro dell’Ucraina invocando il rischio di un «crollo dello Stato in uno scenario jugoslavo» (Sputnik News 2019). Nella medesima intervista Murayev ha specificato ch’egli considera realistica la «grande minaccia» di assistere, in Ucraina, a una replica del «copione» già visto nei Balcani occidentali (Nash.Maksi-TV 2019).
La tesi che si proverà a dimostrare suppone uno stretto legame tra la frammentazione sociale dell’Ucraina post-sovietica ed il fenomeno Euromaidan. Nelle conclusioni questo assunto guiderà una riflessione sul futuro del paese.
2. Un passo indietro: le cause delle proteste
Dalla notte del 21 novembre in avanti migliaia di cittadini di Kiev hanno iniziato ad affollare la centralissima MaidanNezalezhnosti [lett. “Piazza Indipendenza”]. Progressivamente la portata delle proteste si è allargata sino a richiede le dimissioni di Yanukovych e del suo governo. Il contesto di Euromaidan è stato caratterizzato da:
Una causa possibilitante — la presenza nel tessuto sociale dell’Ucraina di numerose “fratture” attorno alle quali si accumulano tensioni che periodicamente esplodono rivelando le contraddizioni di uno «Stato-Nazione fallito» (Cabana 2015);
Un fattore precipitante — l’indignazione generata dalla percezione della «corruzione dilagante nel governo» e le «violazioni dei diritti umani». L’esasperazione di questo sentimento fu un effetto delle ingerenze delle ONG occidentali come Transparency International, la quale nel 2013 dichiarò l’Ucraina di Yanukovych il paese più corrotto d’Europa;
Un evento che funse da innesco — la mancata firma dell’Accordo di Associazione con l’UE, annunciata dal governo proprio il 21 novembre, ed il prospettato riavvicinamento alla Russia;
Una circostanza radicalizzante — Il rifiuto del regime di Yanukovych di abbracciare gli ideali del nazionalismo ucraino, in rottura con le passate amministrazioni;
Una variabile interveniente — L’ingerenza di attori esterni, sia occidentali sia russi, nella politica interna del paese. Data l’ampia copertura mediatica ricevuta dalle “attività maligne” della Federazione Russa questo articolo si concentrerà prevalentemente sul ruolo dell’Unione Europa e degli Stati Uniti d’America.
Nei prossimi articoli analizzeremo in dettaglio ciascuna di queste cause.
La prima "Rivoluzione Colorata" dell'area ex-sovietica con inizioa Tbilisi in Georgia nel 2003
IL FALLIMENTO DELLE RIVOLUZIONI COLORATE E IL PROFETA DELLA ‘RIVOLUZIONE PIU’ IMPORTANTE DEL SESSO’.
Dopo Stalin, un altro georgiano – Mikheil Saakashvili, con il vizietto del ribaltone
Le Rivoluzioni colorate sono state e continuano ad essere movimenti simili e collegati tra di loro che si sono sviluppati principalmente in alcuni stati post-sovietici negli anni 2000, utilizzando metodi apparentemente non violenti e di disobbedienza civile per protestare contro governi ritenuti corrotti e/o autoritari. Questi movimenti, che hanno manifestato contro i governi in carica ritenuti filo-russi, hanno sostenuto negli ultimi 15 anni le candidature di politici sostenitori di una politica filo-occidentale come Micheil Saakašvili in Georgia, Viktor Andrijovyč Juščenko in Ucraina, e Kurmanbek Bakiyev in Kirgyzstan. L’ennesima rivoluzione colorata si è avuta in Macedonia nel 2017.
Mappa delle Rivoluzioni Colorate negli anni 2000
Quasi 10 anni fa, tra il 7 e l’8 agosto del 2008, la Georgia invase con le sue truppe l’Ossezia del Sud, una regione autonoma del suo territorio che confina a nord con la Russia e che da tempo rivendica il riconoscimento della sua indipendenza. L’esercito della Federazione Russa rispose con un intervento militare rapidissimo e in una settimana sconfisse le truppe georgiane respingendole fino quasi alle porte della capitale Tbilisi. Il cessate il fuoco fu firmato il 15 agosto 2008. Gli accordi impegnavano la Russia a ritirarsi dal territorio georgiano e la Georgia a rinunciare all’uso della forza contro l’Ossezia e l’Abcasia. Ma subito dopo la firma la Russia proclamò unilateralmente una zona cuscinetto attorno alle due repubbliche e il ritiro delle sue truppe non fu mai completato. Da allora i rapporti tra i due paesi sono rimasti sempre molto tesi.
A scatenare questa breve guerra, Mikheil Saakashvili, ex capo della rivoluzione filoatlantica delle Rose, ex presidente della Georgia, poi ex governatore in Ucraina, e oggi apolide. A 37 anni, questo politico poliglotta (conosce bene 7 lingue, tra cui inglese, francese, tedesco, russo e olandese per via della moglie) divenne presidente e iniziò un periodo di riforme che tanto piacquero ai leader europei e agli Stati Uniti. Alcuni osservatori ritengono che dopo la breve guerra del 2008 contro l‘Ossezia del Sud e la Russia, nata dalla Rivoluzione delle Rose nel 2003 in Georgia, Saakashvili abbia provocato l’esercito russo risvegliandone i sogni di espansione. Da li’ a poco infatti è avvenuta nel 2013 l’annessione della Crimea da parte della Russia aprendo un aspro conflitto ancora in essere con l’Ucraina, altro paese percorso dalla rivoluzione dei fiori fin dal 2004.
La guerra Georgia— Ossezia del Sud -Russia dell’agosto 2008, dopo l’invasione dell’esercito georgiano dell’Ossezia del Sud
Dopo 10 anni dalla guerra contro la Russia, anche l’Europa sembra aver aperto gli occhi sulle Rivoluzioni dei Fiori, o, che è lo stesso, sulle rivoluzioni colorate, così chiamate per le immagini accattivanti scelte come simboli (la rosa in Georgia nel 2003, l’arancio in Ucraina nel 2004, il tulipano in Kirgyzstan nel 2005). In quelle occasioni, Washington e Mosca sono state tacciate d’ingerenza negli affari di stato di paesi indipendenti, ma l’Europa ha sempre seguito solo e unicamente Washington. Oggi qualcosa è cambiato nel giudizio dell’Europa su questi ‘venti democratici’ che spirano dal Far West.
Il perché è presto detto. Queste rivoluzioni colorate che ancora continuano sono viste oggi come un fenomeno di marketing politico sponsorizzato a quel tempo indirettamente da alcune Fondazioni vicine all’Amministrazione Bush e dal National Security Council, per ostacolare l’influenza della Federazione russa soprattutto in aree strategiche per l’estrazione degli idrocarburi (gas, petrolio). Ciò che è accaduto è di pubblico dominio. L’ucraino Jušcenko è stato sonoramente sconfitto alle presidenziali del febbraio 2010, ottenendo appena il 5% dei voti, mentre il kirghizo Bakiev è stato costretto a dimettersi ad aprile 2010 da un popolo infuriato contro il nepotismo e la corruzione che circondavano il suo regime. A restare ancora per un po’ in sella, traballante in verità, è stato il georgiano Saakhašvili, comunque indebolito dopo la sconfitta militare nella guerra del 2008 contro la Russia e poi contestato violentemente da un’opposizione agguerritissima.
Mikheil Saakashvili, un rivoluzionario ad oltranza
Era il 2009 e Mikheil Saakashvili, è presidente georgiano al suo secondo mandato, ancora corteggiato dalle nazioni europee e dal presidente George W.Bush, ma nel 2013 lascia la Georgia per evitare i processi che lo vedono coinvolto nell’uccisione di un banchiere e le accuse di abuso di potere contro le violente proteste di piazza del 2007.
Il presidente americano George W.Bush con il presidente georgiano Mikheil Saakashvili
E qui emerge tutta la personalità rivoluzionaria del georgiano che cerca consensi nella nazione più anti-russa del momento – l’Ucraina – governata dal nuovo presidente Petro Poroshenko che non solo gli offre in un batter d’occhio la cittadinanza ma che lo nomina addirittura governatore dell’oblast (regione) di Odessa. Il Primo ministro russo Dmitrj Medvedev, in un messaggio via Twitter, così commenta: “Quando il circo arriva in città… Povera Ucraina“. Mossa che infatti si dimostrerà fallimentare per lo stesso Poroshenko che si è visto l’ex alleato rivoltarsi contro. E’ fuori dubbio che la decisione del presidente ucraino di affidarsi ad un personaggio politico filoamericano assegnandogli uno dei punti sensibili degli equilibri geopolitici, aveva un significato di aperto scontro con la Russia, volendo controllare di fatto le coste del mar Nero a partire dalle foci del Danubio (il Bugeac, parte meridionale della Bessarabia storica tolta di fatto al controllo della Moldova, l’unico stato sul mar Nero a non aver accesso al mare) fino alla Crimea annessa nel 2013; e soprattutto volendo impedire un accerchiamento della Russia a partire dal Donbas-Donetsk, fino ad arrivare alla Transnistria passando attraverso la Crimea e, appunto, la regione di Odessa. Ma qualcosa è andato storto nei rapporti con il leader ucraino che gli ritira il passaporto dopo meno due anni di cittadinanza ucraina (dal maggio 2015 al novembre 2016) e lo espelle dal Paese costringendolo a chiedere asilo in Polonia e a diventare di fatto un apolide, in quanto in Georgia è stato condannato in contumacia a 3 anni di carcere con il ritiro anche là della cittadinanza. Si vocifera che nella sua nuova carica di governatore S. abbia cospirato contro il regime volendo che a Odessa fiorissero le stesse ‘rose’ della rivoluzione in Georgia. S. sbaglia i conti dimenticando che la regione ha una tradizione filorussa e dichiara in una recente intervista: ‘Nemmeno il sesso puo’ essere paragonato al piacere della rivoluzione’. E così l’apolide, alla ricerca di una nuova immagine rivoluzionaria che si era guadagnata come paladino dell’anticorruzione in un’area che ha fatto della corruzione un ‘status vitae’, a settembre 2017 ha passato illegalmente il confine polacco per tornare in Ucraina e ‘per combattere la corruzione’ che poi abbandona rifugiandosi in Olanda, la patria della moglie.
Mikheil Saakashvili con il presidente ucraino Petro Poroshenko che gli offre la cittadinanza ucraina e subito dopo nel maggio 2015 il governatorato dell’oblast (regione) di Odessa
Classica storia di parabola discendente per il candidato del popolo eletto nel 2004 in Georgia con il 96% dei consensi quando raggiunge il massimo della popolarità dando inizio ad una sistematica lotta alla corruzione e alla modernizzazione della burocrazia statale, ma che aveva risposto ai concittadini che chiedevano più democrazia e trasparenza con idranti, torture e chiusura delle emittenti dell’opposizione. E non è finita, ora che le elite internazionali prendono le distanze dopo aver messo a fuoco le mire e la teatralità del soggetto, sono rimasti al suo fianco solo gruppi dell’ultradestra e organizzazioni paramilitari. Al suo arrivo in Polonia aveva candidamente detto: ‘Amo la Polonia ma sto ancora combattendo in Georgia e Ucraina’. Altra Rivoluzione Colorata in arrivo?
Una lezione da imparare
Alla fine certi comportamenti irriducibili come quelli di Saakashvili non potrebbero essere tali se dietro le quinte non si agitassero poteri ‘poco’ occulti che hanno l’obiettivo di destabilizzare ancor più una zona già pericolosamente instabile, alimentando nuove rivoluzioni. Le Rivoluzioni Colorate nate 15 anni fa che di fatto si sono ‘appassite’ dopo 5 anni come i fiori che le rappresentano, si sono rivelate un fallimento politico di cui Washington rischia oggi di pagare conseguenze salate, frutto di una sbagliata percezione sponsorizzando soggetti politici che alla resa dei conti si sono mostrati inaffidabili agli stessi supporters d’oltreoceano perché in definitiva affetti da ambizioni personali, narcisismo e teatralità. Nella riapertura di credito di questi paesi dell’Est nei confronti di Mosca, ha giocato pesantemente la carta dell’energia russa, in primo luogo il gas, che è stato e continua a essere un’arma vincente e un potente mezzo di convincimento nei rapporti con gli stati interessati.
A distanza di 10 anni dalla guerra Georgia-Russia, in una visione più disincantata e realistica, le Rivoluzioni Colorate non appaiono più manifestazioni sociali spontanee ma piuttosto dei piani strategico-militari per la destabilizzazione di un’area-bersaglio geopolitica. La più recente rivoluzione del 2017 (che probabilmente non sarà l’ultima) si è materializzata in Macedonia e questi movimenti spesso sono state finanziati dal magnate George Soros, per sua stessa dichiarazione. La crisi ucraina ne è l’esempio più evidente: blocchi di protesta popolare in rivolta contro un governo, colpevole di non essere allineato o particolarmente favorevole alle linee politiche occidentali/statunitensi. Secondo molti studiosi di geopolitica, la vera causa di queste strategie è che Repubblica di Macedonia è un importante transito per i gasdotti russi diretti verso l’Europa occidentale, e quindi è interesse USA destabilizzare la zona e far così crollare o quanto meno delegittimare l’attuale governo, moderatamente filo-russo.
La Rivoluzione Colorata del 2017 in Macedonia. Nella capitale Skopje gli artisti lavorano giorno e notte, colorando gli edifici e le statue pubbliche di tutti i colori dell’arcobaleno, con uno stile ispirato a Jackson Pollock.
L’escalation della Rivoluzioni Colorate segue uno clichè ben consolidato. Il Paese viene dichiarato non libero da una delle organizzazioni internazionali americane; gli USA e le altre organizzazioni internazionali allineate dichiarano di intervenire in nome del loro diritto-dovere di instaurare la democrazia, attivando nel frattempo movimenti, che anche se minoritari, vengono presentati come il vero portavoce della volontà e degli interessi di gran parte della popolazione; le manifestazioni provocheranno l’intervento delle forze dell’ordine che forniranno così un’ottima occasione per dimostrare la mancanza di libertà dell’opposizione; in caso di elezioni, se il risultato non è quello desiderato, si metterà in dubbio la capacità del sistema elettorale di assicurare un conteggio dei voti imparziale ed accurato; e, questo condurrà infine, grazie ad un monitoraggio internazionale, alle conclusioni auspicate con intervento di ONU e NATO.
Ci saranno altre Rivoluzioni Colorate fino a tanto che esisteranno poteri e organizzazioni internazionali d’oltreoceano ed altre allineate in ambito europeo che dichiarano di intervenire in nome del loro diritto-dovere di instaurare la democrazia. Non c’è bisogno di consultare maestri di strategia in politica estera: le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti anche se ci illudiamo che il tempo sa essere galantuomo.
La situazione del mondo arabo scossa dalle rivolte popolari rischia di culminare nella disintegrazione di taluni Stati e nel loro frazionamento in minuscole realtà. Uno scenario simile è stato previsto allo stesso modo per la Russia, ma tale scenario non ha alcuna possibilità di diventare reale[1].
Dimitri Medvedev, Vladikavkaz, Ossezia del Nord, 22 febbraio 2011.
Durante lo scorso decennio, una parte dei paesi dell’ex mondo sovietico, (Europa centrale e Asia centrale) è stato disintegrato da un’ondata di rivoluzioni. Queste rivoluzioni, o almeno quelle il cui corso è già concluso, hanno introdotto dei cambiamenti di potere e quindi d’orientamento politico in seno agli stati in questione. Tali cambiamenti di regime si sono tutti svolti secondo identici scenari, non violenti, e presentati dal main-stream mediatico come rivoluzioni democratiche, provocate da una gioventù avida di libertà e che intende far vacillare regimi politici cripto-sovietici, debolmente democratici e corrotti. Queste “rivoluzioni colorate[2]” o “rivoluzioni arancioni” (dal nome della rivoluzione in Ucraina), ci sono state presentate in un certo senso come complementari e conseguenti alle “rivoluzioni di velluto[3]” che hanno segnato l’inizio dell’emancipazione delle nazioni dell’Europa dell’Est dal giogo sovietico. Pertanto, come vedremo, questi cambiamenti politici non sono frutto del caso, né la conseguenza della volontà politica di un’opposizione democratica. Essi sono indiscutibilmente delle operazioni geostrategiche pianificate, organizzate dall’esterno dei paesi coinvolti.
