RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI 21 OTTOBRE 2022
A cura di Manlio Lo Presti
Esergo
I beni e i mali estremi non si rivelano alle anime mediocri.
VAUVENARGUES, Riflessioni e massime, Sansoni, 1949, pag. 115
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SOMMARIO
UCRAINA, LA GUERRA E LA STORIA
UNDICI DOMANDE AGLI ATLANTISTI
Il neoliberismo privatizza la sinistra
La NATO accelera l’invio di armi ed equipaggiamenti in vista dell’inverno
Gli USA e il saccheggio della Siria
Un mondo di pazzi
“Distacchi di corrente nelle case”. Cattaneo svela i piani segreti del governo: Ecco come e quando
DIVENTA STITICO
La guerra come automatismo di de-globalizzazione
Cosa succederà nella guerra elettrica in Ucraina
L’ANTI-CLAUSEWITZ
LE TRUPPE DELL’IMPERO
Trauma e ferita nel dialogo tra Catherine Malabou e Slavoj Žižek
Autopoiesi e totalitarismo
Come finirà la guerra in Ucraina?
Ucraina: la guerra di Putin, la guerra di Biden
Free Julian Assange
LO S.C.O. A SAMARCANDA PER UN MONDO MULTIPOLARE
Agenzie di rating: riecco le tre moschettiere! Ne sentivamo la mancanza…
Per salvare l’Europa servirà una crisi in Italia
La terapia d’urto sull’economia mondiale
L’ONU ESISTE ANCORA?
L’IRAN: L’ALTRO OCCIDENTE
Cina: Il terzo mandato di Xi – parte seconda: proprietà, debito e prosperità comune
PSICOTOPO PRIMA PUNTATA: IL RATTO GIGANTE PUO’ COLONIZZARE L’EUROPA
EDITORIALE
UCRAINA, LA GUERRA E LA STORIA
di Manlio Lo Presti (scrittore esperto di sistemi finanziari)
Il tema della guerra russo-ucraina si conferma di grande attualità, mentre non si parla degli oltre duecento conflitti regionali in corso in tutto il pianeta. Una certa stampa occidentale ha affermato che la sovraesposizione di questa guerra è giustificata dal fatto che si sta svolgendo alle porte dell’Europa. Ma allora perché quella combattuta in Donbass e nelle zone vicine nel 2014, con oltre quindicimila vittime fra i civili, non ha avuto una simile risonanza pur svolgendosi negli stessi luoghi? Due celebri Autori, il prof Franco Cardini (storico di fama mondiale) ed il generale Fabio Mini (già Capo di Stato Maggiore del Comando Nato in Europa), hanno dato risposte esaurienti a questa domanda. Non si tratta di autori complottisti, nazionalisti, fascisti ma di persone che cercano di ragionare grazie alla loro vastissima esperienza accademica e professionale. Questi Autori di massimo livello fanno esplicito cenno all’auto-attribuzione degli americani ad un loro “destino manifesto”, di cui si sono investiti per giustificare l’esportazione della democrazia nel mondo: anche con le armi, la violenza, la subornazione, le rivoluzioni colorate, le sanzioni che fanno scomparire il vero portato simbolico, culturale e civile della democrazia. Non nascondono il ruolo reale della Nato. Si sono domandati perché, una volta scomparso il Patto di Varsavia, non si sia chiusa la struttura “difensiva” della Nato che aveva la sua ragione d’essere nella contrapposizione ad un avversario (che di fatto non esisteva più). Patti ci furono tra gli statunitensi e Kruscev, documentati rigorosamente dalla registrazione dei loro colloqui: dove gli americani promettevano di non allargare ulteriormente la loro presenza in Europa. La promessa, racconta il libro con dovizia di particolari, fu disattesa platealmente, quindi la Nato si è evoluta da struttura difensiva a struttura aggressiva. Gli eminenti Autori non disdegnano di fornire ampi dettagli storici sui bombardamenti effettuati dalla Nato in Serbia, senza preventiva autorizzazione dell’Onu (pag. 42); poi le drammatiche vicende della Polonia di Pilsudski legate ai progrom ucraini; quindi la persecuzione dei nazisti ucraini da parte di Stalin (pag. 44), nazisti ucraini che fecero stragi di civili russi a fianco dell’esercito germanico durante l’Operazione Barbarossa che infranse il Patto Molotov-Ribbentrop sottoscritto il 23 agosto 1939. Il testo procede in modo serrato alla narrazione della storia delle vicende russo ucraine, con uno stile molto chiaro che non concede spazi ad interpretazioni ambigue o a polemiche di parte. Cardini e Mini focalizzano l’importanza del Protocollo di Minsk sottoscritto da russi, ucraini nel Donbass il 5 settembre del 2014, con la Nato che ribadiva la promessa fatta nel 1991 di non allargarsi ulteriormente ad Est (pag.64). Come nelle occasioni precedenti, il protocollo fu totalmente disatteso dagli americani. Con l’avvento di Zelensky si intensificarono dal 2015 le azioni repressive e gli stermini contro le popolazioni di lingua russa, come affermato senza mezzi termini anche da Sergio Romano: un diplomatico che non può essere definito un complottista, fascista, nazionalista, ecc… (pag. 65). Il libro continua la sua incalzante narrativa evidenziando gli aspetti più ignobili della guerra psicologica particolarmente raffinata in questa guerra russo-ucraina quando viene enfatizzata la diffusione di notizie solo di parte ucraina (pag. 102), e mediante il massiccio utilizzo di tecniche standard di comunicazione e di marketing: una “propaganda che “sia l’unica a disposizione della gente e degli stessi analisti della guerra” (sempre pag. 102). Si sanzionano ferocemente coloro che esprimono un pensiero diverso e/o che sollevano dubbi. Unilateralmente, si minacciano e si sanzionano interi popoli. L’equidistanza informativa delle fonti, che dovrebbe essere alla base di un corretto giornalismo d’inchiesta, è stata azzerata con “otto anni di silenzi su quanto accadeva nel Donbass” (pag. 108). La propaganda è infarcita di filmati, notizie, interviste a persone in quadri totalmente privi di contesto e di cui è impossibile verificare l’autenticità Il libro recita: “Dopo un mese di bombardamento mediatico, sull’aggressione militare, la “propaganda di guerra” ucraina e occidentale si è trovata a corto di morti” (pag. 110). Si sono registrati 30 morti al giorno su una popolazione di 40 milioni di abitanti. Meno di qualsiasi Paese occidentale in guerra” (sempre pag. 110). Altro inciso testuale dei due Autori:” Era a corto di disastri nucleari … di fosse comuni … di bambini … (sempre pag. 102). Il libro evidenzia a seguire una propaganda anti-russa così violenta e martellante da non sembrare credibile. A tale proposito, possiamo leggere un brano del libro che recita. “Sono comparsi gli eccidi, le esplosioni, gli attentati, i crolli di palazzi, gli ospedali e le chiese, gli stupri etnici, i bambini menomati, i profughi trucidati e i missili sulle città. A Bucha i corpi straziati anche da evidenti segni di tortura erano ammassati non si sa da chi e nemmeno quando e perché, ma immediatamente addebitati come genocidio alla Russia” (pag. 111).
L’ordine di scuderia imposto a tutti i media del mondo è quello di impegnarsi totalmente a svergognare la Russia assassina contro i poveri ucraini che riescono ad infliggere perdite pesanti all’esercito russo, ma nessuno dei media ha a disposizione i resoconti numerici delle loro uccisioni perché oscurate, ovviamente. Un tema ignorato completamente dalla concertazione informativa planetaria è la guerra demografica nel corso della quale gli ucraini sono i più esposti, a causa delle massicce emigrazioni in Australia, USA, Nuova Zelanda (pag. 116). Il tasso di crescita è negativo (pag. 117) spinto anche dalle evacuazioni di massa promosse da Zelensky, ma che fanno comodo anche ai russi (pag. 119).
Si tratta di un testo dai contenuti molto diretti e spesso duri perché gli autori non temono di essere tacciati per fascisti, nazionalisti, razzisti. Grazie alla loro indiscussa fama mondiale, essi non temono le frecciate velenose scoccate con il solito strumentario diffamatorio di informatori “allineati e sottomessi” agli alti comandi.
Si tratta di un libro che dovrebbe indurre ad una riflessione equilibrata, che oltrepassi la propaganda ossessivamente ed esclusivamente anti-russa che non è credibile. La notevole documentazione storica, militare, strategica aiuterà il lettore ad adottare una visione più vasta della questione. La chiave di una interpretazione aperta si fonda sul livello di acculturazione storica e militare dei lettori, ma questo libro riesce a colmare egregiamente anche questa zona d’ombra.
Il libro si articola in undici capitoli per la parte curata dallo storico Franco Cardini e di sei capitoli scritti da Fabio Mini, ex generale supremo delle forze Nato in Europa.
Buona lettura.
FONTE: https://www.lapekoranera.it/2022/10/21/ucraina-la-guerra-e-la-storia/
IN EVIDENZA
Il neoliberismo privatizza la sinistra
- Scritto da Oleg Yasinsky
“Se non puoi battere il tuo nemico, unisciti a lui”, recita un detto ereditato dai poteri forti fin dai tempi antichi. All’interno della grande battuta d’arresto storica, che sarà ricordata dagli antropologi del futuro come neoliberismo, c’è poco di salvabile. Quando il sistema mondiale capitalista è riuscito a distruggere il suo principale nemico, l’Unione Sovietica, e ai suoi popoli, con tutta la loro bellezza umana e totale ingenuità politica, è stata venduta la falsità dell'”economia sociale di mercato” e il brutale laboratorio cileno di Pinochet, grazie alle favole dei media, è diventato il principale modello da seguire per i governi, il grande progetto umanista della sinistra mondiale è stato praticamente messo fuori gioco.
Al di là delle occasionali resistenze eroiche in un angolo o nell’altro, il neoliberismo si è impadronito di tutto e, al di là del crimine economico, che è diventato l’unica logica di sviluppo, per garantire l’irreversibilità del suo trionfo, si è dedicato a distruggere le culture e le memorie dei popoli, trasformando l’istruzione, l’arte e il pensiero prima in una merce e poi eliminandoli come non necessari. Per dominarci bene e in sicurezza, dovevamo essere idiotizzati.
Ma sulla soglia tra i nostri secoli accadde qualcos’altro. Se nei decenni precedenti, all’interno della competizione ideologica di due sistemi, che altro non era se non una guerra mondiale di intensità mutevole, ibrida, come si direbbe ora, il capitalismo era ancora produttivo, generava ancora una distribuzione accettabile delle risorse nei Paesi della metropoli, e nonostante il consueto brutale sfruttamento delle risorse della sua enorme periferia, manteneva il suo appeal per una buona parte della popolazione, a causa dei livelli di benessere materiale e delle libertà individuali, almeno nei Paesi più ricchi. Le persone potrebbero almeno, in teoria, scegliere tra i vantaggi e gli svantaggi di entrambi i sistemi.
Con la scomparsa dei “socialismi reali” in Europa, è venuto meno uno dei principali stimoli della logica capitalistica – la concorrenza – e poiché l’opzione socialista ha cessato di apparire come una possibilità storica e una minaccia per le potenze dell’Occidente, è logico che i guadagni sociali anche nei Paesi più ricchi si siano ridotti, aprendo la strada a uno sfruttamento illimitato come sogno dei sostenitori della “fine della storia”.
Allo stesso tempo, con la rivoluzione digitale, la speculazione finanziaria internazionale ha superato di gran lunga il capitale produttivo nazionale. Generare beni reali è diventato sempre meno redditizio e con lo sviluppo della gestione dell’immagine e della psicologia umana, la televisione, internet e i social network nelle mani dei soliti, solo in un paio di decenni sono serviti alle nostre tavole un mondo parallelo, una perfetta fuga dall’insopportabile realtà, con la promessa di un angolo felice per chi si comporta bene.
I politici tradizionali, gli statisti, sono stati rapidamente sostituiti da manager tecnocratici al servizio delle grandi aziende, il cui unico requisito è quello di non saper distinguere tra un’azienda e un Paese, che sono praticamente la stessa cosa.
Per garantire il suo trionfo, al neoliberismo rimanevano solo gli ultimi quattro compiti: il primo, la distruzione dell’istruzione pubblica, dove nel mondo precedente i cittadini apprendevano le basi di questo mondo e che tradizionalmente erano i punti focali della dissidenza sociale e del pensiero critico. Il secondo, porre fine alla comunicazione diretta tra gli esseri umani, rompendo il tessuto sociale tradizionale, funzione che nelle grandi città è stata assolta dai social network, con l’illusione di unire, disunire e renderci dipendenti. La terza, strettamente legata alla precedente, che è la distruzione delle nostre culture locali, generando una nuvola globale cosmopolita in cui consumeremo solo un tipo di produzione culturale creata e controllata da loro, qualcosa che definisce i valori, i modelli e le abitudini sociali delle generazioni a venire, permettendoci così di essere manipolati in modo semplificato e uniforme. E l’ultimo, quarto compito, era forse il più delicato: cosa fare con coloro che si dichiarano di sinistra e che, con le loro lotte, le loro organizzazioni, le loro conoscenze e il loro occhio critico da sempre, dovrebbero essere in grado di impedire la realizzazione di questi piani?
Il grande computer che è il cuore e il cervello tecnocratico del sistema neoliberale ha dato una risposta molto semplice: il furto, che è la specialità e la competenza del sistema, che in questa fase non può offrire all’umanità assolutamente nulla di nuovo, nemmeno un’illusione. E mentre i nostri dogmatici continuavano la loro eterna e sempre più sterile discussione su Trotsky, Stalin e Mao, il sistema neoliberale si è appropriato dell’agenda della sinistra, tutto in una volta, privatizzando l’intero pacchetto di tutte le lotte di generazioni e generazioni.
Negli ultimi anni della sua vita, Fidel Castro ci ha avvertito che l’unica cosa che può far fallire l’umanità nella sua lotta contro il capitalismo è la “lumpenizzazione” che il capitalismo produce in tutti gli strati sociali. Una “lumpenizzazione” che ci disumanizza e ci impedisce di comprendere il significato di questa lotta.
Questa “lumpenizzazione” è stata l’obiettivo delle politiche educative e culturali degli ultimi decenni, quando materie scolastiche come la storia o la filosofia sono state dichiarate superflue e la televisione ci ha abituato a un fast food intellettuale, sempre condito con certe dosi di veleno ideologico anticomunista.
Poiché l’avversario è molto professionale, non abbiamo visto il momento della rapina. Ci siamo svegliati solo quando abbiamo capito che le nostre bandiere erano già da tempo in mano al nemico. La nostra storica lotta per i diritti delle donne si trasforma in un femminismo aggressivo, che minaccia il mondo con la guerra dei sessi, la difesa della dignità e dei diritti delle minoranze sessuali si trasforma in uno spettacolo indegno e autoritario che potrebbe essere la cattedra dell’ipocrisia e della mancanza di rispetto, la lotta vitale per difendere il nostro pianeta dalla voracità del sistema è guidata e promossa da corporazioni verdi, pronte a investire milioni per salvare qualsiasi piccolo scarafaggio o girino, tranne l’essere umano.
L’imposizione di ossimori come “economia sociale di mercato”, “sviluppo capitalistico sostenibile” o “guerre umanitarie” continua ad abbattere i cervelli dei cari telespettatori, che non hanno più nemmeno gli elementi più elementari per mettere insieme la realtà frantumata all’interno dell’enorme cratere generato dalla cometa neoliberista che si è schiantata sul nostro pianeta. Le vere lotte per i diritti un tempo univano sempre le persone. Le lotte di oggi, guidate dal sistema, ci disuniscono. La dichiarazione di tolleranza promuove l’ipocrisia, la sfiducia e l’odio.
È ridicolo ora ricordare le nostre critiche alle società socialiste per i loro due pesi e due misure, che un tempo ci indignavano così tanto. Gli standard odierni, costruiti sulle sabbie mobili del relativismo, dell’ignoranza e soprattutto dell’arroganza, promossi dal sistema occidentale, sono molteplici. Sono pieni di contraddizioni che nessuno vede, perché non sappiamo guardare con i nostri occhi.
In questo grande reset nulla è nascosto, la manipolazione, la gestione e l’autoritarismo sono completamente aperti, solo che nessuno vuole vedere, per paura, disagio o semplicemente perché non sa distinguere forme e colori.
Le masse indignate pronte a scendere in piazza in diverse parti del pianeta, migliaia di giovani che con coraggio e sacrificio sono pronti a lottare per un mondo più giusto, non sanno che il sistema nel suo machiavellico calcolo ha già preparato per loro il nuovo Boric o Zelenski, in modo che cambiando tutto non cambi nulla, perché tutte le lotte “per tutto il bene e contro tutto il male” promosse dal sistema e dai suoi portavoce, sono sempre una trappola per aprire il coperchio, far uscire un po’ di vapore e far tornare le persone lasciandole dentro la stessa pentola.
In questo grande reset nulla è nascosto, la manipolazione, la gestione e l’autoritarismo sono completamente aperti, solo che nessuno vuole vedere, per paura, disagio o semplicemente perché non sa distinguere forme e colori.
Le masse indignate pronte a scendere in piazza in diverse parti del pianeta, migliaia di giovani che con coraggio e sacrificio sono pronti a lottare per un mondo più giusto, non sanno che il sistema nel suo machiavellico calcolo ha già preparato per loro il nuovo Boric o Zelenski, in modo che cambiando tutto non cambi nulla, perché tutte le lotte “per tutto il bene e contro tutto il male” promosse dal sistema e dai suoi portavoce, sono sempre una trappola per aprire il coperchio, far uscire un po’ di vapore e far tornare le persone lasciandole dentro la stessa pentola.
Dobbiamo ricordare che le lotte culturali ed etiche non possono che essere parte di un progetto molto più profondo di cambiamento politico. E questo progetto è impossibile senza un’organizzazione di cittadini con un proprio pensiero critico, autonomo e indipendente, rispettoso della conoscenza umana accumulata. Questa conoscenza critica non può essere sostituita da meme, hashtag e slogan radicali. Altrimenti, torneremo sempre allo stesso punto della risacca sociale, dove i proprietari del mondo avranno sempre i loro diversi manager, a seconda del gusto del cliente, sia esso conservatore, liberale, socialista o capitalista.
FONTE: https://www.altrenotizie.org/articoli/societa/9778-il-neoliberismo-privatizza-la-sinistra.html
La NATO accelera l’invio di armi ed equipaggiamenti in vista dell’inverno
Ottobre 21, 2022 posted by Giuseppina Perlasca
Gli Stati Uniti e i loro alleati della NATO stanno accelerando i trasferimenti di armi, indumenti caldi e tecnologia anti-drone all’Ucraina, in preparazione a mesi di aspri combattimenti durante l’inverno. Washington ritiene che il rafforzamento delle forze di prima linea prima dell’arrivo del fango e del ghiaccio aiuterà Kiev a mantenere il terreno nella prossima stagione.
Parlando a condizione di anonimato durante un recente vertice della NATO a Berlino, un funzionario occidentale ha dichiarato ai giornalisti che l’alleanza ha già iniziato a fornire l’equipaggiamento invernale, affermando che “gli ucraini sono in prima linea e si sentono certamente preparati per la campagna invernale” e che gli aiuti esteri sono attualmente “molto [concentrati] sull’inverno”.
Sebbene gli alti funzionari riconoscano che la neve, il fango e il ghiaccio dell’inverno rallenteranno i movimenti delle truppe, essi ritengono che Kiev possa continuare a portare avanti le controffensive per recuperare il territorio ora occupato dai soldati russi nonostante le temperature gelide.
“Mi aspetto che l’Ucraina continui a fare tutto il possibile durante l’inverno per riconquistare il suo territorio e per essere efficace sul campo di battaglia”, ha dichiarato il segretario alla Difesa statunitense Lloyd Austin dopo un incontro a Bruxelles la scorsa settimana.
Negli ultimi due mesi l’Ucraina ha guadagnato terreno dalle forze russe e sta avanzando in regioni che Mosca rivendica come proprio territorio. Il Presidente Vladimir Putin ha giurato di usare tutto il suo arsenale per difendere tutta la Russia, comprese le quattro regioni recentemente annesse all’Ucraina che hanno votato per unirsi alla Federazione Russa in referendum (internazionalmente contestati) il mese scorso. La tattica russa risiederà soprattutto nel fortificarsi sul terreno, contando sul fatto che il freddo bloccherà le azioni militari lasciando spazio agli attacchi strategici alle infrastrutture e alle trattative. Gli ucraini e la NATO punteranno comunque su azioni offensive.
Il Segretario generale della NATO Jens Stoltenberg ha fatto eco all’ottimismo di Austin sulle possibilità dell’Ucraina di fare progressi contro i russi durante la stagione fredda. “Il nostro compito è quello di consentire loro di condurre operazioni significative anche durante l’inverno, continuando a rifornirli di tutto, dal carburante all’abbigliamento invernale, dalle tende ai sistemi d’arma avanzati”, ha dichiarato.
Il problema è che, a questo punto, la guerra viene a cadere sulle spalle dei civili ucraini: se i soldati possono essere ben equipaggiati per il freddo, diversa è la situazione dei civili che si troveranno senza luce e senza elettricità in pieno inverno.
Kiev dipende fortemente dall’Occidente per l’addestramento dei suoi soldati e per la fornitura di armi, munizioni e informazioni sul campo di battaglia da quando le forze russe hanno invaso il paese a fine febbraio. In questo periodo, la Casa Bianca ha approvato almeno 70 miliardi di dollari in aiuti a Kiev, gran parte dei quali destinati ad armi e veicoli pesanti, tra cui piattaforme missilistiche multi-lancio a lungo raggio, pezzi di artiglieria, razzi a spalla, elicotteri e droni.
Sebbene le scorte di armi statunitensi si siano sempre più esaurite dopo innumerevoli spedizioni di armi, il flusso di aiuti sembra destinato a proseguire al ritmo attuale, con il Segretario Austin che ha recentemente dichiarato che Washington continuerà a “fare tutto il possibile per assicurarsi che abbiano ciò che è necessario per essere efficaci”.
FONTE: https://scenarieconomici.it/la-nato-accelera-linvio-di-armi-ed-equipaggiamenti-in-vista-dellinverno/
Gli USA e il saccheggio della Siria
di Mario Lombardo
Nel suo intervento alla recente sessione annuale dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, Joe Biden ha fatto riferimento, tra le altre cose, alla violazione dell’integrità territoriale dell’Ucraina da parte della Russia. Al Palazzo di Vetro, il presidente americano ha denunciato in maniera decisa il comportamento presumibilmente contrario al diritto internazionale del Cremlino. In Siria, tuttavia, gli Stati Uniti continuano anch’essi a occupare senza nessun fondamento legale, e nel disinteresse dei media ufficiali, una parte importante di territorio che conserva la maggior parte delle risorse alimentari ed energetiche del paese mediorientale. Nuovi elementi di prova sulle attività americane, condotte in quest’area in collaborazione con i curdi iracheni e siriani, sono state oggetto di una recente esclusiva della testata on-line indipendente The Cradle.
Ufficialmente, i circa 900 militari USA stanziati nel nord-est della Siria, nel quadro della cosiddetta “coalizione internazionale”, difendono un’area ricca soprattutto di petrolio dalla minaccia di ciò che resta dello Stato Islamico (ISIS).
La presenza americana risale al 2015 e, se fosse necessario ricordarlo, non è mai stata richiesta dall’autorità legittima del territorio occupato – il governo siriano – né, per quel che potrebbe comunque valere, ha ottenuto alcuna ratifica tramite un mandato specifico del Congresso di Washington.
Se nella guerra all’ISIS consisteva appunto inizialmente l’incarico ufficiale del contingente militare inviato in Siria, lo scopo reale delle forze USA era piuttosto la prosecuzione della campagna per il cambio di regime a Damasco e il tentativo di ostacolare il consolidamento delle forze della “Resistenza” in Siria, a cominciare dall’Iran e da Hezbollah. Da queste premesse, non stupisce che gli Stati Uniti abbiano più di una volta preso di mira con bombardamenti sia obiettivi militari siriani sia le forze di altri paesi che sostengono il governo di Assad.
Con l’arrivo di Trump alla Casa Bianca, si è poi intensificata un’altra attività a cui si dedica il contingente di occupazione USA, cioè il furto puro e semplice delle risorse del sottosuolo, in larga misura petrolio, della Siria. Damasco continua a denunciare questo stato di cose e recentemente ha stimato che nei primi mesi del 2022 i militari americani e le milizie curde hanno sottratto alla Siria e contrabbandato in media 66 mila barili di greggio al giorno, pari a oltre l’83% della produzione quotidiana di un paese tuttora flagellato da una gravissima crisi economica.
Solo nell’ultima decade di settembre, ha rivelato il ministero per il Petrolio siriano, le forze armate americane hanno fatto uscire clandestinamente dal paese più di 100 autocisterne cariche di greggio rubato. Dall’inizio della guerra nel 2011 la perdita stimata in termini di entrate per la Siria è stata superiore ai 107 miliardi di dollari.
L’indagine di The Cradle citata all’inizio è stata condotta in Iraq e si basa principalmente su fonti militari e della polizia di frontiera irachene. Gli Stati Uniti sono presenti militarmente in entrambi i lati di un confine iracheno-siriano che per centinaia di chilometri risulta di fatto al di fuori del controllo dei rispettivi governi. Almeno tre valichi di frontiera sono diventati lo snodo cruciale delle rotte del contrabbando di petrolio siriano, diretto verso la regione autonoma del Kurdistan iracheno con il coinvolgimento diretto e determinante delle forze armate americane.
Il reporter di The Cradle spiega come i droni americani pattuglino “regolarmente” i cieli della regione, mentre la sicurezza dei convogli è appaltata dai militari USA a compagnie private. I dipendenti di queste ultime, “che viaggiano su veicoli 4×4 con la copertura aerea americana, sono responsabili della sicurezza del trasporto del petrolio siriano in territorio iracheno”, anche se il loro incarico dovrebbe essere “esclusivamente di trasportare equipaggiamenti logistici per la coalizione internazionale” di stanza sia in Siria sia in Iraq.
Il greggio siriano viene recapitato alla base curda di al-Harir, nella capitale del Kurdistan iracheno Erbil, a disposizione della compagnia petrolifera curda KAR Group, di proprietà di Sheikh Baz Karim Barzanji, vicinissimo alla famiglia del numero uno del Partito Democratico del Kurdistan (KDP), Massoud Barzani. Quest’ultimo gode di ottimi rapporti con i governi di Turchia ed Emirati Arabi, nonché con le cosiddette Forze Democratiche Siriane, cioè le milizie curde che collaborano con le forze di occupazione americane nel contrabbando di petrolio appartenente alla Siria. La destinazione finale del greggio è oggetto di discussione, ma è probabile che a beneficiarne siano, tra gli altri, Turchia e Israele. Una prova di ciò potrebbe essere il bombardamento iraniano avvenuto lo scorso mese di marzo proprio dell’abitazione di Sheikh Baz Karim Barzanji, secondo un politico curdo sentito sempre da The Cradle dovuto alla vendita a Israele di petrolio e gas siriano da parte della sua compagnia.
Testimoni iracheni dell’attività di contrabbando curdo-americana affermano che ogni singolo convoglio conta dalle 70 alle 100 autocisterne cariche di petrolio siriano. L’itinerario percorso sotto la protezione USA inizia dalla regione di al-Jazira, per poi fare sosta presso la base americana di al-Hasakah e ripartire verso l’Iraq. Attraversato il confine, fuori dal controllo del governo centrale, il petrolio saccheggiato viene trasferito ad altre autocisterne nella già ricordata base curda di al-Harir. Da qui arriva infine alternativamente alla base militare americana di Ain al-Assad, nella provincia irachena di Anbar, o in quella situata nella provincia di Halabja.
The Cradle spiega che il passaggio del greggio nelle mani dei militari USA avviene solo dopo l’approvazione di uno speciale ufficio governativo iracheno, che si occupa però soltanto delle forniture logistiche destinate alla “coalizione internazionale” anti-ISIS. Il governo di Baghdad, sostiene il sito web libanese, “non è verosimilmente del tutto all’oscuro di queste ripetute violazioni della propria sovranità e integrità territoriale”, ma non ha in pratica nessuna voce in capitolo sulle attività di contrabbando gestite dagli americani.
È anche alla luce di questo sistema costruito da Washington con il pretesto della guerra al “terrorismo” che vanno giudicate le parole di Biden e del segretario di Stato, Anthony Blinken, nelle loro recenti apparizioni alle Nazioni Unite. Il già citato discorso del presidente americano all’Assemblea Generale invitava, con riferimento alla Russia, a non consentire “l’occupazione di un territorio [di un paese sovrano] con la forza”. Blinken aveva invece parlato al Consiglio di Sicurezza, assicurando che “il sostegno internazionale alla sovranità e all’integrità territoriale dell’Ucraina consiste nella protezione di un ordine internazionale nel quale nessuna nazione ha facoltà di ridisegnare i confini di un’altra con la forza”. Sempre che questa nazione non siano gli Stati Uniti o Israele.
Nella totale illegalità sia dal punto di vista del diritto internazionale sia da quello della legge americana, quindi, le forze armate USA non solo continuano a occupare una porzione di territorio di un paese sovrano, ma si assicurano di saccheggiarne le risorse e di ottenere profitti da esse. Per un breve periodo dopo il suo ingresso alla Casa Bianca, Trump aveva provato a ritirare il contingente americano dalla Siria, ma era stato immediatamente stoppato dai vertici militari, dall’intelligence e dalle pressioni degli ambienti “neo-con”.
