RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI
12 APRILE 2021
A cura di Manlio Lo Presti
Esergo
Tutti mutano nel tentativo di simulare se stessi.
ANDREA EMO, Aforismi per vivere, Mimesis,2007, pag. 109
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SOMMARIO
Julian Assange. Niente è come sembra
La maschera che nasconde l’Altro
Bill Gates: il dio-programmatore del mondialismo e le anomalie di Matrix
Il Racconto del Potere VI Puntata
Il sardonico Johnny Hart, un maestro del fumetto
RANIERI GUERRA E IL FALSO PIANO PANDEMICO!
“Soviet supremo”, Beppe Sala ‘silenzia’ i dipendenti: vietate le critiche sui social
2011-2021: come Mario Draghi ha distrutto il Mediterraneo italiano
LETTERA APERTA A MICHELA MURGIA.
Ultim’ora: esercito ucraino circondato dai russi
Ucraina: come gli Usa di Biden dichiarano guerra all’Europa
Provare l’Io – Evola e la filosofia
Liturgia. Non solo il «Padre Nostro». Ecco tutto ciò che cambia con il nuovo Messale
Il Web e il controllo delle menti. Una guerra senza limiti?
I moltiplicatori di impotenza nella guerra ibrida, ovvero la vigna dei coglioni
Svizzera Connection: il coinvolgimento della Svizzera nella frode elettorale americana
Glaxo – Beatrice Lorenzin – Ranieri Guerra: attacco a tre punte “contro il morbillo” in una partita truccata?
Ranieri Guerra uomo di Washington
Il silenzio degli innocenti: 6000 morti da vaccino secondo l’Ema
Blockchain, criptovalute e economia verde: occhio ai facili entusiasmi…
Ranieri Guerra uomo di Washington
Il silenzio degli innocenti: 6000 morti da vaccino secondo l’Ema
Blockchain, criptovalute e economia verde: occhio ai facili entusiasmi…
FALÒ DEL CONTANTE PER RISARCIRE CINA E MERCATI
UNICREDIT, CHE FARE?
Dalla giustizia al giacobinismo: l’Italia e la questione giudiziari
Il delirio di Henri Lévy: «Vaccino contro il virus grazie agli immigrati».
LA LINGUA BATTE DOVE IL FEMMINISMO DUOLE
Il Mediterraneo, destino d’Italia
La fredda logica dei numeri, ovvero sangue e merda
COSA È ANDATO A FARE MARIO DRAGHI IN LIBIA?
Rilanciare la cultura dell’interesse nazionale: una sfida chiave
Vaccini pesantemente inquinati
La spiegazione più semplice dell’imbroglio della “pandemia”, del Lockdown e della vaccinazione
Le storia militare degli Stati Uniti sembra un gioco ma non lo è
Gli Stati Uniti sono stati in guerra 222 anni su 239 che esistono come stato
EDITORIALE
Julian Assange. Niente è come sembra
Manlio Lo Presti – 11 aprile 2021
In questo libro la giornalista Germana Leoni pone al centro dell’attenzione la protezione dell’esperto informatico Julian Assange. Tutelare Assange significa salvare la democrazia occidentale evitando la realizzazione di un precedente giuridico e, più direttamente, la costituzione di un deterrente contro tutti coloro che avessero l’intenzione di vederci chiaro, di approfondire, di capire e infine di condividere gli esiti di tali indagini.
Fare una battaglia per l’immunità di Assange ha implicazioni che vanno ben oltre la dolorosa vicenda di questo personaggio che ha avuto il coraggio di scegliere libertà e trasparenza pagando un pesante prezzo in termini personali.
Il libro è scritto con agile stile giornalistico ed è suddiviso in quindici capitoli. Esamina meticolosamente le vicende di Assange. Partendo dalla sentenza del 4 gennaio 2021 l’Autrice riprende le tappe della politica terroristica degli USA: Libia, Egitto, i Clinton, Snowden, Chelsea Manning, Iraq, Afghanistan, Wikileaks e Assange.
In 178 pagine si ripercorre la storia fuori del comune di Assange, facendo capire al lettore la fondamentale importanza di fare chiarezza elaborando le preziose deduzioni controcorrente presenti in tutto il breve testo.
L’Autrice insiste sul fatto che le libertà civili sono in estremo pericolo nella misura in cui la battaglia in corso per sconfiggere la Matrix fosse persa.
Assange, e non solo lui, hanno avuto il grandissimo merito di aver aperto le porte dell’inferno, della ferocia, della violenza, del sangue di cui è intrisa la aggressiva strategia la politica mondiale ed imperiale USA.
Un volume agile e di lettura scorrevole ma da leggere con attenzione sia per la numerosità delle informazioni contenute, sia per la eccezionale importanza ed attualità dei temi trattati, con una particolare enfasi sulla possibilità molto alta che la popolazione debba subire lo scippo delle libertà civili.
Germana Leoni, Julian Assange. Niente è come sembra, Nexus Ed., 2021, pagine 178, € 19,99
IN EVIDENZA
La maschera che nasconde l’Altro
– Roberto Pecchioli – 8 04 2021
Un luogo comune del giornalismo sostiene che la notizia è quando un uomo morde un cane. Più o meno ci è capitato davvero. Non abbiamo riconosciuto una persona che conosciamo da qualche mese, con cui scambiamo qualche commento all’edicola dei giornali. Lo abbiamo sempre visto con la mascherina tirata sopra il naso, ma stavolta non la portava e ha salutato con un sorriso. L’inversione è compiuta: la maschera è diventata volto e la prima riflessione, dopo le debite scuse, è stata paradossale: c’è stato un periodo della nostra vita in cui vivevamo a faccia scoperta, ci stringevamo la mano e non rispettavamo il sacro “distanziamento sociale”? L’essere umano è plastico, flessibile, adattivo; arriva a credere che quella che vive è la normalità. Qualunque sia il nostro pensiero sul virus, è evidente che il potere è riuscito a distruggere le relazioni sociali, la prossimità, la convivialità – diventata reato da denunciare – a plasmare individui solitari. Siamo perfettamente manipolabili e “loro” lo sanno. Hanno imposto per legge, o decreto presidenziale – fa lo stesso, anche i cardini e le gerarchie del diritto sono saltate – un interminabile Ausnahmezustand, lo stato d’eccezione teorizzato da Carl Schmitt. Ora sappiamo chi comanda davvero: coloro che hanno imposto di celare il volto con una maschera.
La domanda è raggelante: come si può avere una relazione con l’Altro senza vederlo in faccia? Da sempre, il rapporto con il volto umano è carico di significati e di simboli. Scriveva l’antropologa Ida Magli che mostrare i denti nel sorriso è da sempre il gesto che dimostra non belligeranza, desiderio di instaurare con il prossimo un rapporto amichevole, basato non sulla violenza, ma sulla parola, il Logos. Allo stesso modo, stringersi la mano significa riconoscere l’esistenza di una relazione, la volontà di stabilire un contatto che parte dal corpo fisico. Ci hanno espropriato brutalmente di questi gesti umanissimi e quotidiani, che tendevano ad avvicinare, azzerare le distanze, creare, anche solo per un attimo, una corrente di empatia basata sulla vicinanza. Vietato: volti coperti, cautelosa misura della distanza fisica (che chiamano “sociale” non per caso) un brevissimo, impercettibile contatto tra i gomiti come massimo di prossimità, calore epersino coraggio. L’altro sarà contagiato, è forse un untore? E’ comunque un pericolo da evitare. Come è possibile una relazione “umana” senza il mutuo riconoscimento del volto, senza l’atto di avvicinarsi, toccarsi, stringersi la mano, sorridere o, al contrario, esprimere fastidio, ostilità, ma sempre attraverso il linguaggio del corpo e innanzitutto del viso? La maschera è fissa, cela e impedisce di scrutare l’anima oltre il volto. Non sappiamo se attraverso la maschera ci difendiamo dal contagio, ma intanto siamo indifesi dinanzi all’Altro e a nostra volta sconosciuti, imperscrutabili. Un giorno ci autorizzeranno a togliere la mascherina, ma il danno sarà stato fatto, irreversibilmente: quella maschera ci ha fatto diventare non-persone e ci ha cambiato in profondità. Abbiamo scoperto con raccapriccio –la minoranza che riflette e ancora conosce il “Sé” – che il volto scoperto è un segno di libertà e la maschera lo è di soggezione, oltreché di paura reciproca. Nell’antica Grecia lo schiavo veniva definito l’essere senza volto, “apròsopos”, quindi senza dignità, privo di libertà, mero oggetto a disposizione del padrone. Dunque, chi sfrutta il maledetto virus ci ha reificato, ridotti a cose. Al tempo in cui era diffusa la lebbra, chi ne era affetto doveva andare a volto coperto. La nostra società ha da tempo dimenticato o rimosso, il valore dei simboli. Giriamo a vuoto attorno a noi stessi, sempre meno interessati a interagire con l’Altro. Troppi non riescono più a cogliere l’enorme valenza simbolica della maschera, vista come un semplice DPI (dispositivo di protezione individuale); anche la parola dispositivo ha a sua volta un potente valore simbolico. Il potere, diventato biopotere, signoria estesa al corpo fisico, è a sua voltaun “dispositivo”, cioè un meccanismo impersonale che ordina, organizza, impone. L’essere umano, tuttavia, cerca un volto, una rassicurazione, un contatto, sin dalla nascita: il viso della madre è il primo elemento della relazione che il neonato intratterrà con il mondo.La ricerca della relazione e nella comunicazionedurerà tutta la vita. Qualcuno ha scritto una grande quanto elementare verità: scopriamo di essere uomini quando riusciamo a fissare un volto e dire “tu”. Il neonato cerca il volto della madre, il bambino quello dei genitori, l’amante dell’amato, sino alla ricerca del volto di Dio. Possiamo immaginare un dio in maschera? Potremmo pregare e dare del tu all’Altissimo se non fossimo capaci di dare del tu al prossimo come segno di prossimità e comunanza di destino?
I rapporti interpersonali sono caratterizzati sempre più dalla riduzione dell’altro a oggetto di possesso e di uso. Dietro la maschera, è più semplice. Per questo il gesto capitale del potere è stato imporci una maschera: più facile distruggere le relazioni sociali, creare individui soli, isolati, singoli e single, senza radici, senza identità, fragili, indifesi ed impauriti, soggetti/oggetti perfettamente manipolabili. Il volto differenzia l’uomo dall’animale. Lo sapeva Cicerone, per il quale “quello che si chiama volto, che non può esistere in nessun essere vivente se non nell’uomo, indica il carattere di una persona”. Luigi Pirandello, che al tema della maschera ha dedicato parte della sua riflessione letteraria, fa dire a uno dei Sei personaggi in cerca d’autore “un personaggio, signore, può sempre domandare a un uomo chi è. Perché un personaggio ha veramente una vita sua, segnata di caratteri suoi, per cui è sempre qualcuno. Mentre un uomo – non dico lei, adesso – un uomo così in genere, può non essere nessuno”. Un uomo in maschera è un Signor Nessuno il cui unico affanno è per la sua individuale sopravvivenza biologica. Attraverso il debole diaframma frapposto tra sé e il mondo della maschera/DPI, spera di vincere, almeno adesso, almeno oggi, la sua guerra contro il virus, metafora della morte.
Nel romanzo Uno, nessuno e centomila, Pirandello spiega che l’uomo si nasconde dietro la maschera per celare la propria autentica personalità. La maschera è dunque una mistificazione, un simbolo di spersonalizzazione e di frantumazione dell’io in identità molteplici, oltreché una forma di adattamento al contesto e alla situazione sociale. Nell’antichità le maschere venivano indossate solo in determinate occasioni rituali che marcavano importanti fasi di trasformazione per la comunità di appartenenza (iniziazioni o riti di passaggio). L’essere umano ha sempre avuto l’esigenza psicologica di adottare delle maschere di fronte agli altri, come ha spiegato Erving Goffman ne “La vita quotidiana come rappresentazione”. Per Goffman la libertà individuale è un’utopia e la vita quotidiana è scandita come uno spettacolo teatrale dove ognuno di noi non può fare a meno di recitare una parte. Viviamo in un mondo di rappresentazioni nel quale interpretiamo più parti. La modernità ha introdotto nuove maschere: stili di vita e di comportamento che si esprimono in abiti, automobili, viaggi e mode. Da un anno si è formata persino una moda delle mascherine; il cerchio si chiude, l’uomo “liquido” della postmodernità, raggiunto dalla nuova paura assoluta, sceglie maschere per ogni occasione eora del giorno: proteggono dal virus- forse – ma soprattutto dall’Altro e permettono di non fare i conti con Sé. C’è chi ne possiede di diverse tipi e fogge, con disegni, colori e forme diverse, come per esprimere al massimo grado la natura cangiante, mutevole, liquida del tempo e dell’umore personale. Sono, in un certo modo, antidoti alla paura, feticci a cui aggrapparsi nella condizione precaria in cui l’uomo sperimenta con raccapriccio che “si sta come in autunno sugli alberi le foglie “.
Ciascuno diventa “apròsopon”, senza volto: la verità è la maschera, un’altra delle sconcertanti inversioni dell’epoca postmoderna. Chissà che non ci impongano la foto “mascherata” per i documenti d’identità. La realtà, come per Nietzsche, si trasforma in un gioco di forme illusorie dove non è possibile conoscere la verità, ridotta a rappresentazione. Per Gustav Jung, la maschera è un simbolo della dualità ombra/persona. L’ Ombradi Jungè l’aspetto oscuro della personalità che l’ego cosciente non identifica, di cui la Persona non è pienamente cosciente. L’uso della maschera finisce per alimentare l’Ombra e destituire la Persona, disconnettendola dall’incontro con l’Altro. E’ questo un aspetto assai preoccupante del nascondimento, della distanza determinata dalla maschera: la chiusura in sé destituisce la condizione dell’uomo come essere sociale. Su questo ha lungamente riflettuto Emmanuel Lévinas, il filosofo franco lituano che ha studiato la relazione con l’Altro e la sua rivelazione attraverso il volto. L’Altro uomo, dice Lévinas, non mi è indifferente, mi concerne, mi riguarda nei due sensi della parola riguardare. In francese si dice che “mi riguarda” qualcosa di cui mi occupo, ma “regarder” significa anche “guardare in faccia” qualcosa per prenderla in considerazione.” L’uomo è protagonista di una relazione con gli altri uomini, etica prima che sociale o politica. Per Lévinas, ciò che caratterizza l’uomo è la sua “inevitabile possibilità” di rapportarsi all’Altro.
L’epifania, che è manifestazione di sé all’altro (questo è anche il significato dell’Epifania ebraico-cristiana del nuovo nato mostrato, “manifestato” alla comunità) avviene nel dialogo, nel “faccia a faccia”. La rivelazione di sé e il disvelamento dell’Altro a partire dal volto è il primo mezzo di comunicazione e lo strumento immediato attraverso il quale si palesa l’umanità di ciascuno. Chiamiamo volto il modo in cui ci si presenta l’Altro. Il suo segretoè nella domanda che rivolge, che è al contempo richiesta di aiuto e minaccia. Con la maschera, finisce la relazione, la richiesta di aiuto si rovescia in minaccia che diventa timore e genera ostilità, distanza, richiesta imperativa che l’Altro esca dalla nostra vita, ridotta a spazio vitale di sopravvivenza, grottesco lebensraum anti contagio. Il volto è ciò che rimane dell’Altro una volta esauriti tutti i riferimenti al mondo esterno. E’ la manifestazione della sua trascendenza; possiede un senso autonomo che si impone al di là del contesto fisico e sociale. Il volto è qualcosa che sfugge al pensiero ed è questa sua inafferrabilità a renderlo una “traccia dell’Infinito”. In quella epifania, scopro che il mondo è mio nella misura in cui lo posso condividere con l’Altro. E l’assoluto si gioca nella prossimità alla portata del mio sguardo, di un gesto di complicità o di aggressività, di accoglienza o di rifiuto.
La relazione con l’Altro, relazione etica, è dunque parte dell’essenza dell’Io, apertura, accoglienza del volto. Ciò che caratterizza l’uomo in quanto tale è la dimensione morale, la capacità di infrangere l’egoismo e rispondere alla domanda dell’Altro, ovvero di esserne “responsabile”. L’irruzione del volto ci rivela la presenza dell’altro: la maschera lo nega. Il termine deriva dal tardo-latino masca (strega), passato ad indicare i travestimenti carnevaleschi e teatrali. Da qui l’accezione metaforica della maschera come strumento di inganno, ma insieme mezzo per vincere la paura verso tutto ciò che trascende la volontà. Persino Dio ha dovuto togliere la maschera e, per farsi riconoscere, mostrare il suo volto diventando uomo, entrando come persona nella storia. Si è rivelato attraverso Gesù Cristo, a sua volta trasformato in simbolo: il volto del destino umano, il significato del nostro essere nel mondo nel volto del Figlio, immagine del padre. Nel volto si gioca anche il rapporto col Potere. Giorgio Agamben dice che “il volto è anche il luogo della politica”. Ecco perché averlo celato, averne ordinato il nascondimento è un atto di potere, anzi di biopotere, senza eguali. Ne era consapevole l’arte, come mostra l’affascinante dipinto di Lorenzo Lippi, pittore fiorentino del Seicento, Allegoria della simulazione. In esso una giovane donna regge nella mano destra una maschera colorata. Gli occhi, però, sono buchi neri, vuoti, perché la maschera non è che un inganno: è il simbolo della menzogna e della falsità. Può fingere la vita, cambiare l’apparenza di un viso, nascondere o coprire la verità. Più inquietante, criptico, è il quadro di René Magritte Gli amanti, in cui un uomo e una donna in atteggiamento apparentemente affettuoso hanno il volto coperto da un lenzuolo. Impossibilità di comunicare, indifferenza al volto dell’Altro? Il bacio è destinato a rimanere sospeso. I due, connotati soltanto dagli abiti, non sono riconoscibili e il lenzuolo bianco rende impossibile concretizzare il desiderio. La vita come relazione resta una tensione, un’aspirazione che non si realizza per il conflitto tra ciò che è visibile e ciò che è nascosto, uno degli elementi più profondi del tema della maschera.
Giorgio Agamben avverte: uno Stato che decide di rinunciare al proprio volto, di coprire con maschere in ogni luogo i volti dei propri cittadini ha cancellato ogni dimensione politica. Nello spazio rimasto vuoto, privo di facce riconoscibili, sottoposto a un controllo senza limiti, si muovono individui isolati a cui è sottratto il fondamento immediato e sensibile della loro comunità, che possono solo scambiarsi messaggi diretti a un nome senza più volto. Il volto è davvero il luogo della politica, della sfida a viso aperto e scoperto alla tirannia che ci ha derubati anche della nostra faccia e ci pretende individui senza volto, dignità, identità, libertà. Il tempo apolitico non vuole vedere in giro persone: le distanzia, le maschera, le copre, sostituite da statistiche e cifre. La maschera, come il tiranno, fa paura proprio perché si presenta senza volto, tanto nega quanto apparentemente afferma. Non è fatta solo di quanto dice, ma anche di ciò che esclude. Per questo il tiranno ama le maschere, a differenza del bambino e dell’uomo semplice che ne ha paura. Scrive la poetessa russa Anna Achmatova: “Fin da piccola temevo le maschere/perché sempre mi era parso / che un’ombra di più/ fra di loro, senza faccia né nome/ s’intrufolasse. “
Roberto Pecchioli
FONTE: https://www.maurizioblondet.it/la-maschera-che-nasconde-laltro/
Bill Gates: il dio-programmatore del mondialismo e le anomalie di Matrix
– Federica Francesconi 23 09 2020
Qualche giorno fa il quotidiano La Stampa ha pubblicato una tanto strana quanto rivelatrice intervista al magnate Billes Gates, riciclatosi negli ultimi anni in pseudofilantropo e grande tessitore di tele mondialiste. Rivelatrice rispetto a che cosa? Nel corso dell’intervista il multimiliardario americano ha snocciolato una serie di dichiarazioni che rivelano la convinzione che nutre rispetto a se stesso e alla sua “missione” di essere una sorta di dio-programmatore del destino dell’umanità. Ma procediamo con ordine. Nell’incipit dell’intervista il guru della religione tecno-scientifica esordisce con una profezia catastrofista sul peggioramento della pandemia, annunciando che, se entro sei mesi non verrà prodotto e diffuso in tutto il globo il vaccino anti-Covid, “la prossima primavera avremo il doppio dei morti” rispetto al 2020. La soluzione alla catastrofe dietro l’angolo? Naturalmente il vaccino da lui stesso prodotto e finanziato: “servirebbe che lo facesse [il vaccino, n.d.A] almeno il 60% della popolazione, ma sarebbe meglio l’80 o il 90%”. Le previsioni di Gates rispecchiano senz’ombra di dubbio una concezione “leibniziana” della vita e dell’universo. Il filosofo tedesco aveva infatti elaborato nelle opere Monadologia e Il migliore dei mondi
possibili un sistema in cui non vi era posto per l’imperfezione, fisica e metafisica: Dio crea il migliore dei mondi possibili, cioè il migliore di quelli da lui pensabili. Addentriamoci per un momento nella visione di Leibniz. Per il filosofo di Lipsia le cose, i fenomeni, sono così e non in un altro modo perché il loro modo contingente di essere è il migliore modo possibile di essere. Ed è il miglior modo possibile di essere perché fonda la sua ragion d’essere in Dio, l’unico essere che ha in sé la ragione della sua esistenza (cioè l’unico essere in cui essenza ed esistenza coincidono). Dio non trae la ragione della sua esistenza da altre cose contingenti, ma la trae da se stesso. Da questa premessa ne deriva il postulato della perfezione di Dio: Egli, perfetto perché recante in sé la sua “ragione sufficiente”, non può non aver creato il migliore dei mondi possibili tra quelli che, pur essendo pensabili, o co-possibili, poteva creare. La perfezione, proprio perché pensabile, deve necessariamente esistere. Ora, proprio perché Dio è il solo essere a poter concepire la perfezione, Egli necessariamente crea un mondo perfetto. Da questa concezione della divinità deriva anche un’aporia del pensiero di Leibniz: tutte le azioni umane sono eventi previsti e quindi predeterminati da Dio ab aeterno. Cosa significa in concreto? Significa che la libertà umana di poter scegliere e decidere è mera illusione. Fare il bene o il male non sono vere scelte. Essere un Pol Pot o un San Francesco non sono vere scelte ma solo un fascio di pensieri e azioni previste da Dio dal principio del tempo. Dio contiene in sé l’idea dell’azione futura di diventare un Pol Pot. In questa prospettiva, la libertà umana per Leibniz non esiste. Ma allora, come conciliare il principio della perfezione del mondo pensato e creato da Dio con l’imperfezione delle cose contingenti, in particolare con le azioni umane così impregnate di imperfezione e malvagità? Dio, come davvero pensava Leibniz, è il più buono e il più giusto tra i monarchi? Leibniz non riuscì mai a superare l’aporia, insita nel suo pensiero, della coesistenza della perfezione del mondocon il Male ad esso connaturato. E non vi riuscì perché respinse l’idea della libertà umana. Ora, il lettore si chiederà che cosa ha a che fare la filosofia di Leibniz con i deliri di un miliardario che gioca a fare il filantropo e il salvatore del mondo. Ad una attenta analisi delle dichiarazioni di Gates, non può non saltare all’occhio l’idea che egli ha di se stesso di essere una divinità, del tipo concepito da Leibniz, cioè di un monarca perfetto che non lascia spazio alla libertà umana. Gates, infatti, prevede che la pandemia finirà entro due anni. Prevede che la prossima primavera, se non si riuscirà ad implementare un vaccino, ci sarà un’ecatombe di morti da Covid. Infine, prevede che la pandemia solo se all’80% della popolazione mondiale verrà somministrato entro sei mesi il vaccino anti-Covid da lui finanziato.
In poche parole, Gates pensa di essere un dio che pensa il migliore dei mondi possibili (le soluzioni da lui pensate non ammettono alcun dubbio sulla loro effettiva efficacia), il più perfetto, di conseguenza vorrebbe crearlo. Nessuna esitazione, nessun ripensamento: il mondo immaginato da Gates è il migliore, il più perfetto rispetto a quelli possibili,quindi va creato, a costo di eliminare la libertà di quasi 8 miliardi di esseri umani. Siamo distanti anni-luce dall’imperativo scolpito sul frontone del tempio di Apollo a Delfi: “conosci te stesso”. Conoscere se stessi significa conoscere la propria libertà. Ci si conosce solo attraverso la mediazione delle idee che condividiamo con gli altri. Diventiamo individui nel vero senso della parola solo se arriviamo a capire che il nostro intelletto è finito. Abbiamo sì una volontà infinita, anche di compiere il male, come capì molto bene Cartesio, ma il nostro intelletto ha dei limiti evidenti. Per tale motivo nessun essere umano è capace di concepire con il proprio intelletto un mondo perfetto. Nessun essere umano può pensare di se stesso di essere Dio, l’unico essere dotato di un intelletto infinito. In ciò sta l’essenza, e io penso anche la bellezza, dell’essere umano: una finitudine connaturata che ci pone in relazione con l’altro e ci fa scoprire i nostri limiti invalicabili. Se io riconosco di avere un intelletto finito, quindi imperfetto, la mia volontà, questa sì per sua natura infinita, non può non convincersi di piegarsi all’intelletto dopo averne riconosciuto l’intrinseca limitatezza.
Se io riconosco la libertà dell’altro non posso non realizzare dentro di me l’ingiunzione dell’oracolo di Delfi “Gnothi seautòn”. La libertà, in questo senso, non è un’idea astratta ma un’azione concreta, e parte dal riconoscimento della finitudine dell’intelletto. Traducendo queste premesse dal piano teoretico al piano metafisico, ciò significa che l’essere umano è impotente: il suo intelletto è per natura finito. L’essere umano non può pensare tutto e non può nemmeno fare tutto. Gates, da bravo mago nero quale egli è, è ben al di là dall’afferrare tale verità metafisica. Ecco perché può tranquillamente essere considerato un controiniziato che fa di se stesso un dio, una creatura di per sé finita che si atteggia a creatura dotata sia di volontà che di intelletto infiniti. In ciò sta l’assoluta pericolosità del personaggio. E’ inquietante la somiglianza tra Gates e uno dei personaggi meglio riusciti della storia del cinema. Mi riferisco alla figura dell’Architetto del film-capolavoro Matrix. Che cos’anno in comune il falso filantropo americano e l’Architetto creatore di Matrix? Entrambi credono nell’ “armonia di precisione matematica”, come la chiama l’Architetto, concetto, questo, che richiama molto da vicino la nozione leibniziana di “armonia prestabilita”, cioè l’idea che tutti gli eventi sono prefissati da Dio sin dall’inizio del tempo e che la libertà umana non esiste. Tuttavia, sia l’Architetto che Gates sono consapevoli dell’esistenza nel sistema di “anomalie” che, spiega l’Architetto, “nonostante i miei sforzi, sono stato incapace di eliminare”. Tali anomalie creano imprevedibili deviazioni dalla programmazione: “pericolose fluttuazioni, anche nella più semplice equazione” spiega l’Architetto. Neo, il protagonista della saga di Matrix, è una di queste. Quando nel corso dell’intervista Gates ridicolizza le accuse che il movimento “No Vax” gli muove con queste parole “non so come abbiano scoperto il mio complotto […]. E’ una storia così bizzarra che quasi dovrei trattarla con umorismo. Però è un problema molto grave, perché se ci accusi di fare cose diaboliche, limiti il nostro lavoro”, non è una velata ammissione dell’esistenza di un’anomalia sistemica? Si faccia in particolare attenzione all’ultima frase: “se ci accusi di fare cose diaboliche, limiti il nostro lavoro”. Qui emerge in tutta la sua trasparenza, questa sì diabolica, l’idea che Gates ha di se stesso di un essere onnipotente. Gli altri, i “No vax”, i “negazionisti della pandemia”, non possono limitare il suo lavoro. Questa mistificazione, tradotta in termini operativi, significa negare la libertà di pensare diversamente dal dio-programmatore e, di conseguenza, di agire diversamente. Perché? Semplice, il dio-programmatore non può non concepire un mondo perfetto. L’anomalia, pertanto, va eliminata. Neo non ha diritto di cittadinanza in Matrix. Per Gates l’intelletto umano può tranquillamente lavorare senza essere coadiuvato dalla libertà, in quanto un sistema fondato sulla precisione matematica non può ammettere l’esistenza di falle prodotte dall’esercizio della libertà, cioè dal dispiegarsi della volontà umana. Le anomalie non sono prevedibili, perciò in un sistema brutalmente razionale come quello immaginato dall’intelletto di Gates, non c’è spazio per le manifestazioni di libertà, siano esse di pensiero o di azione. Il sistema è necessario perché fondato sulla perfezione: produci, vaccinati e crepa. La libertà non può rientrare nel campo della necessità. Ecco come Gates applica al suo folle progetto, naturalmente secondo modalità deviate, cioè controiniziatiche, la filosofia di Leibniz, che pur ha avuto il merito di superare il meccanicismo dei filosofi razionalisti suoi contemporanei con una visione più vitalistica dell’universo fondata sul concetto di monade. Dunque, quale soluzione per uscire dall’impasse in cui ci ha rinchiusi il nichilismo mondialista? Come accennato sopra, la soluzione è sempre la stessa da millenni: conosci te stesso. Riconosci che, a fronte di un intelletto finito, hai una volontà infinita. La volontà di scegliere di non far parte di Matrix, la volontà di rifiutare le soluzioni “miracolose”, il Santo Graal-vaccino che un volgare programmatore miliardario pretende di imporre all’umanità. Ma per poter “volere” l’essere umano deve prima avviare un dialogo muto con la propria anima. L’Ego spinge verso l’accettazione passiva di Matrix, l’Anima verso la ribellione e la
resistenza.
Volere significa diventare delle anomalie del sistema su cui gli architetti del NWO non possono esercitare alcun controllo, almeno per ora. L’anomalia vuole volere, gli architetti del mondialismo non possono concepire la libertà fondata sulla volontà umana, questa sì infinita, perché concepiscono gli esseri umani come automi. Non si discute con un automa, lo si domina e lo si schiaccia. La salvezza consiste nello scegliere continuamente di volere. Là dove gli architetti del mondialismo sono prigionieri della loro credenza di essere degli intelletti infiniti, cioè di autoconcepirsi come divinità che concepiscono e creano mondi perfetti, quando invece la loro visione del mondo e dell’essere umano è profondamente malata e ingiusta, perché fondata si di una scienza e di una tecnologia che fanno di se stesse la fonte di ogni verità, l’essere umano che decide di diventare un’anomalia del sistema, mette il proprio intelletto finito al servizio della sua volontà, aprendosi così un varco sulla strada della libertà. L’unica fonte della verità siamo noi: siamo liberi di voler essere liberi o di non volerlo. Di fronte alla libertà, che è la vera essenza dell’essere umano, perché così è stato concepito da Dio sin dalla notte dei tempi, nessun messia deviato, nessun falso profeta può sperare di piegare sia il nostro intelletto che la nostra volontà alle sue mistificazioni deviate. Nella post-modernità non è più Prometeo l’eroe di riferimento, come voleva Marx, e nemmeno Dioniso, come voleva Nietzsche. E’ lo scienziato, il tecnocrate, il falso filantropo miliardario grande sacerdote della nuova religione atea e nichilistica del mondialismo. Oggi, più che sfidare gli dèi, come Prometeo fece nel mito greco, un essere umano che non vuole rinunciare alla sua libertà deve sfidare i falsi profeti della scienza e della tecnologia disumanizzate e disumanizzanti e il loro dispotismo. Ma per poterli sfidare bisogna prima avere il coraggio di rovesciare l’idolatria di cui si ammantano. Rovesciare l’idolatria tecnoscientifica, che sta portano il mondo verso il baratro, è possibile a patto che prima se ne sveli l’ideologia, laica, liberaldemocratica e politicamente corretta. Ognuno cerchi dentro se stesso gli strumenti e le risorse per resistere all’idolatria nichilistica di Matrix, di cui Gates è uno dei sacerdoti, e la sfidi. Come dice Platone nel celebre Mito di Er, con cui si conclude La Repubblica, quando spiega la libertà delle anime reincarnatesi di scegliere il proprio destino, “Non sarà il demone e scegliere voi, ma voi il demone […]. La responsabilità, pertanto, è di chi sceglie. Il Dio non ne ha colpa”. Voler scegliere continuamente, ecco il destino a cui è chiamata ciascuna anima.
FONTE: https://www.ereticamente.net/2020/09/bill-gates-il-dio-programmatore-del-mondialismo-e-le-anomalie-di-matrix-federica-francesconi.html
Il Racconto del Potere VI Puntata
Quando, per criminale trascuratezza, crollò il ponte Morandi a Genova mi sono ricordato di un post scritto nel 2012. Da qualche decennio le notizie di stampa davano informazioni sul ruolo nefasto dello IOR, la banca del Vaticano: una serie infinita di scandali, con nuove rivelazioni durante il papato di Benedetto XVI. L’anno successivo Ratzinger avrebbe “abdicato” (è il termine tecnico per le dimissioni di un papa) constatando la sua difficoltà nel portare avanti un’opera di riforma così impegnativa della Chiesa Cattolica e delle istituzioni ad essa collegate. Il nuovo papa, Francesco, avrebbe abitato in un convitto per religiosi e mangiato al self service comune sedendo ogni volta in posti differenti: secondo alcuni per evitare di essere avvelenato. In una intervista televisiva di qualche anno fa Bergoglio raccontò che dopo aver letto La Storia dei Papi di Ludwig von Pastor nulla lo avrebbe più meravigliato: detto da lui….
Mi aveva colpito il mondo che girava attorno allo IOR e lo interpretavo come il disinteresse di parte importante del ceto dirigente italiano verso quelle responsabilità che ci si aspetterebbe commisurate alle risorse gestite. Lo dissi sotto forma di racconto: un anziano giornalista ricordava un episodio della sua vita professionale.
L’abdicazione
(Forum Leggere e Scrivere; 14 Giugno 2012)
Non ricordava esattamente quando, ma una mattina di tanti anni prima uno sconosciuto aveva lasciato una busta nella cassetta della posta con un elenco di nomi e cifre. Lo portò in redazione e lo lasciò sul tavolo. Al ritorno dalla riunione non lo trovò più. Poco male, non aveva voglia di lavorarci. Il giorno dopo, nella cassetta, lo stesso plico, questa volta con molti documenti. Parte importante del ceto dirigente italiano veniva rappresentata in quell’elenco e in quelle cifre. Un giro di denari che tramite lo IOR usciva dall’Italia e si disperdeva in paradisi fiscali sempre più lontani … evasione fiscale, corruzione, riciclaggio dei ricavi del commercio della droga e delle armi ma soprattutto quelle cifre e quei nomi rappresentavano l’incapacità di prefigurare un futuro. Riuniti in logge massoniche, comitati di affari, cricche, mafie, società segrete, la banca dei preti sembrava l’esatto ombrello protettivo per quei bambini spaventati, incattiviti dall’angoscia. Avevano riempito di parenti, amici, amanti, complici i posti di responsabilità e dopo decenni di clientelismo, familismo, corruzione, nepotismo, avevano perduto la capacità di affrontare e risolvere i problemi. Era l’abdicazione al loro ruolo di leader. Non ricordava altro. Alla sua età sogni e ricordi si confondevano. Ricordava solo il titolo del suo ultimo pezzo di successo: “Fallimento di una leadership: pericolo mortale per la Nazione“.
I risultati si vedono. Caracciolo lo riferiva su Limes (7/2014): “La nostra repubblica viene percepita dai competitori come “failing, if not failed” nella diagnosi di un analista alleato.” Considerazioni simili mi guidarono nel commentare le scelte del Presidente Napolitano e mi hanno guidato nel giudicare la decisione del Presidente Mattarella di affidare l’incarico a Mario Draghi.
Commento al post di Aldo Giannuli che criticava il Presidente Napolitano
(Blog di Aldo Giannuli, con pseudonimo Caruto, 22 Luglio 2013)
Eviterò di dire che “Napolitano sta cercando di limitare i danni”; anch’io sono convinto che “ha rappresentato la Ue e la Bce presso il governo ed il Parlamento”. Forse anche qualcos’altro (detto così, a naso). D’altro canto, ha ragione Pace. Anche a me sembra incredibile che si voglia cambiare l’art. 138 in via ordinaria.
Il costituzionalista Alessandro Pace aveva criticato la proposta del governo Letta di ridurre “da tre mesi ad uno … l’intervallo intercorrente tra la prima e la seconda approvazione del testo delle leggi costituzionali eventualmente modificative della forma di governo, del bicameralismo paritario e dei rapporti Stato-regioni.”
Io però chiederei uno sforzo di fantasia e, se mi posso permettere, di elaborazione. L’ho detto in alcuni post precedenti. Gli indici economici attuali sono disastrosi: di per sé e perché sono la conseguenza coerente di trend quarantennali. Siamo sicuri che l’Italia esista (abbia la possibilità e la capacità di esistere) come entità autonoma di “Forma Nazione”?
Come indicatore di questo mio dubbio inviterei a considerare quello che è successo negli ultimi 20 anni in termini di sistema politico: siamo stati vicini al Colpo di Stato nel 1993 [gli attentati durante il governo Ciampi], da allora i gangster al comando [Marcello Dell’Utri ebbe un ruolo fondamentale nei successi elettorali che portarono ai Governi Berlusconi] ed il resto (salvo pochi anni sparsi) paralizzato o inciuciato; qualche rivoluzionario [Fausto Bertinotti] che ha fatto cadere governi decenti [Governo Prodi I] (1998); truppe mastellate ora a soccorso di governi di centro sinistra [Governi D’Alema I e II] (1998) ora killer [Governo Prodi II] (2008); un probabile candidato [Walter Veltroni] al Nobel per la Pace, prima in procinto di partire per l’Africa, subito dopo improbabile leader di centro sinistra e poi impallinato dai suoi; imprenditori collusi, riciclatori, evasori e sempre a rischiare con i soldi degli altri e la pelle di impiegati e operai; zero politica industriale; immobilità all’entrata nell’euro, sfruttando solo il vantaggio momentaneo dei tassi per non fare nulla. I partiti? “Non ricevuto”. Scomparsi; sostituiti da qualcosa (cose varie) che non ha paragoni in Europa.
Ora con tutta la simpatia per le persone (sono anch’io della partita) che vorrebbero fare la “cosa giusta”, siamo proprio sicuri quale è la cosa giusta in questo momento? Detto un’altra volta e più chiaramente: chi dovrebbe fare cosa, ora, per fare la cosa giusta? D’accordo sul discorso costituzionale ma quali sarebbero gli attori politici credibili (anche in termini di rapporti di forza) che crudelmente e violentemente sono compressi nei loro propositi ideali dall’attuale corso delle cose? Per essere chiari: l’attuale corso delle cose potrebbe anche non piacermi, ma soprattutto mi preoccupa per le ragioni che sono state dette più volte: sembra tutto già scritto (nonostante la pagliacciata dei saggi 1 e 2) e non si capisce chi l’abbia scritto, anche se si intuisce dove si voglia andare a parare: restrizione dei margini di autonomia decisionale a vari livelli. Mi preoccupa: però, di nuovo, esistono sul mercato politico attori in grado di fare diversamente partendo dalle condizioni date (che non sono nate improvvisamente una mattina d’estate)?
