RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI 13 DICEMBRE 2022
A cura di Manlio Lo Presti
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SOMMARIO
MANGIARE INSETTI
Il Consiglio UE: combattere l’esitazione vaccinale.
Alcune riflessioni sulla Matrix della Grande Menzogna
La disforia di classe del presidente della FIFA
Bruxelles trema, la guerra si allarga e preparano “prigioni green” – Sette+
Libia, chi vuole riaprire il caso Lockerbie?
Le cliniche private aumentano mentre in 10 anni di tagli al SSN sono stati chiusi 111 ospedali e 113 PS
NUOVO CORONAVIRUS: PANDEMIA INVENTATA E TELECOMANDATA!
Come costruire una città collaborativa: in conversazione con Sheila Foster
IDENTITA’ DIGITALE: GREEN PASS PER SEMPRE!
Il rapporto sulla campagna aerea russa in Ucraina
Soldato russo fugge in Spagna e denucia: “In Ucraina una guerra criminale”
Curiosità dalla guerra termonucleare globale…
Perché gli Usa “scaricano” Kiev sui raid in Russia
ATTACCO UCRAINO ALLE CENTRALI ELETTRICHE
Cosa si intende per guerra elettronica e cos’è il jamming?
Moravia: il tradimento dell’indifferenza
Cartesio e la scoperta del problema mente-corpo
QUESTO SOLDATO RUSSO, SPIEGA UN’OPERAZIONE DI PRELIEVO DI ORGANI IN CORSO DA PARTE DEL REGIME DI KIEV
La nuova partita per l’Africa che potrebbe influenzare l’immigrazione
Federico Caffè e la ri-politicizzazione dell’economico
“Annichilimento delle caste” e lotta per l’uguaglianza idrica
Quali società sono i maggiori produttori di armi al mondo?
FAVORISCONO LE TRUFFE DELLE CRIPTOVALUTE PIUTTOSTO CHE L’USO DEL CONTANTE
Parere vaccinale della Consulta
Salari a picco, sfruttamento alle stelle
Hillary Clinton minaccia Elon Musk: “Ti sei suicidato”
SELVAGGIA LUCARELLI LINCIA GLI ARTIGIANI PERCHE’ HANNO VOTATO MELONI
Il potere ammaliante del digitale
Non avrai altro Dio all’infuori di me
Conferenza stampa AfD sul notevole aumento decessi improvvisi nel 2021
In Europa una terza specie di insetti è stata autorizzata per l’alimentazione umana
IN EVIDENZA
MANGIARE INSETTI
Lisa Stanton – 23 11 2022
Mentre in quasi metà dei centri di distribuzione europei si trovano prodotti alimentari per gli umani a base di farina d’insetti e altri derivati dagli allevamenti di aracnidi, coleotteri e lepidotteri, dagli USA arriva la notizia del via libera da parte della FDA alla produzione di carne sintetica di pollo, che viene prodotta in alcuni laboratori specializzati.
La decisione rischia di accelerare gli investimenti nel settore anche in UE, che ha già stanziato un numero imprecisato di milioni di euro a favore delle multinazionali olandesi Nutreco e Mosa Meat, anch’esse note per la produzione di carne sintetica. Tutto ciò in assenza di un Regolamento comunitario, che pure è atteso da molti anni per fare chiarezza sulla questione dei possibili rischi per la salute.
Il rischio è considerato elevato perchè si ignorano gli effetti dovuti all’assunzione di questi cibi nel tempo: quanto agli insetti, ad esempio, è verificato che la chitina contenuta nell’esoscheletro degli artropodi sia tossica per l’uomo.
Ma le Nazioni Unite stanno spingendo per la diffusione dell’entomofagia fin dal 2013, quando hanno pubblicato un documento intitolato “Gli insetti edibili“, nel quale si illustrano le proprietà, le qualità delle 1900 specie e la loro sostenibilità.
Per le filiere del “madeinItaly” è una iattura, a prescindere dal pericolo per la nostra salute, e così nella manovra di ieri al neonato Ministero è istituito un fondo da ben 25milioni di euro per la sovranità alimentare: si investa nelle PMI zootecniche, ha urlato il ministro Adolfo Urso, promuovendo il modello italiano. Il che è lodevole, se non fosse che alla UE ha dato ad oggi almeno 100milioni di euro per la carne sintetica prodotta dagli Olandesi.
SITO: https://www.lifegate.it/stati-uniti-via-libera-consumo-pollo-laboratorio
FONTE: https://www.facebook.com/lisa.stanton111/posts/pfbid02DNnw9BBXkqGibVWLYfPjZMuqGr8kNEbYQNfR7UY6S5c3DpMH7BPxWeQuMxruL2LUl
Il Consiglio UE: combattere l’esitazione vaccinale.
“Ce lo chiede l’Europa”. Quella lì.
I ministri UE della Salute hanno approvato conclusioni del Consiglio sulla vaccinazione come uno degli strumenti più efficaci per prevenire le malattie e migliorare la salute pubblica. Hanno sottolineato che gli Stati membri potrebbero beneficiare di un approccio dell’UE ancora più coordinato alla prevenzione e alla limitazione della diffusione di epidemie e malattie prevenibili da vaccino. Le conclusioni si concentrano su due settori d’intervento: combattere l’esitazione vaccinale e prepararsi alle sfide future mediante la cooperazione dell’UE.
Vlastimil Válek, vice primo ministro ceco e ministro della Salute: “I vaccini funzionano. Prevengono innumerevoli casi di malattia e salvano milioni di vite ogni anno. Una maggiore cooperazione tra i paesi dell’UE — finalizzata a promuovere la fiducia del pubblico o ad accelerare lo sviluppo dei vaccini — porterà benefici ai cittadini e ai sistemi sanitari pubblici”. Le conclusioni sottolineano la necessità di trarre insegnamenti dalla pandemia di COVID-19 per essere meglio preparati alle future crisi di salute pubblica. Nel corso della pandemia l’UE ha assistito all’emergere di una serie di soluzioni e strumenti che possono essere utili nel combattere le malattie prevenibili da vaccino. La digitalizzazione, con la raccolta e lo scambio di dati a livello di UE e la creazione del certificato COVID digitale dell’UE, e la cooperazione nell’approvvigionamento, nell’acquisto e nella distribuzione di vaccini a livello di UE sono state tappe importanti nel settore della sanità pubblica. La pandemia di COVID-19 ha inoltre portato alla luce l’entità e la portata dei problemi connessi all’esitazione vaccinale. La pandemia di COVID-19 ha dimostrato le minacce e le sfide che la cattiva informazione e la disinformazione rappresentano per la società. Per contrastare i conseguenti rischi per la salute umana, i sistemi sanitari e l’efficace gestione delle crisi, le conclusioni invitano:
- la Commissione a istituire un forum di esperti sull’esitazione vaccinale
- la Commissione a rafforzare il coordinamento tra le politiche dell’UE in materia di vaccinazione e di lotta alla disinformazione
- Gli Stati membri e la Commissione a sviluppare opportunità di formazione per consentire agli operatori sanitari di acquisire maggiori competenze riguardo a tecniche e strumenti per contrastare la cattiva informazione e la disinformazione in materia di vaccini. Per quanto riguarda il rafforzamento della cooperazione dell’UE, le conclusioni propongono ulteriori azioni, quali:
- Esplorare il valore aggiunto e le possibilità di superare gli ostacoli giuridici e tecnici all’interoperabilità dei sistemi (sub-)nazionali di informazione sulle vaccinazioni
- Sviluppare lo scambio di informazioni relative a eventuali eccedenze e carenze di vaccini essenziali. Ciò consentirebbe un’eventuale rivendita o donazione tra gli Stati membri
- Avvalersi delle possibilità di approvvigionamento congiunto di vaccini.
La pandemia ha innescato una serie di importanti interventi a livello di UE. Un esempio è l’istituzione dell’Autorità europea per la preparazione e la risposta alle emergenze sanitarie (HERA), per migliorare la preparazione e la risposta a gravi minacce transfrontaliere nel settore delle contromisure mediche. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), le vaccinazioni prevengono ogni anno dai 3,5 ai 5 milioni di decessi. Si evita un numero ancora maggiore di casi di malattia, riducendo in tal modo l’onere sui sistemi sanitari. Il vaiolo è stato addirittura eradicato completamente. Tuttavia, in molte regioni dell’UE i tassi di copertura vaccinale stanno scendendo ben al di sotto dei livelli raccomandati. In tali circostanze le malattie infettive possono facilmente ritornare e l’epidemia di morbillo scoppiata negli ultimi anni in diversi paesi europei ne è un esempio. L’OMS ha perfino classificato l’esitazione vaccinale tra le dieci maggiori minacce per la salute mondiale.
Agli americani lo chiede la moglie di Biden con Fauci: due grandi autorità morali.
In Svizzera invece…
Avv. Holzeisen:
In Svizzera si sta muovendo tantissimo ai fini dell’accertamento del più grande crimine contro l’umanità dopo la seconda guerra mondiale. Dopo la conferenza stampa su una mega-denuncia penale presentata per vittime da „vaccino“-Covid-19 danneggiate in modo irreversibile, adesso un’altra denuncia presentata per truffa aggravata da uno svizzero famoso contro il presidente e ministro degli interni della Svizzera
Pascal Najadi, figlio di Hussain Najadi, un grande banchiere a livello internazionale (la famiglia, prima di vendere, era proprietaria di varie importanti banche soprattutto nel Sud-Est-Asia (Malaysia, Singapore ecc.), ed esso stesso banchiere ad altissimi livelli (p.e. era membro del board of directors della Dresdner Bank) e nipote di un ex presidente della Svizzera, ha presentato una pesante denuncia penale a carico dell‘attuale presidente della Svizzera e ministro degli interni, Alain Berset, per truffa aggravata ecc. della popolazione in merito all‘efficacia e sicurezza/rischio dei cosiddetti „vaccini“-Covid-19. Anche in Svizzera la popolazione è stata sistematicamente disinformata/ingannata e questo ebbe ovviamente un‘impatto decisivo sul voto degli svizzeri al referendum sull‘introduzione di misure Covid-19 (lockdown, obbligo „vaccinale“ ecc.) che ebbe luogo in autunno dell‘anno scorso.
Najadi è, secondo proprie dichiarazioni, „vaccinato“ tre volte con Conirnaty di Pfizer/BioNTech e, dunque, considera se stesso e i propri familiari del tutto fondatamente essere vittime, dato che gli effetti a lungo termine delle iniezioni sperimentali sono tutti ancora da vedere.
Questa denuncia penale ha un enorme peso, perché il padre di Najadi era attivo insieme a Klaus Schwab nell‘organizzazione che precedeva il World Economic Forum (e che si chiamava Davos Economic Forum) prima di uscire perché lo sviluppo nello WEF e le ambizioni e idee di Klaus Schwab non gli piacevano. Il padre di Najadi è stato ucciso nel 2013 in un attentato dopo aver espresso forti contestazioni in merito a riciclaggio di denaro di alto livello e di cui era venuto a conoscenza.
In questa intervista Najadi, oltre della denuncia penale presentata venerdì di due settimane fa, parla molto del WEF, di Klaus Schwab che definisce un nazista-comunista, dell‘economia e finanza e di geopolitica (Russia).
Un‘intervista molto interessante che va diffusa il più possibile!
YouTube (https://youtu.be/1oGjyBSSJYg)
Pascal Najadi – Bringing Criminal Charges To The President Of Switzerland.
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FONTE: https://www.maurizioblondet.it/il-consiglio-ue-combattere-lesitazione-vaccinale/
Alcune riflessioni sulla Matrix della Grande Menzogna
Catlin Johnstone, una giornalista australiana eterodossa, in una sua angosciata analisi[1] afferma che la terza guerra mondiale è oggi una prospettiva che i media mainstream – e dunque i loro padroni su per li rami della piramide – ritengono possibile, come fosse un’opzione come un’altra. L’oligarchia occidentale e il suo megafono mediatico sono così usciti dal solco della logica e del buon senso, dando un lugubre contributo alla locomotiva che potrebbe condurre il mondo alla catastrofe.
Secondo un nugolo di cosiddetti esperti, alcuni qui di seguito menzionati, gli Stati Uniti devono aumentare subito e di molto le spese militari, perché occorre prepararsi a un inevitabile conflitto mondiale.
Questa patologica esegesi della scena internazionale viene presentata senza alcuna prova e con la veste di una necessità ontologica, come un incendio destinato a scoppiare per autocombustione. Il menu viene poi arricchito con l’elencazione dei nemici pronti a invadere l’Occidente, fortunatamente protetto dalla pacifica nazione americana, la sola in grado di difendere le nostre democratiche libertà.
Il funesto allargamento della guerra in Ucraina – che, coinvolgendo nazioni in possesso dell’arma nucleare, porterebbe allo sterminio della razza umana – sarebbe dunque l’esito di una congiunzione astrale come la gravitazione della luna sulle onde del mare. Essa non dipenderebbe – come invece pensano miliardi di persone al mondo, del tutto ignorate, ça va sans dire – dalla patologia di dominio e di estrazione di ricchezze altrui da parte di quella superpotenza che decide fatti e misfatti del governo ucraino e che dispone del potere di porre fine alle ostilità in qualsiasi momento, se solo rinunciasse alla sua irrealistica strategia di dominio unipolare del pianeta (una valutazione questa condivisa da numerose personalità e studiosi statunitensi, anch’essi ignorati).
Ai cosiddetti esperti e ai compilatori del pensiero imposto non passa per la mente che un cambio di postura da parte dell’unica nazione indispensabile al mondo (secondo il lessico malato di B. Clinton, 1999) metterebbe finalmente fine alle giustificate inquietudini del rischio atomico.
In un articolo dal titolo ‘L’America potrebbe vincere una nuova guerra mondiale? Di cosa abbiamo bisogno per sconfiggere Cina e Russia’ pubblicato su Foreign Affairs – rivista controllata dal Council on Foreign Relations, a sua volta megafono mediatico del Pentagono – si afferma che, ‘sebbene la prospettiva possa infastidire qualcuno, Stati Uniti e alleati devono seguire una strategia che conduca alla vittoria simultanea in Asia e in Europa, poiché’, continua l’autore, Thomas G Mahnken, ‘Stati Uniti e alleati dovrebbero sfruttare il loro attuale vantaggio strategico combattendo su entrambi i continenti’. Mahnken non è uno sprovveduto e si rende conto che una guerra simultanea contro Russia e Cina non sarebbe una passeggiata. Sorvolando su un mondo di dettagli, la sua riflessione si sofferma su un punto: ‘per vincere una guerra del genere gli Stati Uniti devono aumentare, subito e di molto, la spesa militare’, poi si vedrà. Ciò comporta, precisa Mahnken, la necessità di accrescere la produzione militare incrementando i turni di lavoro degli operai, espandendo le fabbriche e aprendo nuove linee produttive. Il Congresso deve stanziare maggiori risorse e al più presto, poiché la spesa attuale per la difesa è inadeguata! A costui importa un fico se nel solo 2021, il bilancio Usa della difesa aveva già superato i 722 miliardi di dollari (cresciuto ancora del 10% nel 2022) equivalenti alla somma dei budget delle dieci nazioni che seguono in graduatoria, Russia e Cina incluse[2]. Nella logica di codesto esperto, ‘per aumentare produzione militare e scorte di armamenti gli Stati Uniti devono anche mobilitare i paesi amici, poiché ‘se la Cina avviasse un’operazione militare su Taiwan, Stati Uniti e alleati sarebbero costretti a intervenire’. E quando menziona gli alleati, egli si riferisce beninteso alle colonie europee che la retorica chiama partner della Nato, un’organizzazione militare questa guidata da generali americani ora diventata globale senza che governi e parlamenti degli stati membri ne abbiamo mai discusso (basta scorrere i comunicati dei vertici di Bruxelles, giugno 2021, e Madrid, giugno 2022), ma solo perché la strategia e gli interessi imperiali lo esigono.
Ad avviso di codesto signore, occorrerebbe distruggere il mondo per difendere un’isola vicino alla terraferma cinese, chiamata Repubblica di Cina. Di grazia, con l’occasione costui potrebbe forse spiegarci il perché. È invero una benedizione che i governi di Taiwan e Pechino mantengono la testa sulle spalle, diversamente da qualcun’altro in Europa, per impedire che il sogno segreto statunitense diventi realtà, scatenando un conflitto devastante.
Non solo, l’articolo menzionato continua: ‘mentre gli Stati Uniti sono impantanati nel labirinto cinese, al governo di Mosca si presenterebbe una preziosa occasione per invadere l’Europa’, corroborando in tal modo il bizzarro paradosso propagandistico secondo il quale Putin starebbe perdendo la guerra in Ucraina, ma avrebbe tuttavia la capacità di invadere i paesi Nato!
In un altro scritto dal titolo ‘Gli scettici hanno torto: gli Stati Uniti possono affrontare sia la Cina che la Russia’, Josh Rogin, editorialista del pacifista Washington Post, punta il dito sia contro i democratici, perché si limitano a un conflitto indiretto contro la Russia, sia contro i repubblicani che invece punterebbero a farlo (anch’esso indiretto) contro la Cina, sostenendo: ‘perché no tutti e due’?
Robert Farley (19FortyFive) nel suo elaborato dal titolo ‘L’esercito americano potrebbe combattere la Russia e la Cina allo stesso tempo?’, scrive che ‘l’immensa potenza di fuoco delle forze armate statunitensi non avrebbe difficoltà a combattere con successo su entrambi i fronti’, concludendo che ‘gli Stati Uniti sono in grado di affrontare Russia e Cina contemporaneamente … di certo per un po’, e con l’aiuto di qualche alleato’, in verità senza troppo entrare nel merito.
A sua volta, Hal Brands (Bloomberg), in “Possono gli Stati Uniti affrontare Cina, Iran e Russia contemporaneamente?’, pur riconoscendo che tale ipotesi sarebbe oggettivamente difficile da governare, raccomanda di intensificare le attività in Ucraina e Taiwan (sempre sul suolo e col sangue altrui), con l’occasione vendendo a Israele armi ancor più sofisticate per fronteggiare l’Iran, e indirettamente Russia e Cina.
In ‘La teoria delle relazioni internazionali suggerisce che la guerra tra grandi potenze sta arrivando’, Matthew Kroenig (Consiglio Atlantico) scrive su Foreign Policy che sarebbe all’orizzonte una resa dei conti globale tra democrazie e autocrazie: ‘Stati Uniti e alleati Nato, più Giappone, Corea del Sud e Australia da un lato, e autocrazie revisioniste Cina, Russia e Iran dall’altro, e che gli esperti di politica estera dovrebbero adeguarsi di conseguenza’, senza precisare bene in cosa consisterebbe tale adeguamento, se non – e si tratterebbe di un buon consiglio – che il mondo è sempre più policentrico e multipolare, fortunatamente deve aggiungersi, e dunque l’Occidente si rassegni.
Alcuni di tali analisti indipendenti negano la tesi che la Terza Guerra Mondiale sia in arrivo, scoprendo d’altra parte l’acqua calda, vale a dire che un conflitto tra Grandi Potenze è già in atto – con specifiche caratteristiche, è ben chiaro (New Yorker di ottobre: ‘E se stessimo già combattendo la terza guerra mondiale con la Russia?’).
Le pontificazioni elencate costituiscono l’evidenza che l’esercito della Grande Menzogna è pericolosamente uscito di senno. Il suo verbo obbedisce alla narrativa degli strateghi occulti che valutano l’ipotesi di un conflitto globale non solo possibile, ma persino naturale, e che nessuno può evitare. Nell’era dell’arma nucleare dovrebbe invece prevalere il principio di massima cautela, moltiplicando gli sforzi a favore del dialogo e del compromesso, della de-escalation e della distensione.
I governi assennati dovrebbero mettere al bando anche solo l’idea che un conflitto nucleare si può vincere, ascoltando la saggia e inascoltata voce della maggioranza dei popoli, tutelando così davvero quella democrazia che pretendono di rappresentare. L’umanità non può rassegnarsi a un destino di distruzioni e violenza orchestrato da oligarchie senza scrupoli.
Coloro che sostengono dialogo e compromesso sono invece demonizzati come sostenitori del sopruso e della debolezza davanti al nemico.
Secondo il vangelo della patologia atlantista, le nazioni autocratiche (il Regno del Male) costituiscono una minaccia per le democrazie occidentali (il Regno del Bene). Sorge spontaneo chiedersi come sia possibile indulgere in tale aberrante distorsione della logica fattuale.
In verità, chiunque opponga resistenza alla pseudocultura della sottomissione imperiale è destinato ad essere aggredito politicamente, economicamente e se del caso anche militarmente (purché non possieda l’arma nucleare, beninteso, perché non si sa mai).
Lo storico Andrea Graziosi, riferendosi al cosiddetto dibattito italiano sull’Ucraina, ma non solo, rileva la risibile conoscenza di temi di politica estera che prevale nel nostro Paese. A suo giudizio, la cultura politica italiana è irrilevante e provinciale, concentrata su aspetti periferici in una logica capovolta rispetto alle priorità e agli stessi interessi dell’Italia, un paese desovranizzato, marginale e asservito agli interessi altrui. I media rifuggono dall’analisi e dal rigore del ragionamento, mentre i pochi intellettuali coraggiosi vengono sommersi dai cosiddetti esperti, sempre di altro, mai dei contesti di cui si parla (solitamente giornalisti o politici improvvisati).
A sua volta, in un pregevole volume (Il virus dell’idiozia) lo studioso di filosofia della scienza, Giovanni Boniolo, ricorda un concetto dato per scontato, secondo cui la libertà di espressione viene confusa con la libertà di ignoranza, rendendo superflui i dati di fatto e innecessaria la loro conoscenza.
La preferenza del criterio binario (bene/male, bianco/nero, giorno/notte), utile talora per semplificare il discorso, s’impone in forma inconscia e universale assumendo le sembianze dell’evidenza, distorcendo la realtà e impedendo l’analisi critica e la presa di distanza dalle menzogne. All’individuo non restano che due opzioni: rinunciare alla comprensione, che viene delegata ai falsi esperti, o appagarsi con un’umiliante alterazione della percezione del mondo.
L’uso acritico degli stereotipi genera un ragionare piatto, che conduce a un’unica conclusione ammissibile, quella digeribile dal sistema.
Un’esemplificazione eloquente è costituita dai tre stereotipi della demonizzazione atlantista della Repubblica Popolare, trasformati in dogmi di fede incontestabili: 1) la Cina punta a dominare il mondo; 2) la Cina è un regime totalitario; 3) la Cina è un paese comunista, dove lo Stato controlla ogni aspetto della società, dell’economia e della vita degli individui.
Il ragionare non binario – che aiuta a non confondere la libertà di parola con quella di dire sciocchezze – suggerisce invece che: 1) non vi sono prove che la Cina intenda dominare il mondo; come ogni altra nazione cerca solo il suo legittimo spazio; 2) la Repubblica Popolare è un paese (da tempo) non totalitario e la sua dirigenza, con tutti i suoi limiti, gode di ampio consenso (nel 2019, 150 milioni di cinesi si sono recati all’estero e nessuno di essi ha fatto domanda di asilo politico in uno dei paesi visitati); 3) la società cinese non è il paradiso in terra, ma come ovunque un mondo complesso e talora contraddittorio, dove i poveri e una crescente classe media convivono con i ricchi, forse troppi, ma in proporzione non più che in Occidente. Le praterie della riflessione sarebbero a questo punto infinite, ma reputo che il punto sia sufficientemente chiaro. Premeva ricordare che ‘la propaganda è un’arte che nulla ha a che vedere con la verità’ (Gianluca Magi: Goebbels, 11 tattiche di manipolazione oscura), che ogni giorno il potere fabbrica di sana pianta calunnie e mistificazioni e che occorre tenere gli occhi aperti. Il conformismo rassicura, l’obbedienza deresponsabilizza. Il risultato è la regressione a livelli minimi di alfabetizzazione valoriale, politica e sociale, che si vuole refrattaria all’analisi critica, ma partigiana di sentimenti primitivi e facilmente manipolabili.
Ma il nostro destino non deve essere la sottomissione, prima di tutto dell’intelletto. Contrariamente a quanto si possa pensare, la sociopatia al potere ha bisogno di consenso, o quanto meno di silenzio, che è poi lo stesso. Non dobbiamo camminare come sonnambuli in un pianeta immerso nella distopia, divenendo complici inconsapevoli. Noi siamo ben più numerosi, e più umani. Possiamo costruire un mondo diverso, occorre solo coraggio e pazienza.
[1] http://www.informationclearinghouse.info/57311.htm
[2] https://www.wired.it/article/nato-spesa-militare-paesi-dati/#:~:text=Quest’anno%20Washington%20spender%C3%A0%20qualcosa,canto%20suo%2C%20spender
FONTE: https://www.lafionda.org/2022/11/21/alcune-riflessioni-sulla-matrix-della-grande-menzogna/
La disforia di classe del presidente della FIFA
““To parents of transgender children, affirming your child’s identity is one of the most powerful things you can do to keep them safe and healthy.”
Noi bisogna rispettare come le persone si identificano.
Esistono bimbi complicati, specie negli Stati Uniti.
I genitori solerti, specie negli Stati Uniti, portano i bimbi complicati dallo psicologo.
E lo psicologo, se è della scuola buona, dirà che quei bimbi sono affetti da disforia di genere, cioè sono nati nel corpo sbagliato, e devono quindi farselo cambiare a pagamento dai medici.
Il bello della magia castrochimica è che un po’ funziona. Guardate infatti come è felice questa, boh, quattordicenne? (scusate, questO quattordicenne!)
Per le femminucce, si tratta di riempirsi di testosterone per farsi venire la barba, tagliarsi le tette appena spuntano, e poi farsi modellare un pisello con la carne strappata di solito dal proprio braccio.
Il rimedio per i maschietti consiste invece nel ricorrere alla castrazione chimica, farsi zacchettare il pisello, per poi farsi scavare un tunnel (“penile inversion vaginoplasty“), come si può vedere in alcune interessanti immagini.
Certo, è irreversibile, ma chi vorrebbe mai tornare indietro?
Ora, oltre alla disforia di genere, esiste anche la disforia di classe, e credo che dovremmo impegnarci tutti anche su questo nuovo fronte dei diritti.
Il signor Gianni Infantino è presidente della FIFA, con uno stipendio di 2,5 milioni di euro nel 2020.
Come sapete, il Qatar si è guadagnato l’onore di ospitare la Coppa del Mondo a caro prezzo, e questo ha suscitato qualche sciocca polemica.
Il signor Infantino ha dichiarato a proposito:
“Oggi ho belle sensazioni. Mi sento Qatari, africano, arabo, migrante, gay. […]
“Naturalmente io non sono Qatari, arabo, migrante, gay, disabile. Ma so che cosa voglia dire essere discriminato, so che cosa vuole dire essere straniero in un Paese straniero. Da bambino mi bullizzavano perché avevo i capelli rossi, perché ero italiano e non parlavo bene il tedesco”
Il signor Gianni Infantino avrebbe anche potuto identificarsi come maiale.
Il Maiale Medio infatti è un essere vivente intelligente, sensibile e affettuoso, come certamente lo sarà il signor Infantino.
Il Maiale Medio, come il signor Infantino non parla bene il tedesco.
E viene bullizzato, proprio come il signor Infantino da piccolo:
Ora, io rispetto moltissimo le Identità e quindi non avrei nessun problema a riconoscere che il signor Infantino sia un maiale, un porco e anche un suino.
E credo che un intervento di class affirming surgery R>P (rich to poor) ne potrebbe fare anche un disabile.
Ma vorrei confidargli che anch’io soffro di disforia di classe.
Io guadagno circa un centesimo di ciò che guadagna lui.
Eppure, sin da quando ero piccolo, so di essere un miliardario.
Lo sento proprio nell’intimo, so che mi spetta come minimo un salotto come questo, che poi sarebbe una stanzina qualunque di Palazzo Serristori qui a Firenze:
Ho o no il diritto a una class affirming therapy P>R?
TRANSRICH ARE RICH!
TRANSPOOR ARE POOR!
Bruxelles trema, la guerra si allarga e preparano “prigioni green” – Sette+
In questa puntata di Sette+ parliamo dello scandalo corruzione a Bruxelles, che ha visto coinvolti i vertici delle istituzioni comunitarie, del rischio sempre più concreto di uno scontro diretto tra Paesi della Nato e Russia, e dello spaventoso “esperimento” di Oxford, con i cittadini divisi in 6 ghetti da cui possono uscire solo in alcuni giorni.
VIDEO QUI: https://youtu.be/Ktm8VhSgIiM
FONTE: https://www.youtube.com/watch?v=Ktm8VhSgIiM
Libia, chi vuole riaprire il caso Lockerbie?
Qualcuno il Libia vuole riaprire il caso Lockerbie, l’attentato del 1988 al volo Pan Am 103 che uccise in Scozia 270 persone, per lo più cittadini statunitensi. Ignoti hanno rapito a Tripoli Abu Agila Mohammad Masud, ex agente dell’intelligence sospettato di aver costruito la bomba usata nell’attacco terroristico. Ad annunciarlo è stata la famiglia dell’ex ufficiale libico, denunciando il “silenzio” delle autorità che, in effetti, non hanno rivelato alcun dettaglio. Chi e perché ha rapito Masud, che oltretutto risultava essere in custodia non più di un anno fa?
Un dossier chiuso, anzi no
Il caso risale al 1988 quando una bomba esplose a bordo dell’aereo di linea statunitense, che si schiantò sul villaggio scozzese di Lockerbie uccidendo tutti i 259 passeggeri e 11 residenti locale. Il dossier venne chiuso nel 2008, quanto l’allora Jamahiriyya del colonello M’uammar Gheddafi ammise la responsabilità e pagò un maxi-risarcimento alle famiglie delle vittime. Ma dodici anni più tardi, il dipartimento di Giustizia Usa ha sporto una denuncia penale contro Masud, sospettato di aver assemblato il dispositivo che ha fatto saltare in aria il volo Pan Am 103. Non solo. Secondo la giustizia Usa, Masud sarebbe anche coinvolto nell’attentato del 1986 alla discoteca LaBelle di Berlino, nella Germania occidentale, che ha ucciso due militari americani e una cittadina turca. Nel novembre 2021, la ministra degli Esteri del Governo di unità nazionale (Gun), Najla el Mangoush, ha ammesso in un’intervista all’emittente televisiva britannica Bbc che la Libia potrebbe estradare Masud negli Stati Uniti. In concomitanza con l’intervista di Mangoush, il primo ministro libico Abdulhamid Dbeibah ha chiesto che il fascicolo fosse riaperto e che le persone coinvolte nel “caso che ha causato tante sofferenze” fossero ritenute responsabili.
Il rapimento e i sospetti sulle milizie
Secondo una dichiarazione attribuita ai familiari di Masud, persone armate non identificate hanno fatto irruzione nella casa della famiglia nella zona di Abu Salim in piena notte, portando l’ex agente dell’intelligence ricercato dagli Stati Uniti verso una destinazione sconosciuta a bordo di due veicoli fuoristrada. L’area in questione è territorio della milizia Ghaniwa, che fa capo a Abdelghani al Kikli, tra i miliziani più potenti e noti in circolazione, già capo della Forza di sicurezza centrale di Abu Salim, ex milizia formata dopo il 2011 in uno dei più popolosi quartieri della capitale. Oggi la milizia Ghaniwa è inquadrata nell’Autorità di supporto alla stabilità (Ass), apparato di sicurezza creato nel gennaio 2021 e che è considerato la “longa manus” del premier Dabaiba.
Cui prodest?
Il ministero della Giustizia del Governo di unità nazionale della Libia ha affermato in un comunicato stampa che il caso dell’attentato di Lockerbie del 1988 è “completamente chiuso dal punto di vista politico e giuridico, in conformità con l’accordo concluso tra Libia e Stati Uniti nel 2008”. E la Camera dei rappresentanti nell’est della Libia dominata dal generale Khalifa Haftar ha annunciato il “rifiuto categorico” dei tentativi di riaprire il dossier e di consegnare Masoud agli Stati Uniti. Tutti smentiscono, ma allora chi è responsabile di questo ennesimo arresto extra-giudiziale in Libia? Abdel Moneim al Arfi, membro della Camera dei rappresentanti libica della città di Al Marj (Libia orientale), ha dichiarato all’Agenzia Nova che “chi sta cercando di riaprire il caso Lockerbie, che sia parti libiche o straniere, vuole ricattare lo Stato libico”. A ben vedere, l’ipotesi più accredita resta quella che Masud sia stato rapito qualcuno che vuole acquistare benemerenze con l’occidente, e in particolare con gli Stati Uniti.
FONTE: https://insideover.ilgiornale.it/terrorismo/libia-chi-vuole-riaprire-il-caso-lockerbie.html
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NUOVO CORONAVIRUS: PANDEMIA INVENTATA E TELECOMANDATA!
28 11 2022
di Gianni Lannes
Una mascherata covidiota: ecco la truffa del XXI secolo. Allora urge un ripasso della cronaca che diviene storia. La tecnocrazia imperante ha soppiantato la democrazia incompiuta. Una profezia? No, piuttosto, un’informativa datata novembre 2008 del National Intelligence Council, intitolata “2025: Global Trends”, ha anticipato con esattezza millimetrica l’arrivo della cosiddetta pandemia globale:
«La comparsa di una nuova malattia respiratoria umana virulenta e altamente contagiosa, per la quale non esiste un trattamento adeguato, potrebbe innescare una pandemia globale. Se si presenta una tale malattia, entro il 2025, le tensioni e i conflitti interni e transnazionali non mancheranno di esplodere».
Come avevo già scritto e documentato in passato, anche la Rockefeller Foundation nel rapporto “Scenarios for the Future of Technology and International Development”, esattamente nel 2010, aveva previsto più o meno il copione odierno. Una cosa è certa: è stato notevolmente implementato e in brevissimo tempo, il controllo biometrico sui popoli della Terra.
A tutt’oggi il cosiddetto Sars CoV-2, o nuovo coronavirus non è stato ancora isolato e nessuno ha identificato il vettore. Piuttosto, dopo quasi tre anni di menzogne globali, molti esperti confondono (volutamente o meno) ancora la presunta malattia denominata “Covid-19” con il nuovo coronavirus.