Battaglia per l’Eurasia
Il 20° secolo ha visto il rimpiazzo del dominio inglese a causa della dominazione americana. Tale rimpiazzo di una potenza marittima da parte di un’altra non modifica l’approccio di questi stati verso il mondo, né tantomeno verso il continente. La necessità di ogni potenza dominante (Inghilterra del 19° secolo e America del 20°) di affermare la propria presenza nel cuore dell’Eurasia è essenziale e passa obbligatoriamente, lo vedremo, per un reflusso dell’influenza russa in questa zona, che corrisponde pertanto all’area straniera più prossima. Questa teoria dello sfondamento in Eurasia è un elemento essenziale da valutare per chi vuole comprendere la relazione dell’America con la Russia, come era stato durante il secolo precedente quella della Russia con l’Inghilterra, in seno al grande gioco[4] nell’Asia centrale. In effetti queste due potenze obbediscono alle medesime leggi geopolitiche e sottostanno ai medesimi limiti geografici. Il carattere insulare di entrambi gli stati fa che la loro volontà di dominazione mondiale passi per due restrizioni obbligatorie: in primo luogo il predominio dei mercati (da cui la loro potenza marittima) ma anche l’obbligo di non restare isolati, di ingerire nei centri geografici del mondo, là dove si trova concentrato il grosso della popolazione e delle risorse energetiche ma allo stesso tempo là dove si decide la Storia. Questo obiettivo deriva da una dottrina geopolitica anglosassone, che definisce i rapporti tra potenze mondiali come un’opposizione tra le potenze dette marittime (Inghilterra, America), e quelle definite continentali (Germania, Russia, Cina). Tale teoria è in particolare quella presentata da uno dei padri della geopolitica moderna, Halford Mackinder (1861-1947), che ha definito l’esistenza di un “cuore della Terra” (Heartland) situato nel centro dell’Eurasia, in una zona che copre l’attuale Siberia e il Caucaso. Mackinder teme (la sua teoria è precedente alla seconda guerra mondiale) che questa zona del mondo possa organizzarsi e divenire totalmente sovrana, escludendo così l’America (situata in un’isola decentrata) dalla gestione della politica mondiale. Il maggiore pericolo secondo Mackinder sarebbe stato un’alleanza dei due principali imperi continentali che sono la Germania e la Russia. Egli auspica dunque la costituzione di un fronte di stati in grado di impedire a una coalizione siffatta di venire alla luce. Nel 1945, l’URSS è vista per la sua dimensione e influenza come la principale potenza in grado di unificare l’Heartland. Essa è quindi diventata per forza di cose l’avversario principale dell’America.
Una seconda teoria sviluppata da Nicholas Spykman (1893-1943) considera che la zona essenziale non è tanto l’Heartland quanto la regione situata tra quest’ultima e le coste. Questa seconda teoria, che completa la prima, mostra l’importanza di impedire alla principale potenza continentale (l’URSS un tempo e dal 1991 la Russia) di ottenere uno sbocco sul mare. Per questo fine si è dovuto ugualmente formare un fronte di stati, ma questa volta atto alla creazione di un tampone tra l’URSS e i mari adiacenti (mare del Nord, mar Caspio, mar Nero, mar Mediterraneo). Questo contenimento continua ancora oggi secondo la storica Natalia Narochnitskaya e passa per “l’esclusione dal Nord della Russia dall’ellisse energetico[5] mondiale, zona che comprende la penisola araba, l’Iraq, l’Iran, il golfo persico, il Nord del Caucaso (Caucaso Russo) e l’Afghanistan. Concretamente si tratta di tagliare alla Russia l’accesso agli stretti, ai mari, agli oceani così come alle zone cariche di risorse energetiche, e quindi respingerla verso il Nord e verso l’Est, lontano dal Mediterraneo, dal mar Nero, dal mar Caspio. Ci sono quindi una prima linea di penetrazione che va dai Balcani all’Ucraina per il controllo del mar Egeo e del mar Nero, e una seconda linea che dall’Egitto va fino all’Afghanistan per il controllo del mar Rosso, del golfo persico, e del mar Caspio. Non c’è niente di nuovo in questa strategia, se non la corsa al petrolio che l’ha rilanciata”. Si tratta ancora una volta di separare la Russia dall’Europa occidentale, al fine di evitare le alleanze continentali, in particolare tra le due potenze che sono all’alba del 21° secolo la Russia in ascesa e la Germaina, prima potenza europea.
Alla base delle rivoluzioni colorate: il progetto di smembramento della Russia
La volontà di indebolire e smembrare la Russia in una moltitudine di stati è antica. All’epoca del grande gioco[6] nel 19° secolo, durante la lotta che oppose le potenze russa e britannica nell’Asia centrale e nel Caucaso, l’Inghilterra aveva ben compreso l’importanza e dunque la minaccia nei propri confronti delle recenti conquiste russe ai danni dell’impero Ottomano. Queste conquiste avevano aperto alla Russia la via per il Mediterraneo e per il mar Nero. Dal 1835 l’Inghilterra tenta quindi di destabilizzare la Russia in particolare con la consegna di armi al Caucaso (caso della goletta britannica Vexen[7]), o ancora con la creazione dei comitati Tchétchènes o Tcherkesses durante il congresso di Parigi del 1856, dopo la guerra di Crimea[8].
Il fronte caucasico sarà, nel corso del 20° e del 21° secolo, una sorta di zona debole tramite la quale l’Inghilterra e poi l’America tenteranno di destabilizzare la Russia. Agli albori del 20° secolo in effetti alcuni responsabili delle repubbliche musulmane di Russia, principalmente in Caucaso e nell’Asia centrale, tenteranno di organizzare la battaglia per l’indipendenza. Due linee si oppongono, i sostenitori di un nazionalismo territoriale e i sostenitori di un’unione panturca (essendo il ruolo degli intellettuali turchi che auspicano una riunificazione panturca relativamente importante all’interno di questi movimenti). Lo scopo degli “indipendentisti” diventa rapidamente quello di attirare le grazie delle democrazie occidentali e a questo titolo viene lanciato un “appello” al congresso di Versailles, con lo scopo di sostenere l’emergenza delle nazioni del Caucaso. I bolscevichi non lasciano molto spazio ad alcuna sorta di ambizione indipendentista, dal 1922 i principali responsabili politici indipendentisti saranno costretti all’esilio. Una prima ondata emigra verso Istanbul, cosa che discrediterà il movimento e lo confonderà con l’espansionismo turco, e una seconda ondata approda in Europa, soprattutto in Francia e Germania. La Francia a quest’epoca è già considerata dal Bachkir Zeki Velidov il “centro di combattimento turco-musulmano” contro la Russia. È Józef Piłsudski[9], primo ministro polacco, che forgerà il termine Prometeismo[10] per definire questo movimento. Rapidamente riviste prometeiste furono create in Francia, Germania, Inghilterra, Cecoslovacchia, Polonia, Turchia e ancora in Romania. Collo scoppio della seconda guerra mondiale e dopo il patto germano-sovietico i prometeisti si schierano, dalla costa dell’Inghilterra e dalla Polonia, contro la Germania e l’URSS. Il movimento “prometeista” trarrà beneficio da forti sostegni finanziari in Polonia e sostegni politici in Francia, tramite ad esempio il comitato Francia-oriente, sotto il patrocinio del presidente del senato Paul Doumer. Il principale progetto è stato la creazione di una federazione del Caucaso sul modello elvetico. Dopo la perdita della Polonia, il movimento fu imbrigliato dalle strategie naziste che prevedevano il frazionamento dell’URSS in piccole entità, più facili da controllare e sconfiggere militarmente. I Tedeschi creeranno proprio in questa ottica le legioni SS nel Turkestan russo così come delle divisioni nel Caucaso musulmano. In seguito alla vittoria dell’URSS e il riconoscimento delle sue frontiere da parte della SDN i prometeisti si rivolgono all’America con la creazione di una “lega prometeista della Carta Atlantica”. Dopo il sostegno turco-musulmano, quello cattolico e anticomunista, e infine quello nazista, il movimento troverà un appoggio inatteso nella CIA che ne farà uno strumento di lotta contro l’URSS in piena guerra fredda. La grande confusione ideologica che spicca da questo evolversi di fatti porterà allo sviluppo di una linea “prometeista” che si definirà per forza di cose come antirussa. Globalmente, si può parlare di una sorta di fronte Arancio-Verde, coalizione niente affatto eteroclita tra gli interessi occidentali e quelli islamico-indipendentisti del Caucaso, contro la Russia.
Dottrine geopolitiche, non violenza e ONG umanitarie
Dopo il secondo conflitto mondiale, l’Europa è come già detto divisa in due parti dalla cortina di ferro, l’URSS, considerata come principale potenza capace di dominare l’Eurasia, e le leghe prometeiste che auspicando la sua implosione in diversi stati sono sostenute dalla CIA. Gli strateghi statunitensi vogliono quindi applicare alla lettera gli insegnamenti geopolitici dei propri ideologi tentando di accerchiare la Russia con un reticolo di stati tampone permettendo loro di avanzare in Eurasia. Tale avanzamento sarà messo in atto in un modo completamente innovativo: organizzare una contestazione ai regimi di stampo non violento e apparentemente spontanea, per mezzo di un reticolo perfettamente organizzato. A tal fine, una serie di associazioni e ONG verranno create. Presentate come portabandiera della democrazia, esse sono soprattutto gli emissari politici dell’America nel seno degli stati giudicati poco affidabili e non democratici, vale a dire i paesi che non fanno parte dell’alleanza occidentale, generalmente appartenenti al gruppo dei non allineati. Il concetto non è dunque recente, risale agli anni 80, in piena guerra fredda. Si svilupperà in una costellazione di ONG che il governo Reagan finanzia per indebolire e contrastare l’influenza sovietica.
Le principali sono l’USAID[11], oltre che l’USIP[12], e ancora la NED[13], che è una scuola di quadri per il mondo intero, e che gestisce essa stessa le numerose associazioni liberali che promuovono i valori democratici. Nascono anche l’Institute for the Study of URSS e l’American Comitee for Liberation of Bolchevism[14], alle quali hanno contribuito leader prometeisti dopo il secondo conflitto mondiale. Si possono citare l’istituto Aspen[15], la Jamestown foundation[16] o ancora il comitato per i paesi del Caucaso[17], che ha organizzato, finanziato e sostenuto la Jihad contro i sovietici in Afghanistan. Questo comitato è un’emulazione di Freedomhouse[18], cuore del sistema, fondata nel 1941 per contrastare l’influenza nazista e che si trasformerà più tardi in direzione dell’anti sovietismo. La lista non potrebbe essere completa senza la Fondazione Héritage[19], fondata nel 1973, arma della dottrina Reagan antisovietica e oggi uno dei principali think-tanks conservatori americani. La rete Open Society[20] di Georges Soros, destinata a promuovere la libertà e la democrazia nel mondo postsovietico, tramite un certo numero di associazioni ad essa associate. E infine l’AEI[21], che è stato uno dei principali architetti della politica neoconservatrice dell’amministrazione Bush. L’AEI è sovente citato, insieme all’Heritage Foundation[22], come controparte del diritto della liberale think tank Brookings Institution[23].
L’Albert Einstein Institute[24] è un’organizzazione particolarmente peculiare, giacchè il suo fondatore Gene Sharp[25] è anche l’autore del libro From dictatorship to democracy, manuale veritiero sull’azione non violenta e che sarà utilizzato dalla maggior parte delle organizzazioni di giovani finanziate da queste ONG per sovvertire i governi tenuti sotto osservazione. Gene Sharp ha politicizzato le tecniche d’azione non violenta nel contesto del rinnovamento della guerra fredda per preparare una eventuale resistenza in Europa nel caso di invasione dell’armata rossa. Questo filosofo relativamente poco conosciuto ha pubblicato tra il 1985 e il 2005 numerose opere su tali tecniche di resistenza non violenta. Dal 1987 ha fornito informazioni alla NATO. È importante notare che l’implicazione di Robert Helvey[26], un tempo responsabile della CIA, dagli anni 90 permetterà all’istituto di disporre di abbondanti finanziamenti dell’International Republican Institute (IRI), un think-tank vicino al partito repubblicano e inoltre uno dei quattro rami del National Endownment for Democracy (NED). Le teorie presentate sono da mettere in parallelo con le attività dell’ICNC[27] diretto da Peter Ackerman[28]. Quest’ultimo afferma la supremazia tattica dell’azione non violenta nel quadro globalizzato della società dell’informazione[29]. Sarà sempre lui a sviluppare l’idea di videogiochi con scenari basati sui teatri d’operazione reali o supposti (per il futuro) di tali rivoluzioni. Così le teorie di Sharp e Ackerman costituiscono le fondamenta del sistema della disinformazione globale e della guerra d’opinione, essenziale per scatenare le rivoluzioni non violente. Questo soft power incentrato sulla comunicazione via internet, sul giornalismo popolare e sui social network permette agevolmente la diffusione massiva di messaggi inverificabili che giocano sulla spontaneità. Tramite tali tecniche innovatrici e di soft power, la rivoluzione non violenta può essere quindi compresa in tutte le sue sfaccettature: la palesazione delle vie delle rivoluzioni colorate, l’utilizzo dei social network per destabilizzare gli stati o ancora la guerra d’informazione, o cyber-guerra, ugualmente non violenta. Si può affermare che pochi osservatori hanno realizzato l’importanza dei finanziamenti e l’ampiezza della portata di tutte queste organizzazioni, think tank e ONG. Allo stesso modo, pochi osservatori hanno compreso la loro origine comune in seno a un dispositivo unico, in una visione geopolitica.
Le rivoluzioni colorate ai confini della Russia
Dopo la caduta del muro di Berlino, la cortina di ferro si sposta verso Est. Il riflusso dell’influenza sovietica e in seguito della Russia porta a favorire indirettamente le mire geopolitiche atlantiste. L’estensione di NATO e Unione Europea sovrapposte crea una nuova divisione dell’Europa. Questa satellizzazione dei paesi dell’Est Europa da parte della NATO, ha fatto di una parte dell’Europa orientale una testa di ponte dell’America per attaccare l’Eurasia[30], secondo l’esperto Italiano di geopolitica Tiberio Graziani. Nel settembre 1997 uno dei più influenti politologi americani, Zbigniew Brzezinski[31], ha pubblicato un articolo[32] sulla geopolitica dell’Eurasia e il mantenimento della leadership americana che passa secondo lui da un parcellamento della Russia in tre stati distinti raggruppati sotto il nome di “Confederazione Russa”. Brzezinski propone questo parcellamento con lo scopo di liberare la Siberia occidentale e la sua vicina orientale dalla morsa burocratica di Mosca, affermando nella sua opera principale[33] che così (e soprattutto) “la Russia sarà meno propensa a nutrire ambizioni imperialiste” e dunque a impedire l’imposizione del controllo dell’America in Eurasia. Allo stesso modo, nella sfera d’influenza russa e nelle vicinanze delle sue frontiere, taluni alleati tradizionali della Russia, refrattari all’estensione della NATO, hanno resistito anch’essia questa natoizzazione. Questi stati, strategici sia sul piano politico che su quello geografico, saranno dunque i bersagli dei colpi di stato democratici che chiamiamo rivoluzioni colorate.