Oggi, perciò, non è ancora in vista nessun disimpegno. Anzi, notizie recenti indicano addirittura un rafforzamento della presenza militare americana in questo paese. Qualche giorno fa, fonti locali hanno infatti osservato l’arrivo presso la base statunitense situata nella provincia siriana di al-Hasakah di nuove armi ed equipaggiamenti provenienti dall’Iraq. Il convoglio con i nuovi rifornimenti era composto da 33 veicoli pesanti e almeno un aereo cargo atterrato in territorio siriano il 26 settembre scorso.
FONTE: https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/24055-mario-lombardo-gli-usa-e-il-saccheggio-della-siria.html
ATTUALITÀ SOCIETÀ COSTUME
“Distacchi di corrente nelle case”. Cattaneo svela i piani segreti del governo: Ecco come e quando
di Gabriele Angelini 19/10/2022
Flavio Cattaneo, fondatore e vicepresidente di Italo, è stato ospite a “DiMartedì“, il programma condotto da Giovanni Floris su LA7, martedì 18 ottobre. E ha lanciato un allarme che ha fatto sobbalzare sulla sedia tutti i telespettatori: “Ci saranno possibili distacchi di energia”. In che senso? Cattaneo svela i piani segreti del governo per i mesi invernali. Il dirigente aziendale ha spiegato che le bollette dell’energia elettrica aumentano in proporzione all’aumento del gas, anche se si produce energia elettrica rinnovabile, perché il prezzo sul mercato è fatto su quello del gas che prima aveva un costo basso, adesso alto. “Essenzialmente il mercato sconta una carenza legata alla guerra” ha sottolineato l’imprenditore ribadendo che il punto è sempre l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia e le sanzioni decise da Europa e Italia che stanno aggravando l’approvvigionamento energetico. Ma c’è di più.
Cattaneo parla di possibili blackout e fa capire di non essere sereno per i mesi più freddi: “Abbiamo di fronte a noi l’inverno e non è detto che non ci sia una riduzione ulteriore delle forniture russe che potrebbero portare a una mancanza di gas. È per questo che sono stati fatti piani di emergenza. Se le forniture diminuiscono ancora diventando insufficienti a soddisfare la domanda, bisogna consumare meno e arrivare ai razionamenti”. Lo scenario peggiore, ma possibile. “I distacchi programmati, tecnicamente si chiamano PES – ha rivelato Cattaneo – Quindi la gente a casa avrà o un’energia più debole come negli anni ’70 o ’60 oppure i distacchi che è l’ultima ratio: l’energia presente in determinate ore e in altre no”.
Il conduttore Floris ha avuto un sussulto di preoccupazione: “Addirittura niente energia nelle case?”, Cattaneo risponde: “È un elemento al limite, ma previsto nei piani perché il Paese deve andare avanti. Si salvaguardano le situazioni di carattere sociale, sanitario e industriale e si leva ad altri – ha dichiarato -. O usiamo il forno o ci asciughiamo i capelli. Stiamo parlando di un’ipotesi, vedremo”.
FONTE: https://www.ilparagone.it/attualita/cattaneo-blacout-distacchi-corrente/
DIVENTA STITICO
Maleno Montagnani 5 10 2022
diventa stitico così consumi meno carta igienica, seguimi per altri consigli finanziari
FONTE: https://www.facebook.com/maleno.montagnani/posts/pfbid0ohEAazk6iqv2A7MmzG91aGncZW9cbYmWSDxu6XeqCD7Fd5eW4xZdTvGNHKjGPMvsl
CONFLITTI GEOPOLITICI
La guerra come automatismo di de-globalizzazione
di Franco Berardi Bifo
Il nazionalismo come forma generale della de-globalizzazione
In un libro del 1946 Die Schuldfrage, Karl Jaspers, uno degli ispiratori del movimento esistenzialista, disse che dovremmo distinguere tra il nazismo come evento storico e il nazismo come corrente profonda della cultura europea, che può riemergere.
Le dinamiche sociali e culturali che hanno dato origine al nazismo nel secolo passato hanno qualcosa di simile alle dinamiche sociali contemporanee, ma il contesto storico, psichico, e soprattutto tecnico è molto differente.
Jaspers scrive in quel testo che la caratteristica per eccellenza del nazismo è il tecno-totalitarismo e sostiene che una piena manifestazione della natura del nazismo potrebbe riapparire in futuro.
Ci si può chiedere se quel futuro sia adesso, e la mia risposta è che le condizioni di una riproposizione su scala enormemente allargata del nazismo stanno emergendo dalla proliferazione di movimenti identitari, neo-reazionari, e nazionalisti che prendono forme diverse e anche tra loro conflittuali come nel caso del conflitto tra Russia e Ucraina, in cui due modelli ugualmente nazionalisti si scontrano militarmente.
Anche Timothy Snyder il quale, in Black Earth: The Holocaust as History and Warning, osserva che la l’impotenza e il terrore provocato da situazioni di emergenza di massa, come le catastrofi ecologiche o le prolungate crisi economiche sono le condizioni più inclini alla formazione di regimi totalitari.
Queste condizioni discendono dalla successione di traumi che l’umanità planetaria ha attraversato e sta attraversando: il trauma sanitario della pandemia, il trauma provocato dallo scatenarsi degli elementi nell’ambiente devastato, il trauma bellico che sta producendo effetti destabilizzanti ben al di là del territorio ucraino in cui la guerra si combatte.
Eppure, sebbene alcuni aspetti di quell’esperienza siano effettivamente riaffiorati negli ultimi anni il nazi-fascismo non riapparirà mai nella forma storica che conoscemmo nel ventesimo secolo.
Ripensiamo ai modi della soggettivazione negli anni ’20 del secolo scorso in Germania, dopo l’umiliazione e l’impoverimento imposti al Congresso di Versalles.
Umiliazione e impoverimento crearono le premesse psicologiche di una reazione aggressiva.
L’impoverimento dei lavoratori tedeschi e l’umiliazione della nazione tedesca furono la base psico-sociale su cui qualche anno più tardi Adolf Hitler costruì il consenso che gli permise di vincere elezioni democratiche.
Il senso del suo discorso può ridursi a un’esortazione: “Non pensate a voi stessi come lavoratori sconfitti e impoveriti. Pensate a voi stessi come tedeschi, come guerrieri bianchi, e vincerete”.
Come sappiamo, non vinsero. Ma distrussero l’Europa.
Dalla Russia di Putin all’India di Modi all’Italia di Meloni il potere politico ripete oggi dovunque la stessa esortazione: “Non pensate a voi stessi come lavoratori sconfitti e impoveriti, pensate invece a voi stessi come guerrieri bianchi (o induisti, o islamisti), e vincerete.
Non vinceranno, ma stanno distruggendo il mondo. Per il momento infatti non è chiaro cosa possa fermare la tempesta perfetta che si è scatenata a partire dalla diffusione del virus, ma che andava preparandosi da almeno un decennio, da quando cioè la crisi finanziaria del 2008 scardinò il sistema economico internazionale e la crisi del sistema finanziario venne interamente scaricata sui lavoratori, mettendo in moto un processo di cui oggi cominciamo a vedere gli effetti.
Negli anni ’60 Gunther Anders, ebreo tedesco emigrato e poi rientrato in Germania, osservava che l’arma nucleare costituiva una novità tecno-militare destinata a produrre un effetto di impotenza, terrore e umiliazione i cui effetti possono manifestarsi attraverso l’emergere di quello che lui chiama il Terzo Reich a venire.
Il Nazismo futuro di cui Anders parla nasce dall’impotenza degli umani di fronte all’arma assoluta, che è un prodotto della loro intelligenza ma paralizza l’intelligenza. L’impotenza degli umani di fronte a questa concrezione ostile della loro potenza genererà, dice Anders una reazione aggressiva e gregaria.
Il passaggio finale verso la precipitazione che Anders presagiva potrebbe essere la guerra che la Russia ha scatenato con l’invasione del 24 febbraio, e che gli Stati Uniti avevano lungamente preparato e perfino preannunciato con un’intervista di Hilary Clinton in cui si parla dell’Ucraina come nuova Afghanistan per la potenza russa.
L’Europa vittima designata della guerra tra Russia e atlantismo
L’Europa è il territorio più esposto agli effetti indiretti della guerra. Molti segnali indicano che la Russia sta perdendo il confronto militare con l’Ucraina, anche se non si può pensare una sconfitta militare definitiva perché i vertici russi hanno già chiarito di essere pronti a tutto pur di evitare la “minaccia esistenziale”.
E’ chiaro che gli anglo-americani (e in misura minore e subalterna gli europei) stanno conducendo una guerra indiretta contro la Russia, in cui gli ucraini ci mettono i loro corpi, le loro vite, le loro case, il loro futuro, e le potenze atlantiche mettono le armi e si aspettano di ricavarne vantaggi geopolitici e anche economici.
Ma c’è un secondo fronte, quello che oppone la Russia all’Unione europea, una guerra che per il momento si svolge sul piano economico ed energetico. Non è chiaro quanto la Russia stia vincendo questa guerra, ma quel che è chiaro è che l’Europa la sta perdendo. Non è chiaro se la Russia riuscirà a riconvertire le sue esportazioni di energia, né a controbilanciare gli effetti delle sanzioni occidentali. Ma quel che è chiaro è che i paesi europei, e l’Unione come soggetto politico ne stanno uscendo sconfitte, gravemente danneggiate, forse avviate verso una destabilizzazione definitiva dell’Unione, e verso sommosse nazionaliste anti-europee.
Vi è poi un terzo fronte, quello della guerra che gli Stati Uniti conducono contro l’Europa, e prima di tutto contro la Germania. Gli americani avevano ripetuto molte volte che il North Streaming 2 non andava bene, e che avrebbero fatto il possibile per impedirne la realizzazione.
La NATO ha spinto quindi la Germania al suicidio. Il North Streaming è stato cancellato, e l’economia tedesca entra in una situazione senza precedenti, tra inflazione e recessione, blocco di comparti industriali, riapertura delle centrali di carbone e così via.
Con la partecipazione non tanto indiretta alla guerra ucraina, l’Unione europea ha decretato la morte del progetto fondativo: l’Unione è nata come superamento della forma Nazione e ora si trova ad essere una Nazione in armi, governata dai funzionari della NATO.
L’UE ha rinunciato a svolgere un ruolo di mediazione nei mesi precedenti l’invasione, e si è poi lasciata trascinare in un conflitto che soltanto l’UE avrebbe potuto sventare.
Il suicidio europeo è per certi versi un mistero politico. Perché la classe dirigente europea si è lasciata trascinare in un gioco di cui non possiede le chiavi, di cui subisce le regole e le conseguenze?
Sullo sfondo mi pare che vada delineandosi uno scontro più vasto, che nel lungo periodo oppone il sud del mondo, nella proliferazione dei nazionalismi aggressivi, al nord del mondo, asserragliato nella sua roccaforte NATO.
Guerra come interruzione della catena degli automatismi
La natura della guerra è cambiata, anche se sul fronte ucraino la scena spesso ricorda la prima guerra mondiale.
Il nazionalismo di oggi è un fenomeno molto più ambiguo di quel che fu cento anni fa: gli stati nazionali hanno perduto gran parte del loro potere negli anni della globalizzazione. Le grandi compagnie globali della comunicazione, dell’energia, della farmacologia, del militare detengono il potere reale, quello che si articola nelle grandi infrastrutture globali.
Il nazionalismo riemerge aggressivo perché gli stati nazionali hanno perso il controllo sugli automatismi tecnici e finanziari, e i popoli si riconoscono in una richiesta di sovranità la cui modalità è l’aggressione nazionalistica, o comunque identitaria.
Nell’epoca neoliberale la gestione (o governance) della macchina mondiale è stata garantita da un sistema sempre più complesso e interdipendente di automatismi globali, quello che Keller Easterling chiama Extra-state-craft: le infrastrutture private che rendono possibile la vita civile. Il consumo, i trasporti, l’economia in generale hanno funzionato finora grazie a catene sempre più strette e pervasive di automatismi tecno-finanziari, energetici, logistici, e così via. Poi venne il virus che ruppe in parte questi automatismi, generando fenomeni di interruzione di quelle catene di interdipendenza: la great supply chain disruption, il caos nel sistema dei trasporti commerciali, dei porti intasati, la great resignation che significa una disfunzione del mercato del lavoro.
Da quel momento la catena di automatismi interdipendenti che chiamiamo (chiamavamo) globalizzazione ha cominciato a incepparsi.
La vittoria di Trump e la Brexit avevano anticipato il fenomeno della de-globalizzazione fin dal 2016, ma è la pandemia che funziona come blocco delle catene di rifornimento e distribuzione. La guerra moltiplica la potenza destrutturante del virus.
Per il momento la guerra ha un carattere localmente territorializzato per quanto riguarda il piano militare, ma la sua dimensione strategica ha invece un carattere di interruzione globale.
Nonostante il carattere territorializzato del conflitto militare russo-ucraino, le proiezioni extra-militari del conflitto aggrediscono le giunture dell’economia, soprattutto dell’economia europea.
Anche la guerra, come ogni altro ciclo integrato dell’epoca iper-tecnica ha un carattere di automatismo, e proprio da qui deriva la sua apparente irreversibilità. Questa guerra agisce come un automatismo tra gli altri, ma la sua proprietà è quella di fracassare gli altri automatismi.
Qui sta la ragione per cui gli effetti di questa guerra non si possono valutare (se non marginalmente) in termini militari: perché il suo effetto non si manifesta solo nella distruzione reciproca dei due paesi in conflitto, ma si manifesta anche, e forse soprattutto, nella interruzione dei cicli economici e tecnici globali, frantumando in maniera definitiva l’interdipendenza che garanti all’economia globale di funzionare.
Identità russa e terza guerra mondiale
Il carattere di questa guerra è stato segnalato da intellettuali vicini a Putin, come Tretyakov, che in un articolo uscito su Limes 3/22 (La fine della pace) ha chiarito che per la Russia il conflitto non ha come oggetto (soltanto) l’assetto geopolitico dell’Ucraina, ma l’ordine economico e geopolitico globale. Docente all’Università moscovita Lomonosov, Tretyakov delinea la risorgenza dei valori tradizionali della nazione russa e paragona la decisione di Putin di invadere l’Ucraina alla decisione di Lenin di prendere il Palazzo d’Inverno.
“Lotteremo per il diritto di essere e rimanere Russia.” scrive Tretjakov, esaltando il valore eterno dell’identità, un fantasma che prende corpo attraverso la guerra. E aggiunge:
“Ciò che sta accadendo interrompe il dominio globale geopolitico e finanziario dei paesi occidentali, mette in discussione il modello economico imposto ai paesi in via di sviluppo e al mondo intero negli ultimi decenni…. Gli eventi del febbraio e marzo 2022 sono paragonabili nella loro importanza storica e nelle loro ripercussioni globali a ciò che accadde in Russia nell’ottobre 1917. Qui non si tratta di socialismo, ma del fatto che la Russia, come nel 1917, si è liberata dal controllo politico economico ideologico e, cosa molto importante, psicologico dell’Occidente. In questo momento storico si tratta dell’ultima e decisiva battaglia. La vittoria della Russia è attesa non solo da milioni di suoi cittadini, ma anche da decine di paesi (segretamente anche da molti europei.” (Limes, 3/22: Questa è la nostra rivoluzione d’ottobre).
Tretyakov ha abbandonato ogni illusione universalistica: quel che gli interessa non è il ritorno del socialismo sovietico, ma il ritorno della differenza nazionale, dell’orgogliosa essenza dell’anima russa.
Ma in nome di questa differenza, di questo diritto a essere quello che siamo (come se esistesse un’identità eterna, immodificabile e sacra della Nazione), anche Tretyakov, come gli ucraini, gli inglesi, gli americani e gli europei, vuole vincere, e la sua sete di vendetta può entrare in risonanza con la sete di vendetta di una parte assai vasta dell’umanità umiliata.
Non si riesce a vedere in che punto e in che modo possa finire una guerra che nasce come affermazione radicale di identità e quindi comporta necessariamente un pericolo esistenziale per l’uno e per l’altro dei fronti (entrambi appartenenti alla razza bianca, si tenga ben a mente), quello russo e quello atlantista. Fin dai primi giorni della guerra personaggi della leadership russa come Lavrov e Medvedev hanno ripetuto che in caso di minaccia esistenziale l’uso della bomba atomica è possibile.
Ci avete rotto con il vostro Sturm und Drang
Nello stesso numero 3/22 di Limes c’era un articolo di Hu Chunchun: La Cina all’Europa: le sorti del mondo sono nelle tue mani.
Hu, che insegna germanistica all’Università di Shanghai, rivolge agli europei un discorsetto che somiglia a una ramanzina piuttosto brusca. Studioso del Romanticismo tedesco, Hu se la prende con lo Sturm und Drang dei nostri intellettuali da operetta.
“Un rapido sguardo alla storia del Vecchio Continente dall’inizio del XX secolo mi impone una riflessione che probabilmente verrà categoricamente respinta dai colleghi e dalle colleghe europee. Da un lato l’Europa si pone come faro della civiltà moderna; dall’altro ha portato più volte l’umanità sull’orlo della distruzione. La cultura europea pare possedere i tratti di un Giano bifronte: un volto orrendo di barbarie mascherato da una sacra facciata di valori e idee assoluti.” (Limes, pag. 63).
Hu Chunchun compie uno spostamento dell’ottica geo-politica, o piuttosto geo-culturale: dalla centralità bianca (euro-russa-americana) al policentrismo post-colonial, le cui implicazioni politiche cominciano a vedersi nel modo in cui il sud del mondo guarda al conflitto russo-ucraino:
“Che il conflitto russo-ucraino sia un problema essenzialmente europeo non è la tesi cinica e irresponsabile di un accademico cinese che ignora la giustizia e rovescia i fatti, scrive ancora Hu, ma la lucida constatazione che muove dallo spirito della ragione europa. La studiosa keniota Martha Bakwesegha-Osula ha sintetizzato il punto di vista africano sul conflitto russo-ucraino: European solutions to European problems. Questa posizione è anche uno dei motivi che lo scorso 2 marzo hanno portato molti paesi, nel loro insieme quasi la metà della popolazione mondiale, ad astenersi sulla risoluzione dell’Assemblea Generale dell’ONU sull’Ucraina.”(ibidem).
Il 28 settembre qualcuno ha sabotato la pipeline che conduce il gas di North Stream. Non sappiamo chi abbia compiuto questa azione, ma sappiamo che questo atto potrebbe annunciare una fase interessante della guerra: i sottomarini potrebbero essere usati per far saltare molti altri cavi ben più delicati, quelli che connettono la rete globale, per esempio, rompendo il connettore fisico generale dell’informazione, flusso vitale per l’economia contemporanea. La de-globalizzazione potrebbe a un certo punto manifestarsi in maniera dura, come vero e proprio attacco alla comunicazione globale e quindi all’economia, come interruzione del ciclo tecnico globale.
In questo modo la guerra russo-ucraina si sta trasformando in una guerra mondiale che distrugge i gangli di connessione che rendono possibile la vita civile e al limite la stessa sopravvivenza di intere popolazioni del pianeta.
Il caos generalizzato pare destinato a prendere il posto dell’ordine automatico su cui la globalizzazione si reggeva.
Pensare il caos diviene perciò il compito filosofico e politico principale.
FONTE: https://www.altraparolarivista.it/2022/10/05/la-guerra-come-automatismo-di-de-globalizzazione-di-franco-berardi-bifo/
Cosa succederà nella guerra elettrica in Ucraina: come funziona oggi il “ponte d’oro” del maresciallo Kutuzov per la ritirata di Napoleone
John Helmer fornisce un altro raccondo approfondito sulla campagna russa contro la rete elettrica ucraina, fornendo oggi maggiori informazioni sulla logica del targeting e su come è inteso far avanzare gli obiettivi strategici russi.
Un grosso cavillo è dove Helmer cita un esperto nordamericano di infrastrutture militari che fa affermazioni che vanno ben oltre la sua esperienza. Ritiene che i russi stiano lavorando entro il calendario del 15 novembre in modo che Putin possa parlare con Biden e Zelensky al G20.
Eh? Primo, Putin non ha nemmeno deciso se andrà. In secondo luogo, la Russia sa che l’Occidente non è capace di un accordo, quindi non ha senso parlare fino a quando forse l’Ucraina non sarà autorizzata a chiedere la pace (non vedo come ciò accada perché l’Occidente è meglio servito sostenendo che la Russia è un illegittimo vincitore, ma Nassim Nicholas Taleb ci ricorda che le code sono grasse). Le relazioni Russia-Occidente sono così pessime che TASS ha riferito che il ministro degli Esteri Sergey Lavrov ha raccomandato di ridurre le missioni diplomatiche nelle regioni USA/UE:
Non ha senso mantenere la precedente presenza diplomatica nei paesi occidentali. I diplomatici russi lavorano lì in condizioni che difficilmente possono essere definite umane. Lo ha affermato martedì il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov in un incontro con i laureati che sono stati accettati per la prima volta nel servizio diplomatico.
“Non ha senso e desiderio di mantenere la stessa presenza nei paesi occidentali. Le nostre persone lavorano in condizioni che difficilmente possono essere definite umane. Vengono creati problemi continui, minacce di attacchi fisici. Qualsiasi cooperazione economica è impossibile. Non sarai costretto a essere gentile”, ha detto Lavrov.
Secondo, Biden ha anche detto che Putin può fare qualsiasi discorso al G20, ma l’Ucraina è off limits e Biden è disposto a intrattenere (solo) argomenti che ha reso evidenti e gli interessano molto, come il rilascio di Britney Griner. A proposito, sollevare di nuovo Griner è un altro diss, dal momento che il ministero degli Esteri russo ha affermato di non essere disposto a parlare di lei ad alti livelli o in pubblico; questo tipo di scambio di prigionieri deve essere gestito attraverso i canali.
Infine, se Putin dovesse negoziare presto, anche supponendo una conversione damascena in tutto l’Occidente, si troverebbe ad affrontare una rivolta interna e popolare in patria. Ironia della sorte, la strada per il cambio di regime in Russia sarebbe tentare di porre fine alla guerra.
Tuttavia, alcuni commentatori russi hanno affermato che all’Ucraina è stato detto che deve prendere Kherson entro il 15 novembre. Ciò significa che Biden vuole essere in grado di rivendicare una grande vittoria a metà mandato, o nel peggiore dei casi durante il G20. Il generale Surovikin ha spiegato come il modo più probabile in cui l’Ucraina agirà contro Kherson non è una campagna militare ma un attacco terroristico su larga scala, come far saltare la diga della centrale idroelettrica di Kakhovskaya per inondare la città. Ed è questo il motivo per il quale i russi stanno evacuando Kherson e i suoi dintorni?
Yves Smith
FONTE: https://www.acro-polis.it/2022/10/19/cosa-succedera-nella-guerra-elettrica-in-ucraina-come-funziona-oggi-il-ponte-doro-del-maresciallo-kutuzov-per-la-ritirata-di-napoleone/
L’ANTI-CLAUSEWITZ
Formalizzato da Carl von Clausewitz nel suo Della Guerra, pubblicato negli anni trenta dell’800, il principio della guerra come proseguimento della politica con altri mezzi è in realtà sempre stato considerato da tutti i teorici dell’arte militare – da Machiavelli a Sun Tzu, da Giap a Gerasimov. Si potrebbe in effetti dire che sia un principio talmente vero da risultare ovvio, ma in realtà non è poi così nei fatti. Quel che è certo è che questo principio trova la sua massima applicazione nel corso del 900, quando alle classiche linee di frattura geopolitiche si aggiungono quelle ideologiche, facendo quindi della guerra uno strumento quasi privilegiato della/dalla politica.
La guerra rivoluzionaria
È interessante notare come, proprio nel corso del novecento, l’ideologizzazione della guerra produca un fenomeno speculare, le cui ricadute – come vedremo – si presentano ancora oggi in modo per certi versi sorprendente. Il secolo scorso, infatti, vede la nascita della guerra rivoluzionaria, che non è semplicemente lo strumento bellico messo al servizio di una politica – appunto – che si prefigge la rivoluzione, ma è a tutti gli effetti, e prima d’ogni cosa, una rivoluzione della guerra. Per certi versi paragonabile a quella napoleonica.
Anche se tendenzialmente il pensiero va al Mao Tze Dong della lunga marcia, il vero teorico della guerra rivoluzionaria è il vietnamita Võ Nguyên Giáp. È lui che guiderà la lotta di liberazione del popolo vietnamita, dapprima contro la Francia e poi contro gli Stati Uniti. Ed a questi due conflitti sono legati altri due fattori importanti, ai fini della presente riflessione.
Innanzitutto, è nel corso del conflitto indocinese (e poi durante la guerra di liberazione algerina) che l’idea di guerra rivoluzionaria viene assimilata (e rielaborata) da un esercito occidentale; all’interno dell’esercito coloniale francese, infatti, la temperie di questi due conflitti fa maturare la consapevolezza che la guerra non è più semplicemente una questione tra eserciti contrapposti e, pertanto, va affrontata con logiche strategiche e tattiche assai diverse.
Non è comunque tanto la conclusione immediata cui arrivano gli ufficiali francesi, ad essere rilevante. Il punto d’arrivo di quello specifico processo fu infatti il terrorismo dell’OAS – una risposta non solo sbagliata, ma sopra ogni cosa inefficace. Il dato rilevante è che, a partire da quella esperienza, nelle forze armate dei paesi occidentali si fa strada l’idea che la guerra non sia mero strumento della politica, ma sia essa stessa politica e che, quindi, la politica debba far parte del bagaglio concettuale di un esercito moderno. Da queste radici, per dire, nasce il fatto che oggi ad avere la visione politica più lucida sul conflitto ucraino siano proprio i militari. Tra l’altro, la guerra rivoluzionaria è chiaramente l’antesignana della moderna guerra senza limiti, o guerra totale, quella cioè in cui non vi è più alcuna separatezza temporale tra politica ed atto bellico, né tra lo strumento militare e tutti gli altri possibili (economico, energetico, psicologico, biologico, etc).
Dal Vietnam all’Afghanistan
Questa piena consapevolezza della politicità della guerra, ed al tempo stesso questa assai più sfumata separazione tra la fase politica e quella militare, sono in fondo la chiave di volta che spiega l’esito di molti conflitti moderni. Benché le summenzionate guerre di Indocina e di Algeria – soprattutto quest’ultima – siano già esempi di ciò, è con la guerra americana del Vietnam che si palesa chiaramente il peso del fattore politico nel conflitto bellico.
La guerra del Vietnam comincia (all’indomani della fine dell’impero coloniale francese in Indocina, come diretta conseguenza della sconfitta di Dien Bien Phu) nel 1955, e finirà vent’anni dopo con la caduta di Saigon nel 1975. Alla base dell’intervento USA (dapprima sotto forma di appoggio al governo fantoccio sud-vietnamita, dal 1965 in poi con un impegno diretto sul campo) c’era la teoria del domino, in base alla quale si riteneva che, lasciando cadere un paese in mano ai comunisti, altri sarebbero caduti uno dopo l’altro. Per giustificare quindi l’intervento militare diretto, gli Stati Uniti si inventarono l’incidente del Tonchino (1) e diedero vita ad una delle guerre più disastrose della propria storia.
Come si è detto, gli USA non avevano alcun interesse strategico in Indocina ed il loro intervento trovava quindi la sua ratio politica nella duplice convinzione che la vittoria comunista in quel paese ne avrebbe provocate altre e che l’espansione del comunismo (anche in paesi strategicamente poco rilevanti) fosse di per sé una minaccia.
Dal punto di vista statunitense, quindi, la guerra del Vietnam era a tutti gli effetti una guerra ideologica, che si poneva l’obiettivo di contrastare l’avanzata del comunismo – in quanto ideologia, ben più che come strumento di penetrazione della Russia sovietica. Per quanto le forze armate americane incontrassero enormi difficoltà nel fronteggiare l’esercito nord-vietnamita e la guerriglia viet-cong, non si posero problemi nel mettere in atto una enorme escalation pur di vincere. Non solo sul piano quantitativo – dai 3.500 marines sbarcati nel 1965 ai 550.000 uomini impiegati nel 1969 – quanto su quello qualitativo. I bombardamenti su Hanoi, l’infiltrazione di reparti in Laos e Cambogia (paesi formalmente estranei al conflitto), il massiccio uso di napalm e defolianti (l’agente Orange), sino al punto di considerare l’ipotesi di sganciare la bomba atomica.
Sotto il profilo strettamente militare, quindi, magari con uno sforzo ulteriore, Washington avrebbe potuto vincere la guerra. Ma la perse, proprio perché la sua era una guerra ideologica che non aveva alcun reale fondamento negli interessi strategici geopolitici del paese.
Una guerra di tale natura, infatti, rimbalzò in maniera devastante all’interno della società americana, squassandola dal profondo. E, inevitabilmente, ad un certo punto la combinazione tra la pressione politica interna – laddove la guerra era vista come non necessaria per gli interessi vitali del paese – ed il fatto che appunto non rivestiva effettivamente alcun reale interesse strategico, diedero il via al processo di disimpegno che si concluderà con la fuga precipitosa dall’ambasciata di Saigon.
Dal Vietnam in poi, gli Stati Uniti hanno condotto numerose guerre in giro per il mondo, da quelle quasi ridicole contro l’isoletta di Grenada o contro Panama, a quelle sanguinose e disastrose in Iraq, in Libia, in Siria, in Afghanistan. Quest’ultima conclusasi, dopo vent’anni di combattimenti, in modo identico a quella vietnamita, con una fuga precipitosa dal paese – e per le medesime ragioni.