Nei mesi scorsi Clemente Mastella è tornato alla ribalta nazionale per qualche giorno, in occasione della crisi del governo Conte II. Poco prima di accettare l’incarico di segretario del Partito Democratico Walter Veltroni aveva dichiarato di voler andare in Africa e di impegnarsi in azione di volontariato. Il concetto di sistema politico è molto utile perché permette di includere nell’analisi attori pubblici e privati, e le loro relazioni. Il riferimento ai “bambini spaventati, incattiviti dall’angoscia” del post L’abdicazione era il frutto della conversazione con un terapeuta esperto di psicodinamiche di persone attratte da, o appartenenti a, società segrete: mi diceva che per la maggior parte sono in buona fede e cercano di proteggere sé stessi ed i propri familiari. Obbiettai che il loro comportamento rilevava politicamente ed andava contrastato. Abbiamo convenuto che usavamo epistemologie differenti, ambedue legittime nei rispettivi campi di applicazione (politica, psicoterapia) e diversi i contesti: pubblico, privato.
La dicotomia pubblico/privato risale agli albori della polis. Ne parla a suo modo Eva Cantarella in un articolo pubblicato dal Corriere della Sera il 12.12.2011 (Ulisse, fondatore della politica. Itaca è un modello di comunità retta da regole condivise): “È il viaggio per antonomasia, quello di Ulisse verso Itaca …per i greci … Itaca era una città reale … Una delle tante comunità in cui … si era consolidata una nuova forma di vita associativa, in cui non esistevano dei sudditi … bensì dei cittadini. In altre parole, la polis …Nella polis, l’uomo greco doveva ispirare le sue azioni a un’etica sociale nuova, che non poneva più in primo piano l’interesse dei singoli individui o delle singole famiglie, ma quello della collettività; e doveva rispettare le deliberazioni che la comunità prendeva nel luogo a ciò deputato, l’agorà … l’assemblea la cui presenza segnava il discrimine tra la civiltà e l’inciviltà.”
Nel 2016 un altro intervento di Cantarella mi offrì lo spunto per dare un giudizio sul modo di operare del presidente del Consiglio Matteo Renzi che si stava spendendo molto per un referendum costituzionale. Avevo seguito la sua prima conferenza stampa (12.03.2014) da capo del governo: come in una televendita prometteva una Riforma al mese. Di seguito troverete le mie impressioni sulla conferenza stampa; una mia lettera alla redazione di Repubblica a seguito di un articolo di Nadia Urbinati; ed una riflessione sull’esercizio del Potere e la sua legittimazione.
Tre anni prima Berlusconi si era dimesso evidenziando un deficit di credibilità interna ed internazionale. Il nuovo presidente del Consiglio sembrava seguire le sue orme.
In Italia questo non potrebbe succedere
(Forum Leggere e Scrivere; 13 marzo 2014)
Ieri ho visto la conferenza stampa del presidente del Consiglio e, chissà perché, mi è venuta in mente la recensione di un libro (Jon Ronson. Psicopatici al potere. Codice Edizioni 2014) scritta da Gabriele Romagnoli e pubblicata su Repubblica (Il potere dei folli. Dai dittatori ai super manager. Comandare è roba da matti, 07.02.2014):
“… indizi per riconoscere uno psicopatico… Ne cito alcuni … loquacità, fascino superficiale, egocentrismo, tendenza al grandioso, menzogna patologica… abilità nella manipolazione … mancanza di obiettivi realistici a lungo termine, irresponsabilità … Gli psicopatici piacciono, conquistano … perché vogliono piacere, conquistare. È uno dei loro tratti distintivi…. lo psicopatico va al potere perché ce lo mandano. E ce lo tengono… La cosa più incredibile è che, smascherato uno psicopatico, si affidi il potere a un altro.... Ronson racconta un caso emblematico, quello della Sunbeam, una società motoristica britannica. Negli Anni Ottanta sceglie come amministratore delegato tale Robert Buckley. Girava con una guardia del corpo armata di mitragliatrice, collezionava sculture di ghiaccio del valore di diecimila dollari, aveva una flotta di jet e Rolls Royce, manteneva il figlio in un appartamento da un milione di dollari a spese dell’azienda in crisi. Fu licenziato per aver messo a rimborso centomila dollari di vino. A questo punto lo scettro fu passato a un certo Paul Kazarian che lanciava boccali di succo d’arancia contro i collaboratori, sparava con la pistola ad aria compressa durante le riunioni e urlava cose come: «Pur di chiudere l’affare, succhiagli il cazzo a quel bastardo!». Non avendo chiuso abbastanza affari fu sostituito da Al Dunlap, un sadico dei licenziamenti, che minacciò la prima moglie con un coltello, non andò al funerale dei genitori e frodò la società falsificando il bilancio e intascando sessanta milioni di dollari…”.
In Italia questo non potrebbe succedere mai, specialmente in politica.
Su Repubblica del 29.07.2014 lessi un articolo di Nadia Urbinati (A chi tocca decidere). Coglieva un tema cruciale: “Oggi, i governi sono ancora sottoposti al controllo dei cittadini e delle costituzioni, sennonché altri sono i vincoli determinanti: quelli dettati dai mercati finanziari e dalle politiche monetarie dirette dalle banche.” Criticava la frenesia dell’ingegneria costituzionale del governo Renzi ma mi parve di cogliere come una sua valutazione di comportamento amatoriale degli attori governativi italiani di fronte alla crisi della “Forma Nazione”. A me, invece, sembrava che ci fosse un disegno politico.
Lettera spedita il 29.07.2014
Ho letto l’articolo di Nadia Urbinati su Repubblica del 29.07.2014. Penso che abbia toccato il punto della questione. Il richiamo alle armi spuntate degli Stati Nazionali dovrebbe spingere ad una certa cautela circa le mirabolanti riforme costituzionali discusse in questi giorni dal Parlamento italiano, dato che i punti di crisi sui quali intervenire sarebbero altri. Si insiste su una presunta efficienza dell’esecutivo successiva alle riforme: ma non è affatto chiaro per fare cosa. Se si volesse far fare un salto di qualità all’Italia, ed utilizzando gli strumenti già ora disponibili, si potrebbe intervenire sui progetti finanziabili con fondi europei coordinandoli con progetti di snellimento della burocrazia e della giustizia, e si cercherebbe di liberare quante più risorse per investimenti in ricerca, innovazione e istruzione: ricerche internazionali hanno inequivocabilmente dimostrato che è l’unico modo per aumentare la capacità competitiva.Approfittando del semestre europeo a guida italiana si potrebbe cercare di favorire decisioni continentali nella stessa direzione. Se ci si occupa d’altro, allora, è probabile che stia accadendo quello che è successo altre volte nella storia italiana: il tentativo dei ceti dirigenti (in senso lato) di mettere al sicuro il proprio ruolo di comando, a prescindere, nelle fasi di cambiamento. Alla fine del processo di riposizionamento dell’Italia nella divisione del lavoro a livello internazionale, i soliti noti avranno conservato o aumentato patrimonio e bottino, lasciando alla macelleria sociale il ruolo di sorgente delle risorse necessarie nel periodo di transizione.
Ci sono voluti molti secoli per affermare il principio democratico e del rispetto della legge uguale per tutti, governanti inclusi. Per l’Italia sembra invece che sia un optional.
“Non esiste la città che è di un solo uomo”
(Forum Leggere e Scrivere; 26 aprile 2016)
Eva Cantarella ha scritto un libro bellissimo, pubblicato da Feltrinelli nel 2015: “Non sei più mio padre. Il conflitto tra genitori e figli nel mondo antico.”
Si parte dai miti preolimpici e si arriva al V secolo a.C.: citazioni originali, interpretazioni di studiosi, considerazioni in soggettiva su uno dei rapporti familiari e sociali più delicati. Ci sorprendiamo a pensare che, come per i miti, gran parte del nostro immaginario affettivo era già presente ed attivo millenni fa. Riflettere sul Padre inevitabilmente porta a riflettere sulla Legge e sul Patrimonio e in ultima analisi sulla Politica.
Contemporaneamente leggevo un altro libro, un romanzo dedicato a far capire gli intrecci di Mafia Capitale aggiornati al 2015: Bonini-De Cataldo, La Notte di Roma, Einaudi 2015. Il libro, preziosissimo nel raccontare cosa accade dietro le quinte e la retorica della narrazione politica, è scritto benissimo; molti personaggi, in termini anche sincretici, ci illuminano sulla fauna politica operante nella nostra capitale. Il magistrato di Corte d’Assise Giancarlo De Cataldo ed il giornalista di cronaca giudiziaria Carlo Bonini sono esperti ed informatissimi. Verso la fine ho avvertito un senso di stanchezza e mi sono domandato: possibile che per scrivere un romanzo sulla politica italiana sia necessario scrivere sempre un romanzo criminale? Mi è venuta in mente una delle tante citazioni contenute nel libro di Eva Cantarella. Nell’Antigone di Sofocle, Creonte, alle parole (“Non esiste la città che è di un solo uomo”) del Coro e del figlio Emone che gli chiedono di riconsiderare la sua decisione sulla sorte della nipote [Antigone viene condannata a vivere il resto dei suoi giorni imprigionata in una grotta] afferma lapidario: “La città non appartiene a chi comanda?”.
L’affermazione della Democrazia avrebbe gradualmente corretto questa visione. Uno dei momenti di questo cambiamento è l’epoca di Thomas Hobbes, che ha sintetizzato questa nuova concezione dell’esercizio del potere nel “Leviathan”. A quest’opera è dedicato “Rileggere Hobbes oggi”, un bel saggio di Carlo Ginzburg in un suo libro del 2015: “Paura reverenza terrore. Cinque saggi di iconografia politica”, Adelphi.
Ginzburg esamina la strana figura antropomorfa che compare sul frontespizio dell’opera originale (del 1651): il busto di un monarca con corona e nelle due mani una spada, simbolo del potere civile, ed un bastone pastorale, simbolo del potere religioso. La cifra più significativa si rivela ad un esame più attento: la figura è formata da numerosi visi. Un gioco grafico a significare che il potere viene esercitato in nome e per conto del popolo. Le parole scelte da Hobbes, come sottolinea Ginzburg, vogliono evocare il terrore che incute il potere: in un’epoca di formazione degli stati nazionali, il Leviatano simboleggiava il progressivo monopolio della forza in capo allo Stato e la punizione terribile che avrebbe avuto un qualsiasi comportamento delinquente.
Un modo per capire una nazione è studiare la sua letteratura. Roberto Scarpinato e Saverio Lodato propongono la loro interpretazione dell’Italia citando I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni. Il titolo che ho scelto per parlare del loro libro è la frase che i bravi rivolgono a don Abbondio, intimandogli di non celebrare le nozze di Lucia Mondella con Renzo Tramaglino. Oggi manca l’avvertimento mafioso ma i tassi di natalità, che in genere sono correlati alla formazione di coppie stabili, in Italia sono tra più bassi al mondo. Si ha l’impressione che sia assente un’idea di futuro come nazione, il che ci riporta al tema iniziale di questa puntata.
“Questo matrimonio non s’ha da fare”
(Forum Leggere e Scrivere; 3 dicembre 2012)
“I Promessi Sposi” può essere letto per capire alcuni aspetti della gestione del potere che in Italia sono sopravvissuti ai secoli. Utilizzerò alcuni brani tratti da “Il ritorno del principe. La criminalità dei potenti in Italia ” (Chiarelettere 2008, 2012) un libro del giornalista Saverio Lodato e del magistrato Roberto Scarpinato, entrambi grandi conoscitori di Cose di Mafia. Vi chiedo un po’ di pazienza. Confido che la lettura vi interesserà.
“Il Metodo Mafioso come Metodo Nazionale” (pagg. 86 e segg. dell’edizione del 2012): “Il romanzo I Promessi Sposi di Manzoni descrive l’ordinarietà del metodo mafioso nell’Italia del Seicento… Potremmo dire che don Abbondio si piega ai voleri di don Rodrigo non solo perché ha timore dei suoi bravi- quelli che oggi chiameremmo i mafiosi dell’ala militare, gli specialisti della violenza- ma anche perché si trova in una condizione di assoggettamento e di omertà che deriva dalla consapevolezza del vincolo associativo che lega don Rodrigo ad altri potenti anche nel mondo ecclesiastico. Nella stessa condizione si trova l’avvocato Azzeccagarbugli cui Renzo si era rivolto nella speranza di trovare un rimedio legale contro la prepotenza, il quale rifiuta l’incarico quando apprende che avrebbe dovuto agire secondo legge contro un potente come don Rodrigo [che si comportava come fosse stato] al di sopra della legge. Don Rodrigo è pienamente consapevole che le proprie relazioni personali lo rendono indenne da conseguenze legali per il proprio comportamento criminale. Quando i bravi falliscono il tentativo di rapire Lucia nel paese natio, don Rodrigo insieme al cugino, il conte Attilio, stabilisce di intimorire il console del villaggio, di convincere il potestà a non intervenire, e di fare pressione sul conte Zio affinché faccia trasferire fra’ Cristoforo. Alla fine riesce nell’intento di rapire Lucia nel convento di Monza, dove si era rifugiata, grazie alla complicità di altri due esponenti del mondo dei potenti: suor Gertrude e l’Innominato. In un’Italia, quella del Seicento, dove non esistevano anticorpi sociali e legali contro il sistema di potere mafioso, Manzoni è costretto a far intervenire la Provvidenza perché la storia abbia un lieto fine: l’Innominato libera Lucia perché si converte colto da un’improvvisa crisi esistenziale. Don Rodrigo viene fermato dalla morte che lo ghermisce con il contagio della peste. In conclusione, la storia esemplifica come la sommatoria di potere criminale (i bravi) e di potere sociale (il vincolo associativo derivante dalla solidarietà interna al mondo dei potenti) si traduca in un abuso di potere personale che sostanzia il metodo mafioso. Un metodo con il quale milioni di italiani hanno convissuto per secoli da vittime…
Quando con il processo di unificazione nasce il primo nucleo di Stato di diritto nazionale, si verifica una divaricazione tra Costituzione formale [= le leggi approvate e vigenti] che vieta il metodo mafioso e Costituzione materiale [= il comportamento sociale e politico] che continua a considerarlo legittimo. Il metodo mafioso da palese diventa occulto. Oggi… il metodo mafioso [ha una] sua virulenza in quanto espressione fisiologica di un … codice culturale che, nato all’interno della classe dirigente, ha poi permeato nel tempo anche ampi settori dei ceti popolari … [che]hanno iniziato a praticare in proprio il metodo mafioso, affrancandosi dalla subalternità alle classi superiori e dando vita a proprie autonome organizzazioni.”
Francesco Benigno insegna Storia moderna presso la Scuola Normale superiore di Pisa: ci spiega quello che è accaduto con l’Unità d’Italia in La mala setta. Alle origini di mafia e camorra. 1859-1878, Torino, Einaudi 2015. Ecco alcuni brani di una sua intervista al Corriere della Sera (Così lo Stato arruolava i camorristi): “Importata direttamente da Parigi … L’attitudine di utilizzare criminali per controllare altri criminali. Il detto francese “fare l’ordine con il disordine” viene seguito alla lettera. E non solo nel Meridione. Nel mio libro ci sono molti esempi documentati che riguardano anche il Nord d’Italia … La prevenzione del crimine impone innanzitutto il possesso dell’informazione attraverso spie inserite nei vari strati sociali … L’uomo simbolo a Napoli è Liborio Romano, un liberale… [che] aveva gestito la transizione dal regime borbonico a quello garibaldino garantendo l’ordine pubblico grazie ad un esplicito accordo con la malavita. Accordo che continuerà con Garibaldi…poi lo Stato unitario fece lo stesso…i criminali vennero arruolati nel processo di costruzione dello Stato per proteggerlo contro i sovversivi: i repubblicani, gli anarchici e i socialisti…la camorra è stata parte integrante. … sembrava sparita, sulla carta, durante il fascismo. Poi è ricomparsa improvvisamente nel Dopoguerra. Come la mafia cresciuta con lo sbarco in Sicilia degli americani… È accertato che anche a Napoli gli alleati utilizzarono camorristi e mafiosi per garantire l’ordine. Diciamo che ci sono cose che si sono ripetute rispetto al periodo che va dal 1859 al 1878 … In alcuni documenti mi sono imbattuto in rivelazioni di pentiti dell’epoca che addossavano a frange deviate della polizia l’esplosione di alcuni ordigni durante la caccia agli anarchici … Bombe e stragi, ricorda un altro periodo buio della nostra storia [ma]… Le analogie le può fare solo il lettore. Io ho raccontato i fatti.”
La riflessione di Scarpinato e Lodato, e la ricerca storica di Benigno sono stati la necessaria premessa per il post successivo.
“Path dependence” è uno strumento utile per le analisi dei sistemi sociali: le tradizioni sono indicatori della probabilità che alcuni avvenimenti si verifichino, che alcune strategie possano avere successo, per capire l’evoluzione di un settore economico. Douglass North, premio Nobel per l’economia nel 1993 lo applica in Istitutions, Institutional Change and Economic Performance, Cambridge University Press, 1990. Studioso dell’approccio delle Annales, Douglass North lo ha sviluppato ulteriormente regalandoci strumenti fondamentali. Senza aver letto le Annales (ma poi, chissà) gli statunitensi decisero di affidarsi all’aiuto dell’Onorata Società per invadere la Sicilia con uno sforzo bellico fino ad allora senza precedenti.
Una lunga trattativa
(Forum Leggere e Scrivere; 17 e 21 Agosto 2013)
Dalla presentazione editoriale: “Dalla vittoriosa cavalcata di Garibaldi aiutato dai picciotti siciliani durante la spedizione del 1860, agli omicidi impuniti d’inizio secolo che contaminano il tessuto economico-finanziario, all’alleanza col fascismo che si limitò a contrastare la manovalanza armata. Poi il patto di sangue con gli angloamericani nel 1943 per indirizzare la pace, seguito dagli omicidi e dalle stragi del dopoguerra perché la sinistra non avesse il sopravvento al Sud, fino alle tragiche vicende oggetto degli attuali processi. Difficile ammetterlo, però è così: la mafia è stata una risorsa decisiva per lo Stato italiano sin dai suoi albori unitari offrendo appoggio anche militare a chi vigilava sul controllo “democratico” del paese e talora a chi sosteneva veri e propri disegni eversivi. La magistratura non ce la può fare da sola a spaccare questa crosta spessa di bugie, inganni e depistaggi pilotati. In nome della pace e di una ragione che di Stato ha ben poco. Una pace insanguinata. Per la difesa di interessi internazionali, per il controllo del Mediterraneo.”
È un libro da leggere, da meditare, che fa preoccupare e incazzare. Rimanendo al periodo a noi più vicino, ci ricorda, per es., che nel trattato di pace firmato a Parigi dopo la seconda guerra mondiale fu inserito un elenco di nomi, rimasto segreto, che ci avrebbe fatto capire come i boss mafiosi sarebbero stati ultra-protetti ed anzi avrebbero avuto un ruolo politico e militare nei decenni successivi. Ci ricorda che il bandito Salvatore Giuliano era in realtà un ufficiale sabotatore della X Mas in missione dietro le linee e poi reclutato a fini anti-comunisti (Casarrubea- Cereghino. La scomparsa di Salvatore Giuliano. Indagine su un fantasma eccellente. Bompiani. 2013). Soprattutto, didatticamente, Fasanella ci guida attraverso brani di documenti pubblici, resi pubblici, desecretati, di inchieste private, giudiziarie, parlamentari lungo un percorso di lettura che converge verso una verità irrefutabile: la mafia appartiene al nucleo genetico del Regno e della Repubblica. Potrebbe essere altrimenti? Forse sì. Ma poi accadono cose che noi umani stentiamo a capire e ad accettare. Una delle parti più interessanti del libro è un’intervista a Reginald Bartholomew, ambasciatore USA in Italia nel periodo 1993-1999, morto nel 2012. Diplomatico di professione, fin da subito impiegato in missioni difficili in zone di guerra e di crisi internazionali armate, fu voluto dal presidente Clinton per intervenire in Italia sull’orlo di un Colpo di Stato: l’allora presidente del Consiglio Ciampi, che scampò per un pelo ad un attentato insieme al Presidente Scalfaro, parlò di P2. Come al solito la manovalanza era mafiosa e l’expertise militare: proprio quegli ambienti che in maniera clandestina e segreta avevano “garantito la democrazia” e che ora si scopriva avessero acquisito (inaspettatamente?) tendenze golpiste. Seguiamo il ragionamento di Fasanella. È basato sull’intervista all’ambasciatore effettuata nel 1999-2000, quando ormai era passato ad altro ruolo, e poi non pubblicata per un veto del Dipartimento di Stato USA, e su un colloquio del 2012 con Forgione, Presidente della Commissione Antimafia nel periodo 2006-2008: “I boss moderati come Provenzano capirono che la strategia … stragista dei Corleonesi di Riina non serviva più perché era perdente e creava nel paese un clima che non avrebbe favorito le attività delle cosche. E spinsero perché la mafia tornasse ad assumere un ruolo politico, riprendendo i rapporti con le famiglie americane, che hanno sempre privilegiato le buone relazioni con il potere rispetto allo scontro frontale. Dunque, i vecchi canali tra USA e Sicilia, che avevano funzionato già all’epoca dello sbarco alleato e nel dopoguerra, si riattivarono proprio mentre Bartholomew cercava di favorire la nascita di nuove forze” che avrebbero fatto parte del nuovo sistema politico. Il libro finisce con gli anni 1992-94 e ricorda il ruolo politico di Silvio Berlusconi, molto sollecitato da Cossiga e da Gianni Agnelli.
Si potrebbe aggiungere qualcos’altro. Si può ipotizzare che Provenzano, ambasciatore del “nuovo corso”, abbia effettuato dei viaggi in USA per accordarsi e per perfezionare i termini della partecipazione delle “nuove forze” di sua competenza, percorrendo in senso inverso quel viaggio effettuato dai boss italo-americani per favorire lo sbarco e poi l’occupazione della Sicilia e del mezzogiorno. Sarebbe interessante conoscere le “modalità organizzative” che hanno permesso a u zu Binnu di trasvolare e soggiornare in USA negli anni ’90. Considerate le attuali e peggiorate condizioni del nostro mezzogiorno, qualcosa deve essere andato storto nell’aiuto dei “cugini” americani all’Italia. Si presume che i “fratelli” siciliani ed i loro “cugini” abbiano contribuito soprattutto con massicci investimenti finanziari di riciclaggio, preferibilmente nel sud Italia, senza alcun contributo significativo al rinnovamento produttivo ed economico. È risaputo da millenni che le oligarchie tendono ad agire nel loro esclusivo interesse impoverendo e desertificando l’ambiente nel quale operano: le oligarchie criminali di più.
Il ruolo militare strategico dell’Isola nel mediterraneo è stato ricordato nella presentazione editoriale del libro. Il presidente della regione Siciliana Rosario Crocetta ha parlato di provocatori mafiosi infiltratisi nelle proteste per l’installazione del MUOS (l’importantissimo sistema di antenne militari USA) a Niscemi, tale da guastare la protesta stessa: saremmo in presenza del controllo economico e militare da parte della mafia di porzioni enormi del territorio nazionale, come da tradizione secolare. Di questo “nuovo corso” ringraziamo geniali statisti: statunitensi ed italiani.
Un paio di precisazioni. Al nucleo genetico del Regno e della Repubblica appartiene la “mafia” come modalità di governance occulta parallela a quella palese e legale. Quindi: la mafia siciliana, la camorra napoletana, la ‘drangheta calabrese. Fasanella, tramite testimonianze dirette, ci ricorda che l’impegno politico di Berlusconi fu voluto anche da quegli ambienti militari che, reclutati per combattere la guerra clandestina contro la sinistra, temevano di essere spazzati via nella fase politica che stava per aprirsi.
(continua)
Il Racconto del Potere, I Puntata
Il Racconto del Potere, II Puntata
Il Racconto del Potere, III Puntata
Il Racconto del Potere, IV Puntata
Il Racconto del Potere, V Puntata
FONTE: http://osservatorioglobalizzazione.it/osservatorio/il-racconto-del-potere-vi-puntata/
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Il sardonico Johnny Hart, un maestro del fumetto
Nel 2014 e nel 2015 Gipi e Zerocalcare hanno partecipato al Premio Strega con i loro albi a fumetti. Si è riconosciuto che un fumetto possa avere spessore narrativo, intellettuale, umoristico. Il fumetto è una forma di comunicazione che utilizza elementi diversi contemporaneamente (dialoghi e immagini) per veicolare il pensiero e la visione della società dell’autore. La varietà delle combinazioni grafiche e di scrittura rendono il fumetto atto anche a far immaginare, emozionare e riflettere il lettore. Pertanto il “Ritratto” della settimana lo dedichiamo a uno dei più celebri cartoonist americani, Johnny Hart.
John Lewis Hart nacque a Endicott (NY) il 18 febbraio 1931 da Grace e Irwin Hart. Endicott fu costruita dalla Endicott Johnson Shoe Company di George F. Johnson e Henry B. Endicott che fondarono la fabbrica e oltre alle case costruirono gli edifici dei servizi per i loro operai. Irwin lavorava lì alla mensa, come la nonna materna. La famiglia non era benestante e a seguito della crisi economica il padre perse il lavoro ma i genitori cercarono di non fare pesare la situazione di indigenza al figlio, fino a che poi Irwin non riuscì ad entrare nel corpo dei vigili del fuoco, raggiungendo, nel corso degli anni il grado di capitano. Erano metodisti “della domenica” , andavano a Messa solo nelle feste e facevano frequentare al figlio il catechismo. La passione di Johnny fu fin da piccolo il disegno, e la scherzosa madre e il più burbero genitore, incoraggiarono sempre il primogenito (avevano altri due figli, James e Susan), tanto che Irwin rischiò la vita per salvare da un incendio i disegni e i giornali che Johnny teneva nel suo studiolo. Durante gli studi liceali alla Union-Endicott High School Hart lavorò come cameriere e addetto alla catena di fast food ante-litteram, il Grover’s Pig Stand dalle 17:00 alle 2:00 per $20 alla settimana. Il lavoro non gli garbava per nulla e iniziò allora a collaborare con Tom Lawless, che dipingeva insegne e allestiva vetrine per $45 dollari a settimana. Hart imparò l’arte e migliorò la sua manualità essendo Lawless un artigiano molto quotato. A 19 anni, l’ultimo anno delle superiori, incontrò Brant Parker, che fu poi amico e coautore del Mago Wiz, al tempo fumettista e ritoccatore di foto al Binghamton Press e giudice al concorso d’arte della scuola vinto da Hart (i due avevano 9 anni di differenza). Un’amicizia e un sodalizio che non si ruppero più da allora. Fu lui a introdurre Hart nel mondo del fumetto e Hart a spingere Parker in quello delle gag satiriche sui giornali e i due iniziarono subito a collaborare per diverse testate locali ma anche per la prestigiosa rivista Collier’s. Poco tempo dopo John si arruolò in aviazione: nel 1952, durante un incarico militare alla Robins Air Force Base in Georgia, incontrò e sposò sua moglie Bobby e nel 1953, di stanza in Corea dirigeva e partecipava a spettacoli di intrattenimento per le truppe e disegnava vignette, in qualità di cartoonist, per il giornale militare Pacific Stars and Stripes.
Dopo il congedo, John visse con la moglie in Georgia, dove vendette le prime vignette a giornali come il Saturday Night Evening Post e il New York Cartoon News. Convinto di poter vivere di gag e fumetti, la coppia si trasferì a Endicott ma l’obiettivo di John non riuscì a decollare, pur vendendo i suoi lavori a varie riviste, e così si trovò a lavorare per la General Electric, all’art department. Intorno al 1956 Hart conobbe, pubblicata dal giornale locale, la striscia dei Peanuts e il lavoro di Schulz lo spinse a creare una propria striscia artistico-umoristica. Fu un suo collega, tale Bohanicky a dargli l’idea di usare i cavernicoli come protagonisti della striscia: cosa avrebbe potuto esserci in fondo di più malleabile dell’inizio dell’uomo? Sua moglie Bobby gli suggerì di dare ai personaggi i nomi, le caratteristiche e vagamente le fattezze di amici e colleghi. E così nacque B.C. (Before Christ). La striscia non debuttò subito e venne scartata da cinque “agenzie di cartoonist” ( tra cui il McNaught Syndicate e la Associated Press) prima di venire accettata dal New York Herald-Tribune Syndicate, il cui direttore Harry Welker si era mangiato il fegato per aver respinto, quattro anni prima, la striscia dei Peanuts.
B.C. debuttò il 17 febbraio 1958. Il fumetto è ambientato nell’epoca preistorica, è un burlesque d’epoca con un lasso di tempo volutamente ampio e non letterale, l’umorismo è dato non solo dall’atteggiamento verso il mondo dei protagonisti ma anche dai riferimenti espliciti a eventi, invenzioni, attività e celebrità dei giorni nostri. Non possiamo non dare una scorsa ai personaggi: Peter, ispirato al collega Peter Reuter è il primo filosofo e pensatore della storia e fondatore della Società Pessimistica Preistorica, nonché sedicente genio; Thor, modellato sul collega Thornton Kinney, inventore della ruota, del pettine, del martello, del chiodo, del calendario ecc… è il primo don Giovanni; Clumsy Carp, il goffo, un personaggio gentile, modesto, miope e inetto, assiduo studioso di ittiologia è ispirato all’amico di una vita Jack Caprio (collaboratore poi di Hart nelle invenzioni delle gag); Curls il riccio, rifatto su Richard Boland, altro amico di infanzia e collaboratore, è il sarcastico del gruppo, pronto a smontare tutti con le sue battute mordaci; Wiley, basato su Wiley Baxter, cognato di Hart, è il primo appassionato di sport, allenatore, scrittore e poeta della storia; la Cicciona (Jane dal 2019), una donna dalle idee chiare, con una fede incrollabile nel femminismo e una altrettanto incrollabile erpetofobia; la Biondina (Grace dal 2019) una donna avvenente e sexy in un mondo di uomini rozzi che non ha ancora scoperto l’obiettività; Grog, un puro uomo delle caverne il cui unico vocabolario coincide con il suo nome; il Guru dell’eccelso picco, un uomo saggio senza nome e barbuto che vive come un eremita in cima a una montagna, da cui dispensa saggezza e sarcasmo; e infine B.C. cavernicolo gentile, umile, pigrone e un po’ naif, modellato su Hart stesso. L’universo è poi costellato di personaggi minori: dinosauri, vongole, ostriche, marmotte, formichieri, sassi e fiori e l’Apteryx.
I personaggi di B.C. non trascinano folle e nemmeno il lettore, non hanno ideologie e sintesi dogmatiche, ma il lettore ritrova con loro il gusto della scoperta, quando persino le donne “accadevano” per la prima volta e tutto faceva notizia e doveva essere appreso. Una Storia delle idee luminose dell’occidente ritratta a fumetti.
In B.C. le relazioni umane, la contestazione, gli oggetti anacronistici presenti, l’avventura, la metafisica, lo sport, la finanza non vengono denigrati ma ritratti nei loro contorni primitivi e naif. Tutte queste cose ritrovano consistenza nella loro essenzialità.
Il mondo di B.C. è fatto con pochi tratti, nitidi, puliti e indispensabili, un paesaggio scarno (sabbia, mare, vulcani, fiumi, caverne, sassi stilizzati). E’ un mondo chiuso, quello di B.C. ma perfettamente riconoscibile (un ruscello è un ruscello, punto) e articolato e, solo ad un primo sguardo, parodistico, una satira bonaria dei nostri costumi. I preistorici protagonisti sono in perfetta continuità e simbiosi con le loro azioni: impegnati e serissimi, per loro tutto è degno di uguale interesse e attenzione. Quello che Hart propone con loro è un nuovo modello di uomo che guarda con disincanto la realtà odierna ma che poi vi si riapproccia con rinnovato entusiasmo.
B.C. ottenne subito grande successo e nel 1964, Hart diede vita insieme all’amico Brant Parker alla sua seconda striscia di fumetti, Wizard of Id, ambientata nel medioevo, che debuttò il 16 novembre 1964 grazie al Publishers Newspaper Syndicate. Le strisce, sempre nel formato, gag-a-day come B.C. , si occupavano delle vicende del regno di Id, un regno decadente e oppresso dal minuscolo Re, un tiranno che ha carica ereditaria ma che organizza elezioni truccate per farsi eleggere dai suoi sudditi, che si lamentano sempre ma che poi lo votano, gli Idiots, appunto. Il Re è coadiuvato in questo governo dall’inetto e raccomandato Sir Brandolph, che pensa solo a non combattere, non accorgendosi nemmeno che la principessa Gwen prova sentimenti per lui, e dal Mago Wiz sarcastico intelligente ma spesso pasticcione mago di corte, che sottostà agli ordini della moglie Blanche e del re che considera un viscido. Altri personaggi del reame sono Bung, il giullare perennemente sbronzo e che se la cava sempre anche quando prende in giro il Re; Larsen, avvocato del regno senza scrupoli di molte parole e poche capacità; e Spook, l’eterno pelosissimo prigioniero.
Qui l’umorismo della striscia, con i suoi deliberati anacronismi, è una satira della cultura e della politica americana moderna. Il medioevo permetteva una allegra mobilità storica senza i limiti di una collocazione più precisa consentendo la libertà di spaziare nel tempo millenario dell’evo di mezzo e inventare molte più gag. E così la scelta del protagonista, il mago perché anche la magia è senza limiti e facilita e amplia l’umorismo del cartoonist aprendogli legittimamente lo spazio dell’irrazionale e dell’arbitrario, senza giustificazioni, un po’ come l’Id freudiano. A livello formale il Mago Wiz è la parodia di certe riviste e rotocalchi che dedicano ampi spazi al mistero e al parascientifico (tutte le sezioni di astrologia ad esempio). Il Mago Wiz fatto di personaggi parossistici e intrattabili, non prendono coscienza, vivono arroccati nelle loro strisce che si lasciano completare dalla immaginazione del lettore.
Entrambe le strisce furono un successo: Hart vinse 15 premi per B.C. e 8 per Wizard of Id, vincendo nel 1968 e nel 1984 (con B.C. e il Mago Wiz rispettivamente) il National Cartoonists Society’s Reuben award, il massimo premio per un cartoonist.
Nel 1984 iniziò il suo processo di conversione al cristianesimo, dato dal fortuito episodio dell’installazione di una parabola per la TV nella nuova casa 30 miglia a ovest di Endicott in mezzo ai boschi, nella quale Bobby e John si erano trasferiti nel 1977. Hart e la moglie si avvicinarono nuovamente al cristianesimo e divennero ferventi presbiteriani. I temi religiosi iniziarono a filtrare ed emergere anche nelle vignette, che però non persero la loro sagacia, anche perché la religione non era esplicitata se non in rare gag che per altro gli valsero qualche polemica (soprattutto negli ultimi anni, 1996, 2001 e 2003 con le vignette pasquali) e qualche rifiuto specialmente sul Los Angeles Times. Hart e Bobby diressero la Scuola Domenicale della Chiesa Presbiteriana del loro paese fino alla morte di Johnny sopraggiunta il 7 aprile 2007 per un ictus. Stava ancora lavorando ad una stricia si B.C. . L’amico di una vita, Brant Parker mor’ solo 8 giorni dopo di lui. Entrambi i fumetti sono ora continuati dai nipoti di Hart, Mason e Mick Mastroianni.
Lo si potrebbe definire “artista”? Certo che sì: naturale spregiudicatezza (nel senso del candore e non dell’iconoclastia); a suo agio nei propri panni ma non nel mondo che osserva in tutta la sua impudica nudità con occhi arguti; curioso e sospettoso; pronto a dare imbeccate riflessive al lettore, senza però la prostrazione al mondo e al potere. Quale altro artista o letterato o giovane poeta ha saputo fare altrettanto recentemente?
ATTUALITÀ SOCIETÀ COSTUME
RANIERI GUERRA E IL FALSO PIANO PANDEMICO!
di Gianni Lannes
Finalmente una buona notizia relativa a un medico dalla carriera sfolgorante. Ne ha fatta di strada, mietendo promozioni vaccinali, nonostante le balle stratosferiche. Ranieri Guerra, direttore aggiunto dell’Oms ed ex direttore generale della Prevenzione al Ministero della Salute, nonché propugnatore della vaccinazione obbligatoria su neonati e bambini ai tempi della Lorenzin, è indagato dalla Procura di Bergamo, per false informazioni rese ai pm durante la sua audizione, del 5 novembre 2020, sul piano pandemico in Italia. L’inchiesta riguarda le gestione del Covid-19 a Bergamo e provincia, nel 2020. Piano pandemico mai aggiornato: risalente al 2006. Guerra venne ascoltato come persona informata sui fatti il 5 novembre sull’aggiornamento piano pandemico nazionale e regionale. Piano che, stando a quanto finora ricostruito dai pm bergamaschi, risale al 2006 e che non fu aggiornato nel 2017, come previsto se non con un’operazione di copia e incolla di passaggi del documento precedente.
Zambon (Oms): “Guerra mi chiedeva di falsificare il piano pandemico”. Il ricercatore parla di un presunto conflitto di interessi per il direttore vicario dellʼOms in Europa.
“Non si trattava di buona fede, mi chiedeva di coprire o di falsificare qualcosa”. Lo ha affermato il ricercatore dell’Oms, Francesco Zambon, sul piano pandemico riferendosi a Ranieri Guerra. “Quando ricevetti la mail con tono intimidatorio – ha spiegato – pensai che Guerra fosse in buona fede, e chiesi una verifica su tutti i piani pandemici dal 2006. Poi mi accorsi che non si trattava di buona fede ma di un copia e incolla”. “Guerra – ha detto Zambon alla trasmissione tv ‘Non è l’arena’ – stava cercando di coprire o mi chiedeva di falsificare qualcosa in un periodo in cui lui era stato direttore per la prevenzione. Quindi io vedevo un conflitto di interesse rispetto al ruolo che occupa oggi”.
Riferimenti:
https://sulatestagiannilannes.blogspot.com/search?q=ranieri+guerra
https://sulatestagiannilannes.blogspot.com/search?q=vaccini
https://sulatestagiannilannes.blogspot.com/search?q=coronavirus
Gianni Lannes, VACCINI CAVIE CIVILI E MILITARI, Nexus Edizioni, Battaglia Terme, 2018.
