RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI
14 APRILE 2021
A cura di Manlio Lo Presti
Esergo
L’esperienza è un pettine per calvi.
ROLAND JACCARD, Dizionario del perfetto cinico, Excelsior1881, 2009, pag. 61
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SOMMARIO
IN EVIDENZA
“Sui certificati di morte si dovrebbe riportare Covid-19 per tutti i deceduti in cui la malattia ha causato o si presume abbia causato o contribuito alla morte”
Dennis McGowan – American Thinker – 12 aprile 2021
Per molti di noi che hanno avuto a che fare con gli standard scientifici e le procedure legate alla registrazione dei decessi c’è stato un serio senso di dubbio sui numeri dei decessi della Covid 19 riportati dai media, per gentile concessione dei Centers for Disease Control and Prevention. I numeri sembrano posizionarsi da qualche parte tra il marginalmente sopravvalutato e il grossolanamente esagerato. Alla fine, questi istinti sono stati supportati da un documento scientifico sottoposto a revisione paritaria (peer-reviewed).
Il 12 ottobre dell’anno scorso, è stato pubblicato un documento di 25 pagine su Science, Public Health Policy and The Law (Scienza, Salute pubblica e Leggi) che spiegava, in dettaglio, la ragione fondamentale dei numeri di mortalità annunciati pubblicamente e il meccanismo con cui sono stati derivati. Questo documento, scritto da dieci membri della comunità scientifica, si intitola “Covid-19 Data Collection, Comorbility & Federal Law: A Historical Perspective” (Raccolta dati Covid-19, comorbilità e legge federale: una prospettiva storica). Il nocciolo della questione è il CDC e i suoi metodi di raccolta e segnalazione dei dati, un modello che è stato modificato radicalmente di fronte alla crisi attuale.
Nel 2003, il CDC aveva elaborato e pubblicato alcuni documenti guida usati dalla comunità forense intitolati “Medical Examiners’ and Coroners’ Handbook on Death Registration and Fetal Death Reporting” (Manuale degli esaminatori medici e dei coroner sulla registrazione della morte e sulla segnalazione della morte fetale) e “Physicians’ Handbook on Medical Certification of Death” (Manuale per i medici sulla certificazione medica della morte) . Questi testi sono stati lo standard per la certificazione delle morti, a livello nazionale, per diciassette anni. Tuttavia, nel marzo del 2020 le cose sono cambiate.
Il National Center for Health Statistics ha rilasciato il Covid-19 Alert No. 2, che ha cambiato il modo in cui le morti con collegamenti al Covid 19 sono state riportate e tabulate. La riga rivelatrice del documento è nell’ultimo paragrafo: “Sui certificati di morte si dovrebbe riportare Covid-19 per tutti i deceduti in cui la malattia ha causato o si presume abbia causato o contribuito alla morte” [evidenziato dall’autore]. Questo ha cambiato i parametri per l’inclusione delle morti da Covid, aumentando i numeri in modo sostanziale.
Una tabella nello studio di ottobre intitolata “Comparison of Total Covid-19 Fatalities Based Upon Different Reporting Guidelines” (Confronto dei decessi totali Covid-19 sulla base di diverse linee guida di segnalazione) ha dimostrato che le morti fino al 23 agosto del 2020 erano più alte di oltre 16 volte rispetto alla definizione tradizionale (evidenziato dal traduttore). Se la segnalazione di questi decessi avesse seguito la guida CDC del 2003, il numero di morti per il Covid sarebbe stato di 9.684. Tuttavia, utilizzando questo nuovo metodo di segnalazione e classificazione applicato esclusivamente alla Covid-19, il numero di morti è 161.392 (evidenziato dal traduttore).
Il documento si addentra in una varietà di altri argomenti, alcuni legali e alcuni statistici, che sono tutti intrinsecamente funzioni del cambiamento dei parametri di segnalazione delle morti iniziato dall’allarme di marzo 2020. Tuttavia, per molti di noi che hanno avuto dubbi assillanti sui numeri reali, sapere che il calcolo per la registrazione di queste morti era stato modificato è rassicurante. Avendo passato un anno a guardare i numeri delle morti di Covid e supponendo che il vero conteggio fosse più probabilmente la metà o un terzo di quello che veniva riportato, questo nuovo rapporto è sia soddisfacente che sorprendente. Nessuno di noi avrebbe immaginato che la disparità effettiva sarebbe stata che il numero di morti per Covid, secondo questo studio, è un po’ meno del 6% dei numeri riportati dai media (evidenziato dal traduttore).
Link: https://www.americanthinker.com/blog/2021/04/faulty_covid_death_numbers_explained.html
FONTE: https://comedonchisciotte.org/spiegazione-dei-numeri-fasulli-di-decessi-covid/
Faulty Covid death numbers explained
For many of us who have had ties to the scientific standards and procedures connected to recording fatalities there has been a serious sense of doubt about the numbers of Covid 19 deaths reported by the media, courtesy of the Centers for Disease Control and Prevention. The numbers have appeared to be somewhere between marginally overstated and grossly exaggerated. Finally, these instincts have been supported by a peer-reviewed scientific paper.