Se infatti l’Afghanistan aveva un valore per l’Inghilterra, a cavallo tra l’800 ed il 900 (l’epopea del grande gioco…) in quanto necessario a difendere l’India dalle (presunte) mire della Russia zarista, il suo valore strategico per gli USA, negli anni duemila, era praticamente nullo. È stata, quella, una guerra per affermare una supremazia politica, che avrebbe potuto essere combattuta indifferentemente lì oppure (ad esempio) in Somalia. E poiché l’Afghanistan in sé non aveva valore strategico, è arrivato il momento in cui il costo politico di quella guerra è divenuto totalmente inutile, dunque insostenibile.
L’ordine del caos
Il 900 è stato indubbiamente il secolo americano. Lo è stato non solo perché il suo intervento è stato determinante nelle due guerre mondiali, ma anche per due ancor più rilevanti ragioni.
La prima, perché ha sancito il suo dominio sulla parte più significativa d’Europa (oltre ad aver contribuito a dividerla), la seconda perché ha visto la sua proiezione militare espandersi a livello globale. Mai, nella storia dell’umanità, una potenza imperiale ha avuto tante basi militari all’estero, ed in così tanti paesi diversi.
È interessante notare come, benché appunto nel corso del secolo scorso gli USA fossero senza alcun dubbio la maggiore potenza economica mondiale, abbiano senza esitazione scelto di esercitare il proprio predominio utilizzando principalmente lo strumento militare. Questo è addirittura – a mio avviso – un tratto costituente della cultura americana.
Tutta la strategia imperiale degli Stati Uniti, in effetti, si fonda sull’uso della forza. Ed è, questo, un fattore di straordinaria pregnanza. Perché per un verso ha fornito all’impero la certezza del dominio, ma per un altro ne ha intossicato il pensiero strategico.
La seconda metà del 900, che è quella che ha visto l’apoteosi dell’imperialismo statunitense, è stata densissima di guerre, colpi di stato e tentativi di eversione vari, praticamente in ogni angolo del mondo (2). Ed è interessante notare come questa estrema militarizzazione della politica americana – dalla guerra del Golfo alle rivoluzioni colorate – anche laddove abbia prodotto delle vittorie militari (Iraq, Libia…), ha comunque prodotto politicamente il caos.
Le guerre americane non si sono mai concluse con una, sia pur temporanea, stabilizzazione.
Ovviamente, anche la strategia del caos, della destabilizzazione, ha un suo perché. Mantenere una situazione di instabilità ha anche dei vantaggi – alimenta il complesso militare-industriale, mantiene aperte possibilità di successive deflagrazioni conflittuali, si riflette sulla stabilità regionale coinvolgendo amici e nemici…
Il punto è che questa non è una strategia mirata, applicata laddove conviene, ma è la strategia, tout court. Che ha funzionato, o meglio non è entrata in crisi, fintanto che l’egemonia economica di Washington era assoluta. Quando questa ha cominciato a venire meno, o quanto meno a ridursi (peraltro a crescente velocità), ha cominciato ad intravedersene la debolezza intrinseca.
Clausewitz rovesciato
Se nel corso del novecento l’America ha esteso e rafforzato la propria egemonia, ha però anche coltivato l’illusione che il proprio impero – a differenza di tutti quelli che l’hanno preceduto – potesse durare in eterno. Che fosse intrinsecamente giusto e buono, e che per ciò stesso le sue armi avrebbero trionfato sempre e comunque. In una parola, è rimasta vittima della propria ideologia imperiale. Essendo, come s’è detto, l’uso della forza militare un tratto costituente della cultura americana, quando ha cominciato a percepire che l’unipolarismo (cioè il monoimperialismo) stava per venire meno, ha reagito pavlovianamente. L’ipotesi del multipolarismo non viene neanche considerata, l’istinto dice: guerra.
La conseguenza di questa postura bellica, è che il mondo intero diventa potenzialmente un possibile terreno di scontro, ed al tempo stesso quasi nessun luogo – al di fuori dell’homeland – è veramente importante strategicamente. Nello scacchiere globale, ogni casella è importante (perché la partita è vissuta come esiziale), ma nessuna è vitale come quella dove sta il Re.
Nella pratica, ciò si traduce in quel che abbiamo visto a Kabul: una guerra inutile trascinata per vent’anni, e poi sbaraccata in quattro e quattr’otto.
Nella distorsione prospettica americana, infatti, ciò che si è operato è una sorta di rovesciamento del principio clausewitziano: non più la guerra come prosecuzione della politica, ma la guerra come politica. Che non è la guerra rivoluzionaria, e nemmeno una guerra rivoluzionata, ma la cancellazione del limes tra mezzo e fine.
Ed è questa la ragione profonda per cui, nello specifico della guerra contro la Russia, l’America non può vincere. Ovviamente alla base c’è il fatto che la Russia sia una potenza militare di prim’ordine; ma la ragione strategica è nell’asimmetria di valore tra Washington e Mosca.
Per gli USA questo è un episodio della più ampia guerra per mantenere il predominio mondiale, guerra in cui – a torto o a ragione – la Russia è considerata l’avversario minore, la minaccia vera essendo identificata con la Cina. Se si tiene presente questo, si comprende bene che, proprio in quanto episodio minore, la guerra potrebbe essere protratta anche per vent’anni, ma non sarà mai considerata la battaglia strategica. Mentre per la Russia – ancora una volta, a torto o a ragione – lo è. Ne consegue che per gli Stati Uniti la guerra ucraina può anche concludersi con la vittoria della Russia, se per impedirlo il costo dovesse essere troppo alto. L’Ucraina è assolutamente sacrificabile, è una pedina di secondo piano, nella partita globale.
Di più. Poiché per Mosca questa è invece una battaglia vitale, se sentisse minacciata seriamente la propria esistenza non esiterebbe a ricorrere ad armi nucleari tattiche. E nella consapevolezza che, molto probabilmente, e ben al di là delle dichiarazioni propagandistiche, gli USA non reagirebbero sullo stesso piano. Proprio perché quella che si combatte in Ucraina non è certo la madre di tutte le battaglie, alla Casa Bianca non ci pensano neppure lontanamente a rischiare di innescare una guerra nucleare con la Russia – per Kyev poi! – che comporterebbe nella migliore delle ipotesi di uscirne magari vincitrice ma in ginocchio. Con la Cina che guarda compiaciuta.
È questa l’asimmetria insanabile. Per la Russia è in gioco lo spazio vitale, la propria esistenza. Per l’America no. Per questo, in un modo o in un altro, tra un anno o forse tra venti, gli ucraini saranno lasciati soli e gli europei con loro. Perché, quando saremo regrediti economicamente, lo saremo anche strategicamente. Ed il cuore della scacchiera è nell’indo-pacifico.
- 1 – Cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Incidente_del_golfo_del_Tonchino
- 2 – 168 operazioni militari all’estero svolte dagli Stati Uniti dal 1780 al 1945, altre 100 operazioni militari dal 1945 al 1999, e ben 184 dal 1999 al 2021.
FONTE: https://giubberosse.news/2022/10/05/lanti-clausewitz/
LE TRUPPE DELL’IMPERO
Negli ultimi mesi, analizzando la situazione, abbiamo detto più volte che l’intervento russo in Ucraina sanciva un cambiamento epocale nei rapporti di forza mondiali.
Negli ultimi mesi, analizzando la situazione, abbiamo detto più volte che l’intervento russo in Ucraina sanciva un cambiamento epocale nei rapporti di forza mondiali.
La Russia, respinta nel corso degli anni ’90 e ancora di più dopo il 2014 e nel corso di questo 2022, verso il Sud e l’Est del mondo, dall’Occidente, si era fatta alfiere di un cambiamento epocale.
Questo cambiamento mostrava rapporti di forza nuovi: economici, militari, sociali, culturali.
Non era solo la Russia in Ucraina o la Russia contro la NATO (per interposta persona), era prima di tutto un nuovo ordine del mondo (chiamatelo BRICS+, SCO, chiamatelo Unione Euroasiatica) che bussava alla porta.
Paesi rivali cominciavano a fare accordi (India/Cina), paesi sempre ubbidienti iniziavano a giocare da soli (India) e a pagarne le conseguenze (ribaltamento del governo in Pakistan), alleati fedeli puntavano su altri cavalli (Arabia Saudita), membri della squadra disertavano (Turchia, Ungheria).
Intanto le statistiche arrivavano impietose: Cina, India, Brasile, Russia, Nigeria, Pakistan, Indonesia, Argentina, Sud Africa nel 2030 controlleranno il PIL mondiale, buona parte di questo club avrà popolazioni giovani e volenterose.
Ma l’Impero ha mille assi nella manica.
Il capitalismo ha crisi cicliche, questo non implica la fine (non a livello a generale; per migliaia, milioni di più deboli si, ma di questo alle classe dirigenti importa limitatamente).
Gli USA sono in affanno, ma non sono nelle condizioni produttive, economiche e demografiche dell’UE e militarmente sono ancora campioni indiscussi.
Gli USA stanno semplicemente cannibalizzando l’Europa e la sua economia per reggere l’urto della concorrenza globale.
Quello che nel dopo Guerra Fredda è stato fatto con le classi subalterne (compressione redditi e diritti sul lavoro) ora viene applicato a livello più generale per aree geografiche, con il centro che va a drenare risorse alla periferia.
Certo, la Cina corre in ambito tecnologico e i dati non cambiano: nel 2030, al più tardi 31, ci sarà il superamento sul PIL degli USA.
Tuttavia, questa Cina così forte non può ancora nulla su Taiwan (magari in futuro con le sue navi-drone telecomandate e una marina militare che riceve finanziamenti faraonici).
L’Impero colpisce ancora?
Personalmente rimango dell’idea che le cose stiano lentamente cambiando e che Europa e Nord America potranno poco sul lungo periodo. Ritengo ancora che vedremo il prossimo pendolo (baricentro economico) andare oltre la Cina e creare un nuovo ciclo alternato (Sud America – Estremo Oriente), ma non dobbiamo mai dimenticare che questi sono cambiamenti più affini a epoche geologiche che alla vita di un individuo o a una manciata di generazioni.
La nostra classe dirigente è allo sbando – più in Europa che negli USA -, ma non commettiamo l’errore di pensare che sarà una transizione rapida o indolore, in un modo o in un altro la popolazione generale dell’Occidente si è legata alla classe dirigente e l’ordine costituito è per tutti noi la normalità e cambiare (anche migliorare) è sempre uno sforzo, non prescinde dalla volontà di cambiare, che in una società di arraffoni è ben poca cosa.
In finale da settimane mi risuona in testa il triste sospetto che le fedeli truppe dell’Impero siamo noi tutti…
FONTE: https://giubberosse.news/2022/10/17/le-truppe-dellimpero/
CULTURA
Trauma e ferita nel dialogo tra Catherine Malabou e Slavoj Žižek
– di Domenico Licciardi
Ferito (Blessé).
- Aggettivo Che ha ricevuto un infortunio. Un ginocchio ferito.
– Figurato Ferito nel suo orgoglio
- Nome Persona ferita. Due morti e dieci feriti. Feriti di guerra
(Dictionnaire Le Robert)
Vi sono tanti modi in cui la parola “feriti” (al plurale: molti di loro, molteplici) dev’essere letta nel testo che è oggetto della nostra presentazione.[1] Cominceremo da due di questi, i più evidenti. “Feriti” sono i traumatizzati, i cerebrolesi, coloro che sono affetti da malattia neurodegenerativa o da dipendenze, da tendenze aggressive e autodistruttive, e così via. Si tratta dell’insieme particolare dei soggetti con disturbi o patologie neuropsichiatriche, in condizioni gravi, con scarse (o nulle) possibilità di recupero. “Feriti” sono, per estensione, le vittime socio-politiche e socio-economiche di una nuova forma di violenza, caratterizzata in primo luogo dalla sua mancanza di senso. Nell’epoca della decostruzione di ogni struttura messianica[2] (avvento, apocalisse, illuminismo, comunismo – qualunque nome si voglia dare alla promessa) la violenza è insensata. Non nel senso triviale a cui si risponderebbe che in fondo lo è sempre stata, bensì nel senso della pura catastrofe, del disastro che eccede ogni interpretazione possibile. Oggi, la violenza giunge da un deserto ontologico che trascende e circonda, da qualunque coordinata lo si osservi, il regime del significato (ovvero: di ogni significato). In questo orizzonte, i due sensi che abbiamo tentato di isolare della parola “blessés” rivelano la natura paradigmatica del loro rapporto: dal momento che le parole dei traumatizzati non sono più interpretabili, dal momento che essi hanno, per così dire, smesso di parlarci, la loro afasia costituisce il caso esemplare di ogni vittima di violenza.
Questione dell’auto-immanenza del senso e dell’estraneità del non-senso, dunque, ma si tratterebbe di un non sens che ha perduto ogni potenza ermeneutica ed estetica, deprivato di ogni slancio filosofico o avanguardistico. Così, se da un lato oggi si diffonde (anche all’interno di una «coscienza comune»)[3] una certa concretezza scientifica della natura cerebrale della sessualità e della nostra vita affettiva, dall’altro lato rimane ancora un’illusione: quella di potersi preservare dalla consapevolezza per cui la nostra vita biografica dipende da fragilissime connessioni neuronali. L’intento della riflessione di Malabou su psicoanalisi e neuroscienze (se non altro, nella circoscrizione di un testo come Les nouveaux blessés, su cui vertono gli interventi contenuti ne Il trauma: Ripetizione o distruzione?) sembra duplice. Da un lato, lo scopo sarebbe quello di decostruire l’ottimismo scientista che accompagna la divulgazione delle neuroscienze e la speranza di poterci appropriare del nostro cervello (e, con esso, delle nostre emozioni e capacità). Dall’altro lato, quello di decostruire la fiducia nel senso del non sens, ossia in quell’istanza che media tra il vuoto di senso (ad esempio, il delirio) e le sue strutture manifeste: l’inconscio. Entrambi questi poli (il polo neuroscientifico e il polo psicoanalitico) si sosterrebbero sull’esclusione del potere plastico dell’accidente, o della possibilità di un’accidentalità slegata da ogni causalità, psichica e cerebrale. Ripensare l’opposizione tra psicoanalisi e neuroscienze a partire da una fenomenologia della catastrofe (del senso) è l’ultima sfida (e, probabilmente – nel doppio senso dell’attuale e del terminale) della (“post-”) decostruzione.
Nell’esplorare la risposta di Žižek, ripartiremo dalla violenza. Esiste dunque una forma contemporanea della violenza e si tratterebbe di una violenza «senza legami trasparenti»[4], ovvero senza un esplicito rapporto causale – una violenza “occasionalista”, basata sul raddoppiamento di piani irriducibili. D’altro canto, non è possibile escludere dalla riflessione quei casi in cui l’accidente è fantasmagoricamente anticipato. Ad esempio, le catastrofi nel cinema hollywoodiano anticipano – e doppiano – l’apparente shock collettivo dell’undici settembre, dimostrando che «l’impensabile che è accaduto era già da tempo oggetto di fantasie, sicché, in un certo senso, l’America ha ottenuto ciò su cui andava fantasticando, e questa è stata la sorpresa più grande».[5] Un trauma come il disastro delle Torri Gemelle porta dunque alla luce la possibilità che l’assenza di causa sia in realtà l’effetto di limite di un’istanza inaccessibile: dietro l’apparente non sens della violenza, si celerebbe l’impeto del (ritorno del) fantasma, precedentemente espresso nelle forme distopiche del godimento cinematografico. Il fantasma, dunque – o ciò la cui posizione media tra il piacere e il godimento – è l’istanza che accoglie l’evento traumatico e lo fa «risuonare» fino al registro del Reale.[6] Estendendo l’argomento al problema dell’interruzione causale nelle forme contemporanee di violenza, si produce una curiosa situazione in cui noi non vediamo la causa dell’effetto, ma la causa (per così dire) guarda noi. Ci guarda e ci doppia: siamo noi stessi la ragione della catastrofe che osserviamo, pur nell’oscenità della nostra ignavia.
Questa ripartizione degli sguardi è ciò che, secondo Žižek, Malabou non vede o fa finta di non vedere: troppo coinvolta nella contemplazione (distopica) della forma (mutilata), Malabou non separa i piani di risonanza per cui dalla forma (finita) si potrebbe risalire alla causa (infinita) per scoprire, infine, che la prima non è che un effetto della seconda. In altre parole, ciò di cui Malabou eviterebbe (deliberatamente) di parlarci è che, senza la mediazione dell’istanza del doppio (o dell’istanza che sdoppia), il discorso sulla neuropatologia si perde nell’attorniamento e nella dissimulazione – processi panottici, tipici del regime (fantasmatico) della visione totale. L’enfasi di Žižek sulla dialettica tra piacere e jouissance punta a rivelare il circuito nascosto dietro i prestigi del fantasma, il gioco orgiastico del senso e del non-senso, oltre il cui velo si cela la verità per cui il soggetto (forma vuota, trascendentale) sarebbe «già-da-sempre»[7] ciò che sopravvive alla perdita genetica di sostanza (alla perdita cioè della spensierata pienezza di senso che fu propria del soggetto pre-cartesiano). E che il ferito – sia esso lo sfruttato o il soggetto autistico – non è l’unicum o il monstrum di un evento assolutamente singolare o irriducibile a qualsiasi struttura causale, bensì il «“grado zero”» della soggettività cartesiana.[8]
Ora, nella «Presentazione» a Il trauma: Ripetizione o distruzione?, Luigi Francesco Clemente e Franco Lolli affermano che, quello intercorso tra Malabou e Žižek, non sia in realtà un dialogo bensì «l’interazione tra due monologhi».[9] Ciò è vero, oltre che per il motivo riportato dai curatori (ogni dialogo filosofico è un doppio monologo), anche per un altro motivo. Nel leggere questo testo, noi assistiamo alle conseguenze o alle inferenze di due concezioni della trascendenza.
Da un lato, la trascendentalità di un soggetto psichico la cui struttura immaginifica (fantasmatica) e narcisistica (raddoppiante) corrisponde alla stessa, identica struttura del folle. Per Lacan, l’ultima istanza destinale di un soggetto geneticamente e strutturalmente esposto alla follia – destino che Henry Ey individuava in un’energetica funzionale del sistema nervoso – è da imputare ad una «insondabile decisione dell’essere»[10], che regge (pur senza reggerla) lo sviluppo dialettico della causalità psichica. In quest’ottica, l’evento traumatico (Ereignis) non può che essere doppio: doppiato nella sua contingenza e nella sua risonanza all’interno della spaziatura tra il corpo e l’imago, o tra la dimensione estetico-biologica di un sentire e di un vivere immediati e la dimensione della perpetua mediazione narcisistico-fantasmatica, che media appunto tra l’intimità e l’«ex-timità»[11] del soggetto. Per via dell’irriducibilità dei due piani o delle due dimensioni, non è possibile riflettere sulla deflagrazione del soggetto senza pensarla nei termini della «distruzione dell’oggetto a»[12], salvo riconoscere, in questa distruzione, nient’altro che il soggetto stesso nel suo statuto trascendentale e nel suo essere «già-da-sempre»[13] assoggettato alla separazione da (e al raddoppio di) sé. La ferita è il taglio irriducibile di questa separazione trascendentale (la castrazione).
Dall’altro lato, ritroviamo una concezione orizzontale della trascendenza, in cui si espleta il finale catastrofico di tutta una fenomenologia post-bellica dell’Altro, dell’esteriorità del volto e della traccia.[14] La violenza che pensavamo di aver lasciato alle nostre spalle ritorna nella forma dei nuovi “musulmani” di Buchenwald – tutta una folla di volti attoniti, assolutamente incomprensibili, accidentalmente trascendenti o – trascendenti per (mero) accidente. Non se ne ricava alcun senso, nessuna verità etica, o “non-epistemologica”. Qui manca perfino la seppur minima dignità del lutto, dato che il cerebroleso non piange per la morte del soggetto che era prima della lesione.
Per questo motivo, l’obiezione che Žižek muove a Malabou (a un certo punto, bisognerà pur far dialogare i due monologanti) è, pur nella sua perspicacia e nella dovizia di argomenti, al contempo troppo docile e troppo crudele. Critica crudele, perché le imputa la colpa di non mettere in gioco il proprio godimento, quando, dall’altro lato, si potrebbe ritorcere il fendente e rimproverare a Žižek un eccesso di (speranza nel) godimento (per esempio in relazione all’argomento per cui noi non sappiamo se l’indifferenza dei “feriti” – ad esempio, gli autistici – sia dovuta a sofferenza o una sorta di «beata ignoranza»[15] – essendo impossibile saperlo, non si può confermare né confutare l’argomento di Malabou, ma neppure quello di Žižek). Critica docile in quanto, assumendo di petto la difesa della psicoanalisi, egli risparmia a Malabou la difficoltà di dover tornare a riflettere sul rapporto tra il senso e il non senso, e dunque sulla relazione tra plasticità e decostruzione. Per esempio: senso e non-senso sono due domini opposti o due istanze che da sempre si (in-)abitano? Il loro rapporto è tetico o differenziale? Una volta che il viaggio della plasticità (uno dei concetti più promettenti, oggi, anche in ambito scientifico: si pensi al concetto biologico di “plasticità del vivente”) – una volta che il viaggio è approdato sulla sponda della fine del senso, dell’assoluto non sens della distruzione, come assicurarsi del fatto che questa sponda non sia anche l’ultima della plasticità? (O, se non altro – ma non è una questione da poco – la sponda finale del discorso, della possibilità di filosofare o di poter dire anche una sola altra parola sulla plasticità della vita – e della morte). Sul piano filosofico, la nozione di plasticità distruttrice porta con sé tutte queste domande.
Ad ogni modo, per concludere, la lettura de Il trauma: Ripetizione o distruzione? fornisce un’idea complessiva del potere dislocante del trauma, nel suo valore al contempo psicologico, esistenziale e politico-ontologico. Per questo motivo, i cinque saggi che compongono questo bellissimo testo non sono dedicati soltanto agli specialisti (filosofi, psicoterapeuti, neurologi) ma si rivolgono anche ad un pubblico più vasto. Al netto dell’articolazione delle questioni, psicoanalisi e decostruzione ci insegnano forse il significato più profondo della parola “blessé”: che il predicato può, per sempre o già da sempre, infrangere la sovranità della sostanza (e l’immunità ideale del senso). Ed è una possibilità, questa, che riguarda tutti noi, collettivamente.
Note:
[1] Catherine Malabou, Slavoj Žižek, Il trauma: Ripetizione o distruzione? Un confronto tra psicoanalisi, filosofia e neuroscienze, a cura di Luigi Francesco Clemente e Franco Lolli, Galaad Edizioni, Giulianova (TE) 2022.
[2] Rimandiamo, a tal proposito, a: Ontologia dell’accidente. Saggio sulla plasticità distruttrice, trad. it. di V. Maggiore, Meltemi, Sesto San Giovanni 2019.
[3] C. Malabou, Les nouveaux blessés. De Freud à la neurologie, penser les traumatismes contemporains, PUF, Parigi 2017, p. 19.
[4] Žižek, «Descartes e il soggetto post-traumatico», in: Il trauma: Ripetizione o distruzione?, cit., p. 36.
[5] Ivi, p. 45. Cfr. S. Žižek, Benvenuti nel deserto del reale, trad. it. di Piero Vereni, Meltemi, Sesto San Giovanni 2022.
[6] Il leitmotiv della risonanza ritorna in punti strategici del testo di Žižek, cfr.: Ivi, p. 38, p. 43, p. 53.
[7] Ivi, p. 63.
[8] Ivi, p. 72.
[9] Malabou, Žižek, Il trauma: Ripetizione o distruzione?, cit., p. 8.
[10] J. Lacan, «Discorso sulla causalità psichica», in: Id. Scritti. Vol. I, trad. it. di Giacomo Contri, Giulio Einaudi editore, Torino 2002, p. 171.
[11] Žižek, «Descartes e il soggetto post-traumatico», cit., p. 54.
[12] Ivi, p. 56.
[13] Ivi, p. 63.
[14] Cfr. C. Malabou, La plasticité au soir de l’écriture. Dialectique, destruction, déconstruction, Éditions Léo Scheer, Parigi 2005.
[15] Žižek, «Descartes e il soggetto post-traumatico», cit., (ripetuto tre volte nel corso di) pp. 48-50.
FONTE: https://www.altraparolarivista.it/2022/09/08/trauma-e-ferita-nel-dialogo-tra-catherine-malabou-e-slavoj-zizek-domenico-licciardi/
Autopoiesi e totalitarismo
… il corso spontaneo della trasformazione storica di una società umana come unità è verso il totalitarismo; questo perché le relazioni che subiscono una stabilizzazione storica sono quelle che hanno a che fare con la stabilità della società come una unità in un dato medium. e non con il benessere degli esseri umani suoi componenti che possono operare come osservatori. Ogni alro corso richiede una scelta etica; non sarebbe spontaneo, sarebbe un lavoro d’arte, un prodotto del design estetico umano. Se gli esseri umani non fossero osservatori, o capaci di esserlo, la stabilizzazione delle loro proprietà non sarebbe un problema perché essi non sarebbero capaci di desiderare altro. (Maturana, Varela – Autopoiesi e Cognizione, 1972, p. 43)
Il “medium” è
il dominio nel quale è realizzata come una unità (idem, p. 42)
e può o meno includere i componenti della società stessa e altre società. Tale medium è indipendente dalla società e
opera: a) come un selettore del cammino di cambiamento strutturale che la società segue nella sua storia individuale, e b), se stabile, come uno stablizzatore storico delle strutture che realizzano le relazioni invarianti selezionate che definiscono la società come un sistema sociale particolare. (idem, p. 40)
In altra parte del testo, l’operazione del conoscere da parte di un “osservatore” è definita come segue:
… quando un osservatore asserisce di conoscere un sistema, asserisce che può definire un metadominio dalla cui prospettiva può simultaneamente guardare il sistema come una unità semplice, descrivendo le sue interazioni e relazioni come una unità semplice, e i suoi componenti come componenti, descrivendo le loro interazioni e relazioni come componenti. (idem, p. 36)
Ragionando sulla tesi di Hanna Arendt che il male prodotto dal nazismo non sia estremo, mostruoso, ma “banale”, Simona Forti (Simona Forti, I nuovi demoni. Ripensare oggi male e potere, Feltrinelli, Milano 2012) sottolinea come, secondo la filosofa tedesca, tale male dipenda da un difetto di “pensiero”, là dove quest’ultimo
è quell’attività grazie a cui l’io ritorna su ciò che ha fatto e ciò che ha visto. E il male, afferma qui Arendt, ha senza dubbio a che fare con il deterioramento di questa capacità. (Simona Forti, idem),
la capacità di
sdoppiarsi e ritornare costantemente su se stesso. Come se funzionasse grazie a un continuo doppio movimento, quello di fuoriuscita dal cerchio chiuso dell’autoreferenzialità del sé e quello di ritorno su di sé, per ricordare e rielaborare ciò che si è visto ed esperito. (Simona Forti, idem)
I concetti di “osservatore” e di “pensiero” si avvicinano molto all’operazione della pratica buddista di meditazione tesa alla presenza mentale cui è accennato in un post precedente: in un contesto in cui si parla di sofferenza, causa della sofferenza e uscita dalla sofferenza, la terza nobile verità è riformulata come “la mente che vede la mente con chiarezza”.
Il fenomeno del totalitarismo, quindi, trova le sue radici nell’indebolirsi di questa capacità, nel diminuire in numero degli individui capaci di “pensiero”, di essere “osservatori”.
Ho dei dubbi in merito alla “spontaneità” del fenomeno del totalitarismo. Un potere che punti al totalitarismo ha bisogno di limitare e in prospettiva eliminare dall’interno della società totalitaria gli “osservatori” capaci di “pensiero”. Il nazismo lo fa con l’internamento, con l’emigrazione, con lo sterminio. Ottiene il risultato che in Germania gli “osservatori” sono assenti.
E tuttavia il potere totalitario se può fare ciò nello spazio che definisce (noi vs loro) (e la definizione di uno spazio è necessaria per il totalitarismo, perché ha un bisogno vitale di un nemico), non lo può fare fuori. Parte del “medium” in cui opera è al di fuori del suo controllo. Là sopravvivono gli “osservatori”.
Il potere totalitario, quindi, o controlla tutto il mondo, o rischia sempre di crollare (ecco perché l’idea del dominio mondiale dei nazisti non era una semplice millanteria). E la dinamica dell’umanità mi sembra più vicina alla dinamica dei fatti atmosferici. La società totalitaria è troppo semplicistica per sperare di poter avere ragione della complessità del reale.
FONTE: https://pensieriprovinciali.wordpress.com/2014/07/18/autopoiesi-e-totalitarismo/
CYBERWAR SPIONAGGIO INFORMAZIONE DISINFORMAZIONE
Come finirà la guerra in Ucraina?
di Visconte Grisi
Quando si cerca di riflettere sull’evoluzione che potrà avere la guerra in Ucraina una domanda sorge spontanea: la guerra e le distruzioni in Ucraina possono costituire i prodromi di una terza guerra mondiale? Certamente, anche se da diversi anni ormai si sente parlare di “terza guerra mondiale a pezzi”, di “guerra per procura” ecc., questa volta il ricorso a una terza guerra mondiale per risolvere la crisi è reso molto problematico dall’entità delle distruzioni che un tale evento comporterebbe.