La Serbia nel 2000, le reti Soros, l’Open Society, Freedom House e la NED hanno organizzato grandi manifestazioni nei due turni delle presidenziali del 2000. Sostenuta dai nazionalisti (come sarà nel caso dell’Ucraina), la rivoluzione ha preso il nome di rivoluzione dei bulldozer[34] poiché migliaia di minatori hanno utilizzato dei bulldozer per prendere d’assalto la capitale e il parlamento, e questo senza attendere il risultato delle elezioni, cosa che dice molto sul carattere democratico di questa rivoluzione. Il nuovo governo nominerà un primo ministro che sarà in seguito assassinato per aver consegnato Slobodan Milosevic al Tribunale Penale Internazionale, dove quest’ultimo morirà prima di essere giudicato. Le truppe americane installeranno la base militare di Bondsteel[35] in Kosovo e renderanno definitivamente questa provincia serba uno stato indipendente che non è ancora oggi, 10 anni dopo, riconosciuto dalla maggioranza dei paesi membri dell’ONU. Nel 2010, nel momento in cui il paese tenta faticosamente di negoziare l’adesione all’UE, la situazione economica è catastrofica e il potere indebolito non può pensare di vincere le prossime elezioni.
La Georgia nel 2003, secondo lo schema classico, l’opposizione denuncia le frodi elettorali dopo le elezioni legislative e scende in piazza. I manifestanti costringono il presidente Edouard Chevardnadze a fuggire prima ancora di prendere il potere. È la rivoluzione delle rose[36]. Il suo successore Mikhail Sakashvili apre il paese agli interessi economici americani e occidentali, e si muove in direzione dell’entrata nella NATO e nell’UE. Naturalmente rompe con il vicino russo. 5 anni più tardi, nell’Agosto 2008, Sakashvili bombarda la popolazione dell’Ossezia del Sud, massacrando numerosi osseti, di cui la maggior parte hanno la doppia nazionalità russa e georgiana, cosicché vengono mandati dall’ONU dei soldati russi per il mantenimento della pace. Mosca controbatte all’offensiva militare georgiana, che era stata appoggiata da strutture americane in Ucraina, e la costringe ad arretrare. Bilancio: il paese è devastato. Le elezioni del 2008, avendo visto la rielezione del presidente Sakashvili, sono state assai critiche perché giudicate al limite della democraticità.
L’Ucraina nel 2004: L’elezione presidenziale in Ucraina oppone Victor Ianoukovitch a Victor Iouchenko e Ioulia Timoshenko, questi ultimi con il sostegno dell’Ovest e della comunità internazionale. Dalla chiusura degli scrutini, vengono pubblicati risultati divergenti e migliaia di Ucraini si raggruppano nella piazza centrale di Kiev dove Viktor Iouchenko darà inizio alla resistenza non violenta contro la dittatura. L’OCSE e Freedom House condanneranno le falsificazioni elettorali mentre Vladimir Putin e Loukachenko riconosceranno la vittoria del candidato designato vincitore dalla commissione elettorale ucraina, Victor Ianoukovitch. Dopo 15 giorni di manifestazioni abilmente organizzate riunendo i movimenti liberali e l’estrema destra, sotto una forte pressione mediatica (OCSE, NATO, Consiglio d’Europa, Parlamento europeo..) il risultato delle elezioni sarà infine annullato e verrà organizzata una terza elezione che vedrà la vittoria del candidato dell’Ovest, Viktor Iouchenko. È la rivoluzione arancione[37]. Dopo un mandato, il paese è in rovina, il presidente Iouchenko non sarà più rieletto nel 2009, ottenendo meno del 5% dei voti. Senza grande sorpresa, è Victor Ianoukovitch che prende il suo posto, grazie all’influenza della rivoluzione arancione e degli occidentali, l’ultra nazionalista Ioulia Timoshenko è accusata di corruzione.
Kirghizstan 2005: l’opposizione kirghisa contesta il risultato delle elezioni legislative e porta a Bichkek i manifestanti del Sud del paese che rovesciano il presidente Askar Akaïev. È la rivoluzione dei tulipani[38]. L’Assemblea nazionale elegge come presidente il candidato pro americano Kourmanbek Bakiev che occuperà contemporaneamente il posto di presidente e primo ministro. Stabilizzatasi la situazione, Bakaiev vende le poche risorse del paese a società statunitensi e installa una base militare USA a Manas. Accusato di corruzione e di aver lasciato aggravare la situazione economica, Bakiev è scacciato dal potere da una nuova rivoluzione popolare nel 2010[39].
Modus operandi del colpo di stato democratico
La logistica della comunicazione e dell’organizzazione delle manifestazioni che sono in certi casi durate alcune settimane, nel freddo glaciale dell’inverno ucraino, non ha lasciato nulla al caso. La calma e la rapidità della presa del parlamento, in un paese tanto instabile e violento com’è la Georgia, o il ruolo di una ONG vicina all’opposizione, la CESID[40], che contesterà i risultati delle elezioni dopo la loro proclamazione in Serbia, infine l’innescamento di manifestazioni coordinate in piazza, non sono neanch’essi dei rischi. In effetti questi avvenimenti sono il risultato di realtà permanenti formate alle tecniche dell’agitazione, e raggruppate in seno a diversi movimenti. Tali professionalità veramente rivoluzionarie sono finalizzate al rovesciamento del potere, spostandosi di stato in stato e di rivoluzione in rivoluzione per conto delle ONG, e quindi da interessi americani in Europa. Il punto comune di queste rivoluzioni è stata innanzitutto l’apparizione in ogni paese di movimenti giovanili assolutamente simili per il retroscena che per la forma, e che hanno applicato il medesimo metodo rivoluzionario. La prima rivoluzione colorata che si è svolta in Serbia nel 2000 è stata in gran parte organizzata da un movimento giovanile chiamato Otpor[41], vero motore delle contestazioni studentesche. Alexander Maric, uno dei quadri di Otpor, riconoscerà più tardi “i suoi legami diretti con alcuni membri del dipartimento di stato e della casa bianca e inoltre che il grosso dei finanziamenti proveniva dall’USAID, da Freedom House e dall’Open Society”[42]. Maric preciserà che “seminari di fomazione hanno avuto luogo a Budapest, Bucarest e in Bosnia nella primavera precedente agli avvenimenti”. Lì i militanti di Otpor hanno incontrato i responsabili dell’Albert Einstein Institute, così come i militanti del movimento polacco Solidarnosc[43]. La tecnica utilizzata, affermerà Maric, è direttamente ispirata alle tecniche d’azione non violente di Sharp e Ackerman, atte a: “discreditare il potere, incitare all’azione civica e alla manifestazione pacifica, il tutto supervisionato da un’associazione senza un esecutivo identificabile. […] Il movimento doveva inoltre presentarsi come apolitico e fare perno soprattutto sugli indecisi”[44]. Inoltre il gruppo doveva: “usare messaggi brevi, slogan, e i militanti dovevano essere scelti secondo la loro apparenza, per vendere l’immagine del movimento connotandolo di un aspetto romantico e libertario, così da ispirare le vocazioni”[45]. Infine il movimento poteva contare su un appoggio massivo del main-stream mediatico planetario, che si era assicurato di filtrare e selezionare le informazioni per poter presentare le manifestazioni come degli assembramenti spontanei di una gioventù che aspira alla libertà e alla democrazia, e che intende collaborare con la comunità internazionale.
Dopo la riuscita dell’operazione in Serbia, due quadri dell’Otpor, Aleksandar Maric e Stanko Lazendic saranno impiegati da Freedom House per fornire la propria conoscenza e la propria esperienza negli altri paesi sotto osservazione e apportare il loro sostegno alle rivoluzioni in Georgia nel 2003 e in Ucraina nel 2004. L’assistenza verterà tanto sulle tecniche di protesta non violenta che sulle negoziazioni con le autorità e ancora sulla logistica necessaria per tenere manifestazioni dalla durata di più settimane. Questo sarà in particolare il caso dell’Ucraina dove migliaia di tende e coperte sono messe a disposizione dei manifestanti per accamparsi nella piazza dell’indipendenza con un freddo glaciale. Durante l’occupazione della piazza vengono serviti dei pasti gratuiti. La segnaletica scelta per questi gruppi fratelli (i pugni tesi) lascia pochi dubbi sulla loro interdipendenza, sia che appartengano al gruppo ucraino Pora[46], al kirghiso Kelkel[47] o al georgiano Kmara[48]. Bisogna notare che nel numero dei paesi che non sono stati (ancora?) colpiti dalle rivoluzioni colorate, esistono già gruppi simili, per esempio sia in Bielorussia (Zubr[49]), che in Russia (Oborona[50]), che in Albania (Mjaft[51]), quest’ultimo paese essendo attualmente nella condizione di teatro di manifestazioni di cruciale importanza. Possiamo inoltre citare i movimenti uzbechi Bolga e Youkol, oltre che il movimento azero Jok. Costoro sono d’altronde i militanti del movimento georgiano Kmara che hanno accorpato i loro cugini russi di Oborona, gettando ulteriore benzina sul fuoco alle relazioni intrattenute dai due paesi. Quanto a Otpor, si è trasformato in un partito politico sebo nel 2003, mancando miseramente alle legislative dello stesso anno per confluire nel partito politico DS di Boris Tadic, l’attuale presidente. La maggior parte dei suoi membri si è riconvertita nei centri d’analisi politica locale come CANVAS e CNVR. Uno dei quadri, Ivan Marovic, dal 2003[52] ha cooperato con il già menzionato INCN e la compagnia York Zimmermann Inc., ed infine con una squadra di autori di giochi informatici (BreakAwat Ltd.) per l’elaborazione di un videogioco pubblicato nel 2005 (A Force More Powerfull. The Game of Nonviolent Strategy). Il gioco[53] si basa sulle differenti strategie e tattiche d’azione non violenta che sono state impiegate in tutto il mondo per rovesciare i «regimi dittatoriali» e i «nemici della democrazia e dei diritti dell’uomo», tra cui Milosevic. Così, il cerchio è chiuso e i collegamenti con le già citate teorie di Ackerman sullo sviluppo dei videogiochi ambientati in scenari reali, da cui far scaturire le rivoluzioni colorate, sono evidenti. Bisogna notare un’altra particolarità delle rivoluzioni colorate. Esse si fondano sulla restaurazione nazionale e l’anti imperialismo (russo o postsovietico, per slittamento semantico) e hanno visto la partecipazione attiva dei nazionalisti e di alcuni gruppi di estrema destra nei paesi coinvolti. Questo sarà in particolare il caso della Serbia e dell’Ucraina. Per questa ragione si è parlato di fronte arancio-bruno contro la Russia, a causa di una coalizione eteroclita che riunisce democratici pro-occidentali e movimenti di estrema destra, come i neo nazisti, apertamente anti russi. Tali alleanze si rafforzano oggi in Russia, dove una debole e parcellizzata opposizione liberale manifesta al fianco degli skinhead nazionalisti di sinistra, della fazione nazionale bolscevica, o dei principali movimenti di estrema destra.
Bilancio e futuro delle rivoluzioni colorate
Come abbiamo visto, l’obiettivo delle rivoluzioni colorate è di rafforzare la presenza americana (e quindi della NATO) nel cuore dell’Eurasia, intorno alla Russia, al fine di colpire gli obiettivi geostrategici e geopolitici teorizzati nel secolo scorso dagli strateghi geopolitici Mackinder e Spykman. È opportuno notare che costoro avevano visto bene, l’Eurasia si è rivelata come la zona più importante al mondo in termini di risorse energetiche, di popolazioni e di frontiere tra aree di civiltà. Certamente queste rivoluzioni presentano numerosi punti in comune, come il fatto di riguardare stati considerati strategici per ragioni geografiche o politiche (in quanto confinanti con la Russia) o ancora situati su corridoi energetici. Ma uno dei punti in comune delle rivoluzioni colorate è anche quello di tenere sotto controllo degli stati con regimi politici relativamente deboli o instabili. La Russia e la Bielorussia per esempio non sono state affatto scalfite da queste minacce, avendo notoriamente preso con rapidità le misure necessarie, essendo state le ONG vietate, e i mercenari della rivoluzione espulsi. La Russia ha d’altronde introdotto una novità, sviluppando un contro movimento giovanile su grande scala, quello dei Nashi[54], destinato a prevenire ogni tentativo di rivoluzione colorata in piazza poiché in grado di avere il sopravvento. Inoltre, sul territorio della federazione russa e in Bielorussia, le attività delle reti Soros e delle loro filiali sono state semplicemente vietate.
Per Karine-Ter-Sahakian[55], già nel 2008, i regimi nati da queste rivoluzioni colorate non avevano alcun futuro. Quest’ultima affermava che: “Il crollo delle rivoluzioni colorate nell’area postsovietica è assolutamente naturale, se non semplicemente inevitabile. La posta per la democrazia e il libero mercato, dei quali George Bush si riempiva la bocca con grande entusiasmo, si è palesata prematuramente”. Effettivamente, tali rivoluzioni colorate che hanno portato in gran parte nomi di fiori (rivoluzione dei tulipani, dei papaveri, delle rose) sono appassite. I casi dell’Ucraina e della Serbia sono emblematici dell’incapacità dei dirigenti messi al potere dalle rivoluzioni colorate di mantenere una stabilità economica minimale, e contemporaneamente aprire le loro economie agli interessi americani. Il movimento si è rivelato uno scacco per lo meno nel suo aspetto politico a lungo termine. La sua retorica e la sua tattica sono state perfettamente decriptate e decodificate. Contromisure efficaci sono state facilmente messe in atto e sperimentate in Russia e Bielorussia. Inoltre, è evidente che la crisi finanziaria ha diminuito i budget disponibili per le rivoluzioni colorate. Infine, la risposta russa, diplomatica e militare nell’agosto 2008. ha dimostrato che essa era pronta a opporsi a queste violazioni democratiche e a proteggere i suoi cittadini, anche al di fuori delle sue frontiere.
Ora, tutta l’energia intellettuale dissipata dai promotori delle rivoluzioni colorate nei diversi tentativi di destabilizzazione della Russia potrà utilmente essere impiegata, ad esempio, per misurare le conseguenze future della primavera araba poiché per il momento esse restano incalcolabili ma riguarderanno tanto l’Europa e la Russia quanto l’America.
*Alexandre Latsa, di nazionalità francese, diplomato in lingue slave, vive a Mosca. Si occupa principalmente di geopolitica della Russia.
Traduzione di Alessandro Parodi
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Obama ha finanziato le rivoluzioni colorate di Soros
di Cesare Sacchetti
su Libero Quotidiano del 18/03/2017
Qual è stato il ruolo del dipartimento di Stato americano nell’influenzare e rovesciare governi stranieri non graditi all’amministrazione Obama? E’ la domanda che si sono posti sei senatori repubblicani, tra i quali Ted Cruz — già sfidante di Trump alle primarie del Grand Old Party lo scorso anno — quando hanno preso carta e penna nei giorni scorsi per scrivere una lettera al segretario di Stato, Rex Tillerson, chiedendogli di fare luce sulla questione. I senatori nella lettera affermano di essere entrati in possesso di documenti che provano le ingerenze dell’amministrazione Obama negli affari di paesi esteri attraverso il supporto alle organizzazioni di George Soros, e citano in particolare il ruolo avuto dalla missione diplomatica americana in Macedonia.
Qui gli Stati Uniti hanno finanziato dal 2012 al 2016 la fondazione di Soros, la Open Society Foundation, con 5 milioni di dollari per dare vita al progetto “La Società Civile”. I fondi sono stati stanziati dall’USAID, l’agenzia federale del governo americano creata per dare sostegno alle popolazioni dei paesi più disagiati. Ufficialmente la OSF ha come scopo quello di promuovere la “costruzione di democrazie attive e tolleranti, dove i governi rispondono ai loro cittadini”. Ma i fondi che Soros ha ricevuto non sono stati utilizzati per difendere la causa della democrazia, quanto per finanziare attivamente degli attivisti politici “estremi e in alcuni casi violenti” nel tentativo di marginalizzare “ i conservatori e i moderati”. È questo che ha fatto parlare al senatore Mike Lee, firmatario della lettera, di un “favoritismo politico inaccettabile” verso determinati gruppi politici da parte delle missioni diplomatiche americane nel mondo. Le ingerenze di Soros in Macedonia ricordano molto da vicine quelle messe in atto in Ucraina nel 2014.