A Roma in alcun ministeri alcuni funzionari superiori sapevano già dall’autunno del 2019 di come sarebbe andata nel Belpaese. Il copione governativo italiano è stato preconfezionato all’estero.
Il Colao a capo della task force dissolta per eccellenza nel lampo di un’estate e apparentemente in frantumi, ripete come un mantra (alle festa del Foglio di regime) che “il mondo di ieri non esisterà più: accompagnare la transizione”, mentre accelera sul 5g e il denaro elettronico. Crimini contro l’umanità: eugenetica, tornaconto e dominio. L’autorità ha sospeso per oltre due anni – mediante un pretesto non comprovato – i diritti fondamentali degli esseri umani e poi è entrata nel corpo e nel genoma delle persone, con sostanze dannose, non testate adeguatamente.Percorrendo a ritroso le tappe del nuovo coronavirus, appare in tutta chiarezza l’operazione pianificata dai padroncini multinazionali del vapore. Fin dalla fase di Wuhan, l’obiettivo era arrivare a imporre la “vaccinazione” coatta con sieri sperimentali a tutti gli esseri umani.
Peraltro, la campagna vaccinale ha portato nelle casse dei produttori montagne di profitti economici, incluse le varianti o mutazioni e i richiami, causando l’indebolimento psico-fisico e la schiavitù del genere umano. Il fine evidente è il produrre un affare perpetuo, che si autoalimenta, in quanto l’esecuzione della campagna vaccinale durante l’epidemia stimola il formarsi di varianti (mutazioni adattative), le quali producono la domanda di ulteriori vaccinazioni, che a loro volta provocano altre varianti. Ecco la rendita perfetta, senza fine, senza saturazione di mercato, e che, essendo sostenuta dalla paura della morte, legittima ogni compressione dei diritti dell’essere umano: libertà, dignità, privacy, lavoro, risparmio, informazione; esso diventa un solido strumento di dominazione politica a livello globale.
Alla voce medicinali o farmaci non sufficientemente testati. I cosiddetti “vaccini” anti-Covid-19, attualmente autorizzati in modo condizionato al commercio dalla Commissione UE (Comirnaty di Pfizer/BioNTech, Moderna, AstraZenca ora Vaxzevria e Janssen) in realtà sono prodotti commerciali non assoggettati a fondamentali studi non soltanto clinici, per la verifica dell’efficacia e sicurezza, in barba ai principi giuridici nazionali ed internazionali, compreso il diritto dell’Unione europea. Non è stato realizzato alcuno studio sulle interazioni con altri medicinali (allegato I alla rispettiva Decisione di autorizzazione dell’immissione sul mercato). Inoltre, ancor più grave, queste sostanze corrispondono nel loro funzionamento esattamente a prodotti di “terapia” genica e sono idonee ad alterare il genoma, vale a dire l’identità biologica della persona.
La loro autorizzazione condizionata è avvenuta soltanto in base a una fraudolenta violazione della normativa dell’Unione Europea, grazie alle decisioni di esecuzione illegittime di autorizzazione della Commissione UE, attualmente sotto giudizio del Tribunale dell’UE a seguito di azioni per l’annullamento.
A tutt’oggi 27 novembre 2022 non è stata accertata in modo regolare una situazione di emergenza epidemiologica causata effettivamente dal SARS-CoV-2, non ancora identificato con esattezza scientifica; invece, da più di un anno si utilizzano in maniera del tutto abusiva e scientificamente non corretta i tamponi (test rT-PCR), nonché i cosiddetti tamponi rapidi (test antigenici).
L’Organizzazione Mondiale della Sanità a partire da dicembre 2020 ha avvertito che i risultati di questi test da soli non sono una prova di un’infezione da virus. Dalla fine di gennaio 2020 le persone sottoposte al solo test rT-PCR (oppure persino a solo tampone rapido) con risultato positivo, erano e sono automaticamente dichiarate come infette da SARS-CoV-2. Nonostante le ormai ripetute indicazioni dell’OMS nel dicembre 2020 e nel gennaio 2021, la maggior parte dei paesi (tra cui anche l’Italia) continua nella pratica, mendace e incostituzionale, consistente nel dichiarare i cittadini “infetti da SARS-CoV-2” sulla base del mero risultato di un test PCR, oppure di un tampone rapido. Al momento dell’autorizzazione di immissione sul mercato dei cosiddetti “vaccini” Covid-19 le autorità si basavano su dati completamente fasulli.
La falsità dei dati “epidemiologici” derivanti dall’uso abusivo dei test PCR, è stata accertata e confermata dal Tribunale Amministrativo di Vienna mediante la sentenza VGW-103/048/3227/2021-2 del 24 marzo 2021, e già prima dalla Corte di Appello di Lisbona (Portogallo) con la sentenza n. 1783/20 datata 11 novembre 2020. I giudici del Portogallo (Lisbona) e dell’Austria (Vienna) confermano che «per come sono impostati erroneamente i test PCR per SARS-CoV-2 (con un numero di cicli di amplificazione molto superiore al livello scientificamente valido) questi portano inevitabilmente ad un enorme numero di “falsi positivi”, fino al 95%». Inoltre, i giudici, confermano, che questi test di laboratorio non accertano l’infezione virale, ma che, invece, in caso di un risultato positivo al test, c’è rigorosamente bisogno dell’esame clinico del cittadino per la valutazione dei sintomi di malattia. Il che significa, che non possono essere prese misure che privano il cittadino dei suoi diritti fondamentali, soltanto a causa di un risultato di un mero test di laboratorio.
Secondo i meta-studi di John P.A. Ioannidis, l’epidemiologo più citato al mondo (Stanford University) il tasso di mortalità di Covid-19 è del 0,15 per cento. Dunque, non siamo al cospetto di una malattia che possa legittimare misure come quella di sottoporre una persona al trattamento con una sostanza sperimentale basata su tecnica genica non previamente testata. Inoltre, eccellenti medici di base italiani hanno dimostrato già un anno fa, che esistono da tempo medicinali, che, se utilizzati con scienza e coscienza, consentano la terapia a domicilio con straordinario successo! Il rappresentato intasamento delle terapie intensive degli ospedali è stato frutto di una errata applicazione di protocolli non corretti e della mancata redazione da parte degli organi dello Stato Italiano competenti del piano pandemico aggiornato. Se si è verificato tale intasamento è dovuto alle inaudite disfunzioni colpose e/o dolose di chi aveva il dovere di evitarle. È uno scandalo inaudito che debbano essere i medici ad adire ripetutamente la giustizia amministrativa (peraltro con successo!) per aver rispettato il loro dovere/diritto di utilizzare, secondo scienza e coscienza, i farmaci utili per la terapia a domicilio dei pazienti Covid-19 e per far sospendere istruzioni del Ministero della Salute e dell’AIFA che mettevano a grave rischio la salute e la vita dei pazienti covid-19 (Consiglio di Stato, sentenza numero 09070/2020 del 11.12.2020 e TAR del Lazio, Ordinanza numero 01412/2021 pubblicata il 04.03.2021). Nonostante ciò in molti ospedali italiani alcuni sanitari continuano ad applicare i protocolli sconfessati dallo stesso WHO perché prescritti dal ministero della salute.
Per tutte le sostanze sperimentali attualmente in uso e impropriamente definite “vaccini Covid-19”, allo stato delle conoscenze scientifiche, non è dimostrato che le persone “vaccinate” non si possano infettare e trasmettere il virus ad altri. Anzi, ci sono sempre più casi in cui persone già completamente “vaccinate” risultano essere portatori e trasmittenti del virus. Tali eventi sono tutti certificati anche nel rapporto ISS numero 4/2021 datato 13 marzo 2021. Lo scopo della “vaccinazione” è, anche secondo la previsione governativa, la “prevenzione” del contagio da SARS-CoV-2. Visto che le sostanze inoculabili sono, allo stato, autorizzate in maniera condizionata (perché difettano di tutta una serie di studi … come quelli sulla loro efficacia) ed esse non prevengono il contagio, la previsione già per questo motivo è, comunque, a prescindere dalla sua radicale incostituzionalità, non attuabile per impossibilità di raggiungimento dello scopo.
Nelle azioni di annullamento delle autorizzazioni di queste sostanze sperimentali pendenti davanti al Tribunale UE, è scientificamente dimostrato che queste sostanze non corrispondono ai presupposti di legge per essere considerati un “vaccino”. Queste sostanze sperimentali comportano degli enormi rischi alla salute e vita dei pazienti. Innanzitutto, mancano gli studi a medio e lungo termine degli effetti di queste sostanze sviluppate in pochissimi mesi. Ad oggi, non sono accertabili e dimostrabili gli effetti a medio e lungo termine, che, però, tanti rinomati esperti internazionali predicono essere devastanti. Inoltre, come comprovano le perizie scientifiche depositate in Tribunale UE nei procedimenti attualmente pendenti, mancano non soltanto intere fasi degli studi clinici, ma latitano persino importanti fasi degli studi pre-clinici. Così i cittadini italiani e dell’UE sono degradati a cavie per la sperimentazione di queste sostanze definite “impropriamente” vaccini-Covid-19.
Tutto ciò costituisce una evidente violazione del Codice di Norimberga, della dichiarazione di Helsinki, della Convenzione del Consiglio d’Europa di Oviedo per la protezione dei diritti dell’uomo e della dignità dell’essere umano riguardo all’applicazione della biologia e della medicina, ripresa in Italia con la legge numero 154 del 28 marzo 2001. L’articolo 1 della Convenzione di Oviedo impegna gli Stati (tra cui l’Italia) alla protezione delle Libertà Fondamentali dell’essere umano riguardo l’applicazione della medicina. L’articolo 2 sancisce il primato assoluto dell’essere umano: “L’interesse e il bene dell’essere umano devono prevalere sul solo interesse della società o della scienza”. Ai sensi dell’articolo 5 “Nessun intervento in campo sanitario può essere effettuato se non dopo che la persona a cui esso è diretto vi abbia dato un consenso libero ed informato. La persona a cui è diretto l’intervento può in ogni momento ritirare liberamente il proprio consenso. Ai sensi dell’articolo 16 nessuna ricerca può essere intrapresa su una persona a meno che il consenso di cui all’articolo 5 non sia stato dato espressamente, specificamente e per iscritto, e dunque corrisponda ad un consenso informato. Inoltre, secondo il diritto supra-nazionale ratificato in Italia, e che, dunque, è parte integrante e necessaria della nostra Costituzione, non si deve eseguire la sperimentazione se a priori si è a conoscenza che tale sperimentazione possa causare danni o morte. Dalla banca dati di EudraVigilance, che riporta i casi sospetti e ufficialmente segnalati (il numero reale è un multiplo di quello ufficiale perché la farmacovigilanza non funziona) di danni provocati dai cosiddetti “vaccini” anti-covid, risultano migliaia di morti e un enorme numero di gravissimi effetti dannosi post vaccinazione.
Un gruppo di illustri scienziati e medici provenienti da 25 paesi (Doctors for Covid Ethics) hanno inviato il 1° aprile 2021 una diffida alla direttrice generale dell’EMA chiedendo l’immediato arresto dell’applicazione delle sostanze sperimentali impropriamente definite “vaccino Covid-19”, e annunciando azioni legali per far accertare e dichiarare la responsalilità personale dei funzionari dell’UE che si rendono responsabili della violazione del Codice di Norimberga.
La previsione di cui all’articolo 4 del Decreto legge 1° aprile 2021 numero 44 configura per i rispettivi responsabili (membri del Consiglio dei Ministri) non solo il reato di violenza privata ma una grave estorsione, soprattutto, in considerazione dei dati ufficiali risultanti da EudraVigilance, in merito ai morti e danni gravissimi già segnalati, configura pure il reato di tentata lesione personale e di tentato omicidio plurimo aggravato a carico dei membri del Consiglio dei Ministri. Non è un caso che l’articolo 3 del predetto decreto legge preveda l’esenzione dei vaccinatori dalla responsabilità per omicidio colposo e lesioni. Ai sensi dell’articolo 51 del codice penale risponde del rispettivo reato anche chi ha eseguito l’ordine illegittimo del governo.
L’Italia è stata trasformata fulmineamente in un dispensario di orrori di Stato. E che dire dell’inibire da parte del ministero Speranza (circolare 8 aprile 2020) le autopsie e far cremare subito i corpi in modo che non si scoprissero gli errori diagnostici e terapeutici di cui sopra, il tutto al prezzo di circa centomila decessi evitabili, e senza di cui non si avremmo avuto il terrore, la accettazione di massa di assurde misure restrittive e il consenso alla vaccinazione forzata né il numero di morti richiesto per l’approvazione emergenziale dei vaccini? E ancora: il prescrivere di registrare come morti di Covid-19 tutti i trapassati con Sars-cov-2 anche se deceduti per altre cause, comprese quelle traumatiche; come risulta dal costatare le statistiche Istat che descrivono gli stessi morti in numero degli anni precedenti. Quindi, il presentare al pubblico il virus come altamente letale, mentre la sua letalità si aggira globalmente tra lo 0,2 e lo 0,3 per cento, pari a quella di una comune influenza, e verosimilmente pronta a scendere ulteriormente, se ben curata, secondo i nuovi protocolli, maturati nell’ambito della esperienza territoriale. E così via: il secretare le relazioni del CTS e insieme il disattenderle da parte del governo italiano; l’equivocare e distorcere in senso allarmistico i dati statistici e i concetti clinici nella comunicazione per il pubblico; l’imporre misure di lockdown incoerenti e illogiche, nonché probabilmente controproducenti, in quanto impedirebbero l’endemizzazione del virus col suo conseguente depotenziamento; l’eseguire una campagna vaccinale in corso di epidemia, sapendo che può indurre la nascita di ceppi mutanti resistenti, e la loro diffusione, cose che in effetti si stanno avverando, esattamente in proporzione lineare con la pratica della asserita immunizzazione. C’è un giudice almeno a Berlino?
Riferimenti:
https://eudravigilance.ema.europa.eu/Decommissioned/Decommissioned.html
https://ec.europa.eu/health/documents/community-register/2021/20210319151417/dec_151417_it.pdf
https://www.frei-netz.org/human-experiment-free
https://www.rete-libera.org/human-experiment-free
https://ec.europa.eu/health/documents/community-register/2021/20210319151417/anx_151417_it.pdf
https://www.nommeraadio.ee/meedia/pdf/RRS/Rockefeller%20Foundation.pdf
https://www.weforum.org/great-reset/
https://ec.europa.eu/info/strategy/priorities-2019-2024/european-green-deal_it
https://sulatestagiannilannes.blogspot.com/search?q=coronavirus
https://sulatestagiannilannes.blogspot.com/search?q=5g
https://sulatestagiannilannes.blogspot.com/search?q=colao
https://sulatestagiannilannes.blogspot.com/search?q=green+pass
https://sulatestagiannilannes.blogspot.com/search?q=covid
Gianni Lannes, IL GRANDE FRATELLO, Draco edizioni, Modena, 2012.
Gianni Lannes, VACCINI DOMINIO ASSOLUTO, Nexus Edizioni, Battaglia Terme, 2017.
Gianni Lannes, VACCINI CAVIE CIVILI E MILITARI, Nexus Edizioni, Battaglia Terme, 2018.
FONTE: http://sulatestagiannilannes.blogspot.com/2022/11/nuovo-coronavirus-pandemia-inventata-e.html
Come costruire una città collaborativa: in conversazione con Sheila Foster
Benvenuti al podcast La città sostenibile . Questo mese parliamo con Sheila Foster, professoressa di diritto e politiche urbane alla Georgetown University e co-direttrice di LabGov , un progetto internazionale di ricerca applicata che ha aperto la strada a un nuovo modello di governance urbana e a un percorso verso una gestione più equa della città infrastrutture e servizi.
Nel suo nuovo libro, ” Co-Cities: Transizioni innovative verso comunità giuste e autosufficienti “, e nella discussione che segue, Foster descrive le pratiche, le leggi e le politiche che stanno promuovendo l’innovazione urbana, dalla fornitura di servizi urbani come il transito e parchi, a stimolare economie collaborative, a promuovere la riqualificazione inclusiva ed equa di lotti urbani degradati. Come spiegano Sheila e il suo coautore Christian Iaione, la maggior parte della popolazione mondiale vive nelle città, ma nonostante la ricchezza che le città hanno creato, i loro residenti più vulnerabili vivono ancora senza alloggi adeguati, acqua potabile, cibo sano o altri elementi essenziali. Tuttavia, sostiene Foster, le città possono ancora porre rimedio alle disuguaglianze che creano. Queste sono co-città.
Di seguito è riportato un flusso e una trascrizione completa della nostra discussione. Puoi iscriverti al podcast The Sustainable City su Soundcloud , Amazon , Spotify , Apple Podcasts o ovunque tu riceva i tuoi podcast.
William Shutkin : Benvenuti a The Sustainable City Show, un nuovo podcast in cui discutiamo di idee e innovazioni audaci per città verdi, eque e rispettose del clima con le persone che le realizzano.
Nel suo nuovo libro, “Co-Cities: Transizioni innovative verso comunità giuste e autosufficienti”, la nostra ospite, Sheila Foster, descrive le pratiche, le leggi e le politiche che stanno promuovendo l’innovazione urbana, dalla fornitura di servizi urbani come trasporti e parchi a stimolare le economie collaborative a promuovere la riqualificazione inclusiva ed equa di lotti urbani degradati.
Come spiegano Sheila e il suo coautore, Christian Iaione, la maggior parte della popolazione mondiale vive nelle città, ma nonostante la ricchezza che le città hanno creato, i loro residenti più vulnerabili vivono ancora senza alloggi adeguati, acqua potabile, cibo sano o altri beni essenziali. . Tuttavia, sostengono Sheila e Christian, le città possono ancora porre rimedio alle disuguaglianze che creano. Queste sono co-città.
Sheila è la Scott K. Ginsburg Professor of Urban Law and Policy presso la Georgetown University. Ha un incarico congiunto con il Law Center e la McCourt School of Public Policy. Durante l’anno accademico 2021-22, è stata la prima Associate Dean for Diversity, Equity and Inclusion per il Law Center. È anche co-direttore di LabGov, un progetto internazionale di ricerca applicata che ha aperto la strada a un nuovo modello di governance urbana e un percorso verso una gestione più equa delle infrastrutture e dei servizi di una città. Dal 2017 al 2020 è stata presidente del comitato consultivo del Parlamento globale dei sindaci ed è attualmente co-presidente dell’Equity Work Group del panel del sindaco di New York City sui cambiamenti climatici.
Benvenuta Sheila.
Sheila Foster : Grazie. È bello essere qui. Mi sento piuttosto onorato di essere stato invitato.
Andy Bush : Sheila, grazie mille per essere qui. Sei stato coinvolto nell’intersezione tra città, ambiente, pianificazione urbana e diritto per decenni. Forniscici solo alcuni retroscena prima di entrare nel libro e in LabGov. Raccontaci davvero come sei arrivato qui oggi.
Sheila Foster: Sicuro. Ho iniziato la mia carriera, almeno nel mondo accademico, dopo un breve periodo come avvocato praticante presso uno studio legale, esaminando l’intersezione tra diritti civili e questioni ambientali in un campo chiamato giustizia ambientale. Sappiamo che ora lo riconosciamo come un campo. A quel tempo, la maggior parte delle persone non sapeva davvero cosa fosse. Quando ho iniziato questo lavoro nella mia carriera accademica, poco dopo aver incontrato Luke Cole, il mio coautore di uno dei miei primi libri intitolato “From the Ground Up: Environmental Racism and the Rise of the Environmental Justice Movement”, ho iniziato a provare per capire perché alcune comunità sopportano un carico sproporzionato di cose brutte: scarsa qualità dell’aria, mancanza di accesso all’acqua potabile, vivevano vicino alle autostrade e soffrivano di tassi più elevati di malattie respiratorie e di altro genere che erano probabilmente legate alla loro esposizione a tossine e altri inquinanti. Ed è così che ho iniziato.
E ho passato molti anni a lavorare, non solo sulle questioni legali che si sono verificate in questa intersezione tra diritti civili, diritto ambientale e uso del territorio, ma anche lavorando con le comunità, lavorando con le agenzie governative, lavorando con le fondazioni su come affrontare il problema . Quindi è lì che ho iniziato davvero.
William Shutkin : E Sheila, è stata quell’esperienza, guardando i diritti civili, le questioni ambientali, guardando le città e, del resto, altre comunità rurali – cosa c’è stato nella tua prima esperienza che alla fine ti ha portato a concentrarti davvero come un laser su questioni di governo? Tu ed io ci conosciamo ormai da quasi 30 anni, e in quel periodo sei davvero diventato non solo un esperto, ma penso che uno dei nostri pensatori più perspicaci sul ruolo che la gestione e la governance svolgono nella gestione effettiva, che incidono sugli esiti ambientali tra le comunità più colpite o più vulnerabili. Qual è il lato di governance di questo per te?
Sheila Foster : Esatto. Quindi questa è un’ottima domanda. Penso che dopo 10 o 15 anni di lavoro con le comunità e cercando di lavorare con, come ho detto, agenzie e altri responsabili politici, città, sono diventato molto frustrato e davvero abbastanza abbattuto perché anche dopo che molti politici davvero bravi, incluso il presidente Clinton, che hanno firmato il primo ordine esecutivo sulla giustizia ambientale e il presidente Obama, che ha nominato il primo capo nero dell’Agenzia per la protezione ambientale, non c’è stato abbastanza movimento per risolvere questi problemi.
E il motivo che mi è diventato chiaro per cui non c’era abbastanza movimento era questa questione di governance. Chi decide? Chi prende le decisioni sull’accesso a beni e servizi e sulla qualità di quei beni e servizi, dalle abitazioni alle strade, ai parchi, a ciò che viene collocato nel proprio quartiere? Come vengono prese queste decisioni?
Perché lavorare con e nelle comunità, per me, è diventato il nocciolo della questione. Se non avevano il potere di influenzare quelle decisioni, a volte venivano prese a livello locale, a volte a livello nazionale, a volte a livello di dichiarazione. Se davvero non avevano alcun potere, allora gli sforzi che stavamo facendo per respingere, presentarci alle udienze, protestare, intentare cause legali, mi sembravano del tutto inutili.
Quindi questo mi ha portato a voler fare un passo indietro e guardare alla più ampia, chiamiamola infrastruttura, di governance che determina davvero quanto sostenibili, sane e giuste possano essere le comunità. Ed è stato allora che ho iniziato ad allontanarmi dal guardare rigorosamente alla giustizia ambientale. La giustizia ambientale e climatica ora fanno parte di ciò che faccio, ma nel contesto del ripensamento di come vengono prese le decisioni e quali sono le leve per cambiare quei processi decisionali e come possiamo decentralizzarli lontano da – chiamiamoli mediatori di potere o monopolio attori – che prendono decisioni che non tengono pienamente conto del costo di tali decisioni sulle nostre comunità più vulnerabili.
Andy Bush : E Sheila, cosa vedi quando ci pensi? Quali sono i cambiamenti più significativi in cui sei stato coinvolto o che dobbiamo apportare per allontanarne un po ‘dai potenti mediatori che hanno tradizionalmente preso quelle decisioni?
Sheila Foster : Bene, questo arriva davvero al lavoro che ho svolto con LabGov e al framework di co-città che abbiamo impiegato circa un decennio a sviluppare, sia attraverso il nostro lavoro in varie città, a partire dalle città europee e poi trasferirsi nelle città americane e lavorare anche con una miriade di altri paesi e regioni e città anche in America Latina, Asia e Africa.
Ma quel lavoro è iniziato davvero iniziando con i responsabili delle decisioni. E in questo caso è con i governi locali perché i governi locali nella maggior parte del mondo, ma in particolare qui negli Stati Uniti, hanno il maggior potere sulle loro infrastrutture, sulle cose che determinano il modo in cui viviamo, l’aspetto delle nostre comunità e che tipo di beni e servizi otteniamo. E allora la leva più efficace che abbiamo trovato nel tempo è, come direbbe il collega Christian Iaione, ridisegnare il municipio, ridisegnare il funzionamento della struttura decisionale nei luoghi dove le persone vivono.
Quindi, ad esempio, in che modo le agenzie, i sindaci o altri funzionari pubblici lavorano con interessi al di fuori del governo? Sappiamo che lavorano sempre con interessi privati. Collaborano in questi partenariati pubblico-privati. Ma abbiamo anche visto, e ciò su cui abbiamo lavorato è che possono avere partenariati pubblico-pubblico e partenariati pubblico-pubblico o pubblico-privato per creare, co-creare i tipi di beni e servizi, dai parchi agli alloggi a prezzi accessibili a spazi imprenditoriali accessibili non solo per rafforzare le comunità, ma condividere le risorse e le infrastrutture di una città, di un governo locale, per condividerle con le comunità principalmente per creare nuovi beni e servizi. Quelli potrebbero essere una rete a banda larga. Potrebbe essere una comunità energetica. Potrebbe essere un alloggio a prezzi accessibili e un fondo fondiario comunitario. Quindi abbiamo lavorato su tutto questo e lo abbiamo fatto attraverso questa lente di riprogettazione di un quadro di governance che metta quelle comunità su un piano di parità con altri partner, incluso il governo locale. Ma ciò richiede che il governo locale ripensi e persino riprogetti il modo in cui funziona.
William Shutkin : Affascinante, Sheila. Di recente abbiamo parlato con la nostra collega Sarah Bronin, che, come te, tende a concentrarsi a livello di comunità. Come sapete, il suo obiettivo è davvero il livello normativo e politico, in particolare la suddivisione in zone, una sorta di infrastruttura a sé stante. E sostiene con forza che la suddivisione in zone è così essenziale per la qualità della vita dei residenti nelle città e nei paesi, ma è spesso trascurata.
Stai facendo un’affermazione simile, ancora una volta, focalizzata in gran parte a livello locale. Adoro questa idea di una sorta di riprogettazione del municipio con un focus specifico su infrastrutture reali, infrastrutture fisiche, infrastrutture sociali. Puoi darci un esempio tratto dal libro e/o dalla tua esperienza nell’ultimo decennio di cosa significhi effettivamente ridisegnare il municipio e co-creare, come dici tu, con altri pubblici, più accesso, migliore infrastruttura condivisa nelle città a vantaggio generale?
Sheila Foster : Certo. Quindi inizierò in Europa, che è dove abbiamo iniziato, e poi mi trasferirò negli Stati Uniti. Ti faccio tre esempi.
Il primo, la città di Bologna, Italia. È lì che abbiamo avviato il nostro progetto più grande, ridisegnando, per così dire, la struttura di governo della città di Bologna, lavorando lì con l’ufficio del sindaco e in particolare con il vicesindaco di allora. Il mio collega Christian mi ha aiutato a redigere, e io sono entrato a un certo punto, un nuovo regolamento chiamato Cura e Rigenerazione dei Comuni Urbani a Bologna. E quello che la città ha fatto è stato ripensare, ha attraversato un processo di ripensamento di come funziona con le comunità attorno ai portici di Bologna sotto cui si cammina quando si vuole evitare di essere al sole o alla pioggia, piazze o parchi o una struttura abitativa, una struttura abitativa a prezzi accessibili per i migranti in un quartiere periferico.
E il modo in cui hanno iniziato a ripensarci è stato per dire che decentralizzeremo davvero il modo in cui ricostruiamo queste cose e le miglioriamo. E stiamo entrando in quelli che vengono chiamati patti di collaborazione, con comunità o no profit e università. E lo faremo prima attraverso la creazione di laboratori di quartiere dove usciamo dal municipio e sperimentiamo questo processo di riprogettazione, questo processo di co-creazione nei luoghi in cui capita di renderlo più accessibile.
E poi noi, la città, trasferiremo le risorse. Potrebbero essere risorse fisiche. Potrebbe essere un edificio e una scuola inattiva. Potrebbero essere soldi. Potrebbe essere una serie di altre cose. E Bologna ha messo in atto questa politica e firmato, credo ad oggi siano oltre 500 patti di collaborazione. Da allora siamo entrati e abbiamo valutato quei patti in base a ciò che pensavamo che la città stesse cercando di fare. E alcuni di loro hanno mantenuto la promessa, altri no. Ma lo metto da parte.
Un altro tassello del progetto bolognese è che il mio collega Christian li ha aiutati a progettare un ufficio dell’immaginazione civica. Quindi, ancora una volta, è giusto riprogettare, e cioè creare un ufficio che sia davvero progettato per reinventare la governance in tutta la città, e che funzioni in modo decentralizzato. E quell’ufficio non era in municipio, ma fuori in un quartiere. Il mio collega ha lavorato con altre città italiane, Reggio Emilia in questo momento, nella creazione di uffici di citizen science dove, ancora una volta, la città sta ripensando il modo in cui lavora con i partner della conoscenza e le comunità per creare nuovi beni e servizi secondo la scienza sociale e di altro tipo più innovativa in circolazione, in tal caso, clima ed energia. Quindi questo è un esempio.
William Shutkin : Sheila, solo per essere chiari e sostenere… Quindi quello che stai dicendo, e quello che suona come il punto di partenza per le co-città è A) letteralmente municipio, il governo della città diventa extramurario, va al di fuori delle sue mura fisiche in i vari quartieri, parti della città e coinvolgendo i residenti locali in veri e propri progetti civici pratici. E B) questi patti, PACT o alleanze in cui la città e quei quartieri concordano determinati passaggi di azione per migliorare alcune parti chiave o parti prioritarie della vita cittadina. È giusto?
Sheila Foster : Sì, così come il trasferimento di risorse. Direi che ci sono due parti. Uno è quella parte della governance, che hai inquadrato molto bene. Ma il secondo, importante, è la condivisione della città stessa. Quindi Christian e io abbiamo scritto un articolo intitolato The City as a Commons , e l’idea è che se pensiamo all’infrastruttura della città come a una risorsa condivisa, allora i funzionari locali, i decisori che detengono e governano quella risorsa dovrebbero essere in grado, non solo di cogovernarlo con noi, ma di condividere la risorsa. E per condivisione intendiamo attraverso la condivisione, ancora una volta l’infrastruttura fisica. Potrebbero essere le reti di trasporto o di comunicazione, che mi porteranno al mio secondo esempio.
Il mio secondo esempio è quando ho portato – dopo che abbiamo avuto una convocazione al Bellagio Institute della Fondazione Rockefeller di molte città diverse che erano interessate dall’America e dall’Europa a metterlo in atto, e l’abbiamo lavorato un po ‘con un certo numero di città diverse . Ho iniziato a pensare a come potrebbe applicarsi nel contesto degli Stati Uniti, che è un contesto molto diverso dall’Europa per un sacco di ragioni che non entrerò ora.
Quindi lavoro con una serie di partner di Fordham, di un’organizzazione senza scopo di lucro, dovrei dire basata sulla comunità, ad Harlem chiamata Silicon Harlem con la città di New York, e infine con una società privata per donare server per co-creare un rete a banda larga ad alta velocità della comunità condivisa utilizzando l’innovativa tecnologia Edge Cloud. E sono stati coinvolti numerosi partner universitari e ingegneri dell’UVA e dell’Arizona State.
E la co-città, parte di quella era due cose. Uno, ancora una volta, torna alla questione della governance e della condivisione delle infrastrutture. New York City è una città intelligente, e se sei stato a New York di recente, sai che c’è un portale in molti angoli dove puoi connetterti a Internet gratuitamente. Quindi New York City è fortemente cablata, eppure una famiglia su tre in molte parti di New York City non ha accesso alla banda larga in casa. Ciò significa che i bambini non possono fare i compiti a casa. Devono andare in una biblioteca pubblica o stare davanti a Starbucks e prendere un segnale. Le persone non possono cercare lavoro, ecc. Quindi stavamo cercando di colmare il divario digitale attraverso una risorsa comune co-costruita, una rete a banda larga comunitaria.
E ciò ha comportato il riunire come partner quella che chiamiamo la quintupla elica dell’innovazione. Se ottieni istituzioni di conoscenza pubblico-privato, organizzazioni civiche o ciò che io chiamo istituzioni e comunità di ancoraggio e le metti su un piano di parità, puoi creare qualcosa. E abbiamo creato qualcosa. Microsoft ha donato dozzine di server per la rete Edge Cloud nel corso di diversi anni. E questa prova di concetto è stata finanziata dalla NSF. Abbiamo fatto prove partecipative. Siamo entrati nella NYCHA Housing, l’autorità per le case popolari. Abbiamo parlato con i residenti lì. Abbiamo convocato molte parti interessate diverse e messo in atto questo. E stiamo ancora lavorando sulla struttura di governance su come co-governare un Edge Cloud, una rete piuttosto innovativa lì. Quindi questo è l’esempio due.
William Shutkin : Wow, Sheila. Ehi Sheila, solo una domanda veloce a riguardo. Quanti anni ci sono voluti per tenerla in piedi, per convocare tutti i partner e per cominciare ad attuare concretamente un piano?
Sheila Foster : Beh, per dirla in termini di prova di concetto, è stato un progetto che è stato finanziato e completato come prova di concetto in tre anni. E con questo intendo non solo tenere, quindi il partner della comunità, Silicon Harlem, è stato il principale convocatore. Potrebbero convocare centinaia, se non migliaia, di persone alla volta. Avevano accesso alle case popolari, alle piccole imprese. Quindi siamo stati in grado di parlare con tutte le parti interessate e altri partner sono saliti a bordo.
Uno dei nostri principi di progettazione è mettere le comunità al centro. Quindi, se li porti prima e capisci di cosa hanno bisogno le persone e le risorse che possiamo co-creare, e poi gli attori pubblici vengono coinvolti, allora puoi iniziare a portare altri partner al tavolo. Quindi ci sono voluti circa tre anni per riunirsi, per capire come avrebbe funzionato, per testare in modo partecipativo e creare quello che chiamiamo un CAB, un comitato consultivo della comunità, per iniziare a lavorare sulla struttura di governance. Quindi questo è l’esempio due.
L’esempio tre è Baton Rouge, Louisiana. La Redevelopment Authority, che è un braccio del governo locale, ci ha chiamati a portare l’approccio della co-città in un’area di quattro miglia di Baton Rouge, che è una città spazialmente, economicamente e razzialmente fortemente stratificata. E questa parte di quattro miglia era una vecchia parte commerciale nera o afroamericana della città che aveva davvero molte proprietà libere, che la Redevelopment Authority deteneva in una banca fondiaria, o detiene in una banca fondiaria, e molto potenziale per lo sviluppo. E avevano ottenuto finanziamenti per gestire una nuova linea di trasporto che si collegasse a parti della città. Ma sapevamo che una volta che ciò fosse accaduto, questa comunità sarebbe stata probabilmente spostata.