Inoltre attualmente nessuna delle potenze in gioco sembra in grado di produrre questo immane sforzo: non gli Stati Uniti che rimangono comunque i più forti sul piano militare ma deboli sul piano industriale dopo decenni di delocalizzazioni, la cui egemonia mondiale si fonda ormai solo sul capitale finanziario; non l’Unione Europea, debole sul piano militare e in preda alle solite divisioni, con una industria tecnologicamente avanzata che ha bisogno dei mercati mondiali di gamma medio/alta; non la Russia che accoppia alla potenza militare ereditata dall’URSS una economia basata quasi esclusivamente sull’esportazione delle materie prime; non la Cina ancora indietro sul piano militare e tesa ad espandersi sul piano commerciale lungo le varie “vie della seta” e con problemi di sviluppo interno ancora non risolti.
L’andamento della guerra, dopo il primo azzardo di Putin in Ucraina, sembra confermare questa ipotesi con gli Stati Uniti aggressivi a parole ma cauti nei fatti, la Cina che attende sorniona l’evolversi degli avvenimenti e l’Unione Europea con smanie interventiste che servono per giustificare una politica di riarmo.
Dopo il fallimento del tentativo di Putin di una guerra lampo, una “blitzkrieg” di infausta memoria, la guerra in Ucraina si è impantanata in un territorio caratterizzato da profonde differenze etniche, linguistiche ed economiche, né si riesce a intravedere una qualche soluzione negoziale di una guerra che, peraltro, non è stata mai dichiarata.
La guerra in Ucraina sembra quindi destinata a rimanere un episodio della guerra permanente già in atto da alcuni decenni, un episodio certamente doloroso per le distruzioni e le migliaia di vittime civili, ed emotivamente (e mediaticamente) più sentito di quanto avvenuto per l’Afghanistan o per l’Iraq, per la Siria o per la Libia in quanto più vicino a noi nel cuore dell’Europa. Ricordo però che già nel 1999 ci fu una guerra in Europa, ovvero nella ex Jugoslavia, che costituisce un precedente rispetto alla guerra attuale.
Per ritornare comunque alla nostra domanda iniziale, in ultima analisi la questione se la guerra in Ucraina possa diventare l’inizio della terza guerra mondiale o rimanere un episodio della guerra permanente già in atto dipenderà dall’andamento della crisi capitalistica iniziata ormai qualche decennio fa e ancora non risolta. Se la crisi capitalistica in corso viene definita come una crisi ciclica dell’accumulazione, di cui è piena la storia del capitalismo, una sua soluzione attraverso una guerra generalizzata può essere una ipotesi sostenibile. Ma se la crisi in corso è espressione del declino storico del modo di produzione capitalistico, pur con una sua accelerazione, l’ipotesi di una guerra generalizzata perde di vigore. Come dice Paul Mattick in un suo articolo del 1940:
“Ma cosa succede se la depressione economica diviene permanente? Anche la guerra seguirà lo stesso andamento e quindi la guerra permanente è figlia della depressione economica permanente.” Mattick porta poi alle estreme conseguenze la sua analisi quando afferma: “Oggigiorno, si tratta solo di vedere se, nella misura in cui la depressione non sembra più poter ricostituire le basi di una nuova prosperità, la guerra stessa non abbia perduto la sua funzione classica di distruzione-ricostruzione indispensabile per innescare un processo di rapida accumulazione capitalistica e di pacifica prosperità postbellica”.(1)
Un secondo elemento di riflessione è il seguente. La guerra in corso può segnare la fine del processo di “globalizzazione” che ha caratterizzato gli ultimi decenni, o portare verso una nuova “globalizzazione” bipolare, come sostengono alcuni, a mio avviso, nostalgici di un mondo che fu, in cui tutto era più chiaro e in cui ci si poteva schierare agevolmente. Per maggiore chiarezza la nuova “globalizzazione” bipolare avrebbe come protagonisti i paesi BRICS con alla testa Cina e Russia. Credo però che bisogna operare una distinzione fra creazione del mercato mondiale, che è una caratteristica permanente e ineliminabile del modo di produzione capitalistico, pur con le sue diverse fasi, e la cosiddetta “globalizzazione”, intesa come la risposta data dal capitale alla crisi degli anni 70 e alla relativa caduta del saggio di profitto, con le sue caratteristiche specifiche che oggi sono entrate in una fase di crisi. Una risposta che ha portato attraverso processi di concentrazione globale, di megafusioni transnazionali e acquisizioni all’estero, al formarsi delle grandi multinazionali senza patria in concorrenza fra di loro per il controllo del mercato mondiale.
Robert Reich, già ministro del lavoro del governo statunitense, salutava nel 1992, dal suo punto di vista privilegiato, il superamento dei confini nazionali da parte del mercato mondiale. Egli affermava:
”Dato che quasi tutti i fattori di produzione – il denaro, la tecnologia, le aziende e le strutture – si muovono senza sforzo attraverso le frontiere, l’idea stessa di economia nazionale sta perdendo significato”. In futuro “non vi saranno più prodotti, tecnologie, aziende o industrie nazionali. Non vi saranno più economie nazionali così come abbiamo sinora inteso questa espressione”(2).
Non solo, il formarsi delle grandi multinazionali ha determinato una nuova e, forse, inedita divisione internazionale del lavoro basata sul controllo delle nuove tecnologie e sulle differenze, a livello mondiale, del costo del lavoro. Tuttavia mi sembra difficile riorientare la divisione internazionale del lavoro (con il conseguente commercio mondiale), affermatasi negli ultimi decenni, per costringerla entro i limiti di blocchi geopolitici, come sostengono i sostenitori della “fine della globalizzazione”.
Recentemente il presidente Biden ha emesso il “Chips and Science Act 2022” il cui scopo è quello di riportare la produzione dei chips (semiconduttori) negli Stati Uniti. E’ noto che già prima della guerra si erano verificate gravi disfunzioni in importanti filiere produttive per la mancanza o la carenza dei chips (microprocessori di computer) e di altri semilavorati che viaggiano lungo le catene produttive delocalizzate. La guerra in corso ha accentuato in maniera estrema questi processi. . Nel 2014 i compagni di Clash City Workers nel loro libro “Dove sono i nostri” parlavano del fenomeno del “ reshoring” cioè della tendenza al ritorno di alcuni settori produttivi nei paesi a capitalismo avanzato e in particolare negli USA. “E’ il caso del programma di attrazione di investimenti esteri “Select USA” varato nel 2011 dall’amministrazione Obama che “intende rappresentare il paese come destinazione produttiva senza pari e sostenere la campagna per una riscossa manifatturiera quale pilastro della ripresa economica”…”Emblematica di questo “nuovo” scenario è la vociferata delocalizzazione di Foxconn – la famigerata multinazionale taiwanese che lavora soprattutto per la Apple e che in Cina ha stabilimenti di centinaia di migliaia di operai – nientemeno che negli USA : la “soluzione americana” potrebbe richiamare il modello adottato da Marchionne con la Chrysler. Abbassando il costo del lavoro, per sostenere l’adeguamento e l’espansione degli organi produttivi”…”Per capirci: gli operai della Chrysler sono passati dai 30$ netti all’ora del pre-crisi ai 15$ del 2013″.(3) Il programma del “reshoring” era naturalmente al primo posto all’epoca della presidenza Trump. Trump convocò alla Casa Bianca i CEO di Ford, Fiat Chrysler (Sergio Marchionne) e di General Motors, promettendo una vasta “deregulation” in cambio del ritorno della produzione in USA, e minacciando, in caso contrario, forti dazi doganali. La risposta dei CEO fu tiepida e ambigua, mettendo in evidenza la difficoltà delle multinazionali a rientrare in una visione “nazionale” dei loro interessi. Dal dire al fare c’è di mezzo il mare. A meno che le sanzioni di guerra di Biden non riescano a fare quello che i dazi doganali di Trump non sono riusciti a portare a termine. Parliamo qui del gas liquido americano, quasi imposto da Biden ai dubbiosi alleati europei, anche se costa di più, ha un processo di estrazione più inquinante, deve essere trasportato via mare e necessita della costruzione di rigassificatori. Le posizioni oscillanti di diversi governi europei sulla questione delle sanzioni sul gas nei confronti della Russia sono lì ad indicare le difficoltà economiche conseguenti alle sanzioni. A questo proposito Mattick dice:
“… Proprio questo processo, anzi, non fa altro che illustrare una volta di più la completa incapacità del capitalismo di portare a compimento un riassetto davvero razionale dell’economia mondiale… Il capitalismo, dopo aver creato il mercato mondiale, è incapace di garantire per sé stesso una spartizione pacifica dello sfruttamento mondiale e di controllare i reali bisogni della produzione mondiale, rappresentando quindi un vincolo per l’ulteriore sviluppo delle forze produttive umane… a meno che non venga creato un organo socio-economico per la regolamentazione cosciente dell’economia mondiale”.
Ma questo sembra fuori dalla portata del modo di produzione capitalistico. La spesa militare è stata portata al 2% del PIL, come già richiesto da Trump nell’ambito del finanziamento della NATO. Naturalmente questo porterà a tagli alla spesa pubblica per il welfare (pensioni, sanità, istruzione ecc.), che sono comunque salario indiretto dei lavoratori. La produzione di armi, di più o meno alto livello tecnologico, continuerà comunque a crescere a dismisura. Il complesso militare-industriale non rinuncerà facilmente a una sua particolare “riproduzione allargata”, anche perché al suo interno si svolge il grosso della ricerca scientifica e tecnologica , con le sue crescenti propaggini nelle università private e pubbliche. A questo proposito destano quindi stupore le affermazioni di Draghi, relative alla cosiddetta “Bussola strategica per la difesa europea”, quando parla di una ripresa economica trainata dalla produzione di armi. Si riferisce evidentemente alle ordinazioni che possono arrivare alla media e piccola industria italiana dalla nostrana Leonardo Finmeccanica o, più ancora, dal progettato riarmo tedesco. A questo proposito si parla della nascita del “Polo imperialista europeo”, mentre all’orizzonte si profila un nuovo PNRR europeo appositamente creato per supportare questa politica di riarmo.
Inoltre dobbiamo ricordare che da più di due anni noi ci troviamo in uno stato d’emergenza che da praticamente mano libera al governo di legiferare attraverso decreti legge, uno stato d’emergenza giustificato finora con motivi sanitari molto discutibili, e che ora viene prorogato a causa della guerra. A questo punto risulta sempre più difficile distinguere fra un regime definito come democratico e uno bollato come autocratico. Già all’inizio della pandemia avevamo previsto che si sarebbero imposte forme di governo autoritarie e decisioniste e sarebbe aumentata la militarizzazione del territorio e della società. A questo proposito vogliamo ricordare che nell’aprile 2003 la NATO ha pubblicato un rapporto di 140 pagine denominato “Urban Operations in the Year 2020” (UO 2020). Nel rapporto si prevedeva, entro l’anno 2020, una crescita delle tensioni economico-sociali, alle quali si potrà far fronte – secondo il rapporto – solo con una presenza militare massiccia, spesso su periodi di tempo prolungati. Nell’UO 2020 si consiglia di iniziare gradualmente ad utilizzare l’esercito in funzione di ordine pubblico all’avvicinarsi della crisi mondiale ipotizzata per il 2020. Ebbene siamo arrivati al 2022 e gli scenari ipotizzati nel rapporto NATO si rivelano molto attuali e quindi la raccomandazione contenuta nell’ultima parte “sull’esercito in funzione di ordine pubblico”, già operante in Italia da diversi anni, ha subito una accelerazione proprio in occasione dell’emergenza coronavirus, segnando una ulteriore militarizzazione del territorio.
Ma le conseguenze più drammatiche della guerra in Ucraina e delle conseguenti sanzioni anti russe si stanno manifestando sul piano economico e sociale. Parliamo qui di quella che viene definita una “economia di guerra”, senza che ci sia peraltro una guerra apertamente dichiarata. Già all’inizio della pandemia di Covid 19 prendevamo in considerazione alcuni fenomeni che potevano far ritornare alla mente situazioni tipiche di una economia di guerra. Citavamo, ad esempio, “la riconversione industriale in alcune fabbriche per la produzione di merci non più reperibili sul mercato nazionale, come le mascherine o i respiratori… la limitazione, certo notevole anche se limitata nel tempo, dei consumi interni, fatta eccezione per il settore alimentare e farmaceutico… l’aumento del risparmio privato, che diviene perciò obiettivo privilegiato sia dei fondi di investimento che delle emissioni dei titoli di stato”.(4) A tutto ciò si sarebbe aggiunto, poco tempo dopo, la speculazione sui prezzi dei generi di prima necessità, il coprifuoco di fatto, abbellito con il termine esotico di lockdown e l’introduzione di un lasciapassare per accedere a quasi tutte le attività, compresa quella lavorativa, anche qui camuffato con un termine falsamente ecologico, e cioè il green pass.
Del resto lo scoppio della guerra fra Russia e Ucraina ha fatto quasi cadere nel dimenticatoio tutte le belle promesse di grande sviluppo economico contenute nel PNRR, provocando anzi una accelerazione vertiginosa della crisi. Intanto era già partito un altro elemento fondamentale dell’economia di guerra, vale a dire il vistoso aumento di prezzo delle materie prime con la conseguente ripresa dell’inflazione.
L’aumento di prezzo interessava naturalmente il petrolio, il gas naturale o il carbone, di cui peraltro esiste oggi nel mondo una grande sovrapproduzione, ma, ancora di più alcune materie prime necessarie alla cosiddetta transizione green e a quella digitale. Parliamo di rame, litio (batterie), silicio (microchip), cobalto (tecnologie digitali), metalli rari ecc.
“Questa combinazione fra stagnazione e inflazione potrebbe ricordare la grande crisi degli anni 70, dopo la famosa “crisi petrolifera” del 73, quando, per descrivere la nuova situazione economica venne coniato il termine, poi diventato corrente, di “stagflazione”.(5)
Lo scoppio della guerra ha naturalmente portato all’estremo questi fenomeni, compresa una inflazione galoppante che coinvolge ora anche i generi di prima necessità, con il conseguente taglio di fatto dei salari dei lavoratori, oltre all’aumento stratosferico delle bollette energetiche. Bisogna notare però che questi fenomeni sono solo in parte dovuti alla guerra in Ucraina e alle sanzioni, mentre la parte più consistente degli aumenti delle materie prime è dovuta alle speculazioni finanziarie in corso alla borsa di Amsterdam e ai conseguenti sovrapprofitti delle grandi multinazionali dell’energia, come la nostrana ENI.
L’aumento delle bollette sta già provocando in Europa alcune reazioni. In Gran Bretagna circa 130.000 persone, per ora, riunite nel gruppo Don’t Pay UK, si sono impegnate a non pagare più la bolletta dell’elettricità a partire dal primo ottobre.(6) Una forma di disobbedienza civile che ricorda le forme di autoriduzione in voga in Italia nel 76/77. A Napoli, qualche giorno fa, un centinaio di disoccupati, aderenti al movimento “7 novembre”, hanno bruciato in piazza, durante un presidio davanti alla sede del consiglio comunale, le bollette raddoppiate o triplicate rispetto a quelle di qualche mese fa.(7) A Tolosa, in Francia, un collettivo ambientalista ha rivendicato un’azione di sabotaggio di due campi da golf irrigati. L’azione fa eco alla discussione sulla gestione delle risorse idriche che anima l’opinione pubblica francese, dopo la scelta del governo di mantenere l’irrigazione dei campi da golf, e al contempo di vietare l’irrigazione degli orti. Poco tempo prima, nel comune di Gérardmer nei Vosgi, le vasche idromassaggio di cinque case di villeggiatura sono state sabotate, dopo giorni di forti disagi causati dalla pesante crisi idrica che ha colpito la regione. Nel frattempo a Parigi un gruppo ecologista, Les dégonfleurs de Suv, ha rivendicato una serie di azioni di sgonfiaggio dei pneumatici dei Suv parcheggiati in strada, denunciando la responsabilità di questi veicoli nella produzione di emissioni di gas climalteranti. Si tratta evidentemente di azioni rivolte contro i consumi dei ricchi, che alludono a una giusta interpretazione classista della riduzione dei consumi energetici.
In ogni caso, se la situazione, come sembra molto probabile, dovesse precipitare in autunno con il prezzo del gas schizzato fino a 350 euro/MWh, rispetto ai 25 euro/MWh di prima della guerra, l’Unione Europea sarebbe costretta ad adottare delle misure in parziale contraddizione con il neoliberismo atlantista. Si parla di “sospendere temporaneamente il funzionamento libero del mercato Ttf di Amsterdam e creare un fondo anti speculativo finanziato dalla Banca Centrale Europea… Ma, per ottenere questo risultato, serve una determinazione e una coesione europea che latita, con effetti devastanti sull’economia reale”.(9)
In mancanza di questo ogni stato andrà per la sua strada, come già in parte sta avvenendo. Spagna e Portogallo hanno già fissato un tetto al prezzo del gas, fidando sulla ridotta interconnessione energetica con il resto del continente. Naturalmente l’Olanda è contraria alla fissazione di un tetto, beneficiando della vendita del loro gas a prezzi alti, mentre anche la Norvegia, che fa parte della NATO ma non dell’UE, sta facendo affari d’oro con la vendita del suo gas. La Francia è parzialmente meno colpita dai rincari in quanto produttrice di energia con le sue centrali nucleari,(10) mentre l’economia della Germania è gravemente in pericolo dopo la chiusura del gasdotto North Stream. L’Italia è forse il paese più a rischio visto che importa circa 71-74 miliardi di metri cubi ogni anno e il cui debito pubblico diverrebbe facile bersaglio della speculazione finanziaria. Si accentuerebbero naturalmente tutte le forme di sovranismo di destra e di sinistra; dopo l’Ungheria di Orban che continua a comprare il gas dalla Russia anche in Repubblica Ceca è sorto un movimento nazionalista contrario alle sanzioni anti russe.
L’evoluzione verso una economia di guerra si presenta da subito come fortemente intrecciata con l’andamento della questione energetica. Relazioni internazionali ed energia sono fattori che si condizionano a vicenda: l’energia da componente economica si trasforma inevitabilmente in geopolitica modificando gli equilibri globali e nei “venti di guerra” di queste settimane il ruolo centrale spetta al gas. Sembra che uno degli obiettivi principali della guerra di Putin in Ucraina fosse quello di creare divisioni all’interno della UE ed, eventualmente, provocare un distacco dall’alleanza atlantica. Questo secondo obiettivo mi sembra difficile da realizzare mentre le divisioni all’interno della UE sono comunque rilevanti e di difficile soluzione, anche se si possono escludere decisamente ritorni a forme di autarchia fuori tempo. E’ necessario però aggiungere che le divisioni all’interno dell’UE possono essere gradite anche agli Stati Uniti, come dimostra un breve estratto video di una conferenza di G. Friedman, influente politologo americano, datata 2015, in tempi non sospetti.(11) Inoltre è necessario mettere in evidenza l’importanza delle reti logistiche internazionali all’interno di una ridefinizione degli spazi geopolitici e delle eventuali guerre future. In un articolo che compare su questo numero della rivista Daniele Ratti comincia ad affrontare questa problematica, che necessita comunque di uno studio accurato.
Per completare lo scenario bisogna però aggiungere un altro elemento che riguarda la Russia. La guerra economica in corso fra i paesi NATO e la Russia, a colpi di sanzioni e contro sanzioni, potrebbe avere effetti catastrofici sull’economia russa, se la guerra, come sembra probabile dovesse durare a lungo. Le sanzioni sono finanziarie, come l’esclusione dal sistema di transazioni internazionali SWIFT, ma riguardano anche l’accesso della Russia alle tecnologie chiave, come le forniture globali di chips e di semiconduttori di fascia alta, fondamentali per il suo sviluppo militare.
“Tutto sommato, l’invasione dell’Ucraina da parte di Putin è un’enorme scommessa che, se non riuscirà a “neutralizzare” l’Ucraina e costringere la NATO ad un accordo internazionale, indebolirà gravemente l’economia russa e la Russia non è una superpotenza, né economicamente né politicamente … L’economia russa è un “trucco unico”, che si basa principalmente sulle esportazioni di energia e di risorse naturali e, dopo un breve boom, dovuto all’aumento dei prezzi dell’energia dal 1998 al 2010, l’economia ha sostanzialmente ristagnato …”(12)
Inoltre “dopo la guerra, la Russia sta cercando di reindirizzare il metano verso la Cina. Ma mancano le infrastrutture e le sanzioni occidentali ritarderanno i suoi progetti. Mosca non potrà aumentare a oriente le forniture di gas rispetto ai livelli europei del 2021, prima di dieci anni”.(13)
Un’ ultima considerazione: anche in questa guerra, come in tutte le guerre recenti a partire dalla prima guerra del Golfo del 90/91, è stato tirato in ballo, da ambedue le parti il concetto di “guerra giusta”. “La guerra giusta è divenuta un atto che si giustifica da sé. In particolare, vi sono due elementi che si intrecciano in questo concetto di guerra giusta: innanzitutto la legittimazione dell’apparato militare nella misura in cui è fondato eticamente; quindi l’efficacia dell’azione militare per ottenere l’ordine e la pace desiderati”.(14) A partire appunto dalla prima guerra del Golfo, la guerra non viene più dichiarata da uno stato contro un altro, ma viene ridotta a un intervento di polizia internazionale rivolto a creare e mantenere l’ordine. Così è stato per l’ “operazione militare speciale” russa in Ucraina, rivolta, secondo le motivazioni ufficiali, contro formazioni definite come “naziste”, mentre la risposta all’aggressione da parte ucraina ha ricevuto immediatamente in Occidente la qualifica di “guerra giusta”.
Note
1) Paul Mattick – “La guerra è permanente”- http://www.leftcom.org/it/articles/1940-01-01/la-guerra-è- permanente. Vedi anche un mio articolo con lo stesso titolo in Umanità Nova n. 29 del 28/10/2018.
2) Robert Reich – The Work of Nations – Random House – New York 1992 (tr. it. L’economia delle nazioni: come prepararsi al capitalismo del Duemila – Il Sole 24 Ore Libri – Milano 1995).
3) Clash City Workers – Dove sono i nostri. Lavoro, classe e movimenti nell’Italia della crisi – La Casa Usher 2014.
4) Lo spillover del profitto. Capitalismo, guerre ed epidemie – a cura di Calusca City Lights – Edizioni Colibrì, 2020 – L’economia di guerra al tempo del coronavirus.
5) Visconte Grisi – Arriva la grande depressione? – in Umanità Nova – n. 27 del 19/09/2021.
6) https://m.facebook.com/groups/112407946146/permalink/10159904013601147/?sfnsn=scwspwa.
7) https://www.rainews.it/…/caro-vita-disoccupati-bruciano… b15e-4453-bd10-8485b3f13f24.html?nxtep Letizia Molinari – “Agite concretamente, o lo faremo noi per voi” – JacobinItalia – 31 Agosto 2022.
9) Giovanni Cagnoli – Vincere la guerra/Tre proposte per fermare subito la speculazione sul prezzo del gas – Linkiesta.it – 3 Settembre 2022.
10) Notizie ultime provenienti dalla Francia ci segnalano però che 32 reattori nucleari su 56 sono attualmente fermi, a causa di problemi di manutenzione e della siccità che ha prosciugato i fiumi che raffreddano le centrali, e niente indica che potranno riprendere prima dell’inverno. L’aumento annunciato di circa il 15% delle bollette elettriche, modesto rispetto agli aumenti in Italia, non sarebbe dovuto alla produttività del nucleare. Comunque la Francia ha concluso un accordo commerciale con la Germania che prevede l’importazione di energia elettrica in cambio di gas.
11) https://www.youtube.com/watch?v=emCEfEYom4A
12) Michael Roberts – Russia: dalle sanzioni al crollo? – Michael Roberts blog – 2 Marzo 2022
13) Luciano Capone – Perché Putin non può piazzare in Asia tutto il gas che vendeva all’Europa –Il Foglio, 13 Settembre 2022.
14) Michael Hardt/Antonio Negri – Impero/Il nuovo ordine della globalizzazione – Rizzoli 2002.
FONTE: https://www.sinistrainrete.info/crisi-mondiale/24067-visconte-grisi-come-finira-la-guerra-in-ucraina.html
Ucraina: la guerra di Putin, la guerra di Biden
di Ernesto Screpanti*
La guerra d’Ucraina può essere spiegata a tre livelli di profondità. È una guerra d’aggressione all’Ucraina da parte della Russia, una guerra inter-imperiale per interposta nazione tra NATO e Russia, una guerra degli USA contro la Germaneu, l’Europa a trazione tedesca. Tutte e tre le spiegazioni sono valide. Qui mi concentro sulla terza. Preliminarmente però devo fornire due chiarimenti teorici.
Il primo riguarda la definizione di “sistema imperiale”. Un mondo dominato dagli imperi non è un caotico complesso di contrasti inter-imperiali. Normalmente funziona come un sistema abbastanza ordinato di relazioni internazionali, cosa che è resa possibile dal fatto che è regolato da una struttura di potere al vertice della quale c’è una potenza egemone.
Questa potenza assolve quattro funzioni fondamentali di governance globale, ponendosi come motore dell’accumulazione, banchiere, sceriffo e avanguardia culturale (Screpanti, 2014). Funziona come motore dell’accumulazione in quanto ha un grosso apparato industriale, un grosso Pil e un’elevata propensione alle importazioni, cosicché la sua crescita produttiva traina la crescita degli altri paesi. Se mantiene un consistente deficit commerciale e/o un consistente deficit del conto finanziario esporta moneta.
In tal modo fornisce al resto del mondo uno strumento di riserva e di pagamento internazionale, e questa è la funzione di banchiere globale. Inoltre, l’impero egemone può essere uno sceriffo globale in quanto possiede le più potenti forze armate del mondo, così da poter disciplinare i paesi canaglia, cioè quelli che non rispettano le regole del gioco.
Infine, in forza dell’enorme surplus che estrae da tutto il mondo, l’impero egemone investe massicciamente nella ricerca scientifica e tecnologica ponendosi all’avanguardia del progresso tecnico; non solo, ma date le sinergie tra le diverse dimensioni del lavoro intellettuale, la potenza egemone riesce anche a esportare nel mondo la propria cultura e l’ideologia delle proprie classi dominanti.
Nello svolgere questi servizi, l’impero egemone ottiene due grossi vantaggi economici. Può mantenere un sistematico deficit commerciale, in virtù del quale consuma più di quanto produce, e un sistematico deficit nel movimento dei capitali, con cui s’impossessa di risorse e capacità produttive di altri paesi. Può farlo perché paga i deficit esterni creando moneta. In sostanza estrae un surplus di merci e risorse dal resto del mondo pagandolo con “carta”.
Un sistema imperiale s’inceppa se il potere dell’egemone viene sfidato da altri imperi emergenti. Quando ciò accade, il mondo entra in una grande crisi sistemica che coinvolge l’economia, la politica e la cultura.
Ciò è accaduto, ad esempio, nella prima metà del ventesimo secolo, quando l’egemonia britannica, che aveva retto il mondo per un secolo, fu sfidata dall’impero tedesco e da quello americano. La grande crisi sistemica di allora è durata 31 anni, dal 1914 al 1945. In mezzo ci sono state due grandi guerre, due grandi rivoluzioni, la grande crisi del ’29, la stagnazione degli anni ’30, il crollo del gold standard e la nascita del fascismo. La crisi si risolse con la sconfitta dell’imperialismo tedesco, il ridimensionamento di quello inglese e l’emergere degli Stati Uniti come nuova potenza egemone.
La mia tesi è che all’inizio di questo millennio siamo entrati in una nuova grande crisi sistemica a causa del successo di due potenze imperiali, Cina e Germaneu, che stanno sfidando l’egemonia americana.
Il secondo chiarimento riguarda la necessità di separare la politica dall’economia. Anche sul piano delle relazioni internazionali esiste un’autonomia del politico. Da una parte c’è una spinta all’accumulazione capitalistica, che punta a estendere il dominio del capitale su scala mondiale attraverso l’internazionalizzazione delle imprese, l’espansione del commercio estero, lo sviluppo delle catene internazionali del valore.
I soggetti di questo processo costituiscono la classe dei capitalisti. Le loro relazioni economiche si evolvono attraverso processi di competizione oligopolistica. Dall’altra parte c’è un’autonoma spinta all’espansione degli imperi politici e all’aumento del loro potere. I soggetti di questo processo costituiscono il ceto dei politici di professione. Le loro relazioni passano per la competizione geostrategica.
All’interno di ogni impero politici e capitalisti cercano d’influenzarsi reciprocamente. Di solito ci riescono abbastanza bene, nel qual caso le azioni politiche ed economiche tendono a essere reciprocamente funzionali. Ma non sempre ciò accade, perché i due gruppi di soggetti hanno interessi diversi, gli uni mirando all’accumulazione di potere, gli altri all’accumulazione di capitale. Si tratta di vedere se, pur in presenza di contrasti disfunzionali temporanei, alla fine si afferma un predominio della spinta politica o di quella economica.
La tesi che sosterrò è che i conflitti geopolitici attuali, che sono finalizzati alla conquista dell’egemonia imperiale, risultano disfunzionali agli interessi del grande capitale multinazionale.
Cos’è la Germaneu?
A volere essere precisi, più che “Europa a trazione tedesca” Germaneu intende significare “Germania con il suo impero neo-mercantilista europeo”. Per capire il senso delle politiche neo-mercantiliste tedesche si deve riflettere sul modo in cui è stata usata l’Unione Economica e Monetaria.