FONTE: http://sulatestagiannilannes.blogspot.com/2021/04/ranieri-guerra-e-il-falso-piano.html
“Soviet supremo”, Beppe Sala ‘silenzia’ i dipendenti: vietate le critiche sui social
il sindaco progressista
di Chiara Campo – Vietato criticare l’amministrazione sui social o sui forum, la sorveglianza scatterà pure sui commenti pubblicati fuori dall’orario di lavoro sui profili Facebook personali. Il centrodestra ha definito il nuovo Codice di comportamento per i dipendenti del Comune di Milano «degno del soviet supremo». Beppe Sala sta incassando accese proteste da lavoratori e sindacalisti, l’Rsu si è già rivolta a un avvocato per un giudizio legale.
Il regolamento nel mirino è stato approvato lo scorso febbraio ma non è ancora entrato in vigore perché per legge va sottoposto prima a consultazione. E la giunta doveva sentirsi particolarmente tranquilla visto che giorni fa lo ha pubblicato on line aprendo la partecipazione «non solo ai dipendenti ma a tutta comunità milanese». Sotto processo l’articolo 16 che regola i «rapporti con mezzi di informazione e l’utilizzo dei social network».
Qualche passaggio? Il dipendente «si astiene dal diffondere con qualunque mezzo, compreso il web o i social network, i blog o i forum, commenti o informazioni compresi foto, video, audio che possano ledere l’immagine del Comune e dei suoi rappresentanti o suscitare riprovazione, polemiche, strumentalizzazioni». Il lavoratore «si impegna a mantenere un comportamento ineccepibile anche nella partecipazione a discussioni su chat o forum on line, mantenendo cautela nell’esprimere opinioni, valutazioni, critiche su fatti o argomenti che interessano l’opinione pubblica o che possano coinvolgere la propria attività all’interno del Comune» e il codice andrà rispettato «anche al di fuori dell’orario di lavoro
Beppe Sala e il bavaglio ai dipendenti
Il consigliere comunale di Forza Italia Alessandro De Chirico sintetizza il punto: «Sala vuol mettere il bavaglio ai dipendenti. Forse hanno dato fastidio le tante denunce pubbliche per i disservizi legati al Covid sia in merito alla salute dei lavoratori che ai servizi erogati ai cittadini», vedi gli assembramenti davanti alle (poche) sedi anagrafiche lasciate aperte. Insomma, «guai a dissentire, il regolamento blocca il diritto di critica, spero che i sindacati si facciano sentire con uno sciopero».
Un delegato sindacale Rsu – almeno per ora – non si fa problemi a bollare il nuovo codice di comportamento come «un attacco alla libera espressione, alla comunicazione sindacale e al diritto di informazione libera».
Se il Comune non farà dietrofront il sindacato passerà alle vie legali. Un conto sono ingiurie o insulti, ma «il diritto di opinione espresso fuori dall’orario di lavoro non può essere punito con il licenziamento e tanto meno può essere spiato il profilo social di un dipendente per controllarne il contenuto». Il confine tra ciò che è lecito o punito con provvedimenti disciplinari o licenziamento rischia di assottigliarsi parecchio, i sindacalisti abituati a mantenere rapporti con la stampa sono preoccupati. Avverte il codice che «il diritto di esprimere valutazioni e diffondere informazioni a tutela dei diritti sindacali e politici non consente al dipendente di rilasciare dichiarazioni pubbliche offensive nei confronti dell’amministrazione».
FONTE: https://www.ilgiornale.it/news/politica/sala-silenzia-i-dipendenti-vietate-critiche-su-tutti-i-1937773.html
BELPAESE DA SALVARE
2011-2021: come Mario Draghi ha distrutto il Mediterraneo italiano
Il clamoroso affondo di Mario Draghi contro il presidente turco Recep Erdogan, definito “un dittatore”, ha sollevato un vespaio internazionale, indebolendo ulteriormente la posizione nel bacino mediterraneo dell’Italia, già ai ferri corti con l’Egitto per il caso Regeni: il maggior rischio è che l’affondo di Draghi provochi la definitiva espulsione dell’Italia dalla Libia, dove italiani e turchi “convivono” nella regione della Tripolitania. Difficile pensare che Mario Draghi abbia commesso soltanto una “gaffe”: piuttosto persegue la scientifica distruzione delle posizioni italiane nel Mediterraneo, terminando il lavoro da lui stesso iniziato esattamente dieci anni fa.
Al servizio dell’Inghilterra, contro gli interessi italiani
Il 6 aprile, durante l’incontro a Tripoli tra il presidente del Consiglio Mario Draghi e l’omologo libico Abdul Hamid Dbeibeh, la stampa italiana esaltava il rinnovato interesse per la Libia: come affermava lo stesso Draghi, bisognava “ difendere i propri interessi internazionali, senza avere timori reverenziali verso alcun partner”. Osservatori più disincanti, e ci ascriviamo a questa categoria, notavano che fosse una pia illusione sperare che lo stesso personaggio che nel 1992 era salito sul panfilo Britannia, per una famosa crociera d’affari davanti alle coste di Civitavecchia con il fior fiore della City londinese, difendesse il nostro ruolo del Mediterraneo: più facile, commentavano un po’ cinicamente ma molto realisticamente, che Mario Draghi assestasse il colpo di grazia alle posizione italiane nel Mediterraneo. Certamente, però, non sapevamo come potesse farlo. La risposta è giunta soltanto a distanza di due giorni dalla visita a Draghi del primo ministro italiano: l’8 aprile, infatti, durante una conferenza stampa, Draghi ha lanciato una pesantissima stoccata contro il presidente turco Recep Erdogan, definendolo sprezzantemente un “dittatore, ma un dittatore di cui si ha bisogno”.
L’affondo di Draghi ha prontamente scatenato la violenta reazione di Ankara, che ha convocato l’ambasciatore italiano in segno di indignazione: bisognerà seguire con attenzione gli sviluppi della vicenda, perché è altamente probabile che la “gaffe” di Draghi (trattasi in realtà di una scientifica azione criminale) abbia i suoi effetti più gravi proprio in quella Libia che il primo ministro italiano affermava di voler difendere senza guardare in faccia nessuno. Le residue speranze italiane di conservare un piede in Africa sono infatti legate ai buoni rapporti con la Turchia e alla durata del “condominio italo-turco” in Tripolitania: dalla fine del 2019, infatti, i soldati di Ankara si sono assunti l’onere (coll’assenso dell’Algeria) di difendere la Tripolitania dalle mire del generale Haftar, che è certamente spalleggiato anche (si sottolinea, anche) dai russi, ma dietro cui si celano sopratutto sauditi, francesi, israeliani ed angloamericani. Fu infatti certamente Washington, e non Mosca, a dare il via libera al generale Haftar per il fallito blitz contro Tripoli.
Qualora nelle prossime settimane la crisi dei rapporti tra Italia e Turchia dovesse sfociare nella nostra definitiva espulsione dalla Libia, Mario Draghi sarebbe riuscito a completare il lavoro iniziato esattamente dieci anni fa quando, appena insediatosi alla guida della BCE, diede il proprio preziosissimo contributo per tenere sotto scacco l’Italia e consentire ad angloamericani e francesi di portare a termine la destabilizzazione della Libia. Bisogna a questo punto fare un salto indietro nel tempo. Corre l’estate del 2011 e le potenze anglosassoni hanno da circa sei mesi lanciato le rivoluzione colorate note come “Primavere arabe”: il loro obiettivo è gettare nel caos i Paesi della sponda meridionale del Mediterraneo, rallentare la penetrazione economico-militare di Russia e Cina ed innescare quei flussi migratori che avrebbero assestato un durissimo colpo alla tenuta dell’Unione Europea. Il colonnello Gheddafi, nonostante i torbidi dei servizi segreti inglesi e francesi, però non cade, né l’operazione Odyssey Dawn contribuisce in maniera significativa ad indebolire il suo potere: la ricchezza accumulata, la potenza dei suoi legami tribali e la superiorità militare relativa rispetto ai ribelli tardano per mesi e mesi la sua eliminazione. Tra gli elementi che ritardano l’uscita di scena del colonnello Gheddafi c’è certamente il tacito appoggio che continua a ricevere dall’Italia, a livello di servizi segreti: occorre infatti ricordare che la presidenza del Consiglio è allora occupata da Silvio Berlusconi che, avendo firmato il trattato d’amicizia italo-libico (da lui considerato il proprio massimo capolavoro in politica estera), si è accodato controvoglia all’impresa anglo-franco-americana. Finché Berlusconi occupa Palazzo Chigi e finché, sopratutto, il sistema Italia non è alle corde, è difficile dare il colpo di grazia a Gheddafi: la finanza angloamericana sta pesantemente bombardando i buoni del Tesoro italiani ed il differenziale tra Btp e Bund, nel pieno dell’eurocrisi, veleggia attorno ai 400 punti base, ma serve sferrare l’assalto finale.
Entra a questo punto in scena Mario Draghi, che fino a quel momento aveva occupato la carica di vice presidente di Goldman Sachs per le attività europee: sul finire dell’estate Draghi è nominato alla guida della Banca Centrale Europea e, proprio nella veste di governatore della BCE in pectore, scrive insieme a Jean-Claude Trichet la famosa “lettera” con cui l’Italia è de facto commissariata. Pubblicata sul Corriere della Sera in data 29/09/2011, la lettera contribuisce all’impennata del differenziale Btp-bund che toccherà i 550 punti base nel novembre successivo, decretando l’uscita di scena di Silvio Berlusconi: l’effetto più immediato della lettera di Draghi, ed è questo il punto cruciale dell’analisi, va ricercato però in Libia. Con un’Italia tenuta sotto scacco dalla finanza angloamericana e dal rischio bancarotta, la difesa di Gheddafi, fino a quel momento scampato all’eliminazione grazie anche al tacito appoggio italiano, diventa impossibile: il 20 ottobre 2011, quando la speculazione sull’Italia è allo zenit, il colonnello è catturato e ucciso dai servizi segreti francesi. Per l’Italia, è un colpo durissimo. Forse il più duro subito all’estero dal 1945.
Inizia così una lenta ricomposizione politica in Libia che abbiamo seguito nel corso degli anni con diversi articoli: in questa sede ci interessa solo ricordare che, almeno dal dicembre 2019, gli interessi italiani nella nostra ex-colonia coincidono con quelli turchi. Senza Ankara, saremmo probabilmente già stati espulsi dalla Tripolitania, non a beneficio della Russia, ma della coalizione anglo-franco-israelo-saudita che sostiene Haftar. Si ritorna così all’affondo di Draghi contro il presidente turco di questi giorni: difficile non leggere dietro le parole di Draghi un preciso disegno, volto a completare il lavoro iniziato nel 2011, sancendo la definitiva espulsione dell’Italia dall’Africa. Senza contare poi i danni economici e industriali prodotti dalle parole di Draghi: l’Italia è infatti uno dei principali investitori industriali in Turchia e tra i due Paesi esistono importanti accordi di cooperazione militare, simboleggiati dall’elicottero AgustaWestland T129 ATAK. L’Europa ed il Mar Mediterraneo si avviano verso una stagione di burrasche: ai vertici dell’Italia siedono fantocci di potenze straniere che, anziché perseguire l’interesse nazionale, lavorano per la rovina del Paese e dell’intero bacino mediterraneo.
CONFLITTI GEOPOLITICI
Ultim’ora: esercito ucraino circondato dai russi
Biden è riuscito a compiere il miracolo di portare l’Ucraina sull’orlo della distruzione: stimolando il regime di Kiev a cercare la riconquista della Crimea e del Donbass, invece di frenarlo, spingendolo a dichiarare di fatto la guerra alla Russia adesso ha messo nei guai ciò che resta dell’Ucraina e sta portando il mondo sull’orlo di un conflitto generalizzato: i 105 mila uomini delle forse ucraine sono infatti presi in una morsa a occidente dalla truppe di Mosca attestate a 13 chilometri dal confine in Transnistria, a sud da quelle di stanza in Crimea e a est delle forze del Donbass: se dunque le truppe di Kiev dovessero tentare un qualche attacco in forze sarebbero immediatamente strette in una morsa e collasserebbero. Una delegazione USA si è recata qualche giorno fa prima sulla linea di demarcazione fra l’Ucraina e il Donbass per ispezionare le truppe cosa che restituisce benissimo l’idea di chi sta dietro a tutto questo: magari non volevano perdersi i tiri di artiglieria sulla zona vicina alla linea di demarcazione, dove il comando del Donetsk ha fatto sgombrare le abitazioni vicine alla zona per evitare che ci siano altre vittime innocenti, come il bambino di cinque anni ucciso una settimana prima.
L’arrivo di tali delegazione è coinciso con il lancio da parte ucraina di alcuni missili di costruzione nazionale diretti contro le forze della marina russa in Crimea, ma senza riuscire a penetrare le difese anche se I media ucraini riferiscono che tutti gli obiettivi sono stati colpiti con successo. Ma questo ha fatto precipitare la situazione e Mosca ha deciso di trasferire truppe anche sul latto occidentale. In queste ore l’afflusso di mezzi e uomini all’aeroporti di Tiraspol è continuo, mentre batterie di missili ipersonici Iskander vengono posizionati per colpire i gangli vitali dei comandi.
FONTE: https://ilsimplicissimus2.com/2021/04/11/ultimora-esercito-ucraino-circondato-dai-russi/
Ucraina: come gli Usa di Biden dichiarano guerra all’Europa
In questo momento le nazi truppe di Kiev si sono concentrate sul confine del Donbass e della Crimea alla ricerca di un conflitto con le repubbliche secessioniste per nome e per conto di Washington. Non so se l’ex presentatore televisivo confuso e totalmente rimbambolato che regge il Paese, si illuda di strappare agli Usa e all’Europa qualche aiuto minacciando la guerra o se qualcuno gli stia suggerendo di mostrare i denti, non comprendendo che la Russia, anche senza nemmeno intervenire direttamente con le sue truppe, può scompaginare in poche ore le forze ucraine e che, dalla Crimea che è a tutti gli effetti territorio russo, può in otto ore (secondo analisti americani) fare a pezzi ciò che rimane di un Paese dopo la cura occidentale.
Ma sta di fatto che questo conflitto tenuto in caldo dai criminali guerrafondai di Washinton non riguarda che tre numeri cruciali: 447 milioni, 371 milioni e 4,67 miliardi. La prima cifra si riferisce agli abitanti della Ue, la seconda a quelli del Nord America, Usa e Canada, la terza agli abitanti dell’Asia. Questi numeri la dicono lunga e sono alla base del declino dell’America e del comportamento sempre più irrazionale che potrebbe adottare nel tentativo di conservare un’egemonia mondiale che ormai non è più nelle cose e di certo non solo per la demografia in sé: benché in Italia si sia fatto di tutto già un secolo prima di Netflix per coltivare un pervicace e ridicolo il mito dell’America di cui non si conosce la mediocrità, bisogna riconoscere che ormai il sogno è pieno e declino per la perdita quasi totale della capacità produttiva.
A dire il vero, l’America produce ancora alcune cose: aerei civili, ad esempio, ma dopo la vicenda del Boeing 737 Max, il maggior rappresentate di questo settore ha de facto perso la competizione col suo rivale Airbus. Automobili? Le berline americane non sono competitive e perdono contro le case automobilistiche giapponesi e coreane sia a livello nazionale che internazionale, e basta dare un’occhiata alla Ford che ha chiuso il suo ultimo stabilimento in Russia . Anche Hollywood principale espressione del soft power, sta perdendo il suo potere penetrante in Cina e in Russia e in molti Paesi asiatici, anzi lo ha già perso: qui parliamo di una popolazione complessiva tripla rispetto a Europa e Nord America messo insieme. Certo ci sono alcuni articoli che gli Stati Uniti impongono con la forza ai clienti: i sistemi d’arma americani estremamente costosi e discutibilmente efficaci. Questo è ciò che resta del potente impianto industriale americano che poteva produrre qualsiasi cosa, da calzini alle mietitrebbia da buoni arei da combattimento ed eccellenti aerei commerciali. Oggi questa capacità non esiste più, poiché è la Cina il principale produttore mondiale di beni di consumo, e l’unico modo in cui gli Stati Uniti sono in grado di assicurarsi un mercato per le loro armi è mantenere sotto tutela l’Europa, attraverso la Nato, come suo principale cliente e vassallo, nonché vittima sacrificale in caso di guerra.
Quindi, per convincere quei 447 milioni di europei che hanno bisogno della protezione e delle armi dell’America, c’è bisogno di alimentare ogni giorno l’inesistente pericolo russo anche a costo di spingere l’Ucraina a una guerra suicida, tanto agli americani non è mai veramente importato di quanti aborigeni muoiano, a patto che le cose funzionino per i profitti degli Stati Uniti, né di certo gli importa di compromettere gran parte dell’economia europea sigillando i suoi interessi verso oriente e costringendola a rinunciare a infrastrutture come il Nord stream 2 per acquistare gas americano a prezzi completamente folli. Spingere l’ Ucraina in un conflitto contro la Russia significa in realtà fare la guerra all’Europa. Torniamo ai nostri numeri iniziali: se gli Stati Uniti perdessero il dominio sui Paesi della Ue all’improvviso 4,67 miliardi diventano 4,67 miliardi + 447 milioni = 5,117 miliardi, il 65% della popolazione della Terra. Si tratta di una stragrande maggioranza della popolazione mondiale e, cosa più importante, la maggior parte di tale popolazione può pagare per i beni, a differenza di quanto avviene con la gigantesca popolazione dell’Africa. Inoltre questa popolazione è concentrata all’interno di un’unica massa continentale isolata dagli Stati Uniti da due oceani. Gli Usa non possono permettere che ciò avvenga e in effetti da una quindici di anni a questa parte hanno fatto di tutto per mettere barriere che si sono risolte in una perdita netta per il nostro continente:
L’Europa non è più un partner commerciale cruciale per la Russia, il commercio reciproco è precipitato negli ultimi anni e la tendenza continuerà perché l’esplosione della russofobia e la vicenda ucraina hanno favorito il riorientamento dell’economia russa verso lAsia; lo stesso gasdotto Nord Stream 2 non è più un progetto economico cruciale per la Russia che può facilmente assorbire le perdite se il progetto saltasse a causa del sabotaggio statunitense e dei suoi barboncini europei come la Polonia, ma per la Germania, e l’Ue in generale, questo sabotaggio si tradurrà in una catastrofe: i tentativi americani di sabotare il Nord Stream 2 sono diretti principalmente contro l’Europa in generale , e la Germania in particolare, non contro la Russia di per sé. Senza parlare poi della mannaia che si vuole far cadere nei vitali rapporti industriali con la Cina e per la quale si adopera indefessamente il partito “amerikano” e i suoi rappresentanti sempre più di bassa lega.
Del resto il declino degli Usa si avverte nel basso livello delle sue elite che è sfociata in elezioni truccate fra due candidati geriatrici: rimane ancora una risorsa per rimanere rilevanti ovvero la realtà virtuale della propaganda mediatica dovuto alla diffusione dell’inglese e dello stampaggio di denaro: ma non si possono nascondere le città decrepite dell’America, le rivolte di massa, la distruzione del sistema educativo, l’incompetenza dei vertici politici e militari, le pratiche sociali suicide e le code ai banchi alimentari per un tempo infinito. E forse una guerra che significherebbe la distruzione per l’Europa rappresenta l’ultima chance, l’ultima cambiale da presentare alla storia.
FONTE: https://ilsimplicissimus2.com/2021/04/11/ucraina-come-gli-usa-di-biden-dichiarano-guerra-alleuropa/
CULTURA
Provare l’Io – Evola e la filosofia
– Giovanni Sessa – 23 Marzo 2021
Gli studi più seri e significativi dedicati al pensiero di Evola prendono le mosse o, comunque, hanno quale tema centrale di discussione, le sue opere speculative. Si pensi al lavoro pionieristico di Roberto Melchionda, coraggioso esegeta evoliano da poco scomparso, che mise in luce la potenza teoretica dell’idealismo magico, o allo studio di Antimo Negri, critico rispetto agli esiti della filosofia del tradizionalista. Da più di un decennio, nel lavoro di analisi di tale sistema di pensiero, si sono distinti Giovanni Damiano, Massimo Donà e Romano Gasparotti, i cui saggi sono motivati da autentica vocazione esegetica e lontani da conclusioni affrettate o motivate da giudizi politici, siano essi positivi o negativi. Un allievo di Donà, il giovane Michele Ricciotti, ha da poco dato alle stampe una monografia dedicata al filosofo, che si segnala quale libro di rilievo nella letteratura critica in tema. Ci riferiamo a, Provare l’Io. Julius Evola e la filosofia, comparso nel catalogo dell’editore InSchibboleth (per ordini: info@inschibbolethedizioni.com, pp. 217, euro 20,00). L’autore attraversa e discute, con evidente competenza teoretica e storico-filosofica, l’iter evoliano, servendosi della bibliografia più aggiornata, mosso dalla convinzione, ricordata da Donà in prefazione, che: «il vero filosofo, per Evola, non può limitarsi a “dimostrare”. Ma deve anzitutto sperimentare sulla propria pelle la veridicità di guadagni che, davvero, mai potranno essere semplicemente “teorici”» (pp. 11-12). A tale assunto, lo si evince dalle pagine del libro, Evola si mantenne fedele per tutta la vita. Naturalmente, il suo percorso non fu lineare, ma caratterizzato, in particolare a partire dalla fine degli anni Venti, dalla «torsione» tradizionalista impressagli dall’incontro con Guénon. Al fine di presentare al lettore la complessità di un pensiero assai articolato, Ricciotti ha diviso il testo in tre capitoli. Nel primo affronta, con persuasività di accenti e argomentazioni, l’esperienza dadaista di Evola, durante la quale venne a configurarsi il «problema» teoretico per lui centrale, quello legato all’ Io: «della sua affermazione e della sua “prova”», ma: « non prima di aver brevemente messo a tema il significato spirituale che l’Arte Regia» (p. 17) riveste nella realizzazione di tale compito. Si, l’idealismo di Evola fu «magico», atto ad integrare, in termini di prassi, l’esigenza di certezza propria dell’idealismo classico e dell’attualismo gentiliano, ritenuto apice del pensiero moderno.
Nel secondo capitolo è, non casualmente, discusso il rapporto intrattenuto da Evola con l’idealismo, in particolare con la sua declinazione attualista. Sappia il lettore che le pagine dedicate da Ricciotti al superamento evoliano del gentilianesimo, sono tra le più profonde tra quelle fin qui scritte: «l’attualismo si configura a nostro avviso come una stazione che deve essere necessariamente attraversata dall’Io per farsi – da trascendentale qual è – “magico”» (p. 18). Filosofia e magia, infatti, come ben esemplificato da Donà, hanno storicamente condiviso un medesimo orizzonte, nel quale pensare e fare si corrispondevano. L’individuo assoluto è colui: «che è certo del mondo grazie al suo farsi identico ad esso, in virtù della capacità di renderlo un’immagine la cui magica potenza si identifica con la stessa volontà incondizionata dell’Io» (p. 19). Il terzo capitolo affronta il tema della discesa dell’individuo assoluto nella storia, cui fece seguito il tentativo di costruire, da parte del filosofo, una simbolica del processo storico. Allo scopo il pensatore si avvalse dei contributi teorici di Bachofen, sintetizzati nel metodo empatico-antichistico, nonché di Guénon e del «metodo tradizionale». Una breve locuzione può ben chiarificare ciò che Ricciotti pensa dell’iter evoliano: «dall’immagine magica del mondo al simbolo», laddove il primo termine ha valenza positiva ed il secondo ne rappresenta una diminutio, un de-potenziamento teorico. Tale torsione delle iniziali acquisizioni magico-dadaiste si manifesta, chiosa Ricciotti, a partire dalle pagine di, Imperialismo pagano, opera al centro della quale sta: «un soggetto sovrano capace di istituire la legge ponendosi fuori e sopra di essa, facendosi rappresentante di una incondizionata libertà» (p. 27).
L’individuo sovrano ha caratteristiche simili a quelle dell’individuo assoluto, perché come un saggio taoista, sa che: «Aver bisogno della potenza è una impotenza […] esprime una privazione dell’essere» (p. 29). D’altro lato, il soggetto sovrano, identificato con il Rex della Tradizione, è qui collocato in un contesto storico-cronologico e, pertanto, risulta depotenziato dell’«assolutezza» del soggetto magico. La medesima situazione la si evince dalle pagine de, La tradizione ermetica. In essa, da un lato la trasmutazione alchemica allude all’avvenuta: «ricostituzione del regno di Saturno […] e al riempimento della privazione di cui la materia è simbolo» (p. 37), dall’altro, fin dall’organizzazione del volume, si mostra l’adesione del pensatore all’impianto del metodo tradizionale. Esso consiste, da un punto di vista generale, nel tentativo di rinvenire nella storia il patrimonio simbolico comune a tutte le civiltà tradizionali, ma anche nel rintracciarvi le interferenze con la sovrastoria e con la sovranatura. In tal modo, il dualismo si riaffaccia prepotentemente in Evola. Esso animerà la contrapposizione Tradizione-Modernità delle pagine di Rivolta e delle opere del periodo propriamente «tradizionalista».
Lungo tale percorso, sostiene Ricciotti, Evola giunge alla definizione di una metafisica della storia centrata: «su una specifica teoria del simbolo inteso […] come fattore operativo interno alla storia stessa» (p. 177). In essa, il tradizionalista ingloba l’idea guénoniana centrata sulla valenza sovrastorica del simbolo, all’idea bachofeniana che ne sottolineava, invece, la storicità. Per questo, il filosofo non riuscirebbe a «salvare» in toto, pur facendo riferimento ad un possibile «ciclo eroico», la dinamicità dell’arché. La Tradizione, paradossalmente, collocata in un passato ancestrale, finisce per poter essere recuperata in proiezione utopica, nel futuro. Ricorda l’autore che, solo la riflessione sulle tesi di Jünger, sul ritorno dell’elementare e della potenza negativa nel mondo contemporaneo, fecero re-incontrare Evola con la Nuova Essenzialità, con l’orizzonte esistenziale, cosmico, dell’individuo assoluto. Lo testimonierebbero le pagine di Cavalcare la tigre.
Questo l’impianto generale del volume. Non possiamo mancare di segnalare, alcuni plessi teoretici rilevanti, messi in chiaro nelle sue pagine: innanzitutto il concetto di «valore» nell’idealismo magico. Esso indica la risoluzione di ciò che è materia in ciò che è forma. In ogni esperienza l’Io deve risalire dalla forma dell’esperienza: «alla forma di ogni forma […] la forma dovrà essere resa coestensiva al reale, il valore coestensivo all’essere» (p. 96). Ciò spiega il titolo del libro, Provare l’Io. Infatti: «dare ragione dell’Io significherà dare ragione dell’intera realtà, a partire dall’identità dell’Io con la determinatezza empirica» (pp. 99-100).
Un libro, questo di Ricciotti, che riporta sotto i riflettori del dibattito filosofico un pensiero potente e troppo a lungo trascurato.
FONTE: https://www.ereticamente.net/2021/03/provare-lio-evola-e-la-filosofia-giovanni-sessa.html
Liturgia. Non solo il «Padre Nostro». Ecco tutto ciò che cambia con il nuovo Messale
Il volume del nuovo Messale Romano la cui tradizione è stata curata dalla Cei – Avvenire
Non solo il Padre Nostro. Sarebbe limitante ridurre la ricchezza di novità che contiene la terza edizione italiana del Messale di Paolo VI a un’unica preghiera. Che è senz’altro quella di maggior impatto sul “popolo delle parrocchie” ma che non esaurisce la portata della rinnovata traduzione del volume per celebrare l’Eucaristia. La “gentile” rivoluzione che inciderà sulla vita delle comunità è di fatto cominciata. Con l’arrivo del testo sull’altare delle chiese d’Italia, le “nuove parole” della Messa entrano nel quotidiano. Perché il libro liturgico può già essere utilizzato, anche se diventerà obbligatorio a partire dalla prossima Pasqua, ossia dal 4 aprile 2021, quando verrà abbandonata la precedente edizione che ha scandito la liturgia per quasi quarant’anni, dal 1983. Molte le diocesi o le regioni ecclesiastiche che hanno deciso di adottare la nuova traduzione dalla prima domenica d’Avvento, il 29 novembre. La revisione italiana del Messale scaturito dal Concilio arriva a diciotto anni dalla terza edizione tipica latina varata dalla Santa Sede nel 2002 che contiene non pochi cambiamenti. La complessa operazione coordinata dalla Cei ha visto numerosi esperti collaborare con la Commissione episcopale per la liturgia fino a giungere nel novembre 2018 all’approvazione del testo definitivo da parte dell’Assemblea generale dei vescovi italiani. Poi, dopo il “via libera” di papa Francesco, il cardinale presidente Gualtiero Bassetti ha promulgato il libro l’8 settembre 2019. E lo scorso 29 agosto la prima copia è stata donata al Pontefice.
La maggior parte delle variazioni riguarda le formule proprie del sacerdote. I ritocchi che dovranno essere imparati dall’intera assemblea sono pochi: così ha voluto il gruppo di lavoro che ha curato la traduzione per evitare “scossoni” destinati a creare eccessive difficoltà. Sarà comunque necessario fare l’orecchio alle modifiche. Già nei riti di introduzione dovremmo abituarci a un verbo al plurale: «siano». Non sentiremo più «La grazia del Signore nostro Gesù Cristo, l’amore di Dio Padre e la comunione dello Spirito Santo sia con tutti voi», ma «La grazia del Signore nostro Gesù Cristo, l’amore di Dio Padre e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi». È stato rivisto anche l’atto penitenziale con un’aggiunta “inclusiva”: accanto al vocabolo «fratelli» ci sarà «sorelle». Ecco che diremo: «Confesso a Dio onnipotente e a voi, fratelli e sorelle…». Poi: «E supplico la beata sempre Vergine Maria, gli angeli, i santi e voi, fratelli e sorelle…». Inoltre il nuovo Messale privilegerà le invocazioni in greco «Kýrie, eléison» e «Christe, eléison» sull’italiano «Signore, pietà» e «Cristo, pietà». Si arriva al Gloria che avrà la nuova formulazione «pace in terra agli uomini, amati dal Signore». Una revisione che sostituisce gli «uomini di buona volontà» e che vuole essere più fedele all’originale greco del Vangelo.
CONFESSO
L’atto penitenziale ha un’aggiunta “inclusiva”. Così diremo: «Confesso a Dio onnipotente e a voi, fratelli e sorelle…».SIGNORE, PIETÀ
Così prevale il «Kýrie»
Sono privilegiate le invocazioni in greco «Kýrie, eléison» e «Christe, eléison» sull’italiano «Signore, pietà» e «Cristo, pietà».
GLORIA
Gli «amati dal Signore»
Il Gloria avrà la nuova formulazione «pace in terra agli uomini, amati dal Signore» che sostituisce gli «uomini di buona volontà».
CONSACRAZIONE 1
La «rugiada» dello Spirito
Dopo il Santo, il prete dirà: «Veramente santo sei tu, o Padre…». E proseguirà: «Santifica questi doni con la rugiada del tuo Spirito».
CONSACRAZIONE 2
«Presbiteri e diaconi»
Nella consacrazione si ha «Consegnandosi volontariamente alla passione ». E nell’intercessione per la Chiesa l’unione con «tutto l’ordine sacerdotale» diventa con «i presbiteri e i diaconi».
AGNELLO DI DIO
La «cena dell’Agnello»
Il prete dirà: «Ecco l’Agnello di Dio…. Beati gli invitati alla cena dell’Agnello ».
LA CONCLUSIONE
Più sobrio il congedo
Al termine ci sarà la formula: «Andate e annunciate il Vangelo del Signore ».
La liturgia eucaristica vede fin dall’inizio alcuni ritocchi. Dopo l’orazione sulle offerte, il sacerdote, mentre si lava le mani, non sussurrerà più sottovoce «Lavami, Signore, da ogni colpa, purificami da ogni peccato» ma «Lavami, o Signore, dalla mia colpa, dal mio peccato rendimi puro». Poi inviterà a pregare dicendo (anche in questo caso con piccole revisioni): «Pregate, fratelli e sorelle, perché questa nostra famiglia, radunata dallo Spirito Santo nel nome di Cristo, possa offrire il sacrificio gradito a Dio Padre onnipotente».
Un discorso a parte meritano le Preghiere eucaristiche e i prefazi. Sono ben sei i nuovi prefazi: uno per i martiri, due per i santi pastori, due per i santi dottori (che possono essere utilizzati anche in riferimento alle donne dottore delle Chiesa per le quali finora mancavano testi specifici), uno per la festa di Maria Maddalena. Inoltre, conformandosi all’edizione latina, finiscono in appendice all’Ordo Missae le Preghiere eucaristiche della Riconciliazione insieme alle quattro versioni della Preghiera delle Messe “per varie necessità” già presente nell’edizione del 1983 con il titolo Preghiera eucaristica V: la loro traduzione è stata rivista recependo le varianti presenti nel testo latino. La Preghiera eucaristica II, quella fra le più utilizzate, non manca di cambiamenti. Dopo il Santo, il sacerdote dirà allargando le braccia: «Veramente santo sei tu, o Padre, fonte di ogni santità». E proseguirà: «Ti preghiamo: santifica questi doni con la rugiada del tuo Spirito». Tutto ciò sostituisce la precedente formulazione: «Padre veramente santo, fonte di ogni santità, santifica questi doni con l’effusione del tuo Spirito». L’inizio del racconto sull’istituzione dell’Eucaristia si trasforma da «Offrendosi liberamente alla sua passione» a «Consegnandosi volontariamente alla passione». E nell’intercessione per la Chiesa l’unione con «tutto l’ordine sacerdotale» diventa con «i presbiteri e i diaconi». Varia anche la Preghiera eucaristica della Riconciliazione I dove si leggeva «Prese il calice del vino e di nuovo rese grazie» e ora troviamo «Prese il calice colmo del frutto della vite».
I riti di Comunione si aprono con il Padre Nostro. Nella preghiera insegnata da Cristo è previsto l’inserimento di un «anche» («Come anche noi li rimettiamo»). Quindi il cambiamento caro a papa Francesco: non ci sarà più «E non ci indurre in tentazione», ma «Non abbandonarci alla tentazione». In questo modo il testo contenuto nella versione italiana Cei della Bibbia, datata 2008, e già inserito nella rinnovata edizione italiana del Lezionario, entra nell’ordinamento della Messa. È uno dei criteri che ha ispirato la revisione del Messale: recepire la più recente traduzione della Sacra Scrittura nelle antifone e nei testi di ispirazione biblica presenti nel libro liturgico.
Il rito della pace conterrà la nuova enunciazione «Scambiatevi il dono della pace» che subentra a «Scambiatevi un segno di pace». E, quando il sacerdote mostrerà il pane e il vino consacrati, dirà: «Ecco l’Agnello di Dio, ecco colui che toglie i peccati del mondo. Beati gli invitati alla cena dell’Agnello». Una rimodulazione perché nel nuovo Messale «Beati gli invitati» non apre ma chiude la formula e si parla di «cena dell’Agnello», non più di «cena del Signore». Per la conclusione della Messa è prevista la nuova formula: «Andate e annunciate il Vangelo del Signore». Ma i vescovi danno la possibilità di congedare la gente anche con le tradizionali parole latine: Ite, missa est.
Il volume del nuovo Messale Romano – Avvenire
Altre novità sono legate al formato del libro, alla veste grafica e all’apparato iconografico: infatti la pubblicazione è arricchita dagli “schizzi” d’arte nel segno della semplicità realizzati dal maestro campano Mimmo Paladino. Il volume intende coniugare fedeltà all’edizione latina e comprensibilità per rendere il rito più accessibile possibile. Come evidenzia la presentazione Cei, il nuovo Messale deve diventare un’opportunità per tornare a riscoprire la bellezza della liturgia, i suoi gesti, i suoi linguaggi ed è necessario che si trasformi in «occasione di formazione del popolo a una piena e attiva partecipazione». Ecco la principale sfida per le parrocchie.
I “ritocchi” del Messale Romano entrano anche nel rito ambrosiano: in vigore dal 29 novembre
Anche nel rito ambrosiano entrano alcune delle novità presenti nel Messale Romano “numero 3”. Saranno il “nuovo” Gloria e il “nuovo” Padre Nostro. Poi la riformulazione «Ecco l’Agnello di Dio, ecco colui che toglie i peccati del mondo. Beati gli invitati alla cena dell’Agnello». E anche le variazioni delle Preghiere eucaristiche: ad esempio «Veramente santo sei tu, o Padre, fonte di ogni santità. Ti preghiamo: santifica questi doni con la rugiada del tuo Spirito». «Queste parti che cambiano nel Messale promosso dalla Cei verranno recepite anche nelle celebrazioni dell’arcidiocesi di Milano, mentre i prefazi e le orazioni proprie del rito ambrosiano resteranno tali e quali», spiega monsignor Fausto Gilardi, responsabile del Servizio per la pastorale liturgica a Milano. E annuncia: «L’arcivescovo Mario Delpini ha stabilito che cominceremo a usare le nuove formule con la terza domenica dell’Avvento ambrosiano, ossia dal 29 novembre, che coincide con la prima domenica d’Avvento nel rito romano». Comunque nelle chiese dell’arcidiocesi di Milano non arriverà un nuovo volume. «Non ristamperemo l’intero Messale. Ripubblicheremo solo la parte comune della Messa – afferma Gilardi –. Si tratta di novità significative che intendono adeguare la parola pregata al linguaggio attuale». Di fronte alla nuova traduzione italiana del testo per celebrare l’Eucaristia, il liturgista chiarisce: «Anche noi stiamo verificando alcuni passaggi del Messale ambrosiano, ma non saremo certo pronti a una revisione per il prossimo 4 aprile. Perciò le nostre celebrazioni continueranno con l’attuale Messale».
Lo spartito del Padre Nostro “aggiornato”
La modifica che più coinvolgerà il “popolo delle parrocchie” è quella del Padre Nostro. Nel nuovo Messale la preghiera insegnata da Cristo prevede l’inserimento di un «anche» («Come anche noi li rimettiamo»). Poi non ci sarà più «E non ci indurre in tentazione», ma «Non abbandonarci alla tentazione». La nuova traduzione del Padre Nostro ha richiesto anche una revisione della musica che accompagna la preghiera. Per la prima volta nel Messale entrano le partiture accanto ai testi della liturgia. Per il Padre Nostro la Cei ha passato al vaglio diversi adattamenti della melodia. I tre prescelti sono stati testati in parrocchie, case di spiritualità o Seminari. La versione confluita nel Messale è quella risultata più “naturale” alle assemblee. Qui lo spartito inserito nel nuovo libro liturgico.