Quindi quello che avremmo fatto era di nuovo riunire vari partner con la comunità al centro per trovare un modo per creare amministratori, amministratori locali nella comunità che aiutassero a gestire quella rivitalizzazione in un modo che mantenesse la comunità al suo posto in gran parte intatto, poiché sapevamo che la gentrificazione sarebbe arrivata con la nuova linea di transito finanziata dal governo federale.
E così li abbiamo aiutati a co-progettare un Echo Park con parte del terreno libero che non avrebbe fornito nessuno spazio verde nella comunità, ma avrebbe anche fornito un modo per ridurre le inondazioni nell’area. Li abbiamo aiutati a co-progettare una banca fondiaria comunitaria combinata e un trust fondiario in cui molte delle proprietà vacanti detenute dall’Autorità per la riqualificazione sarebbero state messe in un trust combinato con una struttura di governance tripartita con le persone che alla fine avrebbero occupato qualunque cosa fosse costruito su quella fiducia, che si tratti di alloggi a prezzi accessibili o spazi commerciali a prezzi accessibili, un terzo del settore privato ed esperti e un terzo dei funzionari del governo locale.
E così li abbiamo aiutati a creare quell’entità, e come precursore del trasferimento di lotti e proprietà liberi in quell’entità da parte dell’Autorità per la riqualificazione, e ora stanno raccogliendo fondi da vari altri partner per iniziare a riqualificare tutta quella terra in quella comunità, ancora una volta, con la comunità nel consiglio di amministrazione di quell’organizzazione, con un ulteriore comitato consultivo della comunità e un modo per, ancora una volta, rivitalizzare in un modo che non è centralizzato ma decentralizzato. E questo mette le comunità al centro e come amministratori della vitalizzazione a lungo termine.
Quel progetto è ancora in corso. Siamo stati finanziati come parte di una collaborazione che ha ricevuto 5 milioni di dollari dall’Advancing Cities Grant della Chase Foundation. Quindi, ancora una volta, questo è un progetto che è ancora in corso.
Andy Bush : Allora Sheila, parlaci un po’ del tuo co-autore, di come sono iniziate le cose a Bologna e di come si è trasformato nel libro, e dicci di più sul libro stesso.
Sheila Foster : Certo. Quindi questa è in realtà una storia divertente, ed è il sogno di ogni accademico, devo dire. Un giorno ricevo una telefonata da Christian Iaione, che è italiano, ma che ha conseguito il Master in Law alla NYU. Ed era a New York un giorno, e mi ha chiamato o mi ha scritto un’e-mail chiedendomi di incontrarci per dirmi che aveva letto il mio lavoro sugli Urban Commons. Avevo scritto sul ripensamento di come i parchi, i giardini e le strade nelle città vengono gestiti collettivamente usando come ispirazione il lavoro vincitore del premio Nobel di Elinor Ostrom.
E lui ha detto , ho letto il tuo lavoro e sto redigendo questo atto legislativo per la città di Bologna usando il tuo lavoro, quindi mi piacerebbe che tu venissi ad aiutarmi in Italia. E io ero tipo, prima di tutto, chi non vorrebbe andare in Italia? Ma in secondo luogo, che onore. Quindi quello è stato davvero l’inizio di una relazione meravigliosa, meravigliosa, un viaggio accademico, davvero un viaggio intellettuale, ma anche, penso davvero, esperimenti davvero innovativi.
Non solo abbiamo iniziato a lavorare nelle città, ma una delle cose che abbiamo fatto è stata una conferenza a Bologna nel 2015, credo, dove abbiamo invitato l’Associazione internazionale per lo studio dei beni comuni, che era l’eredità e il gruppo di Elinor Ostrom, e ora sono gli studiosi di tutto il mondo che hanno studiato i Comuni. Così abbiamo organizzato la loro prima conferenza Urban Commons a Bologna e abbiamo raccolto oltre 200 ricercatori da tutto il mondo.
Da quella conferenza, siamo stati così ispirati dal modo in cui le persone di tutto il mondo pensavano ai beni comuni nelle città che abbiamo deciso di lanciare un progetto empirico. E questa è anche la base del libro, ovvero che abbiamo esaminato oltre 500 progetti in oltre 200 città in tutto il mondo che prevedono una sorta di coproduzione e cogovernance di beni urbani condivisi, solo per avere un’idea di come può funzionare in contesti diversi, come appare.
E poi proprio come Ostrom ha fatto, seguendo le sue orme – in parte quello che stiamo facendo è molto diverso da quello che ha fatto lei, ma seguendo almeno le sue orme metodologiche – abbiamo quindi deciso di estrarre, come ha fatto lei, ciò che chiamiamo principi di progettazione per una co-città. Perché l’idea è che non è prescrittivo. Non stiamo dicendo che è così che si crea una co-città. Non sarà sempre un pezzo di regolamento. In effetti, a New York oa Baton Rouge non esisteva alcuna regolamentazione. Non sembrerà sempre uguale, ma ci sono alcuni principi che sono al centro di ciò che chiamiamo co-città, basati sia sul nostro lavoro teorico sui beni comuni, sia sui nostri esperimenti sul campo, e poi su questo più ampio indagine empirica. E il libro è davvero un rapporto su questo.
William Shutkin : Ben detto. Andy, solo ora sto pensando più o meno, non so se sia ironia, ma uno dei principali progetti di Andy si chiama Boulder Commons, probabilmente il primo aspirante edificio commerciale multi-tenant zero in Colorado, se non il più ampio Ovest. Ma si chiama Boulder Commons. Andy, con lo stesso tipo di spirito, giusto?
Andy Bush : Voglio dire, per me, volevamo creare un luogo dove le persone potessero riunirsi, dove le persone fossero incluse. E quindi non è stata solo l’idea di costruire gli edifici e lo sviluppo attorno a uno spazio comune all’aperto, ma anche di costruire una galleria all’interno destinata a eventi e spettacoli. E quindi per me, stavo pensando ai comuni delle vecchie città del nord-est nel Vermont e ai luoghi in cui ero stato e dove le persone non si erano davvero sviluppate. Erano tutti questi edifici e sviluppi esclusivi, non costruiti perché le persone entrassero e ne facessero parte. Quindi quello è stato un po ‘il nostro gesto come parte di esso.
William Shutkin : Beh, è anche un’opera interessante, Andy, se ci penso, il tipo di ibridazione dello spazio pubblico-privato. Il nostro collega, Gerald Caiden, come sapete, ha scritto molto sulla privatizzazione dello spazio pubblico in luoghi come New York City. Penso che Andy stesse cercando, in molti modi, di invertire con successo quell’equazione, lo spazio privato diventava molto pubblico.
Sheila, come hai descritto il libro – e mi limiterò a inserire una spina per MIT Press e la serie Urban and Industrial Environment di cui tu ed io siamo entrambi autori – mi sta ricordando molto la strategia e lo spirito di gran parte del primo lavoro di giustizia ambientale in cui tu, io e tanti altri siamo stati coinvolti in cui, sì, c’è stata una causa legale, c’è stata una difesa per il cambiamento delle politiche, ma è stato davvero, in tanti modi, come sai così bene , sul coinvolgimento delle comunità interessate, ex ante rispetto a ex post.
E come possiamo impegnarci e co-creare strategie e piani per miglioramenti ambientali in un modo che coinvolga e investa quella conoscenza locale, ma porti anche altre prospettive, risorse e voci, in modo da evitare così tanti dei problemi storici dell’inquinamento prendendo la via della minor resistenza politica. Quindi vedo davvero questo potente tipo di lignaggio tra il lavoro che stavi facendo negli anni ’80 e ’90, e ora questo quadro, che come dici tu, è una sorta di agnostico dell’argomento. Può essere a banda larga. Possono essere parchi. Può essere acqua e fogna, qualsiasi servizio urbano chiave di cui le comunità hanno bisogno per prosperare, questo modello, come dici tu, può aiutare a svilupparsi e sostenersi. Vedi lo stesso lignaggio? Voglio dire, qual è la linea di passaggio lì per te?
Sheila Foster : Assolutamente. Bene, quindi abbiamo chiuso il cerchio e tu l’hai fatto meravigliosamente. Aggiungerei che potrei inquadrarlo in modo leggermente diverso, non solo ex ante contro ex post, perché c’è una famosa scala di partecipazione pubblica di Arnstein, e ciò di cui stiamo veramente parlando è scalare quella scala. E nel mio lavoro sulla giustizia ambientale, consultazione, inclusione, collaborazione partecipativa, abbiamo fatto tutto questo.
Ma non arrivi davvero in cima alla scala fino a quando non inizi a cambiare i rapporti di potere. Quindi quello che direi è che queste comunità mancano di potere, anche i processi collaborativi più inclusivi sull’uso del suolo in zone, potrebbe essere, e sono d’accordo con Sarah Bronin che tutto torna non solo alla zonizzazione ma alle regole sull’uso del suolo. Ma devi avere il potere di essere in grado di rimodellarli, di rimodellare, e semplicemente presentandoti a una riunione del consiglio della comunità o a un’udienza di autorizzazione da parte dell’agenzia statale per l’ambiente che sta per mettere qualcos’altro in un quartiere di colore e urlare contro il a pieni polmoni o lavorare con gli avvocati per creare una testimonianza molto ponderata, non muove la palla. Ciò che muove la palla è che fai parte del vero processo decisionale, non che stai solo dando input, ma che sei un vero partner.
William Shutkin : Quindi questo fa parte del patto, Sheila? Quindi, quando descrivi il caso di Bologna, voglio dire, suona come se parlassi da avvocato, una vera specie di patto contrattuale in cui il comune e il quartiere sono in qualche modo legati l’uno all’altro, e c’è un documento che spiega esattamente quali sono i loro obblighi o le responsabilità sono. Negli esempi di Baton Rouge e New York, che tipo di strumenti contrattuali o di altro tipo avete implementato in modo che ci sia davvero quel trasferimento o condivisione del potere rispetto a qualcosa che suona davvero bene ma che in cinque anni potrebbe scomparire senza che nessuno lo sappia o lo sappia? considerato responsabile?
Sheila Foster : Quindi non voglio valorizzare un contratto o un patto perché tu puoi… Quindi un esempio di quegli accordi di benefici per la comunità negli Stati Uniti in cui la comunità ha firmato accordi con gli sviluppatori per alcuni benefici che accompagnano uno sviluppo, a volte quelli sono soddisfatte. A volte no. Quindi penso che sia un buon strumento. Penso che i contratti, i patti siano uno strumento.
Quello che è successo in Italia è che dopo Bologna, molte città italiane e altre città europee hanno letteralmente copiato e incollato quel regolamento, ma non hanno fatto il lavoro che vi suggeriamo di fare per creare una co-città. Non credo che il patto di Bologna sia il modello. Penso che sia perché il Bologna, a quel tempo, era innovativo e lungimirante. Ma ancora una volta, siamo tornati indietro e abbiamo valutato quei patti, e alcuni di loro realizzano i principi di progettazione, ma altri no. Molti non lo fanno perché sono tutti interventi su larga scala, o sono solo con un partner privato o un’altra organizzazione che non sta davvero spostando il potere decisionale sulle comunità più vulnerabili che hanno più bisogno in termini di beni e servizi che possono essere co-creati dall’infrastruttura della città. Ecco perché sembra diverso in ogni città. Proprio per questo non è prescrittivo.
Ma prima di concludere qui per un minuto, voglio solo dire che la legge è ovunque sullo sfondo. Quindi, nella misura in cui la tua domanda sta dicendo, come facciamo a farlo aderire? Sì, in molti luoghi devi cambiare le leggi, a volte la zonizzazione, a volte le leggi sull’uso del suolo, a volte per ottenere l’accesso, a volte per mantenere l’accesso. Sembra molto diverso in ogni progetto. Quindi penso che sia questo il punto.
Andy Bush : Beh, e questo è solo una parte di ciò a cui siamo stati testimoni. Stavo giudicando per l’Urban Land Institute Americas Awards for Excellence, e ce n’erano diversi a Chicago. E i due che spiccavano erano a ovest ea sud. E ho avuto la possibilità di passare un po’ di tempo con Maurice Cox, che è il nuovo commissario per la pianificazione a Chicago, ed era a Detroit. È stato in molti posti diversi, solo un meraviglioso essere umano. Ma a Chicago, è stato un cambiamento di focus. Ed è commissario per la pianificazione, con il sostegno politico, e ha affermato che il lato nord e il centro hanno la loro giusta quota di infrastrutture e risorse. E anche sul suo sito web e nella sua descrizione, dirà, come commissario per l’urbanistica, che mi concentro sul lato ovest e sud. E ci mettono la loro energia. Si è concentrato su questo. Si è assicurato che ci fossero risorse condivise e assegnate di conseguenza. E per me, questo tipo di impegno e concentrazione è importante quanto fare, come dici tu, un patto o una dichiarazione.
William Shutkin : Andy, se solo potessi… Sheila, e ovviamente voglio sentire la tua risposta… ma sto pensando, beh, due cose. Uno, sarebbe fantastico collegare Sheila e Maurice se non sono già collegati, portare la struttura delle co-città a Chicago. Perché cosa succede quando Maurice se ne va e le sue priorità o quelle dell’amministrazione cambiano o cambiano e all’improvviso è di nuovo il lato nord del centro rispetto a ovest e sud? Quindi Sheila, parte del punto della tua struttura è che sopravvive alle persone e cambia…
Andy Bush : Parliamo dell’istituzionalizzazione di questo.
Sheila Foster : Beh, è vero. Quindi questo concetto di amministrazione è davvero fondamentale proprio qui: mettere le persone che trarranno maggiori benefici e che storicamente, credo, sono state dalla parte dei perdenti dei progetti di riqualificazione e di molte riqualificazioni mirate e ben intenzionate nei quartieri o in città, ma non è andata nel modo in cui era stato progettato o che l’investimento avrebbe dovuto catalizzare davvero. Ma mettendo le persone al centro di tutto ciò, creando steward, sono d’accordo… Quindi, prima di tutto, istituzionalizzi gli steward, e ci sono molti modi per farlo. Potresti farlo attraverso dei patti. La fiducia fondiaria comunitaria è un modo. Ci sono molte innovazioni in via di sviluppo intorno a questo.
Ma creando amministratori a lungo termine, quindi non dipende da chi è sindaco o vicesindaco o commissario in quel momento, perché in tutte queste città abbiamo visto il passaggio all’euro. Quindi la domanda è: come creare istituzioni che possano aiutare queste comunità ad essere autosufficienti nelle loro attività di rivitalizzazione e riqualificazione?
Voglio dire, sono nato a Detroit e tutta la mia famiglia è lì. Sono cresciuto in parte lì e a Miami, voglio dire, quindi Detroit è davvero un ottimo esempio, credo, di come un ottimo investimento per una città che chiaramente ne ha bisogno diventi una specie di – e nonostante alcune persone straordinarie che sono state nel sindaco ufficio a Detroit che ha svolto questo lavoro a Detroit, fondazioni. Tu vai a Detroit e io ci sono stato un paio di volte nell’ultimo anno perché uno dei membri della mia famiglia è morto. È una disparità scioccante e scioccante tra dove è andato l’investimento, il centro e il centro intorno alle università, e il resto di Detroit, che sono quartieri e prevalentemente…
E così ora dicendo il fatto che, ancora una volta, ti sei concentrato, hai avuto buone intenzioni, hai avuto un ottimo piano per la città e hai un sacco di soldi che ci stanno investendo. Ma questo è il tipo di esempio che penso mi motiva e che ho visto più e più volte nel mio lavoro sulla giustizia ambientale e nel mio lavoro nelle città e nel mio lavoro con i sindaci. È come, come possiamo cambiare che accada? Come disciplinare tutti gli investimenti e tutti i lavori infrastrutturali a beneficio effettivo delle persone che diciamo di volerne beneficiare, che sappiamo aver bisogno di beni e servizi e che hanno risorse sufficienti, non necessariamente denaro, ma la propria infrastruttura per aiutare a fornire quei servizi?
William Shutkin : Sheila, sto pensando, che lavoro pesante. Voglio dire, è un argomento così importante su cui concentrarsi. E accanto a questo, ovviamente, abbiamo avuto, cosa, più di 20 anni di persone come Bob Putnam e altri studiosi che hanno notato il declino dell’impegno civico, delle istituzioni civiche. Eppure qui tu e Christian state dicendo, ehi, questo è il momento di devolvere il potere e dare potere ai quartieri, alle persone e alle istituzioni sul campo e nelle trincee.
Cosa ti fa pensare, a questo punto del 21° secolo, che ci sia un appetito, che ci sia persino la capacità di impegnarsi nel modo in cui la tua struttura richiede? Una cosa è dire al municipio, andremo oltre le mura e raggiungeremo e ci impegneremo. È un altro da dire,beh, abbiamo davvero partner volenterosi che non sono cinici, che non sono così disamorati da essere disposti a presentarsi e impegnare molto tempo, e anzi, forse anche un’eredità per questo lavoro . Sei ottimista e pieno di speranza? O è davvero questo il compito pesante che mi sembra sarebbe in molti casi, sia qui negli Stati Uniti che forse all’estero?
Sheila Foster: Risponderò a questa domanda nel contesto degli Stati Uniti perché penso che la risposta a questa domanda sia molto diversa all’estero perché in Europa, dove abbiamo iniziato a lavorare, in particolare in Italia, l’unica cosa che ho notato è la mancanza di – e Putnam ha scritto dell’Italia – la mancanza di quartieri forti, organizzazioni civiche, almeno la solidità che ho scoperto che abbiamo negli Stati Uniti. E lo so dal mio lavoro sulla giustizia ambientale. Quindi, quando le persone dicono, oh, queste persone sono povere, non hanno il tempo di presentarsi alle udienze, non si fidanzeranno, più e più volte, ho visto che sono disposte a impegnarsi e a partner e di impegnarsi se pensavano che sarebbe stato ripagato. Ma no, non si presenteranno se è solo un’altra riunione di annuncio e difesa. Annunceremo cosa stiamo facendo come città.
Quindi quello che ho visto, ed è stato dimostrato in tutti questi progetti, è che abbiamo comunità, molte delle quali sono isolate e stratificate economicamente e/o razzialmente, ma al loro interno c’è molto di ciò che Putnam chiamerebbe comunità di legame — Intendo un capitale vincolante, capitale sociale, anche se manca quel capitale ponte, vale a dire, per collegare classi diverse con altre per consentire loro la mobilità verso l’alto. Quindi c’è molto dentro, se parli di comunità afroamericane, a volte è la chiesa, ma altre volte sono altre istituzioni. Quindi le persone hanno appetito? Penso che le persone abbiano voglia di dedicare molto pensiero e lavoro fisico e mentale alla collaborazione con il proprio governo locale se pensano che possa ripagare. L’ho visto più e più volte… Quindi non ho mai comprato la narrazione perché è andata contro la realtà empirica che ho visto in questi. Non ho mai comprato la narrativa che le persone non sono disposte o in grado di coinvolgere. Sono.
William Shutkin : E penso che tu abbia ragione. Condivido quell’esperienza. Quando c’è, come dici tu, quella sorta di ciclo di feedback positivo, quando le persone sanno davvero e sono in grado di sperimentare, in un periodo di tempo relativamente breve, feedback che suggeriscono che i loro input di lavoro e tempo possono e ripagheranno in modi davvero tangibili .
Sheila Foster : E penso che la domanda sia: come prepari la tavola perché ciò accada? Penso che questo sia il duro lavoro.
William Shutkin : E non è questo ciò che sono le co-città?
Sheila Foster : Sì.
William Shutkin : Voglio dire, nel senso che stai creando quella struttura.
Sheila Foster : Sì. Bene, e oltre a questo, abbiamo un ciclo di cui abbiamo parlato, il ciclo di co-città in cui inizia da ciò che Elinor Ostrom chiamava chiacchiere a buon mercato. Come riunire le persone per avere una conversazione a bassa posta su cosa vogliamo e cosa è possibile e chi dovrebbe essere al tavolo per mappare le risorse per poi sperimentare su piccola scala per creare fiducia per poi prototipare qualcosa che vuoi messo in atto, che si tratti di una politica o di un’istituzione, per poi sperimentarlo nel tempo e poi tornare indietro, valutarlo e quindi rivedere ciò che hai fatto. Questo è stato il processo di Bologna.
Quindi ho detto, siamo tornati e abbiamo esaminato i patti per vedere se stavano facendo ciò che inizialmente pensavamo al passaggio zero e cosa avrebbero dovuto fare. Alcuni lo fanno. Alcuni no. E poi, puoi modificarlo? Ora non siamo più coinvolti a Bologna, ma quella conoscenza è là fuori. È pubblicato dai miei colleghi, LabGov, affinché chiunque possa vederlo. Se vuoi guardare l’esperimento di Bologna e usarlo come modello, guarda anche i risultati e quello che abbiamo imparato dopo cinque o sette anni di patti di collaborazione.
Andy Bush : Sì, adoro l’idea dei patti, solo concettualmente, dimenticando anche l’accordo, nel senso che come urbanista ho lavorato per decenni e puoi sempre convincere molte persone a opporsi a qualcosa che sembrava piace. E la parte difficile nell’entusiasmare le persone per qualcosa è stata, come hai detto, dare loro un’idea di ciò che è possibile, creare prototipi in modo che credano che possa davvero accadere. E poi non ricordo quanti patti hai detto che c’erano a Bologna, ma questa idea di un centinaio di piccole mosse che si sommano a qualcosa invece di cercare di ridimensionarle e tutte in una volta.
Sheila Foster : Esatto. E spero che tu veda, giusto per finire, che se ne hai un centinaio, allora per definizione stai cambiando il modo in cui funziona la città, il modo in cui avviene la governance.
Andy Bush : E alcuni possono fallire. Va bene che alcuni falliscano.
Sheila Foster : Esatto. Ma ce l’hai, e quindi uno dei nostri principi di progettazione è la sperimentazione. Quindi, prima di tutto, abbiamo bisogno di quello che chiamiamo uno stato abilitante. Abbiamo bisogno che il governo voglia fare questo, che voglia consentire la co-creazione e stabilire le condizioni. Abbiamo anche bisogno di una cultura della sperimentazione in cui puoi avere qualcosa di simile e vedere cosa funziona e cosa no. E poi di nuovo, fa parte del nostro ciclo che vuoi prototipare e mettere in atto.
Ma anche prima della prototipazione, c’è un passaggio che non voglio perdere, ed è costruire la fiducia. Quindi abbiamo sempre una piccola scala, a Baton Rouge, ad esempio, c’era una fiera di food truck park che avevano perché il cibo è davvero importante per la cultura. La gente usciva e produceva cibo e lo vendeva, ed era un modo per riunire le persone e fare qualcosa a livello micro che avrebbe iniziato a riunire diversi tipi di persone per costruire la fiducia per poi iniziare a dire, beh, cosa vogliamo? Cosa si può prototipare? E questo è stato di nuovo, le chiacchiere a buon mercato e le fasi di mappatura. Quindi, ancora una volta, nessuno di questi è prescrittivo. Non devi farlo in questo ordine. Ma l’idea è che ci sia una cadenza se si vuole davvero cambiare il modo in cui la città funziona per quanto riguarda lo sviluppo, la creazione, la coproduzione e la cogestione,
William Shutkin : Fantastico. Ehi, Sheila, ci rilasseremo. Andy, qualche ultimo pensiero per Sheila?
Andy Bush : Sì, intendo per me, è un posto strano dove andare in un ultimo pensiero, ma ultimamente ho avuto molte conversazioni con le persone su ciò che abbiamo fatto durante Covid, in particolare con i pasti all’aperto e come alcune città hanno sperimentato in modi che la maggior parte delle città non prenderebbe mai in considerazione. E hanno fatto le cose in modo rapido e innovativo. Alcuni di loro hanno funzionato. Alcuni di loro sono stati fallimenti abissali. Ma come continuare e non perdere quel senso di sperimentazione che abbiamo avuto per un paio d’anni? Uno dei doni del Covid è stata la sperimentazione da parte del governo cittadino. Come non perderlo?
Sheila Foster: Questo è davvero un buon punto. Sto scrivendo un pezzo su questo proprio ora, in realtà, riflettendoci sopra. E il modo in cui lo metti è così, penso, puntuale e meraviglioso, e vale a dire che spesso i governi locali e il governo in generale sono descritti come ossificati o induriti, difficili da portare a termine. Il processo di autorizzazione richiede troppo tempo. La suddivisione in zone ci impedisce di costruire più alloggi. Ciò che le città hanno mostrato durante Covid è la loro agilità non solo nell’aprire lo spazio pubblico e condividerlo, ma anche nel condividere le infrastrutture della città, compresi gli alloggi per i senzatetto, sottraendo risorse e riutilizzandole. Penso che ciò che ci manca e ciò di cui abbiamo bisogno per andare avanti sia – tornando al punto di governance – che come pensi a questo non come una tantum, come risposta a uno shock esogeno? Voglio dire, questa non è una novità per le città. Se c’è un enorme uragano, le città sono abituate a riutilizzare le proprie infrastrutture per dare riparo alle persone. Quindi non è nuovo. Quello che è successo non è davvero una novità. È solo la scala su cui è successo.
Andy Bush : E dobbiamo inculcarla in qualche modo nel nostro processo.
Sheila Foster : Ma su quella scala, non solo, userò uno stadio dopo un uragano.
Ma come lo facciamo in tutte le città e come lo facciamo in modo che avvenga davvero in città e quartieri? Quindi penso che il modo in cui continuiamo è che hai bisogno di un quadro. Abbiamo città intelligenti e ne scriviamo nel libro. Abbiamo città creative, città in grado di prendere strutture e dire che è così che vogliamo gestire la nostra città. Vogliamo fare perno ed essere più adattivi e più sperimentali nel modo in cui utilizziamo la nostra infrastruttura. E penso che al di fuori della pandemia, iniziamo a vederlo, sia che si tratti della città di 15 minuti o che si tratti di New York e altri luoghi prima che la pandemia iniziasse a dare soldi alle comunità per progettare e creare fondi fondiari, e quindi trasferire infrastrutture inattive a loro e poi dando loro i soldi per pianificare quello. New York City lo ha fatto. Altre città lo hanno fatto. Seattle ha trasferito lì una stazione dei vigili del fuoco e altri edifici all’Africa Community Land Trust. Quindi penso che quello che stiamo cercando di catturare, quindi la parte empirica, è che sappiamo che in tutto il mondo questo sta accadendo, e in parte stiamo cercando di attirare l’attenzione su di esso e su come può essere ampliato.
William Shutkin : Beh soprattutto, Sheila, con Covid e clima. E Andy, penso che tu sollevi un ottimo punto con la sperimentazione che Covid non solo ha permesso, ma in un certo senso ha richiesto. Immagino di vedere, Sheila, dopo averti parlato e ascoltato l’ultima ora, che il quadro di co-città è una sorta di quadro di azione collettiva davvero potente per le comunità resilienti che vanno avanti. In modo che, in effetti, possiamo vedere una risposta più collaborativa e diffusa, diciamo, su scala municipale, quando si verificherà il prossimo disastro, sia esso di salute pubblica o cosiddetto naturale.
E a differenza, ad esempio, di una struttura di città intelligente, in cui la tecnologia è davvero il tipo di fine e di essere tutto. Riguarda il modo in cui le persone, come dici tu, prendono decisioni e lo fanno da posizioni di uguale potere, che penso sia un punto così importante. Sheila, grazie mille per aver passato un’ora con noi a parlare del tuo lavoro e del tuo libro. È così attuale e attuale. Sheila, il libro esce verso la fine dell’anno, è corretto?
Sheila Foster : Sì, in copertina rigida, credo verso la fine dell’anno, ma sarà anche ad accesso aperto sul sito web del MIT. Ciò accadrà probabilmente prima di dicembre, si spera.
William Shutkin : Fantastico. Eccellente. Quindi saremo sicuri di promuoverlo. E Sheila, grazie per tutto l’ottimo lavoro che stai facendo e per essere tu stessa un’ottima collaboratrice.
Andy Bush : Bene, Sheila, grazie mille per aver partecipato a tutto questo. È stata solo una conversazione meravigliosa.
Sheila Foster : Grazie per le vostre domande e per aver capito cosa sto facendo.
FONTE: https://thereader.mitpress.mit.edu/how-to-build-a-collaborative-city-in-conversation-with-sheila-foster/
BELPAESE DA SALVARE
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28 11 2022
di Gianni Lannes
Un incubo infinito nel segno del covidiotismo di massa. Molti in Italia si erano illusi per un cambiamento di rotta politica dopo il terrificante Draghi e l’inqualificabile Conte. Ecco gli svaccinatori sotto mentite spoglie. Allora, chiamatele finzioni politicanti: tornas di moda il cosiddetto Covid-19.
Come previsto Carlo Nordio è stato nominato ministro della giustizia. Un suo articolo terrificante pubblicato sul Messaggero lo indica come fautore della vaccinazione obbligatoria ad ogni costo, “con le buone o con le cattive”. Alla sanità l’eterodiretta Meloni (genuflessa a Washington) ha piazzato un altro fanatico del vaccino, tale Orazio Schillaci. Il 18 novembre scorso in risposta alla Camera ad un’interpellanza questo ministro ha dichiarato: «La campagna vaccinale contro il covid-19 in Italia ha permesso di evitare oltre 500.000 ospedalizzazioni, oltre 55.000 ricoveri in terapia intensiva e circa 150.000 decessi». Menzogne incredibili, poiché non vi è prova controfattuale. Il primo dicembre Schillaci farà partire la campagna s-vaccinale con la quarta dose di siero genico da inoculare insieme all’antinfluenzale, un miscuglio che non è mai stato sottoposto a studi sull’interazione tra farmaci. Incurante della confessione di Pfizer e delle mortali evidenze emergenti, Schillaci classifica il green pass come strumento indispensabile per la sicurezza. Sempre alla Camera ha ribadito che «mai questo governo e mai io ho pensato di abbandonare l’uso delle mascherine negli ospedali e nelle RSA». Sempre Schillaci quando era rettore a Tor Vergata ha fatto vaccinare tutti i suoi studenti convincendoli che vaccinandosi andavano a compiere un gesto altruistico nei confronti degli anziani. Quanti sono morti all’improvviso?
I paesi telecomandati del G20 hanno concordato un certificato digitale utilizzando lo standard dell’OMS che presenteranno alla prossima assemblea mondiale della Sanità a Ginevra. Vogliono mettere il green pass mascherato da identità digitale collegato con il certificato vaccinale come ha programmato l’Ue (sotto schiaffo delle multinazionali); vale a dire il green pass per sempre.
Riferimenti:
https://aic.camera.it/aic/scheda.html?numero=2-00006&ramo=C&leg=19
https://www.ilmessaggero.it/editoriali/politica/no_vax_obbligo_vaccino_carlo_nordio-6425513.html
https://sulatestagiannilannes.blogspot.com/search?q=green+pass
FONTE: http://sulatestagiannilannes.blogspot.com/2022/11/identita-digitale-green-pass-per-sempre.html
CONFLITTI GEOPOLITICI
Il rapporto sulla campagna aerea russa in Ucraina
Recentemente il Rusi (Royal United Service Institute), uno dei più prestigiosi istituti di ricerca nel campo della sicurezza e della Difesa, ha pubblicato un dettagliato rapporto sulle operazioni aeree russe effettuate nel conflitto in Ucraina dal suo inizio sino a fine ottobre.
Il documento è stato redatto anche grazie a interviste con ufficiali dell’aeronautica militare ucraina e con personale dell’intelligence occidentale, grazie alla collaborazione di esperti militari e soprattutto per mezzo dell’esame di armamenti russi raccolti sul campo di battaglia. I ricercatori hanno individuato alcune fasi nelle operazioni aeree delle Vks (Vozdushno-Kosmicheskie Sily), le Forze Aerospaziali Russe, che si sono delineate in funzione del cambiamento delle condizioni rilevate sul campo di battaglia terrestre.
La prima fase ha riguardato il tentativo, messo in atto nei primi sette giorni, di eliminare le capacità di difesa aerea ucraine andando a colpire maggiormente quei settori in cui sono state impiegate le forze terrestri di Mosca (Kiev/Chernihiv, Donbass/Kharkiv, Kherson/Mariupol). Le Vks hanno impiegato 350 velivoli da caccia che hanno colpito con missili da crociera le posizioni note di radar, aeroporti, magazzini, depositi di carburante, postazioni di missili antiaerei coadiuvati da un intenso utilizzo di missili balistici a corto raggio e sistemi da guerra elettronica (Ew – Electronic Warfare), questi ultimi rivelatisi particolarmente efficaci nel rendere inefficaci i sistemi Gbad (Ground Based Air-Defence) ucraini, ma che, nel contempo, hanno creato un ambiente ostile anche per le comunicazioni amiche.
Le batterie ucraine di S-300 e Buk sono state messe fuori uso dall’Ew russa particolarmente nel nord del Paese, lungo gli assi di Kiev e di Chernihiv. Questa iniziale attività Sead/Dead (Suppression Enemy Air Defenses/Destruction Enemy Air Defenses) ha costretto a intervenire le forze aeree ucraine (con MiG-29 e Su-27) che nei primi giorni si sono sobbarcate il carico di lavoro subendo numerose perdite per via della copertura offerta dai caccia russi (Su-35S e Su-30SM) che hanno dimostrato le doti tecnologiche di radar e missili Bvr (Beyoned Visual Range) a guida radar.