- La moneta unica ha impedito agli altri paesi europei di difendersi dalla concorrenza tedesca con le svalutazioni del cambio
- Ha impedito all’Euro di rivalutarsi quanto si sarebbe rivalutato il Marco se non ci fosse stata l’UEM
- L’euro comunque si è consolidato come moneta forte nei confronti del dollaro, dello yuan e del rublo, così favorendo l’importazione di materie prime, gas e petrolio a basso costo
- I governi tedeschi hanno praticato sistematicamente politiche fiscali restrittive in modo da evitare un’eccessiva crescita dei salari e del costo del lavoro
- In questo modo hanno fatto trainare il Pil dalla crescita delle esportazioni più che da quella della domanda interna
- È stato imposto uno statuto della Banca Centrale Europea che normalmente costringe l’autorità monetaria a fare politiche restrittive più che espansive
- Sono state imposte politiche di austerità anche agli altri paesi europei, così contribuendo a mantenere bassa la crescita salariale e rendere economicamente conveniente l’estensione europea delle catene del valore tedesche
- Le imprese tedesche hanno praticato una sistematica politica d’investimenti diretti esteri greenfield in Europa per produrre semilavorati e componenti a basso costo del lavoro, e allo stesso tempo hanno esteso gli investimenti brownfield in modo da impossessarsi di imprese dinamiche ed efficienti del made in Italy, del made in France eccetera.
Concentriamoci sul punto 8. La Germaneu ha una struttura economica a cerchi concentrici. Al centro c’è un primo cerchio che è costituito dalla Repubblica Federale Tedesca. Intorno c’è un secondo cerchio composto di una serie di paesi con economie fortemente integrate con quella tedesca. Joseph Halevy parla di un “blocco tedesco”; il Fondo Monetario Internazionale, di una “catena del valore Tedesco-Centroeuropea”. Secondo Halevi, nel cerchio delle economie più strettamente integrate con quella tedesca compaiono: Belgio, Olanda, Polonia, Cechia, Slovacchia, Ungheria, Austria, Svizzera. Non c’è l’Italia in quanto tale. Ma io ci metto la Padania, per motivi che spiegherò più avanti.
L’ultimo cerchio è costituito da tutti gli altri paesi dell’Unione Europea i quali, secondo i progetti del cancelliere tedesco Scholz, dovrebbero quanto prima arrivare al numero di 36 e includere le repubbliche dei Balcani occidentali, l’Ucraina, la Moldova e la Georgia. Dal punto di vista della Germania ciò che accomuna tutti i paesi europei è il fatto che, insieme, costituiscono il più grosso mercato di sbocco delle merci e dei capitali tedeschi.
Nel 2021 il 53% delle esportazioni tedesche andava in paesi dell’EU, mentre verso gli Stati Uniti e la Cina andavano il 9% e il 7%. Nel 2020 lo stock d’investimenti diretti esteri della Germania verso gli Stati Uniti era pari a 2.639 milioni di dollari, quello verso Francia, Olanda, Polonia, Italia e Austria a 44.990.
Per dare un’idea dell’economia del secondo cerchio mi avvarrò soprattutto dei contributi di Casiraghi (2021), D’Eramo (2022), Halevi (2022) e Scassellati (2022b). Da quando esiste l’EU tutti i paesi del cerchio hanno progressivamente intensificato gli scambi commerciali con la Germania. E tutti hanno potuto aumentare le esportazioni verso la Cina anche in forza di un’azione di traino svolta delle esportazioni tedesche e dalle interconnessioni industriali create dalle imprese tedesche.
Il blocco del secondo cerchio si può suddividere in tre gruppi di paesi. Il gruppo nord-occidentale, composto da Olanda e Belgio; il gruppo di Visegrád, di cui fanno parte Polonia, Cechia, Slovacchia e Ungheria; e il gruppo meridionale, che contiene Austria, Svizzera e Padania. Nel 2021 la Germania aveva dei leggeri deficit commerciali con la Cechia, la Slovacchia e l’Ungheria e godeva di un surplus verso tutti gli altri paesi del secondo cerchio.
I due paesi del gruppo nord-occidentale hanno un elevatissimo interscambio commerciale con la Germania. Nel 2021, l’Olanda era il terzo partner, dopo Cina e USA; Belgio e Olanda insieme erano il primo. Ormai costituiscono il più grosso hub logistico della Germaneu, soprattutto nel porto di Rotterdam. Importano input produttivi dal resto del mondo e li riesportano in Germania. Hanno un settore manifatturiero tecnologicamente avanzato e competitivo.
I paesi del gruppo di Visegràd si sono specializzati nella produzione di automobili tedesche di fascia bassa e componenti per quelle di fascia alta, oppure, come l’Ungheria, nella produzione di elettrodomestici tedeschi. Importano tecnologie dalla Germania e producono beni e componenti a basso valore aggiunto, fornendo alle multinazionali tedesche un vantaggio competitivo connesso ai bassi salari e a trattamenti fiscali di favore. In molti casi le imprese tedesche fanno produrre in questi paesi componentistica e poi assemblano le merci finali ad alto valore aggiunto in patria. Il volume di scambi che la Germania ha con Polonia, Cechia, Slovacchia e Ungheria è più alto di quello che ha con la Cina.
I paesi del gruppo meridionale sono dotati di apparati industriali efficienti, dinamici e innovativi. Nella classifica mondiale della complessità economica, la Svizzera occupa il secondo posto (dopo il Giappone), la Germania il quarto e l’Austria il sesto. L’indice di complessità economica esprime tra l’altro l’emergere continuo di innovazioni, la presenza di un’organizzazione gerarchica con interazioni numerose e complicate, la capacità dei soggetti economici di evolvere apprendendo. Svizzera e Austria importano molto dalla Germania e vi esportano molto, specialmente beni capitali tecnologicamente avanzati, anche per l’industria militare. Mantengono comunque un deficit commerciale.
Quanto alla Padania – che merita di spenderci qualche parola in più, se non altro per mettere in chiaro che appartiene al secondo cerchio della Germaneu – pare condividere alcune caratteristiche del gruppo meridionale e alcune del gruppo di Visegràd. Infatti è dotata di un apparato industriale dinamico e tecnologicamente avanzato, come i paesi del gruppo meridionale, e nello stesso tempo tende a funzionare come catena del valore subordinata alle multinazionali tedesche, come i paesi del gruppo orientale.
Tra le nazioni del secondo cerchio l’Italia è quella con il maggior numero di robot industriali per 10.000 addetti (224 nel 2020), mentre nell’Area Euro è seconda solo alla Germania (371). E occupa il 14° posto nella classifica della complessità economica. Sembrerebbe non molto alto. Eppure è più alto di quelli del Belgio (21°) e dell’Olanda (27°), oltre che della Francia (16°), della Polonia (23°) e della Spagna (32°).
Le imprese delle regioni settentrionali dell’Italia esportano in Germania beni del made in Italy di alta qualità e molti tipi di semilavorati e prodotti intermedi, anche in settori avanzati come la meccanica di precisione, la meccatronica, le componenti elettro-meccaniche e le plastiche per l’automotive tedesco d’alta gamma. Ciò spiega perché l’interscambio commerciale Italia-Germania è piuttosto forte. In sostanza è di questo tipo: l’Italia esporta soprattutto beni intermedi dei settori della siderurgia, dei macchinari e del chimico-farmaceutico; poi importa i prodotti finiti assemblati in Germania, soprattutto del settore dei mezzi di trasporto e del chimico-farmaceutico.
La Germania è il principale partner commerciale dell’Italia, che ha tuttavia un sistematico deficit degli scambi. Nel 2021 le esportazioni italiane ammontavano a 77,12 miliardi di dollari e le importazioni a 88,55, per un interscambio complessivo di 165,67 miliardi, il terzo (dopo quelli di Olanda e Polonia) tra i paesi del secondo cerchio. Circa il 39% di questo interscambio coinvolgeva la Lombardia nel 2017, ma era forte anche quello di Veneto (17%), Emilia-Romagna (12%) e Piemonte (11%). Tra tutte le altre regioni, quella con il più alto interscambio era il Lazio (7%). Nel 2020 lo stock di investimenti diretti esteri tedeschi in Italia ammontava a 7.142 milioni di dollari (quello detenuto in Svizzera a 4.737).
Le catene del valore tedesche in Italia si avvalgono in parte di beni prodotti da affiliate di imprese multinazionali tedesche, in parte di beni prodotti in imprese partecipate da multinazionali tedesche e in parte di beni prodotti da imprese italiane autonome.
Nel 2015 (l’anno più recente per cui sono riuscito a trovare questo tipo di dati) il numero d’imprese tedesche che detenevano partecipazioni in imprese italiane era pari a 1.357, più alto di quello di qualsiasi altro paese, compresi gli USA (1.138). E il numero d’imprese italiane partecipate da multinazionali tedesche era pari a 2.144. Il 3,7% del fatturato totale realizzato dalle partecipazioni estere delle imprese tedesche era realizzato in Italia, secondo solo a quello realizzato in Svizzera (4%) tra i paesi del secondo cerchio. Infine faccio notare che la restrizione alla Padania come regione integrata globalmente tramite gli investimenti diretti esteri è giustificata anche dal fatto che circa l’80% di questo tipo d’investimenti in Italia si disloca nelle regioni dell’Italia settentrionale.
Un “miracolo geologico” che si chiama Russia
È stata definita “miracolo geologico” perché è ricchissima di risorse minerarie. Detiene il 23% delle riserve mondiali di petrolio, il 33% di quelle di gas e il 50% di quelle di carbone. Ha anche il 10% delle riserve mondiali di terre rare, collocandosi al quarto posto nel mondo dopo Cina, Vietnam e Brasile. Inoltre nel suo sottosuolo si trovano abbondanti riserve di manganese, mercurio, potassio, bauxite, cobalto, cromo, stagno, nichel, fosfati, rame, tungsteno, zinco, alluminio, titanio, uranio, stagno, apatite, sali potassici, magnesite, argento, oro, platino e diamanti. Non solo, ma ha enormi estensioni di terreno fertile per la produzione agricola. E non parliamo delle immense foreste che alimentano la sua fiorente produzione di legname e carta e le industrie di trasformazione del legno.
Non ci si deve perciò meravigliare quando si scopre che la moderna Russia ha una bilancia commerciale sistematicamente in surplus, con circa il 43% delle esportazioni costituito da risorse energetiche, il 17% da altre risorse minerarie e l’8% da prodotti agricoli. Naturalmente sto parlando della situazione prebellica. Particolarmente importanti sono state le esportazioni di energia verso la Germaneu. Il petrolio russo giunge in Europa tramite l’oleodotto Druzhba, mentre il gas è trasportato in Germania dal gasdotto Yamal-Europa (che attraversa la Polonia), e fino qualche giorno fa anche dal North Stream 1 (che passa per il mar Baltico).
In compenso, il settore manifatturiero è poco sviluppato, a parte l’industria pesante e degli armamenti. E piuttosto debole è la capacità innovativa. Nel 2021 la spesa russa in ricerca e sviluppo ammontava a 38 miliardi di dollari, mentre quella statunitense era di 679, quella cinese di 551 e quella tedesca di 143. Si capisce che i principali mercati di sbocco delle esportazioni russe erano i paesi più bisognosi di energia e materie prime, cioè i più industrializzati dell’Eurasia: Cina, Germania e Olanda. E indovinate quali erano i paesi da cui la Russia importava di più? Be’, erano quelli tecnologicamente più avanzati: Cina, Germania e Stati Uniti, con la Germaneu al primo posto.
In particolare la Germania ha giocato un ruolo importante nella reindustrializzazione della Russia post-sovietica, esportandovi macchinari e impianti, contribuendo all’ammodernamento e all’estensione delle reti di trasporto e trasferendovi tecnologie avanzate. La stessa cosa ha fatto la Cina, ma non quanto la Germania e l’EU.
La Russia è importante per la crescita economica della Germaneu non soltanto perché vi esporta materie prime ed energia, ma anche perché è la regione dove passano le reti di trasporto delle merci che la Germania e l’EU scambiano con la Cina (Pepe, 2019), e si ricordi che la Cina è il paese con cui la Germania ha il più grosso interscambio commerciale (292,85 miliardi di dollari nel 2021).
Si può dire che nell’ultimo quarto di secolo si è venuta a creare una robusta complementarità tra Russia e Germaneu. Funziona così: la Russia esporta prodotti agricoli e minerari e reimporta prodotti finiti e beni capitali. È un rapporto di simbiosi che si è andato rafforzando nel tempo, al punto che oggi nessuno dei due paesi può crescere a ritmi sostenuti senza il contributo dell’altro.
Così stretta è tale simbiosi, e la risultante convergenza strategica, che il Centro Studi di Geopolitica della Duma ha definito “Gerussia” la regione cui appartengono i due stati – un nuovo insieme geopolitico la cui potenza sarebbe superiore a quella della somma delle parti. Berlino d’altronde coltiva questo rapporto esclusivo almeno da quando Kohl ricevette il nullaosta russo alla riunificazione tedesca, se non vogliamo risalire addirittura all’Ostpolitik di Brandt (Santangelo, 2016). E tutti i successivi cancellieri tedeschi, fino al 2021, si sono orientati in questa direzione: da Schroeder, che per la sua politica filorussa è stato premiato con la presidenza della Gazprom, e perciò è ora fortemente criticato in Germania; alla Merkel, che si è adoperata per la sottoscrizione degli accordi di Minsk e più in generale per il rafforzamento delle relazioni privilegiate Germania-Russia, e anche lei è oggi criticata per questo.
The empire strikes back
Della crisi dell’egemonia americana si è parlato già negli anni ’70, in un dibattito cui hanno partecipato specialmente economisti statunitensi. Quel dibattito era tutto concentrato sul problema di un indebolimento interno degli Stati Uniti dal quale sarebbe emersa una serie d’incapacità: di tenere in piedi il gold exchange standard stabilito a Bretton Woods; di sconfiggere il Vietnam; di reggere la concorrenza industriale giapponese e tedesca; di mantenere la leadership culturale, scientifica e tecnologica. Poi l’accordo del Plaza (con cui Giappone e Germania sembravano rimessi in riga), l’affermazione del dollar standard (con cui veniva ristabilito il potere monetario) e il crollo dell’impero del male (con cui usciva di scena il principale rivale militare) parvero aver risollevato le sorti dell’egemonia americana.
All’indomani del disfacimento dell’URSS negli Stati Uniti si cominciò a parlare di un “nuovo ordine mondiale”. Paul Wolfowitz, allora sottosegretario alla difesa nel governo di George H. W. Bush, scrisse un Defense Planning Guidance nel quale sosteneva che la politica americana avrebbe dovuto mirare a impedire l’emergere di qualsiasi potenziale futuro concorrente globale e che avrebbe dovuto portare nell’orbita strategica americana tutti gli stati che erano appartenuti alla sfera d’influenza Sovietica (New York Times, 1992).
Successivamente Zbigniew Brzezinski (1997, 209) propose una nuova strategia imperiale in forza della quale gli Stati Uniti avrebbero dovuto porsi come “l’arbitro chiave delle relazioni di potere eurasiatiche”, così diventando “la potenza suprema del mondo”. A tal fine avrebbero dovuto far leva sull’Ucraina, inglobandola nella NATO. Fece anche osservare che questa strategia avrebbe reso l’Europa e la Germania più dipendenti dagli Stati Uniti.
Senonché nel passaggio di millennio emersero i veri fattori della crisi imperiale, cioè due grandi imperi mercantili, quello cinese e quello tedesco, che si sentirono finalmente in grado di lanciare la sfida. È nota l’ostilità di varie amministrazioni statunitensi nei confronti del mercantilismo cinese e di quello tedesco-europeo, cioè delle politiche che hanno portato i due imperi emergenti a realizzare enormi surplus commerciali e a crescere così rapidamente da minacciare il primato americano nel volume del Pil, mentre lo hanno già abbattuto nel volume della produzione manifatturiera.
Della Cina inoltre si paventa la rapida crescita militare e il forte dinamismo tecnologico; della Germaneu anche la capacità di produrre una moneta che fino a qualche anno fa sembrava voler scalzare il dollaro nella funzione di principale strumento di riserva internazionale. È evidente che se la sfida della Cina e quella della Germaneu si dovessero saldare, cosa che potrebbe avvenire sul terreno degli scambi commerciali con e attraverso la Russia, gli Stati Uniti verrebbero surclassati in tutte e quattro le funzioni di governance globale. Si capisce perciò che quell’ostilità è andata gradualmente crescendo, a volte in modo anche ridicolo, fino a esprimersi nella salvinesca genialità di Trump, che credeva di disciplinare i due rivali con le politiche protezioniste, riuscendo invece a danneggiare soprattutto le esportazioni americane.
Con Biden, o meglio, con il think tank politico-militare che gli sta dietro – un gruppo bipatisan di falchi liberali e neoconservatori che fa capo soprattutto al Council on Foreign Relations (Foster, Ross e Veneziale, 2022, 34, 37) – si è affermato un metodo più raffinato: l’uso della NATO per creare un cordone di “sicurezza” sempre più stretto e aggressivo intorno alla Cina e alla Russia. Riguardo alla Germania, pare che il think tank americano abbia individuato nell’imperuzzo di Putin l’anello debole del neoimperialismo tedesco, e che abbia capito di poter colpire economicamente quest’ultimo colpendo militarmente il primo.
Un piano dell’Army Research Division della Rand Corporation (Dubbins, 2019) prevedeva che la Russia avrebbe dovuto essere attaccata, attraverso le sanzioni, nel punto in cui era più vulnerabile, cioè la sua dipendenza dalle esportazioni di energia; e che in tal modo sarebbe anche aumentata la dipendenza dell’Europa dagli Stati Uniti, dai quali avrebbe dovuto importare più petrolio e gas naturale liquefatto.
Quanto alla Cina, bisogna intanto dire che quello che Xi Jinping vorrebbe far passare per “socialismo di mercato con caratteristiche cinesi” si è ormai rivelato come una forma di “vero e proprio capitalismo di mercato con caratteristiche cinesi”, sicché gli Stati Uniti la osteggiano “non tanto per motivi ideologici, come ai tempi della guerra fredda contro l’Unione Sovietica, ma per motivi commerciali, economici, finanziari, tecnologici” (Salmoni, 2022, 111-2). Di conseguenza i paesi della NATO (2022, 5) l’hanno identificata come la principale minaccia “ai nostri interessi, alla nostra sicurezza, ai nostri valori”:
La PRC impiega un’ampia gamma di strumenti politici, economici e militari per aumentare la sua impronta e il suo potere globali, pur rimanendo opaca sulla strategia, le intenzioni e la crescita militare. Le perfide operazioni cibernetiche della PRC e la sua retorica del confronto e della disinformazione hanno di mira gli Alleati e mettono a rischio la sicurezza dell’Alleanza. La PRC cerca di controllare settori chiave dell’industria e della tecnologia, infrastrutture critiche, materiali strategici e catene dell’offerta. Usa la leva economica per creare dipendenze strategiche e rafforzare la propria influenza, si sforza di sovvertire l’ordine internazionale basato sulle regole, inclusi i domini spaziali, cibernetici e marittimi.
Si capiscono le provocazioni del gruppo di battaglia della portaerei nucleare Uss Ronald Reagan nel Mar Cinese Meridionale, le crociere della settima flotta intorno a Taiwan, la visita di cortesia di Nancy Pelosi, la richiesta americana di ammettere Taiwan all’ONU, l’aumento della fornitura d’armi all’isola, l’addestramento americano di forze speciali taiwanesi. Sembrerebbe che l’intento sia quello di trascinare Xi Jinping in una trappola taiwanese come quella in cui è caduto Putin in Ucraina. Dopo di che, giù con le sanzioni alla Cina e le armi a Taiwan. Il termine tecnico è “ucrainizzare Taiwan”.
Nel frattempo, la SEATO essendo stata sciolta nel 1977, pare che gli USA stiano lavorando per fondare una NATO asiatica (Carpenter, 2020). E tanto per cominciare, nel 2021 hanno creato l’AUKUS, l’alleanza militare anti-cinese tra Australia, Regno Unito e Stati Uniti, baluardo dell’imperialismo anglo-sassone in Asia. Poi, sempre nel 2021, hanno rivivificato il Quad plus (Quadrilateral Security Dialogue), un’alleanza informale anti-cinese di cui fanno parte Stati Uniti, Australia, India, Giappone, Nuova Zelanda, Sud Corea e Vietnam.
La guerra economica USA-Germaneu
Ma sul confronto USA-Cina non mi voglio dilungare, essendo qui interessato soprattutto a quello USA-Russia e a quello USA-Germaneu. È noto che l’attuale guerra d’Ucraina – indubbiamente una guerra d’aggressione – è stata preceduta da una serie di provocazioni: dalla strage di Odessa e dal defenestramento di Yanukovich, fino all’approvazione nel 2020 della nuova strategia di sicurezza di Zelensky con l’obiettivo dell’adesione all’Alleanza atlantica. E non dimentichiamo le violazioni degli accordi di Minsk, fatte da entrambe le parti, ma più gravemente da Kiev, il cui governo si è rifiutato di riconoscere l’autonomia alle regioni russofone – un’autonomia che avrebbe potuto contrastare la decisione di aderire alla NATO.
Così la guerra d’Ucraina è diventata una trappola in cui la Russia è caduta con grande orgoglio, e in cui rischia di restare invischiata per diversi anni. Per la precisione, si tratta di una guerra convenzionale d’occupazione, scatenata dalla Russia, che si svolge in parallelo con una “guerra ibrida” americana basata prevalentemente su sanzioni economiche, azioni propagandistiche e disinformative e guerra cibernetica. “Prevalentemente” non vuol dire “esclusivamente”.
L’impegno militare americano in Ucraina è massiccio, passando per la fornitura di armi, l’addestramento di truppe e perfino l’uso dei servizi Starlink (una rete satellitare d’accesso a internet) per il coordinamento del fuoco dell’artiglieria ucraina. È un impegno in una “proxy war”, iniziata nel 2014 con l’invio di istruttori americani alle forze armate ucraine, che finora è costata agli USA qualcosa come 50 miliardi di dollari (Foster, Ross e Veneziale, 2022, 10).
Il fatto più importante, dal punto di vista dei contrasti inter-imperiali, è che le conseguenze economiche della guerra d’Ucraina non ricadono solo sull’Ucraina e la Russia. Ricadono ampiamente anche sulla Germania, che da lungo tempo andava tessendo una tela di strette relazioni commerciali con la Russia e con la Cina (con la quale nel 2020 aveva fatto sottoscrivere all’EU un importante accordo commerciale, il Comprehensive Agreement on Investment).
Agli Stati Uniti era infine diventato chiaro che la Germaneu stava rendendosi indipendente da loro attraverso lo sviluppo delle relazioni economiche euro-asiatiche. D’altra parte, sul piano diplomatico-militare, già dal 2016 era stata varata una Strategia globale dell’Unione Europea per la politica estera e di sicurezza, seguita dall’istituzione del Piano d’azione per la difesa europea e del Fondo europeo per la difesa, tutti provvedimenti con cui si mirava ad aumentare l’autonomia dagli USA rilanciando il multilateralismo (Salmoni, 2020, 229-44).
Tuttavia in epoca più recente, per la precisione il 21 marzo 2022, il Consiglio Europeo ha approvato la “Bussola Strategica”, un piano volto a rafforzare la capacità di difesa europea che si muove piuttosto nell’alveo della NATO e nel rispetto dell’egemonia americana.
Probabilmente è vero quanto sostiene Lang (2021, 70), e cioè che “il principale conflitto nel mondo, oggi, è tra gli Stati Uniti e l’Europa, non tra gli Stati Uniti e la Cina”. Ebbene le conseguenze geopolitiche della guerra d’Ucraina sono tali da aver precluso per diversi anni a venire lo sviluppo delle relazioni simbiotiche dell’EU con la Russia e probabilmente anche di aver indebolito quelle commerciali con la Cina.
Vediamo intanto alcune delle conseguenze economiche più immediate. E partiamo dai seguenti dati:
I dati del 2021 sono reali. Quelli del 2022 sono stime, probabilmente un po’ ottimistiche. Ad agosto negli USA c’era un’inflazione annuale dell’8,3%, nell’Area Euro del 9,1%, in Germania del 7,9%, in Russia del 14,3% e in Cina del 2,5%.
Le cifre che saltano subito agli occhi sono quelle della Russia, che è in profonda crisi economica e tende all’iperinflazione. Il paese potrebbe entrare in una lunga stagflazione. È vero che le esportazioni e il surplus commerciale hanno continuato a crescere, ma questo è stato un effetto dell’aumento dei valori piuttosto che dei volumi. Il rublo, dopo il crollo dei primi giorni di guerra (0,0075 dollari = 1 rublo), si è rivalutato arrivando a un livello (0,0191) perfino superiore a quello d’anteguerra (0,0131).
Questa però è l’unica nota positiva. I salari sono diminuiti di -7,2%, -6,1% e -3,2% nei mesi di aprile, maggio e giugno. E sono diminuite anche le importazioni di beni capitali e i trasferimenti di tecnologia dalla Germaneu. Molte imprese sono rimaste senza pezzi di ricambio, altre senza input produttivi. A giugno la produzione manifatturiera è diminuita di -4,5% su base annua.
L’effetto più grave di lungo periodo potrebbe essere l’innesco di un processo di deindustrializzazione, tanto più grave in quanto la Russia non figura tra i paesi maggiormente industrializzati del mondo. Il che ci fa capire che il fattore tempo gioca contro la Russia. E ha ragione Janet Yellen (2022, 3), la ministra del tesoro americana, quando osserva che gli Stati Uniti, l’EU e gli altri paesi sanzionatori del G7 hanno potuto imporre costi significativi all’economia Russa perché in passato hanno assorbito circa la metà del suo commercio mentre le loro istituzioni finanziarie hanno facilitato gran parte dei suoi investimenti.
Ma le sanzioni stanno colpendo pesantemente anche i sanzionatori. Come ho detto, le stime mostrate in tabella sono un po’ ottimistiche.
I tassi di crescita del Pil tedesco sono stati dello 0,8% nel primo trimestre del 2022 e dello 0,1% nel secondo trimestre. Quelli dell’Area Euro dello 0,7% e dello 0,8%. Né è difficile prevedere che il quarto trimestre si chiuderà con un tasso di crescita molto basso o negativo e che nel 2023 l’intera economia europea entrerà in una recessione, se non una profonda crisi.
D’altra parte si stima che un buon 10% dell’industria tedesca finirà fuori mercato per carenza d’energia e per eccesso d’inflazione. E qualcuno arriva a prevedere addirittura una perdita di base industriale del 25%. È dunque evidente che “le sanzioni contro la Russia sono in realtà delle sanzioni contro la Germania e la competitività della sua industria” (Ferrero, 2022), oltre che contro tutta l’Europa.
L’inflazione era cresciuta già da prima dello scoppio della guerra, ma si pensava che fosse un fenomeno temporaneo dovuto alle strozzature dell’offerta determinate dalla crisi Covid. Senonché la guerra ha scatenato le aspettative degli speculatori. Inizialmente sono state soprattutto aspettative inflazionistiche che hanno fatto aumentare i prezzi dell’energia e dei prodotti agricoli e quindi hanno innescato una inflazione da costi generalizzata.
Nonostante la crescita dei salari nominali, i salari reali dell’Area Euro nel terzo trimestre del 2022 sono diminuiti di -5% su base annua. I redditi reali delle famiglie più povere, in cui è più alto il peso dei consumi di energia e cibo, sono diminuiti ancora di più (Schnabel, 2022, 2). Quindi hanno cominciato a farsi sentire le aspettative pessimistiche dei consumatori. Anche le aspettative degli imprenditori sull’andamento della domanda sono peggiorate, nonostante l’aumento dei profitti causato dall’inflazione.
Le aspettative pessimistiche di consumatori e imprenditori, trasferendosi ai mercati finanziari, hanno spinto al ribasso tutte le borse. In tal modo, peggiorando le condizioni di finanziamento delle imprese, vengono ulteriormente scoraggiati gli investimenti cosicché le aspettative pessimistiche di famiglie e imprese e si autorealizzano. Intanto, già a luglio 2022 la produzione manifatturiera dell’Area Euro era diminuita di -2,7% su base annua.
A peggiorare le cose ci si mettono le politiche monetarie. Per far fronte all’alta inflazione le Banche centrali alzano i tassi d’interesse.
I meccanismi attraverso cui agisce questo tipo di politica sono due. Innanzitutto c’è un effetto-cambio: il rialzo dei tassi d’interesse fa rivalutare il cambio e quindi riduce l’inflazione importata. E poi c’è un effetto-salari: il rialzo dei tassi d’interesse innesca la recessione in quanto riduce i consumi di beni durevoli (case, automobili eccetera, che sono finanziati in debito) e quindi scoraggia gli investimenti; la disoccupazione aumenta; la combattività operaia e la densità sindacale si riducono poiché cresce la paura di perdere il posto di lavoro; rallentano i salari monetari; l’inflazione ha ridotto quelli reali, la recessione impedisce il recupero; a quel punto le imprese possono smettere di alzare i prezzi.
In sintesi, il rialzo dei tassi d’interesse riduce l’inflazione perché consente di redistribuire il reddito dai salari ai profitti bloccando la spirale inflazionistica a spese dei lavoratori. È a questo tipo di politica che si pensa quando si dice che la politica monetaria viene usata come frusta del movimento operaio.
Attualmente è in corso una guerra dell’inflazione e dei tassi tra Fed e BCE. La Banca americana è stata più pronta e determinata di quella europea: dal 16 marzo ha rialzato i tassi cinque volte, portando il federal funds rate a un intervallo 3-3,25%, e si prevedono ulteriori rialzi anche nel 2023. La BCE ha tentennato un po’. Ha alzato i suoi tassi di 0,50% a luglio e di 0,75% a settembre, portando il tasso sulle operazioni di rifinanziamento marginale all’1,50%. Non si sa cosà farà nel prossimo futuro. Ma sono prevedibili ulteriori rialzi, se si darà retta alla raccomandazione di mettere in atto un “robusto controllo” dell’inflazione tramite il rialzo dei tassi d’interesse – raccomandazione proveniente da Isabel Schnabel (2022), membro tedesco del Comitato Esecutivo della BCE.