On October 12 of last year, a 25-page paper in Science, Public Health Policy and The Law was released that explained, in detail, the foundational reason for the publicly announced fatality numbers and the mechanism by which they were derived. This paper, authored by ten members of the scientific community is titled “Covid-19 Data Collection, Comorbidity & Federal Law: A Historical Perspective.” At the heart of the issue is the CDC and its methods for collecting and reporting the data, a model which was changed radically in the face of the current crisis.
In 2003, the CDC authored and released guidance documents used by the forensic community titled Medical Examiners’ and Coroners’ Handbook on Death Registration and Fetal Death Reporting along with “Physicians’ Handbook on Medical Certification of Death.” These have been the standard for the certification of fatalities, nationwide, for seventeen years. However, in March of 2020 things changed.
The National Center for Health Statistics released Covid-19 Alert No. 2 which changed the way deaths with connections to Covid 19 were reported and tabulated. The revealing line in the alert is in the last paragraph: “Covid-19 should be reported on the death certificates for all decedents where the disease caused or is assumed to have caused or contributed to death.” [emphasis added] This changed the parameters for the inclusion of deaths from Covid, raising the numbers substantially.
A table in the October study titled “Comparison of Total Covid-19 Fatalities Based Upon Different Reporting Guidelines” demonstrated that deaths through August 23rd of 2020 were higher by over 16 times as compared to the traditional definition. If the reporting of these deaths followed the CDC guidebook from 2003, the number of Covid deaths would have been 9,684. However, utilizing this new reporting and classification method that exclusively applied to Covid-19, the numbers reported by the media.
FONTE: https://www.americanthinker.com/blog/2021/04/faulty_covid_death_numbers_explained.html
L’Apocalisse nei Simboli
Ci sono almeno due simboli delle massime rappresentazioni di potere che colpiscono più di altre l’immaginazione collettiva.
Una è quella di papa imbroglio che celebra funzioni cristiane (come la Pasqua del 2020 la più importante del cattolicesimo) in una immensa piazza San Pietro vuota.
L’altra è quella dell’insediamento del 46º presidente degli Stati Uniti d’America Joe Biden il 20 gennaio 2021 che giura davanti a una pizza piena, ma solo di bandierine americane, come a testimoniare che ne l’uno, ne l’altro vogliono dominare in presenza della popolazione. Perché la popolazione che pretendono di governare per costoro non è nemmeno una controparte considerabile alla pari con cui stabilire patti, fare politica, trattare.
Sanno perfettamente che nessuno li ricorderà con piacere, che non sono venuti a portare qualcosa di positivo se non lo svuotamento del senso, delle piazze, della relazione umana, dell’essere umano.
Si dicono servitori del Bene, paladini di una guerra che è delle parole, del “politicamente corretto” ma lessicalmente ributtante, sistematico, oppressivo, ottuso come solo un intelligenza artificiale potrebbe essere. Infatti sono come macchiette, artifici, comparse viscide di una farsa da teatrino delle marionette.
Tantissimi tra i nostri amici, conoscenti e parenti li seguono e forse in fondo li venerano un po’ vergognandosi, perché l’inconscio gli suggerisce la loro natura, come quelli che venerano quella cosa che striscia nei buchi della terra, puzza di marcio e passa il tempo a cumulare tesori che noi conociamo come “il drago“, l’alfiere di Moloch.
Mai l’umanità è arrivata a un punto così in basso della sua perversione. Mai ci siamo trovati nella marea di individui che non riescono a elevarsi al di sopra della Bestia, tant’é che portano in giro il cane pensando “lui si che è il mio migliore amico“. Bravo, la prossima volta che rinasci sarà per ciò un bene per tutti che tu divenga quel cane.
Amo gli animali, ma l’umanità è un altra cosa anche se è parte integrante del mondo dei viventi, come i vegetali o i miceti, appartiene a una altra categoria, quella degli “autocoscienti” e in particolare se riesce a ritrovare la sua origine, dei perfetti.
Cos’altro pensate che sia l’elevazione spirituale se non ritrovare la propria origine perduta? La normalità non la conosciamo perché siamo nati in un INCUBO.
Non metaforicamente, ma fisicamente. E’ un incubo perché di noi, del nostro scopo, della nostra stessa esistenza, non ricordiamo niente. Dalla nascita alla morte, vaghiamo per la terra in cerca angosciante della nostra natura, che qualcosa o qualcuno ci ha strappato prima ancora di nascere.
A parte momenti in cui pare lasciarci un poco in pace, perché ci lascia allevare i figli, trovare nutrimento, riparo e magari pure una parvenza di divertimento che è quasi sempre sballo, distrazione, incoscienza, l’angoscia incombe come un Ombra, terribile, implacabile, persistente. Puoi ballare per giorni, ubriacarti una vita, assumere tutti gli psicotropi che vuoi legalmente o illegalmente, stare al cinema per settimane, invecchiare davanti alla TV, sperare di lottare per un ideale, per un tozzo di pane, per i tuoi diritti, ma l’angoscia puoi solo fare finta di non sentirla.
Come ti fermi ti assale.