Successivamente, dopo i primi 4 giorni di campagna aerea, l’aviazione ucraina e le Gbad hanno potuto lavorare in tandem, principalmente perché il decentramento delle difese aeree ucraine mobili, effettuato a poche ore dall’inizio del conflitto grazie agli avvisi dell’intelligence occidentale, è stato efficace. Anche le Gbad russe hanno subito limitazioni, sia date dalla mancanza di coordinamento tra varie unità, che spesso operavano in formazioni separate dalle stesse punte di lancia corazzate/meccanizzate dell’esercito, sia perché legate a regole di ingaggio molto strette, per evitare il più possibile casi di “fuoco amico”. Una necessità che, come abbiamo già avuto modo di dire, è emersa nel corso del conflitto in Georgia del 2008, dove ci sono stati casi di abbattimenti di caccia e bombardieri russi da parte della Gbad di Mosca, in quanto anche in quella guerra entrambi i contendenti usavano le stesse tipologie di velivoli, che sono anche viziati – insieme ai sistemi da difesa aerea – da scarsa capacità IFF (Identification Friend or Foe). Questa difficoltà dei sistemi terresti di difesa aerea ha comportato il maggior utilizzo dell’aviazione per colpire obiettivi (da ambo le parti): è stato calcolato che sino al 3 marzo, i caccia Su-34, Su-30SM e Su-35S hanno effettuato circa 140 sortite/die che si sono spinte, al massimo, a 300 chilometri dalla linea del fronte per non incappare in quelle difese aeree lasciate intatte da una campagna Sead/Dead frammentaria: del resto, come già riferito mesi fa, la Russia ha un modo diverso di intendere la campagna aerea rispetto all’Occidente, preferendo concentrarsi sull’attività localizzata in corrispondenza delle linee di avanzata terrestre.
In ogni caso si calcola che nei primi tre giorni di guerra oltre 100 installazioni ucraine composte da radar fissi, basi aeree, depositi di munizioni e posizioni occupate da sistemi missilistici a lungo raggio siano state colpite.
Un altro fattore rilevato nel corso di tutta la campagna è stata la differenziazione dell’armamento dei caccia: i preziosi – e precisi – missili da crociera sono stati usati per colpire bersagli noti di alto valore, mentre la maggior parte delle incursioni, soprattutto quelle su obiettivi mobili o sulle città, sono state effettuate usando armamento a caduta libera (bombe della famiglia FAB). La stragrande maggioranza di questi raid sono stati portati da un singolo caccia, con solo il 25% effettuati da coppie, e nessuno è stato osservato svolto da più di sei velivoli, il che ha portato a danni lievi o inconsistenti che sono il risultato anche di scarsa o nulla capacità di valutazione dei danni inflitti (in inglese Bda – Battle Damage Assessment).
Le Vks sono state più efficaci nel sud del Paese, per via della maggior vicinanza al fronte delle basi, e insieme agli attacchi di missili da crociera e balistici hanno fortemente degradato e limitato le capacità Gbad, dell’aviazione e della marina dell’Ucraina nelle province di Kherson e Zaporizhzhia. In ogni caso, anche in questi settori, la maggior parte dei bersagli colpiti ha rappresentato posizioni fisse di missili a lungo raggio (S-300) o medio raggio (i vecchi S-125). I caccia russi (Su-30SM e Su-35S) hanno svolto numerose missioni Cap (Combat Air Patrol) dimostrando la loro capacità di colpire velivoli ucraini anche a 100 chilometri di distanza grazie all’utilizzo combinato del missile R-77 e dei radar down/shoot-down N011M ed N035, surclassando quindi il livello tecnologico dell’aeronautica di Kiev, comunque in forte inferiorità numerica (rapporto di 15 a 2).
A partire da marzo le schermaglie di caccia sono drasticamente diminuite sia per il maggior coordinamento delle batterie missilistiche ucraine a lungo raggio, sia per la scarsa integrazione dell’attività dei caccia russi con i sistemi di sorveglianza aerotrasportati (A-50 e Il-20M), che venivano impiegati quasi esclusivamente per coordinare l’attività di attacco al suolo lungo le direttrici d’avanzata terrestre.
Il fallimento della campagna Sead/Dead dei primi giorni ha infatti costretto le Vks a concentrarsi negli attacchi all’esercito ucraino, usando principalmente i caccia Su-25, Su-34 e Su-30SM – che nella prima settimana di marzo hanno effettuato 140 sortite/die), costretti a volare a bassa e bassissima quota. Questo fattore, insieme all’uso di munizionamento a caduta libera non di precisione, ha fortemente ridotto l’efficacia dei bombardamenti: i piloti, infatti, hanno pochissimi secondi per individuare il bersaglio, riconoscerlo, sganciare e effettuare le valutazioni del danno, anche considerando che devono mettersi al riparo dalla reazione avversaria composta soprattutto dai sistemi missilistici antiaerei spalleggiabili, forniti in gran numero a Kiev dall’Occidente.
Le Vks si sono trovate costrette, quindi, a effettuare gli attacchi nottetempo, per evitare il fuoco di questi sistemi che non sono efficaci perché necessitano che l’operatore abbia visori notturni, che allora mancavano. Impossibilitati a colpire accuratamente le forze ucraine, le incursioni russe si sono concentrate sulle città per cercare di fiaccare il morale della popolazione: Chernihiv, Sumy, Kharkiv e Mariupol sono state pesantemente bombardate, quest’ultima anche da bombardieri strategici Tu-22M3 armati con bombe non guidate.
Anche le missioni Cap sono cambiate nel corso del conflitto, e a partire da aprile i Su-35S e Su-30SM le hanno effettuate usando i missili Bvr restando al di dentro dello spazio aereo controllato da Mosca, quindi rappresentando un deterrente per l’aeronautica di Kiev. Spesso le missioni Cap venivano usate come esca per poter colpire con missili antiradiazioni Kh-31P e Kh-58 le postazioni radar ucraine. Missioni effettuate, con scarsissimo successo, anche dai Su-25 volanti a bassissima quota armati di razzi: non risulta che nessuna di queste abbia prodotto danni degni di nota.
Dopo la ritirata da Chernihiv, le forze russe hanno iniziato a usare anche gli Uav (Unmanned Air Vehicle) tipo Orlan-10 come esca, provocando quindi l’arretramento delle postazioni da difesa aerea a medio raggio ucraina (Buk e Osa) dalla linea del fronte per ridurne le perdite. L’arrivo dei missili antiradiazioni Agm-88 Harm ha permesso all’aeronautica ucraina una maggiore mobilità nei mesi di agosto e settembre, quando si è consumata la controffensiva a Kharkiv ed è iniziata l’operazione su Kherson.
Questo ha costretto le Vks ad adottare una postura difensiva, dividendo il fronte ucraino in otto settori ciascuno pattugliato regolarmente da una coppia di Su-35S o MiG-31BM. Senza la possibilità di venire riforniti in volo – la Russia riserva principalmente le sue aerocisterne all’aviazione strategica – queste nuove Cap raramente hanno potuto essere più lunghe di due ore, provocando quindi un’ulteriore usura di uomini e mezzi.
Le perdite subite nella flotta di Su-25 e Su-34 (23 e 17 su un totale di 110 e 130 pre-guerra) hanno imposto anche un carico di lavoro maggiore, che ha usurato anche la componente da attacco al suolo (portando a volte a incidenti). Da notare poi, che lo stesso impiego del munizionamento a caduta libera invece dei missili da crociera – la Russia nella sua dottrina deve mantenere un grosso quantitativo di questi vettori “di scorta” come deterrente nei confronti della Nato – ha aumentato l’usura di uomini e mezzi.
Si stima che dal 24 febbraio sino alla fine di maggio, più di duemila vettori da crociera di tutti i tipi siano stati consumati nel conflitto, e circa 240 missili balistici sono stati sparati dai sistemi Iskander-M. La Russia, per non consumare il suo arsenale e quindi mantenere un livello credibile di deterrenza missilistica, ha fatto ricorso a vecchi vettori (i Kh-22) e a missili antinave (i P-800 Oniks) e antiaerei (S-300) in funzione sup-sup, quindi dovendo ripiegare su una precisione molto più scarsa rispetto ai missili da crociera. L’industria locale, anche per via delle sanzioni internazionali che hanno posto l’embargo sui microchip provenienti dall’Occidente e da Giappone, Corea del Sud e Taiwan, ha ulteriormente ridotto il suo rateo produttivo: per esempio il missile 9M723 del sistema Iskander viene prodotto in sei esemplari al mese. Si capisce quindi perché Mosca si sia rivolta a Teheran per acquistare in tutta fretta loitering munitions Shahed-136 (ribattezzati Geran-2) per colpire obiettivi ucraini nell’ultima fase del conflitto, predeterminata da Mosca per cercare di distruggere le infrastrutture energetiche ucraine in previsione dell’inverno.
FONTE: https://insideover.ilgiornale.it/guerra/wagner-e-melitopol-i-due-nuovi-obiettivi-di-kiev.html
Soldato russo fugge in Spagna e denucia: “In Ucraina una guerra criminale”
The Guardian racconta la storia di Nikita Chibrin, il soldato che ha chiesto asilo a Madrid e che si dichiara “pronto a testimoniare” sulle atrocità della guerra in Ucraina
twitter/@MartinGenier
Èatterrato due giorni fa a Madrid e ora, dopo aver presentato una richiesta d’asilo, si dice disposto a testimoniare contro la “guerra criminale” intrapresa da Mosca in Ucraina. È la storia riportata dal Guardian, di Nikita Chibrin, 27enne soldato russo che avrebbe fatto parte della 64sima brigata fucilieri motorizzata, la brigata delle forze terrestri russe accusata del massacro di Bucha e Andriivka.
Il soldato, che afferma di essersi detto contrario all’invasione russa sin dal primo giorno, avrebbe disertato a giugno scorso, riuscendo poi a tornare in Russia, e, successivamente, a fuggire da lì. Ora, Chibrin, che entrò nell’esercito russo nel 2021 e afferma di essere stato portato a combattere in Ucraina “con l’inganno”, si dice pronto a testimoniare di fronte a una corte internazionale.
Atterrato martedì nella capitale spagnola, è stato trattenuto presso il centro immigrazione dell’aeroporto e nell’intervista telefonica al giornale inglese, afferma di aver trascorso più di quattro mesi in Ucraina, ma nega il coinvolgimento nei crimini di guerra denunciati dalla sua unità, affermando di non aver sparato “una volta” mentre si trovava in Ucraina.
“Non ho niente da nascondere”, ha detto. “Questa è una guerra criminale iniziata dalla Russia. Voglio fare tutto il possibile per fermarlo”. E si è detto ansioso di testimoniare in un tribunale internazionale e di raccontare le sue esperienze in Ucraina.
La decisone di fuggire dalla Russia è arrivata dopo aver disertato dalla sua unità a giugno, in Ucraina, ha raccontato Chibrin che afferma di aver dichiarato sin subito ai suoi comandanti la sua opposizione rispetto alla guerra, già dal 24 febbraio, il primo giorno dell’invasione, e che per questo motivo – aggiunge – è stato rimosso dal suo incarico di meccanico dell’esercito per essere affidato ad altri lavori. “Hanno minacciato di incarcerarmi. Alla fine, i miei comandanti decisero di usarmi come addetto alle pulizie. Sono stato allontanato dal campo di battaglia”.
Il Guardian afferma di non essere stato in grado di verificare in modo indipendente tutti i dettagli della storia di Chibrin, ma che il soldato ha fornito documenti e fotografie che mostrano la sua appartenenza alla 64esima brigata in Ucraina.
Inoltre, Maxim Grebenyuk, un avvocato che gestisce l’organizzazione di difesa, con sede a Mosca, Military Ombudsman, ha dichiarato di essere stato contattato da Chibrin durante l’estate e di aver raccolto la sua dichiarazione di opposizione alla guerra e il suo desiderio di non combattere in Ucraina.
Chibrin è il secondo militare russo noto fuggito dal paese dopo aver preso parte all’invasione. Ad agosto, il The Guardian, aveva già intervistato Pavel Filatyev, un ex paracadutista russo fuggito dal paese dopo aver scritto un libro di memorie in cui criticava la guerra.
Nato a Yakutsk, nella Siberia orientale, Chibrin si è arruolato nell’esercito russo nell’estate del 2021. “Non pensavo che sarei stato coinvolto in alcuna guerra”, ha detto, dichiarando che la decisione di arruolarsi era dettata da difficoltà finanziarie.
Chibrin ha affermato di essere entrato per la prima volta in Ucraina con la sua unità il 24 febbraio, attraversando il confine bielorusso. “Non avevamo idea che avremmo combattuto in Ucraina”, ha detto. “Siamo stati tutti ingannati”. Sempre secondo il suo racconto al Guardian, Chibrin, avrebbe trascorso il primo mese dell’invasione nel villaggio di Lypivka, 30 miglia a ovest di Kiev. Proprio il periodo durante il quale si sono consumati i massacri di Bucha e Andriivka, due villaggi vicini a Lypivka.
Chibrin ha dichiarato di non aver mai assistito a sparatorie durante la sua permanenza a Lypivka, ma poi racconta che la sua unità avrebbe regolarmente saccheggiato le case ucraine: “Saccheggiavano tutto quello che c’era. Lavatrici, elettronica, tutto “. E ha aggiunto che c’erano “voci diffuse” tra i suoi compagni secondo cui i membri della sua unità erano coinvolti in violenze sessuali e uccisioni di civili.
Ha poi descritto il morale nella sua unità durante il tempo passato in Ucraina come “estremamente basso”, confermando ampi resoconti dei media. “Tutti hanno cercato di trovare modi per uscire dall’esercito. Ma i nostri comandanti minacciavano di spararci”.
Infine Chibrin racconta della sua fuga rocambolesca dall’Ucraina, il 16 giugno quando riesce a nascondendosi all’interno di un camion diretto in Russia in viaggio per le scorte di cibo. Arrivato in Russia entra in contatto con la rete per i diritti umani Gulagu.net che lo aiuta a lasciare il Paese.
FONTE: https://www.rainews.it/articoli/2022/11/soldato-russo-fugge-in-spagna-in-ucraina-una-guerra-criminale-936dc316-ff61-4e4e-ae4a-ce012a34d9b0.html
Curiosità dalla guerra termonucleare globale…
Nico Forconi 30 11 2022
Zelensky, a fine novembre, va in giro in maniche corte, in una città senza riscaldamenti e senza luce, con 4 gradi sottozero e umidità dell’82%.
Io abito a Roma. Ci sono 10 gradi e, in questo istante, indosso doppio pile e ho il termoventilatore che mi spara aria bollente.
Traete voi le conclusioni…
Perché gli Usa “scaricano” Kiev sui raid in Russia
Il sostegno degli Stati Uniti all’Ucraina continua ininterrottamente da febbraio. Un supporto su più livelli: negli anni passati politico e di addestramento, ora – dall’inizio dell’invasione – anche con la fornitura di armi e con l’operazione dell’intelligence. Aiuto concreto e completo che però la Casa Bianca e l’amministrazione Biden hanno spesso definito “non un assegno in bianco”. Su questo punto, gli osservatori hanno quasi sempre concordato sul fatto che il concetto espresso da Joe Biden e segretari sia chiaro: Washington vuole che ci sia un limite nell’impiego degli aiuti americani. Un modo per evitare di allargare il conflitto alla Russia con armi occidentali, ma anche per rassicurare l’opinione pubblica interna sul fatto che non ci sarà una nuova ”infinite war” sul modello tanto odiato dalla classe media americana.
Per evitare questi due problemi – niente affatto irrilevanti per il governo Usa – l’amministrazione democratica ha iniziato a lavorare su due diversi binari.
I due binari di Washington
Il primo è quello rappresentato dal mantenimento dei canali di dialogo con la Russia, specialmente a livello militare, come è stato confermato del resto anche sul caso specifico dell’incidente dei missili in Polonia cosi come dal vertice tra i due capi dei servizi segreti esterni in Turchia. A conferma di questo dialogo, l’ultimo incontro di queste ore a Istanbul “sulle questioni legate al lavoro delle ambasciate e a quelle che creano attriti nelle relazioni bilaterali”, annunciato dal viceministro degli Esteri russi, Serghei Ryabkov. Un meeting “a livello dei direttori dei dipartimento competenti dei rispettivi ministeri degli Esteri” – afferma Ria Novosti – che si tiene nuovamente in territorio turco.
C’è poi un secondo binario su cui si incardina la diplomazia Usa e che riguarda, invece, il rapporto con l’Ucraina. Da una parte mostrando completo ascolto sulle richieste belliche da parte degli strateghi ucraini, dall’altra parte facendo capire a Kiev che il compromesso è comunque una via da non escludere a priori, e che la guerra non va allargata né al territorio della Federazione Russa né tantomeno ad altri attori vicini. Washington vuole fermare i russi in Ucraina, ma non vuole estendere la portata della guerra rimanendo “in trappola”.
I timori dell’escalation
Gli ultimi raid ucraini sono segnali che – secondo molti analisti – non sono particolarmente piaciuti agli Stati Uniti proprio perché rischiano di avvicinare quello scenario temuto da Biden e dai vertici del Pentagono. Il fatto che lo stesso John Kirby abbia voluto ribadire pubblicamente l’autonomia di Kiev nei raid può essere interpretato come uno scarico di responsabilità utile a far capire che Washington sostiene, ma non apertamente, una controffensiva che va a colpire all’interno del ”cuore” russo. “Siamo stati coerenti sulle nostre preoccupazioni per una escalation”, ha detto il portavoce della Sicurezza nazionale Usa, “non li abbiamo incoraggiati a farlo”, riferendosi ai raid contro le basi in territorio russo. Citato dalla Cnn, Kirby ha continuato soffermandosi proprio su questo punto: “Il nostro obiettivo è stato, e rimane, assicurarci che abbiano le capacità di cui hanno bisogno, le risorse di cui hanno bisogno per difendersi” e “tutto ciò che stiamo fornendo è davvero progettato pensando a questo”.
Freni strategici e psicologici già palesati dallo stesso Biden ma anche dal generale Mark Malley e che servono a sottolineare quel senso di completa autonomia tra i due Paesi sia come soggetti diplomatici, sia come attori militari. Gli Usa non vogliono chiudere pubblicamente il dialogo con la Russia. Ma hanno soprattutto l’obiettivo di rassicurare opinione pubblica e alleati sul fatto che per loro – pubblicamente – il conflitto non deve estendersi né produrre conseguenze che Washington rischia di non potere controllare soprattutto dal punto di vista diplomatico.
FONTE: https://insideover.ilgiornale.it/guerra/perche-gli-usa-scaricano-kiev-sui-raid-in-russia.html
ATTACCO UCRAINO ALLE CENTRALI ELETTRICHE
Lisa Stanton – 28 11 2022
CYBERWAR SPIONAGGIO INFORMAZIONE DISINFORMAZIONE
Cosa si intende per guerra elettronica e cos’è il jamming?
Si può definire la guerra elettronica (Ew –Electronic Warfare) come “un’azione militare che sfrutta l’energia elettromagnetica, sia attivamente che passivamente, per fornire consapevolezza della situazione e creare effetti offensivi e difensivi”. Si tratta di uno scontro all’interno dello spettro elettromagnetico (Es – Electromagnetic Spectrum) e comporta l’uso militare dell’energia elettromagnetica per impedire o ridurre l’utilizzo efficace dell’Es da parte del nemico proteggendone l’uso per le forze amiche.
L’Ew è diventata, nel corso della storia, centrale nella comunità della difesa. Possiamo definirla, più semplicemente, come tutti quegli strumenti che si utilizzano in battaglia (ma anche in tempo di pace come vedremo) per impedire a un avversario il libero utilizzo dello spettro elettromagnetico, pur garantendone l’accesso per sé e per i propri alleati.
Breve storia dell’Electronic Warfare
La scoperta della possibilità di “comunicare” attraverso onde radio, ha portato con sé la quasi immediata attenzione dell’ambiente militare, tanto che i primi esempi di Ew si possono far risalire addirittura al conflitto russo-giapponese del 1904, quando i russi bloccarono con successo le comunicazioni navali nipponiche utilizzate per correggere il tiro navale durante il blocco di Port Arthur.
Durante la prima guerra mondiale, sebbene non in modo capillare, i belligeranti misero in atto la Ew sotto forma di disturbo delle comunicazioni. Inoltre, i francesi e gli inglesi hanno ottenuto un certo successo nel contrasto alle operazioni di bombardamento tedesche disturbando e falsificando i segnali elettromagnetici utilizzati dagli Zeppelin per la navigazione.
Si trattava però della fase embrionale dell’Ew, che è ha avuto il suo primo vero sviluppo durante il Secondo conflitto mondiale, in cui si può parlare, senza peccare di superbia, di vera e propria svolta: l’impulso creativo dato dal conflitto, che ha visto ad esempio il primo impiego bellico del radar, ha generato la nascita di una serie di soluzioni per cercare di contrastare questi nuovi strumenti. Sia le potenze alleate che quelle dell’Asse usarono ampiamente l’Ew per attaccare radar, sistemi di comunicazione e navigazione. Un esempio di guerra elettronica, sebbene utilizzante uno strumento fisico piuttosto che energetico, è l’impiego di chaff (o window come si chiamavano allora) ovvero di “pagliette” metalliche di lunghezze differenti che i bombardieri alleati diffondevano nell’aria per accecare i radar da scoperta tedeschi.
Nel dopoguerra la “palestra” in cui si sono sperimentati nuovi sistemi Ew è stato il conflitto in Vietnam, dove le operazioni aeree statunitensi venivano contrastate dall’attività della difesa aerea nordvietnamita che usava anche missili superficie-aria (Sam – Surface to Air Missile) che richiedevano, quindi, che un velivolo avesse a bordo dispositivi elettronici di disturbo per evitare che venisse colpito. Proprio l’avvento del missile, a partire dalla fine della Guerra di Corea, ha contribuito a un ulteriore balzo in avanti della tecnologia Ew: le testate cercanti a guida radar attiva o semi-attiva hanno richiesto che tutti gli aeromobili fossero dotati di sistemi di contrasto per confonderle, siano essi integrati nell’avionica di bordo, oppure in pod (o gondole) appesi in attacchi subalari o di fusoliera. Allo stesso modo, anche in ambito navale, l’ingresso in servizio dei missili da crociera con guida radar ha imposto che le unità fossero dotate di sistemi per l’Ew, oltre che per il disturbo delle comunicazioni.
Durante la Guerra del Golfo del 1991 e in ogni conflitto successivo, le forze armate hanno dimostrato che il dominio dello spettro elettromagnetico è cruciale per la maggior parte delle operazioni militari. Nei recenti conflitti in Iraq o Afghanistan, la minaccia Ew degli avversari è stata limitata, pertanto lo era anche la misura in cui le forze della coalizione hanno impiegato i sistemi da Ew, utilizzati principalmente per neutralizzare la minaccia di ordigni esplosivi improvvisati telecomandati (Ied – Improvised Explosive Device), principalmente utilizzando jammer.
Electronic Warfare e jamming
L’Ew viene infatti impiegata, nella guerra moderna, per supportare le operazioni militari in tre modi: attacco elettronico, protezione elettronica e supporto elettronico. Il jamming è uno strumento chiave nell’attacco elettronico ed il suo scopo è emettere “rumore” in un segnale avversario abbastanza forte da sovraccaricare i ricevitori del nemico. Il risultato è un disturbo del segnale che il sistema ricevente sta cercando di rilevare, interrompendo del tutto le comunicazioni.
La protezione elettronica consiste nel proteggere i propri sistemi da questi stessi attacchi rafforzando la resistenza dei sensori elettronici e conducendo il controllo elettronico delle emissioni, in modo che sia più difficile per un avversario per individuare un bersaglio. Infine per supporto elettronico si intende quelle azioni che ricercano, intercettano, identificano e localizzano le fonti di emissioni Em allo scopo di abilitare le due funzioni precedenti. Questa attività può anche essere considerata come la “ricognizione” nell’ambito dell’Ew.
Paesi come la Russia e gli Stati Uniti hanno posto particolare attenzione all’Electronic Warfare perché permette di ottenere un obiettivo chiave come la superiorità aerea, da cui dipende in gran parte il raggiungimento della supremazia sul campo di battaglia. Se non si ottiene la supremazia nel campo dell’Ew, ovvero se non si ha il controllo dello spettro elettromagnetico che comprende non solo le comunicazioni radio ma anche quelle dei segnali che guidano, ad esempio, un sistema d’arma, un avversario può degradare e addirittura neutralizzare l’attività bellica nemica, andando a colpire, ad esempio, i sistemi di navigazione delle munizioni guidate di precisione (Pgm – Precision Guided Munitions) e far andare fuori rotta i missili, oltre a sopprimere i sistemi di difesa aerea di un intero Paese attraverso il jamming.
Oggi, la dipendenza delle operazioni militari dall’utilizzo dell’Es è un aspetto centrale di quasi tutte le attività militari poiché le forze armate di tutto il mondo hanno integrato le capacità Em nella stragrande maggioranza di piattaforme, sistemi e unità. Senza la libertà di condurre operazioni nello spettro elettromagnetico e manovrare liberamente nell’ambiente elettromagnetico, la capacità delle forze armate di raggiungere la superiorità in aria, terra, mare, spazio e cyberspazio è messa a rischio.
L’aumento generale e su scala globale dell’accessibilità a questi strumenti e del loro essere sempre più portatili pur essendo altamente sofisticati, garantisce che l’ambiente elettromagnetico continuerà a creare nuove sfide ancora più diversificate.
Lo spoofing
Da questo punto di vista è emblematico quanto accaduto con l’utilizzo dei sistemi satellitari di posizionamento globale (tipo Gps, Glonass o Galileo): il segnale che ci permette di sapere con elevato grado di precisione la nostra posizione geografica e che quindi è fondamentale per la navigazione aerea, marittima e anche terrestre (compresa quella di alcuni sistemi d’arma), può essere disturbato e addirittura falsificato. In quest’ultimo caso si parla di spoofing, ovvero della manipolazione di un segnale, come quello Gps ma non solo, che può anche permettere di avere una certa forma di controllo di assetti “automatici” come droni o missili. Sostanzialmente si tratta di creare un segnale alterato, in tutto e per tutto uguale a quello originale, che permette di mettere fuori rotta un qualsiasi assetto che utilizzi la navigazione satellitare.
Senza addentrarci in tecnicismi la possibilità di effettuare questo tipo di attacco dipende sostanzialmente da due variabili: la potenza del segnale di spoofing che ne determina l’efficacia (ovvero la possibilità di saturare l’antenna ricevente sostituendosi al segnale corretto) e la portata, ed il livello di sicurezza del bersaglio, che in caso di un assetto militare può anche essere molto elevata affidandosi a segnali Gps criptati in modo differente rispetto a quelli di un comune sistema di navigazione satellitare civile.
FONTE: https://insideover.ilgiornale.it/difesa/cosa-si-intende-per-guerra-elettronica-e-cose-il-jamming.html
CULTURA
Moravia: il tradimento dell’indifferenza
Ho sentito spesso dire che la lingua di Moravia è una lingua antica, morta, mentre scrittori più barocchi resteranno eterni per l’arguzia di aver sperimentato e inventato nuovi linguaggi. Mi sembra superfluo sottolineare che per me, se non è vero l’opposto, è quantomai improbabile che Moravia venga mai superato, o che il suo linguaggio – così scorrevole e cinematografico – possa non essere più inteso dalle nuove generazioni. Così, mi sovviene, la circostanza in cui lessi Gli indifferenti – romanzo d’esordio di Alberto Moravia, pubblicato nel 1929, simbolo della decadenza generale (del fallimento economico e morale) del sistema e dell’ideologia borghese, basata sul denaro e sull’apparenza –, avevo da poco finito il liceo, e temevo di incappare in un autore che non avrei amato per nessun motivo, quando invece leggendolo mi ritrovai perfettamente nell’agire e soprattutto nel pensiero dei suoi personaggi, assediati da una sorda disperazione e incapaci di esplicitarla, trasportati dunque all’azione da un sentire torbido e doloroso.
Moravia lo scrisse in un periodo particolarmente buio della sua esistenza, dopo essere stato ricoverato in sanatorio per una tubercolosi ossea; e a tratti si avverte quel senso di claustrofobica ineluttabilità che prendono gli eventi. È un romanzo corale, una storia familiare, che narra, con sapiente dilatazione dei tempi, dettagliata descrizione degli spazi, e stile a tratti teatrale, una giornata e una notte: la notte in cui la famiglia composta da Maria Grazia, Carla e Michele perde tutto, si potrebbe proprio dire che ciascuno di loro venda l’anima al diavolo, ma con una feroce indifferenza nei confronti della propria sorte. Il diavolo assume i tratti dello scaltro Leo Merumeci, amante della madre Mariagrazia e attratto sessualmente dalla figlia Carla; non gli basta sedurre e corrompere la giovane, distruggendo la vecchia amante di cui non gl’importa più nulla, ma la sua brama di potere arriva al punto da stringere un affare, che ha tutta l’aria di un imbroglio, per la vendita, o meglio svendita, della casa in cui Mariagrazia e i suoi figli, Carla e Michele, abitano.
Si tratta della storia di decadenza di una famiglia alto borghese, in cui ciascuno vive la propria caduta con placida indifferenza. Michele, il primogenito maschio, è l’incarnazione stessa dell’indifferenza. Se ne sta per lo più in disparte a covare un rancore che non riesce a venir fuori se non con il pungolo di un subdolo risentimento. Memorabile una delle scene finali, in cui, scoperta la relazione tra Carla e Leo, Michele cerca di sparare al suo acerrimo nemico, a colui che ha corrotto e definitivamente distrutto la sua famiglia, ma non vi riesce, per semplice casualità, perché non ha caricato la pistola, i proiettili li ha in tasca. Altro personaggio torbido che si aggira intorno alla ricca famiglia sul lastrico è Lisa, che per tutto il tempo sarà oggetto delle invidie, dei rancori e delle gelosie di Maria Grazia, in quanto ex amante di Leo, ma che in realtà è interessata a Michele, il quale la detesta, ma, per la stessa indifferenza con cui guarda sprofondare la propria vita e la propria famiglia, non riesce a sottrarsi del tutto a questa infruttuosa relazione. Carla, pur conoscendo le conseguenze delle proprie azioni, decide di sporcarsi una volta per tutte e di donarsi a Leo, quella stessa notte, pur non amandolo. Forse per ripicca nei confronti della madre, forse per provare l’ebrezza dell’alto tradimento, forse per l’illusione che il brivido della caduta, dell’infamia, possa dare una svolta alla sua vita di eterna incresciuta; la scelta è consapevole, feroce, per certi versi. Maria Grazia, dal canto suo, resta nella sua superficialità di donna matura e bambina, non pensa ad altro che alla sua violentissima gelosia, di cui incolpa Lisa. Il più delle volte sono proprio le persone più vicine a provocare maggior sofferenza. Ho sempre intravisto una forma di spostamento d’oggetto nella feroce invidia nei confronti di Lisa da parte di Maria Grazia, è chiaro che l’oggetto della sua invidia, rabbia, gelosia, risentimento, sia in realtà la figlioletta Carla. Fa riflettere sulla sottile linea che separa l’amore materno dall’abuso, la gratitudine di una figlia dall’ingratitudine e dalla vertigine del tradimento.
Al ballo finale, ognuno indosserà la propria maschera prediletta, per camuffare le nefandezze, le oscenità, la – consapevole o inconsapevole – scelta di lasciarsi vincere dal baratro.
Quel giorno la madre finì assai tardi di vestirsi; era mezzodì e stava ancora seduta davanti la teletta passandosi con molte smorfie e grandissima cura il pennellino del nero sulle palpebre gonfie; appena desta, le immagini della gelosia l’avevano messa di cattivo umore, ma poi improvvisamente, si era ricordata che appunto quel giorno Carla compiva gli anni, ventiquattro di numero, e un brusco isterico fiotto di amor materno aveva inondato la sua anima: «La mia Carlotta, la mia povera Carlottina» aveva pensato quasi lacrimando dalla tenerezza; «ecco, non c’è che lei al mondo che mi voglia bene.»
Si era levata, si era vestita con questo pensiero di Carla, che compiva gli anni; le pareva questa una cosa pietosa, un fatto patetico da piangerci sopra, e non aveva cessato per tutto quel tempo di immaginare i regali e le soddisfazioni che avrebbe elargito alla fanciulla. «Ha pochi vestiti… gliene farò… gliene farò quattro o cinque le farò anche la pelliccia… è tanto tempo che la desidera.» Dove poi avrebbe pescato i quattrini per questa beneficenza la madre non ci pensava neppure.
(Alberto Moravia, Gli indifferenti, Mondadori, 2014, pp.81-82)
– E dimmi – domandò subito la madre, – come ti è sembrata Lisa ieri sera?
– Come mi è sembrata? Come il solito.
– Ti pare? – disse la madre dubitosa; – io l’ho trovata più grassa e poi non so… invecchiata.
– Ma non mi pare – rispose Carla; aveva capito dove voleva andare a parare la madre: «E’ di me, mamma, che dovresti essere gelosa» pensò; «non di Lisa.»
– E quel vestito? – continuò l’altra – non si è mai vista una cosa più di cattivo gusto… lei credeva di portare addosso chi sa che cosa…
– Veramente – disse Carla, – non mi sembrava brutto.
– Bruttissimo – affermò la madre; stette un istante con gli occhi spalancati nel vuoto come se avesse veduto formarsi là, davanti a sé, le immagini della sua gelosia; poi bruscamente voltandosi verso la figlia: – però di’ la verità…: hai veduto come Lisa era attaccata a Merumeci?
«Ecco» pensò Carla; e dalla noia avrebbe voluto gridarle: «Non era Lisa, ma io… stavamo abbracciati dietro la tenda… abbracciati»; invece rispose: – Come attaccata?
(Alberto Moravia, Gli indifferenti, Mondadori, 2014, p. 85)
FONTE: https://www.lafionda.org/2022/12/02/moravia-il-tradimento-dellindifferenza/
Cartesio e la scoperta del problema mente-corpo
Considera il corpo umano, con tutto ciò che contiene, inclusi gli organi e le parti interne ed esterne: lo stomaco, i nervi e il cervello, le braccia, le gambe, gli occhi e tutto il resto. Anche con tutta questa attrezzatura, in particolare gli organi sensoriali, è sorprendente che possiamo percepire consapevolmente cose nel mondo che sono lontane da noi. Ad esempio, posso aprire gli occhi al mattino e vedere una tazza di caffè che mi aspetta sul comodino. Eccolo lì, a un metro di distanza, e io non lo tocco, eppure in qualche modo si sta manifestando a me. Come mai lo vedo? In che modo il sistema visivo trasmette alla mia consapevolezza o mente l’immagine della tazza di caffè?