La BCE deve far fronte alla speculazione sul debito pubblico di alcuni paesi, specialmente l’Italia. Si trova tra Scilla e Cariddi: se insiste con le operazioni di reinvestimento nei titoli in scadenza, per impedire l’aumento degli spread e dei rendimenti dei titoli più rischiosi, deve mantenere bassi i tassi d’interesse, così mandando ai mercati segnali sbagliati riguardo alla determinazione nel combattere l’inflazione. Se invece alza decisamente i tassi, rischia di scatenare una crisi del debito simile a quella del 2011-2, anzi, molto peggiore.
Ebbene nel bimestre agosto-settembre la BCE, non solo ha alzato i tassi, ma ha anche smesso di sostenere i titoli dei paesi periferici. E c’è stato un aumento generalizzato dei rendimenti. Quello dei Bund tedeschi a 10 anni è passato da 0,71% (2 agosto) a 2,19% (7 Ottobre). Quello dei BTP a 10 anni è passato da 3,03% (2 agosto) a 4,69% (7 ottobre).
Una conseguenza della crescita del differenziale dei tassi Fed-BCE è stata che l’euro si è svalutato rispetto al dollaro, passando dal cambio di 1,17 dollari per 1 euro (20 settembre 2021), a quello di 0,97 (7 ottobre 2022) – una svalutazione del 20%. E la tendenza è al ribasso. Ma c’è un’altra causa, anche più importante di quella monetaria, dietro la tendenza alla svalutazione dell’euro. In futuro i paesi europei dovranno importare dagli Stati Uniti maggiori quantità di gas, petrolio, beni agricoli e risorse minerarie, che tra l’altro costeranno di più di quelli russi, e non parliamo delle importazioni di armi. Quindi la bilancia commerciale USA-EU peggiorerà per l’Europa, cosicché la svalutazione dell’euro assumerà le caratteristiche di una tendenza di lungo periodo (Hudson, 2022).
Siccome le materie prime e l’energia non russe sono in gran parte pagate in dollari, accadrà che la Germaneu continuerà a importare inflazione. A questo punto si tratta di vedere chi sarà più bravo a mettere in ginocchio i sindacati in modo da frenare la crescita dei salari monetari. Il più bravo vincerà la guerra dell’inflazione. Credo che i più bravi siamo noi europei, con la nostra lunga esperienza nell’uso disciplinare delle politiche restrittive.
Da più parti già si sentono urla di battaglia per un ritorno all’austerità, a partire da quelle di Scholz. Una giustificazione è che, se la sostenibilità del debito non può essere assicurata dalla BCE, allora diventa necessario assicurarla con politiche fiscali “oculate”. Il fatto è che per colpire i salari le politiche fiscali sono anche più efficaci di quelle monetarie.
C’è da temere un effetto “apprendista stregone”. L’entrata dell’economia reale in recessione, con i tassi d’interesse che continuano a crescere, fa aumentare il disavanzo pubblico: sale la spesa per il servizio del debito e scendono le entrate fiscali. L’inflazione potrebbe mantenere alto il tasso di crescita del Pil nominale (quello che conta nel calcolo del rapporto debito/Pil), e quindi questo rapporto potrebbe non aumentare per un po’ di tempo.
Ma non appena l’inflazione comincerà a ridursi apprezzabilmente si scateneranno le aspettative di una crescita del rapporto debito/Pil. Debito alto e crescente in un’economia in recessione vuol dire alta probabilità di default. È facile immaginare l’inferno che si scatenerebbe in un paese con un debito pubblico al 151%. Considerando che siamo in buona compagnia (Grecia 193%, Portogallo 127%, Francia 113%, Spagna 118%) ci si può aspettare che dall’Italia e dal Sud Europa parta una crisi devastante per tutta la Germaneu. Insomma dalla crisi ucraina, non solo l’economia Russa, anche quella europea potrebbe uscire malconcia.
Tuttavia l’effetto geopolitico più importante della guerra è un altro: è il troncamento del legame privilegiato che si stava consolidando tra Germaneu e Russia. Scholz, Draghi e tutti gli altri servi europei degli Stati Uniti hanno ormai identificato Putin come il nemico pubblico numero 1. Fino a ieri gli stringevano la mano, ora hanno scoperto che è un tiranno. Gli fanno le sanzioni e rompono accordi commerciali già firmati. Mandano soldi e armi a Zelensky e minacciano l’invio di forze speciali in Ucraina. Da parte sua la volpe siberiana brandisce l’arma nucleare mentre si annette il 15% del territorio ucraino, forte di un plebiscito farsesco condotto col metodo della raccolta porta a porta.
Nel 2021 era stata completata la costruzione del North Stream 2, che corre parallelo al North Stream 1 e ne doveva raddoppiare la portata. Gazprom ha la maggioranza delle azioni della società che lo gestisce, ma varie compagnie europee detengono pacchetti rilevanti. Era stato fortemente voluto dalla Germania e fortemente osteggiato dagli USA. Ebbene, una volta completatane la costruzione è stato bloccato dalla decisione del governo tedesco di non concedere le certificazioni e le autorizzazioni finali.
Ma questa avrebbe potuto essere una politica temporanea, modificabile nel prossimo futuro. Così, per consolidarla, sia il North Stream 1 sia il 2 sono stati sabotati, in modo che siano inutilizzabili per molti anni a venire. Nessuno può dire con certezza chi è il sabotatore, ma si sa che la CIA aveva preavvertito il governo tedesco di questa possibilità. D’altronde in una intervista del 7 febbraio 2022 Biden aveva dichiarato che “se i russi invadono, cioè se i carri armati e le truppe russe attraversano nuovamente il confine ucraino, non ci sarà più neppure un Nord Stream 2, lo azzereremo”. E a una giornalista che sollevava dubbi rispose: “Te lo prometto: saremo in grado di farlo”. Basta non essere un giornalista Rai-Mediaset per capire che “questi attentati sono destinati a impedire l’apertura di una trattativa con la Russia” (Ferrero, 2022). E se non mi credete, guardatevi questo video su Contro.tv (2022): https://youtu.be/En7NzinMc60
Per di più, la nuova via della seta, la BRI (Belt and Road Initiative), potrebbe diventare un vicolo cieco. Quest’iniziativa cinese era particolarmente importante per tutta l’Eurasia, specialmente per l’Italia, la Russia e la Germania, visto che la rotta marittima avrebbe dovuto terminare a Genova e Trieste per poi proseguire via terra fino alla Germania, mentre il percorso continentale avrebbe dovuto passare attraverso il Kazakhstan e la Russia per giungere in Germania.
Gli Stati Uniti l’avevano fortemente contrastata e avevano provato a lanciare un’alternativa atlantica, la B3W (Build Back Better World) con cui intendevano sottrarre all’influenza cinese molti paesi in via di sviluppo. Comunque non avevano avuto successo nel tentativo di fermare la BRI… fino allo scoppio della guerra. Ora è proprio la Germania ad avversarla, sia per punire la Cina, che è il più importante alleato della Russia, sia per colpire proprio la Russia.
Fatto sta che oggi il principale beneficiario del conflitto ucraino sono gli Stati Uniti, mentre il principale perdente è la EU (Scassellati, 2022a, 5). Si sta realizzando il progetto americano di una “nuova guerra fredda”, cioè di una ridefinizione e riproposizione dei rapporti geopolitici su cui si fondava l’egemonia USA nell’era della vecchia guerra fredda: la delimitazione di un impero del male comprendente Russia e Cina e la riduzione della Germaneu ad appendice atlantica degli USA. Così, nell’interesse dell’umanità e a difesa dei “nostri valori”, la NATO (2022, 5) potrà impegnarsi a contrastare “la partnership strategica tra la Repubblica Popolare Cinese e la Federazione Russa e i loro sempre più forti tentativi di minare l’ordine internazionale basato su regole”.
La piccola Eurasia, la grande Eurasia o il secolo cinese?
“Eurasia” è un concetto geopolitico sviluppato soprattutto dal pensiero di destra. In Russia, dove ha una lunga storia, è stato recentemente riproposto dal filosofo tradizionalista Aleksandr Gelevich Dugin in funzione anti-moderna, anti-europea e anti-occidentale. Denota un’area geografica che abbraccia la Russia con il suo tradizionale impero asiatico, un territorio che va da Minsk a Vladivostok. Potremmo definirla “piccola Eurasia” per distinguerla dalla “grande Eurasia”. Questa definisce un territorio che comprende Europa e impero russo e che si estende da Lisbona a Vladivostok. È stata vagheggiata, tra gli altri, da Charles De Gaulle e dal nazista belga Jean Thiriart, in funzione anti-americana.
A più riprese Putin ha parlato di Eurasia, sebbene in modo ambiguo. Da una parte ha fatto riferimento alla tradizionale identità eurasiatica della Russia, e nel 2014 ha dato vita a un’EAEU (Unione Economica Euro-Asiatica, oggi composta da Russia, Armenia, Bielorussia, Kazakhstan e Kirgyzstan) con cui tentava di allargare i confini dell’influenza russa a quelli dell’ex-URSS. Dall’altra, quando ancora s’illudeva, non ha mancato di evocare una grande Eurasia “da Lisbona a Vladivostok” come base per una più forte cooperazione economica con l’Europa (Horváth, Boros e Puhl, 2021, 35-6). L’EU l’aveva incoraggiato nel 2018 con il varo di una strategia mirante a Connecting Europe and Asia, con la quale intendeva migliorare la connettività Euro-Asiatica nei trasporti, nel commercio dell’energia, nelle reti digitali, nello scambio di risorse umane e nella definizione di regole e standard.
La piccola e la grande Eurasia sono idee che condividono l’ostilità verso gli USA e la NATO. Si differenziano in una cosa: la piccola è ostile anche all’Europa. Ed è su questa diversità che si sta giocando il conflitto in Ucraina. Non sembri paradossale, ma è un fatto che allo stato attuale delle cose Biden e Putin convergono nel tentativo di schiacciamento della Russia nella piccola Eurasia e di inasprimento dei contrasti tra Russia e Germaneu – Biden programmaticamente, Putin forse un po’ meno. E non si può dar torto a Lucio Caracciolo quando osserva che “Putin fa il gioco di Biden”.
Il nuovo ordine mondiale prefigurato dall’amministrazione americana prevede una struttura geopolitica mondiale in due blocchi, in uno dei quali sarebbero confinati la piccola Eurasia di Putin e la grande Cina di Xi Jinping. Al vertice della struttura ci starebbero gli Stati Uniti. E già si comincia a parlare di un nuovo accordo di Bretton Woods.
Questo, nei disegni della ministra del Tesoro americana Yellen (2022), sarebbe un calco del vecchio, salvo un aumento delle dotazioni del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale e la creazione di una nuova organizzazione del commercio capace di sanzionare i paesi emergenti che praticano dumping sociale e fiscale ma non i paesi dominanti che praticano il dumping tecnologico con la difesa dei diritti di proprietà intellettuale. Nessun cenno a un’eventuale eliminazione del diritto di veto USA sul Fondo Monetario e la Banca Mondiale, tantomeno alla possibilità di emettere una moneta internazionale che non sia il dollaro.
La EU ha reagito con entusiasmo alla chiamata alle armi di Biden e con fermezza al rigurgito anti-europeo di Putin. Non solo ha deciso le sanzioni alla Russia e la vendita di armi all’Ucraina, ma si è anche rifiutata di riconoscere l’EAEU come partner negoziale, così come ha rigettato la richiesta russa di essere consultata nelle iniziative volte a integrare nell’EU i paesi ex-sovietici.
La guerra d’Ucraina è uno dei casi in cui l’autonomia del politico genera dinamiche geostrategiche che contrastano con gli interessi economici del grande capitale. Infatti è interesse delle imprese multinazionali abbattere tutte le frontiere e tutti gli ostacoli al libero movimento del capitale, del lavoro e delle merci, in modo da favorire quel processo concorrenziale al ribasso che porta al livellamento dei salari e dei costi su scala mondiale.
Le politiche governative che piacciono all’imperialismo globale delle multinazionali sono quelle di dumping sociale, fiscale e ambientale (Screpanti, 2014). Una volta stabilito un sistema ordinato di pagamenti internazionali, al capitale cosmopolita non gliene frega molto di quale sia l’impero egemone.
Nel caso specifico che ho affrontato qui, mi sembra che il grande capitale multinazionale, non solo europeo, ma anche cinese, russo e americano, abbia interesse a evitare i conflitti che generano sanzioni economiche e riducono gli scambi internazionali. In special modo quello europeo ha interesse a tenere aperto il commercio EU-Russia-Cina così da poter importare dall’Asia energia e materie prime a basso costo ed esportarvi merci e capitali.
È evidente che la guerra d’Ucraina va contro gli interessi delle grandi multinazionali. Dal punto di vista dell’accumulazione del capitale è un fallimento della politica. Questo fallimento si consoliderebbe se, alla lunga, l’esito della guerra fosse il confinamento di Cina e Russia in un una riserva indiana chiusa agli scambi con l’occidente. Ci potrebbe essere un esito diverso? Sì, anzi, ce ne potrebbero essere almeno altri due.
Uno scenario possibile è quello in cui il disegno della piccola Eurasia sfugge di mano alla NATO e degenera in un blocco asiatico che non si lascerebbe confinare nella riserva indiana. Sembra che la Cina si stia già muovendo in questa direzione con la mobilitazione di un gruppo di paesi BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa) allargato ad altre nazioni come Iran, Egitto, Arabia Saudita, Turchia, Indonesia, Argentina.
Se riesce a formare una stabile alleanza economica e politica anti-americana, con tutti gli investimenti che ha già fatto e quelli che intende fare nei paesi in via di sviluppo la Cina potrebbe finalmente realizzare la previsione del secolo cinese – previsione che John Hobson aveva fatto all’inizio del ’900. Assumerebbe egemonia su tutta l’Asia, l’Africa e buona parte dell’America Latina.
A quel punto sarebbe il blocco atlantico a ritrovarsi confinato in una riserva indiana. Un eventuale nuovo accordo di Bretton Woods sotto leadership cinese sarebbe molto diverso da quello concepito da Janet Yellen.
Il dollaro e l’euro regredirebbero alla posizione di valute di riserva secondarie, quali sono la Sterlina e lo Yen oggi, e la nuova moneta internazionale verrebbe emessa da un Fondo Monetario Internazionale profondamente riformato, come secondo una proposta che i cinesi avevano avanzato già all’indomani della crisi 2007-9. Intanto nella XIV conferenza dei BRICS (23 giungo 2022) è stata avanzata la proposta di cominciare a muoversi in quella direzione, cioè di creare una moneta di riserva internazionale del tipo gold exchange standard basata su un pacchetto di valute dei paesi BRICS.
Un altro scenario possibile, che potrebbe essere ancora migliore dal punto di vista degli interessi del grande capitale, è quello che si darebbe se la spinta economica prevalesse sulla spinta politica. E la spinta economica del secolo ventunesimo è quella che porta alla formazione della “grande Eurasia”. Si affermerebbe se l’Ucraina e la Russia entrassero nell’EU.
Potrebbe accadere dopo la fine della guerra, o potrebbe essere un modo per por fine a una guerra che altrimenti sarebbe senza fine. Certo è uno scenario che oggi come oggi sembra piuttosto improbabile. Ma l’idea non è così grama se l’hanno vagheggiata, non solo De Gaulle e Chirac, ma anche Gorbaciov e il giovane Putin (De Ponte, 2022), e perfino Mitterand. Nel 1989 quest’ultimo aveva rilanciato l’idea gaullista proponendo di dar vita a una Confederazione Europea che si sarebbe potuta allargare alla Russia. E non ci si deve sorprendere se, a quanto pare, questa è la direttrice diplomatica in cui oggi si sta muovendo Macron con la proposta di una Comunità Politica Europea (Vecchio, 2022; Amato, 2022).
Se si affermasse il progetto di grande Eurasia la crisi sistemica di questo secolo terminerebbe con una sconfitta dell’impero americano e l’emergere di un nuovo egemone, un impero di più di 700 milioni di abitanti, la maggior estensione territoriale del mondo, il più grosso apparato industriale e le più spaventose forze armate della storia.
Un tale impero già oggi sarebbe capace di assolvere bene, e meglio degli Stati Uniti, almeno tre delle funzioni di governance globale: motore dell’accumulazione, sceriffo globale e avanguardia scientifico-culturale. Per riuscire ad assolvere bene anche la quarta, quella di banchiere globale, bisognerebbe che l’EU attuasse una riforma che la portasse a istituire un grosso bilancio federale e a emettere una massiccia quantità di eurobond (condizione per soddisfare un’estesa domanda mondiale di euro come strumento di riserva).
Il sistema imperiale globale riacquisterebbe una struttura ordinata unipolare. La grande Eurasia non avrebbe interesse a isolare la Cina, e anzi ne favorirebbe lo sviluppo, visto che costituisce il più grosso mercato di sbocco per le sue merci e i suoi capitali. Non confinata nella riserva indiana, la Cina potrebbe sfruttare la nuova via della seta per integrarsi commercialmente con la grande Eurasia; la globalizzazione subirebbe una forte accelerata e così il commercio mondiale. Il capitale multinazionale potrebbe tornare a impazzare senza freni. Gli USA, che riscoprirebbero la vocazione isolazionista, sarebbero ridotti a potenza regionale in America.
Richiamo l’attenzione sulle parole che ho sottolineato: migliore dal punto di vista degli interessi del grande capitale. Non credo che lo sarebbe dal punto di vista della democrazia, visto che l’impero eurasiatico combinerebbe la tecnocrazia eurista con il dispotismo orientale.
*economista
(Testo di un seminario tenuto presso L’Osservatorio Europeo il 4 ottobre 2022)
Riferimenti
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FONTE: https://www.sinistrainrete.info/geopolitica/24059-ernesto-screpanti-ucraina-la-guerra-di-putin-la-guerra-di-biden.html
DIRITTI UMANI
Free Julian Assange
di Daniela Bezzi
Nella più vergognosa disattenzione da parte dei media mainstream, si moltiplicano in tutto il mondo le manifestazioni di protesta “Free Julian Assange” che reclamano a gran voce libertà per il fondatore di Wikileaks Julian Assange.
Sabato scorso è stata la volta di Londra, con migliaia di persone che fin dalle prime ore del mattino si sono date appuntamento nella zona lungo le sponde del Tamigi dove ha sede il Parlamento, per formare una spettacolare Catena Umana: tenendosi l’un l’altro per mano, persone di tutte le età e stazze, fino a chiudere il cerchio intorno a quello che per il Regno Unito rappresenta da sempre il centro del potere. Incredibilmente ignorate persino dalla BBC, ma il flusso dei filmati su You Tube e vari social non si è mai fermato.
Nelle stesse ore una situazione analoga succedeva a Washington D.C. con un partecipato presidio di fronte al Dipartimento di Giustizia per ribadire che “non c’è democrazia senza libertà di stampa, perché solo un giornalismo senza bavaglio può vigilare sulla condotta del governo e finché Julian Assange non verrà liberato tutto questo è in pericolo” come ha detto Ben Cohen, tra i principali organizzatori.
Una volta di più è stata reiterata la richiesta al Procuratore Generale Merrick Garland perché faccia pressione presso il Governo degli Stati Uniti per annullare la richiesta di estradizione che condannerebbe Julian Assange a 175 anni di detenzione.
Analoghe manifestazioni si sono verificate a San Francisco, Denver, Tulsa, Seattle, Minneapolis, ma è soprattutto a Londra, sotto un cielo blu smagliante, che la mobilitazione si è trasformata proprio in festa. “Ce l’abbiamo fatta” ha tweettato entusiasticamente Stella Assange, moglie del detenuto Julian accusato di spionaggio per aver rivelato i tanti ed efferati crimini di guerra commessi dalle forze americane in Afghanistan, Iraq e in altre parti del mondo. “Benchè in prigione Julian non potrà fare a meno di ricevere l’energia e il calore che si è sprigionata oggi grazie a tutti voi, con questa azione che circonda entrambe le sedi del potere su entrambi i lati del Tamigi.”
Tra coloro che si sono uniti alla protesta non poteva mancare Jeremy Corbyn, che dalle fila del Partito Laburista è sempre stato tra i più robusti oppositori a qualsiasi intervento militare in Medio Oriente e in particolare in Iraq. “Questa è una battaglia per la libertà di stampa ovunque nel mondo” ha sottolineato. “Se riescono a imbavagliare Assange, il bavaglio sarà per tutti noi, per chiunque nel ruolo di giornalista si troverà a denunciare atrocità che non possono essere ignorate. Non è accettabile criminalizzare il giornalismo investigativo come fosse un reato.”
Messaggio ulteriormente ribadito da Kristinn Hrafnsson, attuale direttore di Wikileaks:
“Assange è un intellettuale, un giornalista di prima classe incriminato di spionaggio per aver denunciato la verità. Se una cosa simile può succedere a lui, può succedere a chiunque.”
Non sono mancate iniziative anche in Australia, per esempio a Melbourne, dove il fratello di Assange, Gabriel Shipton ha sollecitato il primo ministro australiano Anthony Silbanese perché chieda a Joe Biden di revocare l’istanza di estradizione e restituire a Julian la piena libertà: “Non ha sofferto abbastanza? Non è ora che torni ad essere un uomo libero?” è stato il messaggio di Gabriel Shipton alle autorità australiane.
E veniamo alla data che ci riguarda più da vicino, sabato 15 ottobre, con la maratona di eventi che al solo descriverla sembra già straordinaria, perché trasformerà l’Italia e un buon numero di città anche fuori Italia in un Teatro Diffuso di eventi, iniziative, sit-in, letture, riflessioni, parole, proiezioni per dire tutti insieme Free Julian Assange.
Straordinaria anche la tempistica: era solo fine luglio quando l’idea venne lanciata dalla testata OnLine Pressenza e incredibile ma vero (gli stessi organizzatori usano la parola miracolo) l’iniziativa ha ricevuto in poco tempo un tale numero di adesione per cui non solo succederà in versione maratona fruibile anche su streaming il prossimo sabato 15 ottobre, ma continuerà a succedere per naturale contagio anche in successive occasioni.
Il principale obiettivo di sollecitare ovunque possibile dei momenti di sensibilizzazione sul caso Assange, può dirsi quindi raggiunto, con risposte pervenute anche da comuni piccolissimi, ma caratterizzati da una associazionismo e da una partecipazione non meno attiva che nella grandi città del nord. E il tutto si potrà seguire come abbiamo detto anche on line, sintonizzandosi con la lunga diretta streaming che gli organizzatori stanno calibrando proprio in queste ore, e che verrà presto resa pubblica sui vari canali Facebook, Telegram, oltre che sul sito che già da tempo pubblica una Mappa degli Eventi in progress che sembra proprio l’embrione di una Global Solidarity in progress, con tanti bollini che si addensano soprattutto sull’Italia, ma segnalano anche una quantità di iniziative in vari altrove nel mondo: l’inizio forse di una rete che a partire dal caso-Assange rinnoverà l’urgenza di difendere i diritti più fondamentali, in primis appunto quello della libertà di dissenso e dell’informazione, ovunque sotto attacco.
Qui di seguito un riepilogo dei principali eventi in programma il prossimo sabato, rimandando al sito per le adesioni dell’ultimo minuto che, anche senza entrare nella diretta streaming, potranno sentirsi parte di questa neo-nata e già bella rete.
Programma davvero ricchissimo, non solo di eventi ma anche di interviste, a Noam Chomsky, all’infaticabile Stella Assange, a John Rees che è stato tra i principali organizzatori della catena umana dell’8 ottobre a Londra, e soprattutto a Fidel Narvàez, l’ex console dell’Ecuador in Gran Bretagna che per ben sette anni, a partire dal 2012, accolse Julian Assange nei locali dell’Ambasciata, offrendo asilo politico (e protezione di ogni genere) in circostanze difficilissime, come ha recentemente rievocato con un’importante testimonianza su Pressenza: con le forze dell’ordine notte e giorno piantonate dinnanzi all’edificio e intrusioni di ogni tipo da parte dell’intelligence. Una protezione che purtroppo venne a mancare con l’insediamento dell’attuale governo in Equador e che nel 2019 determinò il trasferimento di Julian Assange nel carcere di Belmarsh, estrema periferia sud di Londra – con quelle immagini della ‘cattura’, trascinato di peso fuori dall’Ambasciata come un animale, che solo brevemente fecero notizia e finirono poi sommerse nel dimenticatoio di quel che venne dopo, Covid, recessione e ora la guerra.
Non per tutti. Per un piccolo gruppo di attivisti inglesi il caso Assange non ha mai smesso di essere una priorità anche dopo le tante iniziative che nel 2019, videro brevemente protagonisti tanti artisti. E proprio con questo gruppo di attivisti, che tutti i santi sabato, dalle 12 alle 14 si ritrova davanti alla prigione di Belmarsh, e poi ancora nel pomeriggio in pieno centro di Londra, a Piccadilly, ci sarà un collegamento live verso le nostre ore 17.
Altro collegamento live è previsto a Manchester, presso un pub molto particolare, noto per ospitare eventi decisamente fuori schema e su temi spesso difficili. Dalla Gran Bretaga all’Australia: a Sidney è previsto di nuovo un presidio davanti all’ufficio del primo ministro per sollecitare la pressione a Joe Biden negli stessi termini già espressi sabato scorso, come ci racconterà da Melbourne anche l’amico di Julian, Niraj Lal e poi il regista e poeta Kym Staton da Byron Bay. A Taiwan, gli studenti della National Chengchi University con sede nella capitale Taipei, organizzeranno una classica marcia. Dalla Spagna hanno risposto le città di Madrid e Barcellona, la prima con un presidio, la seconda con un film. Dalla Francia ha aderito chissà perché solo Tolosa, dal Belgio il collegamento sarà con la cittadina di Namur. Dalla Germania arriverà un video della deputata di Die Linke ?aklin Nasti?. In Canada un gruppo di attivisti manifesterà davanti al Municipio di Regina, nel Saskatchewan mentre dal Cile interverrà il deputato umanista Tomás Hirsch, intervistato da Pia Figueroa, condirettrice di Pressenza.
E veniamo all’Italia, dove ovviamente si concentra il maggior numero di eventi. Cominciando dalla città di Torino con una doppia convocazione: si comincia la mattina con il presidio per la pace che da mesi viene promosso ogni sabato dal Coordinamento AgiTE a Piazza Carignano (e alle 11 è previsto il collegamento in streaming con tanti attivisti e amici del Sereno Regis); e si prosegue nel pomeriggio dalle 16 in poi con una mobilitazione a Piazza Castello nelle stesse ore in cui ad Avigliana (Auditorium Daniele Bertotto, Via Martiri della Libertà) ci sarà uno “spazio aperto alle testimonianze di solidarietà per Julian Assange” con contributi di Amnesty International, ANPI Avigliana, ARCI Valle Susa Pinerolo, Centro Studi Sereno Regis, Controsservatorio Valsusa, Fornelli In Lotta, Karim Metef, Movimento NoTav, Presidio Europa, Trancemedia.eu e la partecipazione dell’Amministrazione e della cittadinanza di Avigliana.
Doppio anzi multiplo appuntamento anche per Milano, dove la mattina si comincia con un Flash Mob alle 11 in piazza Liberty sul tema “Il giornalismo non è un crimine” che verrà brevemente seguito in diretta streaming; dalle ore 16 presidio in Piazza Liberty; dalle 17 un’iniziativa a Piazza Fontana, promossa da CLN Lombardia, Comitati Liberi Pensatori e altri che intende unire alla protesta per la detenzione di Assange, anche quella contro l’aumento delle spese militari e “contro un’emergenza che non finisce mai, ma che tutto disciplina”; infine un webinar dalle 21, di nuovo a cura di Mondo Senza Guerre.
A Roma si è mobilitata in particolare la testata Left, che dalle 18 in poi ospiterà in redazione i contributi di Moni Ovadia, Vauro, la giornalista Francesca Fornario, il politico Giovanni Russo Spena, il portavoce di Amnesty Riccardo Noury, Lazzaro Pappagallo e Giuseppe Giulietti (rispettivamente Stampa Romana e FNSI), Roberto Musacchio e Roberto Mora (Media Alliance), e poi Vincenzo Vita per Art 21, oltre a Patrick Boylan (Free Assange Italia) e Dale Zaccaria (G.N.S. Press) che sono stati tra i più attivi promotori di questa 24hxAssange. (collegamento streaming dalle 19 alle 19.30)
A Bologna, Piazza del Nettuno diventerà il teatro di un vero e proprio happening di cittadinanza attiva che dalle 11 di mattina alle 20 di sera vedrà alternarsi momenti di costruzione collettiva (per esempio della cella in cui Assange è detenuto) con momenti di riflessione, testimonianze di prigionia, letture di brani, in particolare dal libro di Stefania Maurizi “Il Potere Segreto”.
E non poteva mancare la stessa Stefania Maurizi che sarà in diretta dalle ore 16, dalla sede de “Il Fatto Quotidiano” per discutere del caso Assange con altri colleghi.
In diretta subito dopo ci sarà anche Como, dove la performer-attivista Lorena Corrias, è già da tempo impegnata in una originalissima campagna di sensibilizzazione che la vede tutti i sabati pomeriggio seduta per terra, a Piazza Verdi, all’interno di un perimetro demarcato con nastro adesivo colorato per segnalare le dimensione della cella che rinchiude Julian Assange: 2 metri per 3. Titolo della performance: “Anything To Say?”ovvero “Abbiamo qualcosa da dire?”.