Allora maledici il mondo, il prossimo, Dio, qualsiasi cosa pur di placare quel senso infinito di VUOTO che avanza. Di nuovo, il vuoto delle piazze, della fede, dell’Amore per il prossimo, di un senso che non riesci a dare alla Vita.
Non ti accorgi che a ben vedere, il problema non sta fuori, in quello specchio che è il Mondo dove non possiamo che vedere riflessa la nostra immagine più inaccettabile, decrepita, sporca e cenciosa. L’immagine delle brame umane che risucchiano tutta l’attenzione tanto sono ripugnanti e non ci lasciano scampo. Così, non potendo evitare di subirne il fascino abbiamo iniziato a degenerare sempre di più, sempre di più, in un ciclo perverso negativo. Cosa sono oggi i cartoni animati di successo se non ostentazione del brutto, del ributtante, dell’ignobile? Dove è andato a finire l’intento di arricchire l’animo del prossimo? Una schifezza come futurama nei nostri padri, quelli che hanno fatto la guerra, che hanno conosciuto gli stenti, le incertezze e la durezza della vita, avrebbe giustamente suscitato indignazione, perché era una generazione capace di indignarsi e di reagire. Oggi per noi quella roba è come i capelli lunghi per gli hippy negli anni ’60, una forma di ribellione VUOTA. Faceva vomitare la pretesa di rivendicare la bestialità instintuale come “libertà ribelle più intelligente” in quell’epoca, ancora più repellente è la violenza sadica ostentata ugualmente come libertà d’espressione “intelligente” nei cartoni animati moderni. Come se essere sfottuti di continuo per essere dei sadici pervertiti di merda, sia per noi un vanto.
Noi, i perfetti, ridotti a meno di Ombre che rantolano nel Buio della tana del drago al solo scopo di farlo ridere.
FONTE: https://comedonchisciotte.org/forum/opinioni/lapocalisse-nei-simboli/
Vaccino eterno, e niente cure: è il patto del 12 aprile?
Occhio alla data: 12 aprile. Il primo a evocarla, in Italia, era stato Nicola Bizzi. Tema: l’inizio della fine, per le restrizioni Covid, sulla base di un patto che sarebbe stato siglato, lontano dai riflettori, a fine 2020. Ora una conferma viene dal Regno Unito: è stato Boris Johnson in persona, dopo aver stra-vaccinato gli inglesi, ad annunciare che il 12 aprile la Gran Bretagna avrebbe riaperto i battenti, compresi quelli notturni dei pub. L’effetto del patto evocato da Bizzi? L’accordo – dice lo storico, editore di Aurora Boreale nonché massone e in contatto con fonti di intelligence – avrebbe riguardato la stessa piramide del grande potere, spaccatasi in due: al progetto originario dei “falchi” (prolungare l’emergenza “sanitaria” fino al 2023) si sarebbe opposta la fazione delle “colombe”, capitanata dai Rothschild, decisa a far cessare l’allarme in tempi più ragionevoli. Precisamente, a partire dal 12 aprile 2021. La contropartita, concessa ai “falchi”: il business planetario dei vaccini, al quale peraltro sembra aver dato il via libera lo stesso Mario Draghi, che dichiara di vedere nella vaccinazione di massa l’unica possibile via d’uscita dal Covid.
Come dire: vi lasciamo fare, comprandovi tonnellate di dosi vaccinali, a patto che voi – a vostra volta – non ostacoliate la normale ripresa dell’economia e, in generale, della vita sociale. E’ davvero così? Certo, la precisione della “profezia” di Bizzi fa pensare: 12 aprile. Quanto a Draghi, se un simile tacito accordo esistesse davvero, potrebbe non essere incoerente con l’intera traiettoria dell’azione politica dell’ex capo della Bce. Gioele Magaldi lo presenta come “neoaristocratico pentito”, supermassone già ai vertici dell’élite europea del rigore, ma poi convertitosi e tornato ai lidi keynesiani dell’economia democratica (alla cui scuola, peraltro, il giovane Mario era cresciuto, sotto la guida del professor Federico Caffè). Come si sta muovendo, Draghi? E’ abbastanza evidente: cerca di traghettare l’Italia fuori dai guai, ma senza smascherare gli “inventori” dell’emergenza che ha quasi schiantato il paese, da un lato imponendo il lockdown e dall’altro evitando (per un anno intero) di curare i malati a casa, col risultato di provocare l’inevitabile corsa all’ospedale, spesso fuori tempo massimo.
Pare sia davvero il maggiore dei tabù: fior di medici anche italiani, come i volontari dell’associazione “Ippocrate”, dimostrano che – intervenendo tempestivamente, e con i farmaci giusti – dal Covid si guarisce praticamente sempre, evitando di finire all’ospedale. Il dottor Mariano Amici, di Roma, vanta un bilancio invidiabile: 2.000 pazienti guariti, in un anno, grazie alle cure precoci. Nessuna perdita, nessun ricovero. Chiave di volta: le terapie domiciliari, somministrate in modo sollecito. Domanda: ma se dal Covid si guarisce così, che senso ha vaccinarsi? E che senso ha costringere alla vaccinazione i sanitari, quando sono gli stessi scienziati “vaccinisti” ad ammettere che il vaccino non impedisce al vaccinato di restare contagioso? Poi ovviamente ci sono le incognite di questi farmaci, che in realtà sono “preparati genici” ancora sperimentali: com’è possibile imporne l’inoculo, per legge? E Mario Draghi – sponsorizzato dalla massoneria progressista – non avrebbe dovuto essere il garante di certi diritti, a presidio delle libertà sospese nel tragico 2020?