La risposta non è particolarmente semplice. Molto approssimativamente, la storia fisica è che la luce entra nei miei occhi dalla tazza di caffè, e questa luce colpisce le due retine nella parte posteriore degli occhi. Quindi, come abbiamo appreso dalla scienza fisiologica , le due retine inviano segnali elettrici oltre il chiasma ottico lungo il nervo ottico. Questi segnali vengono trasmessi alla cosiddetta corteccia visiva nella parte posteriore del cervello. E poi c’è una specie di miracolo. La corteccia visiva si attiva e vedo la tazza di caffè. Sono consapevole della coppa, potremmo anche dire, anche se non è chiaro cosa significhi e in che cosa differisca dal dire che vedo la coppa.
Un minuto ci sono solo neuroni che si attivano e nessuna immagine della tazza di caffè. Il prossimo, eccolo; Vedo la tazza di caffè, a un metro di distanza. In che modo i miei neuroni hanno contattato me o la mia mente o la mia coscienza, imprimendo lì l’immagine della tazza di caffè per me?
È un mistero. Quel mistero è il problema mente-corpo.
Il nostro problema mente-corpo non è solo una difficoltà su come la mente e il corpo sono collegati e come si influenzano a vicenda. È anche una difficoltà su come possono essere collegati e come possono influenzarsi a vicenda. Le loro proprietà caratteristiche sono molto diverse, come l’olio e l’acqua, che semplicemente non si mescolano, dato quello che sono.
C’è una visione molto comune che afferma che il filosofo francese René Descartes scoprì, o inventò, questo problema nel XVII secolo. Secondo Descartes, la materia è essenzialmente spaziale e possiede le proprietà caratteristiche della dimensionalità lineare. Le cose nello spazio hanno almeno una posizione e un’altezza, una profondità e una lunghezza, o una o più di queste. Le entità mentali, invece, non hanno queste caratteristiche. Non possiamo dire che una mente sia un cubo di due per due per due pollici o una sfera con un raggio di due pollici, per esempio, situata in una posizione nello spazio all’interno del cranio. Questo non perché abbia qualche altra forma nello spazio, ma perché non è affatto caratterizzato dallo spazio.
Ciò che è caratteristico di una mente, afferma Cartesio, è che è cosciente , non che abbia forma o sia costituita da materia fisica. A differenza del cervello, che ha caratteristiche fisiche e occupa spazio, non sembra avere senso allegare ad esso descrizioni spaziali. In breve, i nostri corpi sono certamente nello spazio, e le nostre menti no, nel senso molto diretto che l’assegnazione di dimensioni e posizioni lineari a loro o ai loro contenuti e attività è incomprensibile. Che questa semplice prova di fisicità sia sopravvissuta a tutti i cambiamenti di opinione filosofici dai tempi di Descartes, quasi illesa, è notevole.
Questo problema suscitò notevole interesse in seguito alla pubblicazione del trattato di Cartesio del 1641 “ Meditazioni sulla prima filosofia ”, la cui prima edizione comprendeva sia le obiezioni a Cartesio, scritte da un gruppo di illustri contemporanei, sia le risposte dello stesso filosofo . Sebbene troviamo nelle stesse “Meditazioni” la distinzione tra mente e corpo, delineata in modo molto netto da Descartes, in realtà non fa menzione del nostro problema mente-corpo. Descartes non è turbato dal fatto che, come le ha descritte, mente e materia sono molto diverse: una è spaziale e l’altra no, e quindi l’una non può agire sull’altra. Lo stesso Descartes scrive nella sua risposta a una delle obiezioni:
Tutto il problema contenuto in tali domande nasce semplicemente da un presupposto falso e in alcun modo dimostrabile, e cioè che, se l’anima e il corpo sono due sostanze di diversa natura, ciò impedisce loro di poter agire l’una sull’altra Altro.
Descartes ha sicuramente ragione su questo. La “natura” di un budino dell’Alaska al forno, ad esempio, è molto diversa da quella di un essere umano, poiché uno è un budino e l’altro è un essere umano – ma i due possono “agire l’uno sull’altro” senza difficoltà, perché esempio quando l’essere umano consuma il budino dell’Alaska al forno e l’Alaska al forno in cambio provoca all’essere umano mal di stomaco.
La difficoltà, tuttavia, non è semplicemente che mente e corpo sono diversi. È che sono diversi in modo tale che la loro interazione è impossibile perché comporta una contraddizione. È la natura dei corpi essere nello spazio e la natura delle menti non essere nello spazio, afferma Descartes. Perché i due interagiscano, ciò che non è nello spazio deve agire su ciò che è nello spazio. Tuttavia, l’azione su un corpo avviene in una posizione nello spazio, dove si trova il corpo. Apparentemente Descartes non ha visto questo problema. Fu, tuttavia, affermato chiaramente da due dei suoi critici, i filosofi la principessa Elisabetta di Boemia e Pierre Gassendi. Hanno sottolineato che se l’anima deve influenzare il corpo, deve entrare in contatto con il corpo, e per farlo deve essere nello spazio e avere estensione. In tal caso, l’anima è fisica, secondo il criterio di Descartes.
In una lettera datata maggio 1643, la principessa Elisabetta scrisse a Descartes,
Ti prego di dirmi come l’anima umana può determinare il movimento degli spiriti animali nel corpo in modo da compiere atti volontari, l’essere in quanto è solo una sostanza cosciente. Perché la determinazione del movimento sembra sempre provenire dalla spinta del corpo in movimento, dipendere dal tipo di impulso che riceve da ciò che mette in movimento, o ancora, dalla natura e dalla forma della superficie di quest’ultima cosa. Ora, le prime due condizioni implicano il contatto, e la terza implica che la [cosa] impellente abbia estensione; ma tu escludi completamente l’estensione dalla tua nozione di anima, e il contatto mi sembra incompatibile con l’immaterialità di una cosa.
La propulsione e “il tipo di impulso” che mette in moto il corpo richiedono il contatto, e “la natura e la forma” della superficie del sito in cui avviene il contatto con il corpo richiedono l’estensione. Occorrono due ulteriori precisazioni per cogliere questo passaggio.
La prima è che quando la principessa Elisabetta e Descartes menzionano gli “spiriti animali” (la frase è dell’antico medico e filosofo greco Galeno) stanno scrivendo di qualcosa che svolge approssimativamente il ruolo di segnali nelle fibre nervose della fisiologia moderna. Per Descartes, gli spiriti animali non erano spiriti nel senso di apparizioni spettrali, ma parte di una teoria che sosteneva che i muscoli fossero mossi dall’inflazione con l’aria, la cosiddetta teoria dell’aeronautica. Gli spiriti animali erano sottili correnti d’aria che gonfiavano i muscoli. (“Animale” qui non significa le bestie, ma è un aggettivo derivato da “anima”, l’anima.)
Il secondo chiarimento è che quando la principessa Elisabetta scrive che “escludi completamente l’estensione dalla tua nozione di anima”, si riferisce al fatto che Descartes definisce mente e materia in modo tale che i due si escludano a vicenda. La mente è coscienza, che non ha estensione o dimensione spaziale, e la materia non è cosciente, poiché è completamente definita dalle sue dimensioni spaziali e dalla sua posizione. Poiché la mente manca di una posizione e di dimensioni spaziali, sostiene Elisabeth, non può entrare in contatto con la materia. Qui abbiamo il problema mente-corpo che va a tutto gas.
Lo stesso Cartesio non aveva ancora il problema mente-corpo ; aveva qualcosa che equivaleva a una soluzione al problema. Sono stati i suoi critici a scoprire il problema, proprio nella soluzione del problema di Descartes, anche se è anche vero che è stato loro quasi imposto dalla netta distinzione di Descartes tra mente e corpo. La distinzione coinvolgeva le caratteristiche distintive o “attributi principali”, come li chiamava, di mente e corpo, che sono coscienza ed estensione.
Sebbene Descartes avesse senza dubbio ragione sul fatto che tipi molto diversi di cose possono interagire tra loro, non aveva ragione nel suo resoconto di come cose così diverse come la mente e il corpo in realtà interagiscono. La sua proposta, in “Le passioni dell’anima”, il suo ultimo trattato filosofico, era che interagissero attraverso la ghiandola pineale, che è, scrive, “la sede principale dell’anima” ed è mossa da una parte e dall’altra dall’anima in modo da spostare gli spiriti animali o flussi d’aria dalle sacche accanto ad esso. Aveva le sue ragioni per scegliere questo organo, poiché la ghiandola pineale è piccola, leggera, non raddoppiata bilateralmente e situata centralmente. Tuttavia, l’intera idea non è un punto di partenza, perché la ghiandola pineale è fisica come qualsiasi altra parte del corpo. Se c’è un problema su come la mente può agire sul corpo,
Abbiamo ereditato la netta distinzione tra mente e corpo, anche se non esattamente nella forma di Cartesio, ma non abbiamo ereditato la soluzione di Cartesio al problema mente-corpo. Quindi ci rimane il problema, meno una soluzione. Vediamo che le esperienze che abbiamo, come le esperienze del colore, sono davvero molto diverse dalla radiazione elettromagnetica che alla fine le produce, o dall’attività dei neuroni nel cervello. Siamo costretti a chiederci come la radiazione incolore possa produrre il colore, anche se i suoi effetti possono essere seguiti fino ai neuroni della corteccia visiva. In altre parole, facciamo una netta distinzione tra fisica e fisiologia da un lato, e psicologia dall’altro, senza un modo di principio per collegarle. La fisica consiste in un insieme di concetti che include la massa ,velocità , elettrone , onda e così via, ma non include i concetti rosso , giallo , nero e simili. La fisiologia include i concetti di neurone , cellula gliale , corteccia visiva e così via, ma non include il concetto di colore. Nel quadro dell’attuale teoria scientifica, “rosso” è un termine psicologico , non fisico. Allora il nostro problema può essere descritto molto genericamente come la difficoltà di descrivere il rapporto tra il fisico e lo psicologico, dal momento che, come la principessa Elisabetta e Gassendi hanno capito, non possiedono termini di relazione comuni.
Non c’era davvero alcun problema mente-corpo prima di Descartes e del suo dibattito con i suoi critici nel 1641? Naturalmente, molto prima di Descartes, filosofi e pensatori religiosi avevano parlato del corpo e della mente o dell’anima, e della loro relazione. Platone, ad esempio, scrisse un affascinante dialogo, il Fedone, che contiene argomenti per la sopravvivenza dell’anima dopo la morte e per la sua immortalità. Eppure il senso esatto in cui l’anima o la mente è in grado di essere “nel” corpo, e anche di lasciarlo, apparentemente non è qualcosa che si presentava a Platone come un problema a sé stante. Il suo interesse è nel fatto che l’anima sopravvive alla morte, non come, o in che senso possa essere nel corpo. Lo stesso vale per i pensatori religiosi. La loro preoccupazione è per l’essere umano, e forse per il benessere del corpo, ma principalmente per il benessere e il futuro dell’anima umana. Non formulano un problema con la precisione tecnica imposta alla principessa Elisabetta ea Gassendi dal dualismo ben formulato di Cartesio.
Qualcosa di importante era chiaramente cambiato nel nostro orientamento intellettuale durante la metà del XVII secolo. Le spiegazioni meccaniche erano diventate all’ordine del giorno, come la spiegazione aeronautica di Descartes del sistema nervoso, e queste spiegazioni lasciavano senza risposta la questione di cosa si dovesse dire della mente umana e della coscienza umana dal punto di vista fisico e meccanico.
Cosa succede, semmai, quando ad esempio decidiamo di fare anche una cosa così semplice come alzare una tazza e prendere un sorso di caffè? Il braccio si muove, ma è difficile vedere come il pensiero o il desiderio possano farlo accadere. È come se un fantasma cercasse di sollevare una tazzina di caffè. Il suo braccio spettrale, si suppone, passerebbe semplicemente attraverso la coppa senza influenzarla e senza essere in grado di far alzare in aria né lui né il braccio fisico.
Non sarebbe meno straordinario se solo a pensarci da qualche metro di distanza riuscissimo a far erogare contanti da un bancomat. È inutile insistere sul fatto che le nostre menti dopo tutto non sono fisicamente connesse all’ATM, ed è per questo che è impossibile influenzare l’output dell’ATM, perché non ha senso che siano fisicamente connesse ai nostri corpi. Le nostre menti non sono fisicamente connesse ai nostri corpi! Come potrebbero esserlo, se non sono fisici? Questo è il punto la cui importanza la principessa Elisabetta e Gassendi hanno visto più chiaramente di chiunque altro prima di loro, incluso lo stesso Descartes.
Jonathan Westphal è un membro permanente della Senior Common Room presso l’University College di Oxford e l’autore di ” The Mind-Body Problem “, da cui è tratto questo articolo.
FONTE: https://thereader.mitpress.mit.edu/discovery-mind-body-problem/
DIRITTI UMANI IMMIGRAZIONI
QUESTO SOLDATO RUSSO, SPIEGA UN’OPERAZIONE DI PRELIEVO DI ORGANI IN CORSO DA PARTE DEL REGIME DI KIEV‼️
“Il loro gruppo, come si è scoperto, stava radunando bambini intorno a Izyum, piccolissimi, dai 2 ai 6-7 anni e li stava portando in un posto particolare..
Lì venivano spogliati al 1° piano. Al 2° piano li fecero a pezzi come i rifiuti scartati..
Venivano tenuti nelle fosse o portati fuori da qualche parte. E quei ragazzi, loro, sai, stavano parlando dei bambini come se. Come se stessero macellando del bestiame vivo, come un maialino o un coniglio..
Venivano portati lì, come se fosse una fattoria .
Capisci..?? Questi impianti prelevavano organi.
Ne avevo sentito parlare, ma non ci credevo. Finché non lo si vede con i propri occhi.
Bestie‼️ Questi sono bestie‼️
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La nuova partita per l’Africa che potrebbe influenzare l’immigrazione
Dall’energia alle armi, dalle infrastrutture alla cultura. È in fase di svolgimento un nuovo “Grande Gioco” africano che potrebbe far cambiare pelle all’intero continente. A differenza del periodo pre Covid, quando l’Africa era appannaggio di Cina, Russia e, in parte, Francia e Turchia, adesso la partita è molto più ampia. E non solo perché gli Stati Uniti, preoccupati dalla penetrazione cinese in loco, hanno finalmente deciso di affinare una seria strategia dedicata alla regione. Ad occupare la parte centrale della scacchiera, infatti, troviamo adesso medie potenze che nel recente passato vantavano una presenza pressoché trascurabile nell’area.
Ci riferiamo alla citata Turchia, a Israele, all’India, al Giappone e alla Corea del Sud. Allo stesso tempo, la Russia è stata costretta a trascurare alcuni impegni africani per concentrarsi sulla guerra in Ucraina, mentre la Francia ha ridotto la sua presenza miliare in loco, avendo ormai accettato da tempo il tramonto della Francafrique.
In tutto questo, la maggior parte dell’Africa dovrà dimostrare di essere in grado di sfruttare al meglio le nuove occasioni che le si presenteranno sul tavolo, in modo tale da avviarsi sulla strada della modernizzazione e arginare l’emorragia di cittadini diretti verso l’Europa. L’aspetto più curioso è che simili dinamiche potrebbero essere innescate non tanto dal sostegno di Bruxelles – incapace fin qui di risolvere il rebus Africa, eppure indirettamente prima beneficiaria di un ipotetico calo dell’immigrazione dal Continente Nero – quanto dai vari investimenti di parti terze molto spesso percepite dagli stessi governi europei come minacce per l’ordine democratico.
Gli accordi nel Maghreb
È molto interessante quanto sta accadendo nel Maghreb, in pratica la porta d’accesso dell’immigrazione africana verso il Mediterraneo e quindi l’Europa. Vari governi stanno rafforzando la cooperazione con Paesi desiderosi di investire in loco ingenti somme di denaro in settori chiave. Prendiamo la Tunisia. Il primo ministro Najla Bouden Ramadan ha presieduto, al Palazzo del Governo della Kasbah, la cerimonia della firma di un accordo di cooperazione tra l’Autorità superiore appalti pubblici tunisina e l’Autorità per gli appalti pubblici del Corea del Sud, alla presenza dell’ambasciatore coreano a Tunisi, i capi dei due organismi e le delegazioni di entrambe le parti.
L’accordo mira a stabilire una cooperazione tra la Tunisia e Corea del Sud e i Paesi che desiderano condividere “questa esperienza esemplare nel Paese nordafricano, contribuendo così al suo sviluppo nel campo degli appalti pubblici“, si legge nella nota diffusa dalle autorità tunisine. Secondo la presidenza del governo tunisino, l’intesa favorisce anche lo scambio di esperienze tra Tunisia e Corea nel campo degli appalti pubblici, rafforzando le capacità tunisine nel campo della digitalizzazione, sostenendo il lavoro dell’Autorità superiore tunisina.
La stessa Corea, tra l’altro, sta cercando anche di espandere la cooperazione con l’Egitto in campo militare attraverso diversi programmi in collaborazione, inclusa la produzione congiunta di velivoli FA-50. “Corea del Sud ed Egitto intrattengono relazioni di cooperazione nel campo della produzione militare e della difesa nazionale più attivamente che mai, soprattutto dopo aver firmato un contratto per l’esportazione dell’obice semovente K-9 lo scorso febbraio e con lo spettacolo aereo congiunto sulle Piramidi di Giza lo scorso agosto”, ha spiegato l’ambasciata sudcoreana in Egitto. Da parte sua, il Cairo ha espresso il desiderio di rafforzare il rapporto di cooperazione con le aziende sudcoreane in vari campi, tra cui prodotti elettronici, ferrovie, metropolitane e desalinizzazione dell’acqua di mare.
Il laboratorio per il nuovo volto cinese nel Continente Nero è invece l’Algeria. Gli algerini intendono trasformare il loro Paese con una rivoluzione infrastrutturale – ciò significa investire fondi pubblici per la costruzione di strade e collegamenti, capaci a loro volta di rilanciare l’industria – mentre la Cina è pronta a soddisfare le richieste di Algeri. Pechino ha tutti i mezzi per riuscire nella missione.
La punta dell’iceberg coincide forse con la moschea di Algeri è la terza al mondo per dimensioni, la più grande dell’Africa. Può contenere 35.000 fedeli e ospita al suo interno facoltà universitarie, scuole e due biblioteche. Prezzo: un miliardo di dollari. A tirar su un simile progetto è stata un’impresa cinese. E sono cinesi anche le imprese che hanno realizzato il nuovo aeroporto da 10 milioni di passeggeri e una stazione che collega metropolitana allo scalo della capitale.
L’Africa verso un nuovo sviluppo?
Certo, accordi del genere non trasformeranno l’Africa in una grande potenza globale dall’oggi al domani. Rappresentano però le fondamenta sopra le quali i governi africani più organizzati potranno elaborare i propri piani di sviluppo, così da lasciarsi alle spalle un passato fatto di miseria e sognare un futuro roseo.
In caso di fumata bianca, un simile fenomeno economico potrebbe (il condizionale è d’obbligo) inoltre influenzare le rotte migratorie, spingendo sempre più africani ad abbandonare l’idea di lasciare il continente per immaginare un domani migliore. Detto altrimenti, i governi africani che saranno in grado di fare leva sugli investimenti stranieri – gli stessi investimenti figli del Grande Gioco geopolitico in corso tra le potenze più rilevanti del mondo nella regione –, miglioreranno le loro economie a tal punto da risultare mete di immigrazione più attraenti rispetto alle incognite europee.
I Paesi stranieri in Africa, come anticipato, formano una nutrita schiera di soggetti. La Cina punta tutto su investimenti e prestiti, sull’eco della Nuova via della Seta, nonché sugli scambi commerciali. La Russia, con una presenza in declino, è ben lieta di vendere armi e mezzi militari in cambio di risorse preziose. Turchia e Israele si servono, invece, rispettivamente dell’Islam e dell’intelligence, mentre Corea del Sud, Giappone e India aspirano a siglare accordi economici rilevanti in settori quali il farmaceutico, l’energetico e l’infrastrutturale.
Non è un caso, giusto per fare un altro esempio, che lo scorso 29 giugno l’African Development Bank, il Ministero dell’Economia e delle Finanze coreano e l’Export-Import Bank of Korea abbiano firmato un accordo in base al quale la Corea del Sud fornirà 600 milioni di dollari di cofinanziamento per progetti energetici insieme alla medesima African Development Bank.
Il patto Korea-Africa Energy Investment Framework (KAEIF) fa seguito alla firma, il 28 maggio 2021, di un accordo generale di cooperazione tra la Banca e il governo coreano. Il KAEIF si concentra in particolare sulle soluzioni di energia rinnovabile in Africa, tra cui generazione, trasmissione, distribuzione, off-grid e mini-grid, riforme politiche e normative, efficienza energetica e progetti di cucina pulita.
Insomma, quelle che un tempo erano considerate “potenze emergenti”, nella totale indifferenza del mondo occidentale, si sono praticamente impossessate dell’Africa. In un momento cruciale per la storia dell’umanità, dove la carenza di materie prime si fa sentire, si capisce che chi riuscirà ad avere il controllo dell’Africa controllerà, a sua volta, l’economia mondiale.
In tutto ciò, mentre gli Stati Uniti hanno stilato un piano strategico per l’Africa – all’apparenza più volto a contrastare la presenza di Cina e Russia che non a proporre soluzioni ai governi africani – dell’Europa si hanno pochissime tracce. E questo nonostante sia la regione più sensibile al fenomeno migratorio africano.
FONTE: https://insideover.ilgiornale.it/economia/la-nuova-partita-per-lafrica-che-potrebbe-influenzare-limmigrazione.html
ECONOMIA
Federico Caffè e la ri-politicizzazione dell’economico
È oggi ampiamente diffusa un’immagine stereotipata dell’economia presentata come una “scienza naturale”: un sapere a-storico, a-valutativo e indipendente dalle intenzioni umane. Ma l’economia, anche quando si traveste con gli abiti della neutralità tecnica, è sempre “economiapolitica”: esito, cioè, di precise intenzionalità e di specifiche progettazioni umane.
Lo sapeva bene Federico Caffè, tra i più importanti economisti italiani della seconda metà del Novecento, che si è sempre battuto, attraverso pubblicazioni scientifiche, interventi giornalistici e dibattiti pubblici, per costruire una civiltà più giusta di quella prodotta dall’economia capitalistica: Una civiltà possibile. La lezione dimenticata di Federico Caffè (Meltemi, Milano 2022, pp. 215) è infatti il titolo dell’inedito lavoro sul pensiero dell’economista pescarese scritto dal giornalista e saggista economico Thomas Fazi.
Il volume, a detta dello stesso autore, nasce “per caso”: l’intenzione originaria era quella di scrivere un libro sulla figura di Mario Draghi, utilizzando gli scritti di Caffè – suo maestro – come contrappunto al percorso professionale dell’ex presidente della BCE. Infatti, al netto dei “ridicoli parallelismi” (p. 19) tra Caffè e Draghi messi in risalto dalla stampa dopo l’incarico di governo ricevuto da quest’ultimo a inizio 2021, “del pensiero e della ‘filosofia’ di Caffè non vi era traccia nell’operato decennale di Mario Draghi” (ivi: 20), il quale aveva da tempo abbandonato l’originaria adesione al keynesismo per abbracciare le dottrine monetariste e il dogma del “vincolo esterno”.
Il pensiero di Caffè, pertanto, al di là dell’immagine ingessata della narrazione ufficiale, risulta essere di grande attualità per mettere a tema, con rinnovato spirito critico, i limiti dell’economia di mercato, la retorica neoliberale e l’uso politico dell’allarmismo economico. Con la consapevolezza che nella dimensione economica non esistono leggi di natura e che “un’alternativa è sempre possibile” (p. 23).
- Tra Keynes e la Costituzione
Federico Caffè (1914-1987) è stato professore ordinario di Politica economica e finanziaria alla Sapienza di Roma dal 1959 al 1984. L’impianto keynesiano che traspare dai suoi scritti è ravvisabile nelle sue frequenti denunce sull’intrinseca instabilità del capitalismo e nell’idea che debba essere lo Stato ad intervenire nell’economia, utilizzando la spesa pubblica in modo strutturale e non meramente emergenziale, per compensare le inevitabili esternalità negative generate dal mercato, prima tra tutte la disoccupazione. Caffè, infatti, da profondo studioso di Keynes, fu uno strenuo sostenitore della forte presenza pubblica nelle politiche industriali e nella edificazione di un welfare state su solide fondamenta di “economia mista”: il mercato, per Caffè, è solo una dimensione dell’economico, e – così come enunciato nell’art. 41 della Costituzione italiana – deve in ogni caso essere subordinato all’utilità sociale. Un “sistema misto”, cioè una via di mezzo tra i due estremi del collettivismo e del libero mercato, in cui lo Stato tiene saldamente in mano i “controlli centrali”, programmando e pianificando l’economia, senza però escludere la libera iniziativa.
In realtà, l’obiettivo di Keynes era ancora più ambizioso: il suo auspicio, infatti, non era semplicemente “riformare” il sistema capitalistico, ma promuovere la transizione a un modello economico alternativo. Gli elementi più rivoluzionari della Teoria generale di Keynes, tuttavia, già a partire dal secondo dopoguerra, vennero “normalizzati” in favore di una sorta di compromesso con il vecchio paradigma liberista: la cosiddetta “sintesi neoclassica” – che prese il nome di “neokeynesismo” – rappresenta infatti una “grossolana semplificazione della teoria originaria di Keynes” (p. 41). Anzi, in molti casi, specie quando afferma la naturale bontà dei meccanismi di mercato (in ossequio, più che a Keynes, al vecchio Smith) appare un vero e proprio “ribaltamento” rispetto alla posizione dell’economista britannico.
Solo una minoranza di economisti rifiutò questo depotenziamento della teoria di Keynes: tra questi Federico Caffè, che si batté costantemente contro l’illusione liberista della “mano invisibile”, che riteneva fossero i capitali a dover inseguire i lavoratori e non viceversa, che credeva nella possibilità di abolire le speculazioni di quelli che chiamava “gli incappucciati della finanza”, a vantaggio di forme di programmazione e “pianificazione democratica” – come recita il titolo di un suo importante libro – dell’economia.
Caffè è convinto che la piena occupazione, obiettivo che il capitalismo è strutturalmente incapace di assicurare, rappresenti un imperativo etico: lo Stato non deve limitarsi a sostenerla reagendo solo in chiave anticiclica alle fluttuazioni del settore privato, ma deve agire attivamente. D’altra parte sono gli stessi principi sanciti nella Costituzione repubblicana, a cui Caffè diede il suo contributo come membro della Commissione economica del Ministero per la Costituente (1945-46). La Costituzione repubblicana, infatti, non finalizza l’intervento statale alla tutela degli interessi privati, bensì al benessere sociale diffuso. Il problema – scrive Fazi – è che “la Costituzione prescrive i fini […] che avrebbe dovuto perseguire la nuova Repubblica”, ma non “i mezzi di politica economica, e soprattutto di politica monetaria e di bilancio, con cui conseguirli”, così che “le idee liberiste, cacciate dalla porta in sede di dibattito costituente, sono potute rientrare così facilmente dalla finestra” (p. 71).
Di tutto ciò ne era ben consapevole Federico Caffè, incontrando però forti resistenze non solo nel campo accademico e giornalistico, ma anche negli ambienti politici della sinistra socialcomunista, che “si dimostrarono scettici, se non apertamente ostili, alle teorie di Keynes, un po’ per tatticismo […] un po’ perché le sinistre già allora subivano le suggestioni dell’appello al mercato” (p. 72).
- Il caso italiano e il PCI
La prima metà degli anni Settanta è una stagione di grandi riforme progressive per l’Italia: l’accordo sull’indicizzazione dei salari all’inflazione (Scala mobile), la riforma del sistema pensionistico, lo Statuto dei lavoratori sono i passaggi che meglio rappresentano gli esiti di quel forte afflato democratico promosso dalle organizzazioni dei lavoratori.
Presto, tuttavia, questo “ciclo riformista” viene bruscamente interrotto “sotto la spinta di una controffensiva padronale senza precedenti” (p. 114): misure restrittive/deflazionistiche come il blocco per due anni della scala mobile, unite all’aumento delle tariffe energetiche, portarono il paese in una direzione antitetica alla faticosa democratizzazione reale che si era avviata.
Quale fu la posizione del Partito comunista italiano? Emblematico a questo proposito è il convegno organizzato dal Centro studi di politica economica (CESPE) del partito nel 1976 dedicato al tema della crisi economica. La discussione vide confrontarsi due economisti: Franco Modigliani e Federico Caffè.
La tesi di Modigliani, sostanzialmente, consisteva nel legittimare le scelte di politica economica del governo per riequilibrare i conti con l’estero: “qualche sacrificio ai lavoratori” – sosteneva l’economista del PCI – in cambio della difesa dell’occupazione.
Federico Caffè, per parte sua, dichiarò il suo “smarrimento intellettuale” di fronte a queste posizioni che definiva “prekeynesiane” e annotava con fermezza che la riduzione dei salari non migliorasse di per sé le condizioni dell’occupazione. Ciò non era verificato né analiticamente né empiricamente: si trattava solo di un “atto di fede”.
Insomma, Caffè era preoccupato che all’interno del PCI si stesse offuscando la concezione dello Stato come garante del benessere sociale ed era sconcertato di come, a fronte di una grave involuzione economica, anche a sinistra, non si trovasse nulla di meglio da proporre che la “riscoperta del mercato”. Inoltre, l’economista pescarese avvertiva sull’uso strumentale dell’inflazione, di cui – sosteneva – se ne sfrutta lo spauracchio per raggiungere obiettivi politici. Caffè la definiva “strategia dell’allarmismo economico” e consisteva – scrive Fazi – nel “dipingere un paese sempre sull’orlo di una imminente catastrofe economica: il tutto allo scopo di […] far accettare all’opinione pubblica ‘riforme’ (di stampo regressivo e neoliberale) presentate come risolutive” (p. 131). L’obiettivo reale delle politiche anti-inflazionistiche, infatti, era la compressione salariale e l’inibizione del processo di democratizzazione dell’economia.
Caffè si prodigò per cercare di convincere la sinistra e i sindacati a “non fare propria la narrazione dell’avversario” (p. 134), in quanto temeva che così facendo si sarebbero riportate le lancette della storia all’epoca del capitalismo aggressivo dell’era prekeynesiana. Ma gli appelli e i moniti di Caffè non furono sufficienti: il PCI sposò integralmente le tesi monetariste/neoliberiste di Modigliani, “interiorizzando l’idea secondo cui […] l’Italia non avrebbe potuto affrontare la crisi economica in corso che attraverso il contenimento dei salari e politiche monetarie e di bilancio restrittive” (p. 141).
Questa “svolta economica” del PCI sarebbe stato il primo passo verso quella più ampia “svolta politica” che circa quindici anni dopo, nel 1991, avrebbe portato alla dissoluzione del partito.
- L’integrazione europea e il disegno neoliberale
Lo scontro teorico tra Caffè e Modigliani riguardò anche un altro decisivo tema: l’introduzione, a livello europeo, di un sistema di cambi (semi)fissi, il cosiddetto Sistema monetario europeo (SME) Anche in questo caso i due economisti si trovarono sui lati opposti della barricata: da una parte Modigliani, sostenitore dello SME, dall’altra Caffè, nettamente contrario.
Caffè vedeva nello SME uno strumento per “legare le mani” alle autorità politiche e monetarie nazionali e, soprattutto, denunciava i costi che ne avrebbero pagato i paesi e le classi più deboli. Per Caffè, infatti, “i regimi di cambio fisso tra paesi economicamente eterogenei sono sempre deleteri” (p. 153). A suo avviso, al contrario, occorreva “dotare il paese di maggiori strumenti di intervento economico, invece che privarsene tramite l’approfondimento del processo di integrazione economica e monetaria a livello comunitario, il quale – come riporta Fazi – non avrebbe fatto che “aumentare la nostra vulnerabilità e dipendenza” (p. 157).
Il PCI, in questo caso, al momento della votazione in aula (dicembre 1978), si schierò contro lo SME. Fu Giorgio Napolitano a mettere in guardia sulle conseguenze nefaste per l’Italia – ma soprattutto per i lavoratori italiani – che avrebbe comportato l’adesione al Sistema monetario europeo, in cui, peraltro, “vedeva profilarsi il rischio di un dominio dell’economia tedesca a danno di quella italiana” (p. 164). L’adozione del nuovo meccanismo di cambio europeo, progenitore della moneta unica, infatti, significava “disinnescare il conflitto distributivo e addossare alle richieste sindacali la responsabilità della perdita di competitività del paese, facilitando una maggiore flessibilità verso il basso dei salari” (p. 165). Significava, in definitiva, creare un potente vincolo esterno che – come ebbe a dire sempre Napolitano – avrebbe spianato la strada a misure drastiche di restaurazione sociale.
Ciò che ne seguì è noto. Nonostante il voto contrario del PCI e l’astensione del PSI, infatti, il parlamento approvò l’adesione dell’Italia allo SME, con conseguenze poco felici per il nostro paese, considerati soprattutto “la comparsa di un deficit estero strutturale e un significativo rallentamento della crescita” (p. 167). Una scelta economica fortemente connotata politicamente (così come le successive tappe del processo di integrazione europea) “finalizzata a un obiettivo ben preciso: disciplinare i lavoratori” (p. 168). Lo SME, infatti, scrive Fazi, “rappresenta un esempio da manuale di quel processo di depoliticizzazione” (ibid.) messo in campo dalle classi dominanti occidentali come argine al conflitto distributivo emerso nel corso degli anni Settanta.
L’adesione allo SME ebbe come “inevitabile conseguenza” – così come si espresse l’allora ministro Beniamino Andreatta – il celebre divorzio tra Ministero del Tesoro e Banca d’Italia del 1981. Una decisione, mai ratificata dal parlamento, che “mise progressivamente fine alla parziale monetizzazione del deficit pubblico e al calmieramento dei tassi di interesse da parte della Banca d’Italia” (p.170). Prima di allora, infatti, spiega Fazi, “il debito accumulato dal Tesoro nei confronti della banca centrale non costituiva assolutamente un debito reale verso essa” (p. 171). Ma dal 1981 in avanti, stabilendo che la banca centrale non fosse più tenuta ad acquistare le obbligazioni che il governo non riusciva a piazzare sul mercato, si rendeva lo Stato sempre più dipendente dai mercati finanziari.