E poi ci saranno Firenze con un presidio in Piazza Signoria; Faenza con un mattiniero sit-in in Piazza della Libertà, e un dibattito serale al Circolo Prometeo (Vicolo Pasolini 6); Venezia, con una iniziativa a cura di una certa Biblioteca navigante e persino il piccolo comune di Acquedolci, in provincia di Messina che dalle 17 in poi alla Casa delle Culture (Via Vittorio Emanuele II 3/5) ospiterà un incontro con il giornalista Farid Adly e altri esponenti della locale cittadinanza attiva, oltre a una mostra che l’artista Alba La Mantia ha dedicato a Julian Assange. A Trapani, nella Sala Laurentina (ex Chiesa del Sacramento) ci sarà un incontro promosso da Sinistra Libertaria e Amnesty International; e poi Potenza, Luino, Varese, Milazzo e altri che stanno facendo pervenire proprio in queste ore le loro adesioni. E ci piace concludere questo rapido elenco con Pinerolo, che il 15 ottobre conferirà la cittadinanza onoraria a Julian Assange.
L’europarlamentare Sabrina Pignedoli e il Movimento 5 Stelle hanno presentato ufficialmente la candidatura nella prima fase della selezione per il Premio Sacharov, il massimo riconoscimento assegnato a chi si distingue nella battaglia per il rispetto dei diritti umani.
“Quello di mio marito è un caso politico, Julian è un prigioniero politico, premi come il Premio Sakharov fungono da protezione politica e nel suo caso questo premio potrebbe salvargli la vita. Vincere questo premio cambierebbe sicuramente le cose”, afferma la signora Assange.
“Abbiamo voluto promuovere la candidatura di Assange al Premio Sakharov perché Assange sta pagando a caro prezzo il fatto di aver detto la verità, quindi crediamo che sia il candidato migliore”, ha dichiarato Sabrina Pignedoli.
SEGUI LA DIRETTA DELLA MARATONA
La diretta della Maratona per Julian Assange di sabato 15 ottobre si potrà seguire a partire dalle ore 9 fino a tarda sera sulle piattaforme:
Pressenza Italia, Terra Nuova Edizioni, oltre che su YouTube e Ottolina TV su Twitch.
Informazioni in continuo aggiornamento su:
https://www.24hassange.org/it/
https://www.facebook.com/julianassangelibero/
Promuovono, oltre a Pressenza (in ordine alfabetico): Amnesty International, Articolo21, Atlante delle guerre, Centro Studi Sereno Regis, Comitato di solidarietà Leonard Peltier (Milano), Ecomapuche, Free Assange Italia, Italia che Cambia, Left, L’indipendente, Media Alliance, Movimento NoTav, Presidio Europa NoTav, Terra Nuova, transform! Italia, Sostenitori di Julian Assange, Sovranità Popolare, Unimondo
FONTE: https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/24072-daniela-bezzi-free-julian-assange.html
ECONOMIA
LO S.C.O. A SAMARCANDA PER UN MONDO MULTIPOLARE
Il 15 e il 16 di settembre scorsi si è tenuto il vertice dei capi di Stato dei paesi della SCO (Organizzazione per le Cooperazione di Shanghai) nella città storicamente simbolica di Samarcanda.
I mass-media italiani e occidentali hanno dato poco risalto a tale evento, come di solito accade per tutte le notizie che mettono in risalto come sta cambiando il mondo.
Cos’è la SCO?
Nata nel giugno 2001, inizialmente raggruppava cinque paesi asiatici (Russia, Cina, Kazakistan, Kirghizistan e Tagikistan) ed era un’organizzazione essenzialmente economica. In seguito si unì l’Uzbekistan e poi, nel 2017, anche India e Pakistan. Ed è in continua espansione: oltre all’adesione dell’Iran – di cui parleremo più avanti – sono osservatori e/o in candidati ad aderire, una lunga serie di paesi come Mongolia, Bielorussia, Armenia, Afghanistan, Azerbaigian, Cambogia, Nepal, Sri Lanka, Turchia, Arabia Saudita, Qatar e persino l’Egitto.
Praticamente parliamo di una popolazione complessiva che sfiora la metà di quella mondiale e di un PIL complessivo che lambisce il 30%.
Peraltro interessante è notare come la SCO stia portando paesi storicamente ostili a incontrarsi e a dialogare fra loro, in un’ottica di accordi vantaggiosi reciproci. Pensiamo, tanto per fare un esempio, alle tensioni passate tra Cina e India e tra quest’ultima e il Pakistan.
Al vertice di Samarcanda sono diversi i temi toccati e si sta configurando un organismo che allarga sempre più le sue competenze, andando oltre i rapporti strettamente economici e che discute di sicurezza, di lotta al terrorismo e alle “rivoluzioni colorate” (veri e propri colpi di Stato “moderni”, camuffati da rivolte popolari e per lo più organizzati e controllati dalla CIA).
Rilevante è anche il fatto che, pur auspicando un po’ tutti la pace e quindi la fine del conflitto in Ucraina, nessuno dei paesi aderenti ha accettato la risoluzione di condanna alla Russia voluta dagli Stati Uniti e meno che mai ha aderito alle sanzioni contro di essa. Anche questo fatto rivela l’esistenza di un clima sostanzialmente pacifico e di collaborazione tra tutti questi paesi.
L’importanza della SCO, anche all’interno della dinamica che vede il mutamento dei rapporti di forza a livello mondiale e il passaggio da un mondo unipolare – egemonizzato dall’Occidente e soprattutto da Washington – ad uno multipolare, sta nel fatto che i paesi aderenti, e quelli che stanno in procinto di entrare, presentano tassi di crescita economica molto superiori a quelli dei paesi del G7, per cui è altamente probabile che in un futuro non lontano tale organismo – che peraltro si associa al BRICS, che comprende anche Stati non asiatici – arriverà a comprendere paesi con un PIL complessivo che potrebbe superare il 50% di quello globale.
Inoltre si stanno adottando misure per sganciarsi progressivamente dalla valuta del dollaro per gli scambi, usando quelle degli Stati membri e già si parla anche di realizzare una nuova valuta apposita. Non proprio una bella notizia per gli USA.
Al vertice di Samarcanda tra l’altro è stata sancita l’adesione allo SCO da parte dell’Iran e in futuro potrebbero aderire anche paesi strategicamente significativi come la Turchia (membro della NATO) e l’Arabia Saudita, il maggior esportatore mondiale di petrolio.
Da notare, per quanto riguarda Teheran, che questo paese oltre ad entrare nell’organismo in questione, ha anche siglato degli accordi economici petroliferi che riducono sostanzialmente l’utilizzo del dollaro negli scambi, suscitando malumori a Washington.
FONTE: http://www.laboratorio-21.it/lo-s-c-o-a-samarcanda-per-un-mondo-multipolare/
Agenzie di rating: riecco le tre moschettiere! Ne sentivamo la mancanza…
di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**
Eccole di nuovo. Le tre sorelle del rating ritornano a farsi sentire con le loro superficiali pagelle sull’economia e la politica italiana. La prima è l’agenzia Moody’s e a ruota le altre due, la Standard & Poor’s e la Fitch.
Che l’Italia abbia un debito pubblico elevato lo sappiamo tutti. Così come sappiamo degli altri problemi di carattere politico ed economico. Naturalmente conosciamo anche i lati positivi dell’Italia, tra cui la propensione al risparmio, la capacità imprenditoriale, le sue eccellenze nei campi della scienza, della tecnologia e della cultura in generale. Cose che sono ovviamente neglette dai critici.
Moody’s ripete le stesse, ritrite, litanie degli anni passati. Ad esempio, ci sarà un indebolimento delle prospettive di crescita se non si attuano le riforme, oggi anche quelle previste dal Pnrr. Poi, che le incertezze geopolitiche e la crisi energetica siano un aggravamento della situazione economica e sociale lo sanno tutti gli italiani che pagano le bollette della luce, del gas e l’aumentato costo della vita.
L’agenzia ci “regala” un rating Baa3 con outlook negativo. Ciò vuol dire che l’Italia è all’ultimo gradino dell’investiment grade (livello di affidabilità dell’investimento). In questo stadio le obbligazioni di lungo periodo sono soggette a un moderato rischio di credito, con caratteristiche speculative. Sotto questo gradino c’è il non investment grade, dove i rischi sono più alti, sempre più giù fino alla soglia di vero e proprio fallimento.
E’ intollerabile che le loro valutazioni nei confronti degli stati siano essenzialmente di carattere politico. Quando, però, si erano permesse di mettere in dubbio l’affidabilità dei Treasury bond americani, ricevettero dei sonori ceffoni da parte dell’allora amministrazione Obama e scelsero il silenzio. Non per l’Europa.
I loro rating hanno conseguenze importanti per le finanze e le economie nazionali. Per esempio, un titolo di stato con rating BBB non può essere acquistato e tenuto in bilancio da parte di molte istituzioni finanziarie private, come le assicurazioni e i fondi pensione. Ancora più grave, gli stati e i governi non potrebbero mettere detti titoli BBB in garanzia per ottenere dei crediti, ad esempio da parte della Banca centrale europea. Ciò è contenuto in una direttiva della stessa Bce.
Ancora una volta ci si chiede il “perché” di tanto masochismo da parte dell’Europa e dei suoi governi. Il presidente del consiglio dei ministri, Mario Draghi, conosce meglio di chiunque altro questo problema, essendo stato a lungo presidente della Bce. Aveva perfino sollevato dei dubbi sulla loro affidabilità, ma senza risultati.
D’altra parte non si capisce la ragione per cui si dà credibilità al giudizio di agenzie che nella grande crisi finanziaria del 2008 ebbero un ruolo attivamente negativo. Allora, la Commissione d’indagine del Senato americano aveva sentenziato che esse erano state corresponsabili della crisi, avendo distribuito a man bassa rating altissimi AAA a titoli e derivati finanziari che poco dopo sarebbero crollati.
Con i governi le agenzie non farebbero grandi profitti. Con le imprese private, invece, ne farebbero molti. Il fatto di poter giudicare il comportamento dei governi e degli stati, però, dà loro un enorme potere.
Il loro mercato è sempre florido. Moody’s ne controlla circa il 40%, segue con poco meno S&P e più distante Fitch. Non sorprende che nei loro consigli di amministrazione e comitati direttivi siedano dirigenti provenienti da tutte le grandi banche americane e internazionali.
Esse sono società americane private il cui capitale azionario è controllato da imprese e fondi privati. Per Moody’s, il 13,4% è nelle mani della finanziaria Berkshire Hathway del banchiere e speculatore Warren Buffet, poi vengono i fondi di investimento Vanguard e Blackrock. Questi due ultimi sono anche i maggiori azionisti, ciascuno con oltre l’8%, di S&P. Vanguard e Blackrock, con l’altro fondo SSGA, sono le massime potenze del cosiddetto settore non banking financial insitutions (nbfi), con asset stimati nel 2019 a 14.000 miliardi di dollari e con importanti partecipazioni azionarie nelle maggiori corporation americane.
Le agenzie di rating sono state sottoposte a tante indagini. Ma sembrano più “arzille” che mai. Che cosa manca alle autorità europee per porre dei freni alle loro scorribande? Non vorremmo che queste facessero la parte delle tre scimmiette che non vedono, non sentono e non parlano.
*già sottosegretario all’Economia **economista
FONTE: http://www.pinonicotri.it/2022/10/agenzie-di-rating-rieccole-ne-sentivamo-la-mancanza/
Per salvare l’Europa servirà una crisi in Italia
Quanto avvenuto domenica segnala la morte ufficiale dell’Ue. Per salvare il carrozzone oggi serve il sacrifico dell’Italia
È inutile che ci prendiamo per i fondelli: l’Europa è morta. Ufficialmente. Dopo una lunga agonia e un pietoso periodo di accanimento terapeutico, ora c’è anche la data del decesso: 9 ottobre 2022. Inutile disporre l’autopsia: si seppellisca il cadavere, prima che appesti l’aria. E ognuno per sé. Perché quanto mostrato da questa immagine appare fin troppo chiaro: persino i tedeschi sono diventati un popolo comprabile politicamente con i sussidi. E, soprattutto, la Germania non è più la locomotiva ma un carro bestiame economico.
Nel tardo pomeriggio del 9 ottobre, questi erano i risultati pressoché certi del voto in Bassa Sassonia: vittoria per la Spd del Cancelliere, un tonfo al minimo da 60 anni per la Cdu, un ottimo risultato per i Verdi, ma, soprattutto, un balzo in doppia cifra della destra nazionalista ed euroscettica di Alternative fur Deutschland. E appare inutile, appunto, prendersi in giro: il dato che conta è che da quelle urne è uscita una maggioranza rosso-blu, inusuale e composita, la cui ragione sociale può essere sintetizzata in uno slogan: meglio fare da soli. Perché se AfD da sempre martella Bruxelles e la Bce, tacciati di politiche unicamente a favore dei Paesi indebitati del Sud, la Spd ha potuto contare su quel risultato unicamente come risposta popolare al mega-fondo da 200 miliardi per tamponare i costi del caro-bollette per imprese e famiglie. Di fatto, la decisione di Berlino di far saltare lo stucchevole e inutile tavolo di trattative europeo sul price cap e farsi forte di una ratio debito/Pil che le consente la riattivazione del vecchio veicolo di sostegno varato in tempo di pandemia.
Non a caso, al vertice informale di Praga è stato proprio l’oltranzismo tedesco a generare l’ennesimo rinvio al 20 ottobre, facendo saltare del tutto i nervi a Mario Draghi, durissimo nei confronti di Ursula von der Leyen e dei Paesi nordici, ritenuti responsabili della prossima recessione. Insomma, la situazione è tale da non permettere ulteriori rinvii sul fronte energetico. Oltretutto, partendo da un presupposto: Berlino deve fare i conti – sotto tutti i punti di vista – con quanto avvenuto a Nord Stream. E a un rapporto sottobanco con Gazprom che da più parti viene descritto come quantomai attivo nelle ultime settimane. Tanto da aver fatto innervosire e non poco il Dipartimento di Stato. Insomma, in Bassa Sassonia ha vinto chi promette una Germania che pensa e agisce per sé.
E vogliamo parlare della Francia, la stessa che minaccia di vigilare con attenzione sul rispetto dei diritti fondamentali da parte del prossimo Governo italiano? Bene, da dove partire. Da qui, ovvero dalla vera ragione che ha spinto l’oscura ministra d’Oltralpe a ergersi a vigilantes dei nostri vizi.
Da settimane in Francia i sindacati stanno bloccando le raffinerie con scioperi a oltranza per i rinnovi dei contratti e gli adeguamenti salariali all’inflazione. E a differenza dell’Italia, la CGT quando decide di far sudare gli industriali e i Governi, ci sa fare. Si blocca tutto. Fin quando serve, a costo di paralizzare un Paese. Il precedente della vicenda degli esuberi Air France parla chiaro in tal senso. Ed ecco che il risultato di queste mobilitazioni si è tramutato in danno concreto: produzione energetica francese a picco, dopo che nel 2020-2021 il Paese era esportatore netto grazie al nucleare e, soprattutto, una mappa dei distributori di benzina a secco che diviene ogni giorno più accesa nei colori. E in tutto il Paese.
E alle 16:12 minuti di domenica 9 ottobre, mentre in Germania si profilava la vittoria della Spd, in Francia il ministero dell’Energia rendeva noto come a livello nazionale il 29,7% delle stazioni di servizio stesse registrando difficoltà nella normale erogazione di almeno a una tipologia di carburante. Solo il giorno precedente quella percentuale era del 21%. Questo video dell’emittente all-news BFMTV parla chiaro al riguardo. Chiarissimo. Domandina semplice semplice: cos’è accaduto l’ultima volta che in Francia il prezzo dei carburanti è divenuto materia di scontro, all’epoca per una questione fiscale sulle accise? Esatto, la nascita dei Gilet gialli. Pensate che manchi molto prima che la Francia venga totalmente paralizzata da proteste e scioperi, conoscendo il caratterino dei cugini d’Oltralpe quando sentono calpestati i loro diritti? E quanto ci metteranno Marine Le Pen da un lato e Jean-Luc Mélenchon a mettere il cappello politico su quella protesta? E quanto ci metterà Emmanuel Macron a tentare di sanare la situazione, seguendo l’esempio di Olaf Scholz e decidendo per un ulteriore strappo nazionalista (dopo il cap alle bollette finanziato dallo Stato in deficit deciso già la scorsa primavera) rispetto alle chimere di una risposta comunitaria che ancora Mario Draghi insegue inutilmente e disperatamente?
Signori, l’Europa è morta in una domenica di ottobre caratterizzata apparentemente solo dal day after dell’attacco al ponte fra Russia e Crimea. Sfogliare i quotidiani di ieri, in tal senso, era a dir poco scoraggiante: tutti, da Confindustria a Confcommercio, dai sindacati ai partiti maggiori, chiedevano a gran voce un Recovery Fund energetico per tamponare la situazione drammatica del caro-bollette. Inutile, meglio prenderne atto. Non ci sarà nessun Recovery Fund. Come non ci sarà un price cap, se non tardivo, inutile ed edulcorato.
E non fatevi abbindolare dai titoli che leggerete oggi sui giornali o sui siti di informazione: l’ok tedesco rispetto a emissioni comuni di debito per finanziarie un cuscinetto per i Paesi membri, venduto come risolutivo tanto da aver visto il mostro spread crollare del 6% intraday, porta con sé l’inganno. Ovvero, tutto il denaro che verrà raccolto sul mercato da quegli eurobond sarà garantito a chi ne fa richiesta unicamente e strettamente sotto forma di prestito. Di fatto, ulteriore debito che dovremo rimborsare. Di gratuito in nome della crisi epocale e della solidarietà non ci sarà nulla. L’Europa è un Far West, un tutti contro tutti, una giungla con le sue leggi: perché continuare a prendere per i fondelli i cittadini italiani?
Abbiamo voluto schierarci acriticamente al fianco di Zelensky e della Nato, abbiamo voluto essere più realisti del Re contro il Cremlino e Gazprom? Ora paghiamo il prezzo. Se siamo convinti che sia in nome di libertà e democrazia occidentali, accettiamolo senza tanti piagnucolii. La Germania fa da sé, la Francia lo farà tra poco: e noi, cosa faremo? Continueremo a sperare nella soluzione europea?
Se non si mettono soldi adesso, entro Capodanno quegli stessi partner verranno a fare shopping a prezzo di saldo di ciò che ancora respira del nostro tessuto produttivo. E magari bancario. La finisca il Governo uscente di millantare una solidarietà che non esiste, visto che la famosa autorevolezza europea di Mario Draghi ci ha portato a questo punto: un pugno di mosche, ecco cosa ha ottenuto il nostro Governo a Bruxelles. E stante i presupposti e le parole d’ordine in nome delle quali sta nascendo il nuovo esecutivo, la situazione può solo peggiorare. E di molto.
Mi spiace, ma stavolta non ci sono bicchieri mezzi pieni a cui guardare: perché con ogni probabilità, Germania e Francia agiranno sulla Bce affinché l’Italia divenga epicentro di nuova crisi sovrana al fine di garantirsi anche mano libera totale sulla gestione della exit strategy da Target2. Nel 2011 bastò la pulce greca a salvare il carrozzone, oggi serve l’elefante italiano. E parecchie quinte colonne.
Come sempre in questi casi, il consiglio resta valido: per trovare le risposte, seguite scelte e movimenti delle molte Legion d’Onore conferite a nostri connazionali. L’ultima mossa di Berlino, seppur travestita da mano tesa, è in effetti una spinta mascherata.
FONTE: https://www.ilsussidiario.net/news/spy-finanza-per-salvare-lue-servira-una-crisi-in-italia/2419773/
La terapia d’urto sull’economia mondiale
di Michael Roberts
“Chiaramente, le banche centrali non conoscono le cause dell’aumento dell’inflazione. Come ha affermato il presidente della Fed Jay Powell: “Capiamo meglio ora quanto poco sappiamo dell’inflazione”. Ma è anche un approccio ideologico dei banchieri centrali. Tutti i discorsi da parte loro sono la paura di una spirale salari-prezzi. Quindi la loro argomentazione sostiene che, poiché i lavoratori cercano di compensare l’aumento dei prezzi negoziando salari più elevati, ciò alimenterà ulteriori aumenti dei prezzi e di conseguenza le aspettative di inflazione.”
La terapia d’urto era il termine usato per descrivere il drastico passaggio da un’economia pianificata di proprietà pubblica nell’Unione Sovietica nel 1990 a un modo di produzione capitalista in piena regola. È stato un disastro per il tenore di vita per un decennio. La dottrina dello shock era il termine usato da Naomi Klein per descrivere la distruzione dei servizi pubblici e dello stato sociale da parte dei governi a partire dagli anni ’80. Ora le principali banche centrali stanno applicando la propria “terapia d’urto” all’economia mondiale, intente a far salire i tassi di interesse per controllare l’inflazione, nonostante la crescente evidenza che ciò porterà a una recessione globale il prossimo anno.
Questo è quello che dicono. Il membro del consiglio della Federal Reserve Chris Waller chiarisce che “non sto considerando di rallentare o fermare gli aumenti dei tassi a causa di problemi di stabilità finanziaria”. Quindi, anche se l’aumento dei tassi di interesse cominciasse a fare buchi nelle istituzioni finanziarie e nelle loro attività speculative, non importa. Allo stesso modo, il capo della Bundesbank Nagel è risoluto, nonostante l’Eurozona e la Germania in particolare stiano già scivolando in recessione: “I tassi di interesse devono continuare a salire – e in modo significativo”. Nagel non vuole solo tassi di interesse più alti; vuole che la BCE riduca il suo bilancio, cioè non solo smetta di acquistare titoli di stato per mantenere bassi i rendimenti obbligazionari, ma in realtà venda obbligazioni, portando a rendimenti in aumento.
Nagel prosegue: “c’è uno shock sui prezzi dell’energia, i cui effetti la banca centrale non può cambiare molto nel breve termine. Tuttavia, la politica monetaria può impedirne il balzo e l’allargamento. In questo modo, stiamo rompendo la dinamica dell’inflazione e portando l’andamento dei prezzi al nostro obiettivo di medio termine. Abbiamo gli strumenti per questo, in particolare gli aumenti dei tassi di interesse”.
Tutto questo discorso maschilista dei banchieri centrali nasconde la realtà. L’aumento dei tassi di interesse non funzionerà nel portare i tassi di inflazione ai livelli target senza un forte crollo. Questo perché gli attuali tassi di inflazione a 40 anni sono stati principalmente causati non dalla “domanda eccessiva”, cioè dalla spesa delle famiglie e dai governi, ma dall’”offerta insufficiente”, in particolare nella produzione di cibo ed energia, ma anche in più in generale nei prodotti manifatturieri e tecnologici. La crescita dell’offerta è stata limitata dalla bassa crescita della produttività nelle principali economie, dai blocchi della catena di approvvigionamento nella produzione e nei trasporti emersi durante e dopo la crisi del COVID e poi accelerati dall’invasione russa dell’Ucraina e dalle sanzioni economiche imposte dagli stati occidentali.
In effetti, studi empirici hanno confermato che la spirale inflazionistica è stata guidata dall’offerta. In un nuovo rapporto, la BCE ha rilevato che anche l’aumento dell’inflazione core, che esclude i fattori di offerta di cibo ed energia, è stato guidato principalmente da vincoli di offerta. “I persistenti colli di bottiglia nell’offerta di beni industriali e la carenza di input, inclusa la carenza di manodopera dovuta in parte agli effetti della pandemia di coronavirus (COVID-19), hanno portato a un forte aumento dell’inflazione… Componenti del paniere IPCA che aneddoticamente sono fortemente influenzati dalle interruzioni dell’offerta e le strozzature e le componenti che sono fortemente influenzate dagli effetti della riapertura a seguito della pandemia hanno contribuito insieme per circa la metà (2,4 punti percentuali) dell’inflazione dell’IPCA nell’area dell’euro nell’agosto 2022″.
E nel suo ultimo rapporto sul commercio e lo sviluppo, l’ UNCTAD giunge a una conclusione simile. L’UNCTAD ha calcolato che ogni punto percentuale di aumento del tasso di interesse chiave della Fed avrebbe ridotto la produzione economica nei paesi ricchi dello 0,5 per cento e dello 0,8 per cento nei paesi poveri nei prossimi tre anni; e aumenti più drastici di 2 e 3 punti percentuali deprimerebbero ulteriormente la “ripresa economica già in stallo” nelle economie emergenti. Nel presentare il rapporto, Richard Kozul-Wright, capo del team dell’UNCTAD che lo ha preparato, ha dichiarato: “Cercate di risolvere un problema dal lato dell’offerta con una soluzione dal lato della domanda? Pensiamo che sia un approccio molto pericoloso”. Esattamente.
Chiaramente, le banche centrali non conoscono le cause dell’aumento dell’inflazione. Come ha affermato il presidente della Fed Jay Powell: “Capiamo meglio ora quanto poco sappiamo dell’inflazione”. Ma è anche un approccio ideologico dei banchieri centrali. Tutti i discorsi da parte loro sono la paura di una spirale salari-prezzi. Quindi la loro argomentazione sostiene che, poiché i lavoratori cercano di compensare l’aumento dei prezzi negoziando salari più elevati, ciò alimenterà ulteriori prezzi e aumenterà le aspettative di inflazione.
Questa teoria dell’inflazione è stata riassunta da Martin Wolf, il guru keynesiano del Financial Times: “Quello che i banchieri centrali devono fare è prevenire una spirale salari-prezzi, che destabilizzerebbe le aspettative di inflazione. La politica monetaria deve essere sufficientemente rigida per raggiungere questo obiettivo. In altre parole, deve creare/preservare un certo margine di manovra nel mercato del lavoro”. Quindi evita che i salari aumentino e lascia che la disoccupazione aumenti. Il capo della Fed Jay Powell ritiene che il compito della Fed sia “in linea di principio… moderando la domanda, potremmo… abbassare i salari e poi far scendere l’inflazione senza dover rallentare l’economia e avere una recessione e far aumentare materialmente la disoccupazione. Quindi c’è un percorso per quello”.
Come ha affermato il governatore della Banca d’Inghilterra, Andrew Bailey: “Non sto dicendo che nessuno riceva un aumento di stipendio, non fraintendetemi. Ma quello che sto dicendo è che dobbiamo vedere la moderazione nella contrattazione salariale, altrimenti andrà fuori controllo”. Oppure prendi questa affermazione del principale economista macro mainstream Jason Fulman: “Quando i salari salgono, i prezzi aumentano. Se il prezzo del carburante delle compagnie aeree o degli ingredienti alimentari aumenta, le compagnie aeree o i ristoranti aumentano i prezzi. Allo stesso modo, se i salari degli assistenti di volo o dei server aumentano, aumentano anche i prezzi. Ciò deriva dal micro e dal buon senso di base.”
Ma sia questo “micro di base” che il “buon senso” sono falsi. La teoria e il supporto empirico per l’inflazione spinta dai costi salariali e la teoria delle aspettative di inflazione sono fallaci. Marx ha risposto all’affermazione che gli aumenti salariali portano automaticamente all’aumento dei prezzi circa 160 anni fa in un dibattito con il sindacalista Thomas Weston che ha affermato che gli aumenti salariali erano controproducenti poiché i datori di lavoro avrebbero semplicemente aumentato i prezzi e i lavoratori sarebbero tornati al punto di partenza. Marx ha affermato che ( Valore, Prezzo e Profitto) che “una lotta per un aumento dei salari segue solo sulla traccia delle precedenti variazioni dei prezzi”. Molte altre cose influiscono sull’andamento dei prezzi: “la quantità di produzione, le forze produttive del lavoro, il valore del denaro, le fluttuazioni dei prezzi di mercato, le diverse fasi del ciclo industriale”.
Abbassare i salari è la risposta delle banche centrali. Ma i salari non stanno aumentando come quota della produzione; al contrario, è la quota di profitto che è aumentata durante e dopo la pandemia.
Eppure, secondo il rapporto dell’UNCTAD, tra il 2020 e il 2022 “si stima che il 54% dell’aumento medio dei prezzi nel settore non finanziario degli Stati Uniti fosse attribuibile a margini di profitto più elevati, rispetto a solo l’11% nei 40 anni precedenti”. Ciò che ha determinato l’aumento dell’inflazione è stato il costo delle materie prime (alimentari ed energia in particolare) e l’aumento dei profitti, non dei salari. Ma non si parla da parte delle banche centrali di una spirale profitto-prezzo.
In effetti, questo era un altro punto sollevato da Marx nel dibattito con Weston: “Un aumento generale del saggio salariale risulterà in una caduta del saggio generale del profitto, ma non influirà sui prezzi delle merci”. Questo è ciò che preoccupa davvero i banchieri centrali: un calo della redditività.
Quindi le banche centrali proseguono con l’aumento dei tassi di interesse e il passaggio dal quantitative easing (QE) all’inasprimento quantitativo (QT). E lo stanno facendo contemporaneamente attraverso i continenti. Questa “terapia d’urto”, impiegata per la prima volta alla fine degli anni ’70 dall’allora presidente della Fed statunitense Paul Volcker, alla fine portò a un grave crollo globale nel 1980-2.
Il modo in cui le banche centrali stanno combattendo l’inflazione aumentando contemporaneamente i tassi di interesse sta anche mettendo a dura prova il sistema finanziario globale, con azioni nelle economie avanzate che colpiscono i paesi a basso reddito.