Anche in quell’occasione fu infatti la sua Open Society ad assumere il ruolo guida del golpe dell’Euromaidan, e molte riunioni per la sua pianificazione vennero tenute nella sede della fondazione a Kiev al numero 46 di Artema Street, dove si vedevano frequentemente George Soros assieme a Deff Barton, il direttore dell’USAID, l’agenzia governativa ancora una volta presente nel fornire a Soros i finanziamenti e gli appoggi logistici necessari. I senatori si dimostrano in particolare preoccupati per l’utilizzo illegale dell’agenzia governativa che “dovrebbe promuovere un’agenda politica solamente se questa va nella direzione di tutelare la sicurezza e gli interessi economici” degli Stati Uniti, e non nella programmazione di “politiche che restano controverse nel nostro paese, potenzialmente in grado di danneggiare i rapporti con i cittadini dei paesi interessati”.
Nemmeno l’Albania è stata risparmiata dalla rete di Soros. Nella lettera diretta a Tillerson, i membri del Congresso dichiarano di aver ricevuto informative credibili da importanti e attendibili membri del governo albanese che hanno denunciato indebite ingerenze sempre da parte della Open Society Foundation, autrice della proposta di riforma del sistema giudiziario albanese. Un fatto che conferma pienamente l’influenza di Soros in Albania, come hanno rivelato le sue email del 2011 indirizzare all’ex segretario di Stato, Hillary Clinton, pubblicate da Wikileaks l’anno scorso.
In quella circostanza Soros aveva espresso tutte le sue preoccupazioni per la difficile situazione politica in Albania, all’indomani di forti proteste dell’opposizione culminate con la morte di 3 persone. Per questo propose alla Clinton di coinvolgere l’UE con la nomina di un suo mediatore per affrontare la difficile situazione politica albanese, e le suggerì una rosa di tre nomi: Carl Bildt, Martti Ahtisaari, e Miroslav Lajcak.
Alla fine le sue indicazioni vengono rispettate alla lettera, e viene nominato Lajcak. Secondo le segnalazioni dei rappresentanti di governi stranieri, le stesse ingerenze sarebbero avvenute in altri paesi del mondo, in particolare in Africa e in America Latina. Le intromissioni di Soros non sono state apprezzate nemmeno in Russia, dove le sue Ong sono state dichiarate “non gradite” nel paese e in Ungheria, dove il ministro degli esteri Péter Szijjártó ha denunciato le “attività altamente antidemocratiche” delle sue organizzazioni.Ora i sei membri del Congresso chiedono a Tillerson di porre fine a tutto questo e al finanziamento di “attività che incitano all’instabilità politica e mancano di rispetto alla sovranità nazionale”.
La « rivoluzione verde » di Teheran è l’ultimo avatar delle « rivoluzioni colorate » che hanno permesso agli Stati Uniti d’imporre in parecchi paesi dei governi al loro soldo senza dover ricorrere alla forza. Thierry Meyssan, che ha consigliato due governi di fronte a queste crisi, analizza questo metodo e le ragioni del suo fallimento in Iran.
Le « rivoluzioni colorate » stanno alle rivoluzioni come il Canada Dry sta alla birra. Vi assomigliano ma non ne hanno il sapore. Sono dei cambi di regime che hanno l’apparenza di una rivoluzione, in quanto mobilitano vasti settori del Popolo, ma rientrano nel colpo di Stato in quanto non mirano a cambiare le strutture sociali, ma a sostituire un’élite ad un’altra per condurre una politica economica ed estera filo-USA. La « rivoluzione verde » di Teheran ne è l’ultimo esempio.
Origine del concetto Questo concetto compare negli anni 90, ma trova le sue origini nei dibattiti USA degli anni 70-80. Dopo le rivelazioni a catena sui colpi di Stato fomentati dalla CIA nel mondo e dopo che le commissioni parlamentari Church e Rockefeller [1] hanno ampiamente vuotato il sacco, l’ammiraglio Stansfield Turner viene incaricato dal presidente Carter di ripulire l’agenzia e di far cessare ogni sostegno alle « dittature fatte in casa ». Furenti, i social-democratici statunitensi (SD/USA) lasciano il Partito democratico e raggiungono Ronald Reagan. Si tratta di brillanti intellettuali trotzkisti [2], spesso legati alla rivista Commentary. Quando Reagan viene eletto, affida loro il compito di continuare l’ingerenza USA, ma con altri metodi. È così che essi creano, nel 1982, la National Endowment for Democracy (NED) [3] e, nel 1984, l’United States Institute for Peace (USIP). Le due strutture sono organicamente collegate: alcuni amministratori della NED siedono nel consiglio di amministrazione dell’USIP e viceversa.
Giuridicamente, la NED è un’associazione non a scopo di lucro, di diritto USA, finanziata da una sovvenzione annuale votata dal Congresso all’interno di un budget del dipartimento di Stato. Per condurre le sue azioni, essa le fa co-finanziare dall’US Agency for International Development (USAID), anch’essa legata al dipartimento di Stato. In pratica, questa struttura giuridica non è che un paravento utilizzato congiuntamente dalla statunitense CIA, dal britannico MI6 e dall’australiano’ASIS (e, occasionalmente, dai servizi canadesi e neozelandesi).
La NED si presenta come un organo di « promozione della democrazia ». Essa interviene sia direttamente, cioè attraverso uno dei suoi quattro tentacoli : uno destinato a corrompere i sindacati, un secondo incaricato di corrompere gli imprenditori, un terzo per i partiti di sinistra ed un quarto per quelli di destra ; sia, ancora, con l’intermediazione di fondazioni amiche, come la Westminster Foundation for Democracy (Regno Unito), l’International Center for Human Rights and Democratic Development (Canada), la Fondation Jean-Jaurès e la Fondation Robert-Schuman (Francia), l’International Liberal Center (Svezoa), l’Alfred Mozer Foundation (Paesi Bassi), la Friedrich Ebert Stiftung, la Friedrich Naunmann Stiftung, la Hans Seidal Stiftung e la Heinrich Boell Stiftung (Germania). La NED rivendica di aver così corrotto nel mondo più di 6 000 organizzazioni in una trentina d’anni. Tutto ciò, beninteso, mascherato sotto l’apparenza di programmi di formazione o di assistenza.
Per quanto riguarda l’USIP, si tratta di un’istituzione nazionale statunitense. È sovvenzionato annualmente dal Congresso nel budget del dipartimento della Difesa. A differenza della NED, che serve da copertura ai servizi dei tre Stati alleati, l’USIP è esclusivamente statunitense. Sotto la copertura della ricerca in scienze politiche, può stipendiare delle personalità politiche straniere.
Da quando dispone di risorse, l’USIP finanzia una nuova e discreta struttura, l’Albert Einstein Institution [4]. Questa piccola associazione di promozione della non violenza è inizialmente incaricata di ideare una forma di difesa civile per le popolazioni dell’Europa occidentale in caso di invasione del Patto di Varsavia. Essa prende rapidamente autonomia e modella le condizioni per cui un potere statuale di qualsiasi natura possa perdere la sua autorità e crollare.
Primi tentativi Il primo tentativo di « rivoluzione colorata » fallisce nel 1989. Si tratta di rovesciare Deng Xiaoping appoggiandosi su uno dei suoi vicini collaboratori, il segretario generale del Partito comunista cinese Zhao Ziyang, in modo da aprire il mercato cinese agli investitori statunitensi e da far entrare la Cina nell’orbita USA. I giovani sostenitori di Zhao invadono piazza Tienanmen [5]. Dai media occidentali sono presentati come degli studenti apolitici che si battono per la libertà contro l’ala tradizionale del Partito, mentre si tratta di una dissidenza tra nazionalisti e pro-USA all’interno della corrente di Deng. Dopo aver a lungo resistito alle provocazioni, Deng décide di concludere con la forza. Secondo le fonti, la repressione fa tra i 300 e i 1.000 morti.
Vent’anni dopo, la versione occidentale di questo mancato colpo di Stato non è cambiata. I media occidentali che recentemente hanno parlato del suo anniversario presentandolo come una « rivolta popolare » si sono stupiti che i Pechinesi non abbiamo mantenuto il ricordo dell’avvenimento. Il fatto è che una lotta interna al Partito non ha niente di «popolare». Essi non si sono sentiti coinvolti.
La prima « rivoluzione colorata » ha successo nel 1990. Mentre l’Unione Sovietica è in via di dissolvimento, il segretario di Stato James Baker si reca in Bulgaria per partecipare alla campagna elettorale del partito pro-USA, abbondantemente finanziato dalla NED [6]. Tuttavia, malgrado le pressioni del Regno Unito, i Bulgari, impauriti dalle conseguenze sociali del passaggio dell’URSS all’economia di mercato, commettono l’imperdonabile errore di eleggere al Parlamento una maggioranza di post-comunisti. Mentre gli osservatori della Comunità europea certificano la validità dello scrutinio, l’opposizione filo-USA urla alla frode elettorale e scende in piazza. Installa un accampamento nel centro di Sofia e fa piombare il paese nel caos per sei mesi, finché il Parlamento elegge come presidente il filo-USA Zhelyu Zhelev.
La «democrazia»: vendere il proprio paese ad interessi stranieri all’insaputa della sua popolazione Da allora, Washington non cessa di organizzare, un po’ ovunque nel mondo, cambi di regime attraverso l’agitazione di piazza anziché per mezzo di giunte militari. Quello che importa è mettere in luce le implicazioni. Al di là del discorso lenitivo sulla « promozione della democrazia », l’azione di Washington mira all’imposizione di regimi che le aprano senza condizioni i mercati interni e che si allineino sulla sua politica estera. Ora, se questi obiettivi sono conosciuti dai dirigenti delle « rivoluzioni colorate », essi non sono mai discussi ed accettati dai manifestanti che essi mobilitano. E, nel caso in cui questi colpi di Stato riescano, i cittadini non tardano a rivoltarsi contro le nuove politiche che vengono loro imposte, anche se è troppo tardi per tornare indietro. Del resto, come si può considerare « democratiche » delle opposizioni che, per prendere il potere, vendono il loro paese ad interessi stranieri all’insaputa della loro popolazione ?
Nel 2005, l’opposizione kirghisa contesta il risultato delle elezioni legislative e conduce a Bishkek dei manifestanti dal Sud del paese. Essi depongono il presidente Askar Akaïev. E’ la « rivoluzione dei tulipani ». L’Assemblea nazionale elegge come presidente il filo-USA Kurmanbek Bakiev. Non riuscendo a controllare i suoi sostenitori che saccheggiano la capitale, egli dichiara di aver cacciato il dittatore e finge di voler creare un governo di unione nazionale. Fa uscire di prigione il generale Felix Kulov, ex sindaco di Bishkek, e lo nomina ministro dell’Interno, poi Primo ministro. Quando la situazione è stabilizzata, Bakaiev si sbarazza di Kulov e vende, senza possibilità di una contro-offerta e con successivi accordi sottobanco, le poche risorse del paese a delle società USA ed installa una base militare USA a Manas. Il livello di vita della popolazione non è mai stato così basso. Felix Kulov propone di risollevare il paese federandolo, come nel passato, alla Russia. Non ci mette molto a tornare in prigione.
Un male per un bene? Nel caso di Stati sottoposti a regimi repressivi, talvolta si obietta che se tali « rivoluzioni colorate » apportano solo una democrazia di facciata, in ogni caso esse procurano un miglioramento alle popolazioni. Ora, l’esperienza mostra che niente è meno sicuro. I nuovi regimi possono rivelarsi più repressivi dei vecchi.
Nel 2003, Washington, Londra e Parigi [7] organizzano la « rivoluzione delle rose » in Georgia [8]. Secondo uno schema classico, l’opposizione denuncia dei brogli elettorali alle elezioni legislative e scende in piazza. I manifestanti costringono alla fuga il presidente Eduard Shevardnadze e prendono il potere. Il suo successore Mikhail Saakashvili apre il paese agli interessi economici USA e rompe con il vicino russo. L’aiuto economico promesso da Washington per sostituirsi all’aiuto russo non arriva. La già compromessa economia crolla. Per continuare ad accontentare i suoi mandanti, Saakashvili deve imporre una dittatura [9]. Chiude dei media e riempie le prigioni, il che non impedisce per niente alla stampa occidentale di continuare a presentarlo come « democratico ». Condannato alla fuga in avanti, Saakashvili decide di rifarsi una popolarità gettandosi in un’avventura militare. Con al’aiuto dell’amministrazione Bush e di Israele, al quale ha affittato delle basi aeree, bombarda la popolazione dell’Ossezia del Sud facendo 1.600 morti, la maggior parte dei quali ha anche la nazionalità russa. Mosca risponde. I consiglieri statunitensi ed israeliani se la svignano [10]. La Georgia viene devastata.
Basta! Il meccanismo principale delle « rivoluzioni colorate » consiste nel focalizzare il malcontento popolare sul bersaglio che si vuole abbattere. Si tratta di un fenomeno di psicologia delle masse che spazza via tutto al suo passaggio ed al quale nessun ostacolo ragionevole può essere opposto. Il capro espiatorio è accusato di tutti i mali che affliggono il paese da almeno una generazione. Più egli resiste, più cresce la collera della folla. Quando egli cede oppure scappa, la popolazione ritorna in sé, ricompare un divario ragionevole tra i suoi sostenitori ed i suoi oppositori.
Nel 2005, nelle ore successive all’assassinio dell’ex Primo ministro Rafik Hariri, in Libano si diffonde la voce che sia stato ucciso dai « Siriani ». L’esercito siriano, che — in virtù dell’Accordo di Taëf — mantiene l’ordine dopo la fine della guerra civile, viene dileggiato. Il presidente siriano Bashar el-Assad è personalmente messo in causa dalle autorità statunitensi, cosa che per l’opinione pubblica vale come una prova. A chi fa osservare che — malgrado momenti tempestosi — Rafik Hariri è sempre stato utile alla Siria e che la sua morte priva Damasco di un collaboratore essenziale, si ribatte che il « regime siriano » è di per sé così malvagio da non potersi impedire di uccidere anche i suoi amici. I Libanesi reclamano a gran voce uno sbarco dei GI’s per cacciare i Siriani. Ma, tra la sorpresa generale, Bashar el-Assad, considerando che il suo esercito non è più il benvenuto in Libano mentre il suo spiegamento gli costa caro, ritira i suoi uomini. Vengono organizzate delle elezioni legislative che vedono il trionfo della coalizione « anti-siriana ». E’ la « rivoluzione del cedro ». Quando la situazione si stabilizza, ognuno si rende conto che, se dei generali siriani per il passato hanno depredato il paese, la partenza dell’esercito siriano non cambia niente economicamente. Soprattutto, il paese è in pericolo, non ha più i mezzi per difendersi contro l’espansionismo del vicino israeliano. Il principale leader « anti-siriano », il generale Michel Aun, si ravvede e passa all’opposizione. Furibonda, Washington moltiplica i progetti per assassinarlo. Michel Aun si allea a Hezbollah attorno ad una piattaforma patriottica. È tempo : Israele attacca.
In tutti i casi, Washington prepara in anticipo il governo « democratico », il che conferma che si tratta di un colpo di Stato mascherato. La composizione della nuova squadra è mantenuta il più possibile segreta. Ecco perché la designazione del capro espiatorio si fa senza mai ventilare alternative politiche.