Non solo: prende quota il “partito” che vorrebbe imporre il “pass vaccinale”. Corollario: dato che i vaccini genici per il Covid garantiscono un’ipotetica copertura solo per qualche mese, si prefigura una sorta di campagna vaccinale permanente, teoricamente prolungabile in eterno, per la gioia di Big Pharma. E’ sempre l’effetto del patto segreto di cui parla Bizzi? In altre parole: all’emergenza eterna si è sostituito l’obbligo vaccinale perenne? Sono domande a cui prima o poi occorrerà rispondere, se si immagina una vera “ripartenza” per il sistema-Italia. Oltretutto, il “corona” non sarà certo l’ultimo virus ad apparire sulla scena: e se si instaura la prassi corrente che cosa facciamo, ogni volta il lockdown in attesa del “salvifico” vaccino? Trattasi, evidentemente, di una deformazione logica, prima ancora che politica o sanitaria.
Dall’incubo – ormai appare evidente, agli osservatori attenti – si uscirà in un solo modo: chiarendo com’è facile, sotto controllo medico, guarire presto e bene. Ma dirlo, ancora, non si può. E lo stesso Draghi finge di non saperlo. Il che la dice lunga, probabilmente, sul genere di minaccia che incombe: se ai “falchi” non si lascia il “premio di consolazione” del vaccino, dobbiamo aspettarci il peggio? In questi termini, la missione di Draghi (dando per buono il suo impegno per il paese) si mostra estremamente ardua: come se l’Italia non potesse permettersi di svelare il trucco, dovendo innanzitutto uscire dal ruolo di Cenerentola europea, al quale l’hanno relegata gli oligarchi dell’austerity. Quasi che Draghi, tra le righe, dicesse: posso mettercela tutta per far cessare il rigore, ponendo le basi per un cambio di paradigma storico, a livello europeo; ma non chiedetemi anche di denunciare il raggiro del “terrorismo sanitario”. Non ce la possiamo ancora consentire, dunque, la verità sul Covid?
In realtà, non se la consente quasi nessuno, in Europa: Germania e Francia sono allineate alla consegna del coprifuoco, e la Gran Bretagna – che in modo quasi spavaldo voleva puntare sui contagi in libertà per raggiungere l’immunità di gregge, è stata ricondotta all’ovile (è il caso di dirlo) con “l’incidente” che ha portato Boris Johnson in serio pericolo di vita. A cantare tutt’altra canzone sono paesi come la Svizzera e la Svezia, per non parlare della Russia: la prima, con Putin, a decretare l’uscita dall’emergenza. Ancora una volta: decisioni politiche, non sanitarie. Sembra che tutti la conoscano, la “vera verità”, ma non se la possano permettere: passi, che a subire il copione fosse – in Italia – un signor nessuno come l’imbarazzante prestanome Giuseppe Conte, prono a qualsiasi diktat. Se però ad accodarsi all’ipocrisia generale è anche un certo Mario Draghi, tuttora presidente del Gruppo dei Trenta, significa che la partita – ancora pienamente in corso – ha un rilievo che probabilmente non è sbagliato definire storico.
ATTUALITÀ SOCIETÀ COSTUME
E’ davvero così difficile?
E’ davvero così difficile comprendere che non è possibile che una parlamentare venga perseguita per avere detto che “solo le donne partoriscono” (sta capitando in Norvegia)?
Che è assurdo permettere a persone con corpi di uomini intatti partecipare alle competizioni sportive femminili (sta capitando in tutto il mondo)?
Che è molto pericoloso per le donne consentire a uomini che per ragioni di comodo si dichiarano donne di essere detenuti nelle carceri femminili (sta capitando in California, 270 richieste di trasferimento)?
Che uno che si percepisce donna da 15 mesi non può pretendere, come sta facendo, di entrare in un convento femminile (sta capitando in Olanda)?
E qui menzioniamo solo fatti degli ultimi giorni.
Che non si possono imbottire di ormoni bambine e bambini di 8 anni, rendendoli rachitici e infertili, solo perché mostrano comportamenti non perfettamente conformi al loro sesso, come peraltro è capitato a quasi tutte-i noi (sta capitando in tutto il mondo)?
E che non è accettabile che a Vancouver, Canada, un padre sia stato incarcerato per essersi opposto ai puberty blockers somministrati alla sua bambina? (oggi si terrà una manifestazione in solidarietà dell’uomo, già minacciata dai transattivisti).
No, non è difficile. Chiunque abbia buon senso lo capisce. Questa è l’identità di genere, nella sua versione non glitterata e fashion. Il fatto è che l’identità di genere sta al centro del ddl Zan, e noi vogliamo parlarne. Ma lui no. Lui si sottrae a ogni confronto.