Federico Caffè giudicò un “errore gravissimo” la scelta di separare Tesoro e Banca d’Italia, errore che avrebbe vincolato tutte le successive scelte di politica economica. A partire dal 1981, infatti, comincia la graduale esplosione del rapporto debito/PIL: una manna dal cielo per i ceti dominanti che, a partire dagli anni Novanta, potranno giustificare tutte le più drastiche politiche di restrizione fiscale e di contenimento della spesa pubblica, apportando ragioni tecniche di mera contabilità che nascondevano, però, precise scelte politiche.
- Una voce isolata, una voce attuale
Gli anni Ottanta sono il decennio della grande controrivoluzione neoliberista. In tutto l’Occidente si procede allo smantellamento degli strumenti “keynesiani” di cui si erano dotate le democrazie nel secondo dopoguerra, si va sempre più speditamente verso la deregolamentazione dei mercati e della finanza, si attaccano senza particolari scrupoli i sindacati e il mondo del lavoro e si assiste all’ascesa di un “nuovo spirito del capitalismo” fondato sull’elogio dell’individuo, del consumismo, della competitività. Una vera e propria rivoluzione antropologica con dei precisi contraltari politici: Margaret Thacher in Gran Bretagna, Ronald Regan negli U.S.A.
In Italia, intanto, prende sempre più quota – a partire dall’Atto unico europeo firmato nel 1986 dal governo Craxi – quel processo che si sarebbe concluso con il Trattato di Maastricht (1992), a partire da cui verranno fissati i criteri per l’adesione alla futura Unione europea: indipendenza assoluta della BCE dagli Stati nazionali, flessibilizzazione del lavoro, limiti al deficit e al debito pubblici. L’obiettivo era creare un mercato unico europeo che, sebbene nella retorica dei proponenti avrebbe costituito uno “spazio sacro” di libertà economica, nei fatti condusse l’Italia in una situazione che la esponeva strutturalmente al giudizio dei mercati finanziari internazionali.
Caffè polemizzò con toni aspri contro le “accresciute ingerenze della CEE” (p. 186) negli affari economici italiani. Ma la sua voce era ormai sempre più isolata, dal momento che anche la sinistra comunista, dopo forti perplessità, ora cominciava a manifestare il suo aperto sostegno al progetto di integrazione europea e assumeva su di sé le parole d’ordine dell’austerità e della lotta all’inflazione. Molto probabilmente per ragioni di consenso, come amaramente constatava lo stesso Caffè, convinto invece della natura “classista” del progetto di integrazione europea e della natura ideologica e strumentale dell’allarmismo economico.
Non è un caso che, al processo di integrazione, corra parallela la stagione delle privatizzazioni, quasi fosse un indicatore perverso della riuscita di un disegno anti-popolare: dalla ristrutturazione dell’IRI durante la presidenza Prodi (1982-89) che determinò la cessione di numerose aziende pubbliche, alla privatizzazione delle Ferrovie dello Stato, passando per la vendita di quote di aziende come Alitalia. Le motivazioni della “svendita” facevano perno su di un mito a cui era difficile contrapporsi: l’inefficienza congenita del pubblico. Caffè, tuttavia, faceva notare come quest’idea fosse del tutto infondata: se di inefficienza si deve parlare, questa non è ascrivibile al carattere intrinsecamente deficitario del pubblico, ma alla gestione malaccorta o interessata delle classi dirigenti.
Ma la sua voce era sempre più isolata, i suoi moniti inascoltati. Aveva già lasciato l’insegnamento universitario quando, nella notte tra il 14 e il 15 aprile 1987, abbandonerà la sua abitazione romana senza lasciare traccia. Non sono ancora stati chiariti i motivi di questa scomparsa, ma la sua voce oggi risuona tra chi non si rassegna allo stato di cose presenti, tra chi sa che “qualunque regime socioeconomico è innanzitutto un costrutto politico-ideologico” (p. 214), tra chi auspica una piena ri-politicizzazione della dimensione economica.
Merito di Thomas Fazi è averci restituito con chiarezza e precisione tutta la vivacità e la scottante attualità del suo pensiero, ricostruito attraverso una attenta disamina dei sui scritti, utili quanto mai per leggere e comprendere il presente.
FONTE: https://www.lafionda.org/2022/11/25/federico-caffe-e-la-ri-politicizzazione-delleconomico/
“Annichilimento delle caste” e lotta per l’uguaglianza idrica
Meno di un secolo fa, la distribuzione dell’acqua in India era basata sullo status. L’accesso all’acqua era segregato e diseguale tra famiglie e comunità. I diritti privati di assicurarsi i rifornimenti erano custoditi in nome della purezza rituale. Operazioni di soccorso in caso di carestia alla fine del XIX secolo , a seguito di una devastante siccità, ha portato alla costruzione di pozzi e ha modificato in una certa misura la distribuzione. Tuttavia, il diritto basato sullo status era incorporato in pratiche e credenze che lo stato non poteva raggiungere e non voleva toccare. L’operazione di soccorso da sola non poteva indebolire la forza della consuetudine. I documenti sulla carestia, tuttavia, hanno rivelato quanto fosse stata mortale la tradizione durante i disastri naturali. Quella conoscenza era pubblica quando una lotta per strappare “il diritto di attingere acqua da un pozzo comune” emerse all’inizio degli anni tra le due guerre. L’India occidentale, dove il ricordo delle carestie era ancora fresco, era il palcoscenico. Nel seguente estratto da ” Monsoon Economies: India’s History in a Changing Climate “, lo storico economico Tirthankar Roy descrive questa lotta.
Nel 1914, Hiraman Dhondi Mochi attinse l’acqua da un lago sacro affiliato a un tempio vicino a Bombay. Conciatore e intoccabile, Mochi aveva nascosto la sua identità di casta quando usava il lago e si atteggiava a venditore di frutta. Quando Mochi fu scoperto, l’autorità del tempio lo fece causa per aver contaminato l’acqua. L’insulto alla religione era un reato penale. Il magistrato ha disposto la pena detentiva. Ma il caso è andato in appello e si è risolto a favore di Mochi. La corte d’appello ha fatto una distinzione tra attingere acqua e mancanza di rispetto intenzionale alla religione, osservando che se le due cose si fondessero, tutti i fiumi sarebbero inaccessibili alla maggior parte degli indiani.
Sia per effetto della sentenza che per l’espansione dell’autogoverno locale, nel decennio successivo, in molti villaggi dell’India occidentale, i gruppi cercheranno di prendere il controllo di un bacino ritenuto sacro dalle caste superiori. Questi casi non si sono conclusi con la violenza o un caso giudiziario, ma più spesso si sono conclusi con un arbitrato di qualche tipo. In un incidente del 1924 nella città del tempio centrale del Maharashtra Lonar, il tentativo di una “banda di 500 intoccabili” di “inquinare il fiume sacro” fallì, secondo quanto riportato dal Times of India, perché il “vicecommissario [aveva] minacciato le classi depresse di arresti istantanei nel caso avessero ripetuto i loro tentativi”. Un movimento del 1931 per aprire l’accesso a un pozzo fallì a causa di una disputa tra i gruppi di caste depresse. La casta ha fissato un bersaglio mobile. “Nei ranghi degli ‘intoccabili'”, diceva un altro articolo di giornale su una disputa del 1925, “ci sono gradi di intoccabilità, e dove questo è il caso i gradi più alti non berranno dai pozzi dei gradi inferiori”.
Un terzo tipo di esito è stato l’arbitrato esterno, che stava diventando più frequente nell’India occidentale perché MK Gandhi e il riformatore sociale Bhimrao Ramji Ambedkar hanno cercato di portare le caste depresse nel mainstream politico, con argomenti diversi. In un villaggio del Karnatak, un attivista politico ha convinto le caste superiori ad aprire l’accesso alle caste svantaggiate, a condizione che queste ultime smettessero di mangiare carne e di bere alcolici. Il fondamentale libro di Ambedkar del 1936 “ Annihilation of Caste ” documenta molti altri casi di protesta locale. Anche i giornali delle città registrano e commentano numerosi casi in cui l’acqua sicura, finora bene privato e comunitario custodito in nome di un valore sociale condiviso, diventa bersaglio di appropriazione.
Il più organizzato dei movimenti avvenne nella piccola città di Mahad, 100 miglia a sud di Bombay, nel 1927. Un gruppo guidato da Ambedkar cercò di ottenere il diritto di attingere acqua da un serbatoio della città. Il movimento ha perso, ma la questione è andata in tribunale. Alla fine, un giudice del tribunale locale ha decretato che la cisterna della città di Mahad era di proprietà pubblica e aperta a tutti. Da quel momento in poi, la partecipazione di Ambedkar al movimento per l’uguaglianza ha segnato una svolta nella storia politica indiana.
BR Ambedkar (1891–1956) è nato in una famiglia intoccabile dell’India centrale. Suo padre era un maggiore dell’esercito indiano. Il più giovane di 14 fratelli, Ambedkar ha visto la sua vita prendere una svolta insolita quando il sovrano principesco dello stato di Baroda ha sponsorizzato l’educazione dello studente di talento, a condizione che tornasse a servire lo stato di Baroda. Ciò che ha fatto, e subendo la segregazione da parte dei suoi colleghi d’ufficio, ha lasciato il servizio. L’esperienza ha dimostrato che un re illuminato da solo non poteva competere con le istituzioni sociali. Dopo quell’esperienza, ha conseguito una laurea in giurisprudenza a Londra ed è tornato in India nel 1923. Per i successivi 20 anni, ha mobilitato gruppi di caste inferiori per una campagna per l’uguaglianza. Ha strappato ai leader del movimento nazionalista un riconoscimento formale che gli intoccabili erano un gruppo al di fuori dell’induismo e avevano bisogno di un elettorato separato. Ora è ricordato di più per quell’atto. Agli occhi del pubblico, l’altro personaggio, quello del primo studioso moderno del sistema delle caste, non è più così visibile. Molti antropologi di casta moderni scartano la sua comprensione della casta. Fu quella comprensione, sfidando la nozione di sacralità nell’induismo, che lo portò a mobilitare un gruppo per prendere l’acqua da una vasca sacra.
L’India occidentale era il centro del movimento. Nel sud dell’India, il movimento non bramino nella politica provinciale aveva assunto la causa con meno pubblicità. Nel nord dell’India, la differenza di casta comportava regole di condivisione, ma lì l’acqua non era una risorsa così scarsa. I conflitti sono emersi quando i riformatori religiosi hanno sfidato queste regole. Le legislature provinciali e statali principesche hanno seguito gli incidenti e le sentenze dei tribunali e hanno cercato di tenere il passo. Lo stato principesco di Baroda ha approvato una legge che priva i fondi del governo di qualsiasi organizzazione che pratica la discriminazione di casta.
Anche se erano in ritirata in aula e sul palcoscenico politico, il contraccolpo degli indù di casta superiore è stato feroce nel villaggio.
Ci sono state molte segnalazioni in cui alcuni hanno picchiato altri che avevano forzato l’ingresso in un carro armato pubblico. Gandhi si occupò di molti di questi casi dal Gujarat costiero. In tutta l’India britannica, pochi ufficiali distrettuali gestivano un’enorme terra e una numerosa popolazione. Gli ufficiali capirono che anche se la legge stava iniziando a schierarsi dalla parte delle caste depresse, un ordine dall’alto verso il basso non avrebbe funzionato bene come i negoziati perché le caste depresse erano esse stesse divise e praticavano la discriminazione idrica l’una contro l’altra.
Mentre il movimento Mahad e molti altri simili fallirono momentaneamente, la pressione si accrebbe sui governi provinciali affinché agissero. Il governo di Bombay era a corto di liquidità, ma ordinò che gli acquedotti o i pozzi costruiti dai consigli distrettuali e locali non ricevessero sovvenzioni “se non a condizione che il pozzo o altro lavoro … [sarebbero] disponibili per l’uso di tutte le caste e le classi allo stesso modo. Gli annunci hanno avuto un impatto limitato. Pochi anni dopo il movimento Mahad, in un rapporto sulle caste oppresse del Maharashtra, il sociologo MG Bhagat osservava: “Non ho trovato da nessuna parte un pozzo comune usato dai toccabili [sic] e dagli intoccabili, anche se di tanto in tanto il Il governo avrebbe potuto emettere ordini, che tutti i pozzi pubblici dovrebbero essere aperti a tutti.
Law era un amico, ma inaffidabile. I movimenti della campagna hanno promosso la rimozione dell’accesso ai beni pubblici basato sulle caste e la legge ha aiutato. Non sempre, però. Con corpi idrici in cui le comunità potrebbero rivendicare un diritto storico d’uso, la legge ne escluderebbe altri. Nel 1933, nei sobborghi settentrionali in via di sviluppo di Bombay, la campagna delle caste depresse per accedere a un pozzo utilizzato dai cristiani e dai loro dipendenti indù portò a una battaglia aperta. Il prete cattolico di Vile Parle si schierò dalla parte delle caste depresse. Così ha fatto il magistrato. La questione legale era complicata perché esistevano documenti che dimostravano che il pozzo era stato inizialmente di proprietà privata. Il comune ha reso l’acqua convogliata più accessibile (a pagamento) a coloro che si battono per l’accesso, ei membri hanno proposto la costruzione di un pozzo separato nell’area.
Cosa ha ottenuto, allora, la campagna?
Tra le due sentenze — 1914 su Mochi e 1931 su Mahad — la giurisprudenza aveva stabilito un principio importante: una fonte appartenente a un ente pubblico (nel caso del 1914 un tempio) era un bene pubblico. Insieme, questi incidenti sono riusciti a trasformare la lotta per l’uguaglianza in una questione politica. Con una legislatura eletta che ha assunto i governi provinciali nel periodo tra le due guerre, l’uguaglianza idrica non poteva più essere ignorata. “Gli eventi del 1927”, scrivelo storico Anupama Rao su Mahad, “ha segnato una svolta significativa nella politica dei Dalit e ha inaugurato forme associative regionali incentrate sulle città”. Secondo Rao era iniziata la trasformazione dell’intoccabile in un dalit (letteralmente “oppresso”), un soggetto politico. L’anno dopo la sentenza Mahad, si formò la All India Anti-intoccabilità League di Gandhi. La figura di Ambedkar ha iniziato a profilarsi in ogni discussione sull’uguaglianza, non da ultimo a causa della riserva di casta dei seggi elettorali che aveva contribuito a raggiungere nonostante l’opposizione di Gandhi.
Sull’acqua, cosa ha ottenuto il movimento? La campagna aveva avuto successo nelle città, sporadicamente nelle campagne. Nel novembre 1932, i partecipanti a un seminario sull’uguaglianza tenutosi a Bombay osservarono che “c’era stato un notevole cambiamento nello spirito della gente… nelle città” ma non ancora nelle campagne, dove “la paura e… l’oppressione” prevalevano ancora. La radice della differenza era che l’acqua era più facilmente disponibile nelle città e l’acqua convogliata aveva ridotto il predominio dei diritti privati. Nelle campagne, invece, l’acqua scarseggiava e l’avanzamento dei lavori pubblici non bastava a porre fine al predominio dei diritti privati.
Infine, la campagna ha dimostrato di dover utilizzare una serie di armi: legge, media, istituzioni pubbliche e spazio urbano. Le città, dove si trovava l’asse politico del movimento, erano uno spazio più inclusivo perché lì c’era più acqua e più presenza mediatica. La città era anche meglio servita da impianti che erogavano acqua in massa. Durante la stagione calda nella città di Bombay, “i carri dell’acqua [andavano] per la città distribuendo scarse provviste qua e là”. Tuttavia, l’acqua venduta non soddisfaceva i bisogni delle persone di casta superiore della città. La loro opzione preferita era ancora quella di possedere un pozzo se potevano finanziarlo.
Le condizioni non erano diverse a Madras, anzi ovunque l’acqua dipendeva ancora da fonti comuni. Un sondaggio degli anni ’20 riportava che l’intoccabilità era praticata nelle sue forme più brutali e degradanti in città. La maggior parte delle persone appartenenti alle caste depresse “non aveva accesso a pozzi pubblici, stagni di acqua potabile, scuole”, ha riferito un funzionario speciale incaricato di concedere piazzole in un distretto. Questi beni pubblici creati con denaro pubblico dovevano essere aperti a tutti. “Ma come il governo ha recentemente ammesso nel Consiglio legislativo, c’è una discriminazione molto severa anche nelle istituzioni pubbliche”.
Eppure, l’accesso alle opportunità è migliorato complessivamente nelle città. Le città stavano diventando uno spazio più inclusivo per le caste depresse perché c’era un comune finanziato con denaro pubblico. Si potrebbe comprare l’acqua dal rubinetto, mobilitare molte persone, fare campagne per l’accesso in altri modi e ottenere aiuto da istituzioni come la chiesa o organizzazioni politiche. Nelle piccole città, l’amministrazione locale ha lavorato sul principio che il comune dovrebbe prendere provvedimenti per la protezione di tutti i serbatoi e pozzi pubblici e fornire un approvvigionamento idrico separato per le persone di casta bassa. Le barriere, tuttavia, potrebbero essere indebolite. Nelle grandi stazioni ferroviarie era impossibile mantenere la casta e il rango in tali raduni di estranei. Inoltre, le ferrovie impiegavano un numero considerevole di persone di casta depressa.
Nella misura in cui queste condizioni erano assenti nel villaggio, l’accesso all’acqua vi rimase disuguale per molto più tempo e la campagna per l’accesso incontrò una reazione così violenta da “pregiudicare gravemente i diritti esistenti delle classi depresse”.
Dopo l’indipendenza dal dominio britannico nel 1947, lo stato democratico ha deciso di fare la differenza. Uno dei primi atti fu la creazione di una commissione parlamentare sull’intoccabilità. Il suo rapporto, che ha portato all’Untouchability (Offences) Act del 1955, menzionava ripetutamente l’acqua, raccomandando che il divieto di accesso per motivi religiosi fosse un reato penale.
In molte province in cui l’aridità periodica e la disuguaglianza basata sulle caste erano di grave entità, i governi statali hanno speso una parte del loro budget per lo sviluppo rurale e comunitario nella costruzione di pozzi per le persone di casta inferiore. Dopo una massiccia svolta verso le infrastrutture rurali negli anni ’70, l’acqua convogliata è stata estesa alle campagne. I politici delle province di Bombay e Madras hanno sottolineato il libero accesso all’acqua.
La strategia ha funzionato, fino a un certo punto. La segregazione dei pozzi non era ideale. Avrebbe “perpetuato l’intoccabilità”, mentre l’ideale era “[abolirlo] il più rapidamente possibile”. La risposta giusta era persuadere tutte le caste ad accettare il diritto di tutti alle fonti comuni. Né gli ufficiali né i politici avevano i mezzi per attuare rapidamente un simile cambiamento. Pertanto, la discriminazione è continuata anche quando gli investimenti si sono riversati nell’approvvigionamento idrico.
Nella provincia di Madras, il miglioramento dell’accesso delle caste depresse che vivono nei villaggi è toccato a diversi dipartimenti (irrigazione, lavori pubblici, sollevamento di Harijan ) che non hanno lavorato in modo coordinato. Ovunque ci fosse un continuo affidamento su fonti comuni, c’era una continua discriminazione. Nel 1947, ben oltre la metà dei comuni della provincia di Madras disponeva di un sistema di approvvigionamento idrico “protetto” gestito dall’autorità cittadina. “La posizione riguardo all’approvvigionamento idrico e ai servizi igienico-sanitari rurali è molto patetica”, riporta un sondaggio. “L’abitante del villaggio ei suoi bisogni essenziali sono stati gravemente trascurati; l’acqua potabile sicura è stata una rarità per lui. Gli Harijan e i loro cheries [baraccopoli] sono quelli che soffrono di più in questo senso”.
Un quarto di secolo dopo l’inizio di un programma di sviluppo comunitario a livello nazionale, la maggior parte dei villaggi disponeva di pozzi ad uso delle caste depresse. In molti c’era un pozzo, e in nessuno le caste depresse avevano pari accesso al pozzo abitualmente utilizzato dalle caste superiori, anche se, in condizioni di grande scarsità, le caste superiori attingevano l’acqua da quelle usate dalle altre. Un sondaggio degli anni ’70 ha rilevato che più della metà della popolazione delle caste inferiori nelle aree rurali dello stato del Karnataka non poteva utilizzare il pozzo pubblico o il serbatoio. La proporzione era molto inferiore, al 15%, nelle aree urbane.
Livelli simili di discriminazione sono stati segnalati da altri stati fino agli anni ’90 . Nel primo decennio del 21° secolo, uno studio ha rilevato che le donne delle famiglie delle caste oppresse trascorrevano tre ore al giorno a raccogliere l’acqua per la famiglia. Un sondaggio degli anni ’90 ha rilevato che mentre il sentimento di casta è diminuito nella maggior parte degli ambiti della vita, la scarsità d’acqua lo ha aggravato. “L’intoccabilità non si sperimenta in tempi normali, ma quando l’acqua scarseggia, [le caste oppresse] incontrano difficoltà e discriminazioni nel prendere l’acqua dalle località delle caste alte”. Con l’intensificarsi della competizione per l’acqua, si sono verificati spesso tentativi di escludere gli altri, così come la resistenza e il contraccolpo contro tali mosse. “In particolare negli ultimi trent’anni”, un libro del 2017dice: “Le affermazioni dei Dalit sull’acqua sono aumentate”. La discriminazione non è scomparsa.
Ma il movimento ha ottenuto qualcosa di duraturo e significativo. Ha ucciso la regola morale della purezza. I tempi attuali sono diversi dal mondo che Ambedkar voleva cambiare. Alla fine del XX secolo, l’applicazione della purezza rituale si era ristretta a campi come l’accesso ai templi e non funzionava più in acqua.
La maggior parte degli scritti sui movimenti politici Dalit tocca incidentalmente la campagna per l’accesso all’acqua, come una delle tante questioni per le quali il movimento ha combattuto. Sbaglieremmo a pensare che la battaglia per la parità dei diritti sull’acqua fosse una campagna per la parità dei diritti in senso generico. Era una lotta per l’acqua. La battaglia ha trovato un significato in un ambiente specifico. Non è un caso che alcune delle aree più aride del Deccan, con una recente esperienza di carestia, abbiano visto emergere il movimento politico più influente contro l’induismo ortodosso. Un mondo naturale che esponeva molti alla minaccia della carestia idrica era il terreno fertile per lo sviluppo di tale lotta. Allo stesso tempo, nelle due città vicine alla regione, Bombay e Pune, i diritti sono stati dibattuti e discussi, contestati in aula, e la tradizione sostenuta e messa in discussione. Indipendentemente dal fatto che la casta e l’intoccabilità fossero creazioni coloniali o meno, i mezzi per combattere queste forze erano creazioni coloniali. Questi erano i tribunali, i mass media, la stampa inglese e il legislatore.
Cosa ha ottenuto il movimento per la parità di accesso all’acqua? Non ha raggiunto ovunque una reale uguaglianza nell’accesso all’acqua, come suggeriscono gli studi citati. C’era resistenza di casta superiore. Le autorità statali hanno evitato di affrontare la resistenza frontalmente. Non c’era la nazionalizzazione delle fonti d’acqua e dei pozzi. La lotta per l’uguaglianza nell’accesso all’acqua, quindi, è stata lunga. Ciò che il movimento ha ottenuto è stato distruggere il motivo religioso della discriminazione. Le armi nella battaglia erano molte, dall’integrazione del movimento delle caste depresse nella politica tradizionale, all’uso della stampa per condurre campagne, alla rivendicazione che l’acqua fosse un bene pubblico.
Tirthankar Roy è professore di storia economica alla London School of Economics and Political Science. È autore di diversi libri, tra cui ” Monsoon Economies “, da cui è tratto questo articolo.
FONTE: https://thereader.mitpress.mit.edu/annihilation-of-caste-and-the-struggle-for-water-equality/
Quali società sono i maggiori produttori di armi al mondo?
Per la prima volta in oltre 30 anni, e con una presentazione riservata, gli Stati Uniti hanno presentato venerdì un nuovo bombardiere strategico del XXI secolo. Il B-21 Raider a capacità nucleare dovrebbe entrare in servizio nel 2027 ed è considerato una parte importante della risposta degli Stati Uniti alla crescita militare della Cina. È stato anche rivelato il costo stimato: Il produttore dell’aereo, Northrop Grumman, può contare su 700 milioni di dollari per velivolo.
Anche molte altre aziende trarranno profitto dal progetto: l’azienda produttrice di armi ha dichiarato che 400 fornitori sono coinvolti nel progetto. Uno di questi è Raytheon Technologies, la cui filiale Pratt & Whitney produrrà i motori per il nuovo jet stealth.
Sia Northrop Grunman che Raytheon figurano nella classifica delle maggiori aziende produttrici di armi al mondo. Nonostante un calo del 6% nelle vendite di armi per Northrop Grunman, l’azienda di tecnologia aerospaziale e di difesa ha generato 30 miliardi di dollari nel 2021, diventando così la quarta più grande al mondo in questo senso. Le vendite di armi di Raytheon sono cresciute del nove per cento, raggiungendo i 42 miliardi di dollari, dietro solo a Lockheed Martin con 60 miliardi di dollari.
Anche due aziende cinesi sono presenti nella classifica: entrambe hanno registrato una forte crescita nel 2021 e lo scorso anno Norinco e AVIC hanno totalizzato vendite di armi per oltre 40 miliardi di dollari. Notiamo che non è presente nessuna società della UE, l’ennesimo fallimento, perfino in questo settore, delle politiche industriali europee.
Secondo la fonte, l’Istituto Internazionale di Ricerca sulla Pace di Stoccolma (SIPRI), le vendite di armi delle 100 maggiori aziende produttrici di armi al mondo sono cresciute dell’1,9%, raggiungendo i 592 miliardi di dollari nel 2021, nonostante i problemi della catena di approvvigionamento.
FONTE: https://scenarieconomici.it/quali-societa-sono-i-maggiori-produttori-di-armi-al-mondo/
FINANZA BANCHE ASSICURAZIONI
FAVORISCONO LE TRUFFE DELLE CRIPTOVALUTE PIUTTOSTO CHE L’USO DEL CONTANTE
Tutti gli stati occidentali vengono spinti dai poteri bancari a non dare ascolto ai cittadini. Questi ultimi vorrebbero la moneta rimanesse contante e senza limiti nell’uso, invece la politica bancaria (soprattutto europea) spinge perché la moneta elettronica in euro soppianti totalmente la cartamoneta. Così i potenti della Terra si riuniscono e, tra i tanti discorsi, prendono anche quello sull’opportunità d’abolire la moneta contante e di conio, per sostituirla con valute elettroniche e virtuali, intangibili, gestite dal sistema bancario, utili a privare il cittadino risparmiatore del suo libero arbitrio economico.
Di fatto la Bce vorrebbe imitare la Libra di Facebook (moneta evanescente e virtuale). Sembra che i gestori della politica bancaria siano più preoccupati dall’uso che i cittadini fanno dei loro risparmi, piuttosto che dalle mirabolanti truffe che quotidianamente si consumano grazie a criptovalute ed hacker che intercettano transazioni online.
Novembre 2022 verrà ricordato per l’improvviso fallimento di FTX, la società di moneta elettronica virtuale e di criptovalute che ha lasciato a secco milioni d’investitori, generando disoccupazione immediata per qualche migliaio di giovani informatici assunti con le metodiche dei deliveroo. Oggi hanno le tasche vuote coloro che avevano comprato la moneta elettronica generata dal fondo piattaforma FTX. Gli edifici (grattacieli) occupati dalla società sono stati svuotati alla velocità d’un malefico sortilegio. Ed ancora poco si sa di questo buco finanziario.
L’exchange di criptovalute FTX aveva sede nelle Bahamas: la popolazione del piccolo Stato insulare vedeva quotidianamente sfilare davanti ai propri occhi sorridenti ed eleganti manager della finanza. Quasi le Bahamas fossero assurte a nuova city. Secondo un report del Wall Street Journal, le Bahamas avevano incoraggiato le società crypto a trasferire il proprio quartier generale nel Paese, anche varando un quadro normativo molto favorevole. Ovviamente gli investitori erano tutto europei e statunitensi. L’economia delle Bahamas era stata danneggiata nel 2019 dall’uragano Dorian nel 2019 e poi dalla pandemia nel 2020: il prodotto interno lordo insulare si basava sul turismo e sulle banche off-shore. Il Primo Ministro Philip Davis ha così aperto la porta ai manager delle criptovalute: presentata dai giovani speculatori occidentali come la tecnologia che risolleva l’economia. Oggi FTX è fallito, anzi scomparso nel nulla. In tutto l’Occidente sono rimasti gabbati milioni di risparmiatori. Mentre la popolazione locale delle Bahamas ha visto venir meno la principale fonte di reddito: FTX spendeva oltre 100.000 dollari a settimana per il catering, poi aveva istituito un servizio navetta privato per trasportare i dipendenti in tutta l’isola. Cittadini delle Bahamas erano stati assunti per svolgere compiti come logistica, pianificazione di eventi e conformità normativa.
I fondi FTX e SBF avevano anche investito milioni degli investitori in lussuose proprietà alle Bahamas. Si apprende da fonti di Wall Street che “lo scorso18 ottobre, l’autorità di regolamentazione delle Bahamas ha ordinato il trasferimento degli asset digitali di FTX a un wallet di proprietà statale per la custodia… Il 13 novembre scorso, la Royal Bahamas Police Force ha avviato un’indagine su FTX, per stabilire se l’exchange abbia o meno condotto truffe ed attività criminali”.
MEGLIO IL GRUZZOLO SOTTO IL MATTONE
Si può ancora insistere nello spingere gli stati ad abbandonare la moneta tradizionale? E cosa succederebbe se con un clic sparissero tutto gli investimenti? Quale potere internazionale ha agevolato FTX? La Bahamas fanno parte del Commonwealth, ed ogni operazione finanziaria che si svolge in quelle isole dei Caraibi viene monitorata dalla Banca Mondiale.
Qualcuno obietterà che la moneta elettronica emessa dalla Bce è molto più sicura di una criptovaluta. Resta il fatto che la pubblica amministrazione di tutta l’Ue viene pagata con moneta elettronica creata da una cabina di compensazione presso la Bce: questo per evitare che i ligi impiegati possano rimanere appesi ai mancati introiti fiscali degli stati. Infatti prima la pandemia e poi la guerra hanno ridotto al lumicino la base imponibile, e la chiusura delle attività avrebbe dovuto mettere il sale sulla coda del pubblico impiego: invece tutto scorre tranquillo, per i dipendenti pubblici corre la moneta elettronica, mentre il resto dei cittadini deve arrangiarsi. Così, per marcare meglio le differenze, la Bce ha pensato bene d’affiancare l’euro elettronico (virtuale) a quello vero.
“Dovremmo essere preparati all’emissione di un euro digitale qualora ce ne fosse bisogno”, aveva dichiarato più d’un anno fa la presidente Bce Christine Lagarde. Subito le aveva fatto eco Fabio Panetta (italiano membro del comitato esecutivo della Bce): “dobbiamo assicurarci che la nostra moneta sia preparata al futuro. L’inazione non è un’opzione”. E’ evidente che da 2020 stiano accelerando, cercando d’indorare la pillola amara. L’obiettivo è chiaramente ritirare entro un quinquennio tutto il cartaceo e sostituirlo con valuta digitale, virtuale, evanescente, totalmente in balia dei pochi che controllano e regolano il credito a livello planetario.
La Bce (Banca centrale europea) sarebbe già pronta al lancio dell’euro digitale, ma per svariati motivi (tra cui il momento politicamente più opportuno) l’affiancamento alla carta moneta era stato fissato dopo giugno 2021 (siamo a fine 2022 e la storia non è ancora chiara). Attualmente sarebbe in corso una sorta di sperimentazione, coperta dal più plumbeo riserbo: perché la banca centrale d’emissione più che dai mercati deve tutelarsi dai risparmiatori, vero ostacolo alle politiche di virtualizzazione.
Oggi moltissima gente effettua pagamenti elettronici, ma in troppi si domandano se la moneta elettronica possa essere integrativa e sostituire una parte di cartacea (che verrebbe ritirata dalla circolazione). Ma se dell’effettiva esistenza della moneta cartacea risponde da sempre il sistema bancario (autorizzato ovviamente) che da lungo tempo controlla anche carte di credito e bancomat, al pari di assegni, pagherò e travel check, va detto che oggi molti pagamenti elettronici avvengono con piattaforme prive d’autorizzazione bancaria (e garanzie): è il caso di Facebook o di WeChat, che fanno comunque perno sui depositi bancari. Di fatto la tecnologia potrebbe portare qualche danno agli equilibri, e all’architettura, del sistema monetario.
MAGIE BANCARIE
Nel momento in cui la banca centrale rimpiazza il vecchio contante con una moneta elettronica, di fatto fa sparire le passività delle banche, trasformando gli operatori di credito in una sorta di banda d’alchimisti, in grado di fabbricare un controvalore alle merci. Queste ultime fino ad oggi si sono spostate attraverso transizioni garantite da depositi non certo virtuali. Questo nuovo mondo potrebbe far paura a troppi, e non è detto che permetta d’abolire il signoraggio: infatti a coniare la moneta elettronica saranno comunque i signori (quelli delle banche) ed i cittadini dovranno comunque passare sotto le forche caudine delle piattaforme di banche e social network. Infatti sono i grandi privati che si stanno contendendo la piazza delle monete elettroniche: la Bce è privata (partecipata dalle banche) quanto la Federal reserve e Facebook (che ha coniato la criptovaluta Libra). Nel momento in cui Facebook, Google, Amazon e altri giganti della tecnologia coniano cripto valute, ben consci di fatturare molto più del Pil di tanti Paesi avanzati, si crea di fatto una cessione di sovranità monetaria a strutture multinazionali in grado di condizionale le stesse banche centrali (Bce, Fed…).
Questa trovata dell’euro digitale rischia di affidare sempre più le sorti economiche europee ai cosiddetti frugali (Svezia, Norvegia, Olanda, Danimarca, Belgio, Lussemburgo e Germania). Non è un caso che la sperimentazione di digitalizzazione della moneta sia partita massicciamente da parte della Riksbank svedese, che di fatto ha il controllo totale di ogni uscita dei cittadini scandinavi. Il sistema sperimentato in Svezia è del tutto simile a quello della People’s Bank of China: i socialismi reali si somigliano. Mentre la Swiss National Bank garantisce ampia diffusione di moneta elettronica senza alterare la circolazione del franco svizzero. Ma dopo il fallimento di FTX la sfida lanciata da bitcoin e altre criptovalute è ancora attuale o la Bce si sta infilando in un tunnel alpino senza via d’uscita?