In Serbia, i giovani « rivoluzionari » filo-USA scelgono un logo appartenente all’immaginario comunista (il pugno alzato) per mascherare la loro subordinazione agli Stati Uniti. Prendono come slogan « E’ finito ! », federando così il malcontento contro la persona di Slobodan Milosevic che rendono responsabile dei bombardamenti del paese eppure effettuati dalla NATO. Questo modello viene riproposto più volte, ad esempio dal gruppo Pora ! in Ucraina, o Zubr in Bielorussia.
Una non violenza di facciata Le comunicazioni del dipartimento di Stato sono attente all’immagine non-violenta delle «rivoluzioni colorate». Tutte mettono in primo piano le teorie di Gene Sharp, fondatore dell’Albert Einstein Institution. Ora, la non-violenza è un metodo di lotta destinato a convincere il potere a cambiare politica. Affinché una minoranza si impadronisca del potere e lo eserciti, c’è sempre bisogno, in un momento o in un altro, che essa utilizzi la violenza. E tutte le « rivoluzioni colorate » l’hanno fatto. .
Nel 2000, mentre manca ancora un anno allo scadere del mandato del presidente Slobodan Milosevic, egli convoca delle elezioni anticipate. Egli stesso ed il suo principale oppositore, Vojislav Koštunica, si ritrovano in ballottaggio. Senza attendere il secondo turno dello scrutinio, l’opposizione grida alla frode e scende in piazza. Migliaia di manifestanti, tra cui i minatori di Kolubara, affluiscono verso la capitale. Le loro giornate di lavoro sono pagate indirettamente dalla NED, senza che essi siano consapevoli di essere remunerati dagli Stati Uniti. Essendo insufficiente la pressione della manifestazione, i minatori attaccano degli edifici pubblici con dei bulldozers che hanno portato con sé: da qui il nome « rivoluzione dei bulldozer ».
Nel caso in cui la tensione si prolunghi all’infinito e si organizzino delle contro-manifestazioni, l’unica soluzione per Washington è precipitare il paese nel caos. Vengono allora appostati in entrambe i campi degli agenti provocatori che sparano sulla folla. Ciascuna delle parti può constatare che quelli di fronte hanno sparato mentre avanzava pacificamente. Lo scontro diventa generale.
Nel 2002, la borghesia di Caracas scende in piazza per schernire la politica sociale del presidente Hugo Chavez [11]. Con abili montaggi, le televisioni private danno l’impressione di una marea umana. Sono 50,000 secondo gli osservatori, 1 milione secondo la stampa e il dipartimento di Stato. Avviene allora l’incidente del ponte Llaguno. Le televisioni mostrano chiaramente dei filo-chavisti armati che sparano sulla folla. In una conferenza stampa, il generale della Guardia nazionale e viceministro della sicurezza interna conferma che le « milizie chaviste » hanno sparato sul popolo facendo 19 morti. Dà le dimissioni e fa appello per il rovesciamento della dittatura. Il presidente non tarda ad essere arrestato da militari insorti. Ma il Popolo scende a milioni nella capitale e ristabilisce l’ordine costituzionale.
Una successiva inchiesta giornalistica ricostruisce nei dettagli la strage del ponte Llaguno. Essa metterà in evidenza un montaggio delle immagini fasullo, il cui ordine cronologico è stato falsificato come attestano i quadranti degli orologi dei protagonisti. In realtà, sono i chavisti ad essere aggrediti e, dopo essere ripiegati, hanno tentato di sganciarsi usando armi da fuoco. Gli agenti provocatori erano dei poliziotti locali formati da un’agenzia USA [12].
Nel 2006, la NED riorganizza l’opposizione al presidente kenyan Mwai Kibaki. Finanzia la creazione del Partito arancione di Raila Odinga. Questi riceve il sostegno del senatore Barack Obama, accompagnato da specialisti della destabilizzazione (Mark Lippert, attuale capo di gabinetto del consigliere di sicurezza nazionale, e il generale Jonathan S. Gration, attuale inviato speciale del presidente USA per il Sudan). Partecipando ad un meeting di Odinga, il senatore dell’Illinois s’inventa un vago legame di parentela con il candidato pro-USA. Tuttavia, Odinga perde le elezioni legislative del 2007. Sostenuto dal senatore John McCain nella sua qualità di presidente dell’IRI (lo pseudopodio repubblicano della NED), egli contesta la validità dello scrutinio e chiama i suoi sostenitori a scendere in piazza. .
È allora che messaggi anonimi SMS sono diffusi in massa agli elettori dell’etnia Luo. «Cari Kenyani, i Kikuyu hanno rubato il futuro dei nostri bambini…dobbiamo trattarli nel solo modo che essi comprendono… la violenza ». Il paese, sia pure uno dei più stabili dell’Africa, improvvisamente s’infiamma. Dopo giorni di sommosse, il presidente Kibaki è costretto ad accettare la mediazione di Madeleine Albright nella sua qualità di presidente del NDI (lo pseudopodio democratico della NED). Viene creato un posto di Primo ministro che va ad Odinga. Dal momento che gli SMS d’odio non sono stati inviati da installazioni kenyane, ci domandiamo quale potenza straniera abbia potuto spedirli.
La mobilitazione dell’opinione pubblica internazionale Nel corso degli ultimi anni, Washington ha avuto modo di lanciare delle « rivoluzioni colorate » convinta che esse avrebbero fallito la presa del potere, ma permesso di manipolare l’opinione pubblica e le istituzioni internazionali.
Nel 2007, numerosi Birmani insorgono contro l’aumento dei prezzi della benzina per uso domestico. Le manifestazioni degenerano. I monaci buddhisti prendono la testa della contestazione. È la « rivoluzione zafferano » [13]. In realtà, a Washington non interessa il regime di Rangoon ; le interessa invece strumentalizzare il Popolo birmano per far pressione sulla Cina che in Birmania ha interessi strategici (oleodotti e basi militari di ascolto elettronico). Per questo, l’importante è mettere in scena la realtà. Immagini prese da telefoni portatili appaiono su YouTube. Esse sono anonime, non verificabili e fuori contesto. È precisamente la loro apparente spontaneità a dare loro autorità. La Casa Bianca può imporre la sua interpretazione dei video.
Più recentemente, nel 2008, manifestazioni studentesche paralizzano la Grecia in seguito all’uccisione di un ragazzo di 15 anni da parte di un poliziotto. Rapidamente, fanno la loro comparsa dei teppisti. Sono stati reclutati nel vicino Kosovo e trasportati in autobus. I centri cittadini sono saccheggiati. Washington cerca di far fuggire I capitali verso altri lidi e di riservarsi il monopolio degli investimenti nei terminali del gas in costruzione. Una campagna di stampa farà dunque passare l’asfittico governo Karamanlis per quello dei colonnelli. Facebook e Twittter sono utilizzati per mobilitare la diaspora greca. Le manifestazioni si estendono ad Istanbul, Nicosia, Dublino, Londra, Amsterdam, L’Aja, Copenhagen, Francoforte, Parigi, Roma, Madrid, Barcellona, etc.
La rivoluzione verde L’operazione condotta nel 2009 in Iran s’inscrive in questa lunga lista di pseudo rivoluzioni. In primo luogo, il Congresso vota nel 2007 uno stanziamento di 400 milioni di dollari per « cambiare il regime » in Iran. Questo si aggiunge ai budget ad hoc della NED, dell’USAID, della CIA e tutti quanti. Si ignora come sia utilizzato questo denaro, ma ne sono destinatari tre gruppi principali : la famiglia Rafsanjani, la famiglia Pahlevi e i Mujahidin del popolo.
L’amministrazione Bush prende la decisione di sponsorizzare una « rivoluzione colorata » in Iran dopo aver confermato la decisione dello stato maggiore di non attaccare militarmente il paese. Questa scelta è convalidata dall’amministrazione Obama. Per difetto, si riapre dunque il dossier di « rivoluzione colorata », preparato nel 2002 con Israele all’interno dell’American Enterprise Institute. All’epoca, avevo pubblicato un articolo su questo dispositivo [14]. Basta rileggerlo per identificare gli attuali protagonisti : è stato poco modificato. Era stata aggiunta una parte libanese che prevede una sommossa a Beyruth in caso di vittoria della coalizione patriottica (Hezbollah, Aun) alle elezioni legislative, ma è stata annullata.
Lo scenario prevede un massiccio sostegno al candidato scelto dall’ayatollah Rafsanjani, la contestazione dei risultati dell’elezione presidenziale, attentati a 360 gradi, la deposizione del presidente Ahmadinejad e della guida suprema l’ayatollah Khamenei, l’instaurazione di un governo di transizione diretto da Musavi, poi la restaurazione della monarchia e l’installazione di un governo diretto da Sohrab Sobhani.
Come ideato nel 2002, l’operazione ha come suoervisori Morris Amitay e Michael Ledeen. Essa mobilita in Iran le reti dell’Irangate. A questo punto, è necessario un breve richiamo storico. L’Irangate è un’illecita vendita d’armi : la Casa Bianca desidera fornire armi da una parte ai Contras nicaraguensi (perché lottassero contro i sandinisti) e dall’altra parte all’Iran (per far durare la guerra Iran-Iraq fino allo sfinimento), ma ne è interdetta dal Congresso. Allora gli Israeliani propongono di subappaltare contemporaneamente le due operazioni. Ledeen, che ha la doppia nazionalità statunitense ed israeliana, serve da agente di collegamento a Washington, mentre Mahmud Rafsanjani ( fratello dell’ayatollah) è il suo corrispondente a Teheran. Il tutto sullo sfondo di corruzione generalizzata. Quando negli Stati Uniti scoppia lo scandalo, nasce una commissione d’inchiesta indipendente diretta dal senatore Tower e dal generale Brent Scowcroft (mentore di Robert Gates).
Michael Ledeen è uno che la sa lunga sulle operazioni segrete. Lo si trova a Roma in occasione dell’assassinio di Aldo Moro, lo si ritrova nell’invenzione della pista bulgara nella circostanza del tentato assassinio di Giovanni Paolo II o, più recentemente, nell’invenzione delle fornitura a Saddam Hussein di uranio dal Niger. Oggi lavora all’American Enterprise Institute [15] (a fianco di Richard Perle e di Paul Wolfowitz) e alla Foundation for the Defense of Democracies [16]. Morris Amitay è ex direttore dell’American Israel Public Affairs Committee (AIPAC). Oggi, è vicepresidente del Jewish Institute for National Security Affairs (JINSA) e direttore di uno studio di consulenza per grandi ditte d’armamento.
Il 27 aprile scorso, Morris e Ledeen organizzano un seminario sull’Iran all’American Enterprise Institute a proposito delle elezioni iraniane, attorno al senatore Joseph Lieberman. Il 15 maggio scorso, nuovo seminario. La parte pubblica consiste in una tavola rotonda animata dall’ambasciatore John Bolton sulla « grande contrattazione » : accetterebbe Mosca di lasciar cadere Teheran in cambio della rinuncia di Washington allo scudo antimissili in Europa centrale? L’esperto francese Bernard Hourcade partecipa a questi scambi di vedute. Contemporaneamente, l’Istituto lancia un sito internet destinato alla stampa nella crisi a venire: IranTracker.org. il sito comprende una rubrica sulle elezioni libanesi.
In Iran, è compito dell’ayatollah Rafsanjani rovesciare il suo vecchio rivale, l’ayatollah Khamenei. Proveniente da una famiglia di agricoltori, Hashemi Rafsanjani ha fatto fortuna sotto lo Scià con la speculazione immobiliare. È divenuto il principale grossista di pistacchi del paese e ha arrotondato la sua fortuna durante l’Irangate. I suoi averi sono valutati in parecchi miliardi di dollari. Divenuto l’uomo più ricco d’Iran, è stato successivamente presidente del parlamento, presidente della Repubblica e, oggi, è presidente del Consiglio di discernimento (istituzione di arbitraggio tra il Parlamento e il Consiglio dei guardiani della costituzione). Egli rappresenta gli interessi del bazar, ossia dei commercianti di Teheran. Durante la campagna elettorale, Rafsanjani ha fatto promettere al suo ex avversario divenuto suo pupillo Mirhossein Musavi, di privatizzare il settore del petrolio.
Senza alcuna connessione con Rafsanjani, Washington si rivolge ai Mujahidin del popolo [17]. Questa organizzazione protetta dal Pentagono è considerata terroristica dal dipartimento di Stato e lo è stata dall’Unione Europea. In effetti, negli anni 80, essa ha effettuato operazioni terribili, tra cui un mega-attentato costato la vita all’ayatollah Beheshti nonché a quattro ministri, sei ministri aggiunti e ad un quarto del gruppo parlamentare del Partito della repubblica islamica. L’organizzazione è comandata da Massud Rajavi, che aveva sposa in prime nozze la figlia del presidente Bani Sadr e poi, in seconde nozze, la crudele Myriam. La sua sede è installata nella regione persiana e le sue basi militari in Iraq, dapprima sotto la protezione di Saddam Husein poi, oggi, sotto quella del dipartimento della Difesa. Sono i Mujahidin che assicurano la logistica degli attentati dinamitardi durante la campagna elettorale [18]. Spetta a loro provocare scontri tra militanti pro ed contro Ahmadinejad, cosa che probabilmente fannp.
Nel caso in cui subentri il caos, la Guida suprema può essere rovesciata. Un governo di transizione, diretto da Mirhussein Musavi privatizzerebbe il settore del petrolio e ristabilirebbe la monarchia. Il figlio dell’ex Scià, Reza Ciro Pahlavi, verrebbe rimesso sul trono e designerebbe come Primo ministro Sohrab Sobhani. In questa prospettiva, Reza Pahlavi pubblica in febbraio un libro di conversazioni con il giornalista francese Michel Taubmann. Questi è direttore dell’ufficio d’informazione parigino d’Arte e presiede il Cercle de l’Observatoire, il club dei neoconservatori francesi.
Ricordiamoci che Washington aveva previsto il ripristino della monarchia anche in Afghanistan. Mohammed Zaher Scià doveva riprendere il suo trono a Kabul e Hamid Karzai doveva essere il suo Primo ministro. Malauguratamente, a 88 anni, il pretendente era divenuto troppo vecchio. Karzai è dunque divenuto lui presidente della Repubblica. Come Karzai, Sobhani è anche cittadino statunitense. Come lui, lavora nel settore petrolifero del Caspio.
Dal lato propaganda, il dispositivo iniziale è affidato allo studio Benador Associates. Ma esso si è evoluto sotto l’influenza dell’assistente del segretario di Stato per l’Istruzione e la Cultura, Goli Ameri. Questa iraniana statunitense è una vecchia collaboratrice di John Bolton. Specialista dei nuovi media, ha realizzato dei programmi di equipaggiamento e di formazione ad internet per gli amici di Rafsanjani. Ha inoltre elaborato radio e televisioni in lingua farsi per la propaganda del dipartimento di Stato e in coordinamento con la britannica BBC.
La destabilizzazione dell’Iran è fallita perché la molla principale delle «rivoluzioni colorate» non è stata attivata correttamente. MirHussein Musavi non è arrivato a cristallizzare i malcontenti sulla persona di Mahmud Ahmadinejad. Il Popolo iraniano non si è ingannato. Non ha reso il presidente uscente responsabile delle conseguenze delle sanzioni economiche statunitensi sul paese. Per questo, la contestazione si è limitata alla borghesia dei quartieri nord di Teheran. Il potere si è astenuto dall’opporre dei manifestanti gli uni contro gli altri e ha lasciato che i complottasti si scoprissero. . Tuttavia, bisogna ammettere che l’intossicazione dei media occidentali ha funzionato. L’opinione pubblica estera ha creduto realmente che due milioni di Iraniani fossero scesi in piazza, quando il numero reale è inferiore di almeno dieci volte. Il fatto che i corrispondenti della stampa rimanessero nelle loro sedi ha facilitato tali esagerazioni dispensandoli dal fornire le prove delle loro accuse.
Avendo rinunciato alla guerra e fallito nel rovesciare il regime, quale carta resta nelle mani di Barack Obama ?