Dalla pagina Facebook di Marina Terragni
FONTE: https://loccidentale.it/e-davvero-cosi-difficile/
BELPAESE DA SALVARE
Riapriamo l’Italia, whatever it takes
Diciamoci tutta la verità: il Paese è allo stremo. E’ economicamente abbattuto, è socialmente lacerato, è psicologicamente sfiancato. Le categorie più esposte alle conseguenze di questa lunga crisi, mai così grave dal dopoguerra, hanno esaurito ogni margine di resistenza. E le stesse misure di contenimento vanno perdendo di giorno in giorno significato per il semplice fatto che anche i più ligi osservanti delle regole iniziano a interrogarsi sulla loro efficacia e soprattutto sulla loro sostenibilità.
Insomma, quell’altra pandemia che è conseguenza della prima e che rischia di produrre effetti destinati a durare molto più a lungo, per dirla con uno dei termini epidemiologici con i quali in quest’anno di Covid abbiamo assunto dimestichezza, sembra essere giunta al suo “plateau”. E, per essere coerenti con il proposito iniziale di sincerità, finora in termini di restrizioni trovare sostanziali differenze con quanto fatto dal precedente esecutivo non è semplice. Anzi, quando esse si scorgono, sono in senso ulteriormente restrittivo.
Oltre a dirci la verità, il secondo sforzo che è necessario compiere consiste nel non applicare alla lettura della situazione quell’odioso criterio dei due pesi e delle due misure che ti fa vedere tutto nero quando sei all’opposizione e giudicare con maggiore indulgenza l’operato di un governo che si è scelto di sostenere. Insomma: se Draghi facesse le stesse cose del governo Conte – con tutte le attenuanti che è possibile riconoscere a un avvocato digiuno di politica e a una squadra improvvisata allestita per la serie C trovatisi a giocare da un giorno all’altro in Champions League – bisognerebbe dirlo senza infingimenti e senza giri di parole.
Il fatto è che – e questo è il tema di queste brevi considerazioni – a noi non pare che Draghi faccia le stesse cose del governo Conte. Certo, la navigazione e la narrazione del suo esecutivo scontano fin qui il peccato originale di un eccesso di continuità nella gestione del contenimento sanitario, con il premier che sembra aver puntato tutte le sue fiches da un lato sul Recovery, dall’altro sul piano vaccinale. Ma proprio qui sta il punto.
L’impressione, per la prima volta da un anno a questa parte, è che il tempo di chiusura finora imposto se possibile anche con maggiore durezza rispetto al periodo precedente, sia stato impiegato in un serio tentativo di portare presto il Paese fuori da questo lungo tunnel. E, anche allargando lo sguardo rispetto all’orizzonte Covid, il cambio di passo è evidente. Siamo pronti a riconoscerlo, anzi lo riconosciamo volentieri e non senza sollievo. Purché per la fine di aprile si tracci una linea e si inizi la raccolta del seminato, perché l’Italia davvero non ce la fa più.
Tiriamo rapidamente qualche somma. A febbraio, durante la fase delle consultazioni, Mario Draghi aveva ripetutamente espresso il proposito di sottoporre il Paese a una cura antidepressiva, presupposto per l’avvio della ripartenza economica. Compiute le pratiche dell’insediamento, e smaltita la delusione per una squadra di governo che non era esattamente il dream team che ci si sarebbe attesi, i più avvertiti nel mondo politico e anche fra gli operatori economici avevano intuito quale sarebbe stato lo scadenzario: due mesi di ulteriori restrizioni – marzo e aprile – e intanto uno sforzo senza risparmio per pianificare una ripresa che sia duratura e non illusoria ed episodica come quella della scorsa estate.
Questo sforzo ha assunto le sembianze di un poderoso ritorno in campo dello Stato. Sul fronte Covid ma non solo: anche, sorprendentemente, sullo scenario internazionale nel quale l’ex presidente della Bce, scrollandosi energicamente di dosso l’etichetta di alto burocrate asservito che una certa narrativa gli aveva cucito addosso (dimostrando peraltro di non aver compreso l’operazione del “quantitative easing”), ha rivoltato le carte nello stesso fronte europeista del quale era considerato campione indiscusso.
Mettiamo in fila qualche fatto. La sostituzione di Mimmo Arcuri con il generale Figliuolo, con la penna sul cappello al posto delle costose primule vaccinali e la sua rassicurante mimetica con le stellette (con buona pace di Michela Murgia); la nuova linea di comando nella Protezione civile e nel comparto degli apparati di sicurezza; il ridimensionamento e l’assetto più “istituzionale” del comitato tecnico-scientifico; domande (senza censure) e risposte (puntuali) al posto delle dirette Facebook con la regia di Rocco Casalino; una campagna vaccinale che tra mille difficoltà a livello di rifornimento internazionale e qualche rimpallo strumentale di responsabilità ha oggettivamente compiuto un salto – di quantità, prim’ancora che di qualità – e imboccato la via del decollo, nella speranza che ci si possa avvicinare in tempi rapidi ai livelli annunciati.