Lo spartito del Padre Nostro tratto dal nuovo Messale Romano – Avvenire
FONTE: https://www.avvenire.it/chiesa/pagine/non-solo-padre-nostro-ecco-tutto-cio-che-cambia-con-il-nuovo-messale
CYBERWAR SPIONAGGIO INFORMAZIONE DISINFORMAZIONE
Gagarin è stato l’emblema della competizione nello spazio fra Usa e Urss, di cui oggi ricorrono i sessant’anni dal lancio nello spazio del 12 aprile ’61. Il mondo è completamente cambiato, s’è fatto multipolare con la Cina e i privati, i grandi player digitali che hanno visto crescere la propria centralità nell’economia globale. La pandemia ha mostrato quale sia la consistenza degli Stati e dell’Unione Europea. La politica di Bruxelles, della Commissione e del Consiglio UE è sotto gli occhi di tutti in questi giorni, il Parlamento UE era già stato piegato nel 2019 con la nomina di Ursula, a cui ha fatto seguito un nuovo governo di Anti-sovranisti in Italia, il Conte bis. Ora gli Anti-sovranisti europei e italiani sono molto preoccupati della loro sovranità, in particolare di quella digitale messa in grave pericolo dai nuovi grandi del web. Si è così aggiunta una nuova dimensione nei conflitti, le cosiddette guerre ibride, come spiega il prof. Mario Caligiuri.
La guerra nello spazio oggi come va inquadrata?
“I nuovi domini della guerra sono il cyberspazio e la colonizzazione dello spazio stellare. Già oggi metà della popolazione mondiale è collegata a internet, nel 2025 arriveremo al 75% e a fine secolo saremo quasi al completo. Questi sono gli elementi fondamentali di partenza. I conflitti oggi si combattono sul web soprattutto con le informazioni e sul terreno attraverso i droni, rendendo paradossalmente più accettabili le guerre, in quanto si ridurranno le perdite di vite umane. Ma, dopo le contese degli anni Sessanta, lo spazio continua a essere nuovamente conteso ed è sufficiente constatare il numero crescente dei satelliti in orbita, alcuni dei quali praticamente battono bandiera ombra. Restringendo il campo, ad America e Russia s’è aggiunta la Cina, che non sta a guardare neanche in questo settore sempre più strategico. Si sta, infatti, definendo una geopolitica dello spazio, alla quale occorre prestare la massima attenzione poiché inciderà potentemente negli equilibri dell’ordine mondiale. Il Grande Fratello ci osserva non solo dagli schermi ma anche dall’alto, per memorizzare ogni nostro traccia profilando i nostri comportamenti, le nostre preferenze, le nostre manie. Praticamente le nostre intimità non hanno segreti. I satelliti ricevono e trasmettono informazioni, rafforzando quello che è stato definito il “capitalismo della sorveglianza””.
Ma adesso si apre la competizione anche fra privati.
“E qui si tratta una storia molto significativa, sulle quale non si riflette abbastanza. E’ noto che Elon Musk, il patron di Tesla, e Jeff Bezos, il creatore di Amazon, hanno scelto lo spazio come ambito di espansione, di sperimentazione e di investimento. Musk sta progettando di mettere in orbita 11 mila satelliti per connettere tutto il pianeta a internet e Bezos è già stato autorizzato a inviarne 3300. Il primo punta alla conquista di Marte, il secondo al predominio sulla Luna. Lo scenario sta cambiando radicalmente con i privati che competono con gli Stati, in uno scenario sideralmente diverso dall’avventura di Gagarin. Infatti, ci stiamo avvicinando alla fusione tra lo spazio fisico e quello digitale, con l’intelligenza artificiale in competizione con quella umana e l’ibridazione inevitabile tra uomo e macchina. Joel De Rosnay già negli anni Novanta parlava di ‘cybionte’ “.
Ma qual è la posta in gioco?
“Molto alta. Ed è rappresentata dal controllo delle menti. È una battaglia in cui tutti siamo soldati inconsapevoli di una guerra senza limiti. La supremazia tecnologica vede stati e privati competere praticamente alla pari. In questo ‘grande gioco’ l’Europa è al rimorchio degli interessi di Stati Uniti e Cina, non essendo stata in grado di comprendere la grande trasformazione in atto, a differenze di piccole Nazioni, come Israele e Corea del Sud che sono diventate delle innegabili potenze digitali. L’efficienza dei sistemi di governo saranno sempre più determinanti, con la politica in Occidente orientata dai poteri economici, mentre nei Paesi autoritari, non solo la Cina, ma anche, in modi diversi, la Russia e i paesi islamici, avviene esattamente il contrario.”.
Ma la diplomazia internazionale appare inquinata dentro lo spazio web, vedi le manipolazioni che in questi anni hanno chiamato in causa la Russia nel corso delle campagne elettorali in America.
“Anche questo è un evidente segno dei tempi. Nell’era della guerra dell’informazione, che è anche guerra cognitiva e normativa, la disinformazione invade la vita dei cittadini. Utilizzando la celebre metafora di Marshall McLuhan che dice “Quello di cui i pesci non sanno assolutamente nulla è l’acqua“, noi siamo totalmente immersi nella disinformazione e non ce ne rendiamo affatto conto. Infatti, viviamo in un contesto in cui confondiamo gli annunci con la realtà, tipo i finanziamenti del Recovery Fund, e l’intelligenza artificiale con la politica, tipo i risultati dei sondaggi elettorali. E pochi si rendono conto che le dichiarazioni degli esponenti politici ed istituzionali sono pagine di pubblicità, se le leggiamo sulla stampa, o spot televisivi, se li vediamo in video. A livello mondiale, secondo alcune fonti, gli investimenti in pubbliche relazioni sono secondi solo a quelli negli armamenti. Inoltre, le azioni di manipolazione sono sempre esistite, anche a livello politico. Non deve stupire la eventuale azione di condizionamento della Russia nella campagna elettorale delle presidenziali americane. La “disinformatia” di Mosca ha una tradizione secolare, annoverando anche uno dei più clamorosi falsi storici di tutti i tempi: “I Protocolli dei Savi Anziani di Sion”, il documento antisemita confezionato agli inizi del Novecento dall’Ochrana, la polizia segreta dello Zar”.
E’ una situazione indubbiamente preoccupante, dice può effettivamente succedere di tutto. Non a caso abbiamo assistito in Italia pochi giorni fa a un clamoroso caso di spionaggio tradizionale, con le spie che incontravano all’interno di una macchina, come si tempi della guerra fredda.
“E’ la dimostrazione evidente che lo spionaggio è più vivo e attuale che mai. Si spierà sempre di più perché nel mondo globalizzato gli alleati non sono amici e gli amici non sono alleati. In questa guerra di tutti contro tutti, le informazioni pregiate diventano uno strumento di potere oggi più di ieri. Fare affidamento alle sole tecnologie espone a rischi gravi, come hanno dimostrato gli attentati dell’11 settembre, dove le informazioni erano state raccolte per tempo ma sono state interpretate e collegate solo successivamente. L’esempio migliore è quello di Israele che sta reclutando contemporaneamente hacker, per raccogliere informazioni nei recessi più reconditi della rete, e laureati in filosofia, per interpretarle. È la rivincita del “fattore umano” e non a caso l’intelligence è la forma più raffinata di intelligenza umana perché consente di vedere oltre”.
Mario Caligiuri è professore ordinario di Pedagogia della comunicazione all’Università della Calabria e ha insegnato al Master sul contrasto alla radicalizzazione e al terrorismo dell’Università di Bergamo. Con Giorgio Galli ha scritto “Il potere che sta conquistando il mondo. Le multinazionali dei paesi senza democrazia (2020). La sua ultima pubblicazione è “Andreotti e l’intelligence. La guerra fredda in Italia e nel mondo (Rubbettino, 2021).
FONTE: https://www.civica.one/spazio-e-web-una-guerra-senza-limiti/
I moltiplicatori di impotenza nella guerra ibrida, ovvero la vigna dei coglioni
(Piero Visani) – Si parla molto della questione se il Coronavirus sia stato o meno di produzione militare e si sostengono varie tesi al riguardo, tutte interessanti.
Sfugge però – a mio parere – un aspetto fondamentale: al centro della guerra ibrida non si pongono, come in altre tipologie belliche, i “moltiplicatori di potenza”, ma semmai quelli “di impotenza”, poiché essa si preoccupa di rovesciare, non di confermare, assetti già noti.
L’esempio italiano è classico, al riguardo. Si prenda una classe dirigente ignorantissima, ottusa, autoreferenziale e sempre pronta a vendere se stessa per pochi (e talvolta neppure così pochi) euro, a condizione di rimanere al vertice (anche al vertice di Cialtronia o di niente, pur sempre un vertice è, per nani e ballerine…; i primi, del resto, come ebbe a scrivere il mitico Faber, hanno il cuore – e pure la testa, aggiungo io – “molto vicino al buco del…” etc. etc.) e la si solleciti con stimolazioni che si sappia possano farle molto male, nel senso che – giostrando accortamente una serie di fattori di cui essa SA NULLA, in base al notorio principio che “uno vale uno e zero vale zero” (e la medesima è più prossima al secondo che al primo…) – la si possa danneggiare in profondità sotto vari punti di vista.
Adeguatamente stimolata alla reazione pavloviana, essa partirà in quarta, distruggendo un Paese, un’economia e un’immagine internazionale già pressoché inesistente semplicemente per attivare quei “moltiplicatori di impotenza” che è stata abilmente sollecitata ad attivare. Il risultato sarà l’ennesimo disastro, i suoi abitanti saranno ridotti al rango di appestati, la sua economia si fermerà e quella parte di suoi cittadini che era tanto favorevole all’accoglienza si vedrà chiudere in faccia tutte le porte possibili e immaginabili da parte di chi è un po’ meno fesso (o venduto…) di lei (e sono tanti…). Alcuni, poi, si accorgeranno che la globalizzazione vale fin che fa comodo ai padroni del vapore, poi fa subito loro decisamente più comodo la “glebalizzazione”.
Ecco come si attivano i “moltiplicatori di impotenza” in una guerra ibrida. E’ sufficiente che siano disponibili i materiali di base: gli idioti. E da noi – a quanto pare – abbondano.
FONTE: http://informare.over-blog.it/2020/03/i-moltiplicatori-di-impotenza-nella-guerra-ibrida-ovvero-la-vigna-dei-coglioni.html
Svizzera Connection: il coinvolgimento della Svizzera nella frode elettorale americana
di Cesare Sacchetti – 24 12 2020
Neal Sutz è un cittadino svizzero e americano. Con ogni probabilità, non avrebbe mai immaginato di diventare famoso, ma il destino lo ha messo al centro di un intrigo internazionale. In pratica, Sutz ha avuto un ruolo decisivo nel denunciare il coinvolgimento della Svizzera nella frode elettorale americana.
Fino ad ora la pista svizzera ha ricevuto molta poca attenzione, ma questo piccolo Paese nel cuore delle Alpi potrebbe essere il pezzo mancante del puzzle che ha dato vita al colpo di Stato internazionale contro Trump.
Le macchine elettroniche di Dominion, il server legato a Soros e Clinton, che ha spostato migliaia di voti da Trump a Biden sono direttamente legate a Scytl, un software il cui codice sorgente è stato comprato dalle poste svizzere, di proprietà dello Stato elvetico.
La Svizzera non ha informato Trump e la sua amministrazione dei difetti di Scytl, che erano già ampiamente noti al governo.
Sutz dichiara di avere le prove inconfutabili di questa frode, ovvero il codice sorgente che adesso è nelle mani della squadra legale di Trump. Il fratello del generale Flynn, che è uomo molto vicino a Trump, Joseph, ha pubblicamente ringraziato Sutz su Twitter rassicurandolo che le prove adesso sono in “buone mani”.
I media internazionali hanno completamente ignorato la denuncia di Sutz. Solo alcuni media non legati al mainstream lo hanno intervistato fino ad ora.
Dopo la consegna delle prove, alcune persone a Sutz sono state aggredite e minacciate.
La cabala mondialista sta cercando di mettere a tacere coloro che hanno esposto la frode, ma Sutz ha avuto il coraggio di denunciare tutto e di mostrare le prove del golpe internazionale contro Trump.
C’è molto di più in ballo che il risultato di una elezione. Questa è una battaglia tra bene e male e il destino dell’umanità è la posta in palio.
Neal Sutz ha già fatto la sua scelta. Qui c’è la sua storia e la verità del golpe internazionale pianificato dal mondialismo per rovesciare Trump.
d) Sutz, lei è recentemente emerso all’attenzione dell’opinione pubblica per la sua denuncia della frode elettorale riportata nel suo sito web, mettendo soprattutto in luce i legami della società coinvolta nel broglio, Scytl, e le poste svizzere di proprietà del governo elvetico. Potrebbe dire di più sulla sua storia e perché si è fatto avanti?
r) La mia storia è alquanto diversa. Sono un cittadino svizzero e americano, nato a New York nel 1970. Sono un autore, un regista, un consulente d’affari e un attivista per la verità. Ho deciso di farmi avanti per la semplice ragione che le informazioni che ho ricevuto hanno stimolato la mia curiosità, ed ero determinato a comprendere la situazione per intero.
Quando ho scoperto che la Svizzera, in particolare le poste, di proprietà del governo, hanno non solo sviluppato il software di Scytl, che ha sede a Barcellona, ma ha comprato i diritt esclusivi del codice sorgente di Scytl quando questa era in bancarotta, ho deciso di approfondire la mia indagine.
d) Può spiegare come la Svizzera è coinvolta nella frode e che ruolo Scytl ha avuto nelle elezioni americane?
r) La Svizzera è chiaramente coinvolta in molti aspetti delle elezioni USA, anche a partire dal fatto che è uno dei finanziatori principali di CITCO, una società vicina a Smartmatics, legata a sua volta a Dominion che è al centro della frode elettorale. Questi finanziamenti provengono dalla Sandoz Family Foundation. C’è un coinvolgimento anche di Novartis, una casa farmaceutica svizzera molto interessata alla situazione relativa al Covid.
La Svizzera è legata sotto numerosi aspetti finanziari alle elezioni anche per un altro elemento importante. Società cinesi possiedono il 75% della banca svizzera UBS che ha finanziato con 400 milioni di dollari Dominion, la società appunto che ha un ruolo chiavo nei brogli elettronici. Questo piccolo Paese, ma immensamente potente che è la Svizzera, ha un ruolo enorme in questa vicenda.
Questi sono fatti incontestabili. Non rappresentano in nessun modo le mie teorie.
d) La Svizzera ha risposto ufficialmente sui difetti di Scytl e sulle ragioni per le quali non è stato informato il governo americano riguardo al malfunzionamento del programma?
r) La Svizzera ha risposto 24 ore dopo con un tweet. Ha riconosciuto di aver acquistato i diritti esclusivi di Scytl, ma nessun rappresentante governativo, né svizzero né americano, ha cercato in alcun modo di mettere in dubbio gli interrogativi o le prove che ho presentato.
E’ certamente fuori discussione che il codice sorgente del software di Scytl è una sorta di meccanismo di sicurezza legato a Dominion e che la Svizzera ha un ruolo fondamentale nelle elezione americane.
Posso pensare che la Svizzera non abbia informato gli USA perché c’è un tentativo in corso di trasformare di rovesciare Donald Trump che vuole mantenere libera e indipendente l’America.
d) Recentemente, lei ha detto che ha preso dei rischi enormi per denunciare i legami tra la Svizzera e Scytl consegnando prove incontrovertibili della frode nelle mani dell’amministrazione Trump. Si riferiva al codice sorgente? Può spiegare in questo caso perché il codice sorgente è così importante?
r) Ciò che sono stato in grado di consegnare con successo alla squadra legale di Trump è effettivamente il codice sorgente. Il codice sorgente è fondamentale perché dirige ogni tipo di programma, a prescindere dal suo scopo o funzione.
Chiunque da ogni parte del mondo che abbia il codice sorgente di un programma, in questo caso si parla di un programma che conta i voti di una elezione, può controllare e manipolare il suo funzionamento.
d) In uno dei suo tweet, ha dichiarato di aver ricevuto conferma scritta che le prove sono state consegnate ad un rappresentante del gruppo di legali di Trump. Può dire di più al riguardo?
r) L’intero dossier che ho preparato e raccolto per la squadra legale del presidente Trump è stato ricevuto e mi è stata data conferma attraverso messaggi di testo e poi dopo anche pubblicamente.
Ho anche informato l’amministrazione Trump della situazione che riguarda i miei due figli, cittadini americani, che sono stati presi in custodia illegalmente dai servizi sociali svizzeri. I miei figli sono stati vittime di abusi e torture da parte del governo e questa storia è strettamente legata alla frode elettorale in America perché vede coinvolti soggetti quali i leader dei mormoni e vari politici che hanno avuto un ruolo sia nell’allontanamento dei miei figli sia nei brogli.
d) Il fratello del generale Flynn, Joseph Flynn, l’ha pubblicamente ringraziata e rassicurata che ora le prove sono in buone mani. Trump ha quindi la prova definitiva della frode?
r) Ci sono molte prove per smascherare la frode e l’intreccio Scytl-Svizzera è sicuramente una di quelle. Mi è stato detto dal team legale di Trump che ci sono decisive e uniche informazioni che io ho messo a disposizione, e che saranno usate da Trump per provare la frode nelle numerose cause in corso.
Ciò che ho dato rafforza ulteriormente il quadro probatorio che gli uomini di Trump avevano già in mano.
d) Il governo svizzero sa cosa ha fatto? La stanno cercando in qualche modo?
r) Il governo sa perfettamente cosa ho fatto. Ho ricevuto visite da ogni parte del mondo sul mio sito, incluse Ginevra e Zurigo. Sono stato fermato dalla polizia innumerevoli volte, prima e dopo il mio ruolo nelle denuncia della frode elettorale che vede coinvolta la Svizzera. I servizi sociali non mi fanno parlare con i miei figli, e ci sono stati numerosi attacchi nei confronti di persone che mi sono vicine.
d) Qualche partito svizzero ha mostrato interesse nel suo caso? Il governo sta usando la vicenda dei suoi figli come ritorsione contro di lei?
r) Un partito conservatore mi ha contattato e mi ha chiesto più informazioni sul sistema di voto elettronico in Svizzera. Non c’è dubbio che il governo stia usando il caso dei miei figli come ritorsione contro di me per aver denunciato il ruolo della Svizzera nella frode.
d) In un tweet recente, ha scritto che persone vicine a lei sono state attaccate e aggredite. Crede che il governo svizzero sia coinvolto?
r) Una mia cara amica in Arizona è stata aggredita fisicamente tre settimane fa circa. L’ufficio elettorale di Josh Barnett, il candidato al Congresso per l’Arizona che ha chiesto il rilascio immediato e incondizionato dei miei figli al presidente svizzero Simonetta Sommaruga, è stato messo a soqquadro e trafugato.
Non so se il governo svizzero sia coinvolto, ma credo che le persone che vogliono coprire il caso dei miei figli siano le stesse che hanno fatto irruzione nell’ufficio di Barnett. Le persone che ho denunciato sono coinvolte in un giro di pedofilia, pornografia infantile e traffico di bambini. Sono tra i leader dei mormoni.
d) Gli USA hanno messo la Svizzera nella lista dei Paesi manipolatori di valuta. Sa se questa decisione è legata allo scandalo della frode elettorale?
r) Non posso dirlo con certezza, ma se si guarda a quella lista è molto corta. Ci sono solo Cina e Vietnam.
Non credo comunque che tutto questo sia una mera coincidenza.
d) La Corte Suprema ha respinto la causa del Texas contro i quattro stati che hanno violato la costituzione americane per un cavillo giuridico. Crede che l’amministrazione Trump possa vincere ancora la sua battaglia legale e che chi ha pianificato il golpe venga processato?
r) Sì, credo che Trump possa vincere ancora la sua battaglia legale di fronte alla Corte Supreme e ad altre corti statali se queste corti sono disposte a guardare alle prove inconfutabili presentate da Trump. Spero davvero che la verità possa trionfare. Il mondo ha bisogno di un cambiamento per il meglio. Siamo nel mezzo di una battaglia spirituale e sta a noi decidere se siamo disposti o meno ad agire per il bene, perché mi sembra chiaro che coloro che hanno scelto il male non hanno alcuna intenzione di fermarsi.
FONTE: https://lacrunadellago.net/2020/12/24/svizzera-connection-il-coinvolgimento-della-svizzera-nella-frode-elettorale-americana/
Glaxo – Beatrice Lorenzin – Ranieri Guerra: attacco a tre punte “contro il morbillo” in una partita truccata?
9 GIUGNO 2017 RILETTURA
Washington, 29/09/2014 – da sinistra: Ranieri Guerra, Consigliere Scientifico Ambasciata a Washington, Sergio Pecorelli (Presidente AIFA), Bill Corr (UnderSecretary for Human Health Services – HHS), Beatrice Lorenzin (Ministro della Salute), Luca Franchetti Pardo (Vice Ambasciatore italiano a Washington). |
Chiedo scusa a tutti gli amici se troveranno un pò lungo questo mio post, ma se siete veramente interessati all’argomento, non soffermatevi alle prime righe, perchè le riflessioni sono diverse e non riguardano solo il tema prettamente vaccinale.
- Ministero della Salute, rappresentanto nella suddetta conferenza stampa dal Ministro Beatrice Lorenzin
- Istituto Superiore della Sanità, presente nella persona del Dr. Walter Ricciardi
- la stessa GlaxoSmithKline S.p.A.
Posso avere il dubbio che qui siano in gioco interessi realmente non solo mirati alla salute di mia figlia e della collettività?
Ndr. Mi segnalano, tra i commenti, che “oltre a Guerra ci sarebbe da parlare anche di Pecorelli…”. Giustissimo. Ho inserito il link che segue anche nella didascalia alla foto:
http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2015-12-17/aifa-si-dimette-pecorelli-063643.shtml?uuid=ACgsECvB
FONTE: https://22passi.blogspot.com/2017/06/glaxo-lorenzin-ranieri-attacco-tre.html
Ranieri Guerra uomo di Washington
Lisa Grazia – 9 04 2021
FONTE: https://www.facebook.com/lisa.grazia.5/posts/1223037378099582
DIRITTI UMANI
Il silenzio degli innocenti: 6000 morti da vaccino secondo l’Ema
Di una cosa possiamo essere assolutamente certi: stiamo assistendo alla più grande strage da vaccino mai verificatasi nella storia delle medicina: il grafico in alto, costruito con i dati ufficiali dell’Ema , l’agenzia del farmaco europea, mostra visivamente e in maniera immediata, comprensibile anche per chi ha gli occhi foderati di paura e di cazzate mainstream, quale sia stato il balzo degli “effetti aversi” che si è avuto a marzo il mese nel quale si sono fatte più vaccinazioni. Fino a ieri tutto l’ambiente medico tenuto per le palle da Big Pharma ha tentato di dire che non c’erano correlazioni, ma alla fine l’Ema ha dovuto ammettere che per quanto riguarda AstraZeneca tali correlazioni esistono, anche se poi si è lanciata in un peana costi -.benefici che se fosse stato fatto a un esame di statistica avrebbe causato la perpetua espulsione dagli studi dello studente. Ad ogni modo questi soni i dati fino al 3 aprile nella sola Ue:
AstraZeneca 967 morti e 133.310 effetti avversi
Pfizer 3.529 morti e 127.789 effetti avversi
Moderna 1.475 morti e 11.545 effetti avversi
Quasi 6 mila morti nella sola Europa senza la Gran Bretagna ed è dunque presumibile che a livello globale siano decine di migliaia, almeno per quanto riguarda i vaccini a mRna, le persone sacrificate alla narrazione pandemica. Ovviamente queste cifre vanno confrontate con il numero di dosi inoculate di ogni singolo vaccino ed è per questo che AstraZeneca si rivela quello più pericoloso come si evince dalla tabella a fianco, oltre ad essere quello che uccide persone ancora in età relativamente giovane per cui adesso si dice che solo gli ultrasessantenni possano farlo. Naturalmente qui si parla soltanto di casi segnalati il che vuol dire che quelli reali potrebbero essere molti di più come si potrebbe anche arguire dal fatto che il rapporto tra decessi e reazioni avverse è del tutto sballato tra i tre vaccini: l’ostinazione nella burocrazia sanitaria a voler negare correlazioni può nascondere una strage ancora più grande. Ma c’è di più: il problema vero è che siano di fronte a una diabolica perseveranza nelle campagne vaccinali quando esse, laddove hanno coperto la gran parte della popolazione, come è accaduto in Israele, in Cile e in Ungheria stanno mostrando conseguenze catastrofiche con un aumento esponenziale di contagi, di ricoveri e di morti. Di di fronte a tutto questo fermare le campagne vaccinali sarebbe un atto di doverosa prudenza per comprendere bene dove stia il “baco” di questi preparati messi in piedi in tutta fretta che peraltro non si capisce che funzione possano avere visto che i vaccinati continuano ad essere infettivi e a poter prendere l’infezione e che la copertura anche quando esiste è debole e dura pochi mesi. Ma come disse un uomo della provvidenza, chi si ferma è perduto: se si dovessero fermare in via precauzionale le vaccinazioni tutta la mistificazione pandemica rischierebbe di crollare, perché cosa sono alcuni migliaia di morti a confronto con le cifre di decessi da covid fasulli che vengono spacciati alla popolazione con un martellamento quotidiano? Bisognerebbe giustificare lo stop ammettendo che siamo di fronte a una sindrome influenzale forse appena più forte di quelle normali, non certo alla peste e dando comunque via libera a quelle cure che risolverebbero il problema senza vaccini inutili. I milioni di persone rovinate e cacciate in una situazione di povertà da questa commedia potrebbero davvero rivoltarsi in maniera violenta contro i loro salvatori – aguzzini.
Per questo tutto deve andare come se nulla fosse, come 6000 morti e mezzo milione di effetti avversi, tra un cui un 30 per cento gravi, fossero una bagatella e un piccolo prezzo da pagare alla salvezza dal raffreddore, come se non si vedesse il disastro che avviene nei paesi più efficienti nelle vaccinazioni dove invece dell’immunità di gregge si moltiplicano le varianti e i contagi: la macchina non può fermarsi a nessun costo e solo un atto di generale e totale disobbedienza può fermare questa follia.
FONTE: http://ilsapereepotere.blogspot.com/2021/04/il-silenzio-degli-innocenti-6000-morti.html
ECONOMIA
Blockchain, criptovalute e economia verde: occhio ai facili entusiasmi…
La tecnologia della blockchain è una tecnologia fantastica che cambierà il nostro modo di agire, di scambiarci la proprietà delle cose, di scrivere contratti e persino di pensare e di essere.
Sembra una strada spianata verso la libertà digitale di ciascuna persona ed anche la via maestra verso la green economy.
In superficie è una promessa di quelle che rassicurano.
Abbiamo scavato per cercare le auspicate conferme.
Blockchain e Bitcoin sono davvero la rivoluzione verde verso cui siamo convinti di essere in cammino?
Sono compatibili fra di loro, sviluppo economico e finanziario sostenibile, politiche ambientaliste, politiche salariali, blockchain e cryptocurrency?
Questi ultimi anni sono stati caratterizzati dal ripetuto annuncio della rivoluzione della blockchain, dalla comparsa di molteplici cripto valute e dal lancio della campagna per la guerra ai cambiamenti climatici. Ma siamo certi che la blockchain, il Bitcoin più le sue sorelle e il friday for future siano compatibili tra di loro?
Con la blockchain possiamo già da oggi comprare e vendere e persino possedere monete non emesse da banche, non vincolate ad una area geografica, ad uno Stato, un confine o a un mercato specifico.
Con la blockchain potremo anche garantire servizi pubblici o monitorare la supply chain (cioè la filiera completa: dal produttore al consumatore passando attraverso tutta la catena di fornitori, trasportatori…) e persino la qualità di ciò che indossiamo o mangiamo.
Per capire la blockchain, meglio avvalersi di testi specializzati
Una volta chiusa la parentesi influenza cinese, torneremo ai fattori del cambiamento che gradualmente l’umanità si stava accingendo ad affrontare, inclusi nel progetto della green economy.
Il principale di questi è l’ingresso – oggi anche nel dibattito popolare – di quelle tecnologie che stanno trainando o accompagnando la transizione verso un mondo completamente nuovo.
La blockchain ci consentirà di tagliare fuori numerose figure intermediarie come i notai, i bancari (e le banche), i commercialisti o alcuni distributori di merci e servizi che fungono da collo di bottiglia e soprattutto costi aggiuntivi per il consumatore finale.
Questo almeno nelle intenzioni di chi ce la racconta. Da un’attenta lettura però appare tutt’altro che scontato.
Tutto dipenderà da chi la controllerà e a chi consegnerà la gestione dei servizi erogati tramite la stessa.
Tra le tante promesse c’è anche quella dell’ottimizzazione della logistica, forse di produrre con minori sprechi e quindi di contenere le emissioni dei gas serra.
Trattandosi di tecnologie invisibili, siamo probabilmente tutti spinti a credere che siano anche pulite e quindi sapientemente congeniate per aiutarci nella transizione verso la green economy.
Questa promessa è realistica? Verrà mantenuta?
Per approfondire la questione ci siamo affidati ad una lettura piuttosto tecnica.
Blockchain – tecnologia e applicazioni per il business è un libro che spiega nei dettagli come funzionano le diverse tipologie di blockchain e in particolare le cripto monete.
Non fare di tutta la blockchain un fascio
Per i non addetti ai lavori, sentire parlare di blockchain può indurre a pensare che la tecnologia in sé sia monolitica ed univoca. In realtà essa avrà un diverso impatto (anche ambientale) a seconda di come verrà impiegata e dalla mole di calcoli che dovrà supportare.
Non vogliamo fare quindi di tutta la blockchain e di tutte le cripto valute un fascio, bensì cercare di evidenziare particolari rischi insiti soprattutto nella narrazione che ce ne viene fatta.
Vogliamo dunque invitare chi legge ad approfondire con strumenti magari tecnici, piuttosto che continuare ad idealizzare la blockchain o a pensarla per sentito dire.
Il rischio maggiore infatti è che tutto questo parlare della transizione ecologica in corso possa rivelarsi la transizione da un modello speculativo e di interessi economico-finanziari ad un altro di uguale impatto ambientale, economico e sociale.
Insomma, attenti che non stiano riverniciando di verde la vecchia baracca cadente della globalizzazione.
In questo articolo vi mettiamo in guardia, insomma, sul cosiddetto greenwashing, ovvero l’operazione di facciata che brands, industrie, e propaganda mettono in piedi per sembrare più ecologici senza esserlo diventati affatto.
Questioni di immagine
La tale azienda s’è data alla svolta ecologica. Produce ad impatto zero, usa materiali riciclati per imballare i prodotti, parla un linguaggio “green” e lo fa con testimonial credibili.
Peccato che l’unica cosa che abbia fatto davvero sia stato pagare dei pubblicitari perché aggiornassero la comunicazione. Magari stanno semplicemente impacchettando il loro vecchio prodotto con carta riciclata o facendolo passare in un magazzino alimentato ad energia solare prima di immetterlo sul mercato.
Succede veramente…
È più o meno quello che fa Apple. Risulta il brand IT più green al mondo, peccato che l’unica cosa veramente green siano la sua sede a Cupertino e i suoi data center. Tutto il resto sono impegni sulla carta. Intanto la sua supply chain rimane quella di prima. Certo la sua lista di fornitori si sta via via adeguando agli standard ecologici, ma con calma.
Per carità, non vogliamo sommarci ai critici verso Apple che è pure l’azienda più concentrata a darsi una ripulita.
Vogliamo solo dire che la tecnica del greewashing è subdola e capace di confondere dati, numeri e… le idee ai consumatori.
Insomma stiamo invitando chi legge a tenere gli occhi aperti e le antenne alzate per non cadere nel tranello della propaganda di facciata.
Glossario indispensabile
Miner (minatore): mining deriva dal termine inglese “to mine” cioè estrarre. Nel gergo odierno si riferisce alle criptovalute. Il Mining è riferito al processo di estrazione dele crypto currency. Minare Bitcoin significa ottenere Bitcoin dopo averli generati dalla rete e distribuiti online.
Attualmente per generare un Bitcoin è necessaria talmente tanta potenza di calcolo (da qui l’enorme dispendio di energia) da rendere necessario l’utilizzo di particolari strumenti, più potenti dei normali PC, collegati in rete in modo da sommare tutta la potenza di calcolo necessaria. Ciascun proprietario di queste macchine è un miner. La sua ricompensa consiste in una frazione di Bitcoin proporzionale al lavoro svolto dalla/e sua/e macchina/e durante l’estrazione.
Gli sponsor del Friday for future
Tutto o quasi ci viene fatto credere essere nato dai sit-in che Greta Thunberg amava fare ogni venerdì dinnanzi al comune della sua città.
Così si narra sia nato il personaggio della piccola Greta.
Alla sua battaglia contro il riscaldamento globale, condotta dalla sua sedia per ricchi e in crociera sulla barca a vela milionaria.
E quale migliore testimonial, oltre che sponsor, poteva esserci di Sun Justin, creatore di BitTorrent, la piattaforma di condivisione libera online?
Il giovane imprenditore ha donato ben 1,5 milioni in Bitcoin alla causa di Greta Thunberg.
La domanda che dovrebbe sorgere ad una notizia del genere è: battaglie ambientaliste e le cripto valute (e la blockchain stessa) sono compatibili tra di loro?
Chi sono i maggiori investitori nella rivoluzione verde?
Anche Bill Gates, nonostante sia un arci-nemico di bitcoin (la blockchain su cui viene scambiato il Bitcoin) e del Bitcoin (la cripto valuta), investe sui metodi di pagamento online e punta sulla blockchain, come spiega questo articolo,
Per comprendere i motivi dell’avversità di Gates verso il Bitcoin leggi quest articolo.
Facebook ci punta per sostenere il suo progetto di criptovaluta, Libra. PayPal è entrato nel mercato del Bitcoin perché inizierà a transare in Bitcoin (video).
Il recente nuovo boom di Bitcoin è stato sostenuto anche da altri investitori istituzionali.
Tesla ha fatto lo stesso acquistando Bitcoin per 1,5 miliardi di dollari e Apple potrebbe seguirla a breve.
Sempre Tesla, poche settimane dopo ha annunciato per bocca del suo fondatore Elon Musk che è finalmente possibile acquistare le sue auto green pagano in Bitcoin.
Insomma pare che il Bitcoin ci aiuterà a salvare il mondo, se non fosse che Bitcoin, il più grande progetto che utilizza il PoW (Proof of Work, ovvero la misura economica per scoraggiare attacchi, consumi energetici elevatissimi renderanno economicamente svantaggioso attacchi al sistema ndr) consuma attualmente circa lo 0,3% dell’elettricità mondiale (oltre i milione di dollari al giorno tra elettricità e hardware per il mining) e molti ritengono che questa situazione non sia sostenibile nel lungo periodo. Tuttavia l’enorme consumo di energia è la ragione per cui un processo di consenso basato sul Proof of Work sia difficile da attaccare. È l’enorme quantità di potenza di calcolo necessaria per validare la blockchain che ne garantisce l’immutabilità. La potenza di calcolo e l’elettricità utilizzata sono la prova effettiva del lavoro eseguito.
Un consumo pazzesco di energia
Se internet è stata una importante voce di capitolo del consumo energetico degli ultimi 10 anni, il Bitcoin assicura già oggi di sapere fare peggio.
Secondo un Report dell’Università di Cambridge, la rete bitcoin consuma 121 TWh l’anno. Detto così, per la maggior parte dei lettori non significa nulla.
Sei Bitcoin fosse una nazione, oggi sarebbe tra le 30 più energivore al mondo.
Che etica c’è dietro al sostegno di cause ambientaliste tramite la criptovaluta più dispendiosa dal punto di vista energetico?
La corsa verso la blockchain pubblica
Altri soggetti istituzionali che investono sulla blockchain ne abbiamo? Beh, chi se non gli Stati o i gruppi di Stati?
Come detto all’inizio, che si tratti di spreco di energia o investimento dipende dall’uso che di questa si fa.
L’unione europea ad esempio ci ha puntato 400 milioni di euro di investimenti nel 2020.
Obiettivo dichiarato: la European Blockchain Partnership in cui un ruolo di spicco ce l’ha proprio l’Italia che è entrata nel novero dei 24 Paesi riuniti in questo progetto.
Ad Austria, Belgio, Bulgaria, Repubblica Ceca, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Irlanda, Lettonia, Lussemburgo, Malta, Olanda, Norvegia, Polonia, Portogallo, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Svezia, UK si sono successivamente aggiunte: Grecia, Romania e Danimarca.
L’Italia è stata l’ultima ad aggregarsi con una firma del Ministro allo sviluppo economico e al lavoro Luigi Di Maio del Movimento Cinque Stelle apposta il 27 settembre 2020.
La blockchain è davvero così evoluta, democratica ed ecologica? Ecco i rischi.
Dietro alle cripto currency non c’è soltanto il continuo alimentare di bolle speculative atte a gonfiare il valore di ciascuna con l’intento di attirare sempre nuovi investitori, polli da spennare inclusi.
Fidarsi dei miner
Se un gruppo di miner decidesse di colludere, non è da escludere che potrebbero eseguire con successo un attacco del 51%. Nel Bitcoin, per esempio, più della metà dell’hashrate è concentrata in 5 mining pool e oltre il 70% dell’hashrate è concentrato in Cina. Uno scenario di questo tipo è lontano dall’idea di decentralizzazione. Alcune blockchain minori sono state vittime di attacchi del 51% e, anche se i danni sono stati mitigati, hanno subito un duro colpo dal punto di vista della reputazione.
E se il detentore del record di miner Bitcoin (con relativo consumo di energia) è la Cina che punta sul carbone… buona rivoluzione green a tutti!
Fonte: Fortune
L’altra faccia della rivoluzione verde
Tra le maggiori perplessità destate dagli industriali che supportano la green revolution c’è la contraddizione che questi dimostrano tra l’applicazione dell’amore universale verso il pianeta e quello verso i lavoratori.
Se di rivoluzione si trattasse dovremmo vedere, quale primo valore condiviso, la redistribuzione delle risorse dall’alto verso il basso.
Invece stiamo assistendo all’accelerazione della concentrazione di risorse finanziarie e alla polarizzazione delle risorse naturali.
Questa ipocrisia risulta si sta ripercuotendo fatalmente sulla riduzione dei salari e dei diritti dei lavoratori proprio da parte dei presunti alfieri della rivoluzione green.
Tesla mentre licenzia i lavoratori limitrofi al sindacato, sta incontrando enormi difficoltà a reperire personale specializzato in Germania a causa dei bassi stipendi offerti e al suo ostracismo per le garanzie e i benefit dei lavoratori.
L’industria internazionale sta facendo la propria parte al contrario…
Idem le banche ed i fondi di investimento, tanto impegnati nella propaganda ecologica in corso. S se da un lato ci bombardano con messaggi green dall’altra tagliano il personale (a causa della scarsa competitività del comparto e dell’innovazione tecnologica) ed investono sul carbone:
Quindi, se da una parte, si rende necessario un recupero del terreno da parte degli Stati nei confronti dei leader dell’IT sul tema della sovranità digitale – come economiaspiegatafacile.it auspica da molto tempo – dall’altra occorre restare desti.
La blockchain è una rivoluzione gattopardesca?
Cambiare tutto perché tutto rimanga come prima? Vera rivoluzione o regolamento di conti tra potentati finanziari? La blockchain nasce per rendere liberi i comuni cittadini o, semplicemente, la finanza sta cercando di fare fuori gli antichi guardiani dei cancelli, per avere ancora di più le mani libere?