Ciò che sta diffondendo l’impatto del rialzo dei tassi di interesse sull’economia mondiale è il fortissimo dollaro USA, cresciuto di circa l’11% da inizio anno e che – per la prima volta in due decenni – ha raggiunto la parità con l’euro. Il dollaro è forte come un rifugio sicuro per il contante dall’inflazione, con il tasso di interesse USA in rialzo e dall’impatto delle sanzioni e della guerra in Europa.
Un numero enorme di valute principali si è deprezzato rispetto al dollaro. Questo è disastroso per molti paesi poveri in tutto il mondo. Molti paesi, soprattutto i più poveri, non possono prendere in prestito nella propria valuta l’importo o le scadenze che desiderano. I prestatori non sono disposti ad assumersi il rischio di essere rimborsati nelle valute volatili di questi mutuatari. Invece, questi paesi di solito prendono in prestito in dollari, promettendo di ripagare i loro debiti in dollari, indipendentemente dal tasso di cambio. Pertanto, man mano che il dollaro diventa più forte rispetto ad altre valute, questi rimborsi diventano molto più costosi in termini di valuta nazionale.
L’Institute of International Finance, ha recentemente riferito che “gli investitori stranieri hanno ritirato fondi dai mercati emergenti per cinque mesi consecutivi nella serie di prelievi più lunga mai registrata”. Questo è un capitale di investimento cruciale che sta volando dai mercati emergenti verso la “sicurezza”.
Inoltre, quando il dollaro si rafforza, le importazioni diventano costose (in termini di valuta nazionale), costringendo così le imprese a ridurre i propri investimenti o a spendere di più per importazioni cruciali. La minaccia di insolvenza del debito è in aumento.
Tutto questo a causa del tentativo delle banche centrali di applicare la “terapia d’urto” all’aumento dell’inflazione globale. La realtà è che le banche centrali non possono controllare i tassi di inflazione con la politica monetaria, soprattutto quando è guidata dall’offerta. L’aumento dei prezzi non è stato determinato da una “domanda eccessiva” da parte dei consumatori di beni e servizi o da società che hanno investito pesantemente, o anche da una spesa pubblica incontrollata. Non è la domanda ad essere “eccessiva”, ma l’altro lato dell’equazione dei prezzi, l’offerta, è troppo debole. E lì, le banche centrali non hanno trazione. Possono aumentare i tassi di interesse ufficiali quanto ritengono, ma ciò avrà scarso effetto sulla stretta dell’offerta, se non per peggiorare la situazione. Quella compressione dell’offerta non è solo dovuta ai blocchi di produzione e trasporto, o alla guerra in Ucraina,
Ironia della sorte, l’aumento dei tassi di interesse comprimerà i profitti. Negli ultimi tre mesi, i meteorologi hanno già ridotto le loro aspettative per gli utili del terzo trimestre delle grandi società statunitensi di $ 34 miliardi, con gli analisti che ora prevedono l’aumento più debole degli utili dalla profondità della crisi del Covid. Secondo i dati FactSet, si aspettano che le società quotate nell’indice S&P 500 registrino una crescita degli utili per azione del 2,6% nel trimestre da luglio a settembre, rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Questa cifra è scesa dal 9,8% all’inizio di luglio e, se precisa, segnerebbe il trimestre più debole dal periodo da luglio a settembre nel 2020, quando l’economia era ancora vacillante per i blocchi del coronavirus.
È una terapia d’urto sull’economia globale ma non sull’inflazione. Una volta che le principali economie scivolano in una crisi, l’inflazione diminuirà di conseguenza.
FONTE: https://www.sinistrainrete.info/crisi-mondiale/24075-michael-roberts-la-terapia-d-urto-sull-economia-mondiale.html
PANORAMA INTERNAZIONALE
L’IRAN: L’ALTRO OCCIDENTE
Dobbiamo immaginare il mondo persiano come una tessera culturale all’interno del più grande puzzle euro-asiatico.
Capire l’Iran non è problema da poco per l’Occidente, dovremmo prima di tutto chiederci se esista un Occidente senza un mondo arabo-turco-persiano (iraniano) e dobbiamo chiederci se non sia più corretto vedere nel mondo europeo e in quella arabo-islamico due filiazioni dirette della filosofia greca sommata al Dio degli ebrei (che in principio probabilmente non praticavano il monoteismo, ma l’enoteismo – un politeismo con una divinità superiore alle altre). Dobbiamo immaginare il mondo persiano come una tessera culturale all’interno del più grande puzzle euro-asiatico. La Persia è luogo di transito e commerci, le carovane via mare (anche Alessandro Magno, alle foci dell’Indo incaricò il cretese Nearco di fare rientro alle foci del Tigri e dell’Eufrate in nave) e via terra transitavano nel paese; il Mar Caspio – proprio come accade oggi con il corridoio Nord-Sud – collegava il Persico e l’India alla via dell’ambra che correva lungo i fiumi delle steppe russe fino al Baltico. Il mondo persiano è un mondo di mezzo sin dall’antichità, a cavallo tra l’India (di cui gli elamiti furono mediatori con la cultura mesopotamica) e l’Occidente (basti pensare alla successiva conquista di Alessandro Magno o all’orrore che l’impero di Ciro incuteva alle poleis greche – ma che va ridimensionato molto, le fonti a noi per lo più pervenute sono di greci dell’Ellade, i greci delle coste anatoliche avevano imparato ad apprezzare il multiculturalismo e a parlare aramaico, frigio, assiro). Da sempre la Persia fonda parte della sua identità sulla religione. Così mentre in Occidente dilagava il cristianesimo, lì rimaneva vivo il manicheismo (assumendo al contempo forme nuove contaminate dal platonismo vecchio e nuovo). Questa vecchia identità fu spazzata via – apparentemente? – dalla rapida conquista araba (dunque islamica) arrivata quasi di sorpresa. Come secoli prima accaduto con i greci, i persiani accoglievano una civiltà più grezza, più piccola per estensione e capacità e donavano il loro enorme impero, le loro ricchezze, le loro vie commerciali a questa forza nascente. In un primo momento, in Persia (come nel resto del mondo islamico) dominante tanto tra il popolo, quanto tra i dotti, fu il sunnismo. La conquista mongola portò alla sparizione della vecchia classe dirigente e – come ci insegna la storia di ogni epoca e parte del mondo – quando la classe dirigente va in crisi viene soppiantata da una nuova con nuovi valori. Dopo la conquista mongola, in Persia presero il potere i Safavidi che affermarono lo sciismo. La decisione di sposare una propria scuola separata dal sunnismo (che aveva il suo cuore tra La Mecca, Baghdad e Damasco) serviva a riaffermare la specificità persiana, come prima avvenuto con i greci. La Persia si formò come impero sciita contrapposto a due imperi sunniti (e di derivazione turco-mongola a livello dinastico e militare): l’Impero Ottomano a Ovest e quello Moghul ad Est. La specificità persiana pur vitale e permettendo una proiezione nel Caucaso, Egitto, Siria, non dilagò mai nel resto del Medio Oriente. Intanto lo sciismo era diventato forte come religione del dissenso, il richiamo a un certo messianismo liberatorio lo rese celebre tra le classi popolari e nel corso del ‘900 lo portò al centro di interessanti riflessioni nei rapporti tra Islam e Marxismo. Affermatasi nel ‘900, la dinastia Pahlavi questa fece della modernizzazione (intesa come occidentalizzazione), dell’anticomunismo e della vicinanza al mondo anglofono la propria bandiera. Chi dice che le donne all’epoca erano libere di uscire in minigonna non mente, ma omette che nelle campagne l’Iran era ancora profondamente religioso e che ben poche donne avrebbero scelto di indossare la minigonna fuori dai soliti circuiti della borghesia colta, ricca e internazionale.
Come tutti i paesi in via di sviluppo anche l’Iran ebbe il suo governo progressista e nazionalista – il governo Mossadeq – spazzato via da un golpe della CIA che trasformò il paese in una sorta di prigione fascista con spiagge soleggiate, una borghesia occidentalizzata, il petrolio e masse di diseredati abituati a praticare un ramo cospirativo (intendo l’aggettivo positivamente) dell’Islam. La crisi petrolifera, le prepotenze israeliane, il protagonismo iracheno e egiziano fecero il resto. Intanto, da Parigi un uomo vestito di nero predicava su videocasette che entravano clandestinamente nel paese. Teorizzava una nuova forma di stato: la repubblica islamica. Il primo febbraio del 1979, l’Ayatollah Khomeini rientrava in aereo in Iran in un bagno di folla. Era iniziata la rivoluzione islamica (evento decisamente sottovalutato in tutte le nostre analisi). L’Occidente non ci ha capito nulla: era una roba inconcepibile, noi che abituati a pensare le rivoluzioni come rottura e progresso (ma in realtà rivoluzione, è parola che nasce dal moto dei pianeti che fanno un giro attorno al Sole e tornano al punto di partenza – come la Rivoluzione Francese che parte dal Re passa per ghigliottine, proclami universali, giacobini, lotte intestine e arriva a Napoleone che si auto-proclama Imperatore, chiudendo il cerchio). Gli eventi si susseguirono: crisi degli ostaggi all’ambasciata americana, Iran-contras, la guerra con l’Iraq – spinta dall’Occidente per dissanguare due paesi con potenziale enorme. Il paese feudale, arretrato, che ci aspettavamo di vedere crollare (come si era detto della Cina, di Cuba, della Corea del Nord e ora della Russia) non crolla. L’Iran è ancora lì, con il suo modo di essere Occidente diverso dal nostro (ma a sentirli bene sono platonici o aristotelici come i nostri più abili oratori) che ci scandalizza, perché ricorda qualcosa che è in noi, meno estraneo del (percepito) monolitismo cinese o del politeismo indiano. L’arabo, il persiano, il turco e il russo sono stati lo straniero prossimo quelli su cui l’Occidente ha fondato nei secoli pregiudizi e orgoglio razziale (in finale anche religioso), ripudiando una parte di sé che non riusciva più a conciliare col nuovo mondo quello della borghesia, dei commerci, del capitalismo internazionale e delle esplorazioni oceaniche. Non a caso, mentre l’Occidente si disinteressava sempre più all’Oriente, alla crociata, alla Mesopotamia e alla Persia scoprì l’America (anno pieno il 1492 per la Spagna: si conquista l’ultimo emiro islamico a Granada; si cacciano tutti gli ebrei dalla Spagna; si scopre l’America). Gli ebrei rimarranno (spesso in realtà saranno espulsi violentemente) come spettro di quel mondo greco-orientale in Europa, lo stridore della loro diversità crescerà nel tempo fino ad esplodere nell’Olocausto. Oggi nuovamente indignati per la nuova causa civile sbandierata da giornalisti cannibali e politici interessati ci tagliamo ciocche di capelli, discutiamo di Iran come fosse un eterno Medioevo islamico e non capiamo che gli unici ad essere rimasti al 1500, al colonialismo, alla conquista del mondo siamo noi, oggi più cinici, cattivi e disperati.
Splendida scena di “Il sapore della ciliegia” di A. Kiarostami.
Cina: Il terzo mandato di Xi – parte seconda: proprietà, debito e prosperità comune
Pubblico la traduzione di un articolo di Michael Roberts, un economista marxista, sul futuro economico e politico della Cina e sulla dinamica delicata e precaria tra iniziativa privata – dedita al profitto individuale – e iniziativa dello Stato socialista – dedito al perseguimento del benessere della popolazione.
In proposito mi piace ricordare l’art. 41 della nostra Costituzione:
<<L’iniziativa economica privata è libera. / Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. / La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali e ambientali.>>
I Cinesi, a sentire Nino Galloni, pare abbiano imparato molto dalla Prima repubblica. Noi l’abbiamo completamente dimenticata.
di Michael Roberts
Nella prima parte della mia analisi del futuro economico della Cina, ho affrontato le affermazioni secondo cui la Cina avrebbe rallentato verso la stagnazione perché il suo tasso di investimento era troppo alto, la popolazione attiva stava diminuendo rapidamente e l’economia doveva diventare come le economie capitalistiche occidentali mature, basate su una crescita guidata dai consumi. Ho sostenuto che il modello capitalistico occidentale non era certo un granché, viste le sue crisi regolari e ricorrenti e i livelli di crescita dei consumi molto più bassi. In ogni caso, in un’economia i consumi non guidano gli investimenti e la produzione nazionale. Al contrario, sono gli investimenti a guidare le economie capitaliste così come la Cina.
Il motivo per cui gli analisti occidentali sono così scettici nei confronti del modello cinese è che sono immersi in un diverso modello economico di crescita. Sono convinti che la Cina possa avere “successo” (come le economie del G7!) solo se la sua economia dipende da investimenti redditizi di aziende private in un “libero mercato”. Eppure l’evidenza degli ultimi 40 e anche 70 anni è che un modello economico guidato dallo Stato e pianificato come quello cinese ha avuto molto più successo dei suoi colleghi “a economia di mercato” come l’India, il Brasile o la Russia – e persino il G7.
La lezione del crollo finanziario globale e della Grande Recessione del 2009, della lunga depressione che ne è seguita fino al 2019 e dell’impatto economico della crisi pandemica è che l’introduzione di una maggiore produzione capitalistica a scopo di lucro non sosterrà la crescita economica e certamente non produrrà una “prosperità comune”. La vera questione è se tali investimenti producono nuovo valore o se vengono sprecati in consumi improduttivi, come la speculazione immobiliare e finanziaria e le spese militari.
E a questo proposito, è il grande settore capitalista cinese a minacciare la futura prosperità della Cina. Il vero problema è che negli ultimi dieci anni (e anche prima) i leader cinesi hanno permesso una massiccia espansione degli investimenti improduttivi e speculativi da parte del settore capitalistico dell’economia. Nel tentativo di costruire un numero sufficiente di case e infrastrutture per la popolazione urbana in forte aumento, i governi centrali e locali hanno lasciato il lavoro ai costruttori privati. Invece di costruire case in affitto, hanno optato per la soluzione del “libero mercato”, ovvero la costruzione di case in vendita da parte dei privati. Certo, le case devono essere costruite, ma come ha detto tardivamente il Presidente Xi, “le case servono per viverci, non per speculare”.
Pechino voleva case e i funzionari locali volevano entrate. I progetti edilizi capitalistici hanno contribuito a realizzare entrambe le cose. Ma il risultato è stato un enorme aumento dei prezzi delle case nelle principali città e una massiccia espansione del debito. In effetti, il settore immobiliare ha ormai superato il 20% del PIL cinese. Il settore immobiliare privato cinese è ora composto da aziende “zombie”, proprio come il 15-20% delle aziende delle principali economie capitalistiche. La questione è se le autorità cinesi permetteranno a queste aziende di fallire. I governi locali stanno cercando di garantire che le case promesse da Evergrande a 1,8 milioni di cinesi vengano costruite rilevando i progetti, mentre molti promotori immobiliari verranno liquidati.
Non ci sarà un crollo finanziario in Cina. Questo perché il governo controlla le leve del potere finanziario: la banca centrale, le quattro grandi banche commerciali statali, che sono le più grandi banche del mondo, e le cosiddette “bad bank”, che assorbono i prestiti in sofferenza, i grandi gestori patrimoniali, la maggior parte delle più grandi aziende. Il governo può ordinare alle quattro grandi banche di scambiare i prestiti in sofferenza con partecipazioni azionarie e dimenticarsene. Può dire alla banca centrale, la People’s Bank of China, di fare tutto il necessario. Può dire ai gestori patrimoniali e ai fondi pensione statali di acquistare azioni e obbligazioni per sostenere i prezzi e finanziare le aziende. Può dire alle società patrimoniali statali di acquistare crediti inesigibili dalle banche commerciali. Può convincere i governi locali a portare a termine i progetti immobiliari. Quindi una crisi finanziaria è esclusa perché lo Stato controlla il sistema bancario.
L’attuale disordine immobiliare è il segnale che l’economia cinese sta diventando sempre più influenzata dal caos e dai capricci del settore basato sul profitto. Proprio come nelle economie capitalistiche occidentali, la redditività del settore capitalistico cinese è in calo.
Ed è il settore privato che ha fatto male durante la COVID e dopo. I profitti del settore capitalistico sono in calo. I profitti cumulati delle imprese industriali cinesi nei primi otto mesi del 2022 sono diminuiti dell’1,4% rispetto al 2021, poiché i prezzi elevati delle materie prime e le interruzioni della catena di approvvigionamento dovute alle restrizioni della COVID-19 hanno continuato a comprimere i margini e a interrompere l’attività delle fabbriche. Tuttavia, i profitti delle imprese industriali statali sono aumentati del 14%, mentre quelli del settore privato sono diminuiti del 9%. Solo il settore statale continua a dare risultati. È quello che è successo anche nella crisi finanziaria globale del 2008-9, che la Cina ha evitato espandendo gli investimenti statali per sostituire un settore capitalistico “in crisi”.
Il settore capitalistico ha aumentato le sue dimensioni e la sua influenza in Cina, parallelamente al rallentamento della crescita del PIL reale, degli investimenti e dell’occupazione, anche sotto Xi. Uno studio recente ha rilevato che il settore privato cinese è cresciuto non solo in termini assoluti, ma anche come proporzione delle maggiori aziende del Paese, misurate in base ai ricavi o (per quelle quotate) al valore di mercato, passando da un livello molto basso quando il presidente Xi è stato confermato come prossimo leader nel 2010 a una quota significativa oggi. Le aziende di Stato dominano ancora tra le maggiori aziende per fatturato, ma la loro preminenza si sta erodendo.
Ciò sta intensificando le contraddizioni tra la redditività del settore capitalistico e la stabilità degli investimenti produttivi in Cina. L’accumulo di attività finanziarie e immobiliari basate su ingenti prestiti sta sottraendo potenziale di crescita.
In Cina gli investimenti del settore statale sono sempre stati più stabili di quelli privati. La Cina è sopravvissuta, o addirittura ha prosperato, durante la Grande Recessione, non grazie a una spinta alla spesa pubblica di tipo keynesiano per il settore privato, come sostenevano alcuni economisti, sia in Occidente che in Cina, ma grazie agli investimenti statali diretti. Questi hanno svolto un ruolo cruciale nel mantenere la domanda aggregata, prevenire le recessioni e ridurre l’incertezza per tutti gli investitori.
Quando gli investimenti nel settore capitalistico rallentano, come accade quando la crescita dei profitti rallenta o diminuisce, in Cina il settore statale può intervenire. Gli investimenti delle imprese statali sono cresciuti particolarmente velocemente tra il 2008-09 e il 2015-16, quando la crescita degli investimenti delle imprese non statali è rallentata. Come ha mostrato David Kotz in un recente articolo:
“La maggior parte degli studi attuali ignora il ruolo delle aziende di Stato nello stabilizzare la crescita economica e nel promuovere il progresso tecnico. Noi sosteniamo che le aziende di Stato svolgono un ruolo favorevole alla crescita in diversi modi. Le aziende di Stato stabilizzano la crescita nei periodi di crisi economica realizzando investimenti massicci. Le aziende di Stato promuovono importanti innovazioni tecniche investendo nelle aree più rischiose del progresso tecnico. Inoltre, le aziende di Stato adottano un approccio di alto livello al trattamento dei lavoratori, che sarà favorevole alla transizione verso un modello economico più sostenibile. La nostra analisi empirica indica che le aziende di Stato in Cina hanno promosso la crescita di lungo periodo e compensato l’effetto negativo delle recessioni economiche”.
La bolla immobiliare alimentata dal debito ha anche aumentato notevolmente le disuguaglianze di reddito e di ricchezza in Cina. È noto che la Cina ha un livello molto alto di disuguaglianza di reddito. L’indice Gini della disuguaglianza di reddito è elevato rispetto agli standard mondiali, sebbene sia diminuito negli ultimi anni.
In effetti, l’appello di Xi alla “prosperità comune” è un riconoscimento del fatto che il settore capitalistico promosso dai leader cinesi (e dal quale essi traggono molti vantaggi personali) è sfuggito talmente di mano da minacciare la stabilità del controllo del Partito Comunista. Quella che Xi e i leader cinesi hanno definito “espansione disordinata del capitale”.
Prendiamo il commento del miliardario Jack Ma prima di essere “rieducato” dalle autorità:
“I consumi cinesi non sono guidati dal governo, ma dall’imprenditoria e dal mercato… Negli ultimi 20 anni, il governo era così forte. Ora si sta indebolendo. È la nostra opportunità, è il nostro momento di mostrare come l’economia di mercato, l’imprenditorialità, possano sviluppare il consumo reale”. –The Guardian, 25 luglio 2019
L’anno scorso, il governo cinese ha istituito una zona speciale per l’attuazione della “prosperità comune” nella provincia di Zhejiang, che è anche la sede di diverse importanti società internet, tra cui Alibaba. Xi ha annunciato l’intenzione di diffondere la “prosperità comune”, preannunciando un duro giro di vite sulle élite ricche, compreso il fiorente gruppo di miliardari tecnologici cinesi.
Nella riunione dell’agosto 2021, il Comitato centrale per le finanze e l’economia, presieduto da Xi, ha confermato che la “prosperità comune” è “un requisito essenziale del socialismo” e deve andare di pari passo con una crescita di alta qualità. L’obiettivo dichiarato della Prosperità comune è quello di “regolare i redditi eccessivamente alti” per garantire una “prosperità comune per tutti”.
Ci sono due ragioni per cui Xi e la sua maggioranza nella leadership del PC hanno lanciato il progetto di “prosperità comune”. Il primo è l’esperienza della pandemia di COVID. Come nelle principali economie capitalistiche, la pandemia ha messo a nudo le enormi disuguaglianze della popolazione cinese, non solo in termini di reddito, ma anche di aumento della ricchezza per i miliardari, che hanno raccolto enormi profitti durante il COVID, mentre la maggior parte dei cinesi, in particolare i gruppi a reddito medio, hanno subito chiusure, perdita di reddito e aumento del costo della vita. La quota di ricchezza personale dei miliardari cinesi è raddoppiata dal 7% del 2019 al 15% del PIL nel 2021.
Se si permettesse a questa situazione di continuare, si aprirebbero scissioni nel PC e nel sostegno del partito tra la popolazione. Xi vuole evitare un’altra protesta di Piazza Tienanmen nel 1989, dopo un enorme aumento della disuguaglianza e dell’inflazione sotto le riforme del “mercato sociale” di Deng. Il governo ha dovuto agire per frenare l’espansione sfrenata degli investimenti improduttivi e speculativi.
Il giro di vite di Xi sui miliardari e il suo appello a ridurre le disuguaglianze è un altro zig zag nella direzione politica dell’élite burocratica cinese: dai primi decenni di Mao alle riforme “di mercato” di Deng negli anni Ottanta; alla privatizzazione di alcune aziende statali negli anni Novanta; al ritorno a un più saldo controllo statale delle “alte sfere” dell’economia dopo il crollo globale del 2009; al successivo allentamento del credito speculativo; e ora un nuovo giro di vite sul settore capitalistico per raggiungere la “prosperità comune”.
Questi zig zag sono dispendiosi e inefficienti. Si verificano perché la leadership cinese non è responsabile nei confronti del popolo lavoratore; non ci sono organi di democrazia operaia. Non esiste una pianificazione democratica. Solo i 100 milioni di membri del PC hanno voce in capitolo sul futuro economico della Cina, e questo solo tra i vertici. Lungi dall’essere la risposta alla mini-crisi cinese che richiede ulteriori riforme “liberalizzatrici” verso il capitalismo, la Cina deve invertire l’espansione del settore privato e introdurre piani più efficaci per gli investimenti statali, ma questa volta con la partecipazione democratica del popolo cinese nel processo. Altrimenti, gli obiettivi della leadership per la “prosperità comune” saranno solo chiacchiere.
FONTE: https://pensieriprovinciali.wordpress.com/2022/10/18/cina-il-terzo-mandato-di-xi-parte-seconda-proprieta-debito-e-prosperita-comune/
SCIENZE
PSICOTOPO PRIMA PUNTATA: IL RATTO GIGANTE PUO’ COLONIZZARE L’EUROPA
Inizia il viaggio de “La Pekoranera” nelle connessioni con l’antropizzato mondo animale. A novembre ti terrà a Roma un importante convegno in cui si parlerà soprattutto dei roditori, e noi ci saremo.
E’ inevitabile che, il rapporto tra esseri umani e topi divenga sempre più frequente ed intenso. Perché tutte le specie di ratto avranno decuplicato nel giro d’una decina d’anni le loro popolazioni. Perché i topi stanno pian pianino prendendo spazi d’affezione nella vita domestica che un tempo erano esclusivi di felini e canidi. Soprattutto perché la curiosità e la voglia d’infrangere le regole spinge i giovani più ribelli ad adottare un ratto gigante come animale da compagnia. E’ il caso del sudamericano Capibara (carpinchos) roditore che può superare i sessanta chilogrammi di peso, e che in ambienti come quello italiano potrebbe contendere il territorio a ratti, cinghiali e maiali selvatici. Ma il preferito si conferma il ratto gigante del Gambia, anche noto come ratto gigante africano (tassonomicamente Cricetomys gambianus): è un roditore notturno, diffuso in gran parte dell’Africa, dal Senegal al Kenya e dall’Angola al Mozambico. È fra i roditori più grandi ed intelligenti del pianeta Terra (non dimentichiamo che il ratto è l’animale che ha risposto positivamente alla colonizzazione di Marte al minimo delle condizioni atmosferiche similari alla Terra). Il nome scientifico Crycetomis si deve alle tasche guanciali: ricordano quelle dei criceti e possono contenere enormi quantità di cibo. Il ratto gigante appartiene alla famiglia dei roditori muroidi, che è endemica nell’Africa. Il ratto africano è molto simile al surmolotto norvegese, fatta eccezione solo per le tasche guanciali. Un esemplare adulto è lungo fra i 60 ed i 90 centimetri (compresa la coda che da sola è 30-40 cm), può arrivare a pesare fino a 2,8 kg (la media è 1,5 kg per il maschio e 1 kg per la femmina). La sua vista è molto debole, ma ha olfatto ed udito più sviluppati d’un cane da tartufo, da caccia o da guardia. Il ratto gigante può vivere in diversi ecosistemi, tant’è che lo si ritrova in gran parte dell’Africa, a diverse latitudini ed altitudini. L’unica regione dell’Africa in cui è assente è la subsahariana delle foreste del Congo, dove è stato respinto dal competitore ratto di Emin (Cricetomys emini). Il ratto gigante popola foreste e sottobosco, costruisce la propria tana anche nei termitai abbandonati. Il ratto gigante è un animale sociale, vive in colonie composte in genere da una ventina di individui. I maschi sono territoriali e reciprocamente aggressivi. Costruisce tane sotterranee dotate di diverse camere collegate da cunicoli: la principale viene usata per dormire, le altre sono dedicate all’immagazzinamento del cibo. Questa specie è onnivora, si nutre di vari generi di piante, insetti, granchi e lumache, mostrando una predilezione per i frutti e la corteccia di alcuni tipi di palma. Raggiunge la maturità sessuale tra i cinque ed i sette mesi: una femmina può generare tra le quattro e le cinque cucciolate l’anno, che garantiscono la sopravvivenza di almeno sei piccoli.
Tra odio e amore, tra compagnia e repellenza
Come animale da compagnia il ratto gigante è stato scelto da tantissimi giovani. Il ratto gigante africano è utilizzato anche per operazioni di sminamento: familiarizza facilmente con l’uomo, soprattutto se addestrato in giovane età: è intelligente ed ha un carattere mite e socievole. Il suo commercio però è stato bollato come pericoloso, in quanto è una specie invasiva. In Florida esiste una popolazione di ratti africani in libertà che viene considerata una potenziale minaccia per l’ecosistema di Key Largo e delle Everglades. Anche nei quartieri popolari di New York recentemente si è scoperta una colonia di “Ratti Giganti del Gambia”: si sono adattati a vivere nell’habitat dei ratti di città. Oggi l’importazione è proibita negli Stati Uniti (già nel 2003 venne proibita per la prima volta) a causa dell’epidemia di vaiolo delle scimmie che si sarebbe diffusa nel Midwest, che ha causato numerosi contagi senza mietere vittime. La ONG “APOPO”, con sede in Belgio e Tanzania, conduce da anni un progetto di addestramento dei ratti giganti: sfrutta il loro olfatto per la ricerca di mine anti-uomo e di focolai di tubercolosi. I ratti addestrati dall’APOPO sono stati impiegati con successo, tra l’altro, nello sminamento di diverse zone di Mozambico, Angola, Thailandia, Laos, Vietnam e Cambogia: in quei paesi sono stati appositamente importati dall’Africa. Pesano sensibilmente meno dei cani utilizzati per lo sminamento: sono preferiti perché non fanno esplodere le mine. Il loro addestramento è inoltre molto meno costoso di quello dei cani. Per questo prezioso contributo, i ratti giganti sono conosciuti anche come HeroRats (ratti eroi). Nella cultura di massa il ratto gigante è simboleggiato dal gigantesco e feroce ratto Ben del film Willard, interpretato proprio da un esemplare del roditore africano. Ma il sogno di qualche scienziato (provvisto di laboratorio privato ben accorsato) è riportare in vita un antenato dei ratti giganti, della grandezza d’un lupo o d’un orsetto, in grado di costituirsi in colonie e di contendere il territorio agli umani: prossimo film di fantascienza o imminente realtà? Del resto una decina di colonie di ratti sudamericani (Capibara) potrebbero benissimo dividersi il territorio con i cinghiali. Ed i ratti africani sarebbero capaci (al pari dei ratti cinesi delle risaie) di sottrarre territorio ai ratti norvegesi che popolano Roma, Parigi e Londra. Infuria il dibattito nella comunità scientifica.
FONTE: https://www.lapekoranera.it/2022/10/21/psicotopo-prima-puntata-il-ratto-gigante-puo-colonizzare-leuropa/
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