Sul versante della politica estera abbiamo assistito – piacevole sorpresa – all’avvento di un europeismo pragmatico e orientato all’interesse nazionale in luogo dell’europeismo fideistico e acritico interpretato dalla sinistra, migliore benzina per un anti-europeismo irrealistico e altrettanto inconcludente. In alcuni frangenti, ascoltando Draghi tornava in mente il De Gasperi della Ced: l’Europa è un orizzonte da ricercare ed allargare se e fin quando serve all’Italia; da smentire e denunziare se quell’idea si sottomette esclusivamente agli interessi degli stati “maggiori” del Vecchio Continente.
Abbiamo ascoltato nuovamente parole che le nostre orecchie da tempo non captavano. Il ripristino di un linguaggio di verità. Sentire il capo del governo italiano definire Erdogan uno di quei “dittatori di cui però si ha bisogno”, che vanno “chiamati per quello che sono”, rispetto ai quali bisogna essere “franchi nell’esprimere la propria diversità di vedute e di visioni della società” e anche “pronti a cooperare per assicurare gli interessi del proprio Paese”, trovando “il giusto punto di equilibrio”, è stata una ventata di realpolitik dalla schiena dritta nel momento nel quale c’è chi addirittura torna a vagheggiare la possibilità di un ingresso della Turchia in Europa, ribadendo un errore che ha contribuito non poco a peggiorare i nostri rapporti con un Paese che, se considerato per quello che è, resta un interlocutore indispensabile. E ancora. L’esercizio abbondante del golden power per proteggere i nostri settori strategici dalle incursioni cinesi; la riaffermazione dell’atlantismo come vocazione irrinunciabile; l’applicazione di clausole previste dagli accordi europei con le case farmaceutiche che a livello di Unione erano rimaste lettera morta; l’avvio di contatti diretti con i produttori di vaccini per ovviare ai ritardi comunitari.
Certo, non intendo tratteggiare un quadro idilliaco né far finta di non vedere i prezzi pagati all’ideologia e alla tattica politica: dalla scelta di assumere un “rischio calcolato” in nome di un’analisi costi-benefici per riaprire subito le scuole rifiutando di fare altrettanto con le attività economiche, alla difesa d’ufficio delle strutture governative in alcune stravaganze della campagna vaccinale che hanno portato a immunizzare giovani ricercatori in smart working lasciando gli anziani in lista d’attesa. Tema rispetto al quale, tuttavia, va anche detto che a fronte di linee guida nazionali non sempre chiare, fra regione e regione vi sono state differenze di comportamento abissali (anche se, pur sapendo tutto ad esempio dei problemi avuti in Lombardia, incredibilmente non si parla mai di regioni come la Toscana… misteri della fede!).
Quel che voglio dire è che l’apertura di credito fin qui tributata al presidente Draghi è solidamente motivata. Purché dalla seconda metà di aprile, trascorsi i fatidici due mesi, si prenda atto che il Paese è stremato e qualsiasi siano i frutti della semina fin qui compiuta si consenta all’economia e anche alla socialità di ricominciare a respirare. In misura proporzionata ai dati epidemiologici (che andrebbero forniti in modo talvolta più rigoroso, ad esempio senza sparare “718 morti” se quel numero comprende anche dati dei giorni precedenti…), ma anche consapevole del reale funzionamento e delle indicibili sofferenze del mondo produttivo e soprattutto di quella economia di prossimità e del suo enorme indotto che più di ogni altro hanno pagato il prezzo di questa pandemia.
Va bene lo scostamento di bilancio, vanno bene i ristori, va bene la semplificazione delle procedure rispetto al passato riscontrabile anche dalla semplice lettura comparativa dei testi dei decreti. Ma a fronte di una crisi di queste dimensioni non c’è ristoro che tenga. L’unico ristoro è ricominciare a lavorare, con protocolli di sicurezza per adeguarsi ai quali le attività hanno speso molto in termini economici e organizzativi, e con la consapevolezza che – anche dal punto di vista della sicurezza sanitaria – è meglio assecondare in misura progressiva e regolata il bisogno incontenibile di vitalismo economico e sociale che ostinarsi a reprimerlo sapendo che esso è ormai tracimante e troverà forme assai meno controllate per esprimersi, vanificando gli sforzi di contenimento del contagio senza dare alcun sollievo all’economia.
Insomma, presidente Draghi: fin qui ha dimostrato di non voler sprecare il tempo supplementare di sacrificio imposto ai cittadini. Ora consentiamo al Paese di ripartire, e noi le saremo accanto. Riaccendiamo l’Italia. Whatever it takes.