LE CRIPTOVALUTE FALLISCONO IN SILENZIO
Intanto più di mille cripto valute hanno già fatto fallimento. E la Libra di Facebook, che ha promesso un nuovo sistema globale dei pagamenti (poggiato su una “stablecoin” garantita da attivi denominati in valute nazionali), è attenzionata negli Usa per “alto rischio di riciclaggio” e “finanziamento del crimine”. Le associazioni di tutela dei consumatori hanno già denunciato la Libra per molti aspetti d’instabilità finanziaria. Così il proliferare di piattaforme (shadow banking, transazioni elettroniche…) rischia di rendere inerme e vulnerabile il consumatore come il risparmiatore. I soloni della Bce hanno sentenziato che, lo yuan digitale cinese andrà fronteggiato con l’euro virtuale: peccato che quotidianamente partano per la Cina valige di dollari ed euro cartacei. Ma la Bce reputa che l’euro digitale permetta all’Ue d’avere il controllo sull’offerta di moneta (insieme ai tassi d’interesse è strumento principale di politica monetaria): in molti sostengono il contrario, ovvero che il Vecchio Continente non dovrebbe abbandonare la via maestra, tornando a una solida carta moneta (di cui è certa l’emissione) ed a valide produzioni esportabili.
Del resto Gavin Brown (Docente senior di finanza alla Manchester Metropolitan University) ha dimostrato in una nutrita ricerca che sono migliaia le criptovalute lanciate e poi svanite nel nulla: gli investitori più scaltri le hanno scaricate. “Gli Stablecoin sono criptovalute progettate per evitare la volatilità selvaggia di cugini quali Bitcoin – spiega Gavin Brown -, essendo ancorate o sostenute da attività come valute tradizionali o metalli preziosi. Sono progettati per incoraggiare le persone ad usare la criptovaluta per gli acquisti e le vendite di tutti i giorni, offrendo allo stesso tempo una stabile riserva di valore per gli operatori sui molti scambi di criptovalute che non si occupano di valute tradizionali”. Per farla breve, si tratta di monete dall’uso limitato e rigorosamente ancorate a riserve di preziosi. Il rischio è che una moneta elettronica di massa possa sfuggire al controllo di chi dovrebbe tutelare il comune cittadino: insomma virtualizzare la moneta porterebbe a volatilizzare molti sacrifici. Non dimentichiamo che l’hackeraggio delle monete elettroniche sta rendendo ricchissimi i giovani cyber rapinatori. Comunque il fallimento di FTX pare non faccia notizia, e così la stampa occidentale ha evitato di parlare dei milioni di cittadini truffati dall’investimento in criptovalute. Sorge il dubbio che dietro questi fallimenti ci sia lo zampino del “sistema”, che utilizza e forma i nuovi genietti per Wall Street.
FONTE: https://www.lapekoranera.it/2022/11/26/favoriscono-le-truffe-delle-criptovalute-piuttosto-che-luso-del-contante/
GIUSTIZIA E NORME
Parere vaccinale della Consulta
Lisa Stanton 20 11 2022
La scorsa notte l’Italia si è mobilitata unita, aderendo al Cammino per la Costituzione. Grazie agli organizzatori per la passione e l’impegno profuso in difesa dei diritti umani, le libertà e i diritti intangibili dell’uomo non sono concessioni di Stato!
La veglia nelle città italiane voleva sensibilizzare la Consulta, che oggi decide sull’obbligo vaccinale.
Per molti costituzionalisti: “una sentenza della Corte non è il giudizio divino” nel senso che il giudizio sull’operato del governo nell’emergenza è “inevitabilmente lieve e si limita a giudicare la plausibilità della misura rispetto all’effetto perseguito.”
Invece in ballo c’è il lavoro, il diritto alla retribuzione ed alla salute, l’accesso ai luoghi pubblici e molto altro.
Una sentenza della Consulta ex sè può essere sempre minimizzata (pur costituendo comunque un precedente), ma un intero filone interpretativo ultradecennale che esclude gerarchie tra i diritti costituzionali trasforma la Costituzione da precettiva a descrittiva.
Oggi i pilastri della Costituzione rischiano d’essere bilanciabili: eppure la libertà viene prima del diritto – che viene prima della scienza – perché si fonda sulla dignità umana. Essa deve avere un riconoscimento nella civiltà, se manca la libertà manca la civiltà. Invece molti “esperti” credono che i diritti siano concessioni dello Stato.
La normativa emergenziale degli ultimi due anni si colloca nel quadro della flessibilizzazione di ogni principio costituzionale (mediante il noto “bilanciamento” ex post), ma il punto veramente centrale è la privazione del lavoro e della retribuzione comminata come sanzione. E senza ammettere che esista un obbligo di vaccinazione.
Se la Corte dichiarerà legittime queste misure, significherà che anche gli artt. 1, 2, 3 e 4, fondamento della nostra Costituzione, non saranno più considerati intangibili da parte dello Stato ma comprimibili.
Oggi è in gioco lo Stato di diritto, perchè tali articoli fondamentali non sono “disponibili” da parte di Governo-Parlamento. Ciò che contraddistingue la Costituzione rigida sono proprio tali principi, quindi oggi è in gioco lo Stato di diritto COSTITUZIONALE: se saranno resi comprimibili e bilanciabili dall’interprete gli artt.1 e 4, muterà la forma di Stato.
Spero che comprendiate come la decisione sull’obbligo vaccinale segnerà il nostro destino: ESSI sono stati chiari da subito e l’hanno mostrato in tutti i modi, da ultimo disertando il PoliCovid22, il grande evento di Torino che voleva far conoscere le risultanze scientifiche, frutto di confronto, per il bene di tutti.
Vi faccio una confessione: è più facile che un cammello entri nella cruna di un ago che la Consulta dichiari anticostituzionale l’obbligo.
Crollerebbe tutta la degli ultimi 2 anni e 1/2
FONTE: https://www.facebook.com/lisa.stanton111/posts/pfbid022HYJdsksRZdG3PmDQtZbqd1ifJmevSunWjEH8i8dLMQSJvrnJXitw6NXZcw4jNvBl
LAVORO PENSIONI DIRITTI SOCIALI
Salari a picco, sfruttamento alle stelle
Anna Lombroso per il Simplicissimus
Abbiamo sbagliato titolo per anni: non è vero che in trent’anni i salari non solo non sono mai aumentati, al contrario sono diminuiti quasi del 3%. L’inflazione a ottobre era all’11,8%, come nel 1984, ma questa è una lettura teorica: per il mondo del lavoro, delle pensioni della precarietà, e della disoccupazione, e l’inflazione reale è ancora più alta poiché si abbatte su consumi essenziali irrinunciabili e non potrà essere recuperata dalla contrattazione sindacale.g
Eppure mai come di questi tempi si registra un universale rifiuto del salario minimo, da sempre oggetto di contestazione bipartisan. Non bastavano i laureandi di Bocconi e Luiss incaricati di redigere accurate analisi sulla pressione esercitata da questa misura sul bilancio dello stato e delle imprese, intenti a copiare le esercitazioni di studenti inglesi e statunitensi che nel quantificarla ricorrevano a pregevoli costruzioni letterarie nelle quali per appagare gli appetiti dei padri si riducevano i ragazzini da sfruttare a contemporanei Oliver Twist o alla creazione di nuovi eserciti di barboni, se un provvedimento che aumenti di un dollaro l’ora il salario minimo causerebbe mediamente la perdita di 66.614 posti di lavoro.
Superfluo ricordare il tradimento (leggetevi Cofferati che torna sull’opportunità di multe, sanzioni, repressione) dei sindacati da anni impegnati a farci digerire resa, umiliazione, penitenza e sacrifici per mantenersi un miserabile bacino di utenza che deve accontentarsi del male minore, dando vita alla strenua lotta contro il sindacato di base, denigrando le formazioni autoconvocate di precari, accorgendosi che esistono altri mestieri e altri sfruttamenti quando ormai la bolla è scoppiata e migliaia di individui vivono senza tutela, senza referenti e senza riconoscimento.
Più o meno sono gli stessi che si accanivano contro il reddito e che da anni aspettano pazienti l’elargizione governativo ammortizzatori sociali promessi e mai realizzati. Il loro atteggiamento è quello delle case farmaceutiche, alimentare la malattia per allargare l’area della clientela, incrementare incertezza e instabilità per accreditarsi come soluzione.
Tanto per non sbagliare, come col reddito, si lascia intendere quindi che i costi di questa battaglia ricadano sull’intera società, costretta a ulteriori sacrifici per dare una modesta garanzie di sicurezza ai sommersi.
Oggi in Italia i contratti a tempo indeterminato costituiscono meno di un quinto delle nuove assunzioni: è infatti il contratto a termine la forma di occupazione dominante tanto che due posti su tre sono a tempo determinato, quasi 81 su 100. Non solo la domanda di lavoro da parte delle imprese private continua a essere largamente insufficiente per garantire un posto a chi è in cerca di lavoro, ma le “opportunità” sono totalmente prive dei requisiti di stabilità fondamentali liberarsi da condizionamenti e ricatti.
Il fatto è che il salario minimo resta un tabù a “sinistra”, non solo quella progressista riformista che fa da zoccolo duro alla conversione al neoliberismo. È invece un segnale inequivocabile del processo in c orso dagli esordi del Novecento, e consiste nella distruzione della classe lavoratrice come organismo collettivo vivo, nella demolizione chirurgica delle sue strutture di riferimento, identità unificanti, linguaggi e pratiche cje assicuravano riconoscimento reciproco e solidarietà, garantite da organizzazioni politiche e sociali che ne rappresentavano gli interessi. Si è prodotta così la crisi del “contratto”, del patto sociale, delle norme che regolano la società, che promuovono consenso o dissenso attivo tra le sue parte, i cittadini e le istituzioni.
Alla difficoltà di ricomporre con gli strumenti negoziali un mondo del lavoro mai come oggi frammentato, non rilevare come una parte sempre più ampia di società vive fuori dall’arena del contratto collettivo, ha spinto economisti in odor di neo liberismo a cominciare da Boeri, a sostenere la necessità di un salario minimo per legge, unicamente però allo scopo di offrire alle aziende un indicatore per controllare la dinamica salariale, fino a spingersi a proporre di trasformare il valore dei vaucher in minimo salariale, ipotesi già nel 2017 condivisa dal Pd unanimemente con Confindustria.
Adesso spetta a noi, basta un po’ di coraggio: sarebbe sufficiente partire da una soglia minima tabellare stabilita a 10 euro l’ora, cui aggiungere contributi ferie, tredicesima, malattie, in modo da arrestare il processo di sfruttamento garantendo una soglia di dignità e arrestando il meccanismo schiaccia nello sconforto, nell’incertezza e nell’umiliazione milioni di persone.
FONTE: https://ilsimplicissimus2.com/2022/12/04/salari-a-picco-sfruttamento-alle-stelle/
PANORAMA INTERNAZIONALE
Hillary Clinton minaccia Elon Musk: “Ti sei suicidato”
POLITICA
SELVAGGIA LUCARELLI LINCIA GLI ARTIGIANI PERCHE’ HANNO VOTATO MELONI
Una pasticceria di Bressanone, evidentemente oberata da costi, regole, norme Ue e balzelli, ha esposto un cartello con su scritto “Fino a 60 euro non prendiamo bancomat”. La cosa non è andata giù al giudice più giudice di tutti , al secolo Selvaggia Lucarelli, che sul suo profilo Instagram ha commentato “Pasticceria a Bressanone. Con Giorgia Meloni sempre più verso il futuro . E oltre!”.
Tralasciamo i pro e i contro di chi ha aggiunto “non entrerò mai in quella pasticceria” o “sappiamo dove non entrare”, probabilmente gente che usa dare ragione alla Selvaggia per entrare nelle sue grazie, reputando la sua “amicizia” possa rivelarsi approdo per chissà quali mete sociali. Invece inquadriamo il problema. Ovvero che quotidianamente tutti gli artigiani italiani da decenni subiscono le angherie di una pubblica amministrazione canaglia, che li obbliga ad aggiornare macchinari e strutture alle più insensate norme europee, che li vessa di tasse, tributi e contravvenzioni non appena osano ampliare un bancone o allargare una finestrella. Artigiani, commercianti e liberi professionisti per più dell’80% indebitati con quel sistema bancario che ha fatto imporre per via governativa l’uso di bancomat e carte di credito, bonifici e tracciabilità totale di ogni movimento. Ricordiamolo, si tratta degli italiani che lavorano per davvero, che tutte le mattine si destano all’alba e rincasano a notte fonda con le preoccupazioni come unica compagnia dei loro sonni, il più delle volte incubi a forma di Agenzia delle Entrate, banche, società di recupero crediti, ufficiali giudiziari, gendarmi sempre pronti a misurare banchi e sindacare perché ogni attrezzo rechi una targhetta Ue non contraffatta. E’ gente che lavora otto mesi l’anno per pagare le tasse, il resto per mutui e varie pendenze. Che vita è? Certamente non sono state loro offerte le opportunità che da anni sorridono a Selvaggia Lucarelli. Ma che ne sa quest’ultima di cosa significhi alzarsi alle quattro per aprire un bar, o non dormire proprio per fare un turno al forno. Che ne sa Selvaggia cosa significhi avere le mani spaccate dal freddo o dai solventi di chi fa il carrozziere o il meccanico. Per lei, che di mestiere vende giudizi e chiacchiere su giornali e tivù, l’artigiano è solo un evasore fiscale, un “quasi delinquente” (come ebbe a sottolineare molti anni fa un dirigente di Stato). Selvaggia Lucarelli giudica il proprio prossimo senza rivelare alcun cedimento compassionevole, questo fa di lei un fenomeno da baraccone degno d’un film di Tarantino. Opera la cattiveria verso i meno fortunati con la professionalità del killer. Poi fa davvero schifo il fatto che prenda tanti soldi dalla tivù di Stato e poi sputi veleno su contribuenti e gente comune: ovvero su artigiani e commercianti che probabilmente potrebbero aver votato Giorgia Meloni perché stufi delle angherie della sinistra che raccomanda le Selvagge di turno. Inquietanti presenze femminili queste Erinni televisive e politiche, tutte legate a Pd e dintorni, che quotidianamente linciano chi non è gradito al potere, al sistema. E’ evidente che, nel caso dell’aggressione alla pasticceria di Bressanone, la Lucarelli abbia pubblicamente linciato l’artigiano per ingraziarsi quella sinistra bancaria che vorrebbe l’abolizione totale del contante, soprattutto che esista solo una moneta unica elettronica mondiale gestita da Bill Gates e Federal Reserve. Ma che bel mondo auspica la Lucarelli: in pratica lo stesso sogno che accarezza la candidata segretaria del Pd Elly Schlein, che ha detto che lavorerà all’abolizione totale del contante e della proprietà privata. Del resto questa gente può ben permettersi di non accendere mutui e di non fare levatacce per portare il pane a casa, perché il sistema regala loro lauti compensi. In questo momento i tanti pasticceri staranno forse levando gli occhi al cielo e, come il mugnaio berlinese, sognando di rivolgersi all’imperatore con l’esclamazione di Brecht “esisterà pure un giudice a Berlino”. Perché in questa lontana regione dell’impero europeo vengono quotidianamente consumati soprusi contro la povera gente, e la televisione permette a personaggi strapagati di sproloquiare, di parlare di legalità e “povertà sostenibile”, di dare dell’evasore ai non dipendenti pubblici, di dire che dobbiamo seguire gli iter burocratici come nei desiderata del potere. E, tutti i giorni che ha fatto il Padreterno, dobbiamo sorbirci questi pipponi da pupe e pupi non hanno mai sgobbato nemmeno un minuto in vita loro, e che per grazia ricevuta sono stati messa nei programmi televisivi per fare la morale al popolo tutto. Ci siamo stufati di questa gente, e che siano selvaggi e pseudocivili poco c’importa. Sarebbe cosa buona e giusta che la Rai mettesse alla porta chi non rispetta i lavoratori, anche i più umili. Perché mentre la Selvaggia sarà stata di passo da Bressanone per divertimento e mercatini natalizi, invece quel pasticcere ci lavora. Quel pasticcere ha una partita iva e si danna l’anima per vendere leccornie. Ma tutto questo chi fa il giudice a Ballando con le stelle non potrebbe mai capirlo, e con lei tutti i benpensanti che si svegliano tardi e poi bivaccano parlando di agganci in Rai e politica nei bar romani, tra cappuccini, aperitivi, feste e cene. Cara Giorgia Meloni, liberaci di tutto questo basso impero.
FONTE: https://www.lapekoranera.it/2022/12/11/selvaggia-lucarelli-lincia-gli-artigiani-perche-hanno-votato-meloni/
SCIENZE TECNOLOGIE
Il potere ammaliante del digitale
Che la tecnologia porti con sé sempre una duplice natura, una evolutiva l’altra distruttiva, è fuori discussione. Essendo un’espressione creativa dell’essere umano (come l’artigianato) non può che conservare, ma soprattutto esplicitare, l’ambiguità che costituisce l’umano in quanto tale.
Oggi, però, questo nesso fra la doppiezza dell’animo umano e l’elusività della manifestazione tecnologica ha raggiunto un punto limite. Parlare di realtà aumentata, di controllo digitale, di hackerizzazione della mente, di pilotaggio delle coscienze o di shopping del consenso politico, tramite valutazioni algoritmiche legate ai gusti più o meno consci degli “uomini della folla” (McLuhan), non può diventare in automatico un discorso accettabile. Qualcosa di politicamente “neutrale” o necessariamente da assecondare.
Queste derive del pensiero tecnologico ci appaiono ormai evidentemente alienanti e, per l’appunto, sottolineano l’espressione di quel lato ombra (umano-tecnico) di cui parlavamo. Non c’è in questa considerazione un giudizio moralistico nei confronti del progresso tecnologico, ma c’è piuttosto la denuncia di una naturalizzazione del concetto stesso di “progresso” che sta via via combaciando con l’idea di post-umanesimo. Tutto questo nel silenzio generale di una classe politica stanca e di una claque culturale ignorante e fortemente mistificatoria. Di fatto, ciò che corrisponde al grande non detto è la sottomissione totale all’assunto secondo cui ogni dubbio verso questo tipo di applicazione digitale nella nostra vita quotidiana, dalla carta d’identità al menù del ristorante in QR code, equivale a un’ammissione di appartenenza diretta al gruppo dei luddisti accaniti.
“Il 5G non ha ancora superato la pubertà, eppure i ricercatori di tutto il mondo sono già impegnati nello sviluppo del 6G” – si legge sulla rivista Wired[1], non certo accusabile di avere un approccio rétro. “Oggi il 5G consente funzioni di base, ma il 6G promette una rappresentazione digitale di ogni essere umano, oggetto e ambiente capace di gestire ed elaborare i dati sia individualmente sia collettivamente”. Ora è chiaro qual è il progetto per il nostro futuro prossimo? E quali saranno le ripercussioni nel campo della gestione politica, economica e militare della trasformazione digitale? Inoltre, se tutto diventa mera “rappresentazione”, chi conoscerà l’esperienza di una vita autentica?
Qualche assaggio l’abbiamo avuto in questi ultimi anni, attraverso l’utilizzo di strumenti digitali atti a controllare e a isolare categorie generiche di persone (mai del tutto precisate) ree di aver fatto valere l’antico principio dell’habeas corpus dell’inviolabilità personale. È bastata un’etichetta, una propaganda falsamente scientifica e, purtroppo, molto consenso popolare per far entrare nella vita di tutti i giorni un sistema “prototipo” di manipolazione e robotizzazione della relazionalità sociale. Così l’umano è passato immediatamente in secondo piano, soppiantato da una spunta verde su un monitor luminoso. Ma non è solo questo. È in corso un’accelerazione vertiginosa che nel giro di pochi anni potrebbe rovesciare qualsiasi tipo di rapporto democratico.
Se nessuno prenderà in mano sul serio la questione del potere ammaliante del digitale, facendolo diventare un tema centrale sia culturale che politico, una volta che si sdoganerà il cosiddetto “internet dei sensi”, stabilire ciò che è lecito fare in un mondo invece che nell’altro sarà pressoché impossibile. Nessuno strumento giuridico – già adesso – è in grado di arginare il rischio di una dissociazione politica fra ciò che è giusto, vero, autentico, concreto, lecito e legale. Per questo serve, anche in materia di diritto, un’enorme salto di qualità da parte degli studiosi in giurisprudenza. Un salto di tipo riflessivo tecnico e – al contempo – psichico e antropologico. (Magari può essere d’aiuto studiare più approfonditamente tutte quelle filosofie distopiche e transumaniste che spesso vengono ridotte a basso complottismo, ma che invece sono estremamente proliferanti e operano, da tempo, in ogni ambito del sapere e della realtà).
Perché, in fondo, ciò che sta traballando è il principio stesso di realtà. Cos’è reale e cosa non lo è? Per questo la celebre sociologa Shoshana Zuboff parla di “business della realtà”, e, citando l’informatico Mark Weiser, ci ricorda che: “Le tecnologie più profonde sono quelle che scompaiono”[2]. Dunque, rincorrere il potere tecnologico con i mezzi della retorica anti-modernista non ha alcun senso. L’urgenza di oggi risiede nella volontà di rischiare un pensiero capace di salvare il rapporto difficile fra antichità e modernità, per riformulare una nuova modalità di connessione fra paradigma scientifico e realizzazione della libertà e della coscienza spirituale umana. In linea con l’insegnamento del pensiero illuminista secondo cui: l’uomo non può essere trattato come un mezzo, ma deve essere trattato sempre anche come un fine. In sostanza, se ci concentriamo troppo sulla denuncia nei confronti del potere digitale, rischiamo di non vedere la risorsa evolutiva che in esso comunque sussiste; viceversa, se facciamo l’elogio del progresso in maniera acritica e apologetica, finiamo dritti dritti verso una Matrix conclamata. È un bivio epocale quello che abbiamo di fronte. Tutti dobbiamo prendercene carico. Anche se, come ovvio, è la politica il campo di azione privilegiato. Essa deve e può recuperare il senso critico e il proprio ruolo d’indirizzo democratico del fare tecnologico. Un fare che – di fatto – si esercita sempre attraverso la mancata governance dello strapotere delle industrie high-tech. La missione rivoluzionaria è in realtà tutta qui: nella mediazione dialettica indispensabile ed eroica. Ora sta a noi la ricerca di una sintesi nuova e convincente, capace di vincere l’inerzia e mobilitare le menti del futuro.
[1] Articolo di Dario d’Elia, WIRED, numero 102, anno 2022, edizione autunno (allegato 5G edition)
[2] Shoshana Zuboff, Il Capitalismo della Sorveglianza, Luiss, Milano 2019 pag. 211
FONTE: https://www.lafionda.org/2022/12/05/il-potere-ammaliante-del-digitale/
Non avrai altro Dio all’infuori di me
La tecnica richiede senza tregua che tutto il realizzabile venga realizzato, secondo il rispettivo stadio di sviluppo. Dico “richiede” dato che oggi il possibile è quasi sempre accettato come obbligatorio, ciò che si può fare come ciò che si deve fare.
Günther Anders
Sono in diversi, ultimamente, a chiedersi che cosa sta accadendo. Non è facile – forse nemmeno possibile – cogliere le dinamiche dominanti del periodo storico che si sta vivendo. L’impresa risulterà certo più agevole ai posteri, che potranno guardare a questo inizio di millennio con quel distacco che permette un minimo di obiettività. Il senno di poi, tuttavia, giungerà quando saremo ormai fuori gioco, quando non potremo più trarne alcun giovamento. Pertanto, col presente contributo provo a delineare una chiave di lettura che – a mio parere – può interpretare almeno in parte la fenomenologia politica e sociale del nostro tempo.
«Tutto scorre» secondo il noto aforisma attribuito ad Eraclito. «Tutte le cose hanno origine l’una dall’altra e periscono l’una nell’altra», così per Anassimandro. Dai batteri alle stelle, passando per noi comuni mortali, prima o poi tutto ciò che è generato perisce. È solo questione di tempo. Le civiltà conoscono una fase di ascesa seguita da una fase di declino. Le nuove teorie scientifiche mettono in disparte quelle che le hanno precedute. I paradigmi si succedono: quanto sosterrò nel seguito prende le mosse proprio da quest’ultimo dato di fatto.
Come paradigmi di riferimento considererò quello cristiano e il suo successore, quello scientifico, il nostro «spirito del tempo». Naturalmente, le transizioni di paradigma non comportano una cesura netta e repentina tra due visioni del mondo. Il passaggio è graduale, quasi senza soluzioni di continuità. Ciò che era prima sfuma a favore di ciò che sopravviene. Alcuni aspetti del vecchio paradigma sopravvivono a lungo nel nuovo, pur non configurando più, nel loro complesso, un sistema di riferimento privilegiato. Così, alcune pratiche e certi tratti tipici del paradigma cristiano rivestono ancor oggi un ruolo tutt’altro che marginale, seppur non più di primo piano. Ancora: certi aspetti soggiacenti al paradigma fuori corso si ritrovano, pressoché immutati, nel sottostante di quello corrente. Come osserva Umberto Galimberti, la scansione teleologica del tempo caratteristica del cristianesimo è stata ripresa pari pari dalla scienza: se per il primo il passato era peccato, il presente redenzione e il futuro salvezza, per la seconda il passato è errore, il presente ricerca e il futuro progresso.
Come al paradigma cristiano è subentrato quello scientifico, così quest’ultimo farà il suo tempo e, prima o poi, verrà rimpiazzato dal suo successore: quando avverrà il trapasso, e quali saranno le caratteristiche specifiche del nuovo paradigma, non è dato a sapersi. Quello che è certo è che il paradigma scientifico, come tutte le altre cose di questo mondo, non sarà per sempre. Il fattori che hanno decretato la sua ascesa sono noti, non mi ci soffermo. Resta da capire quali determineranno il suo declino, e se questo sia già in atto o debba ancora venire. Su questi due punti mi permetto di avanzare qualche congettura.
Comincio con una distinzione, sommaria e provvisoria, tra tecnica e scienza. La tecnica, qui intesa come manipolazione del mondo, è molto più datata della scienza. La prima risale almeno a quando l’uomo cominciò a levigare la prima selce per farne un coltello rudimentale o la punta di una lancia. Per la scienza, se vogliamo intenderla come implementazione del metodo scientifico, occorrerà invece attendere Galileo, sebbene alcuni aspetti cruciali della mentalità scientifica possano rinvenirsi già nella filosofia naturale dell’antica Grecia.
La scienza ha impresso un impulso formidabile allo sviluppo tecnico e, non essendo in vista alcun capolinea all’impresa scientifica, si può ritenere che questa spinta possa protrarsi indefinitamente. In altri termini, pare ragionevole ritenere che il paradigma scientifico non cederà il passo per esaurimento della sua carica propulsiva, potenzialmente illimitata. Questa, a mio avviso, una delle ragioni per cui in genere le persone, pur consapevoli che niente è per sempre, ragionano come se il paradigma scientifico fosse imperituro. La mia impressione è che, a dispetto della crescente vitalità che sta dimostrando, e della incontenibile creatività che sta esibendo, il paradigma scientifico abbia già imboccato la via del tramonto.
Un paradigma si articola a partire da un criterio di verità. E i criteri di verità non risiedono nei risultati tangibili che riescono a rendere disponibili. I criteri di verità nascono, vivono e muoiono nella testa delle persone. È sotto gli occhi di tutti che, ormai da diversi decenni, una minoranza della popolazione ha cominciato a nutrire una certa diffidenza nei confronti dell’impresa scientifica, e che questa minoranza sta crescendo, sta diventando sempre meno trascurabile. Questo, a mio avviso, il primo e chiaro segnale che il paradigma scientifico sta entrando progressivamente in crisi. Non ha alcuna rilevanza, in questa sede, chiedersi se questa diffidenza stia insorgendo a torto o a ragione. Forse non è nemmeno possibile proprio perché, per attribuire torto o ragione occorre, per l’appunto, adottare un certo criterio di verità.
Fatto sta che l’insofferenza nei confronti dell’egemonia scientifica sta progressivamente prendendo piede e questa, a mio modo di vedere, è l’unica cosa che conta qualora si voglia valutare lo stato di salute del paradigma scientifico. Da che cosa origina il crescente sospetto che serpeggia sempre più vistosamente nei confronti della scienza?
A ben vedere, questo sentimento non prende ad oggetto la scienza, o perlomeno non direttamente. Si rivolge piuttosto a certi risultati che la tecnica – qui intesa, lo ribadisco, come manipolazione del mondo – ha potuto ottenere in ordine a quelli conseguiti dalla scienza. Penso, ad esempio, ad una delle prime circostanze che hanno visto nascere – e insinuarsi nell’immaginario collettivo – la diffidenza nei confronti degli scienziati: lo sviluppo delle armi nucleari. Fu nell’immediato secondo dopoguerra che, per la prima volta nella sua storia, l’umanità si ritrovò in grado di annientare sé stessa. Scusate se è poco. Scusate se, in quel frangente, qualcuno ha cominciato a vedere gli scienziati come una sorta di “stregoni” pericolosi, perlomeno nella misura in cui investono i comuni mortali di poteri che non sono in grado di gestire, di esercitare saggiamente. Sebbene sia fuori discussione il fatto che la scienza e la tecnica hanno per molti versi migliorato le nostre condizioni di vita, qualcuno in quegli anni ha cominciato a usare la bilancia a piatti, mettendo sull’uno i problemi che il paradigma scientifico è riuscito a risolvere e, sull’altro, quelli che gli è capitato di creare. Scusate se qualcuno ha cominciato a soppesare i pro e i contro.
Nei decenni successivi, in piena guerra fredda, sul piatto dei problemi creati è andato ad aggiungersi quello ambientale, innescato dagli effetti collaterali dell’impiego massiccio di idrocarburi e di prodotti chimici di sintesi. Il dritto e il rovescio della medaglia tecno-scientifica cominciavano a farsi vedere entrambi. La bilancia dei pro e dei contro, prima decisamente sbilanciata a favore, cominciava ad oscillare attorno alla posizione di equilibrio. Chi legge queste righe può avere l’impressione che chi le ha scritte abbia qualche problema con la scienza e con la tecnica. Mi corre allora il dovere di tagliare per un attimo, prima di riannodarlo, il filo del discorso. Con questo nodo voglio fissare il secondo fulcro del ragionamento che mi appresto a riprendere.
Ho dedicato la mia vita alla scienza, per metà da studente e per la restante parte da insegnante. Questo non ha certo fatto di me uno scienziato, ma continuo a pensare che l’esercizio sistematico del dubbio – il cuore pulsante dell’impresa scientifica – sia il motore della ricerca. Chi non ha dubbi, chi vive di certezze, non ha alcun bisogno di impegnarsi in nessuna ricerca. Per come lo vedo io, il problema non sta tanto nella scienza, quanto nella tecnica.
Ecco levarsi le tipiche obiezioni che vengono mosse a chi osa mettere in discussione la tecnica. “Che vuoi dire? Intendi forse di tornare sugli alberi a far compagnia alle scimmie?” Vero che «la tecnica è l’essenza dell’uomo» perché, come disse qualcuno, l’uomo è l’unico «animale non specializzato». Ma ciò non implica che l’uomo non possa, quando necessario, porvi un freno. Nell’antica Grecia aveva una certa importanza il concetto di misura: «chi non conosce i propri limiti tema il destino» ammoniva Aristotele. La hybris, la tracotanza, la dismisura era il peccato capitale. Più tardi, con Hegel, occorrerà riconoscere che la variazione quantitativa di un fenomeno ne comporta una variazione qualitativa. Un farmaco, se assunto secondo misura, può essere un toccasana. Ma quando viene assunto a dismisura può diventare un veleno. La variazione quantitativa si traduce in una variazione qualitativa: lo ribadisco perché, a mio modo di vedere, questo è un punto tanto importante quanto sottovalutato quando si parla di tecnica, e della tecnologia che rende disponibile.
Che cos’è la tecnica, la nostra capacità di manipolare il mondo, se non una sorta di “farmaco” che a volte funge da “integratore” e altre da “antidolorifico”? Che cos’è la tecnica se non il rimedio che abbiamo messo in atto per lenire tanto la fatica quanto la sofferenza del vivere? Come tutti i rimedi, anche la tecnica richiede di essere dosata, di essere assunta secondo misura. Se non teniamo conto di questo semplice fatto, la tecnica creerà – come a mio parere sta già facendo – più problemi di quanti potrà risolverne. Se non siamo in grado di agire secondo misura, se ci lasciamo andare alla dismisura, il toccasana della tecnica si trasforma in un veleno, la benedizione tecnica in una maledizione, il rimedio alla fatica e alla sofferenza del vivere nella condanna agli stessi mali. I denti e la pelliccia del lupo – un animale specializzato – gli conferiscono un certo vantaggio solo se si sviluppano secondo misura. Se i canini crescono fino a perforare il palato, se la pelliccia cresce fino ad intralciare il passo, il vantaggio vitale si tramuta in uno svantaggio potenzialmente letale. Così per la tartaruga: se il suo guscio cresce a dismisura, anziché difenderla dai predatori diventa la sua stessa tomba.
La mia impressione è che, in fatto di tecnica, abbiamo passato il segno. Siamo ben oltre la misura, ci siamo da tempo addentrati nelle lande desolate della hybris, e in esse ci aggiriamo mesti e grigi senza interrogarci sulla condizione deplorevole in cui ci siamo incautamente infilati. Gli incrementi iperbolici dello stress, delle ansie, delle depressioni, delle psicosi, dei suicidi, del malcontento che attanagliano e divorano in particolare gli abitanti dei paesi tecnicamente sviluppati sono, a mio avviso, chiari sintomi dell’avvelenamento tecnico che ci siamo procurati con le nostre stesse mani, della maledizione tecnica verso la quale stiamo correndo con le nostre stesse gambe. E siccome oggi, a differenza di quanto avveniva in passato, la scienza e la tecnica si sono saldate in un unicum che solo la speculazione accademica può pretendere di separare, ecco che sempre più persone cominciano ad avere qualche riserva, e a nutrire qualche dubbio, sulle «magnifiche sorti e progressive» del mondo, a più riprese promesse – ma non ancora realizzate – dai sostenitori a oltranza del paradigma scientifico. Ciò considerato, riprendo a trafficare con la bilancia a piatti, mettendo in luce un ulteriore aspetto da soppesare accuratamente, vuoi perché affacciatosi di recente sulla scena del tecno-barocco, vuoi perché trattasi davvero di un peso massimo.