Da questa interessante lettura ho scoperto che: la blockchain non è affatto un sistema già evoluto, non è sicura, non è democratica, non è governata da algoritmi ma da interessi privati o di partito… (comunista cinese, ndr).
Tutto ciò è sufficiente a farci temere che in Italia verrà utilizzata per trasferire la stessa burocrazia e gli stessi interessi economico-burocratici dalla mano destra alla mano sinistra degli stessi soggetti (o simili) che oggi gestiscono il potere. Insomma temiamo che si tratti della digitalizzazione all’ennesima potenza dei noti colli bottiglia, a caro prezzo per i consumatori.
Ci fa pensare che la burocrazia si stia preparando a trasferirsi su una nuova piattaforma con gli stessi costi o di poco inferiori e che sostanzialmente oggi serve alla creazione di incubatoi di progetti futuri.
Infine che complessivamente è un osceno consumo di energia.
Tutto sommato, ad una attenta lettura del fenomeno blockchain viene naturale fare delle constatazioni che hanno valore nell’adesso. Insomma: oggi pare essere così; domani si vedrà.
La blockchain è tutt’altro che un progetto evoluto e stabile; e fin qui tutto normale per una tecnologia appena nata. È molto più in divenire di quanto non ci venga raccontato e questo dal punto di vista della corsa all’innovazione è positivo, perché non esclude a priori nessuno (ma ovviamente avvantaggia i leader del settore).
Restiamo convinti che la tecnologia in sé vada sviluppata con obiettivi di inclusione e di semplificazione. Non significa solo tagliare intermediari burocrati, notai e banchieri.
Se guardiamo alla narrazione che scorre a fiumi sui giornali ed in internet, la direzione intrapresa è tutto fuorché di buon auspicio.
Insomma, approfondendo, ciò che ci pare svelarsi non è l’inizio della green economy, ma che siamo spettatori di una vera e propria green eco-medy.
(Originariamente pubblicato su “L’Economia spiegata facile”)
FALÒ DEL CONTANTE PER RISARCIRE CINA E MERCATI
Dal primo luglio 2021 il limite al prelievo contante s’abbassa a mille euro, e per ogni spesa mensile eccedentaria gli italiani dovranno ricorrere all’uso di moneta elettronica: permettendo la totale tracciabilità dei flussi di danaro, come dei motivi di spese, acquisti ed interscambi vari. Ma tale stretta è veramente motivabile con la lotta all’evasione fiscale o ci viene nascosto il vero fine? A conti fatti, in tutto il Nord Europa (Germania, Austria, Olanda, Norvegia, Danimarca) non c’è limite all’uso del contante, e l’evasione fiscale è stabile e per nulla incrementata dalle transazioni commerciali al dettaglio per contanti.
In Italia, però, decolla la politica del nodo scorsoio sul contante, che sa tanto d’una volontà dei gestori dei mercati di colpire il risparmio italiano, che risulta aver avuto il maggior incremento sotto pandemia: va anche detto che l’aumentato risparmio non avrebbe aumentato gli investimenti in titoli da parte delle persone fisiche. Quindi gli italiani (sempre accusati di furbizia dai mercati internazionali) avrebbero messo tutto sotto il mattone. Accantonare e nascondersi non risolverebbe il problema, e perché è risaputo che i poteri debbano presentare ai popoli il conto della pandemia. Infatti, i 4.500 miliardi di depositi bancari d’inizio pandemia (come da calcolo Fabi, Federazione autonoma bancari italiani) si sarebbero incrementati di ulteriori 45 miliardi di euro: ovviamente, solo la metà di questi soldi risulterebbero impegnati in polizze, titoli e vari piani d’investimento.
Rimane il problema che, sotto qualsivoglia forma siano (più o meno vincolati) ammontano comunque a 4.550 miliardi di euro. Un vero e proprio tesoro, che va a sommarsi al più ricco e di qualità patrimonio immobiliare del pianeta terra, ovvero case, palazzi, ville, musei e beni artistici. E senza considerare che ci sono ancora importanti asset italiani nel settore manifatturiero. Tutta questa ricchezza rende l’Italia una sorta di novella Troia, le cui porte scee luccicanti d’oro massiccio irritano ed attraggono i potentissimi masnadieri della finanza internazionale: certo una forza difensiva, come ebbe a sostenere Heinrich Schliemann a cospetto delle rovine, nel contempo capaci di concentrare e coalizzare nemici ed odio.
Se nel mondo classico questo nefando destino s’era abbattuto sulla ricca città-Stato dell’Ellesponto, nella contemporaneità (diciamo pure dal Secondo dopoguerra) il fato avverso è tutto contro l’Italia, le sue ricchezze, la sua genialità d’impresa. È il profetico proposito che Winston Churchill confidava nel novembre 1945 a monsignor William Godfrey (delegato apostolico romano a Londra), ovvero “all’Italia dovrà mancare la totale libertà economica, quindi politica… dovrà stentare ad essere nazione per essere controllata”. Il paradosso sta tutto nel come l’Italia sia comunque riuscita ad accantonare il risparmio privato più importante al mondo, a mantenere il sessantacinque per cento del patrimonio artistico mondiale, una centralità mediterranea senza i carrarmati per le strade (tranne che in questi ultimi due anni), a competere sul cinema per più di mezzo secolo con Hollywood, a detenere siti archeologici e località turistiche uniche a mondo, a concentrare i capitali dell’intero pianeta sul proprio sport nazionale (il calcio).
“Ora basta, ora deve pagare”, hanno sentenziato i signori che gestiscono i mercati. Pagare perché l’Occidente (la speculazione) è indebitato con la Cina, pagare perché si fa presto ad usare le ricchezze italiane per coprire i danni da pandemia, pagare perché il suo buonismo è ormai avvertito come doppiogiochismo sui tavoli di trattativa internazionale. E del resto ce la siamo cercata: mandavamo un ambasciatore in giro per il Congo con un solo carabiniere di scorta, quando è risaputo che nell’ex colonia belga operano più d’una quarantina tra milizie rivoluzionarie, mercenarie e paramilitari; poi ci facciamo paladini dei diritti umani in Egitto interferendo nei rapporti d’intelligence tra Abdel al-Sisi e la Corona britannica (caso Giulio Regeni, caso Patrick Zaky) dimenticando che abbiamo siglato accordi Eni grazie alla distratta compiacenza dei potentati anglosassoni.
I signori della terra, coalizzati contro la novella Troia, hanno optato per la linea dura, e contano che Mario Draghi ci metta a stecchetto, che ci addrizzi le ossa, ricordando all’Italia il ruolo in cui è stata imprigionata da Winston Churchill. Ne consegue che agli italiani risulterà difficilissimo da luglio prelevare contante ed occultare quattrini in casa. Quindi Draghi dovrà, entro agosto, decidere se bruciare il risparmio (una sorta di prelievo retroattivo ferragostano simile a quello del 1992) o abbattere i valori immobiliari con una patrimoniale (aggiuntiva ad Imu, Tasi ed imposta sui redditi) che punisca i possessori di case per un valore oltre il milione. Quest’ultima risulterebbe gradita alle banche straniere, che controllano le italiane, e perché hanno già deciso sia di alienare il patrimonio immobiliare (che hanno in pancia nel Belpaese) che, è risaputo, di fare passare le dimore italiane importanti in mani estere a prezzo d’immediato realizzo (super ribassi).
Ci diranno che tutto questo sacrificio sarebbe stato pattuito su tavoli strategici internazionali e per ricomprare i nostri debiti in mani cinesi. Niente di più falso, la Cina ha firmato gli accordi di Parigi, che prevedono debba tagliare del sessanta per cento le emissioni rispetto al Pil entro il 2030 (considerando come base quelle prodotte dal 2005): il raggiungimento dell’obiettivo climatico prevede che, la riduzione delle emissioni di CO2 stronchi le gambe all’industria cinese del Bitcoin.
“L’industria del Bitcoin cinese divora sempre più energia: con le sue emissioni minaccia il clima” dicono i signori dei mercati. E sembra davvero strano che in Italia ci vogliano spingere tutti verso la moneta elettronica, i pagamenti elettronici, i Bitcoin. Allora perché la “gretina” Tesla avrebbe deciso, per il bene di clima e pianeta, d’accettare solo pagamenti in moneta elettronica e Bitcoin? È semplice: l’obiettivo dei potenti della terra è eliminare la ricchezza nelle mani della classe media (il sessanta per cento degli occidentali) per varare il feudalesimo cibernetico, il controllo del pianeta in mano alle politiche delle multinazionali. Questo disegno di fatto sarebbe contrastato dal modello culturale italiano: ovvero la capacità di creare ricchezza dal nulla, il fatto che comuni cittadini posseggano beni in chiara rendita di posizione, poi la ritrosia italiana verso l’omologazione commerciale stabilita nell’accordo tra grande distribuzione ed e-commerce. Probabilmente il presidente Draghi starà attraversando un periodo di forti malori coscienziali: per un verso sarebbe tentato di metterci tutti a “povertà sostenibile”, dall’altro si chiede in che mani straniere potrebbero finire i beni degli italiani.
FONTE: http://www.opinione.it/economia/2021/04/12/ruggiero-capone_fal%C3%B2-contante-cina-mercati-moneta-elettronica-pandemia-forza-difensiva/
FINANZA BANCHE ASSICURAZIONI
UNICREDIT, CHE FARE?
DOMANI E MARTEDÌ SARANNO RESE NOTE LE RISPOSTE AI QUESITI DEI SOCI ALL’ASSEMBLEA DEL 15 APRILE, CHIAMATA A RINNOVARE L’INTERO CDA, COMPRESI I CANDIDATI ALLA PRESIDENZA, PIER CARLO PADOAN, E ALLA CARICA DI AMMINISTRATORE DELEGATO, ANDREA ORCEL, OLTRE CHE A VOTARE IL SUO CONTESTATO MAXI-STIPENDIO…
L. Ram. per “il Messaggero”
11 04 2021
Saranno rese note domani e martedì le risposte ai quesiti dei soci all’assemblea del 15 aprile, chiamata a rinnovare l’intero cda, compresi i candidati alla presidenza, Pier Carlo Padoan, e alla carica di amministratore delegato, Andrea Orcel, oltre che a votare la contestata maxi-remunerazione destinata proprio a quest’ ultimo.
Come accade da quando le assemblee societarie si tengono a distanza, causa covid, le risposte della banca alle domande degli azionisti verranno pubblicate sul sito di Unicredit. In questo caso avverrà in due battute: domani si troveranno le risposte alle domande dei soci italiani e il giorno successivo in inglese a quelle arrivate dall’estero. Per l’esito del voto, che sarà espresso per conto della variegata platea dei soci del gruppo bancario da un unico legale rappresentante, bisognerà invece attendere l’esito dell’assise di giovedì.
E lo stesso giorno il nuovo board si riunirà, sempre da remoto, per attribuire le cariche al vertice e definire i comitati interni. «Auspico che l’assemblea di Unicredit, che sono certo riconoscerà con ampio consenso il valore del nuovo ad, comprenda anche l’opportunità di politiche di remunerazione adeguate agli standard internazionali e alle sfide globali che Unicredit dovrà affrontare.
In sostanza, la ritengo una polemica innescata per ragioni che nulla hanno a che vedere con il bene della banca e del Paese», ha detto Fabrizio Palenzona, per anni vicepresidente di Unicredit, in una intervista a Milano Finanza, a proposito del caso sullo stipendio dell’ad Orcel e sull’invito di votare no alla sua remunerazione milionaria arrivato dai proxy advisor in vista dell’assemblea.
FONTE:https://www.dagospia.com/rubrica-4/business/unicredit-che-fare-domani-martedi-saranno-rese-note-risposte-266603.htm
GIUSTIZIA E NORME
Dalla giustizia al giacobinismo: l’Italia e la questione giudiziari
L’onda d’urto irradiata dal recente libro-intervista realizzato dall’ex magistrato Luca Palamara con la collaborazione del direttore de Il Giornale Alessandro Sallusti ripropone con forza l’irrisolta questione dei rapporti strutturalmente incestuosi intercorrenti tra giustizia e politica.
In una certa misura, beninteso, interferenze e “sconfinamenti” tra le due istituzioni risultano inevitabili per tutti i moderni Stati di diritto fondati sul principio della divisione dei poteri formulato a suo tempo da Montesquieu e vengono pertanto tollerati. Negli ultimi tempi, la Corte Suprema statunitense ha stabilito d’autorità il verdetto delle elezioni del 2000, decretato l’eliminazione di qualsiasi limite ai finanziamenti delle campagne elettorali e determinato indirizzi ben precisi in materia di eutanasia. Benché istituito ufficialmente per vigilare sugli altri poteri dello Stato in nome della Costituzione, questo potente organismo emana verdetti smaccatamente influenzati dal profilo ideologico dei suoi componenti, selezionati dai presidenti e sottoposti al Senato per l’approvazione definitiva sulla base di ben precise strategie politiche. I giudici della Corte Suprema non si limitano quindi a produrre sentenze che vanno a colmare i vuoti normativi ascrivibili all’inerzia e/o alla contraddittorietà dei legislatori, ma travalicano palesemente i loro compiti statutari concernenti la salvaguardia della Costituzione con pronunciamenti che hanno sovente l’effetto di stravolgerne radicalmente il significato e la portata. Consapevole di questo pericolo, Charles De Gaulle si adoperò affinché la Carta Costituzionale della Quinta Repubblica redatta da Michel Debré contemplasse l’istituzione di un Consiglio Costituzionale incaricato di fornire consulenza all’esecutivo, e non di imporre la propria volontà.
Nemmeno un personaggio dotato della popolarità e dell’autorevolezza del generale riuscì tuttavia a evitare che il suo Paese venisse contagiato dello stesso tipo di patologia di cui soffre ormai l’intero Occidente, consistente nell’alterazione dei delicatissimi equilibri tra le maggiori istituzioni interne causata dalla perdita delle prerogative tradizionalmente appannaggio dei poteri legislativo ed esecutivo a vantaggio di quello giudiziario.
Il “secolo dei giudici”
Nell’arco degli ultimi decenni, complici l’aumento della consapevolezza dei diritti, la clamorosa rapacità della grande finanza, l’aumento vertiginoso delle disparità socio-economiche, le crescenti commistioni tra politica e affari e la smaccata autoreferenzialità delle classi dirigenti, in tutte le democrazie occidentali si è assistito a un forte incremento della domanda di giustizia ed uguaglianza. Simultaneamente, la deriva spiccatamente individualista e anti-comunitaria imboccata dalle società europee e nordamericane determinava l’aumento vertiginoso delle richieste di riconoscimento di nuovi diritti non di rado in urto con i diritti degli altri, e quindi incompatibili con il contesto generale in cui dovrebbero trovare applicazione.
Questo genere di istanze non ha trovato adeguato riscontro nell’attività legislativa non solo e non tanto a causa del disinteresse e/o dell’inadeguatezza delle classi politiche, ma anche e soprattutto in virtù dell’impossibilità da parte dello Stato di produrre ordinamenti in grado di assicurare un corretto bilanciamento tra diritti e doveri. Il crescente ricorso ai giudici per ottenere il riconoscimento dei diritti e appagare la sempre più intensa sete di giustizia che ne è scaturito ha alimentato in seno alle opinioni pubbliche una forma di sanculottismo talmente radicale da investire le magistrature di una sorta di missione salvifica, elevando i singoli giudici al rango di arbitri morali della vita collettiva capaci di emanare pronunciamenti dal valore oracolare, e quindi insindacabile. L’attività esercitata da governi e parlamenti, di converso, continuava ad essere sottoposta al pubblico dibattito e contestata sia nel merito che nel metodo. Così, in maniera graduale ma inarrestabile, i magistrati si sono accreditati come onnipotenti decisori di ultima istanza.
Lo si è visto non solo in Francia, dove ai reiterati tentativi di incriminazione di Jacques Chirac ha fatto seguito la condanna di Nicolas Sarkozy, ma anche in Spagna; qui, ha documentato il New York Times in un’inchiesta risalente al 2013, l’ondata senza precedenti di denunce di corruzione giunta presso i tribunali ha portato all’apertura di indagini a carico di membri di spicco di istituzioni del potere rimaste per lungo tempo intoccabili (come la famiglia reale) che ha garantito ai magistrati notorietà ed influenza tali da farne delle vere e proprie superstar. Qualcosa di paragonabile si è verificato in Israele, dove i giudici hanno indagato a fondo sul conto di Benjamin Netanyahu e sui legami tra la criminalità organizzata e diversi esponenti politici di alto profilo ponendo fine ad una serie di carriere particolarmente promettenti.
Giustizia e politica in Italia
Resta però l’Italia il Paese in cui il fenomeno ha assunto le dimensioni maggiori e prodotto i contraccolpi più pesanti. Le origini del problema possono essere collocate negli anni ’70, quando una classe politica insicura e timorosa delegò alla magistratura il compito di elaborare le strategie di contrasto al terrorismo di matrice sia “rossa” che “nera”. Con il duplice risultato di creare la figura del “giudice combattente”, schierato in prima linea – e quindi fatalmente esposto, come testimoniato dagli omicidi di Occorsio, Amato, Alessandrini, Terranova, Chinnici, Costa, Falcone, Borsellino, ecc. – nella lotta senza quartiere condotta dallo Stato nei confronti della criminalità non comune, e di aprire il varco all’intervento strutturale dei magistrati nell’elaborazione e nella stesura delle leggi – quella riguardante l’utilizzo dei “pentiti”, ad esempio, è stata scritta praticamente sotto dettatura dei giudici che si occupavano delle relative indagini.
Temprata dal duro lavoro svolto sul campo e legittimata agli occhi della popolazione dal sacrificio personale di molti dei suoi esponenti, oltre che dai successi conseguiti nella lotta al terrorismo, la magistratura si affermò come l’istituzione di gran lunga più solida e legittimata all’interno di uno Stato indebolito. Una forza divenuta talmente autorevole e influente da vanificare il tardivo e mal-gestito tentativo di bilanciamento organizzato dalla politica con il referendum relativo all’introduzione della responsabilità civile dei magistrati del 1987. Il cui esito schiacciante sancì l’abrogazione di una serie di norme ereditate dal codice di procedura penale del 1940, esponendo i giudici all’obbligo di rispondere in prima persona – anche sotto il profilo patrimoniale – dei loro errori (ed orrori, come quelli commessi in relazione al “caso Tortora”) senza scaricarne gli oneri sullo Stato.
Senonché, grazie a un meticoloso lavoro svolto sotto traccia, l’Associazione Nazionale Magistrati riuscì a stravolgere il senso profondo del pronunciamento referendario ottenendo dal Parlamento l’approvazione di una legge che, lungi dal disciplinare correttamente il responso referendario, ne stravolse il senso e la portata perché limitava la capacità dello Stato di rifarsi pecuniariamente sui magistrati – benché protetti da assicurazioni che ammontano «grosso modo a un terzo di una RCAuto medio-bassa» e – per i danni da essi cagionati a una cifra equivalente a non più di un terzo d’annualità del loro stipendio e, soprattutto, sottoponeva le iniziative risarcitorie al filtro preventivo della Corte d’Appello, che come è noto si compone di magistrati. Risultato: «su oltre 400 ricorsi proposti dai cittadini soltanto 7 si sono conclusi con un provvedimento che ha riconosciuto il risarcimento per dolo o colpa grave da parte dei magistrati». Come avrebbe successivamente rivelato dal suo “esilio” di Hammamet l’ex premier Bettino Craxi, l’allora Guardasigilli Giuliano Vassalli, socialista di lungo corso e promotore della legge approvata dal Parlamento, «si fece prendere purtroppo la mano dai magistrati, che affollavano il Ministero della Giustizia e intendevano proteggersi dagli effetti del referendum».
Blindata la propria posizione attraverso la “legge Vassalli”, la magistratura passò alla controffensiva nell’ambito di un feroce regolamento di conti con la politica reso possibile dalla fine della Guerra Fredda e destinato ad accentuare ulteriormente lo squilibrio degli assetti di potere inter-istituzionali italiani. Con l’implosione dell’Unione Sovietica, e il contestuale sgretolamento delle coperture internazionali che per quasi mezzo secolo avevano garantito l’impunità di un’intera classe politica, la magistratura italiana funse da organismo liquidatore del gruppo dirigente invecchiato all’ombra del Muro di Berlino e divenuto ormai obsoleto agli occhi dei attenti e interessatissimi pianificatori statunitensi.
“Mani Pulite”, la tempesta perfetta
Attraverso una strategia giudiziaria in grado di moltiplicare rapidissimamente e in maniera esponenziale il numero degli indagati, dei collaboratori e dei nuovi arrestati, il ciclone di “Mani Pulite” condusse al crollo fragoroso dello scheletro tangentizio che garantiva il finanziamento clandestino dei partiti su cui si reggeva il cosiddetto “arco costituzionale”. Sostenuta da una stampa giacobina e da un’opinione pubblica arrembante, l’offensiva scatenata contro il sistema politico italiano alimentò la triplice illusione che all’interno del Paese stesse finalmente facendosi strada una giustizia più equa e capace di penetrare le stanze del potere, che l’onestà rappresentasse la stella polare della “buona politica” e che la corruzione costituisse una patologia riguardante il solo gruppo dirigente, a cui imprenditori, giornalisti, banchieri, sindacalisti, gallonati dell’esercito, docenti universitari, ecc. risultavano invece completamente immuni.
Lo stesso Partito Comunista cercò di cavalcare la furia giustizialista scatenata da Tangentopoli nella malriposta convinzione di poter ovviare al discredito accumulato sul piano ideologico dall’esito della Guerra Fredda attraverso un’ostentazione di onestà tanto teatrale quanto priva di consistenza, come appurato dalle inchieste condotte successivamente. Gradualmente, nell’opinione pubblica cominciò a diffondersi quel mix di delusione e disillusione che portò parte assai considerevole degli elettori a rivolgersi a formazioni politiche nuove, del tutto prive della storia, della cultura e della consistenza politica di quelle appena abbattute dall’offensiva giudiziaria.
Detto altrimenti, si crearono le condizioni per l’indebolimento struttura della Repubblica, e per la contestuale creazione di un gigantesco vuoto di potere progressivamente riempito dalla magistratura. A cui Tangentopoli e il clima giustizialista fomentato ad arte dai principali mezzi di comunicazione avevano conferito grande prestigio e popolarità, a dispetto dei metodi adoperati nella conduzione della campagna giudiziaria, caratterizzata da un uso a dir poco spregiudicato della carcerazione preventiva, e dai suoi esiti sostanzialmente fallimentari. Su oltre 4.500 indagati e 3.200 individui rinviati a giudizio, si contano 1.281 condanne (di cui 935 per patteggiamento) e 1.111 tra assoluzioni e patteggiamenti. Una “contabilità” quantomeno problematica, che non tiene peraltro conto né dei 32 suicidi collegati alle indagini verificatisi tra il 1992 e il 1994, né delle decine di persone screditate mediante la divulgazione “a orologeria” di intercettazioni telefoniche e di atti coperti da segreto. Il caso più noto è indubbiamente quello riguardante Silvio Berlusconi, che nel 1994, mentre presenziava in qualità di primo ministro al vertice internazionale di Napoli sulla criminalità organizzata, fu raggiunto da un avviso di garanzia in conformità con le anticipazioni fornite al riguardo dal Corriere della Sera e con le pubbliche dichiarazioni pronunciate giorni prima dal coordinatore del pool milanese Francesco Saverio Borrelli.
Un gesto plateale e dal chiaro significato politico, perché palesemente diretto a minare la legittimità dell’esecutivo appena insediato. Nella percezione dell’opinione pubblica, profondamente distorta dal furore giustizialista imperversante, l’informazione di garanzia aveva perso la sua funzione originaria di tutela dei diritti difensivi dell’imputato per trasformarsi in una sorta di certificato di condanna anticipata nei suoi confronti in grado di ribaltare l’onere della prova ed annullare il principio costituzionale della presunzione di innocenza. I magistrati milanesi ne erano perfettamente consapevoli, e non esitarono a sfruttarla come arma politica per azzoppare l’azione di governo.
Il potere totale delle procure: dalla giustizia al giustizialismo
Osservato retrospettivamente, l’uso strumentale dell’avviso di garanzia nei confronti di Berlusconi si configura in tutta evidenza come il primo di una lunga serie di “sconfinamenti” di cui si sarebbe resa protagonista nel corso degli anni successivi la magistratura italiana, titolare di privilegi ritenuti inconcepibili in tutte le altre democrazie occidentali. Il modello anglosassone, ad esempio, si incardina sui principi fondamentali della divisione delle carriere, della netta distinzione dei ruoli e della subordinazione dell’azione penale ai criteri oggettivi dell’impatto sociale dei reati e delle concrete chance di successo dell’indagine.
Pochi parametri ma estremamente precisi, a cui i procuratori sono costretti ad adeguare la propria linea d’azione coerentemente con la natura elettiva della loro carica. Ancor più rigoroso risulta il sistema francese, in cui i procuratori rispondono direttamente al Guardasigilli. In Italia, viceversa, i pubblici ministeri hanno il pieno controllo della polizia giudiziaria e beneficiano delle medesime garanzie e guarentigie riservate ai giudici giudicanti. Allo stesso tempo, i pubblici ministeri sono autorizzati ad imbastire rapporti con i giornalisti, specialmente con quelli disposti di assicurare adeguata eco mediatica e “congrui” ritorni in termini di visibilità in cambio dell’accesso a intercettazioni telefoniche da pubblicare integralmente sulle pagine dei quotidiani. Comprese quelle coperte da segreto o prive di alcun legame con le indagini, qualora il loro contenuto risulti funzionale alle inchieste o alle inconfessabili mire personali del magistrato requirente (come screditare un indiziato con cui si ha qualche conto in sospeso ma di cui non si riesce ad accertare la colpevolezza).
Svincolate dai controlli tradizionali che in ogni sistema democratico disciplinano l’operato di qualsiasi forza istituzionale, le procure hanno acquisito di una gigantesca libertà di manovra, che tende non di rado a trasformarsi in puro e semplice arbitrio per effetto delle perverse implicazioni insite all’applicazione pratica del principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale. Il quale, lungi dall’assicurare l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, ha posto i magistrati nelle condizioni di indagare sul conto di chiunque, attraverso un’attività di ricerca preventiva alla notitia criminis mirata all’individuazione di eventuali comportamenti passibili di reato teoricamente allargabile «alla totalità dei comportamenti e delle interazioni umane». Una vera e propria pesca a strascico, non di rado attuata con precise finalità politiche. Prova ne sono le conversazioni in cui Palamara richiamava l’attenzione dei suoi colleghi magistrati sulla necessità di mettere strumentalmente sotto inchiesta Matteo Salvini. L’obiettivo consisteva non nell’ottenerne la condanna, ma semplicemente nel sabotare l’ascesa politica dell’allora ministro dell’Interno costringendolo un lungo ed estenuante braccio di ferro giudiziario.
Il caso Palamara
Il tono dei messaggi inviati da Palamara (al procuratore di Viterbo Paolo Auriemma che gli manifestava perplesso di non capire dove Salvini stesse sbagliando, Palamara rispose con un inequivocabile «hai ragione, ma bisogna attaccarlo») lascia trapelare uno spiccato senso di impunità, dovuto non tanto all’assenza di leggi che impongano una reale responsabilità civile dei magistrati, quanto alla consapevolezza di poter celare la reale natura di qualsiasi iniziativa investigativa – anche se disposta sulla base di motivazioni ideologiche e/o interessi personali – dietro il paravento dell’obbligatorietà dell’azione penale, specie dinnanzi a un ente di vigilanza egemonizzato dall’Anm come il Consiglio Superiore della Magistratura. Vale a dire un organismo composto per due terzi dai cosiddetti “togati” – cioè giudici eletti da tutti i magistrati – e pertanto animato al pari di tutti gli organi di autogoverno da uno spirito corporativo che lo rende strutturalmente propenso all’anteposizione dei principi dell’autoconservazione e dell’intangibilità dei propri membri a qualsiasi altro genere di considerazione. Lo si è visto proprio con la gestione dello scandalo sollevato dal “caso Palamara”, a cui il Csm ha reagito infliggendo la classica “pena esemplare” a lui – la radiazione dalla magistratura – senza riservare alcun genere di provvedimento agli altri componenti della “cupola”. Senza l’appoggio dei quali, ovviamente, Luca Palamara non sarebbe mai potuto passare agli annali come il più giovane presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, né entrare a far parte del Consiglio Superiore della Magistratura, l’organo al cui interno si concordano nomine e bocciature sulla base dei rapporti di forza vigenti tra le varie correnti e non sulle reali capacità dei singoli candidati.
Da quando, negli anni ’60, il Csm cominciò a demolire i sistemi di valutazione professionale risalenti all’immediato dopoguerra – e tuttora vigenti in Paesi come la Francia e la Germania – per sostituirli con meccanismi semi-automatici di avanzamento basati sul criterio dell’anzianità, le prospettive di carriera sono venute a dipendere molto più dalla disponibilità a lasciarsi cooptare che non dal merito. L’assenza di graduatorie basate su criteri quanto più possibile oggettivi produce due effetti immediati e sinergici; per un verso, rende l’adesione a una corrente, a cui offrire “fedeltà” in cambio di appoggio politico, una specie di scelta obbligata per qualsiasi giovane magistrato dotato di un minimo di ambizione. Per l’altro, priva scientemente i membri laici del Csm degli elementi necessari alla valutazione dei candidati in lizza per una promozione, in modo da costringerli a rivolgersi ai consiglieri togati che non mancheranno a loro volta di suggerire i nomi degli appartenenti alla propria corrente.
Questa deriva “tribalista” imboccata dalla magistratura è andata peraltro accentuandosi a partire dall’entrata in vigore della riforma dell’ordinamento giudiziario del 2007. Introducendo un limite temporale per gli incarichi, la “legge Mastella” – che secondo Francesco Cossiga era stata scritta dall’allora Guardasigilli «sotto dettatura di quella associazione tra il sovversivo e lo stampo mafioso che è l’Associazione Nazionale Magistrati» – ha prodotto il risultato di inasprire ulteriormente il tono della competizione tra le varie correnti, rendendole ancora più interessate a piazzare propri “fedelissimi” nei ruoli più influenti. A partire dalle procure, perché in grado di esercitare una particolare influenza all’interno dell’Anm e, a ricasco, del Csm, e in quanto titolari delle prerogative necessarie, rileva l’ex magistrato Carlo Nordio, per «attaccare la politica, quasi sempre il centrodestra ma qualche volta pure il centrosinistra, quando questa prova a eliminare o ridurre privilegi non giustificati» e a varare riforme sgradite. Specie se implicanti l’affermazione del principio della separazione delle carriere, o l’introduzione di meccanismi sanzionatori che puniscano abusi e inadeguatezze con sospensioni e, nei casi limite, perfino la destituzione dall’incarico.
Quale giustizia per il Paese?
Il profondo svilimento della giustizia derivante da una simile degenerazione tende inesorabilmente a tradursi sul piano pratico in devastanti contraccolpi sulla vita di milioni di cittadini, oltre a produrre pesantissime implicazioni di carattere sia economico che politico ravvisabili dalle decine e decine di procedimenti giudiziari che prima di rivelarsi destituiti di qualsiasi fondamento avevano mandato in rovina aziende floride, precluso candidature, provocato dimissioni di ministri e amministratori locali e persino causato la caduta di governi.
Un altro effetto, meno plateale ma parimenti deteriore, ascrivibile all’ipertrofia del potere giudiziario consiste nell’inchiodare l’azione politica e burocratica a una condizione di paralisi permanente, confinandola a una specie di immobilismo attendista a cui gli amministratori vanno sempre più frequentemente conformandosi in via precauzionale onde evitare di finire al centro di inchieste giudiziarie che, protraendosi per anni, tendono ad assorbire ingenti somme di denaro e ad accompagnarsi alle rituali richieste di sospensione dall’incarico che da temporanee divengono sovente definitive ed irrevocabili. Il pericolo è reso tanto più concreto non soltanto dalla natura stessa delle mansioni svolte da coloro che ricoprono cariche pubbliche, ma anche dalla vasta gamma di reati estremamente generici (come l’abuso d’ufficio) contemplati dal codice penale che, in presenza di un ordinamento caratterizzato dall’obbligatorietà dell’azione penale, pongono le procure nella posizione di avviare indagini sul conto di ogni amministratore sulla base di pseudo-indizi o semplici “voci di corridoio”, come ampiamente dimostrato dalle 19 assoluzioni consecutive inanellate da Antonio Bassolino.
Qualsiasi politico con un minimo di pelo sullo stomaco è infatti perfettamente consapevole che «basta un articolo malizioso, una denuncia da parte di un teste falso ma ben pagato (le anticamere dei Palazzi di Giustizia pullulano di falsi testimoni a pagamento), i vari nemici politici, e si interrompe carriera, vita, dignità di un uomo prima votato da molti, anche se alla fine del procedimento verrà dichiarato innocente». Nel 2017, l’allora presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione Raffaele Cantone ha riconosciuto che «la cosiddetta paura della firma viene anche utilizzata come alibi per non agire, ma non va sottovalutata: molti amministratori sono effettivamente bloccati nel loro operato perché temono di finire sotto inchiesta». Di fatto, la magistratura si è imposta come principale forza inibitrice del Paese, in grado di paralizzare la società attraverso specifici provvedimenti o molto più semplicemente infondendo – non necessariamente in maniera volontaria – nelle cariche pubbliche una sorta di “timore reverenziale” che conduce o all’autocensura e conferisce un carattere strutturale all’interferenza indebita tra i principali corpi istituzionali dello Stato.
Da parte sua, la politica ha fatto di tutto per accentuare questa degenerazione, cullandosi nell’illusione di poter ovviare al proprio deficit di competenze e di legittimazione popolare affibbiando alla magistratura un ruolo di supplenza – se i legislatori vengono meno alle loro funzioni regolatorie, l’intervento compensatorio del potere giudiziario diviene inevitabile – che le permesso alle procure di assumere gradualmente il controllo effettivo di alcune nevralgiche leve del potere.
Innescato dalla cedevolezza mostrata della classe dirigente dinnanzi al fenomeno del terrorismo, il processo di trasferimento della sovranità dalla politica alla giustizia subì l’accelerata decisiva con l’incredibile rinuncia all’immunità formalizzata nel momento culminante di Tangentopoli dai disorientati parlamentari italiani, resi improvvisamente incapaci di comprendere che quella fondamentale forma di tutela era stata eretta non per garantirne la loro semplice impunità, ma per porre la volontà popolare di cui sono depositari al riparo da qualsiasi minaccia esterna, comprese eventuali indagini da parte della magistratura. Un concetto che Francesco Cossiga non mancò di ribadire quando, con uno dei suoi proverbiali colpi di teatro, si avvalse delle prerogative di capo supremo delle forze armate spettanti al Presidente della Repubblica per ordinare a un battaglione di carabinieri carristi di circondare Palazzo dei Marescialli in risposta al tentativo del Consiglio Superiore della Magistratura di colpire l’allora primo ministro Bettino Craxi.
A suo avviso, il Csm stava tentando di «affermarsi pericolosamente quale terza Camera del Parlamento nazionale, non elettiva, non democratica, ed anche quale organo Costituzionale, posto al vertice del potere giudiziario». Da allora, molta acqua è passata sotto i ponti, ma il potere della magistratura non ha cessato di crescere. Attualmente, i magistrati partecipano attivamente alle dispute elettorali, passano con grande disinvoltura dai tribunali agli scranni parlamentari e di nuovo ai tribunali, scrivono libri e articoli, presenziano a dibattiti televisivi e si esprimono pubblicamente in merito alle questioni più disparate, completamente avulse dal loro ambito di competenza.
Se nel 2007 l’allora ministro degli Esteri Massimo D’Alema si spinse a confidare all’ambasciatore statunitense a Roma Ronald Spogli che la magistratura era diventata «la più grande minaccia per lo Stato italiano», parte tutt’altro che irrilevante della responsabilità era tuttavia da ascrivere proprio alla classe politica. La quale è divenuta talmente avvezza a delegare la risoluzione delle controversie ai giudici (esempio paradigmatico: il caso relativo all’Ilva di Taranto) da non riuscire ancora oggi a trovare le motivazioni né il coraggio sufficienti per riappropriarsi delle proprie prerogative e recuperare quei margini di autonomia imprescindibili per la stesura di una legislazione ordinata, al passo coi tempi – che richiede una profonda ma irrinunciabile revisione del testo costituzionale – e soprattutto capace di delimitare con precisione lo spazio di manovra delle procure, ponendo fine allo strapotere discrezionale ed irresponsabile di cui godono i magistrati requirenti.
Giacomo Gabellini
FONTE: http://osservatorioglobalizzazione.it/progetto-italia/giustizia-giacobinismo-italia-mani-pulite-palamara/
IMMIGRAZIONI
Il delirio di Henri Lévy: «Vaccino contro il virus grazie agli immigrati».
Salvini: «Porta l’Africa a casa tua»
Indigna non poco il “comizio” pro migranti del filosofo francese Bernard-Henri Levy ospite di Quarta Repubblica da Nicola Porro. In contrapposizione a Matteo Salvini il francese si è permesso di dire in piena emergenza sbarchi delle fandonie colossali che neanche Laura Boldrini avrebbe pronunciato con tanta sicumera. Con la prosopopea tipica dei guru della rive gauche. Dopo avere sputato veleno contro i sovranisti italiani , ecco la perla che ha sconcertato e imbufalito gli spettatori collegati sui social: i migranti sarebbero una chiave fondamentale per arrivare al più presto ad un vaccino efficace contro il Coronavirus. Testuale: “Il fatto che troveremo il vaccino in Italia e in Europa lo dobbiamo agli immigrati”, ha a più riprese ribadito”, suscitando lo sconcerto dell’ex vicepremier Salvini. “Siamo su scherzi a parte?”, ha chiesto il leader leghista al conduttore.
Henri Levy peggio della Boldrini
Le scintille si sprecano. ”Aspetta un attimo, con tutto il rispetto, lei dice che se troviamo il vaccino, lo dobbiamo agli immigrati che sbarcano a Lampedusa? – interloquisce Salvini con gran dose di pazienza. – Mi scusi, se troviamo la cura al Covid, non è grazie ai medici italiani e ai ricercatori e scienziati del San Matteo di Mantova ma è grazie agli immigrati che arrivano? Adesso, questa perla mi mancava…E’ colpa di Putin, è colpa di Salvini… Grazie agli immigrati, invece, troveremo il vaccino…”. La replica di Salvini al filosofo francese Bernard-Henri Levy non si fa attendere. La sua espressione è tutta un programma. Ma è un dialogo tra sordi. Lo scrittore e intellettuale transalpino, consulente di Emmanuel Macron, sembra invasato e fuori di sé.