FONTE: https://loccidentale.it/riapriamo-litalia-whatever-it-takes/
Magaldi: strage di Stato, indagate Speranza e complici
«Ha tentato in modo arrogante e mafioso di occultare una verità che un funzionario onesto aveva evidenziato». Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, attacca il ministro Roberto Speranza: così come lo stesso Conte, non poteva essere all’oscuro delle inaudite manovre messe in atto per insabbiare il dossier di un valente funzionario dell’Oms, Francesco Zambon, che all’inizio della primavera 2020 aveva inutilmente segnalato l’assenza di un piano pandemico aggiornato. «Mi complimento con Massimo Giletti, che l’11 aprile nel suo programma su La7, “Non è l’arena”, ha riassunto la vicenda: Ranieri Guerra, già direttore generale del ministero della salute e dunque responsabile dei piani pandemici, prima non ha aggiornato il piano per l’Italia, e poi – divenuto direttore vicario dell’Oms – si è vantato con Silvio Brusaferro, neo-portavoce del Cts, di aver intimato a Zambon di cambiare le carte in tavola, arrivando infine a far ritirare il rapporto». Per Magaldi, «anche Brusaferro dovrebbe essere costretto a dimettersi subito, per rimozione della verità e per truffa», nell’ambito di una manovra che l’ha visto agire come «compagno di merende di Ranieri Guerra e dello stesso Goffredo Zaccardi, capo di gabinetto del ministro Speranza».
Insiste Magaldi: non è immaginabile che Speranza non fosse al corrente dei fatti, impegnato com’era a «promuovere la logica del terrore e delle morti, molte delle quali evitabili con un piano pandemico aggiornato e prontamente applicato, quindi con una ben diversa capacità di gestione dell’emergenza». Conclusione: l’esponente di Leu «non può più essere ministro, dopo questa storia: Draghi non può permettersi di continuare ad avere un “ministro della malasanità” come Speranza, che mi auguro venga anche processato, specie dopo le verminose comunicazioni tra Guerra e Brusaferro, mostrate in primis da Giletti: sono parte di un comportamento non scusabile e non accettabile, che probabilmente presenta anche profili penali». Esponente della massoneria sovranazionale progressista, Magaldi preme su Draghi: «Ho informazioni ancora più esplosive su quanto è accaduto e sta ancora accadendo», premette. «Credo che Draghi sia sempre più incline a meditare: non solo sulla gente da cui è circondato e di cui deve liberarsi al più presto, ma anche sul paradigma finora adottato». Sottolinea il leader “rooseveltiano”: «Ancora prima della salute viene la libertà: se tuteli la libertà e persegui la verità, allora tutelerai anche la salute. Invece, quelli come Speranza – che hanno messo al primo posto la salute biologica e calpestato le libertà costituzionali – alla fine non si sono curati nemmeno della salute, come viene fuori dagli scandali che stanno emergendo».
Magaldi cita il saggio “Strage di Stato” (Lemma Press), scritto dal medico Pasquale Bacco e dal magistrato Angelo Giorgianni. «Il libro dà conto di verità inaudite e ben documentate: ed è stato vittima di uno scandaloso linciaggio, che denota una vocazione alla menzogna, alla diffamazione e alla calunnia». Magaldi accusa Giuliano Ferrara, fondatore del “Foglio”, che definisce «preclaro esemplare di conformismo e piaggeria nei confronti del potere: ha agito da cialtrone, criminalizzando quel libro senza neppure averlo letto, altrimenti si sarebbe accorto che non contiene affatto gli accenti “negazionisti” che gli ha attribuito». In altre parole, Ferrara «ha fatto il processo alle intenzioni», avvezzo a dare del “negazionista” «a chiunque si discosti dal pensiero unico». Magaldi critica anche il magistrato antimafia Nicola Gratteri, che ha preso le distanze da quel libro nonostante ne avesse firmato la prefazione: «E’ stato costretto all’abiura perché evidentemente non ha la stoffa di Giordano Bruno. Come diceva Manzoni di Don Abbondio: uno il coraggio non se lo può dare». Magaldi conferma la denuncia n contenuta nel libro di Bacco e Giorgianni: «La vicenda Covid è stata una strage di Stato, che peraltro è tuttora in corso: con omicidi, sequestri di persona e atti di violenza privata». Il paese sta crollando, non certo risollevato dai magri “ristori” di Draghi: «Un commerciante a Scanzano ha scritto: “Se mi private della possibilità di lavorare, non mi sento più in dovere di pagare le tasse”».
La rabbia sociale è in aumento: «Ormai, intorno a noi vediamo macerie, economiche ed esistenziali. E c’è gente che ha visto morire amici e parenti che potevano essere assistiti diversamente, morti perché mal curati e non perché il virus, di per sé, fosse così letale». Altro scandalo, infatti, la perdurante mancanza di un protocollo sanitario nazionale per le cure precoci, a domicilio: «Tutte vie non percorse: si è deciso di affidarsi al solo vaccino, che non è una terapia ma una semplice profilassi preventiva. Speriamo almeno che sia efficace». Tra le spine degli ultimi giorni, anche l’obbligo vaccinale per i sanitari: una sorta di Tso, con la somministrazione di farmaci recentissimi e ancora sostanzialmente sperimentali. «Il Movimento Roosevelt – annuncia Magaldi – si batterà per assistere i medici “renitenti”, in eventuali azioni legali: deve restare inviolato il diritto del cittadino a non essere “violentato” sul piano terapeutico, come invece facevano i nazisti con i loro prigionieri, ridotti a cavie». Probabilmente, non sono molti i medici e gli infermieri contrari a vaccinarsi. Però il governo, osserva Magaldi, sembra avere paura proprio della loro protesta: «Il potere costituito teme sempre gli eretici, e a maggior ragione – come in questo caso – se i dubbi sono espressi dai sanitari: si rischia di compromettere il conformismo “militare” complessivo che sorregge il paradigma “terroristico”, vigente da ormai un anno».