L’offensiva del regime di Kiev contro le regioni ostili alla nuova giunta imposta da un golpe insediato con l’appoggio di “volontari” neofascisti e con l’uso di milizie mercenarie filoamericane come la Greystone Service, cioè l’ex “Blackwater Usa”, una delle più importanti Pmc (Private Military Company) del mondo con ruoli di security contractor in Iraq per conto dell’Amministrazione Statunitense nonchè principale contractor del Dipartimento di Stato,[1] è un attacco imperialista in piena regola. Non a caso la comunità internazionale dopo aver bollato come secessioniste quelle regioni che in seguito ad un referendum hanno proclamato la loro indipendenza e dato vita alle Repubbliche popolari di Donetsk e di Lugansk (rispettivamente con l’89,7% e il 95% dei voti) ha avanzato la richiesta di sanzioni economiche contro Mosca che fin dall’inizio aveva sostenuto le popolazioni russe minacciate dal nuovo regime ucraino.[2]
Un tempo era relativamente facile espandere il proprio impero: la necessità di acquisire risorse, di ampliare la propria sfera di influenza (e di sfruttamento) economica e politica e di ottimizzare i propri interessi economici spingeva gli stati ad invadere un determinato territorio considerato strategico per il proprio sviluppo. Il metodo e le ragioni – che portarono ad esempio alla spartizione dell’Africa da parte delle potenze europee avvenuta alla Conferenza di Berlino del 1884, letteralmente a tavolino – erano sempre gli stessi: l’approvvigionamento (il saccheggio..) di risorse e materie prime necessarie alla conservazione e all’espansione del proprio impero economico e politico.
Oggi le ragioni sono fondamentalmente le stesse ma ci si nasconde dietro il velo ipocrita e sottilissimo alimentato ad arte dagli apparati mediatici, che spiegano come gli eserciti delle potenze occidentali e della NATO occupino la Serbia, l’Afghanistan, l’Iraq o altri paesi non per conquistare territorio utile al fine di mantenere e rafforzare il proprio status quo geopolitico o perché in questo o quel paese scorre petrolio oppure ancora perchè vi è un oleodotto/gasdotto di importanza strategica, bensì per «abbattere le tirannie che opprimono quei paesi e portare democrazia, pace e diritti umani», ovviamente con le bombe.
Ma le guerre costano, e le casse dell’Impero Americano non sono floride come un tempo. E’ più vantaggioso esportare l’American way of life con l’uso indiscriminato delle bombe oppure attraverso un processo di penetrazione culturale che promuova i «diritti civili» e i valori di una società liberaldemocratica fondata sulla celebrazione dell’individuo piuttosto che della collettività o della comunità?
Anche in termini di mera utilità, è senz’altro più conveniente promuovere un modello economico-sociale con mezzi “pacifici” piuttosto che con soluzioni militari (anche se incidenti di percorso possono sempre verificarsi): tutto di guadagnato sia in termini economici che, soprattutto, mediatici.
Le “rivoluzioni colorate”, scoppiate in Europa dell’Est con l’intento di eliminare quei sistemi e quegli stati che la “morale” occidentale e americana considera “ostili alla democrazia”, sono il nuovo strumento, 2.0 (dopo il fallimento e gli alti costi per la guerra in Kosovo, in Iraq e in Afghanistan) utilizzato dalle potenze occidentali che quando prevalgono insediano un nuovo governo “democratico” i cui leader sono, chi più o chi meno, consulenti di qualche multinazionale o di qualche impresa petrolifera occidentale. Dopo un periodo più o meno lungo trascorso come esuli politici in America e/o in Europa, si sono nel frattempo laureati e hanno ottenuto incarichi presso Università prestigiose come Harvard, Oxford o Yale, cioè le “madrase” del neoliberismo occidentale.
Dietro i vari sommovimenti di piazza scoppiati in Serbia (2000), in Georgia (2003), in Ucraina (2004) e in Kirghizistan (2005), anche allo scopo di costruire una rete di collaborazionisti, vi sono agenzie non governative vicine alla Rockefeller Foundation e alla Cia, come la Soros Family Fondation (per la promozione della “società civile”, che finanzia l’Open Society Institute), la Freedom House (a sostegno dei media indipendenti, creata dalla moglie di Roosevelt), l’International Repubblican Institut (finalizzata alla costruzione di nuovi partiti in linea con i valori del liberalismo, presieduto da John McCain, il candidato sconfitto delle presidenziali USA del 2008 contro Obama, giunto a Kiev per complimentarsi coi leader golpisti!) e la National Democratic Institut for International Affairs (per promuovere “elezioni democratiche”), la United States Agency for International Development e l’Albert Einstein Institution, le stesse fondazioni “benefiche” che rivedremo all’opera nei diversi teatri sopra elencati, e che sono finanziate col bilancio degli Stati Uniti o con capitali privati statunitensi: basti pensare che la National Endowment for Democracy è finanziata da un budget votato dal Congresso e i fondi sono gestiti da un CdA con rappresentanti del Repubblican Party e del Democratic Party, dalla Camera di Commercio degli Stati Uniti e dal sindacato Federation of Labor – Congress of Industrial Organization (AFL-CIO). Chi ha stilato l’elenco di tali organismi presenti nei paesi dell’ex Urss? Nero su bianco, lo spiega la rivista di geopolitica filoatlantista «LiMES», edita dal Gruppo Editoriale l’Espresso, vicino al Partito democratico, nel Quaderno Speciale sulla crisi in Ossezia del 2008,[3] e in un documentario del 2005 di Manon Loizeau, intitolato États-Unis à la conquête de l’Est.[4] Infatti G. Sussman e S. Krader della Portland State University spiegano che
«Tra il 2000 e il 2005, i governi alleati della Russia, in Serbia, in Georgia, in Ucraina e in Kirghizistan, sono stati rovesciati da rivolte senza spargimenti di sangue. Nonostante i media occidentali sostengano generalmente che queste sollevazioni siano spontanee, indigene e popolari (potere del popolo), le “rivoluzioni colorate” sono in realtà l’esito di una ampia pianificazione. Gli Stati uniti, in particolare, e i loro alleati hanno esercitato sugli Stati post-comunisti un impressionante assortimento di pressioni e hanno utilizzato finanziamenti e tecnologie al servizio dell’aiuto alla democrazia».[5]
Come agiscono gli Organismi non governativi (Ong) sopra citati? Attraverso la promozione di movimenti “spontanei” per lo sviluppo della società civile come Otpor (“Resistenza”) in Serbia, Kmara (“E’ abbastanza!”) in Georgia, KelKel (“Rinascita”) in Kirghizistan, e Pora (“E’ ora”) in Ucraina. Il primo, Optor, ha poi fatto scuola, sostenendo i vari movimenti affini attraverso il Center for applied non violent action and strategies (Canvas), con sede nella Belgrado post-Milosevic, per addestrare militanti all’applicazione della cosiddetta «resistenza non violenta», ideologia teorizzata in From Dictatorship to Democracy dal filosofo e politologo statunitense Gene Sharp, fondamento delle «rivoluzioni colorate»:
«Una di queste organizzazioni [ispirate a Optor] è il Centro per la resistenza non violenta [il Canvas. Ndr], che nella sua parte preponderante riprende le attività non governative dell’allora Otpor, e che in questi giorni si è trovato al centro dell’attenzione sia del pubblico locale che di quello internazionale per le sue attività in Ucraina. Un segmento del Centro è proprio il Training Team che realizza dei training nell’ambito della resistenza e della soluzione pacifica delle crisi e dei conflitti. Proprio questo team è stato al centro dell’attenzione del pubblico, e in particolare dopo l’impegno attivo dei trainer del Centro durante le vicende pre-elettorali in Georgia, Bielorussia e Ucraina. Perché nell’ultimo anni diversi trainer e attivisti dell’allora Otpor hanno trasferito l’esperienza e la conoscenza impiegate nella lotta contro il regime della Serbia ai loro colleghi di varie organizzazioni studentesche e giovanili sia della regione che fuori. Il più famoso “esportatore di rivoluzioni”, come viene spesso chiamato, Aleksandar Marić ha avuto la sua prima missione compiuta in Georgia, quando ha addestrato l’allora movimento giovanile “Kmara” alle tecniche della resistenza non violenta, il cui risultato è stata la sconfitta del regime di Eduard Scevarnadze. Dopo di che sono giunti numerosi inviti di organizzazioni studentesche dai paesi dei cosiddetti regimi autoritari, i quali hanno creduto che lo “scenario serbo” potesse essere realizzato anche alle loro condizioni. Sulla “riuscita” dei training che si sono tenuti in suddetti paesi e sul timore che potessero assistere allo stesso destino di Slobodan Milošević, la dice lunga il fatto che tutti i trainer del Centro, e in particolare Aleksandar Marić, sono stati definiti come persona non grata, col che gli è stato impedito l’ingresso in Bielorussia, Russia e Ucraina. L’ultimo “incidente” che, come già detto, ha scosso l’opinione pubblica mondiale è accaduto una decina di giorni fa, alla vigilia del primo turno per le elezioni presidenziali in Ucraina, tenutesi il 1 novembre 2004, quando Aleksandar Marić prima è stato trattenuto all’aeroporto di Kiev, poi fatto rientrare in Serbia senza spiegazioni sul perché gli sia stato impedito l’ingresso in Ucraina. Aleksandar Marić, d’altra parte, durante gli ultimi tre mesi aveva lavorato come consulente della rete giovanile ucraina denominata “Pora” (“E’ ora”), molto simile a Otpor sia per gli obiettivi che per l’organizzazione».[6]
Comprendiamo perché il governo russo – che non è senz’altro nelle nostre corde – abbia espulso dalla Russia le varie Ong! Com’era riportato sul «The Guardian», «Ufficialmente, il governo Usa ha distribuito in un anno 41 milioni di dollari per l’organizzazione e il finanziamento dell’operazione che ha consentito di sbarazzarsi di Milosevic […] In Ucraina, la cifra si aggira introno ai 14 milioni di dollari».[7] Quindi, nulla di spontaneo… bensì pilotato da Washington. Le citate Ong statunitensi sono state inoltre coinvolte anche in quella che va sotto il nome di “primavera” araba (fenomeno complesso, con risvolti contraddittori da approfondire in altra sede): giovani attivisti arabi sono stati formati alla resistenza individuale non violenta da Canvas e alla cyber-dissidenza da organizzazioni americane come l’Alliance of youth movements (Aym), sponsorizzata dal Dipartimento di Stato, come anche da multinazionali americane delle comunicazioni e dei social network come Google, Facebook e Twitter.
In piazza a destra… molto a destra! Chi compone l’Euromaidan
Quello ucraino è stato un golpe a tutti gli effetti e non una rivoluzionaria presa di potere: Viktor Yanukovich era stato democraticamente eletto il 7 febbraio 2010 avendo sconfitto la filoamericana Yulia Tymoshenko al secondo turno delle elezioni presidenziali con 48,95% di voti contro il 45,47%. La Tymoshenko non aveva accettato il responso delle urne,[8] dato che chi aveva vinto era quello che, secondo il punto di vista del fronte filoamericano, era stato “delegittimato” dalla prima rivoluzione arancione del 2004. Le elezioni presidenziali di quell’anno videro come avversari il primo ministro in carica, Viktor Yanukovich, e l’ex primo ministro e leader dell’opposizione filo-occidentale, Viktor Yushchenko. Il secondo turno vide prevalere Yanukovich con il 49,46 dei consensi contro il 46,61 % ottenuto dal suo avversario. Ma il risultato venne contestato in quanto, secondo l’opposizione filoamericana, le elezioni erano fraudolente. Esplose la citata rivoluzione arancione, finanziata dalle Ong occidentali all’insegna della «esportazione della democrazia». Il primo risultato di questa “rivoluzione” fu l’annullamento del secondo turno delle elezioni presidenziali. Fu organizzato un terzo turno delle elezioni presidenziali e Yushchenko, con il 51,99 contro il 44,19%, viene eletto presidente. La Tymoshenko, Yushchenko & Co. prendono la decisione, di fronte ad un’opinione pubblica internazionale che avvalla quell’elezione, di ritirare l’invalidamento e il ricorso alla giustizia.[9] Specie perché le loro proposte per l’Ucraina erano una vera bufala, e il nuovo presidente decide di sospendere l’accordo Ucraina-Ue. Di che si tratta? Il dott. David Teurtrie, ricercatore presso l’Istituto nazionale delle lingue e civiltà orientali (Inalco, di Parigi), spiega:
«La proposta fatta (dalla Ue) all’Ucraina è qualcosa che io definirei una strategia perdente-perdente. Perché? L’accordo prevedeva l’istituzione di una zona di libero scambio tra Ue e Ucraina. Ma essa era molto sfavorevole all’Ucraina perché avrebbe aperto il mercato ucraino ai prodotti europei e solo socchiuso quello europeo ai prodotti ucraini, che per lo più non sono concorrenziali sul mercato occidentale. Vediamo quindi che vi sono assai pochi vantaggi per l’Ucraina. Per semplificare, l’Ucraina avrebbe subito tutti gli svantaggi di questa liberalizzazione del commercio con l’Ue, senza riceverne alcun vantaggio».[10]
Peccato – e la cosa non può che apparire che “pilotata”, dato che il popolo ucraino non è affatto ingenuo – che i manifestanti dell’Euromaidan fossero favorevoli a tale svantaggioso accordo che avrebbe trasformato il paese in un’ennesima Grecia, come nota il quotidiano comunista francese «l’Humanité».[11] Il movimento Euromaidan – proprio come Solidarność negli anni ’80, finanziato dalla Soros Fondation e in seguito a capo di una coalizione che guida l’estrema destra polacca assieme a partiti affini a Forza nuova, è multivariegato ed è composto da più partiti che vanno dalla destra liberale all’ala più reazionaria dell’emiciclo ucraino, come “Batkivshina” o Unione pan-ucraina “Patria” di Yulia Tymoshenko e di Olexandre Turchinov, presidente ad interim dell’Ucraina occidentale, partito liberal-conservatore filo-europeo osservatore esterno del Ppe. Batkivshina ha legami col think tank “Konrad Adenauer Stiftung” (legato alla Cdu di Angela Merkel) e con l’International Repubblican Institut di John McCain. Uno dei membri del governo di Kiev, Pavel Sheremeta, dal 1995 al 1997 è stato direttore di programma all’Open Society Institute di Soros a Budapest.[12] Un’altro partito è l’Udar (Alleanza democratica ucraina per la riforma, acronimo di “Colpo”), partito liberalconservatore dell’ex pugile Vitali Klitschko, nato dalla fusione col movimento giovanile «arancione» Pora – sezione ucraina di Otpor, che in Serbia è in un partito filoamericano –,[13] che ha legami con le Ong elencate e col centrodestra tedesco (che l’ha creato), come esposto da questo documento, Our Man in Kiev, pubblicato in rete il 10 dicembre 2013:
«Secondo informazioni giornalistiche, al governo tedesco piacerebbe che il campione di boxe Vitali Klitschko punti alla presidenza per portarlo al potere in Ucraina. Egli vorrebbe migliorare la popolarità della politica dell’opposizione, organizzando per esempio delle apparizioni pubbliche congiunte col ministro degli affari esteri tedesco. A tal fine è stato previsto anche un incontro di Klitschko con la cancelliera Merkel durante il prossimo summit della Ue a metà dicembre. La Konrad Adenauer Stiftung ha infatti, non solo sostenuto massicciamente Klitschko e il suo partito Udar, ma – stando alla testimonianza di un politico della Cdu – il partito Udar è stato fondato nel 2010 per disposizioni dirette della Fondazione della Cdu. I rapporti sulle attività della Fondazione per lo sviluppo del partito di Klitschko forniscono una indicazione sul modo col quale i Tedeschi influenzano gli affari interni dell’Ucraina attraverso l’Udar».[14]
In formato relativamente più ridotto abbiamo partiti di estrema destra come Svoboda, movimento ultranazionalista guidato da Oleh Tyahnybok, legato a Forza nuova e a Fiamma tricolore,[15] e noto per le sue posizioni antisemite, omofobe, xenofobe, antirusse e anticomuniste e per il suo rifarsi a collaborazionisti come Stepan Bandera, che combatté l’Urss al fianco delle truppe dell’Asse,[16] e per il programma ambiguo, in teoria una “terza via” o “terza posizione” (un’Ucraina equidistante dall’Ue e dalla Russia ed economicamente “corporativa”), in pratica succube di Kiev. Svoboda si dichiara apertamente disposto a negoziare l’ingresso nella Nato, chiedendo il sostegno agli Usa e all’Inghilterra per difendere l’Ucraina contro i russi e costituire un proprio arsenale nucleare rafforzando militarmente il Paese in chiave antirussa, concedendo addirittura spazi per costruire basi militari per la Nato, rafforzando i legami economici con l’Ue.[17] E’ forse un partito minoritario? Tutt’altro: appena entrato nel governo un’esponente di Svoboda, il neonazista Oleg Mahnitsky, è stato nominato procuratore generale dell’Ucraina, postazione di importanza strategica in una situazione di questo tipo, e tre ministri del governo di Kiev, Oleksandr Sych, vice-Primo ministro; Andriy Mokhnyk, Ministro dell’ambiente e Oleksandr Myrnyi, Ministro dell’agricultura, sono militanti neonazisti di Svoboda. Abbiamo infine Pravy Sektor – l’ala più violenta della piazza, responsabile del massacro di Odessa – coalizione nazionalrivoluzionaria guidata da Dmitro Yarosh, a capo di “Trizub” (cioè “Tridente”, simbolo utilizzato anche dai nazionalrivoluzionari francesi di Troisiéme voie, “cugini” skinheads di CasaPound), che ha il sostegno – lo abbiamo già detto – dei “fascisti del III millennio” e del loro guru, Gabriele Adinolfi.[18] La coalizione neonazista Pravy Sektor – i cui militanti si autoproclamano “soldati della rivoluzione nazionale” – è composta da gruppi minori, i “Patrioti dell’Ucraina”, “l’Ukrainska natsionalna asambleya – Ukrainska narodna sambooborunu – Una-Unso” (Assemblea nazionale ucraina – Autodifesa nazionale ucraina), Bilyi Molot (Martello Bianco) oltre all’ala più estrema di Svoboda.