Salvini a Henri Lévy: «Venga alla stazione Termini…»
”Mi arrendo, professore, venga stasera in stazione Termini a Roma o alla Stazione centrale di Milano, così vede quanto è bella l’immigrazione clandestina che a lei piace tanto…”, dice il leader della Lega.”Senza l’immigrazione africana non c’è ricerca in Francia, non si troverà mai una vaccino e una cura contro il Covid. Deve dire grazie ai migranti…”. Salvini non ci sta: ”Vabbè, stiamo su Scherzi a parte…”.
Non finisce qui, Levy interrompe in continuazione, insulta i sovranisti; e soprattutto i sindaci dei centri siciliani intervistati nei servizi che dicono basta agli sbarchi continui. Levy commenta: “Vergogna”. Noncurante del fatto che a Ventimiglia i gendarmi francesi respingono i migranti in malo modo, si permette di salire in cattedra e farei la morale ai nostri amministratori sui doveri dell’accoglienza. Il popolo social è ancora in ebollizione .Soprattutto perché Levy si è espresso senza rispetto per le difficoltà italiane. “Levy forse non conosce i problemi di molti italiani senza lavoro, non sa che la pensione media italiana è inferiore ai 1.000 euro al mese o forse non è andato a Lampedusa..” .”Professore, anche io voglio un mondo aperto- ribatte Salvini- ma con delle regole”. Nel corso della trasmissione, Lévy ha rovesciato tutta la sua bile contro il leader della Lega. Dichiarando che, con Salvini e i sovranisti al governo, “l’Italia non sarebbe uscita dalla crisi” scatenata dal Coronavirus.
FONTE: https://www.secoloditalia.it/2020/07/il-delirio-di-henri-levy-vaccino-contro-il-virus-grazie-agli-immigrati-salvini-porta-lafrica-a-casa-tua/
LA LINGUA SALVATA
LA LINGUA BATTE DOVE IL FEMMINISMO DUOLE
COSA UNISCE IL TANDEM MICHELA MURGIA-LAURA BOLDRINI A LORY DEL SANTO? HANNO FIRMATO UN LETTERA APPELLO ALLA TRECCANI PERCHE’ NEL DIZIONARIO ONLINE DEI SINONIMI ALLA VOCE “DONNA” COMPAIONO “EUFEMISMI” COME “BUONA DONNA”, “PUTTANA”, “CAGNA”, “ZOCCOLA”, “BAGASCIA”, “DONNINA ALLEGRA” , “BATTONA” – L’ATTACCO: “SIMILI ESPRESSIONI RINFORZANO GLI STEREOTIPI NEGATIVI E MISOGINI CHE OGGETTIFICANO E PRESENTANO LA DONNA COME ESSERE INFERIORE”
5 MAR 2021
1 – LA LETTERA APERTA: “LA TRECCANI CAMBI LA DEFINIZIONE DI DONNA”
Benedetta Perilli per www.repubblica.it
Lo sapevi che la versione della Treccani online indica nel dizionario dei sinonimi, in riferimento alla parola “donna”, eufemismi come “buona donna” e sue declinazioni come “puttana”, “cagna”, “zoccola”, “bagascia”, e varie espressioni tra cui “serva”?”.
DIZIONARIO TRECCANI – SINONIMI DELLA PAROLA DONNA
Inizia così la lettera che l’attivista Maria Beatrice Giovanardi, insieme a cento persone del mondo della politica, della cultura, della linguistica e della finanza come Laura Boldrini, Michela Murgia, Imma Battaglia, Alessandra Kustermann ma anche la vice direttrice generale Banca d’Italia Alessandra Perrazzelli, indirizza all’Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani per chiedere la modifica della voce.
Più inclusiva, meno sessista, più aderente al ruolo della donna nella società, più paritaria perché “allo stesso tempo, l’uomo è definito come “essere cosciente e responsabile dei propri atti”, “uomo d’affari”, “uomo d’ingegno”, “uomo di cuore” o “uomo di rispetto””, si legge in un altro estratto della lettera. A promuovere l’iniziativa è la manager italiana Giovanardi che lo scorso novembre si era distinta per aver convinto, dopo una campagna durata quasi un anno e una petizione con oltre 35mila firme, il prestigioso vocabolario inglese Oxford Dictionary a eliminare i riferimenti sessisti dalla definizione della parola woman.
TRECCANI
Dopo la vittoria ottenuta nel Regno Unito, dove la 29enne vive, un primo tentativo viene avviato anche in Italia con l’invio di una richiesta di revisione alla Treccani. L’enciclopedia risponde, con un intervento nella sezione dedicata alle domande del sito ufficiale e aggiungendo alcune righe alla voce online.
Una richiesta, dicono, “che ci pungola a rivedere con attenzione quanto abbiamo scritto” ma che non può essere accolta perché il dizionario deve registrare l’evoluzione della lingua senza censura e specificando, dove necessario, il livello (ovvero se volgare, spregiativo, eufemistico), pur considerando “il marchio misogino che, attraverso la lingua, una cultura plurisecolare maschilista, penetrata nel senso comune, ha impresso sulla concezione della donna”.
Non abbastanza per Giovanardi che torna alla carica con la lettera aperta e le sue cento firme, grazie all’aiuto di un team composto da cinque attiviste, e spiega: “Donna è il 50% della popolazione, continuo perché la voce rimane non corrispondente alla realtà e poiché reputo la risposta dell’Istituto civilmente non esauriente. Anche in Inghilterra dall’Oxford hanno risposto rivendicando l’aspetto descrittivo ma hanno poi avuto il coraggio di essere autocritici, e non autocratici”.
Dal fronte Treccani Luigi Romani, responsabile sezione Lingua italiana, sull’avvio di una nuova iniziativa da parte di Giovanardi commenta: “C’è un equivoco di fondo, si prendono come sinonimi di donna i corredi sinonimici di alcune espressioni presenti nel dizionario che non sono i sinonimi per Treccani.
Volendo innescare polemiche che non hanno fondamento si inquina la possibilità di avere una comunicazione corretta”. E sul perché al posto, o insieme, a “donna da marciapiede”, prima espressione che appare nella versione online, non trovino spazio espressioni positive come “donna manager” risponde: “Donna manager non è una espressione che può entrare nella voce sinonimi. Il corredo di espressioni sinonimiche è nutrito e così rappresentato per ragioni non linguistiche ma di natura culturale”.
Ora le 100 persone che firmano la lettera aperta, pubblicata in anteprima sul sito di Repubblica, domandano a Treccani di ripensare la scelta sulla definizione del sinonimo di donna eliminando “i vocaboli espressamente ingiuriosi” e “inserendo espressioni che rappresentino, in modo completo e aderente alla realtà di oggi, il ruolo delle donne nella società”.
Una richiesta che, secondo le persone che sostengono la campagna tra le quali spiccano anche accademiche come Giuliana Giusti, professoressa in glottologia di Ca’ Foscari, Marica Calloni, professoressa di Filosofia politica della Bicocca, Elena Ugolini, preside già sottosegretario all’Istruzione del governo Monti, non è destinata a “porre fine al sessismo quotidiano, ma potrebbe contribuire a una corretta descrizione e visione della donna”.
2 – LETTERA APERTA ALLA TRECCANI: “CAGNA NON È SINONIMO DI DONNA, VIA I RIFERIMENTI SESSISTI DAL VOCABOLARIO ONLINE”
Pubblichiamo la lettera indirizzata all’Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani per chiedere di eliminare i riferimenti sessisti che compaiono nel sinonimo della parola “donna” della versione online del vocabolario. La firmano cento persone, tra le quali Laura Boldrini, Michela Murgia, Imma Battaglia, Alessandra Kustermann ma anche la vice direttrice generale Banca d’Italia Alessandra Perrazzelli, più un gruppo di attiviste guidate da Maria Beatrice Giovanardi, l’italiana che ha ottenuto che l’Oxford Dictionary modificasse in chiave non sessista la definizione di “woman”
Lo sapevi che la versione della Treccani online (treccani.it) indica nel dizionario dei sinonimi, in riferimento alla parola “donna”, eufemismi come “buona donna” e sue declinazioni come “puttana”, “cagna”, “zoccola”, “bagascia”, e varie espressioni tra cui “serva”?
Con queste espressioni associate al concetto di “donna” trovano posto inoltre una miriade di esempi ed epiteti dispregiativi, sessisti, talvolta coraggiosamente definiti eufemismi: “baiadera”, “bella di notte”, “cortigiana”, “donnina allegra”, “falena”, “lucciola”, “peripatetica”, “mondana”, “passeggiatrice”, e molti altri.
Simili espressioni non sono solo offensive ma, quando offerte senza uno scrupoloso contesto, rinforzano gli stereotipi negativi e misogini che oggettificano e presentano la donna come essere inferiore.
Questo è pericoloso poiché il linguaggio plasma la realtà ed influenza il modo in cui le donne sono percepite e trattate.
Allo stesso tempo, l’uomo è definito come “essere cosciente e responsabile dei propri atti”, “uomo d’affari”, “uomo d’ingegno”, “uomo di cuore” o “uomo di rispetto”, etc…
Brilla per assenza qualunque espressione positiva che raffiguri la donna in modo altrettanto completo e aderente alla realtà, come per la definizione di uomo: donna d’affari, donna in carriera, etc…
Inoltre l’assenza sotto la voce “uomo” di parole quali “uomo violento”, “uomo poco serio”, “orco”, “ometto”, “omaccio”, “omuccio”, “gigolò” rischia di apparire come un’incongruenza, se non addirittura una discriminazione, a fronte del “dovere di registrare” e descrivere il “patrimonio lessicale italiano” che la Treccani rivendica nel giustificare le sue scelte.
I vocabolari, i dizionari dei sinonimi e contrari, le enciclopedie sono strumenti educativi di riferimento e la Treccani.it, in quanto tale, è consultata nelle scuole, nelle biblioteche e nelle case di tutti noi. Ed è anche una fonte linguistica italiana tra le più visibili.
Chiediamo cortesemente pertanto all’Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani S.p.A. che:
in prima battuta elimini i vocaboli espressamente ingiuriosi riferiti alla donna, limitandosi a lasciarli sotto la lettera iniziale di riferimento;
inserisca espressioni che rappresentino, in modo completo e aderente alla realtà di oggi, il ruolo delle donne nella società.
Ciò non porrà fine al sessismo quotidiano, ma potrebbe contribuire a una corretta descrizione e visione della donna e del suo ruolo nella società di oggi.
LORY DEL SANTO L’ONOREVOLE CON L’AMANTE SOTTO AL LETTO
Le firme
Maria Beatrice Giovanardi ed il team della campagna: Alessandra Colonna, Denise Ottavi, Carlotta Fiordoro, Cecilia Comastri, Azzurra Pitruzzella, Angela Cavezzan
Rachele Antonini, professoressa, Dipartimento di Interpretazione e Traduzione, Università di Bologna
Stefania Ascari, deputata e avvocata
Raffaella Baccolini, docente, Dipartimento di Interpretazione e Traduzione, Università di Bologna, Forlì Campus
Lucio Bagnulo, Head of Translation, Amnesty International
Marcella Balistreri, Partner, KPMG S.p.A.
Flavia Barca, componente del Consiglio Superiore del Cinema, consulente Rai, esperta di politiche culturali, economia culturale ed economia dei media
Stefania Bariatti, professoressa di Diritto Internazionale Università degli Studi di Milano
Imma Battaglia, attivista storica LGBTQ+
Massimo Bernardo, consulente d’azienda
Maurizio Bernardo, consulente d’azienda
Luca Bettonte, CEO ERG S.p.A.
LORY DEL SANTO NUDA IN AGENZIA RICCARDO FINZI, DETECTIVE 1
Magda Bianco, capo dipartimento Tutela e Educazione Finanziaria Banca d’Italia
Laura Boldrini, deputata, già Presidente della Camera
Paola Bonomo, vice presidente, Italian Angels for Growth
Marina Calloni, professoressa ordinaria di Filosofia politica e sociale, Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale – Università degli Studi di Milano-Bicocca
Paolo Campinoti, presidente di Confindustria Toscana Sud
Filomena Campus, artista e accademica
Giuseppe Castagna, Ceo Banco Bpm
Roberto Castaldi, direttore Centro studi, formazione, comunicazione e progettazione sull’Unione europea e la Global Governance (CesUE, spin-off della Scuola Sant’Anna di Pisa), Direttore Euractiv Italia
Donatella Conzatti, senatrice
Cristina Corradini, consigliere delegato di Fondazione Amplifon Onlus
Marcella Corsi, professoressa ordinaria di economia politica, coordinatrice MinervaLab, Sapienza Università di Roma
Antonia Cosenz, BANCO BPM Legale E Regulatory Affairs
Ottavia Credi, ricercatrice junior, Istituto Affari Internazionali (IAI)
Giuseppe Luigi Salvatore Cucca, senatore
Marco Cucolo, imprenditore e personaggio televisivo
Sara D’Amario, attrice e scrittrice
Federica Dall’Arche, ricercatrice, Istituto Affari Internazionali (IAI)
Monica De Virgiliis, amministratrice indipendente Prysmian Group
Diana De Vivo, Senior Stakeholder Engagement Executive Coordinator, NATO Communication and Information Agency
Paolo Decker, imprenditore
Giovanna Declich, sociologa, Conoscenza e Innovazione srls
Lory del Santo, attrice e personaggio televisivo
Paola Diana, imprenditrice
Irene Facheris, formatrice, scrittrice e attivista
Roberta Famà, Responsabile – Comunicazione, Investor Relations & Regulatory Affairs, Banca Carige SpA
Elvira Federici, per il direttivo della Società Italiana delle Letterate
Gabrielle Fellus, presidente di I Respect
Ornella Ferrajolo, ricercatrice, Consiglio Nazionale delle Ricerche
Andrea Fey, notaio in Firenze
Elena Gallo, VP HR South Europe & Middle East, VIACOM CBS Networks
Laura Garavini, senatrice
Nadia Ginetti, senatrice
Giovani Europeisti Verdi
Giuliana Giusti, professoressa ordinaria in Glottologia e Linguistica, Dipartimento di Studi Linguistici e Culturali Comparati, Università Ca’ Foscari Venezia
Chiara Gribaudo, deputata
Leonardo Grimani, senatore
Gianluca Guaitani, CCO – Chief Commercial Officer, Banca Carige SpA
Laura Guazzoni, docente, Università L.Bocconi
Alessandra Kustermann, ginecologa
Mauro Mancini, regista
Vincenza Marina Marinelli, avvocata, Ordine degli Avvocati di Torino, già Ricercatrice confermata di Diritto del Lavoro nell’Università La Sapienza di Roma e Consigliera di Fiducia del Comitato Pari Opportunità dell’Ateneo
Fabrizio Marrazzo, portavoce di Partito Gay per i diritti Lgbt+, Solidale, Ambientalista, Liberale
Francesca Marrucci, assessora Valorizzazione e Gestione Patrimonio Culturale, Turismo, Politiche Sociali, Pari Opportunità, Politiche Giovanili e Comunicazione Comune di Pantelleria
Elena Mazzoni, segreteria nazionale Rifondazione Sinistra Europea
Lea Melandri, scrittrice
Armando Meletti, Ceo/Country Manager Italy, Esmalglass Itaca Group
Monia Monni, assessora all’ambiente, economia circolare, difesa del suolo, protezione civile e lavori pubblici della Regione Toscana
Angela Montanari, partner YourGroup
Roberta Mulas, professoressa a contratto, Dipartimento di Scienze Politiche, LUISS
Michela Murgia, scrittrice
Renata Natili Micheli, presidente nazionale CIF Centro italiano Femminile Nazionale
Giovanna Paladino, direttore e curatore del Museo del Risparmio
Alessandra Perrazzelli, vice direttore Generale Banca d’Italia
Massimo Persotti, giornalista, autore e conduttore di Salvalingua su Radio Radio
Valeria Picconi, Distribution Excellence Officer AXA Partners
Maria Pierdicchi, consigliere indipendente Autogrill, Unicredit e Presidente di Nedcommunity
Ilaria Pitti, ricercatrice, dipartimento di Sociologia e Diritto dell’Economia, Università di Bologna
Riccardo Pittis, ex campione italiano di basket
Emanuela Poli, direttore generale di Confindustria Assoimmobiliare
Paola Poli, CEO Women Security
Barbara Pontecorvo, avvocata
Patrizia Pozzo, Press and Media, Diem25 in Italia
Prime Donne, scuola di politica di Piu’ Europa volta ad una maggiore partecipazione femminile in politica
Annalisa Rabitti, assessora alla Cultura, Pari Opportunità, Marketing territoriale e Città senza Barriere del Comune di Reggio Emilia
Agostino Re Rebaudengo, presidente di Asja Ambiente
Anna Maria Reforgiato Recupero, Head of Strategic Investors Group Generali Investments
Cristina Rossello, presidente di Progetto Donne e Futuro
Silva Rovere, presidente di Woman Care e CEO di Sensible Capital
Paolo Sacco, COO – Chief Operating Officer, Banca Carige SpA
Florinda Saieva, fondatrice di Farm Cultural Park
Ingrid Salvatore, professoressa associata, Dipartimento di Studi Politici e Sociali, Università di Salerno
Daniela Sbrollini, senatrice
Toni Scervino, amministratore unico Ermanno Scervino
Elly Schlein, assessora regionale
Alessandra Scipioni, direttore Commerciale di Assolombarda Servizi Spa
Claudia Segre, presidente, Global Thinking Foundation
Catterina Seia, vice presidente e Co-fondatrice della Fondazione Fitzcarraldo e Fondatrice di Acume
Anna Simone, sociologia giuridica, della devianza e del mutamento sociale, Sociologia Generale Dipartimento di Scienze Politiche, Università di Roma 3
Manuela Soffientini, Managing Director, Electrolux Appliances Spa
Alessia Sorgato, avvocata penalista esperta di difesa di donne vittime di violenza
Michela Sossella, responsabile – strategie Commerciali e Pricing, Banca Carige SpA
Maria Grazia Speranza, presidente della International Federation of Operational Research Societies
Elena Sheila Speroni, responsabile Comunicazione Biocell Center Spa
Nathalie Tocci, direttrice, Istituto Affari Internazionali (IAI)
Elena Ugolini, preside Liceo Malpighi di Bologna, già sottosegretario di stato all’Istruzione governo Monti
Viviana Valastro, esperta diritti minori migranti
Francesca Vitelli, presidente dell’associazione EnterprisinGirls
Gelsomina Vono, senatrice
Antonio Zappulla, manager e giornalista
FONTE: https://www.dagospia.com/rubrica-29/cronache/lingua-batte-dove-femminismo-duole-cosa-unisce-tandem-michela-263017.htm
PANORAMA INTERNAZIONALE
Il Mediterraneo, destino d’Italia
La via marittima dell’interesse nazionale
Le rotte dell’interesse nazionale italiano passano inevitabilmente per il Mediterraneo: sia nel caso in cui nel calcolo della proiezione geopolitica di una nazione si voglia dar priorità al posizionamento geografico[1], che in quelli che danno la priorità a fattori come il consolidato dei legami economici, sociali e politici costruiti nel suo vissuto storico o le direttrici geoeconomiche per Roma la rotta punta verso il “Grande Mare[2]”. Area geopolitica di proiezione degli interessi di diverse potenze di media e grande taglia, arena fondamentale per l’economia nazionale, fondata sulla trasformazione manifatturiera e l’apertura ai commerci e dunque necessariamente vincolata a vedere tutelata la libertà di navigazione e la sicurezza marittima, porta verso il mondo africano e mediorientale che rappresentano la componente più complessa dell’estero vicino del Paese.
L’Italia negli scorsi anni ha avuto difficoltà a mettere a sistema i complessi interessi che vincolano la sua azione di politica estera al teatro mediterraneo. Come da più parti ricordato[3] gli ultimi decenni hanno visto l’Italia fluttuare inoperosa tra i diversi vincoli (europei e atlantici in particolare) cui la nostra politica estera era condizionata senza mai interpretarli in chiave realista. Ovvero cercando nell’agone mediterraneo la sua prima area d’azione. Come invece riuscito a lungo agli esecutivi della Prima Repubblica, capaci di cogliere le opportunità offerte dall’elaborazione di un’agenda strategica mediterranea.
Il professor Marco Giaconi, recentemente scomparso, ha sintetizzato[4] nella ricerca di “un ruolo occidentalista, ma autonomo, come vide lucidamente Fanfani” l’obiettivo di fondo ideale a cui i governi democristiani della Prima Repubblica ambirono, conseguendolo grazie alla visione strategica di figure come Enrico Mattei, Aldo Moro e lo stesso Fanfani. Ora, nel mondo competitivo della globalizzazione, all’Italia serve un’ulteriore consapevolezza della complessità degli scenari mediterranei e dei rischi e delle opportunità ad essi associati. A questo obiettivo tenderà la presente analisi, che proporrà l’agenda marittima del Paese partendo dai temi principali su cui una politica italiana volta a valorizzare la proiezione mediterranea dovrebbe insistere.
Tali temi riguardano, nell’ordine:
- Il versante geo-economico, con particolare riferimento alla necessità italiana di tutelare uno spazio strategico che rappresenta la linea di passaggio principale dei suoi traffici commerciali.
- La questione, alla precedente tutt’altro che disconnessa, della sicurezza energetica, che richiama alla necessità di una politica coerente per la copertura delle forniture di gas naturale e petrolio.
- La proiezione geopolitica e militare, il ruolo funzionale delle attività della Marina Militare nell’elaborazione dell’interesse nazionale e la partecipazione alla partita della territorializzazione del mare con l’identificazione delle Zone economiche esclusive (Zee).
- Il legame con i teatri africani e mediorientali e le conseguenti questioni securitarie connesse al rischio-Paese, al fattore immigrazione e alla prevenzione del terrorismo.
La via marittima dell’economia italiana
Il mare rappresenta, a livello globale, la via maestra per il traffico merci. Il recente rapporto Italian Maritime Economy realizzato dal centro studi Srm (collegato a Intesa Sanpaolo) segnala come il trasporto marittimo e la logistica ad esso collegata coinvolgano il 90% delle merci scambiate su scala planetaria e generino circa il 12% del Pil globale[5].
Passando al dettaglio dell’Italia, il rapporto conferma un trend di traffico stabile negli ultimi 5 anni intorno alle 480/490 milioni di tonnellate movimentate nell’anno, anche se nel primo semestre 2020 l’import/export via mare ha subito l’impatto dell’emergenza sanitaria, registrando un calo del 21%[6]. Per quanto riguarda il fronte di traffici da e per il Canale di Suez, proxy del movimento merci nel Mediterraneo, la prima metà del 2020 ha fatto segnare un forte calo delle spedizione dei container, pari al -15% (segno della frenata dell’export da e verso Cina), bilanciato però dai transiti di navi di altri settori: oil (+11%) e dry (+42%). Il fenomeno della cancellazione di spedizioni già programmate ha raggiunto a fine maggio 2,7 milioni di teu, pari all’11,6% della capacità totale di stiva, a fronte di una previsione globale di 7 milioni per l’anno intero[7].
In termini di valore, nel 2016 il 55% dei 90 miliardi di euro di merci importate proveniva dal mare, in un contesto che vedeva il Mediterraneo essere interessato da circa il 20% del traffico marittimo planetario[8]. L’importanza strategica del commercio marittimo non è solo constatabile da questi dati, ma anche dalla natura dei prodotti che l’Italia mobilita via mare: l’Italia è, sotto il profilo industriale, piattaforma manifatturiera agganciata alle catene del valore globali e economia di trasformazione. Di conseguenza, la via marittima della nostra economia va letta in combinato disposto con lo sviluppo dei settori strategicamente più legati a quello del commercio via mare: la cantieristica navale, la logistica, lo sviluppo infrastrutturale, la connettività.
Da non scordare, ovviamente, anche il tema del turismo, che con lo sviluppo di rotte di collegamento marittime trafficate ed efficaci ha un legame ombelicare, e settori come la pesca.
Guardando la questione a livello sistemica, l’importanza del mare e della blue economy per il sistema-Paese è segnalata dall’elevato ritorno garantito dagli investimenti in blue economy. Luca Sisto e Matteo Pellizzari, in un capitolo del saggio Geopolitica del mare, hanno analizzato dettagliatamente i numeri del valore aggiunto prodotto dal cluster marittimo: esso “contribuisce al prodotto interno lordo nazionale per 31,6 miliardi di euro (2,03%) e dà occupazione a circa il 2% della forza lavoro del Paese (471mila persone)” tra addetti e indotto. Risulta inoltre importante il fatto che il moltiplicatore del reddito e dell’occupazione siano pari rispettivamente a 2,63 e 2,77[9].
Una riflessione in particolare merita la questione infrastrutturale legata al ruolo delle autorità portuali. Esse sono state soggette alle dinamiche di sviluppo del Piano strategico per la portualità promosso dal governo Renzi, che si riproponeva l’obiettivo ambizioso di “fare sistema”. Tuttavia, nelle iniziative politiche a lungo termine poca chiarezza è stata fatta su quale scalo tra i principali (da Genova a Trieste, da Napoli a Taranto) dovesse acquisire maggiore centralità. Molto si è discusso, in particolare, del capoluogo giuliano, a lungo interessato da manovre cinesi funzionali alla ricerca di uno scalo italiano da inserire nel quadro della Nuova via della seta[10], opportunità ritenuta interessante anche dall’ex ministro degli Esteri Franco Frattini, secondo il quale ““Noi italiani abbiamo una possibilità straordinaria. I cinesi sono interessati a Trieste e Venezia, ce lo hanno detto chiaramente […]. Possiamo trasformare Venezia o il golfo di Trieste in uno degli snodi principali per i commerci che transitano verso il Nord Europa. Dovremmo cogliere al volo questa occasione. Fare arrivare ai nostri porti qualche centinaia di milioni di container provenienti dal Sud e che passano dal Canale di Suez, vuol dire risparmiare 15 giorni di navigazione intorno all’Africa”[11].
Il porto di Trieste, tra i maggiori scali italiani nel Mediterraneo
Tuttavia, l’aumento della competizione geopolitica tra Stati Uniti e Cina e lo scarso approccio sistemico dell’Italia ai rapporti con la Repubblica Popolare, oltre al vuoto decisionale sulle rimanenti infrastrutture strategiche hanno portato a una scarsa concretizzazione di questi nuovi scenari. Ben più ampia la visione della Germania, che per mezzo dell’autorità pubblica che gestisce il porto di Amburgo, Hhna, tra settembre e ottobre 2020 ha formalizzato un investimento miliardario nello scalo giuliano, risultando ben più consapevole rispetto a Roma delle opportunità dell’integrazione infrastrutturale tra le piattaforme industriali del Nord Italia e il cuore dell’Europa[12].
Sui porti, andrebbe garantita maggiore coordinazione tra i ruoli dei diversi scali (tipologie di merci e materie trasportate, subalternità dei porti minori a una ridotta serie di hub principali) e impostata un’accelerazione sulla costruzione di reti di trasporto intermodale, vincolando alla presenza di attori nazionali le alleanze con attori esteri. Non giocare la partita dei porti significa escludersi volontariamente dalla corsa strategica che coinvolge il Mediterraneo: e lo stesso vale anche per il sempre più caldo fronte energetico.
Pensare strategicamente la politica energetica mediterranea
La politica energetica del nostro Paese è fortemente vincolata all’agenda mediterranea, ma la risultante delle azioni intraprese negli ultimi anni ha condotto a scelte molto spesso contraddittorie. Questo per un’ampia gamma di fattori: in primo luogo, la difficoltà per il sistema-Paese istituzionale di ampliare il raggio d’azione e sfruttare come moltiplicatore di potenza[13] l’azione dei “campioni nazionali” del settore (Eni[14], Snam e Saipem soprattutto), che troppo spesso, come ricordato con lucidità da Alessandro Aresu[15], si trovano a dover svolgere una funzione di supplenza dell’azione politica; in secondo luogo, per la cronica difficoltà nel definire la strategia ideale per il mix energetico nazionale e cavalcare, di conseguenza, la svolta graduale verso la predominanza nel gas naturale, risorsa oltremodo contesa nel contesto mediterraneo; infine, proprio per i continui dietrofront e le incertezze che, dall’archiviazione definitiva del progetto South Stream nel 2014, ha caratterizzato la politica infrastrutturale connessa allo sviluppo dei gasdotti.
Trasversale a ciò è la discutibile scelta perseguita dai due più recenti esecutivi di “castrare” il settore nazionale di estrazione[16] riducendo gli spazi di manovra per l’estrazione di gas e petrolio nell’offshore nazionale.
Il “MED & Italian Energy Report” realizzato dal già citato centro studi Srm e dall’Esl@Energy Center del Dipartimento energia del Politecnico di Torino, studio a cui hanno collaborato il “Joint Research Center” della Commissione europea e la Fondazione Matching Energies ha nel 2019 misurato con precisione la dipendenza energetica del sistema Paese: “L’Italia ha il grado più elevato di dipendenza energetica dall’estero tra i maggiori paesi europei: il 78,6% contro il 47,3% della Francia, il 64% della Germania e il 76,3% della Spagna. Per il gas naturale, il peso dell’import è superiore al 90% (contro una media Ue di circa il 70%[17]”. Tutto questo nonostante una crescente spinta verso l’efficienza energetica e la valorizzazione delle rinnovabili che ha determinato rilevanti risparmi di energia stimati, nel periodo 2014-2018, in circa 11,8 milioni di tonnellate equivalenti di petrolio[18].
Economia e geopolitica sono profondamente interrelate nel contesto dell’energia: fattispecie ancor più vera quando si fa riferimento all’animato teatro mediterraneo, reso estremamente competitivo dalla crescente sovrapposizione di interessi divergenti legati principalmente al gas naturale: dal giacimento egiziano “Zohr” a quello israeliano “Leviathan” nuovi giacimenti ridisegnano la geografia delle disponibilità energetiche; Stati estremamente dinamici come la Turchia di Recep Tayyip Erdogan, in maniera molto spesso “corsara” sfruttano interpretazioni elastiche del diritto internazionale o vuoti di potere per inserirsi attivamente nella competizione per la sicurezza energetica nelle acque del Mediterraneo orientale; sul “Grande Mare” si proiettano poi le ombre della guerra fredda del gas[19] tra Stati Uniti e Russia, con Washington che ha promosso iniziative regionali (come l’alleanza greco-cipriota-israeliana che ha dato origine a EastMed) per silurare l’influenza del Cremlino.
Si aggiunga a ciò la spinta mondiale verso la decarbonizzazione, che porta gli attori più pragmatici, e i grandi colossi para-statali quali Eni e la francese Total, a puntare molte carte sull’oro blu. In un’intervista ad Avvenire, l’amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi ha usato toni di grande rilevanza politica sottolineando la necessità di riplasmare i rapporti economici tra le diverse sponde del Mediterraneo e evidenziando che “esistono singole volontà di supremazia ispirate a interessi geopolitici” che hanno il loro epicentro proprio nel gas naturale[20]. Realtà fattuale troppo spesso negata dall’Italia.
Presidiare le rotte del gas, diversificare fonti e fornitori in funzione della necessità e procedere a un riassetto del paniere di importazioni e produzioni interne per ridurre la dipendenza dai mercati stranieri e dalle tensioni geopolitiche del Mediterraneo è una sfida cruciale per il sistema-Paese[21].
Questo si riflette in altrettante necessità operative. In ordine crescente di distanza dal Paese, abbiamo la necessità di promuovere il rilancio dell’offshore gasiero adriatico abbandonato dal governo giallo-verde nel 2018-2019; la spinta a gestire le importazioni energetiche nordafricane (gas e, in misura ora minore, petrolio) tutelando e valorizzando la posizione italiana in Libia e Algeria; l’obbligo di fare i conti con la sempre più complessa contesa Mediterraneo orientale in cui, grazie ai nuovi giacimenti Zohr (Egitto, scoperto da Eni) e Leviathan (Israele) si sta sviluppando un nuovo hub regionale del gas e in cui, come detto, Erdogan appare come il cane sciolto e, come ha ricordato l’analista Mirko Mussetti nel suo pregevole saggio Axeinos!, il vero rivale strategico del nostro Paese[22]. Attivismo in Libia e mosse spericolate a Cipro insegnano.
Per gestire al meglio questa complessità, occorre capire che il sistema mediterraneo è tutt’altro che resiliente a shock politici o scenari imprevisti, e dunque risulta necessario una strategia geopolitica capace di bilanciare opportunità e rischi, e non destinata a mutare al variare delle coalizioni di governo o delle pressioni esterne, come accaduto nel contesto dell’addio a South Stream o nell’adesione frettolosa al consorzio EastMed a fianco di un Paese, la Grecia, che (legittimamente) era favorito dal lassismo italiano sul gas naturale e poteva dunque progettare di esportare l’oro blu estratto al confine tra le acque territoriali non presidiate da Roma[23].
L’accettazione del gas azero trasportato dal gasdotto Tap, al contempo, fa venire crescenti dubbi sulle motivazioni strategiche che, ai tempi della crisi ucraina del 2014, hanno definitivamente affondato South Stream, negoziato con forza bipartisan dai governi di Romano Prodi e Silvio Berlusconi nel primo decennio del nuovo secolo, e sulle favorevoli conseguenze sulla diversificazione energetica che la coesistenza dei due gasdotti avrebbe potuto garantire.
L’Italia e la Marina Militare nel Mediterraneo allargato
Economia ed energia sono dossier caldi e fondamentali che vanno coniugati con gli aspetti securitari che trasversalmente impattano con le dinamiche odierne del Mediterraneo. Il “Grande Mare” si affaccia su un arco di crisi che, dalla Libia al Medio Oriente, è stato notevolmente perturbato negli ultimi anni e per il nostro Paese le necessità securitarie impongono ragionamenti di ordine sistemico.
Dall’approvvigionamento delle fonti energetiche al libero mantenimento dei traffici marittimi, passando per la tutela degli asset italiani (dalle forze stanziate oltreconfine alle imprese presenti nel bacino del Mediterraneo) la proiezione strategica e militare nazionale è funzionale all’obiettivo di Roma di ottenere un contesto mediterraneo stabilizzato e in cui sia garantita la pacifica circolazione dei vascelli e degli scambi.
Nell’elaborazione strategica di Roma il concetto di sicurezza nei teatri marittimi non prende solo in considerazione il Mare Nostrum di romana memoria ma “quell’area che ha il nostro mare come bacino principale” ed è collegata “a tutti i mari e a tutte le aree che lo circondano e che, apparentemente, non rientrano nel suo ambito. Il Mediterraneo per come lo intendiamo noi è un mare piccolo, semichiuso, fondamentalmente secondario nelle logiche delle grandi potenze internazionali. Ma preso insieme ad altre aree ed altri bacini ad esso vicini o collegati culturalmente, politicamente e geograficamente, il Mediterraneo diventa il centro di interessi strategici fondamentali che ad esso sono connessi[24]”. Si parla dunque di “Mediterraneo allargato” coinvolgendo nello scenario geopolitico di riferimento il Mar Rosso, il Corno d’Africa, il Mar Nero, le sponde atlantiche dell’Africa settentrionale e, in profondità, il Sahel, legato strategicamente al Mediterraneo in quanto centrale nella rotta migratoria.
Da diversi decenni la Marina Militare, capace di adottare visioni strategiche complementari a quelle dell’Alleanza Atlantica, ha sviluppato una sensibilità geostrategica non sempre corrisposta dalla visione “continentale” della politica nazionale e in grado di travalicare la tradizionale visione eurocentrica delle priorità securitarie del Paese[25]. La Marina, ha ricordato l’analista Alberto De Sanctis, “appartiene al novero delle flotte europee di punta in termini di capacità belliche, bilanciamento complessivo, qualità dei mezzi e preparazione del personale[26]” e mantiene una grande capacità di elaborazione strategica.
Le linee guida della Marina, ha scritto Amedeo Maddaluno su Eurasia, non mettono in discussione il collocamento atlantico della forza navale italiana ma riconoscono la nascita di uno scenario multipolare in luogo di quello unipolare a guida statunitense, ribadendo, in evidente anticipo sulla politica, la presenza di un “interesse nazionale proprio, non sacrificabile sull’altare dell’Occidente”, che passa in larga parte per la sicurezza del Mediterraneo allargato[27].
La sicurezza economica, assieme a quella energetica, rientra senz’altro nel perimetro della sicurezza nazionale[28] ma non è chiaramente ad essa sovrapponibile. La Marina Militare ha saputo, negli ultimi tempi, garantire il presidio alla sicurezza nazionale italiana nel teatro del Mediterraneo allargato con operazioni anti-pirateria nel Golfo di Aden e nel Golfo di Guinea[29], con il contro-bilanciamento dell’attivismo turco nelle acque di Cipro, con la conduzione delle operazioni nelle acque oggetto di movimenti migratori, col sostegno alle Marine dei Paesi alleati e con il rafforzamento delle capacità di Maritime State building della vicina Libia. A partire dalla Legge Navale del 1975 lo sviluppo della flotta ha seguito l’intuizione dell’ammiraglio Gino de Giorgi secondo cui il mare e gli oceani sarebbero diventati un fondamentale terreno di confronto e, per dirla con l’ammiraglio Ferdinando Sanfelice di Monteforte, il Lungotevere delle Navi è stato in grado di “capire la situazione geostrategica contemporanea e le future prospettive di evoluzione, richiamando l’attenzione della classe politica sull’obiettivo di evitare il declino della Marina[30]”. Gli stanziamenti degli ultimi anni hanno aumentato le disponibilità materiali della Marina, incrementando la disponibilità di naviglio multimissione adatto all’operatività autonoma in alto mare[31]. La crescente valorizzazione della capacità aeronavale[32], il progetto di fregate FREMM e il varo di unità di punta quali la nuova nave “Trieste” vanno nella direzione di aumentare le frecce all’arco della Marina Militare, favorirne l’operatività in diversi contesti ambientali e unire a una crescita qualitativa e quantitativa dei mezzi a disposizione anche una preparazione ai diversi tipi di confronto strategico e militare del XXI secolo.
La nuova sfida appare la corsa crescente alla territorializzazione del mare che sta andando in scena in tutto il bacino del Mediterraneo, attraverso la proclamazione di “Zone economiche esclusive” sulle acque territoriali secondo le prescrizioni della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS) firmata a Montego Bay il 10 dicembre 1982, una partita in cui Turchia, Libia, Grecia, Algeria sono, ai confini marittimi del Paese, intente a partecipare con forza e in cui anche Roma sta definendo le sue modalità di inserimento[33].
Non va inoltre sottovalutata l’attenzione prestata da Palazzo Marina per il nuovo dominio della competizione geopolitica e geostrategica, lo spazio, manifestata nel 2020 dalla creazione all’interno della Marina Militare di un Ufficio Spazio e Innovazione Tecnologica, fortemente voluta dal Capo di Stato Maggiore, ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, che nelle linee guida strategiche per l’arma navale ha ricordato che “la Marina è chiamata nel quadro interforze a contribuire anche al potenziamento delle dimensioni cibernetica e spaziale”. Tali prospettive saranno in futuro suscettibili di un ulteriore e considerevole ampliamento, come ha avuto modo di ricordare Lorenzo Vita su Analisi Difesa[34]: “l’incrociatore portaelicotteri Garibaldi è diventato infatti oggetto di un ampio lavoro di ammodernamento che rientra nel progetto “SIMONA” (Sistema Italiano Messa in Orbita da Nave). L’obiettivo di questa iniziativa è quello di studiare la possibilità che il Garibaldi venga impiegato come piattaforma di lancio per satelliti”, aprendo dunque alla possibilità di un rafforzamento delle capacità di accesso autonome del nostro Paese allo spazio e alla partita economica e geopolitica che ruota attorno ad esso[35].