Avendo insegnato sempre e solo nel primo biennio degli istituti tecnici, non posso dire di avere una visione complessiva delle scuole “superiori”, come venivano chiamate un tempo. Per contro, ciò mi ha messo a disposizione uno storico di risultati relativi al medesimo ordine scolastico. Nel corso dell’ultimo ventennio ho osservato un calo apprezzabile del livello al quale riuscivo a portare i miei studenti, e ho avvertito l’esigenza di interrogarmi su quali potessero esserne le cause. Mi chiedevo se avessi perso autorevolezza come docente, se la qualità del mio insegnamento stesse scemando, se cominciasse a farsi sentire lo scarto generazionale tra chi stava in cattedra e chi sedeva nei banchi. A me sembrava di no: nel corso degli anni mi ero fatta un po’ d’esperienza su come si mantiene l’attenzione di una classe, col tempo avevo messo insieme un bagaglio di esempi, metafore e analogie che avrebbero dovuto aiutare gli studenti a far propri i concetti più ostici della chimica, e all’epoca in cui cominciavo a pormi questo problema ero ancora trentenne. Oltretutto, avevo osservato che nell’ultimo decennio gli studenti con difficoltà certificate (dislogici, dilessici, disgrafici, discalculici) non rappresentavano più un’eccezione: stavano diventando la regola, il ché non dipendeva certo da me. Così mi decisi a confrontarmi con quei miei colleghi dell’area scientifica che, essendo più avanti con l’età, disponevano non solo di un’esperienza, ma anche di uno storico più significativi dei miei. Ricordo che appresi, non senza un certo sgomento, come pure molti di loro avessero rilevato questa tendenza al ribasso, e l’aumento di studenti in difficoltà. Ecco cosa scriveva Marco Lodoli nei primi anni del millennio, gli stessi in cui Letizia Moratti, allora Ministro all’Istruzione nel governo del Cavaliere, inaugurava la “scuola delle 3I” (Informatica, Inglese, Impresa), poi ripresa dalla sedicente “buona scuola” di renziana memoria, che ancor oggi illumina il sistema scolastico italiano.
A me sembra che sia in corso un genocidio di cui pochi si stanno rendendo conto. A essere massacrate sono le intelligenze degli adolescenti, il bene più prezioso di ogni società che vuole distendersi verso il futuro. […] La mia non è una sparata moralistica di chi rimpiange i bei tempi in cui i ragazzi leggevano tanti libri e facevano tanta politica. Io sto notando qualcosa di molto più grave, e cioè che gli adolescenti non capiscono più niente. I processi intellettivi più semplici, un’elementare operazione matematica, la comprensione di una favoletta, ma anche il resoconto di un pomeriggio passato con gli amici o della trama di un film sono diventati compiti sovrumani, di fronte ai quali gli adolescenti rimangono a bocca aperta, in silenzio […] In ogni classe ci sono almeno due o tre studenti che hanno bisogno di insegnanti di sostegno, non per qualche handicap fisico o qualche grave disturbo mentale. Semplicemente non capiscono niente, non riescono a connettere i dati più elementari, a stabilire dei nessi anche minimi tra i fatti che accadono davanti a loro, che accadono a loro stessi. Sono appena più inebetiti degli altri, come se li precedessero di qualche metro appena nel cammino verso il nulla. Loro vengono considerati ragazzi in difficoltà, ma i compagni di banco, quelli della fila davanti o dietro, stanno quasi nelle stesse condizioni. […] Non riescono a ragionare su nessun argomento perché qualcosa nella testa si è sfasciato. Vi prego di credermi, non sono un apocalittico, sono semplicemente un testimone quotidiano di una tragedia immensa.
Tuttavia i miei colleghi, che peraltro si facevano in quattro nel tentativo di individuare i possibili rimedi e di supplire a questo stato di cose, non sembravano interessati a indagarne le cause, né a denunciare la cosa alle autorità scolastiche. Come se i medici, vedendo aumentare il numero dei casi e la gravità dei sintomi di una nuova patologia, si prodigassero a reperire i farmaci e a curare i pazienti, ma non si occupassero di indagare l’origine del fenomeno, né si assumessero la bega di denunciarlo alle autorità sanitarie.
Fu così che cominciai a chiedermi quali fattori ambientali potessero avere avuto un effetto tanto deprimente sull’apprendimento, e sulle facoltà intellettive degli studenti. Che cos’era cambiato significativamente, nelle abitudini degli adolescenti, nel corso dell’ultimo ventennio? Una cosa su tutte: l’esposizione agli schermi. Parlando con i ragazzi in classe, e con i genitori in occasione delle udienze, mi ero reso conto di quante ore giornaliere gli studenti trascorrevano in compagnia di videogiochi e cellulari. Quella che inizialmente era solo una mia congettura, divenne qualcosa di più con la pubblicazione del testo “Demenza digitale” del neuro-scienziato tedesco Manfred Spitzer, seguito a distanza di qualche anno dal suo omologo e collega francese Michel Desmurget, che dava alle stampe “Il cretino digitale”.
«Per quel che riguarda l’uso ricreativo degli schermi, infatti, la scienza evidenzia una lunga lista di influenze deleterie, tanto per il bambino quanto per l’adolescente. Influenze che colpiscono tutti i capisaldi dello sviluppo, da quello somatico, ossia il corpo (con effetti, per esempio, sull’obesità o la maturazione cardiovascolare), fino a quello emotivo (per esempio l’aggressività o la depressione), passando per quello cognitivo, detto anche intellettuale (per esempio il linguaggio o la concentrazione). Le ripercussioni sono tantissime e influiscono anche sul rendimento scolastico. Sembrerebbe infatti che l’uso del digitale fatto in classe, con fini educativi, non sia più benefico degli altri. Le famose indagini internazionali PISA ce lo confermano con risultati a dir poco spaventosi.»
Così, negli stessi anni in cui tra i giovani esplodeva la sovra-esposizione a schermi a fini ricreativi, la scuola la promuoveva a iper-esposizione digitalizzando la didattica: per la prima volta sui banchi comparivano quegli schermi chiamati “tablet”, e alle pareti delle aule venivano appesi quei maxischermi che vanno sotto il nome di “lavagne multimediali”.
Anche a fronte delle evidenze presentate dai due autori sopra menzionati nei rispettivi testi – supportate da una nutrita bibliografia di pubblicazioni scientifiche – decisi di sensibilizzare la mia scuola su questa problematica. A più riprese portai la questione nei Collegi dei Docenti. Il risultato fu nullo. Persino in Consiglio d’Istituto, del quale fanno parte anche i rappresentanti dei genitori degli studenti, non riuscii minimamente a incidere sulla piega che stavano prendendo le cose. Non solo: mi accorsi che, in entrambe le sedi, i miei interventi su questo tema indisponevano visibilmente i presenti. Come se gli effetti avversi dell’eccessiva esposizione a schermi fossero una mia opinione personale che non condividevano affatto.
Perché rimanevo sistematicamente isolato ogni volta che mettevo in discussione l’impiego didattico dei dispositivi cui la scuola aveva spalancato il portone, persino quando era scientificamente provato che provocavano disturbi fisici, neurologici, cognitivi e comportamentali agli studenti? Constatato in diverse occasioni che nessuno era disposto ad appoggiarmi, lasciai perdere e continuai sommessamente a fare il mio lavoro. «Don Chisciotte non è contento, ma lavora in un mulino a vento» cantava Augusto Daolio. Non potevo immaginare che, appena qualche anno dopo, gli stessi che allora ignoravano deliberatamente gli esiti della ricerca scientifica, si sarebbero riempiti la bocca di scienza da salotto televisivo, e mi avrebbero messo alla porta perché privo di “green pass”.
A settembre dello scorso anno, quando sono stato sospeso, era già chiaro che il possesso del “green pass da vaccino” non garantiva niente e nessuno, perché era già ampiamente noto che anche i “vaccinati” potevano infettare. Del resto, bastava andarsi a leggere il foglietto illustrativo del farmaco per scoprire che era indicato per curare la malattia “Covid-19”, non certo per prevenire il contagio da Sars-CoV-2. Bastava non negare l’evidenza, bastava un banale ragionamento per smascherare le menzogne che venivano diffuse a reti unificate.
Ma l’evidenza è stata negata, e l’uso della ragione è stato anch’esso sospeso, esattamente come a fronte dei miei tentativi di mettere in discussione la didattica digitale. Tutto questo non solo nelle banche o nelle chiese, ma persino nella scuola, dove l’onestà intellettuale dovrebbe mantenere il primato sulla convenienza personale e sulla fede di ciascuno.
Quando portavo i miei studenti nel laboratorio di chimica, chiedevo loro di stendere una relazione su quello che avevano osservato, e sulle conclusioni che se ne potevano trarre, come fanno i miei colleghi dell’area scientifica. Siamo tutti bravi a predicare bene, a raccomandare agli studenti di attenersi all’evidenza e di ragionarci sopra. Peccato che, quando ci si è presentata l’occasione di mettere in pratica i nostri stessi insegnamenti, abbiamo razzolato decisamente male. Non è andata meglio ai colleghi dell’area umanistica. I quali, mentre si attardavano a chiedere agli studenti se il fine giustificasse i mezzi, non avevano domande da fare a chi sosteneva che il “green pass” era un incentivo alla “vaccinazione”. I quali, mentre interrogavano sulla categoricità dell’imperativo morale kantiano, non avevano alcunché da obiettare mentre i colleghi che sentivano e pensavano diversamente venivano espulsi dalle scuole. Del resto, già Günther Anders aveva capito che, nell’età della tecnica, sono i mezzi a giustificare i fini. Del resto, la massima di Draghi «non ti vaccini, ti ammali, contagi, qualcuno muore» aveva già assunto il valore di legge universale.
Mi sono concesso questo intermezzo non già per lanciarmi in una sterile invettiva nei confronti della scuola, ma per mostrare una volta di più come persino coloro che parlano in continuazione di senso critico, di rispetto reciproco, di tolleranza, di inclusione, siano disposti a rimangiarsi tutto pur di non mettere in discussione le avanguardie tecnologiche, siano essi i dispositivi digitali ad uso didattico o i “vaccini” a mRNA.
Come si può spiegare questo atteggiamento? Come lo si può ricondurre nel novero dell’intellegibile? Prima di arrischiare un’interpretazione ritengo opportuno considerare sommariamente un fenomeno di cui non tutti sono al corrente: gli hikikomori.
Il termine, di origine giapponese, da noi e nel resto del mondo viene usato per indicare persone – in genere adolescenti – che hanno sviluppato una dipendenza da videogiochi, da social media e da internet talmente forte che non riescono più ad affrontare il mondo reale: se ne stanno chiusi nelle loro stanze davanti agli schermi, in genere dormendo di giorno e “navigando” la notte, e non c’è modo di convincerli ad uscire, tant’è che molti abbandonano la scuola. Spesso non escono nemmeno per mangiare, tanto che i genitori, in preda alla disperazione, lasciano il piatto fuori dalla porta. Se tirati fuori con la forza, in genere diventano aggressivi e violenti nei confronti dei famigliari. Chiunque abbia dei figli può provare ad immaginare quale sofferenza comporti, per una famiglia, trovarsi in una situazione del genere, ma dubito che ci riesca.
Secondo le ultime stime, solo in Italia vi sarebbero circa 120.000 casi accertati di hikikomori. Lo ripeto: 120.000 casi accertati, e il numero è in aumento. Si tenga presente che non c’è una vigilanza attiva sul fenomeno, e che in genere la vigilanza passiva accerta dall’uno al dieci per cento dei casi effettivi. Non credo occorra spendere troppe parole per convincersi che, considerate la gravità e la dimensione del fenomeno, si tratta di una piaga sociale di proporzioni apocalittiche.
Ora io chiedo: qualcuno ha mai sentito Roberto Speranza occuparsi di questa faccenda? Io no, ma forse mi è sfuggito qualcosa. Mi si potrebbe far notare che l’ex-Ministro della Sanità aveva ben altro di cui occuparsi. Ben altro? Fatemi capire: in Italia ci sarebbero 120.000 casi accertati di giovani – altrimenti presumibilmente sani – che stanno morendo dentro. Non dentro la loro stanza, dentro il loro animo. Perché un adolescente che non riesce più ad uscire dalla sua stanza, non è poi così diverso da un adolescente sepolto nella sua bara. E il Ministro della Sanità non avrebbe avuto il tempo di occuparsene, aveva ben altro da fare?
L’ordine di grandezza del numero di hikikomori è lo stesso dei presunti morti per Covid-19. Lascio a voi l’onere di stabilire se, in termini di sanità pubblica, occorreva limitare al più presto l’uso di dispositivi che spengono persone con tutta la vita davanti, e che spesso non si riesce a riportare alla luce, o se doveva ritenersi più urgente intervenire sulla diffusione di un virus che rappresentava un rischio quasi esclusivamente per persone con scarsa aspettativa di vita. Qualunque persona ragionevole, presumo, direbbe che si tratta di due priorità. Peccato che in ordine alla prima, non è stata spesa una parola e non è stato mosso un dito, mentre per quanto riguarda la seconda è stata messa a ferro e fuoco un’intera nazione per anni, e non è ancora finita. Non riuscendo a farmi una ragione plausibile di una tale discrepanza, mi sorge spontanea la seguente domanda: ma davvero il “Governo dei migliori” aveva così a cuore la salute della collettività? Non solo: quale futuro può attendersi una società indifferente al fatto che le sue forze vitali, i giovani, sono a grave rischio di sviluppare forme irreversibili di demenza? Anche qui, ognuno risponda da sé. Preferisco provare a rispondere a una domanda che mi sembra anche più pressante, quella che ho posto sin dall’inizio: che sta accadendo?
Le due tendenze che ho appena descritto, quella istituzionale a digitalizzare la didattica, e quella dei giovani a seppellirsi vivi nelle loro stanze, non mostrano solamente che siamo ben lungi dal riconoscere che lo sviluppo tecnico ha passato il segno, che ci siamo trasferiti ormai da tempo nel regno della dismisura, che abbiamo interiorizzato la tecno-tracotanza come condizione esistenziale naturale. Queste tendenze rendono anche oltremodo chiaro che non c’è alcuna disponibilità a denunciare e mettere in discussione questo stato di cose, nonostante il danno ingente che – dati alla mano – sta arrecando al genere umano. Come si può spiegare questa omertà? Come si può render conto del fatto che, a fronte dell’evidenza scientifica disponibile, non vi sia da parte delle istituzioni alcuna intenzione di intervenire per cercare, se non proprio di debellare, almeno di contenere questo morbo che sta infettando sempre più giovani? Non conosco una risposta semplice. Il problema, per come lo vedo io, è poliedrico, presenta una molteplicità di sfaccettature. Provo ad elencarne alcune.
Coma prima cosa, dal momento che il consenso politico dipende in maniera cruciale dalla visibilità mediatica, e che quest’ultima, a sua volta, dipende oggi più che mai da se e quanto certi social media sono disposti a concederla, non c’è da aspettarsi che siano le istituzioni a porre delle limitazioni al proliferare degli schermi, tanto nelle scuole quanto nelle case. Mettersi contro la connessione perpetua equivale al suicidio politico. Recentemente il nuovo Ministro all’Istruzione ha fatto sapere che intende intervenire sull’uso dei cellulari nelle scuole. Stiamo a vedere se dalle parole passerà ai fatti, o se qualcuno gli farà cambiare idea. La mia non è certo una teoria scientifica ma, con Karl Popper, gli sviluppi di questa vicenda politica offrono un “falsificatore potenziale” a quanto vado sostenendo.
In secondo luogo, pensando al paradigma cristiano e a quello scientifico, è del tutto evidente come i rispettivi criteri di verità siano stati alla lunga distorti a fini di controllo e di potere. Questo per mano di quei portatori di interesse che hanno tutto da guadagnare a mantenere lo status quo, e tutto da perdere dal suo venir meno. Anzi, forse sono proprio queste distorsioni ad accelerare quei processi degenerativi che condannano un paradigma al suo declino.
Pur non essendo credente, trovo che il messaggio cristiano originale – con ciò intendo riferirmi a quel poco di autentico che è sopravissuto alla storia – abbia un grandissimo valore per il genere umano. Ci vuole genio e coraggio per disinnescare una situazione esplosiva invitando chi è senza peccato a scagliare la prima pietra, per riconoscere che gli uccelli del cielo e i fiori del campo conducono esistenze piene e libere senza troppo dannarsi l’animo.
Ma, come è noto, la chiesa non ha tardato a oscurare questi messaggi luminosi per mantenere e accrescere il proprio dominio e i propri privilegi. E l’ha fatto al punto tale da ardere vivi gli infedeli in nome di Dio. Allo stesso modo i poteri attualmente in carica, avendo fiutato l’autorità e l’autorevolezza di cui la scienza gode nel nostro tempo, l’anno piegata a loro uso e consumo, ne hanno snaturato quello spirito autentico che, non meno del messaggio cristiano originale, aveva in sé la forza per liberare l’uomo dai gioghi dell’oppressione. E l’hanno fatto al punto tale da condannare all’indigenza e all’esclusione chi si è permesso di esercitare il dubbio, il motore della ricerca scientifica. Non servirà una riforma della scienza, e nemmeno una sua controriforma, ad arrestare la degenerazione del paradigma scientifico messa in moto da questi riuscitissimi intenti distorsivi. Ecco cosa scriveva il “fisico controcorrente” Giuliano Preparata qualche anno prima di morire, in una memoria intitolata “Un’altra rivoluzione tradita: la fisica dei quanti”.
«Ci possiamo chiedere come mai una teoria così difficile da comprendere, così articolatamente contestata da Einstein, come la MQ abbia mantenuto fino ad oggi in modo talmente rigido il monopolio della descrizione dei fenomeni atomici e subatomici. La risposta, come vedremo, sta nel fatto che nella MQ c’è una parte di vero, quello che invece non sta assolutamente in piedi è “l’interpretazione di Copenhagen”, basata sull’idea balzana di “complementarietà”. Ma, forse, c’è di più: la rinuncia della MQ a comprendere la realtà, limitandosi a formulare ricette per agire sulla materia in senso tecnico ed economico, per il potere politico ed economico è di fatto una benedizione, che permette l’assoggettamento della scienza, senza gli impopolari roghi e scomuniche che furono necessari alla Chiesa al nascere della scienza moderna.»
Infine, la cappa di omertà che dilaga quando qualcuno si azzarda a mettere in discussione certe tecnologie d’avanguardia può forse essere spiegata anche in altro modo, certo un po’ suggestivo: dal momento che «Dio è morto», la salvezza ultraterrena non è più alla nostra portata, e allora ci aggrappiamo mani e piedi alla sua sorella povera, quella terrena. E guai a chi si permette di mettere in discussione persino chi indica la strada che conduce alla pseudo-salvezza, alla mera sopravvivenza a tempo determinato.
Per rendersi conto di quanto attuale, potente e operativa sia la fede nell’iper-sviluppo tecnologico come unica strada percorribile da chi ambisce alla salvezza terrena del genere umano, è sufficiente andarsi ad ascoltare il recentissimo discorso che l’economista tedesco Klaus Schwab, fondatore e attuale direttore esecutivo del World Economic Forum, ha tenuto ai capi di Stato riuniti al G20 in Indonesia. Mentre lo sentivo parlare, ho avuto un déjà vu.
Il portamento, il tono della voce. La fermezza di chi ha una visione chiara. La sicurezza di chi ha in testa un progetto incontestabile. Lo sguardo diretto di chi agisce in perfetta buona fede, perché la salvezza dell’uomo sulla terra passa precisamente per la strada che sta indicando. Mi ci è voluto un po’ per capire chi mi ricordava. Certo, se invece che l’inglese avesse parlato la sua madrelingua, ci sarei arrivato subito. Come il suo illustre connazionale di un tempo, non ha lasciato margini al dubbio e non ha tradito alcuna esitazione. La sua fede integra come una fortezza inespugnabile.
Naturalmente, se questo è lo stato dell’arte, chi non vuole avere grane, chi vuole mantenere la propria posizione sociale o ambisce a superarla, si guarda bene dal sollevare certi veli o dal commettere il reato di lesa maestà, oggi tornato più in auge che mai, e in genere non disdegna affatto quel perbenismo bigotto che è stato innalzato al rango di virtù sociale per eccellenza.
Sempre più persone vedono che “il Re è nudo”, ma evitano accuratamente di dirlo perché, nell’età della tecnica, mettere in discussione l’avanguardia tecnologica non è meno blasfemo di quanto non fosse stato, nel tardo medio evo, dubitare dell’esistenza di Dio. Una bestemmia. Un peccato mortale dal quale nessun sacerdote del clero tecnocratico è disposto ad assolvere perché, se lo facesse, macchierebbe di eresia pure sé stesso. Anche per questo, credo, in una sua recente pronuncia la Corte Costituzionale è arrivata a dire che non ritiene «irragionevoli, né sproporzionate, le scelte del legislatore adottate in periodo pandemico sull’obbligo vaccinale»: evidentemente, rifiutare i “vaccini” a mRNA è la più grave delle colpe, perché nemmeno ai peggiori criminali vengono negati i mezzi di sostentamento. Una condanna che non si discosta poi tanto da certe manifestazioni del fondamentalismo di matrice religiosa, per l’appunto. Una pena che, non fosse per la singolare congiuntura venutasi a creare, ognuno sarebbe disposto a giudicare non meno severa di quelle comminate agli infedeli dall’integralismo religioso.
E così, anche chi lo vede nudo, si affretta ad unirsi al coro di coloro che si compiacciono dei vestiti del Re. Come è successo di recente in occasione del convegno “Poli-Covid-22” che doveva tenersi al Politecnico di Torino, al quale erano stati invitati, oltre ad esperti di rilevanza internazionale, alcuni membri del CTS e dell’ISS. Questi ultimi, che inizialmente avevano accettato l’invito, l’hanno poi declinato, sostenendo che il livello della controparte non era tale da scomodarli. Tanto per capirci, Peter Doshi, senior editor del British Medical Journal, e John Ioannidis, epidemiologo dell’Università di Stanford, non sarebbero stati alla loro altezza. E allora, in ordine alla ritirata a gambe levate dei nostri, il Politecnico torinese ha ritirato il suo patrocinio, e l’evento si è dovuto trasferire in altra sede all’ultimo momento. Non stupisce questo fuggi fuggi generale perché, mentre il clero medioevale poteva dormire sonni tranquilli – nessun esperto può dimostrare che Dio non esiste – i nostri luminari rischiavano una magra figura, oltretutto in una sede scientificamente prestigiosa, il ché difficilmente sarebbe passato inosservato. Meglio andare a predicare dai pulpiti protetti dei salotti televisivi, con interlocutori accuratamente selezionati – quando sono ammessi – e con il presentatore che, appena annusa la malaparata, irrompe nel discorso o manda la pubblicità. È comunque interessante e istruttivo seguire queste sceneggiate. Lo faccio raramente, giusto per rendermi conto dello stato di salute in cui versa il paradigma scientifico e, di converso, la società che lo prende a riferimento. L’ultima volta che ho seguito una trasmissione di quel tenore il presentatore di turno, interrompendo uno dei due medici che, da soli, dovevano vedersela con la platea dei colleghi allineati, se ne è uscito con una frase del tipo: “Scusate ma – diciamocelo – vi ostinate a sostenere tesi che non solo i qui presenti esperti, ma pure la stragrande maggioranza degli addetti ai lavori considera insostenibili. Non è forse il caso che vi facciate qualche domanda?” Dunque, per il nostro, il criterio di maggioranza è un criterio di verità, ignaro il fatto che, come si suol dire, “la scienza non è democratica”. Di più: Hannah Arendt, dal suo libro “La banalità del male”, ci ricorda che «la grande maggioranza del popolo tedesco credeva in Hitler, e continuò a credervi anche dopo l’aggressione alla Russia». Ragionando come il nostro, dunque, dovremmo concludere che i nazisti avevano visto giusto perché erano in larga maggioranza, e che alla rimanente parte dei tedeschi, un’esigua minoranza, non restava che farsi qualche domanda. Pochi minuti dopo, ecco che il conduttore, interrompendo l’altro dei due malcapitati, ci regala un’altra perla di saggezza: “Beh, se lei non crede nel vaccino, allora non crede nella scienza. Ma allora, che medico è?”. Secondo il nostro, dunque, chi crede nella scienza deve necessariamente mangiarne i frutti. Se non lo fa, è l’antiscienza in persona. Dovremo andare di corsa a riferirlo a Putin, o a Biden, per finire di convincerli a usare le armi nucleari, a mangiare i frutti proibiti della tecno-scienza prima che qualcuno li accusi di terrapiattismo.
Discorsi di cotanta levatura, negli ultimi due anni, se ne son sentiti a non finire. Evidentemente il “grande pubblico” li trova convincenti, altrimenti questa farsa sarebbe morta sul nascere. Mi chiedo se li trovino convincenti pure gli esperti di regime, quelli che stanno dalla parte giusta della storia, quelli che stavano seduti nelle altre poltrone dello studio televisivo. Delle due l’una: o li trovano anch’essi culturalmente imbarazzanti, ma non hanno l’onestà intellettuale per farlo presente al conduttore, o li trovano sensati al pari di coloro che seguono da casa. Ancora una volta, lascio a voi l’onere di dirimere la controversia, perché mi è difficile anche solo capire quale delle due alternative sia meno deprecabile dell’altra.
Se questo è il livello del discorso, sul quale i nostri massimi esperti – quelli che sanno per davvero che cos’è la scienza – non hanno alcunché da ridire, mi pare di poter concludere che il paradigma scientifico è effettivamente un malato allo stadio terminale. E se è malato il nostro paradigma, non può goder di miglior salute la società che ad esso fa riferimento. La cosa non è sfuggita allo psicoanalista statunitense James Hillman.
Ogni giorno, multinazionali e apparati statali senza volto prendono decisioni che sconvolgono intere collettività, rovinano centinaia di famiglie e distruggono la natura. Ci sono psicopatici che si accaparrano il favore delle folle e vincono le elezioni. Lo schermo del televisore, con la sua camaleontica versatilità nel mostrare qualsiasi cosa faccia audience, favorisce il distanziamento, l’indifferenza e il fascino di facciata, e altrettanto fanno i luccicanti e ben oliati meccanismi del successo propri della struttura politica, giuridica, religiosa e finanziaria. Chiunque salga in alto in un mondo che genera il successo dovrebbe riuscire sospetto, perché questa è l’età della psicopatia. Oggi lo psicopatico non si aggira furtivo come un topo di fogna nei vicoli bui, come nei film di gangster degli anni Trenta, ma sfila nelle macchine blindate durante le visite di Stato, amministra intere nazioni, invia rappresentanti alle Nazioni Unite.
Se una società sana è amministrata da persone sane, una società malata non può che essere in balia di amministratori malati. Presumo che, in quanto psicanalista, Hillman usi il termine “psicopatici” nel senso tecnico del termine, non per recare gratuitamente offesa ai vertici della nostra società. In una società malata come la nostra, la psicopatia di cui parla non rappresenta solo la condizione normale dei suoi esponenti, ma configura pure la condizione necessaria alla scalata del potere, un requisito che chi vuole comandare non può non avere. Un tratto chiaramente funzionale al “sistema”, come viene chiamato questo stato di cose patologico. Per tale ragione, credo, agli apici della nostra società troviamo sistematicamente personaggi, come dire, piuttosto “singolari”, mettiamola così. Forse per questo ultimamente, ai massimi livelli, tra le altre cose hanno preso ad aggirarsi nervosamente nei paraggi dei pulsanti nucleari. Non si può escludere che, per le ragioni addotte da Hillman, prima o poi qualcuno venga premuto senza ragione. Del resto, come narra «Il deserto dei Tartari» di Dino Buzzati, quando l’attesa e la tensione si protraggono a oltranza, prima o poi anche le persone sane di mente comincerebbero a vedere ciò che gli altri non vedono, o ciò che si aspetterebbero di vedere. Col missile caduto in Polonia ci è andata bene, ma ci siamo andati vicini.
Non che in passato i regnanti siano stati tutti saggi, non che abbiano agito sempre nell’interesse del popolo: ne hanno fatte di tutti i colori pure loro, anche se la tecno-tracotanza era ancora lontana da venire. Basti pensare al tribunale dell’inquisizione, e ad altre mille nefandezze dell’era prescientifica. Ma la ricerca scientifica indirettamente, e l’abuso tecnologico direttamente, oltre ad aver inaugurato «l’età della psicopatia» di cui parla Hillman hanno investito gli psicopatici di poteri che manco le persone sane di mente dovrebbero avere. Il ché, a mio avviso, è un bel problema.
Insomma, a me pare che il paradigma scientifico stia perdendo le acque e cominci ad avere qualche contrazione. Non so dire quanto avverrà il parto, né cosa ne verrà fuori. La sensazione è che – fatte salve cause di forza maggiore, come quella sopra accennata – il travaglio andrà per le lunghe, e sarà piuttosto doloroso. Soprattutto per chi non se la sentirà di accodarsi a celebrare la magnificenza del Re, e a cantare le virtù del suo nuovo vestito. Soprattutto per chi non accetterà di buon grado i nuovi frutti avvelenati della tecno-scienza. Sarà dura per chi, seppur con garbo e gentilezza, risponderà “No grazie, ne ho abbastanza.” Sarà dura procedere «in direzione ostinata e contraria», come suggeriva di fare Fabrizio De André, ma ho l’impressione che questa sia la strada da percorre se vogliamo avere un futuro. Se invece ci sta bene che la dismisura tecnologica finisca di ridurci a un ammasso di androidi neoprimitivi, andiamo pure avanti così.
Spero che la scuola esca dalla cattiva pedagogia e dal degrado nel quale è caduta, e dunque spero in una scuola atta a contrastare quel post-pensiero che sta invece aiutando.
GIOVANNI SARTORI
FONTE: https://www.lafionda.org/2022/12/12/non-avrai-altro-dio-allinfuori-di-me/
Conferenza stampa AfD sul notevole aumento decessi improvvisi nel 2021
Estratto da: https://www.youtube.com/watch?v=qfB6ZFUgIEk [sottotitoli in italiano]
Scioccanti dati ufficiali relativi a morti improvvise e inaspettate in Germania (conferenza stampa AfD):
si è passati da una media di 16 decessi improvvisi al giorno (dal 2016 al 2020), ai 97 decessi improvvisi al giorno del 2021!
FONTE: https://rumble.com/v20b5c0-conferenza-stampa-afd-sul-notevole-aumento-numero-di-morti-inaspettate-nel-.html
In Europa una terza specie di insetti è stata autorizzata per l’alimentazione umana
11 02 2022
Via libera a una nuova specie di insetti per l’alimentazione dell’uomo. La Commissione ha autorizzato la commercializzazione dei grilli domestici (Acheta domesticus) come nuovo alimento nell’Unione. Si tratta del terzo tipo di insetto approvato per il consumo sulla tavola da Bruxelles. Come già raccontato in passato da Wired, le precedenti autorizzazioni hanno interessato la vendita e il consumo delle tarme delle farina essiccate, a luglio 2021, e della locusta migratoria, il cui semaforo verde definitivo è arrivato lo scorso novembre. Come nel caso delle locuste, anche per i grilli domestici saranno disponibili gli insetti interi congelati, interi essiccati e in polvere. Lo riferisce l’agenzia Ansa.
L’autorizzazione aveva avuto l’ok degli Stati dell’Unione lo scorso dicembre, dopo il via libera con un parere scientifico da parte dell’Agenzia europea per la sicurezza alimentare (Efsa). I prodotti contenenti questi nuovi alimenti saranno etichettati per segnalare eventuali potenziali reazioni allergiche.
Già parte della dieta quotidiana di centinaia di milioni di persone nel mondo, negli ultimi anni gli insetti sono diventati di interesse anche in Europa, che è alla ricerca di fonti di proteine di qualità a basso costo e dall’impatto ambientale contenuto. La strategia alimentare comunitaria Farm to fork, come ricorda Adnkronos, contempla gli insetti come fonte sostenibile di proteine, all’interno della categoria dei novel food (i nuovi alimenti).
I nuovi alimenti sono per l’Unione europea quei cibi o ingredienti nuovi, cioè non consumati e non presenti sul mercato, un concetto introdotto per differenziarli da quelli di uso comune e precedenti il Regolamento Ce 258 del 1997.Fra questi c’è ad esempio la polpa disidratata del baobab (proveniente dal frutto di Adansonia digitata), naturalmente ricca di vitamina C, calcio e antiossidanti, oppure l’olio di Echium raffinato, estratto dai semi della pianta di Echium. Nell’ambito alimentare gli insetti rivestono un grande interesse, anche per il loro elevato contenuto proteico e per le buone proprietà nutrizionali messe in luce dalla Fao.
Nel 2018 il regolamento comune sui nuovi alimenti è stato aggiornato, per renderne più semplice e rapida la regolamentazione e l’autorizzazione, mantenendo però intatti gli elevati standard di sicurezza alimentare europei. Da allora, l’Efsa ha ricevuto almeno 15 richieste di approvazione di nuovi alimenti legate agli insetti. 11 di queste sono sotto valutazione di sicurezza e 4 sono in fase di controllo dell’idoneità.
Starà poi “ai consumatori decidere se vogliono mangiare insetti o no” riporta una nota sul sito della Commissione. Gi insetti rappresentano una normale fonte di proteine per milioni di persone in tutto il mondo e vengono consumati regolarmente, facendo spesso parte della cucina tradizionale locale. Inoltre rappresentano un’alternativa ecosostenibile all’allevamento di bestiame, richiedendo un minore impiego d’acqua, mangimi e terreni.
FONTE: https://www.wired.it/article/insetti-grilli-europa-consumo-alimentazione-uomo/
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