Nella prossima puntata analizzeremo l’evoluzione, gli ulteriori contatti e le proposte di tale coalizione nazi-liberista, esplicitamente sostenuta dai “progressisti” del Pse (un Renzi trionfalista che va a Kiev e uno Schutz che critica le ragioni delle Repubbliche scissesi dal governo occidentalista!) e dal Ppe e dall’Alde (come Scelta civica/Scelta europea di Mario Monti, l’uomo giusto al momento giusto, il fratello “compasso, grembiulino & squadre” del Gruppo di Bildenberg). Non bisogna dimenticare che fu l’Spd, al governo coi liberali, a sostenere i Freikorps paranazisti contro la Repubblica dei consigli a Monaco, cioè gli assassini di Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg. I casi della vita!
[1] G. Gaiani, In Ucraina si rivede la Blackwater, che però adesso si chiama Greystone, «Il Sole 24 Ore», 9 aprile 2014.
[2]L’Est Ucraina dopo il referendum chiede l’annessione alla Russia. L’Ue non riconosce il risultato e vara nuove sanzioni contro Mosca, in «La Stampa», 12 maggio 2014; Ucraina, l’est sceglie la secessione. Kiev: “Farsa finanziata dal Cremlino”, in «la Repubblica», 12 maggio 2014.
[3]Russia contro America, peggio di prima, supplemento a «LiMes», n. 4/2008, p. 18.
[5] G. Sussman – S. Krader, Template Revolutions: Marketing U.S. Regime Change in Eastern Europe, in «Westminster Papers in Communication and Culture», University of Westminster, London, vol. 5, n. 3, 2008, p. 91-112.
[16] P. Ghosh, Svoboda: The Rising Spectre Of Neo-Nazism In The Ukraine, in «International Business Times», 27 dicembre 2012 e Id., Euromaidan: The Dark Shadows Of The Far-Right In Ukraine Protests, ivi, 19 febbraio 2014.
Nel 2011, in piena effervescenza in piazza Tahrir, Srdja Popovic è stato interrogato sulle attività di formazione rivoluzionaria del Center for Applied Non Violent Action and Strategies (CANVAS) a Belgrado.Si affrettò a rispondere, non senza un pizzico di orgoglio:
“Lavoriamo con 37 paesi. Dopo la rivoluzione serba, abbiamo avuto cinque successi: in Georgia, Ucraina, Libano e Maldive “.
Nel suo entusiasmo, aveva appena dimenticato di menzionare il quinto paese: il Kirghizistan.
Non ha esitato ad aggiungere:
“E ora l’Egitto, la Tunisia e l’elenco crescerà. Non abbiamo idea di quanti paesi abbiano usato il pugno di Otpor, probabilmente una dozzina. “[1]
Questa affermazione non è banale.
Esprime l’evidente relazione tra le rivoluzioni colorate e i vari movimenti di protesta che hanno colpito il Medio Oriente, fino alla cosiddetta “primavera” araba.
LIBANO 2005-2015: DA UNA “RIVOLUZIONE” COLORATA A UN’ALTRA
Queste rivoluzioni, che devono il loro nome ai nomi con cui furono battezzati (rosa, arancio, tulipano, ecc.), sono rivolte che sconvolsero alcuni paesi dell’Est o ex repubbliche sovietiche all’inizio del 21 ° secolo.È il caso di Serbia (2000), Georgia (2003), Ucraina (2004) e Kirghizistan (2005).
Diversi movimenti sono stati istituiti per condurre queste rivolte: Otpor (“Resistenza”) in Serbia, Kmara (“È abbastanza!”) In Georgia, Pora (“È tempo”) in Ucraina e KelKel ( “Rinascimento”) in Kirghizistan. Il primo, Otpor, è stato colui che ha causato la caduta del regime serbo di Slobodan Miloševic.
Dopo questo successo, Popovic (uno dei fondatori di Otpor) ha creato CANVAS con l’aiuto di attivisti del movimento serbo.
1 – LE COLORATE RIVOLUZIONI
Come affermato da Popovic, questo centro ha aiutato, consigliato e addestrato tutti i movimenti successivi. Il CANVAS ha addestrato dissidenti in erba in tutto il mondo, in particolare nel mondo arabo, ad applicare la resistenza individuale non violenta, un’ideologia teorizzata dal filosofo e scienziato politico americano Gene Sharp, il cui libro “Dalla dittatura alla democrazia ” è stata la base di tutte le rivoluzioni colorate e della” primavera “araba [2].Sia il CANVAS che i vari movimenti dissidenti nell’Europa orientale e nelle ex Repubbliche sovietiche hanno beneficiato del sostegno di molte organizzazioni democratiche americane di “esportazione” come l’USAID ( United States Agency for International Development) , il National Endowment for Democracy (NED), l’International Republican Institute (IRI), il National Democratic Institute for International Affairs (NDI), la Freedom House e l’Open Society Institute (OSI).
COME FUNZIONANO LE “RIVOLUZIONI COLORATE”, DALL’EGITTO AL VENEZUELA
20 MAGGIO 2017
Alcuni documenti fatti trapelare da “Wikileaks” mostrano come agisce un’organizzazione che addestra i movimenti “di opposizione” in tutto il mondo – dall’Egitto al Venezuela [il riferimento è alle “rivoluzioni colorate” che animarono Nord Africa e parte del Medio Oriente nel 2011, ndt].
Nella parte superiore di un documento (nell’intestazione) c’è un pugno chiuso, simbolo dell’organizzazione. Nel testo vi si legge: “C’è una forte tendenza presidenzialista in Venezuela. Come possiamo cambiare tutto questo? Come possiamo lavorare su questo punto?”.
Successivamente sono riportate le seguenti frasi: “Economia: il petrolio è del Venezuela, non del governo. Si tratta del suo denaro, è un suo diritto… Questo messaggio dev’essere adattato a tutti i giovani, non solo agli studenti universitari… E le madri, che cosa vogliono? Il controllo della legge, che la polizia agisca sotto il controllo delle autorità locali. Noi forniremo le risorse necessarie per ottenere questi risultati”.
Il testo non è redatto in spagnolo né è stato scritto da membri dell’opposizione venezuelana; è stato scritto invece in inglese e prodotto da un gruppo di giovani con base dall’altra parte del mondo, precisamente in Serbia, Europa.
Il documento, intitolato “Analisi della situazione in Venezuela, gennaio 2010”, prodotto dall’organizzazione “Canvas”, che ha sede a Belgrado, è tra i documenti della società di intelligence “Stratfor” rilasciati da “Wikileaks”.Le ultime notizie fatte trapelare da “Wikileaks” [nel 2012, ndt] e a cui “Pública” ha avuto accesso – dimostrano che il fondatore dell’organizzazione [Julian Assange, ndt] ha sempre avuto rapporti con gli analisti di “Stratfor”, una società statunitense che ‘mescola’ giornalismo, analisi politica e metodi di spionaggio per vendere “analisi di intelligence” a clienti che includono aziende come Lockheed Martin, Raytheon, Coca-Cola e Dow Chemical – per monitorare le attività dei loro oppositori ambientalisti – oltre alla U.S. Navy (la Marina Militare degli tati Uniti).
Il “Canvas” (“Center for Applied Nonviolent Action and Strategies”,
“Centro per l’applicazione delle strategie nonviolente”) è stato fondato da due leader studenteschi serbi che hanno partecipato alla vittoriosa rivolta che ha rovesciato il ‘dittatore’ Slobodan Milosevic nel 2000.
Per due anni gli studenti hanno organizzato ‘proteste creative’, marce e numerosi atti che hanno finito per destabilizzare il regime.
Hanno poi fatto di queste esperienze un manuale e si sono messi ad insegnare a diversi ‘gruppi di opposizione’ di vari Paesi come organizzarsi per sconfiggere il proprio governo.
Così è stato anche in Venezuela, dove hanno cominciato a formare i leader dell’opposizione già dal 2005.Nellasuatrasmissionetelevisiva, l’allora Presidente venezuelano Hugo Chávez aveva accusato il gruppo di studenti di volere un ‘colpo di Stato’ e di essere al servizio degli Stati Uniti. “Questo si chiama ‘colpo di Stato morbido’”, aveva detto Chavez.
I successivi documenti analizzati da “Pública” hanno dimostrato che se Chavez non aveva ragione al 100%, non aveva neanche del tutto torto.
Gli inizi in Serbia “Ci sono voluti dieci anni di organizzazione studentesca durante gli anni ’90”, ha detto Ivan Marovic, uno degli studenti che hanno partecipato alle proteste contro il governo di Milosevic, ma che non ha legami con il gruppo “Canvas”.
“Alla fine, il sostegno dall’estero è venuto fuori. Sarei sciocco a negarlo. Questi aiuti hanno giocato un ruolo importante nella fase finale delle proteste. Sì, gli Stati Uniti hanno dato soldi, ma un po’ tutti hanno dato denaro: i tedeschi, i francesi, gli spagnoli, gli italiani. Tutti collaboravano perché nessuno sosteneva Milosevic”, ha detto Marovic.
“A seconda del Paese hanno donato in una certa quantità. Gli americani hanno un ‘braccio’ operativo formato da diverse ONG molto attive nel sostenere determinati gruppi, altri Paesi come la Spagna ci hanno sostenuto tramite il Ministero degli Esteri”. Tra le ONG citate da Marovic ci sono il “National Endowment for Democracy” (NED), un’organizzazione finanziata dal Congresso degli Stati Uniti, la “Freedom House” e l’”International Republican Institute”, quest’ultimo legato al Partito Repubblicano – entrambi ricevono ingenti finanziamenti dall’USAID, l’agenzia di sviluppo degli Stati Uniti che ha guidato i movimenti ‘golpisti’ in America Latina negli anni ’60, compresi Paesi come il Brasile.
Tutte queste ONG sono ‘vecchi amici’ dei governi latino-americani, tra cui anche i più recenti. L’IRI, peresempio, ha fornito “corsi di formazione politica” per 600 leader dell’opposizione haitiana nella Repubblica Dominicana durante gli anni 2002 e 2003.Il ‘colpo di Stato’ contro Jean-Bertrande Aristide, Presidente eletto democraticamente, ha avuto luogo infatti nel 2004. Indagato dal Congresso degli Stati Uniti, l’IRI è stato accusato di essere dietro due organizzazioni cospirative che avevano come fine quello di rovesciare Aristide.
In Venezuela, il NED ha inviato 877.000 dollari a ‘gruppi di opposizione’ nei mesi precedenti il fallito ‘colpo di Stato’ del 2002,comerivelatodal “NewYorkTimes”.
In Bolivia,secondodocumenti del governo degli Stati Uniti ottenuti dal giornalista Jeremy Bigwood, collaboratore di “Pública”, l’USAID ha mantenuto un “Ufficio per iniziative di transizione” che ha investito 97 milioni di dollari in progetti di “decentramento” e di “autonomie regionali” dal 2002, per rafforzare le amministrazioni statali che si opponevano a Evo Morales.
Raggiunto da “Pública”, il leader di “Canvas”, Srdja Popovic, ha detto che l’organizzazione non ha ricevuto alcun finanziamento governativo da alcun Pese e il suo principale finanziatore è [stato] l’uomo d’affari serbo Slobodan Djinovic, che era anche un leader studentesco.
Tuttavia, in una presentazione di “PowerPoint” dell’organizzazione rilasciata da “Wikileaks”, si sostiene che partner di “Canvas” e IRI sia la “Freedom House”, che riceve a sua volta ingenti finanziamenti dall’USAID. Per il ricercatore Mark Weisbrot del “Center for Economic and Policy Research” di Washington, organizzazioni come l’IRI e la “Freedom House” “non promuovono affatto la democrazia”.
“Per la maggior parte del tempo esse promuovono l’esatto contrario. Generalmente sostengono le politiche degli Stati Uniti in altri Paesi, e ciò significa opposizione a governi di sinistra, ad esempio, o a governi che non sono graditi agli Stati Uniti”. Fase due: dalla Bolivia all’Egitto
Guardando la stessa presentazione di “PowerPoint”, impressionano le performance del “Canvas”. Tra il 2002 e il 2009 esso ha tenuto 106 seminari, raggiungendo 1.800 partecipanti provenienti da 59 Paesi diversi.
Non si tratta solo di obiettivi “sensibili” per gli americani – il “Canvas” ha addestrato ad esempio “attivisti” anche in Spagna, Marocco e Azerbaigian – ma l’elenco comprende molti di questi Paesi-obiettivo: Cuba, Venezuela, Bolivia, Repubblica dello Zimbabwe, Bielorussia, Corea del Nord, Siria e Iran.
Secondo lo stesso “Canvas”, il suo coinvolgimento è stato importante in tutte le cosiddette “rivoluzioni colorate” che si sono succedute nei Paesi dell’ex-Unione Sovietica negli anni 2000.
Il documento indica come “casi di successo” il “trasferimento di conoscenze operative“ al movimento “Kmara” nel 2003 in Georgia, il gruppo che ha lanciato la “Rivoluzione delle rose” e che rovesciò l’allora Presidente; diede un “piccolo aiuto” anche alla “Rivoluzione arancione” nel 2004 in Ucraina; istruì “gruppi di formazione” che hanno fatto la cosiddetta “Rivoluzione dei cedri“ nel 2005 in Libano; ha sostenuto diversi progetti delle ONG in Zimbabwe e la coalizione di opposizione a Robert Mugabe; ha curato l’addestramento di attivisti in Vietnam, Tibet cinese e Birmania, così come progetti in Siria e in Iraq rivolti a “gruppi pro-democrazia”.