La Marina è punta di lancia del progetto geopolitico del Paese, e unisce le prescrizioni del dato geografico (come diceva Antonio Gramsci[36], “perché uno Stato dovrebbe rinunziare alle sue superiorità strategiche geografiche, se queste gli diano condizioni favorevoli?”) a un’elaborazione coerente della sicurezza italiana nel contesto multipolare, in cui le questioni economiche sono debitamente tenuta in considerazione. A Palazzo Marina la politica deve guardare per costruire al meglio un’agenda mediterranea che sappia indicare i temi prioritari.
Conclusioni
Nella prefazione a L’Italia nel mondo, saggio a più voci edito dal “Circolo Proudhon” nel 2016 il giornalista Fulvio Scaglione faceva, con puntualità, notare: “L’Italia vive di una schizofrenia di fondo che la esalta e la deprime allo stesso tempo. Godiamo e patiamo di una posizione geografica decisiva nel Mediterraneo”, evocativamente definito “il mare dov’è cominciato tutto e dove tutto continua a svolgersi. Siamo esaltati e frustrati da una fantasia politica che vorrebbe mettere a frutto quel patrimonio e, quando trova il modo per farlo, deve poi render conto a potentati maggiori e vincoli ineludibili[37]”.
L’analisi di Scaglione è ancor più rilevante alla luce di quanto considerato in questa analisi, che ha presentato la salienza e il peso strategico degli interessi e delle opportunità cui l’Italia si trova di fronte nel teatro mediterraneo, scenario nel quale ha potuto performare al meglio solo nei casi in cui politica e mondo economico hanno avuto la forza di pensare la regione come un tutt’uno organico e agire facendo sistema. La lezione di Mattei, Fanfani, Moro è nota e deve guidare il ragionamento nazionale di politica estera: l’Italia, media potenza ben ancorata ai principali consessi globali, non può fare a meno di vedere nel suo spazio geografico e geopolitico di riferimento il teatro primario d’azione.
I decisori strategici della Prima Repubblica seppero individuare un set di priorità (sicurezza energetica, commercio, prevenzione del terrorismo, diplomazia multilaterale) attorno a cui costruire una seria e coerente agenda mediterranea. Oggi ciò che manca alla politica è proprio la capacità di fare altrettanto, proiettando questa visione in un’ottica di lungo termine. L’interesse nazionale del Paese passa per le acque agitate del “Grande Mare”, crocevia di appetiti, interessi e problematiche di ampia portata e al contempo proiezione del Paese sul mondo. Voltare le spalle al Mediterraneo sarebbe dannoso, operare nelle sue dinamiche in maniera superficiale creerebbe danni ancora peggiori. Serve, al Paese, un grande sforzo organico per riscoprire la propria identità mediterranea e, al contempo, valorizzare gli asset presenti per ottenere obiettivi politici.
Arrivando al nocciolo della questione, si noterà che le priorità non sono mutate dai tempi della Prima Repubblica: commercio ed energia, ad esempio, sono temi ancor più salienti in questa fase storica che vede il Mediterraneo snodo di primaria importanza, mentre a Roma risulterebbe estremamente benefico uno sforzo diplomatico e politico capace di ridurre le tensioni politiche nel teatro mediterraneo, per governare le quale, come abbiamo visto, gli strumenti e le dottrine di hard power, non mancano. A fare la differenza sono gli uomini, i decisori strategici e gli operatori sul campo: solo da una grande comprensione della priorità dell’agenda mediterranea potrà nascere una coscienza politica in grado di rendere, nuovamente, l’Italia attore di primo piano nel “Grande Mare”.
[Articolo disponibile anche su Academia.edu]
[1] È il caso della serie di studi geopolitici che fa riferimento alla “Scuola di Monaco” e ai lavori di Karl Hausofer cfr. Michel Korinman, Quand l’Allemagne pensait le monde. Grandeur et décadence d’une géopolitique, Fayard, 1990
[2] Espressione resa celebre da un omonimo libro del saggista David Abulafia la cui lettura è estremamente consigliata per capire la complessità del vissuto storico del Mediterraneo.
[3] Lucio Caracciolo, Proviamo a esistere, Limes 5/2018 “Quanto vale l’Italia”.
[4] Andrea Muratore,Interesse nazionale, storia, cultura, identità: la grande sfida di riunire l’Italia, Osservatorio Globalizzazione, 31 luglio 2020.
[5] Rapporto Srm (Gruppo Intesa Sanpaolo) sulla Italian Maritime Economy: il 90% delle merci viaggia via mare, Industria Italiana, 5 ottobre 2020.
[6] Ibid.
[7] Ibid.
[8] AA.VV., Geopolitica del mare, Mursia, Milano 2018, pag. 8.
[9] Luca Sisto, Matteo Pellizzari, Il ruolo dei traffici marittimi nel sistema economico nazionale in AA.VV, Geopolitica del mare, op. cit., pag. 69.
[10] La Cina mette nel mirino Trieste, Inside Over, 13 febbraio 2019.
[11] Alessandra Spalletta, Così la Cina cambierà e metterà l’Occidente alle strette. Intervista a Franco Frattini, Agi, 3 marzo 2018.
[12] Per Trieste il Presidente dell’Autorità Portuale, Zeno d’Agostino, ha parlato di un ritorno del Paese alle prospettive strategiche dell’età asburgica, cfr. Arvea Marieni,Da Pechino ad Amburgo. La svolta di Trieste spiegata da Zeno D’Agostino, Formiche, 1° ottobre 2020.
[13] Andrea Muratore, Il paradosso di Eni: sostenuta all’estero, frenata all’interno, Inside Over, 27 marzo 2019.
[14] Su Eni nel Mediterraneo rimandiamo all’esaustiva analisi pubblicata da Gianmarco Gabriele Marchionna per “Analytica” sul tema dell’energy diplomacy.
[15] Dai campioni nazionali al golden power: le prospettive della tutela del sistema-Paese,Osservatorio Globalizzazione, 7 aprile 2020.
[16] Gianni Bessi, Il governo Conte II è amico o nemico dell’oil&gas?, StartMag, 25 dicembre 2019.
[17] Vito de Ceglia, Energia: Italia sale l’import e la spesa pubblica aumenta, La Repubblica, 9 aprile 2019.
[18] La situazione energetica in Italia: si consolida il ruolo delle energie rinnovabili e diminuisce la dipendenza estera, Ministero dello Sviluppo Economico, 11 luglio 2019.
[19] Guido Dell’Omo, Ecco qual è il ruolo dell’Italia nella guerra fredda del gas, Inside Over, 19 novembre 2018.
[20] Giacomo Gambassi, Descalzi (Eni): la sfida nel Mediterraneo? Lo sviluppo dei popoli, Avvenire, 5 gennaio 2020.
[21] L’autore ha studiato la questione in Il grande gioco del gas naturale, Eurasia – Rivista di Studi Geopolitici, Anno XVII Numero 2, aprile – giugno 2020, pp. 93-100.
[22] Mirko Mussetti, Axeinos! – Geopolitica del Mar Nero, GoWare, 2019, pag. 102
[23] Jacopo Giliberti,Metano, sarà sfruttato dai greci il giacimento davanti alla Puglia, Il Sole 24 Ore, 25 settembre 2019.
[24] Lorenzo Vita,Che cos’è il Mediterraneo allargato, Inside Over, 31 luglio 2018.
[25] Alberto De Sanctis, La nuova giovinezza della marina italiana, Limes 7/2019 “Gerarchia delle onde”, pag.30.
[26] Ibid.
[27] L’interessante articolo di Maddaluno è reperibile sul secondo numero del 2020 di Eurasia cfr. Amedeo Maddaluno, La dottrina navale italiana nel Mediterraneo allargato, “Eurasia” 2/2020, pag. 85-92.
[28] Sul tema si consiglia la riflessione di Andrea Moretti, viceispettore della Polizia di Stato in servizio alla Direzione Centrale della Polizia di Prevenzione, Riflessioni sul concetto di sicurezza nazionale, pubblicato sul numero di gennaio 2020 di “Rivista Marittima”.
[29]“Le ultime notizie, in tal senso, arrivano dall’esercitazione avvenuta nelle acque del Golfo africano e a cui ha preso parte la fregata Martinengo. Una manovra congiunta con la nave della Marina americana Uss Hershel “Woody” Williams e due pattugliatori della marina della Costa d’Avorio. Un addestramento che solo a una prima lettura potrebbe apparire superfluo, ma che in realtà nasconde una strategia molto profonda da parte della Marina che entra in uno scenario particolarmente importanti per i flussi commerciali, per le aziende italiane che operano nell’area e in generale per la tutela delle rotte dalla pirateria” cfr. Lorenzo Vita, Le operazioni italiane nei mari infestati dai pirati, Inside Over, 2 ottobre 2020.
[30] Andrea Muratore, La Marina e l’interesse nazionale: intervista all’ammiraglio Sanfelice di Monteforte,Osservatorio Globalizzazione, 16 febbraio 2020.
[31] Amedeo Maddaluno, op. cit.
[32] Ben analizzato nel citato articolo di De Sanctis per Limes.
[33] Sul contenzioso italo-algerino sui confini della Zee cfr. Il mare della Sardegna non è in vendita, Unione Sarda, 6 febbraio 2020.
[34] Lorenzo Vita, Dal mare allo spazio un nuovo dominio per l’Italia, Analisi Difesa, 10 marzo 2021.
[35] Consigliato sul tema il saggio dell’ingegnere aerospaziale e analista geopolitico Marcello Spagnulo, “Geopolitica dell’esplorazione spaziale” edito da Rubbettino.
[36] Antonio Gramsci, Le Quistioni Navali, «Quaderni dal Carcere», Q. VIII, Passato e Presente, Torino, Einaudi, 1954, pp. 211-212.
[37] Fulvio Scaglione, prefazione a AA.VV, L’Italia nel mondo, Circolo Proudhon, Roma 2016, pag. 6.
FONTE: http://osservatorioglobalizzazione.it/dossier/interesse-nazionale/mediterraneo-italia-interesse-nazionale-marina-militare/
La fredda logica dei numeri, ovvero sangue e merda
(Piero Visani) – I simpaticissimi “democrats”, quelli che sono talmente laici da passare l’intera loro vita a fare sermoni al prossimo, pure a chi – come me – non va mai a messa, tanto meno alle messe “laiche”, sono soliti mettere a tacere qualsiasi tipo di contestazione nei loro riguardi (del resto si ritengono incontestabili a causa dell'”evidente superiorità morale” delle loro simpatiche teorie totalitarie e totalizzanti), ogni volta che si contesta loro qualcosa, poiché la considerano palesemente “lesa maestà”, chiedono con insistenza: “non criticate [sottinteso: è troppo democratico e dunque inaccettabile per noi neototalitari…] ma fate parlare le cifre!”
Eccole! Applicando le ricette economiche del Fondo Monetario Internazionale, quelle che “salvano” i Paesi facendo diventare tutti poveri e inducendoli al suicidio (un po’ come le ricette della UE, per dire…), l’Argentina dell’attuale presidente Mauricio Macri, l’uomo del “Washington Consensus” che avrebbe dovuto riportare il Paese alla stabilità economica e politica (tombale), in poco meno di quattro anni di mandato (cioè dal dicembre 2015 a oggi) può “vantare” il poco invidiabile record del 35,4% della popolazione sotto la soglia della povertà. Questo dato era al 29% all’inizio del suo incarico…! In Italia, l’universo mediatico titolerebbe di sicuro “grande successo del FMI!! Sconfitto il populismo peronista!!”. Spinto dagli USA e da tutto il mondo della finanza, delle banche, nonché da coloro che hanno inventato – con successo, occorre riconoscere! – il “sistema per uccidere i popoli”, Macri ha assolto con grande diligenza il suo incarico e, a fine anno, si prevede che i poveri argentini saranno oltre il 40% del totale della popolazione.
Ecco le nude cifre, che parlano da sé, mentre i ricchi e i ricchissimi restano tali, e tutti gli altri proseguono nella loro ininterrotta decrescita infelice.
Chi vivrà, vedrà. E suppongo che per alcuni potrà essere un bel vedere, per altri un po’ meno. Come sempre, tuttavia, occorrerà acclarare attentamente i ruoli, perché la politica non è solo merda, è anche sangue.
FONTE: http://informare.over-blog.it/2019/10/la-fredda-logica-dei-numeri-ovvero-sangue-e-merda.html
COSA È ANDATO A FARE MARIO DRAGHI IN LIBIA?
NON SOLO AFFARI E GESTIONE DEGLI SBARCHI – SUPERMARIO HA STRETTO UN ACCORDO DI “PAX PETROLIERA” CON MACRON: ENI E TOTAL SI SPARTIRANNO IL BOTTINO SENZA FARSI PIU’ LA GUERRA (LA FRANCIA HA SEMPRE PROVATO A SCIPPARCI TRIPOLI, ANCHE CON LA GUERRA DI SARKOZY A GHEDDAFI) – IL PORTAGIOIE DI BRIGITTE DEVE SCENDERE A PATTI CON L’ITALIA: NON PUO’ FARE IL GALLETTO PERCHE’ NON E’ CERTO DELLA RIELEZIONE…
8 APR 2021
1 – DAGONEWS
Cosa è andato a fare Mario Draghi in Libia? Si avvicina l’estate e a luglio è previsto il picco degli sbarchi: prevenire è meglio che curare. Il viaggio a Tripoli è un modo per “riattivare” la cooperazione per la gestione dei flussi migratori nel Mediterraneo, per i quali la Libia ha ricevuto centinaia di milioni di euro, tra finanziamenti e mezzi, dall’Italia e dall’Unione Europea, offrendo in cambio risultati modesti.
Visto che nelle prossime settimane, il Parlamento italiano dovrà votare per il rifinanziamento delle attività in Libia meglio mettere subito le cose in chiaro e far capire che a moneta deve corrispondere cammello. Non si sganciano milioni per assistere allo sbarco di migliaia di disperati sulle coste italiane.
I giornali hanno dato contezza degli affari che l’Italia sbloccherà con la Libia (dall’aeroporto di Tripoli alle autostrade). Quel che non è emerso è l’accordo Draghi-Macron per una pacifica “spartizione” del paese. La Francia ha sempre provato a portare la Libia fuori dall’area d’influenza italiana. Ci provò Sarkozy, fino a sconquassare l’area con una scellerata guerra a Gheddafi di cui il paese arabo ancora oggi paga le conseguenze. Ci ha riprovato Macron sostenendo le ambizioni del generale Khalifa Haftar, il “baffo forte della Cirenaica”, andando contro il governo di Fayez al Serraj riconosciuto dall’Onu e sostenuto dall’Italia.
I tempi, però, sono cambiati. Quel pippon di Macron vive una fase di debolezza interna, la rielezione è in bilico e la sua migliore alleata, la cancelliera Angela Merkel, è alla fine della sua luminosa carriera politica (concluderà il mandato a settembre). SuperMario – di cui Macron si fida a differenza di Conte amico dei “gilet gialli” – è invece fresco di insediamento, gode di grande autorevolezza internazionale, in Europa è ascoltato come un oracolo e dunque meglio scendere a patti. Draghi – agli occhi di Tripoli – s’è fatto garante della “pax libica” tra Italia e Francia. L’accordo prevede la fine della “guerra” tra Eni e Total per il petrolio libico: d’ora in poi si collaborerà (almeno fino al prossimo sgambetto).
2 – SI SBLOCCANO GLI AFFARI CHE FARANNO RICCA L’ITALIA
Fausto Biloslavo per “il Giornale”
Solo «l’autostrada della pace», fortemente voluta dal colonnello Gheddafi e Silvio Berlusconi, è un progetto da 5 miliardi di euro in 20 anni. L’aeroporto internazionale di Tripoli in mano al consorzio italiano Aeneas vale 100 milioni di euro. L’Eni fa la parte del leone con la prospettiva di nuove esplorazioni del forziere di petrolio e gas libico ferme al 30% delle potenzialità. Leonardo potrebbe vendere elicotteri di sorveglianza e soccorso una mare e assemblarli in Libia E le piccole-medie imprese italiane hanno la possibilità di tornare ai fasti di un tempo quando in Libia operavano 150-200 aziende italiane.
Il consorzio Aeneas è un gruppo di cinque aziende Italiane specializzate nella realizzazione di terminal aeroportuali chiavi in mano con tremila dipendenti. I lavori per il nuovo scalo internazionale di Tripoli erano iniziati nel 2017, ma l’assedio della capitale delle truppe del generale Khalifa Haftar, aveva bloccato tutto. Adesso i lavori possono riprendere e le lettere di credito sono già state sbloccate.
L’investimento è di 79 milioni di euro, compresi i 20 già saldati, ma con i lavori extra si arriverà ad un centinaio di milioni. La visita di Draghi è «essenziale per i rapporti Italia-Libia e per tutte le aziende» di casa nostra che «hanno bisogno di un ombrello politico adeguato», ha dichiarato ieri Elio Franci, presidente di Aeneas. A causa dell’assedio di Tripoli le imprese italiane in Libia sono ridotte al lumicino, neanche una decina. Il paese, per uscire dal tunnel, ha bisogno di strade, porti, scuole, ospedali.
SCHERMATA 2021 04 06 ALLE 19.36.27
«Le aziende che sono state in Libia vogliono tornare e abbiamo tante società nuove che pensano di entrare. Ora è il momento», assicura il presidente della Camera di commercio italo-libica, Gian Franco Damiano. In prospettiva le pmi possono lavorare anche in nuovi comparti come i prodotti alimentari, l’arredamento e l’abbigliamento. Il Fondo monetario internazionale prevede per la Libia nel 2021 un incremento del prodotto interno lordo del 131 per cento, se continuerà la pacificazione.
Il mega progetto dell’autostrada lungo la costa della Tunisia all’Egitto di 1750 chilometri del trattato di amicizia del 2008 firmato da Gheddafi e Berlusconi è un punto di partenza per il nuovo premier libico Abdelhamid Dabaiba. L’investimento è stato suddiviso in quattro lotti più brevi da 200 milioni di euro ciascuno. Le italiane in prima fila per la realizzazione sono Anas e Salini Impregilo.
MARIO DRAGHI E ABDUL HAMID MOHAMMED DBEIBEH
La parte del leone spetta all’Eni, che non ha mai lasciato il paese. Gli italiani sono interconessi con la Noc, la compagnia energetica libica, soprattutto nella gestione di Mellita, il grande impianto ad ovest di Tripoli che pompa gas libico verso al Sicilia (dove lavora anche la Bonatti). L’Eni è impegnata nello sfruttamento del giacimento di El Feel, 800 chilometri a sud della capitale, ma punta a giacimenti vergini.
«L’esplorazione di nuove riserve di olio e gas è ancora al 30% del potenziale, considerando quelli nel centro sud del paese e la possibilità dello sviluppo offshore», spiega al Giornale Michele Marsiglia di Federpetroli. E Saipem ha buone prospettive a Bengasi, feudo di Haftar. Leonardo, oltre agli elicotteri, potrebbe rimettere mano ad un progetto di Finmeccanica, che era già partito, ma le prime forniture sono state distrutte dalla rivolta contro Gheddafi. Per il controllo del poroso confine meridionale, porta d’ingresso dei trafficanti di uomini, la Ue sarebbe disponibile ad investire in nuove tecnologie come sensori laser e droni in grado di sorvegliare migliaia di chilometri di deserto. Il costo è di 300 milioni di euro.
MARIO DRAGHI E ABDUL HAMID MOHAMMED DBEIBEH
Nei primi sei mesi del 2020 l’interscambio tra Italia e Libia arrancava attorno ad 1,17 miliardi a causa del conflitto. Adesso c’è la possibilità di tornare ai fasti del 2012 quando superava i 15 miliardi. L’Italia può diventare capofila della rinascita libica anche per la sanità a pezzi. I black out che tormentano le grandi città libiche potrebbero venire evitati da un poderoso intervento dell’Enel.
L’Eni vuole investire nelle energie rinnovabili con impianti a pannelli solari per ospedali, edifici pubblici, industrie in un paese dove il sole non manca. «Come Camera di commercio – spiega il presidente Damiano – stiamo preparando con un gruppo di aziende, una task force su alcuni settori come quello ambientale, l’agricoltura, perché il Sud della Libia consente coltivazione anche di primizie». Un’alternativa concreta per tanti giovani libici «impiegati» con il kalashnikov dalle milizie.
TOTAL ENIGLI AFFARI DI ENI E TOTAL IN LIBIAMARIO DRAGHI EMMANUEL MACRON 2
FONTE: https://www.dagospia.com/rubrica-3/politica/cosa-andato-fare-mario-draghi-libia-non-solo-affari-266329.htm
POLITICA
Rilanciare la cultura dell’interesse nazionale: una sfida chiave
Le dinamiche della globalizzazione hanno, nel corso dell’ultimo quarto di secolo, più volte spiazzato un’Italia ritrovatasi molto spesso impossibilitata a comprendere quali fossero le sue prospettive, le sue priorità e, soprattutto, le sue potenzialità nell’approccio agli eventi del mondo.
A ignorare, in altre parole, la definizione delle linee guida a cui dovrebbe conformarsi l’interesse nazionale, espressione troppo spesso abusata ma che di fatto è definibile, in maniera chiara, come la somma delle priorità della politica estera di un Paese, del loro rapporto con le principali dinamiche economiche e sociali e degli strumenti di cui l’apparato politico si dota per poterle realizzare concretamente.
“Per varcare la linea d’ombra”, ha scritto Lucio Caracciolo nell’editoriale d’apertura al numero di Limes di aprile 2017, “dobbiamo emanciparci dall’idea che il nostro interesse nazionale consista nel non averne, salvo aderire a quello, tra gli altrui, che ci pare prevalente”: in questa osservazione di Caracciolo è riassunto, in maniera convincente, il vulnus principale del nostro Paese, ovvero il decadimento della cultura del pensiero strategico.
Riflessioni sull’Italia che non sa più “pensare” l’interesse nazionale
Le direttrici tradizionali su cui la geopolitica italiana si è imperniata nel secondo dopoguerra, quella atlantico-continentale e quella mediterranea, sono state progressivamente abbandonate da Roma che, se sul primo fronte ha, con diverse intensità, optato per il docile appiattimento linee fissate dagli Stati Uniti in campo Nato e dalla Germania in sede comunitaria, nel secondo è andata letteralmente in corto circuito, come ignorando che nel Mare Nostrum abbiamo la prima linea della nostra proiezione nel mondo.
Questa tesi è condivisa da Guido dell’Omo e Leonardo Palma, che in un recente, interessante articolo pubblicato su Nazione Futura hanno invitato a un ripensamento completo dell’approccio italiano alla politica estera e al concetto stesso di “interesse nazionale” e segnalato la mancanza, in Italia, di una classe dirigente e di figure capaci di “affrontare al meglio le sfide epocali che si prospettano cercando contemporaneamente di tutelare l’interesse, la storia, la cultura del proprio popolo e della propria nazione”.
“Qui si parla di mancanza di visione”, aggiungono i due autori. “Nessun politico italiano sa che tipo di Italia desidera nel concreto. L’Italia non è più in grado di formare classe dirigente; ha smesso di produrre statisti. E di questi c’è bisogno per capire che ruolo poter ritagliare per l’Italia in un mondo che vede sfide e opportunità enormi. La classe politica non è attrezzata culturalmente, politicamente e moralmente per elaborare una politica estera coerente e di ampio respiro”.
A dell’Omo e Palma fa eco l’analisi puntuale di Alessandro Sansoni che su Il Giornale ha aggiunto un’ulteriore pregiudiziale sfavorevole al nostro Paese, ovvero l’assenza di interesse per le tematiche internazionali tanto nel contesto mediatico quanto nel dibattito pubblico. “Si tratta di una patologia che inquina il dibattito ed impedisce all’opinione pubblica di farsi un’idea chiara in politica estera. […] solo in casi eccezionali i quotidiani dedicano più di un paio di pagine agli esteri. A ciò va aggiunto l’approccio dei media mainstream: sempre ideologico, orientato alla ricerca dei buoni e dei cattivi, mai a un’analisi razionale dei fatti in una prospettiva collegata all’interesse nazionale […] Talvolta i giudizi veicolati sono così smaccatamente contrari ai nostri interessi da far pensare che ci sia malafede. In realtà c’è un problema più profondo: dalla fine della Seconda Guerra Mondiale in Italia è stato considerato equivoco qualunque atteggiamento patriottico e messa al bando la formazione geopolitica delle classi dirigenti e degli intellettuali. Mancano insomma gli strumenti culturali per pensare l’interesse nazionale”.
Mancanza che si inserisce in un quadro di mediocrità divenuto oramai generale in cui forte è la necessità per una nuova cultura politica e partitica che ponge i presupposti per una rifondazione della Repubblica. A questo tema si è dedicato, di recente, Ernesto Galli della Loggia: “La democrazia italiana ha bisogno di un forte richiamo a un impegno nazionale comune”, da attuarsi attraverso una nuova cultura politica che superi la palude in cui quella attuale è intrappolata e in cui non si trova spazio per qualsivoglia ragionamento organico di lungo termine.
Le prospettive dell’Italia
Galli della Loggia inserisce il rilancio della politica italiana in un contesto di “rifondazione della Repubblica”. L’interesse nazionale e la politica estera hanno come presupposto l’ordinato funzionamento dello Stato e del sistema-Paese. E oramai non è solo la politica a latitare: Giuseppe Berta, nel suo fondamentale saggio Che fine ha fatto il capitalismo italiano?, ha sottolineato le responsabilità del mondo imprenditoriale italiano nella transizione di sistema verificatasi agli albori della globalizzazione post-Guerra Fredda.
Le prospettive strategiche dell’Italia devono fondarsi, in primo luogo, sulla realpolitik e su un equilibrato bilanciamento della relazione tra obiettivi e capacità disponibili per concretizzarli: in questo contesto, la globalizzazione offre per noi opportunità importanti all’Italia, “Paese strategico che rifiuta di esserlo”, come ha scritto il già citato Caracciolo. Il posizionamento al centro del Mediterraneo, lo storico rapporto di buon vicinato con la Russia e la crescita delle ambizioni economiche cinesi ci permetterebbero, se volessimo, di ottenere ottimi risultati senza mettere in discussione il solido ancoraggio occidentale, che non può risolversi nel mero ondeggiare tra Berlino e Washington ma deve evolversi attraverso la lettura dei vari scenari in cui l’Occidente è coinvolto in chiave della massimizzazione dell’interesse nazionale.
In questo contesto, è interessante la lettura data da Virgilio Ilari sull’ultimo numero di Limes di quella che dovrebbe essere la via maestra su cui sviluppare le politiche di consolidamento dell’interesse nazionale, ovvero la valorizzazione della “funzione geoeconomica dell’Italia, in cui la Penisola diventa il segmento centrale di una linea di comunicazione globale Est-Ovest […] La grande Farnesina della gloriosa Prima Repubblica pilotata dall’Eni si avvicinava alla realtà, con la metafora dell’Italia “crocevia” tra Est e Ovest (e tra Nord e Sud”. Uno spunto che basta a farci capire come la prima linea della partita per il rilancio dell’Italia si giochi, di fatto, sull’acquisizione di un sistema di infrastrutture, portuale e ferroviario in primo, degno per una strategia di così ampio respiro che massimizzerebbe l’ampiezza dei limitati spazi di manovra dell’Italia”.
FONTE: https://aldogiannuli.it/rilanciare-la-cultura-dellinteresse-nazionale/
SCIENZE TECNOLOGIE
Vaccini pesantemente inquinati
Stefano Montanari – 11 04 2021
VIDEO QUI: https://www.facebook.com/watch/?v=902948950501997
FONTE:https://www.facebook.com/watch/?v=902948950501997
La spiegazione più semplice dell’imbroglio della “pandemia”, del Lockdown e della vaccinazione
basterebbe solo questa intervista al prof. Remuzzi (e qualche dato) per rivelare tutto il colossale imbroglio della pandemia e dei vaccini
Per la prima volta nella storia della medicina moderna si è trattata una malattia come qualcosa di cui non sono responsabili il medico (e la struttura ospedaliera) e il paziente, ma tutta la società.
Se dei pazienti di 82anni muoiono, che siano stati curati bene o male o che fossero già predisposti da altre patologie a morire se prendono una polmonite, milioni di italiani allora non possono come conseguenza uscire di casa. Se in alcuni ospedali c’è sovraccarico di lavoro, si impedisce allora di andare a scuola, dagli asili fino all’università. Se aumentano da 20mila all’anno a circa 100 mila l’anno gli anziani che muoiono di una polmonite, non ci si chiede se la cura sia sbagliata, ma si blocca mezza economia, si fa crollare il PIL del 10% e si indebita per 200miliardi lo Stato.
Succede quindi il contrario di quello che si è sempre fatto. I medici sono sempre stati responsabili dei malati come gli ingegneri dei ponti o i banchieri dei crac finanziari, ognuno faceva il suo lavoro e se c’erano molti decessi o i ponti crollavano o c’era una crisi finanziaria ogni categoria doveva preoccuparsi di risolvere il proprio problema tecnico (nel caso della società Autostrade e dei banchieri incriminando anche i responsabili…).
Con il Covid invece tutta la società deve pagare un prezzo e sacrificarsi per salvare i malati e aiutare i medici “che non ce la fanno”. Finora erano i medici che salvano i malati e se le risorse non erano sufficienti se ne stanziavano di più. Adesso invece milioni di persone, le quali dovrebbero studiare o lavorare (e anche ogni tanto potersi rilassare) vengono ritenute indirettamente colpevoli se il paziente muore in ospedale. Invece di produrre semmai più beni e servizi per avere i soldi da stanziare per gli ospedali, si fa ridurre il PIL prodotto del 10% e si stampa moneta per tappare il buco.
La giustificazione che danno gli esperti del governo e i media che tutto il paese debba essere mobilitato, come in guerra.
In realtà è l’opposto di quello che si fa in guerra, dove una minoranza di giovani maschi adulti si sacrifica per evitare che il paese venga saccheggiato, l’economia depredata, lo Stato sottomesso. Anche qui si sacrificano i giovani, tanto è vero che 50 mila nascite in Italia sono venute a mancare causa il Lockdown, ma per far depredare parte dell’economia a favore di multinazionali estere. Nelle guerre di una volta si mandavano a combattere i giovani e adulti per evitare il saccheggio del paese. Qui gli si dice di stare in casa e non riprodursi perchè il nonno di 82anni potrebbe non arrivare a 83 anni se escono di casa.
Quello che avviene da un anno è il contrario di quello che è sempre stato naturale nella storia
Perchè ? Siamo nel mezzo di una “pandemia” hanno detto l’OMS e poi le autorità sanitarie, la prima vera pandemia in un secolo. Le malattie sono endemiche, ma qui l’evento è “pandemico”, cioè può espandersi tramite il contagio se non viene fermato.
L’unica altra pandemia che si è verificata in tempi moderni in modo tale da richiedere misure straordinarie è stata la “Spagnola” del 1918-19, che fece stragi tra i soldati alleati e tra i giovani. Nel caso della Spagnola la mortalità media nel mondo era superiore al 50%.
Con il Covid, la mortalità media nel mondo (detta “IFR” infection fatality rate), calcolata ad esempio dallo studio OMS di John Ioannidis del 26 marzo è lo 0,15%, cioè ogni 10mila persone contagiate ne muoiono 15 (all’anno).
In Italia questa mortalità è significativamente più alta della media mondiale. Il che fa pensare a problemi inerenti al nostro sistema sanitario. Ma anche in Italia, come mostra Istat, la mortalità è calata nel 2020 per le persone sotto i 50 anni. L’età media di chi muore di Covid è 81 anni in Italia o UK e in America è 77 anni, cioè esattamente l’età media di chi muore per ogni altra causa. I morti “Covid” sono per il 90% malati di almeno una patologia e nell’80% dei casi di almeno due patologie.
La Spagnola, avendo una mortalità del 50% e colpendo tutti, giovani e adulti, ERA UNA PANDEMIA.
Il Covid, con una mortalità dello 0.15% e colpendo in media gli 80enni NON E’ UNA PANDEMIA.
L’unico caso di pandemia in tempi moderni è stato nel 1919 e faceva morire più di metà dei contagiati, soprattutto giovani. Il Covid fa morire, in media, 1 persona su 1,000 all’anno e sono decessi di persone malate e anziane. Dov’è la “pandemia” ? La discussione potrebbe anche finire qui. Non è una pandemia, nel mondo i morti sono intorno a 1 decesso su 1,000 all’anno. concentrati tra le persone con aspettativa di vita di pochi anni. I problema è come curarli meglio, perchè in Austria o Germania, Scandinavia o Giappone hanno 1/3 o 1/10 dei decessi che abbiamo in Italia. Ergo, è un problema di assistenza sanitaria.
Perchè in Italia e alcuni altri paesi occidentali nel 2020 ci sono stati più morti del solito ? (tra gli anziani già molto fragili o adulti malati). In Italia ci sono oscillazioni di mortalità da un anno all’altro fino a 50mila morti in più l’anno, ma nel 2020 l’oscillazione è stata di circa 100mila decessi in più.
Questo problema dovrebbe riguardare i medici e le strutture sanitarie, come quando crolla il Ponte di Genova la questione riguarda i tecnici e la società che lo gestisce.
Quando però l’OMS, su pressione della Cina, ha dichiarato la “Pandemia”, questo ha dato il pretesto alle autorità (occidentali (perchè in Asia non si sono fatti imbrogliare), di ostacolare la cura i pazienti da parte dei loro medici nel modo che si è sempre fatto. Da mesi vanno infatti dai pazienti Covid arrivano le “USCA”, cioè un medico neolaureato e un infermiera che misurano l’ossigeno, fanno il tampone e ritornano dopo due giorni seguendo la linea guida del Ministero della “vigile attesa”. Nel caso poi peggiori chiamano l’ambulanza.
Gli 80 o 100mila decessi in più ci sono stati perchè I POLITICI E LA BUROCRAZIA DEL MINISTERO hanno dichiarato la “pandemia” (come in Wuhan) e scavalcato i medici. L’intervento della burocrazia ministeriale ha ostacolato i medici che potevano semplicemente curare il proprio paziente in base alla loro esperienza.
Allo stesso tempo, tutta l’attenzione del governo e dei media è sulla (falsa) “Pandemia” che minaccia “tutti” e richiede che 60 milioni di italiani smettano di vivere normalmente. I media e gli esperti che appaiono sui media insistono anche dopo un anno di Lockdown che occorre sacrificare (una parte) della società e milioni persone non devono fare una vita normale perchè è come se si fosse in guerra.
E’ però una guerra alla rovescia, dove infliggi volontariamente danni alla società e all’economia per favorire multinazionali, perlopiù più estere. E tra queste in particolare le multinazionali farmaceutiche, che sono i maggiori finanziatori dei politici americani e riempiono le TV e giornali di pubblicità di farmaci (solo in USA lo si può fare).
Il piccolo segreto è che se si lasciasse che i medici curassero i pazienti ognuno in base alla propria esperienza non si potrebbe vaccinare. Se si tratta di una malattia che è curabile e che causa un aumento di mortalità tra gli 80enni, non ha senso vaccinare tutti gli adulti e persino i giovani che non sono a rischio. Per cui le autorità USA e europee dichiarano che non esistono cure e terapie, che “non esiste evidenza scientifica” di terapie valide. Anche se nel mondo ci sono testimonianze di medici e studi che dimostrano il contrario
Una delle tante testimonianze pubbliche, presso il Parlamento dello Stato dell’Idaho, di medici che spiegano che le terapie esistono è questa
In USA è però contro la legge approvare un vaccino se esiste una cura valida. Per cui le autorità USA, CDC e simili, non hanno finora mai indicato che esistono farmaci validi contro il virus. Solo in questo modo è stato possibile far approvare i vaccini. Se avessero indicato agli ospedali americani che una combinazione di vitaminaD e idrossiclorochina, o di anti-infiammatori+cortisone e eparina o la ivermectina erano valide (adottate precocemente), automaticamente non avrebbero potuto approvare i vaccini. Per legge si vaccina solo quello che non è curabile. Quindi le autorità USA, il cui budget (CDC, agenzie del farmaco…) è per metà finanziato dalle società farmaceutiche, hanno evitato sempre di indicare che esistevano cure valide. L’OMS è finanziata per il 10% dal solo Bill Gates e per un altro 50% da case farmaceutiche e l’Agenzie Europea del Farmaco pure riceve finanziamenti da Astra Zeneca, Merck. Glaxo, Pfizer…
SE CI FOSSERO LINEE GUIDA CHE INDICANO UNA TERAPIA, NON SI POTREBBERO APPROVARE I VACCINI
Dietro a tutto questo c’è la questione che i vaccini porteranno almeno 100 miliardi l’anno di fatturato (dopo luglio si possono aumentare i prezzi, e se si vaccinano 4 miliardi di persone all’anno per circa 30-40$ a vaccino arrivi oltre 100 miliardi). Questo è un business con margini di profitto del 25% o 30% se leggi le conference call di Pfizer con gli analisti di borsa ad esempio. Le case farmaceutiche sono le principali finanziatrici oltre che della Food and Drug Administration, anche dei politici USA. Dato poi che possono fare pubblicità (solo in USA succede!) hanno influenza sui giornali e TV, per cui è impossibile in USA che si ospitino critiche ai vaccini sui giornali e TV.
VACCINI ?
[La vaccinazione di massa di un intera popolazione, miliardi di persone al mondo, per un virus respiratorio è un ESPERIMENTO, per il semplice motivo che non lo si è mai fatto nella storia finora. Nel caso dell’altro coronavirus, la Sars del 2002-2003, furono elaborati 30 vaccini da una dozzina di case farmaceutiche e 4 furono scelti per test su animali. I risultati sui furetti furono che inizialmente i sintomi sparivano perchè la risposta immunitaria era molto buona, ma successivamente i furetti che prendessero il virus morivano tutti. Per cui la sperimentazione di questi vaccini fu sospesa. Nel caso della “influenza suina” pure furono sviluppati vaccini, ma l’unico paese che decise per una vaccinazione di massa fu la Svezia. La “suina” però non si diffuse dal Messico e USA in Europa e ci fu un epidemia di narcolessi in Svezia durata due anni. In sostanza gli svedesi si vaccinarono inutilmente perchè l’influenza suina non faceva più morti ed ebbero invece effetti collaterali avversi di narcolessi di massa.
Nel caso del Covid, la sperimentazione su animali è stata saltata per “l’emergenza” e si è sperimentato su un campione di adulti non malati e tra cui, nel caso di Pfizer e Moderna ad esempio, non c’erano anziani sopra gli 80 anni. Nel campione placebo non ci sono stati nè decessi nè ospedalizzazioni per cui non è provato quanto il vaccino le riduca. Per evitare complicazioni le case farmaceutiche hanno scelto soggetti non a rischio, perchè se qualcuno nel campione vaccinato moriva poi avevano ritardi nell’approvazione. Ma non è morto o è stato veramente male nessuno neanche nel campione placebo
Di conseguenza non si può sapere in che misura eviti i decessi di 80enni e neanche se eviti il contagio. Come si legge in questi giorni, ci sono infatti centinaia di casi di persone vaccinate che risultano positive ai tamponi. In sostanza, la vaccinazione può essere utile per chi si senta a rischio in base all’età e altre patologie vaccinarsi, come ci si vaccina per l’influenza. Ma in base alle esperienze passate di vaccinazione e in base ai test presentati finora ha diverse incognite e rischi. Non può essere considerata la soluzione essenziale per l’economia e la società, quando invece appunto i pazienti Covid si possono semplicemente curare. Quello che si è fatto finora, in occidente, è ostacolare la cura dei pazienti per favorire a tutti i costi la strategia della vaccinazione di massa ]
Il prezzo pagato è stato, in America come in Italia, che le autorità hanno indicato “linee guida” agli ospedali per le quali non c’erano cure valide e si doveva aspettare, nei primi giorni, per vedere se il malato peggiorava (la “vigile attesa” in Italia). Questa politica ha causato decine di migliaia di morti.
Tutto l’imbroglio è evidente mettendo assieme i dati di mortalità, i dati degli studi effettuati in tutto il mondo su farmaci appunto come l’ivermectina e anche alcuni dati economici come quelli citati. E’ essenzialmente un problema di leggere dati, una cosa che può fare chiunque legga l’inglese e abbia qualche rudimento di statistica elementare.
Per una persona che non abbia tanto tempo da spendere a verificare dati come quelli citati, è possibile però semplicemente leggere, in mezzo alle centinaia di articoli penosi della stampa italiana, alcune interviste a medici, italiani e stranieri. Ad esempio questa intervista al prof Remuzzi (vedi sotto). Il quale professore candidamente spiega che nella sua struttura hanno curato con un semplice anti-infiammatorio, in modo tempestivo, da maggio i pazienti. In più però hanno effettuato anche uno studio e lo hanno pubblicato nonostante il boicottaggio del Ministero
Hanno confrontato un centinaio di pazienti Covid curati da loro con altri per i quali si seguiva invece la linea guida del Ministero di “attesa”, cioè non fare niente i primi giorni e intervenire solo quando il malato peggiori (quando è troppo tardi). . Notare anche che non hanno potuto fare anche lo studio classico con due campioni fin dall’inizio, che poi viene pubblicato, solo perchè il Ministero lo ha vietato (!).
Nello studio del prof. Remuzzi su 90 persone solo 2 vanno in ospedale. 2 rispetto a 13 tra quelli trattati come dice il Ministero.
Questo significa, riportato su scala nazionale, che potevi ridurre i morti Covid da 120 mila circa a meno di 20 mila (da 13 a 2….). Questa intervista dovrebbe essere sulla prima pagina del Sole, Corriere, Repubblica e in apertura dei TG fino a quando il governo e i politici non siano costretti a nominare Remuzzi in sostituzione dei personaggi che hanno gestito finora.
Ma andiamo avanti. Come aggiunge ancora Remuzzi, l’influenza e polmonite fanno 20mila morti l’anno e non creano emotività.
Da quando però c’è il Covid, l’influenza e polmoniti sono sparite. Sono state sostituite, forse, dal Covid, come riportano l’OMS e tutti gli osservatori dei virus influenzali esistenti nel mondo.
Di conseguenza, se curato da medici in base allo loro esperienza, come hanno fatto quelli che collaborano con Remuzzi (e anche altri gruppi di medici), il Covid avrebbe causato solo 20 mila morti. Cioè avrebbe avuto un impatto uguale all’influenza, sostituendola in pratica nelle statistiche di mortalità degli anziani.
Non si sta qui dicendo che il Covid sia “solo l’influenza” o che la sua mortalità sia uguale. Ma se curato in modo appropriato, l’esperienza di molti medici dimostra che in pratica il problema si riduce ad uno simile a quello dell’influenza e polmoniti. Questo è dimostrato dal semplice studio retrospettivo effettuato dal gruppo di Remuzzi, descritto nell’intervista che segue
La verità esce tutta semplicemente anche solo leggendo questa intervista. Se i medici avessero curato questa infezione respiratoria in base alla loro esperienza, i morti sarebbero stati probabilmente l’80% in meno. Questo in base all’esperienza fatta non solo da questo gruppo dell’Istituto Mario Negri, ma da tanti altri gruppi di medici italiani (Stramezzi, Mangiagalli, Ippocrate.org…) e anche stranieri. Si cita qui Remuzzi solo perchè è più noto e ha potuto anche far effettuare uno studio statistico valido.
Se il Ministero, il CTS e le autorità sanitarie non avessero quindi fatto NIENTE di tutto quello che hanno fatto, dopo il mese di marzo il problema del Covid sarebbe diventato gradualmente simile a quello della polmonite e influenza stagionali.
Può essere che occorresse qualche mese per adattarsi, perchè a Bergamo o Piacenza c’era una situazione eccezionale in marzo. Può essere che solo ad esempio da maggio si poteva essere pienamente convinti delle terapie precoci descritte. Sicuramente però in autunno si sarebbe potuto trattare i pazienti precocemente con anti-infiammatori , salvandone così in media 11 su 13 (come dimostra Remuzzi e il suo team nello studio e descrive nell’intervista).
In Giappone ad esempio, non hanno quasi effettuato tamponi (solo 60mila per 1 milione di abitanti contro 810mila per milione in Italia, se guardi le statistiche). Non è quindi vero che il Covid è sparito perchè gli asiatici “tracciavano tutti” come si racconta, visto che facevano pochissimi tamponi. Lo studio di Ioannidis citato sopra indica che, in studi a campione serologici, la diffusione del Covid tra il personale sanitario a Tokio ad esempio, risultava molto alta. Evidentemente in Giappone non hanno “soppresso” il virus con Lockdown o tracciato ogni singolo “caso” con milioni di tamponi. Probabilmente si sono concentrati a curare i pazienti per il resto seguendo un approccio simile alla Svezia (e a diversi stati americani).
Tutto il colossale imbroglio della pandemia avrebbe potuto finire in aprile-maggio, esattamente come è finito in tutta l’Asia a quell’epoca.
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(INTERVISTA al Prof Remuzzi, direttore istituto Mario Negri)
….il Professore Fredy Suter, e da un gruppo di medici che hanno lavorato con lui e con noi: fin dall’inizio avevano l’idea che la malattia di Covid-19 si potesse curare a casa nelle fasi molto precoci, fin dai primi sintomi, senza aspettare il tampone, semplicemente come si cura qualunque infezione delle alte vie respiratorie e cioè con degli antinfiammatori”.
“Hanno trattato tanti pazienti, secondo loro nessuno di questi pazienti aveva bisogno di ospedale e riuscivano a curarli tutti a casa. Naturalmente non è un fai da te, ci vuole che il medico visiti il paziente o comunque si occupi del paziente e lo segua. E’ una terapia che si modifica nel corso dei giorni a seconda di come evolve la malattia, però i risultati erano molto buoni.
“L’unico studio che potevamo fare era retrospettivo, cioè andando a vedere come erano andati dei pazienti, trattati con antinfiammatori ai primi sintomi, che avevamo selezionato per essere identici a un altro gruppo che abbiamo trattato con sistema tradizionale, cioè con vigile attesa e tachipirina. Non potevamo fare uno studio prospettico, cioè reclutando un certo numero di pazienti a un trattamento e randomizzandoli a un altro trattamento perché al Ministero della Sanità avevano già stabilito delle linee guida per i medici e il comitato etico non ha acconsentito. D’altra parte però noi abbiamo dato un razionale farmacologico molto forte a quello che proponevamo e questo è stato il contributo del Mario Negri.
Utilizziamo infiammatori, in particolare Celecoxib perché abbiamo trovato un forte razionale in tutta la letteratura internazionale per la capacità di Celecoxib di inibire una serie di mediatori dell’infiammazione. In altre parole eravamo certi della sua efficacia per evitare l’iiperinfiammazione da una parte e la conseguente attivazione del sistema immunologico. E poi Nimesulide, che ha le stesse proprietà. Questi non sono farmaci da utilizzare fai da te, voglio ribadirlo, ma sotto osservanza medica. In alternativa utilizziamo l’aspirina e questo per i primi 6-8 gg. Questa somministrazione avviene in fase precoce, alla comparsa dei primi sintomi. Poi si fanno degli esami in laboratorio dopo 8-10 gg, se ci sono segni di eccessiva infiammazione si somministra cortisone, mai prima di 8 giorni, e poi eventualmente eparina nel caso ci siano segni di attivazione della coagulazione.
Da un certo punto in poi abbiamo seguito 90 pazienti che avevamo curato con antinfiammatori e di cui avevamo tutte le informazioni e li abbiamo confrontati con 90 pazienti identici curati come si fa di solito, con tachipirina e vigile attesa.
Che ci hanno permesso (ed è la forza di questo studio) un confronto perfetto, perché i due gruppi di pazienti sono identici per età, sesso, comorbilità, malattie cardiovascolari, diabete, sovrappeso, sintomi, febbre, mialgia, dispnea, dolore toracico… Insomma tutto era uguale, caratteristiche e sintomi all’esordio.
Sì, 90% di riduzione dei giorni di ospedalizzazione e 90% di riduzione dei costi è una cosa che la comunità medica deve sapere secondo noi, subito. La durata dei sintomi non si riduce rispetto alla cura tradizionale, è uguale. Ma l’obiettivo secondario che ci eravamo prefissati è centrato: 2 ospedalizzazioni su 90 con la nostra cura; 13 su 90 nei pazienti trattati con cura tradizionale. Tutto questo è nello studio che adesso è pubblico, in preprint, in attesa di essere pubblicato ufficialmente su una rivista scientifica.
Ogni medico è giusto che parta da quello che ritiene opportuno rispetto al paziente che ha davanti. Il nostro sarà uno dei tanti studi a cui il medico può riferirsi: è il nostro contributo. Ma ribadisco che questa terapia ha bisogno di un intervento precoce. In generale non sono d’accordo con la “vigile attesa” perché il virus si moltiplica moltissimo nei primi 6 giorni dall’inizio dei sintomi, poi la moltiplicazione diminuisce e subentrano altre cose.
Oltre agli antinfiammatori da noi utilizzati c’è allo studio presso l’ospedale di Negrar, vicino Verona, l’uso dell’Ivermectina, ad esempio. I risultati non li sappiamo ancora, ma non mi meraviglierebbe se funzionasse altrettanto bene degli antinfiammatori che utilizziamo noi, dato molto precocemente. Anche gli anticorpi monoclonali funzionano se vengono dati entro 10 gg dall’inizio della malattia, altrimenti non funzionano più. Ma l’Ivermectina non è in vendita nelle farmacia, è un preparato galenico, gli anticorpi monoclonali sono molto complessi e molto costosi per questo li danno alle persone che arrivano in certe condizioni al Pronto Soccorso. Quello che proponiamo noi, invece, è una terapia semplice e si può somministrare facilmente, naturalmente sempre dopo giudizio clinico del medico.
—————————- (intervistatore che finalmente capisce…)
Mi sta dicendo che se avessimo utilizzato una cura in fase precoce, senza attendere il tampone, probabilmente non saremmo arrivati a questo punto? Non avremmo avuto ospedali pieni e le conseguenze che vediamo tutti i giorni? ———————————
Questo non glielo posso dire io. E’ molto bello, ma molto impegnativo da dire: se fosse così significherebbe che bastava poco per avere un andamento diverso, ma non voglio assolutamente dire questo. Posso solo dire che noi abbiamo avuto in termini di pratica clinica questi risultati. Questo è uno studio che ha dei limiti perché è retrospettivo, anche se siamo già partiti con uno studio prospettico. Però per quanto sia retrospettivo, il numero dei pazienti è giusto, perché è stato calcolato dai nostri statistici per essere in grado di darci una differenza significativa in uno di questi obiettivi qualora ci fosse. E in effetti c’era e la differenza è enorme nell’ospedalizzazioni.
Serve l’attenzione assoluta da parte delle persone, perché distanziamento e mascherina se fatte bene sono anche più importanti del lockdown. Servono delle cure possibilmente semplici che funzionino, magari se ne troveranno altre. Poi c’è il vaccino che è importante, ma non arriva dappertutto e poi c’è l’immunità di chi ha già contratto il virus che consente di avere degli anticorpi. Di recente in uno studio pubblicato su Nature si è scoperto che la variante sudafricana produce anticorpi capaci di combattere qualunque tipo di variante. Sono tante le cose, noi abbiamo portato un piccolissimo contributo a un puzzle molto complesso. Se anche lo studio prospettico confermerà la pratica clinica, che non ha nessun valore scientifico, che ha dei limiti, ma che ha fatto vedere dei risultati così importanti che non possiamo ignorare, le cose potrebbe essere diverse.
Questo virus è difficile da controllare perché con le varianti si diffonde molto rapidamente. Ma non dimentichiamo che ogni anno l’influenza fa dagli 8 ai 20 mila morti e questo pochissimi lo sanno e non suscita nessuna emotività. Quest’anno grazie alle misure di protezione individuali questi morti non ci sono stati, in compenso ne abbiamo avuti di più, ma non è un ordine di grandezza tanto diverso. La cosa che fa stare più male è un’altra: le persone anziane che hanno complicazioni da influenza muoiono in due giorni. Con il coronavirus alcuni guariscono, altri no, la rianimazione è molto penosa per loro, stanno molto male e muoiono dopo un’agonia di 40 giorni. Però non dobbiamo dimenticare che per l′80% delle persone questo coronavirus si risolve come tutti gli altri coronavirus, in maniera molto semplice e guariscono da sole. Per questo è importante il nostro studio: su 90 persone solo 2 vanno in ospedale. 2 rispetto a 13. Non voglio enfatizzare, ma pone le basi per fare altri studi che confermino che effettivamente è così semplice.
Penso che fra la bella stagione, la vaccinazione e il fatto che l’epidemie hanno delle campane di 40 giorni e poi tendono a diminuire, mi auguro che a giugno staremo molto meglio di adesso. E poi naturalmente dipende da quanto riusciamo a vaccinare.
Sarebbe meglio fare una singola dose a tutti per accelerare?
Io non ho mai parlato di singola somministrazione, ma di ritardo nella seconda dose perché ritengo che l’importante sia vaccinare soprattutto la popolazione dai 70 anni in su il più rapidamente possibile: il CDC ha fatto vedere che la prima dose di tutti i vaccini conferisce una protezione dell′80% e del 100% per quanto riguarda la malattia grave. Nessuno sottolinea il fatto che il 60-70% di efficacia dei vaccini è relativo a piccoli sintomi. Come ha detto Francis Collins: ‘noi vogliamo non avere la tosse o il raffreddore o vogliamo non ammalarci in maniera grave?’ Se non vogliamo ammalarci in maniera grave la prima dose va fatta rapidamente a tutti: la controprova ce l’hanno gli inglesi: prima dose a tutti, qualche mese fa avevano 1600 morti, oggi ne hanno zero. Un miracolo, non c’è niente in medicina che ho visto funzionare così.
FONTE: https://gzibordi.substack.com/p/la-spiegazione-piu-semplice-dellimbroglio
STORIA
Le storia militare degli Stati Uniti sembra un gioco ma non lo è
Gli americani sono stati coinvolti in guerre e conflitti di grandi e piccole dimensioni sin da prima della fondazione della nazione. Nella timeline di seguito è stata ricostruita la storia americana. Tutti i principali conflitti sono elencati nella sequenza temporale. Il colore rosso indica periodi segnati da conflitti in corso. Gli anni con annotazioni e immagini (nella versione desktop) indicano l’inizio di nuovi conflitti. Passando con il mouse sulla timeline è possibile scoprire ulteriori dettagli.
Sulla destra è possibile cliccare per far comparire la mappa delle guerre con partecipazione statunitense, attraverso la quale comprendere quanto profonda sia l’influenza e la presenza bellica degli Stati Uniti nel mondo.
Le tensioni con l’Iran, seguite alla morte di Qassem Soleimani, è solo l’ultimo conflitto che gli Stati Uniti d’America hanno affrontato nel corso della loro pluricentenaria storia. La scomparsa del comandante delle brigate al Qods del Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica, ha scatenato il 123esimo scontro armato in 245 anni. Il 4 luglio 1776 i delegati delle tredici colonie redassero ed approvarono all’unanimità la dichiarazione di indipendenza, che diede ufficialmente vita ad un nuovo Stato federale. Da allora solo 18 anni su 245 sono trascorsi in completa pace. A testimonianza di una nazione che sin dalla nascita ha avuto grandi velleità di espansione e capacità di influenza su diversi fronti mondiali.
La storia militare degli Stati Uniti copre un periodo di oltre due secoli. Anni nei quali si sono gradualmente evoluti. Da una neo-nazione in lotta per l’indipendenza dalla Gran Bretagna (1775–1783), passando attraverso la monumentale Guerra civile americana (1861–1865) fino a trasformarsi, dopo aver collaborato al trionfo durante la Seconda Guerra Mondiale (1941-1945), nella più grande superpotenza rimasta al mondo, dalla fine del XX secolo ad oggi.
Tutto inizia nel 1775, con la guerra d’indipendenza americana. Nota negli Stati Uniti anche come Rivoluzione americana, il conflitto si trascinò fino al 3 settembre 1783. Oppose le tredici colonie nordamericane, diventate successivamente gli Stati Uniti d’America, alla loro madrepatria, il Regno di Gran Bretagna. Da allora il nuovo stato non ha più smesso di estendere la propria influenza e partecipare a conflitti armati in tutti i continenti.
Per tutto il finire del ‘700 gli Stati Uniti si concentrano soprattutto in conflitti sul suolo americano, per portare avanti l’unione degli stati federali che oggi conosciamo. Poi le guerre indiane, in particolare contro la tribù dei Cheeroke ma anche la Western Confederacy. Una confederazione libera di nativi americani nella regione dei Grandi Laghi degli Stati Uniti dopo la Guerra di Rivoluzione Americana.
Il 1798 segna il primo conflitto lontano dal suolo americano. La quasi-guerra fu una guerra non dichiarata combattuta quasi interamente in mare tra gli Stati Uniti e la Francia dal 1798 al 1800, scoppiata all’inizio della presidenza di John Adams. Dopo l’abolizione della monarchia francese nel settembre del 1792, gli Stati Uniti si rifiutarono di continuare a ripagare il suo grande debito con la Francia, che aveva sostenuto gli Stati Uniti durante la sua guerra per l’indipendenza. La guerra fu chiamata “quasi” perché non dichiarata.
Per cambiare continente bisogna arrivare al nuovo secolo. La prima guerra barbaresca del 1802, in inglese nota come Barbary War, fu la prima guerra combattuta dagli Stati Uniti d’America al di fuori dal territorio americano. Le guerre barbaresche furono combattute tra Stati Uniti e le potenze costiere del Nordafrica: il Sultanato del Marocco e le reggenze di Algeri, Tripoli e Tunisi.
Da quel giorno gli Stati Uniti non si fermeranno più, arrivando in Europa nel 1825. Le operazioni antipirateria del Mar Egeo iniziarono quando il governo degli Stati Uniti inviò uno squadrone di navi per reprimere la pirateria greca nel Mar Egeo. Torneranno nel nostro continente solo nel 1917, per la Grande Guerra. L’Ottocento li vedrà però protagonisti in Messico, Cuba, Cina, Filippine.
Dal 1775 a oggi gli Stati Uniti hanno partecipato a conflitti in 56 diverse nazioni del mondo. Oltre ai 57 scontri avvenuti sul suolo americano nel Settecento e Ottocento, per la costituzione di quelli che oggi chiamiamo Stati Uniti, Messico e Libia sono stati i campi di battaglia maggiormente battuti. Seguono Iraq, Filippine, Somalia e Iran. Un conflitto che oggi si riaccende.
A testimoniare la grande forza militare del paese, 108 dei 123 conflitti si sono conclusi con una vittoria, totale o parziale, di Stati Uniti e alleati. Solo 14 hanno invece visto prevalere le forze contrapposte. Tra questi il caso più emblematico è sicuramente la guerra del Vietnam. Nota nella storiografia vietnamita come guerra di resistenza contro gli Stati Uniti. Il conflitto armato combattuto in Vietnam fra il 1º novembre 1955 e il 30 aprile 1975. Un giorno che segnà con la caduta di Saigon, il crollo del governo del Vietnam del Sud e la riunificazione politica di tutto il territorio vietnamita sotto la dirigenza comunista di Hanoi. La più grande ferita non solo per gli Stati Uniti federali, ma anche per tutti gli statunitensi e i reduci di questo sanguinoso ed estenuante conflitto.
FONTE: https://nova.ilsole24ore.com/infodata/le-storia-militare-degli-stati-uniti-sembra-un-gioco-ma-non-lo-e/
Gli Stati Uniti sono stati in guerra 222 anni su 239 che esistono come stato
di Gianfrasket
“Siamo un popolo di guerra. Noi amiamo la guerra perché siamo molto bravi a farla. In realtà, è l’unica cosa che possiamo fare in questo cazzo di paese: la guerra. Abbiamo avuto un sacco di tempo per fare pratica e anche perché è sicuro che non siamo in grado di costruire una lavatrice o una macchina che vale un coniglio da compagnia; per contro, se avete un sacco di abbronzati nel vostro paese, dite loro di stare attenti perché noi verremo a sbattere una bomba sul loro viso… “
(George Carlin)
Gli Stati Uniti sono stati in guerra il 93% del tempo, dalla loro creazione nel 1776, vale a dire 222 dei 239 anni della loro esistenza
Gli anni di pace sono stati solo 21 dal 1776
Qui sotto è riportata una cronologia anno per anno delle guerre degli Stati Uniti, che rivela qualcosa di molto interessante: dal 1776 gli Stati Uniti sono stati in guerra il 93% del tempo, vale a dire 222 dei 239 anni della loro esistenza
Gli anni di pace sono stati solo 21.
Per mettere questo in prospettiva:
* Nessun presidente degli Stati Uniti è mai stato un Presidente di pace. Tutti i presidenti degli che si sono succeduti sono stati tutti, in un modo o nell’altro, coinvolti almeno in una guerra.
* Gli Stati Uniti non hanno mai passato un intero decennio, senza fare una guerra.
* L’unica volta che gli Stati Uniti sono rimasti 5 anni senza guerra (1935-1940) è stato durante il periodo isolazionista della Grande Depressione.
Timeline per ogni anno delle grandi guerre in cui gli Stati Uniti sono stati coinvolti (1776-2015)
1776 – Guerra d’indipendenza americana, Chickamagua Guerre, Seconda Guerra Cherokee, Pennamite-
1777 – Guerra d’indipendenza americana, Chickamauga Guerre, Seconda Guerra Cherokee, Pennamite-
1778 – Guerra d’indipendenza americana, Chickamauga Guerre Pennamite-
1779 – Guerra d’indipendenza americana, Chickamauga Guerre Pennamite-
1780 – Guerra d’indipendenza americana, Chickamauga Guerre Pennamite-
1781 – Guerra d’indipendenza americana, Chickamauga Guerre Pennamite-
1782 – Guerra d’indipendenza americana, Chickamauga Guerre Pennamite-
1783 – Guerra d’indipendenza americana, Chickamauga Guerre Pennamite-
1784 – Chickamauga Guerra Guerre Pennamite, Guerra Oconee
1785 – Chickamauga Guerre, Northwest Guerra indiana
1786 – Chickamauga Guerre, Northwest Guerra indiana
1787 – Chickamauga Guerre, Northwest Guerra indiana
1788 – Chickamauga Guerre, Northwest Guerra indiana
1789 – Chickamauga Guerre, Northwest Guerra indiana
1790 – Chickamauga Guerre, Northwest Guerra indiana
1791 – Chickamauga Guerre, Northwest Guerra indiana
1792 – Chickamauga Guerre, Northwest Guerra indiana
1793 – Chickamauga Guerre, Northwest Guerra indiana
1794 – Chickamauga Guerre, Northwest Guerra indiana
1795 – Guerra indiana del Nord-Ovest
1796 – 1800 – Nessuna guerra
1801 – Prima guerra Barbary
1802 – Prima guerra Barbary
1803 – Prima guerra Barbary
1804 – Prima guerra Barbary
1805 – Prima guerra Barbary
1806 – Sabine Expedition
1807 – 1809 – Nessuna guerra
1810 – Stati Uniti occupano West Florida spagnola
1811 – La guerra di Tecumseh
1812 – La guerra di Tecumseh, Guerre Seminole, gli Stati Uniti occupano East Florida spagnola
1813 – La guerra di Tecumseh, Guerra Peoria, Creek War, gli Stati Uniti espandono territorio nel West Florida spagnola
1814 – Creek War, US espansione territorio in Florida, la guerra anti-pirateria
1815 – Guerra del 1812, seconda guerra Barbaresca, guerra anti-pirateria
1816 – Prima guerra Seminole, la guerra anti-pirateria
1817 – Prima guerra Seminole, la guerra anti-pirateria
1818 – Prima guerra Seminole, la guerra anti-pirateria
1819 – Yellowstone Expedition, la guerra anti-pirateria
1820 – Yellowstone Expedition, la guerra anti-pirateria
1821 – la guerra anti-pirateria
1822 – la guerra anti-pirateria
1823 – la guerra anti-pirateria, Guerra Arikara
1824 – la guerra anti-pirateria
1825 – Yellowstone Expedition, la guerra anti-pirateria
1826 – Nessuna guerra
1827 – Guerra Winnebago
1828 – 1830 – Nessuna guerra
1831 – Sac e Fox guerra indiana
1832 – Guerra di Falco Nero
1833 – Guerra indiana Cherokee
1834 – Guerra indiana Cherokee, Pawnee Campagna territorio indiano
1835 – Guerra indiana Cherokee, Guerre Seminole, Seconda Guerra Creek
1836 – Guerra indiana Cherokee, Guerre Seminole, Seconda Guerra Creek, Missouri-Iowa Border guerra
1837 – Guerra indiana Cherokee, Guerre Seminole, Seconda Guerra Creek, Osage Guerra indiana, Guerra Buckshot
1838 – Guerra indiana Cherokee, Guerre Seminole, Guerra Buckshot, Heatherly Guerra indiana
1839 – Guerra indiana Cherokee, Guerre Seminole
1840 – Guerre Seminole, Forze Navali USA invadono Isole Figi
1841 – Guerre Seminole, Forze Navali USA invadono McKean Island, Isole Gilbert, e Samoa
1842 – Guerre Seminole
1843 – Le forze americane si scontrano con la Cina, le truppe statunitensi invadono costa africana
1844 – Guerre indiane Texas-
1845 – Guerre indiane Texas-
1846 – Guerra messicano-statunitense, guerre Texas-indiane
1847 – Guerra messicano-statunitense, guerre Texas-indiane
1848 – Guerra messicano-statunitense, guerre Texas-indiane, Guerra Cayuse
1849 – Guerre Texas-indiane, Guerra Cayuse, indiano Guerre Southwest, Guerre Navajo
1850 – Guerre Texas-indiane, Guerra Cayuse, Southwest guerre indiane, guerre Navajo, Guerra Yuma,
1851 – Guerre Texas-indiane, Guerra Cayuse, Southwest guerre indiane, guerre Navajo, Guerre Apache, Guerra Yuma, indiano Guerre Utah, California Guerre indiane
1852 – Guerre Texas-indiane, Guerra Cayuse, Southwest guerre indiane, guerre Navajo, Guerra Yuma, indiano Guerre Utah, California Guerre indiane
1853 – Guerre Texas-indiane, Guerra Cayuse, Southwest guerre indiane, guerre Navajo, Guerra Yuma, indiano Guerre Utah, Guerra Walker, indiano Guerre California
1854 – Guerre Texas-indiane, Guerra Cayuse, Southwest guerre indiane, guerre Navajo, Guerre Apache, California guerre indiane Skirmish entre 1 ° Cavalleria e indiani
1855 – Seminole Guerre, guerre Texas-indiane, Guerra Cayuse, Southwest guerre indiane, guerre Navajo, Guerre Apache, California guerre indiane, Guerra Yakima, Winnas Expedition Guerra Klickitat, Puget War Sound, Rogue River guerre, le forze americane invadono Isole Figi e Uruguay
1856 – Guerre Seminole, Guerre Texas-indiane, Southwest guerre indiane, Guerre Navajo,
1857 – Guerre Seminole, Guerre Texas-indiane, Southwest guerre indiane, Guerre Navajo, Guerra Utah, Conflitto in Nicaragua
1858 – Guerre Seminole, Guerre Texas-indiane, Southwest guerre indiane, Guerre Navajo, Guerra Mohave, California guerre indiane, Spokane-Coeur d’Alene Guerra-Paloos, Guerra Utah, le forze americane invadono Isole Fiji e Uruguay
Guerre 1859 Texas-indiani, Southwest guerre indiane, Guerre Navajo, California guerre indiane, Pecos Expedition Antelope Hills Expedition, Bear River Expedition, incursione di John Brown, le forze americane lanciano attacchi contro il Paraguay e invadono Messico
1860 – Guerre Texas-indiane, Southwest guerre indiane, Guerre Navajo, Guerre Apache, California indiana Guerre Guerra Paiute, Kiowa-Comanche guerra
1861 – Guerra civile americana, Guerre Texas-indiane, Southwest guerre indiane, Guerre Navajo, Guerre Apache, California guerre indiane, Campagna Cheyenne
1862 – Guerra civile americana, Guerre Texas-indiane, Southwest guerre indiane, Guerre Navajo, Guerre Apache, California guerre indiane Campagna Cheyenne, Guerra Dakota del 1862
1863 – Guerra civile americana, Guerre Texas-indiane, Southwest guerre indiane, Guerre Navajo, Guerre Apache, California guerre indiane Campagna Cheyenne, Colorado Guerra, Guerra Goshute
1864 – Guerra civile americana, Guerre Texas-indiane, Guerre Navajo, Guerre Apache, California guerre indiane Campagna Cheyenne, Colorado Guerra, Guerra Snake
1865 – Guerra civile americana, Guerre Texas-indiane, Guerre Navajo, Guerre Apache, California guerre indiane, Guerra Colorado, Guerra Snake, Black War Hawk Utah
1866 – Guerre Texas-indiane, Guerre Navajo, Guerre Apache, California guerre indiane Skirmish entre 1 ° Cavalleria e indiani, Guerra Snake, Guerra Black Hawk di Utah, Guerra di Nuvola Rossa, Franklin County War, ci invade Messico conflitto con la Cina
1867 – Texas-Guerre Indiane, lunga passeggiata dei Navajo, Apache Guerra Skirmish , Guerra Snake, guerra Black Hawk di Utah, guerra di Nuvola Rossa, guerra Comanche , Franklin County War, le truppe statunitensi occupano il Nicaragua e attaccano Taiwan
1868 – Texas-Guerre Indiane, Long Walk dei Navajo, Apache Guerra Skirmish, Guerra Snake, guerra Black Hawk di Utah, guerra di Nuvola Rossa, guerra Comanche, Battaglia del Washita, Franklin County War
1869 – Guerre Texas-indiane, Guerre Apache, guerra Black Hawk di Utah, guerra Comanche , Franklin County War
1870 – Guerre Texas-indiane, Guerre Apache, guerra Black Hawk di Utah, Comanche Guerre, Franklin County War
1871 – Guerre Texas-indiane, Guerre Apache, guerra Black Hawk di Utah, Comanche Guerre, Franklin County War, Kingsley Cave strage, le forze americane invadono la Corea
1872 – Guerre Texas-indiane, Apache Wars, La guerra di Utah Black Hawk, Comanche Guerre Guerra Modoc, Franklin County War
1873 – Guerre Texas-indiane, Comanche Guerre Guerra Modoc, Guerre Apache, Cypress Hills Massacre, guerra col Messico
1874 – Guerre Texas-indiane, Guerre Guerra Comanche Red River, Mason County Guerra, le forze americane invadono Messico
1875 – Conflitto in Messico, Guerre Texas-indiane, Comanche Guerre, Nevada orientale, Mason County War, Colfax County War, le forze americane invadono Messico
1876 - Guerre indiane, Texas-nero Guerra Hills, Mason County Guerra, le forze americane invadono Messico
1877 – Guerre Texas-indiane, Nero Guerra Hills, Nez Perce Guerra, Guerra Mason County, Lincoln County War, San Elizario Salt guerra, le forze americane invadono Messico
1878 – Paiute conflitto indiano, Guerra Bannock, Guerra Cheyenne, Lincoln County War, le forze americane invadono Messico
1879 – Guerra Cheyenne, Sheepeater Guerra indiana, Bianco Guerra Fiume, le forze americane invadono Messico
1880 – Forze statunitensi invadono Messico
1881 – Forze statunitensi invadono Messico
1882 – Forze statunitensi invadono Messico
1883 – Forze statunitensi invadono Messico
1884 – Forze statunitensi invadono Messico
1885 – Guerre Apache, Orientale Nevada Expedition, Forze invadono Messico
1886 – Guerre Apache, Pleasant Valley Guerra, le forze americane invadono Messico
1887 – Forze statunitensi invadono Messico
1888 – US dimostrazione di forza contro Haiti, Forze invadono Messico
1889 – Forze statunitensi invadono Messico
1890 – Sioux Guerra indiana, Ghost Dance Guerra, Wounded Knee, Forze invadono Messico
1891 – Sioux Guerra indiana, Ghost Dance Guerra, le forze americane invadono Messico
1892 – Johnson County War, le forze americane invadono Messico
1893 – Stati Uniti invadono Messico e Hawaii
1894 – Forze statunitensi invadono Messico
1895 – Le forze americane invadono Messico
1896 – Forze statunitensi invadono Messico
1897 – Nessuna guerra
1898 – Guerra ispano-americana, Battaglia di Leech Lake Chippewa
1899 – Guerra filippino-americana, guerra delle banane
1900 – Guerra filippino-americana
1901 – Guerra filippino-americana
1902 – 1912 – Guerra filippino-americana, guerra delle banane
1913 – Guerra filippino-americana, guerra della banane, guerra Navajo
1914 – Guerra delle banane, Stati Uniti invadono Messico
1915 – Guerra delle banane, invasione del Messico Messico, guerra Paiute
1916 – Guerra delle banane, Stati Uniti invadno Messico
1917 – Guerre delle banane, prima guerra mondiale
1918 – Guerre della banana, la prima guerra mondiale
1919 – Guerra delle banane, Stati Uniti invadono il Messico
1920 – 1934 – Guerre delle banane
1935 – 1940 – Nessuna guerra
1941 – 1945 – Seconda guerra mondiale
1946 – USA occupano Filippine e Corea del Sud
1947 – le forze di terra americana in Grecia nella guerra civile
1948 – 1949 – Nessuna guerra
1950 – 1953 – Guerra di Corea
1954 – Guerra in Guatemala
1955 – 1958 – guerra del Vietnam
1959 – guerra del Vietnam: Conflitto in Haiti
1960 – guerra del Vietnam
1961 – 1964 – guerra del Vietnam
1965 – Guerra del Vietnam, occupazione americana della Repubblica Dominicana
1966 – Guerra del Vietnam, l’occupazione americana della Repubblica Dominicana
1967 – 1975 guerra del Vietnam
1976 – 1978 – nessuna guerra
1979 – Guerra Fredda (guerra per procura CIA in Afghanistan)
1980 – Guerra Fredda (guerra per procura CIA in Afghanistan)
1981 – Guerra Fredda (guerra per procura CIA in Afghanistan e Nicaragua), primo incidente del Golfo della Sirte
1982 – Guerra Fredda (guerra per procura CIA in Afghanistan e Nicaragua), Conflitto in Libano
1983 – Guerra Fredda (invasione di Grenada, guerra per procura CIA in Afghanistan e Nicaragua), Conflitto in Libano
1984 – Guerra Fredda (guerra per procura CIA in Afghanistan e Nicaragua), Conflitto in Golfo Persico
1985 – Guerra Fredda (guerra per procura CIA in Afghanistan e Nicaragua)
1986 – Guerra Fredda (guerra per procura CIA in Afghanistan e Nicaragua)
1987 – Conflitto in Golfo Persico
1988 – Conflitto in Golfo Persico, l’occupazione americana di Panama
1989 – Seconda Golfo della Sirte incidente, l’occupazione americana di Panama conflitto nelle Filippine
1990 – Prima guerra del Golfo, occupazione americana di Panama
1991 – Prima guerra del Golfo
1992 – Conflitto in Iraq
1993 – Conflitto in Iraq
1994 – Conflitto in Iraq, Stati Uniti invadono Haiti
1995 – Conflitto in Iraq, Haiti, bombardamenti NATO della Bosnia-Erzegovina
1996 – Conflitto in Iraq
1997 – Nessuna guerra
1998 – Bombardamento di Iraq, Afghanistan e missili contro il Sudan
1999 – Guerra del Kosovo
2000 – nessuna guerra
2001 – Guerra in Afghanistan
2002 – Guerra in Afghanistan e Yemen
2003 – Guerra in Afghanistan e in Iraq
2004 – 2006 – Guerra in Afghanistan, Iraq, Pakistan e Yemen
2007 – Guerra in Afghanistan, Iraq, Pakistan, Somalia e Yemen
2008 – 2010 – Guerra in Afghanistan, Iraq, Pakistan e Yemen
2011 – Guerra al Terrore in Afghanistan, Iraq, Pakistan, Somalia e Yemen; Conflitto in Libia (libica guerra civile)
2011 – 2015 – Guerra in Afghanistan, Iraq. Guerra civile in Ucraina e Siria
Nella maggior parte di queste guerre, gli Stati Uniti erano all’offensiva, in alcune sulla difensiva ma abbiamo tralasciato tutte le operazioni segrete della CIA con rivolte, ribaltamento di regimi e altri atti che potrebbero essere considerati atti di guerra.
Il 95% delle operazioni militari lanciate dalla fine della seconda guerra mondiale, sono state degli Stati Uniti, la cui spesa militare è maggiore di quella di tutte le altre nazioni del mondo messe insieme. Nessuna meraviglia quindi che il mondo pensi che gli Stati Uniti sono la prima minaccia del mondo per la pace.
Eppure ci sono ancora alcuni nord americani (più di quello che sembra) che fanno ancora la domanda: “Perché tutte queste persone nel mondo ci odiano?” E la risposta della propaganda USA è sempre, invariabilmente, la stessa “…perché sono gelosi di noi, della nostra libertà, della nostra grandezza. Gelosi della nostra cultura…”
Ecco, soprattutto della loro cultura e del loro squisito modo di rapportarsi col prossimo.
FONTE: http://informare.over-blog.it/2015/02/gli-stati-uniti-sono-stati-in-guerra-222-anni-su-239-che-esistono-come-stato.html
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