E, in Bolivia, si è occupato di “preparare le elezioni del 2009 con i gruppi di Santa Cruz” – conosciuto come il più arcigno gruppo di opposizione a Evo Morales.
Fino al 2009, il principale manuale di addestramento del gruppo, “Lotta nonviolenta – 50 punti importanti” era stato tradotto in cinque lingue, compresi l’arabo e farsi.
Una delle azioni del gruppo “Canvas” che ha guadagnato maggior visibilità è stato l’addestramento della leadership del “Movimento 6 aprile”, considerato l’embrione della cosiddetta “primavera egiziana” [del 2011, ndt].
Il movimento è stato organizzato inizialmente su “Facebook” per protestare in solidarietà ai lavoratori tessili della città di Mahalla al Kubra, sul Delta del Nilo. Era la prima volta che si utilizzava il noto social network per scopi del genere in Egitto. A metà del 2009 Mohammed Adel, uno dei leader del “Movimento 6 aprile” si è recato a Belgrado per essere “istruito” da Popovic. Nelle e-mail intercorse con gli analisti della “Stratfor”, Popovic si vantava di mantenere rapporti con i leader di quel movimento, e in particolare con Mohammed Adel – che si è rivelato poi essere una delle principali fonti di informazione sulla “rivolta” in Egitto del 2011. Nelle comunicazioni interne della “Stratfor”, egli è citato con il nome in codice di “RS501”.
“Abbiamo appena parlato con alcuni dei nostri amici in Egitto e abbiamo scoperto un paio di cose”,informa il 27 gennaio 2011. “Domani la ‘Fratellanza Musulmana’ porterà i suoi sostenitori nelle strade, allora la situazione potrebbe essere ancora più drammatica… Abbiamo ottenuto informazioni più precise su questi gruppi e sul modo in cui si sono organizzati nei giorni scorsi, ma stiamo ancora cercando di mapparli”.
I documenti della “Stratfor”
I documenti fatti trapelare da “Wikileaks” mostrano come il “Canvas” si comporti meno indipendentemente di come voglia apparire. In almeno due occasioni, Srdja Popovic ha scritto via e-mail di aver partecipato a riunioni del “National Security Council”, il “consiglio di sicurezza” del governo statunitense. La prima riunione menzionata ha avuto luogo il 18 dicembre 2009 e il tema in oggetto erano la Russia e la Georgia.
A quel tempo faceva parte del “National Security Council” il ‘grande amico’ di Popovic – secondo le sue stesse parole -, il consulente senior di Obama per la Russia, Michael McFaul, poi ambasciatore degli Stati Uniti a Mosca fino al 2014. Nella stessa riunione, come riportato da Popovic successivamente, si discusse del finanziamento degli oppositori in Iran attraverso “gruppi pro-democrazia”, tema di speciale interesse per Popovic. “La politica verso l’Iran è curata all’interno dell’NSC da Dennis Ross.
Egli stava acquisendo un crescente ruolo in merito all’Iran nel Dipartimento di Stato sotto il segretario-assistente John Limbert.
I finanziamenti per i programmi “pro-democrazia” in Iran erano aumentati da 1,5 milioni di dollari nel 2004 a 60 milioni di dollari nel 2008 (…).
Dopo il 12 giugno 2009 il National Security Council ha deciso di terminare gli effetti dei programmi esistenti, che avevano avuto inizio con Bush.
A quanto pare la logica era che gli Stati Uniti non desideravano essere individuati mentre tentavano di interferire nella politica interna dell’Iran. Gli Stati Uniti non volevano dare al regime iraniano una scusa per rigettare i negoziati sul programma nucleare”, ha affermato il serbo, poiché l’amministrazione Obamastavaagendocome “un elefante in un negozio di porcellane” con la sua nuova politica estera.
“Come risultato, il “Centro di documentazione sui diritti umani in Iran”, la “Freedom House”, l’IRI e l’IFES videro le loro richieste di finanziamento rigettate”, scrive Popovic in un’ e-mail ai primi di gennaio del 2010.
Un’altra riunione del NSC a cui Popovic partecipò sarebbe avvenuta alle ore 17 del 27 luglio 2011, come Popovic ha riferito all’analista Reva Bhalla.
“Questi ragazzi sono fantastici”, ha commentato entusiasta in un’e-mail l’analista di “Stratfor” per l’Europa orientale, Marko Papic. “Aprono un ufficio in un Paese e tentano di rovesciarne il governo. Quando ben utilizzate, queste sono armi più potenti di un battaglione dell’Air Force”.
Marko spiega ai suoi colleghi di “Stratfor” che il centro “Canvas” – nelle sue parole, un gruppo di “esportatori di rivoluzioni” – “dipende ancora nel finanziamento dagli Stati Uniti e fondamentalmente interviene tentando di rovesciare dittatori e governi autocratici (cioè quelli che non sono graditi agli Stati Uniti)”. Il primo contatto con il leader del gruppo, che diventerà la sua punta più testarda, ha avuto luogo nel 2007. “Da allora hanno prodotto ‘intelligence’ su Venezuela, Georgia, Serbia ecc.”.
In tutte le e-mail, Popovic dimostra grande interesse per lo scambio di informazioni con lo “Stratfor”, che egli chiama “la CIA di Austin”.
Per questo, il centro “Stratfor” è presente nei contatti degli attivisti in differenti Paesi. Oltre che a mantenere rapporti con una società dello stesso filone ideologico, in quel rapporto si stabilivano proficui scambi di informazioni. Ad esempio, a maggio del 2008 Marko dice a Popovic di sapere che l’intelligence cinese stava considerando di attaccare l’organizzazione per il suo lavoro con gli attivisti tibetani. “Questo è stato già previsto”, gli risponde Srdja.
Il 23 maggio 2011 egli chiede informazioni sull’autonomia regionale dei curdi in Iraq.
Il Venezuela
Uno dei temi più frequenti nelle conversazioni con gli analisti dello “Stratfor” è il Venezuela. Srdja aiuta gli analisti a capire che cosa sta pensando l’opposizione. Tutte le comunicazioni, scrive Marko Papic, sono costituite da e-mail sicure e crittografate.
Sempre nel 2010, il leader del “Canvas” si è recato nella sede della “Stratfor” ad Austin per relazionare sulla situazione venezuelana. “Quest’anno dobbiamo aumentare definitivamente le nostre attività in Venezuela”, spiega il serbo in un’e-mail di presentazione della sua “Analisi sulla situazione in Venezuela,” il 12 gennaio 2010.
Per le elezioni del settembre dello stesso anno, egli riferisce che “siamo in stretto contatto con gli attivisti e le persone che stanno cercando di aiutarli”, chiedendo che l’analista non diffonda o pubblichi questa informazione. Il documento, inviato per e-mail, sarebbe stato “la base della nostra analisi su ciò che abbiamo intenzione di fare in Venezuela”. Il giorno dopo, ripete in un’altra e-mail: “Per spiegare il piano d’azione che inviamo, diciamo che si tratta di una guida su come fare una rivoluzione”. Il documento, al quale “Pública“ ha avuto accesso, è stato scritto all’inizio del 2010 dal “dipartimento di analisi” dell’organizzazione e riporta, oltre ai principali supporter di Chavez, anche l’elenco delle principali istituzioni e organizzazioni che fungono da sostegno al governo ‘chavista’ (tra i quali l’esercito, la polizia, la magistratura, le industrie nazionali, il corpo insegnanti e il consiglio elettorale), i principali leader con i quali poter creare una coalizione efficace e i suoi “potenziali alleati” (tra cui gli studenti, la stampa indipendente e quella internazionale, i sindacati, la confederazione venezuelana degli insegnanti, il “Rotary Club” e la Chiesa cattolica). Alla fine, le indicazioni del “Canvas” sembrano essersi rivelate abbastanza esatte. Tra i principali leader dell’opposizione che sarebbero stati in grado di unificarla era indicato Henrique Capriles Radonski, governatore di Miranda e candidato dell’opposizione alle elezioni presidenziali di ottobre [2012] della Mesa de Unidade Democratica [il raggruppamento dell’opposizione al governo di Chavez dell’epoca, ndt], oltre al Sindaco del Distretto Metropolitano di Caracas, Antonio Ledezma, e all’ex sindaco di Chacao, Leopoldo Lopez Mendoza.
Due leader studenteschi, Alexandra Belandria, del gruppo “Cambio”, e Yon Goicochea, del “Movimento Studentesco Venezuelano”, sono anch’essi menzionati. L’obiettivo della strategia, riporta il documento, è “fornire la base per una pianificazione più dettagliata e potenzialmente realizzabile da parte delle componenti interessate e dal centro ‘Canvas’”. Questo piano “più dettagliato” sarebbe stato sviluppato successivamente con “le parti interessate”.
In un’altra e-mail, Popovic spiega: “Quando qualcuno chiede il nostro aiuto, come è il caso del Venezuela, di solito chiediamo ‘come si dovrebbe fare per fare questo?’ (…). In questo caso abbiamo tre campagne in corso: l’unificazione dell’opposizione, la campagna per le elezioni di settembre (…). In circostanze NORMALI, gli attivisti vengono e si uniscono al nostro lavoro in un formato “workshop”. Noi semplicemente li guidiamo, a ciò dà grande efficienza al piano poiché gli attivisti lo creano essi stessi, si tratta di una loro creazione completa, in altre parole, è un lavoro autentico. Noi semplicemente diamo loro gli strumenti per poterlo realizzare”.
Ma con il Venezuela la situazione è stata differente, e Popovic lo spiega: “Nel caso del Venezuela, a causa del completo disastro che si è verificato, il sospetto che circola tra i gruppi di opposizione e la disorganizzazione, abbiamo dovuto cominciare da zero. Se loro (gli analisti) procederanno a compiere i prossimi passi, ciò dipende esclusivamente da loro; in altre parole, se riconoscono che la mancanza di UNITÀ può fargli perdere le elezioni prima ancora che queste abbiano luogo”.
Coloro che hanno ricevuto questa relazione (come lo staff della “Stratfor”, ad esempio) potrebbero aver imparato che, secondo la logica dei pensatori del “Canvas”, i principali temi da affrontare da parte dell’opposizione venezuelana sarebbero dovuti essere:
– criminalità e mancanza di sicurezza: “La situazione peggiora drammaticamente dal 2006. Questo è un buon motivo per un cambiamento”.
– istruzione: “Il governo si sta prendendo cura del sistema educativo: gli insegnanti devono essere incoraggiati. Perderanno i loro posti di lavoro oppure si sottometteranno! Devono essere incoraggiati e ci sarà un rischio. Dobbiamo convincerli che le classi alte della società sono dalla nostra parte; essi hanno una responsabilità a cui noi diamo valore. Gli insegnanti devono motivare gli studenti. Chi li influenzerà? Come li raggiungeremo?”.
– gioventù: “Il messaggio deve essere rivolto ai giovani in generale, non solo agli studenti universitari”.
– economia: “Il petrolio del Venezuela non è di proprietà del governo, è proprietà della gente, è suo denaro, è un suo diritto! Programmi di welfare State”.
– donne: “Cosa vogliono le madri? Leggi di controllo? La polizia che agisce sotto il controllo delle autorità locali? Soddisferemo questo bisogno. Non vogliamo più banditi”.
– trasporti: “I lavoratori devono poter arrivare sul loro posto di lavoro. Il denaro è il loro. Dobbiamo chiedere responsabilità e, sia come sia, noi non possiamo farlo”.
– governo: “Redistribuzione della ricchezza, ognuno deve avere un’opportunità”.
– “C’è una forte tendenza presidenzialista in Venezuela. Come possiamo cambiare ciò? Come possiamo lavorare su questo punto?”.
E, alla fine, Popovic termina la sua e-mail con una dura critica nei confronti dei venezuelani, che articola così: “Inoltre, non esiste una cultura della sicurezza in Venezuela. Sono ritardati… è sembra tutto uno scherzo!”, riporta il sito “Pública”.
Contattato da “Pública”, il leader del “Canvas” ha negato che l’organizzazione elabori piani d’azione personalizzati per mettere in atto rivoluzioni. Ed era molto meno entusiasta della sua “guida” designata per il Venezuela.
“Insegniamo alla gente come analizzare e comprendere i conflitti non-violenti e – durante il processo di apprendimento – chiediamo che gli studenti e i partecipanti utilizzino gli strumenti che noi forniamo loro durante il corso. Anche noi impariamo da loro! Poi mettiamo insieme il lavoro da loro realizzato con informazioni pubbliche per creare dei “case studies” (‘studi di caso’). E questi vengono trasformati a loro volta in analisi più articolate da parte di due stagisti.
Noi usiamo queste ricerche e le condividiamo con altri studenti, attivisti, ricercatori, professori, organizzazioni e giornalisti con i quali collaboriamo – e che sono interessati a comprendere i fenomeni di empowerment della gente”.
A domanda, Popovic ha anche risposto sulle critiche mossegli da Hugo Chavez nel suo spettacolo televisivo: “È una formula ben nota… Per decenni i regimi autoritari in tutto il mondo hanno indicato nei “tentativi di esportazione della democrazia” la principale causa delle rivolte che avevano atto nei loro Paesi.
Il movimento “pro-democrazia” serbo era stato accusato di essere uno strumento chiaro nelle mani degli Stati Uniti dalla TV di Stato e da Milosevic, anche prima che quel governo fosse sconfitto dagli studenti. Ciò è avvenuto anche in Iran, Zimbabwe, Bielorussia…”.
Un ex-collega del movimento studentesco, Ivan Marovic – che tiene conferenze su come la rivolta in Serbia abbia detronizzato Milosevic e che però non ha collegamenti con il “Canvas” – concorda con lui: “È impossibile esportare una Rivoluzione. Io dico sempre nelle mie conferenze che la cosa più importante per un cambiamento sociale ben riuscito è avere la maggioranza della popolazione al proprio fianco. Se il Presidente ha la maggioranza al suo fianco, nulla accadrà”.
Tuttavia, Marovic ritiene che si è verificato un cambiamento nel modo in cui i governi occidentali vedono gli “appartenenti alle ONG”, specialmente negli Stati Uniti, dopo la rivoluzione serba del 2000 e le “rivoluzioni colorate” che sono seguite in Europa orientale.
“Un mese dopo che abbiamo abbattuto Milosevic, il ‘New York Times’ ha pubblicato un articolo in cui affermava che chi ha davvero sconfitto Milosevic è stato il sostegno finanziario statunitense. Stanno aumentando il loro ruolo. E ora credono che i soldi americani possano rovesciare i governi. Hanno provato a fare lo stesso in Bielorussia, inviando una grande quantità di denaro alle ONG, ma non ha funzionato”.
Il ricercatore Mark Weisbrot concorda parzialmente con Marovic. Nessun gruppo straniero, anche se piccolo, può provocare da solo una rivoluzione in un Paese. Per lui, non è il denaro del governo nordamericano che fa la differenza – le ONG finanziate tramite il National Security Council, l’USAID o il Dipartimento di Stato.
“L’elite venezuelana non ha bisogno di soldi. Quello di cui questi gruppi finanziati dagli Stati Uniti (in passato fino ad oggi) hanno bisogno sono: 1) la capacità e la conoscenza per poter sovvertire i regimi; 2) saper avere un ruolo unificante; l’opposizione può presentarsi divisa e loro devono saperla unificare”.
Per lui, molte volte gli Stati Uniti hanno sponsorizzato una “influenza perniciosa” su movimenti legittimi. “Troveremo sempre persone che lottano per la democrazia in questi Paesi, con una varietà di richieste, di riforme territoriali, di protezione sociale, di nuovi posti di lavoro… E accade che essi guidino tutto il movimento dando molti soldi, e si ispirino a politiche a cui sono interessati gli Stati Uniti. Spesso i gruppi ‘democratici’ che ricevono i finanziamenti finiscono in disgrazia”.