Purtroppo, conclude il leader “rooseveltiano”, «su tutta questa vicenda pesa come un macigno il fatto che siano saltati alcuni principi costituzionali: prima vanno ripristinati quelli». Ormai, aggiunge, «la libertà di pensiero e di espressione è sempre più soffocata, anche sui social media». Urge l’adozione di un cambio di paradigma, insiste Magaldi: aiuti immediati e sostanziosi per le aziende in agonia, e finalmente cure efficaci e tempestive per chi contrae il Covid, senza quindi dover più ricorrere (tardivamente) all’ospedale. Prima ancora: «Il cittadino deve restare libero di scegliere di rischiare: tra le possibili conseguenze del coronavirus e le possibili conseguenze di un vaccino». Mario Draghi? «Credo che debba studiare di più, sul piano del rapporto tra effettiva tutela della salute e rispetto di quei principi democratici e liberali, in nome dei quali ha giustamente dato del tiranno al “fratello contro-iniziato” Erdogan». Primo passo, dunque: «Fare pulizia, come già avvenuto nel caso di Arcuri, anche nella catena di comando della sanità». Un ambiente che Magaldi vede «affollato di mascalzoni che devono andarsene a calci nel culo, indagati ed eventualmente condannati dalla magistratura: non possono essere loro, i dispensatori della verità di Stato, in una faccenda seria come quella del Covid».
CONFLITTI GEOPOLITICI
Rivolte unioniste in Irlanda del Nord
Dal 4 aprile 2021 in Irlanda del Nord sono ricominciate le rivolte.
La Brexit ha fatto decadere le clausole dell’Accordo di Pace del Venerdì Santo (Good Friday, per gli unionisti) [1].
Però i termini del conflitto si sono rovesciati dopo il 1998. Il Regno Unito non vuole più mantenere a ogni costo l’occupazione dell’Irlanda del Nord e ha perciò acconsentito a non ripristinare la frontiera doganale tra quest’ultima e la Repubblica d’Irlanda, ma a istituirne una tra Irlanda del Nord e Gran Bretagna. Sicché ora sono i lealisti alla Corona a ribellarsi.
Il primo ministro del Regno Unito, Boris Johnson, esorta alla calma, affermando che il problema non potrà essere risolto con la violenza o la criminalità.
La situazione potrebbe esplodere con la commemorazione, il prossimo 10 luglio, della battaglia di Boyne (1690), con cui gli orangisti celebrano la vittoria del protestante Guglielmo III di Olanda sul cattolico Giacomo I d’Inghilterra, che sancì la divisione confessionale dell’Irlanda.
NOTE
[1] «La Brexit rilancerà la guerra in Irlanda?», Rete Voltaire, 17 novembre 2017.
FONTE: https://www.voltairenet.org/article212628.html
“State lontani”. La Russia manda un messaggio inequivocabile verso la presenza navale statunitense nel Mar Nero.
Aprile 13, 2021 posted by Giuseppina Perlasca
La Russia ha perso la pazienza rispetto alla presenza degli USA nel Mar Nero che viene ritenuta inutile e pericolosa, come affermato direttamente dal vice ministro degli esteri di Mosca, Sergei Ryabkov.
“Non c’è assolutamente nulla da fare per le navi americane vicino alle nostre coste, questa è un’azione puramente provocatoria. Provocanti nel senso diretto del termine: stanno mettendo alla prova la nostra forza, giocando sui nostri nervi. Non ci riusciranno”
“Gli Stati Uniti sono i nostri avversari e fanno tutto il possibile per minare la posizione della Russia sulla scena mondiale“, ha affermato il vice ministro degli Esteri Sergei Ryabkov dalle agenzie di stampa russe.
“Non vediamo altri elementi nel loro approccio. Queste sono le nostre conclusioni“, hanno detto le agenzie citando.
La risposta è particolarmente dura per il mondo diplomatico, abituato a toni molto più ovattati e possibilisti. Raramente fra stati ci si rivolge in questo modo.
Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha dichiarato a marzo che giudicava il suo omologo russo Vladimir Putin come un “Killer” che avrebbe “pagato un prezzo” per la presunta ingerenza nelle elezioni statunitensi – un’accusa che Mosca nega.
Le osservazioni di Ryabkov suggeriscono che la Russia a sua volta si opporrà con forza a quella che vede come inaccettabile interferenza degli Stati Uniti nella propria area di interesse.
CULTURA
Perché è inadeguato il parallelo “pillola rossa o blu” di Matrix?
29 Marzo 2021
Come ricorderete o avrete letto, dato che la scena è stata ripresa infinite volte, il protagonista del film Matrix, Neo, riceve la possibilità da Morfeus di tornare alla quotidianità che conosce o “sapere la verità“, dolorosa, faticosa, ma “verità“.
Peccato che la verità non ce l’ha nessuno, tantomeno uno che porta il nome del dio del sonno.
Possiamo quindi superare l’intero concetto in modo simile a come suggeriva un altra scena, quella del ben più importante “Attimo fuggente“, un film che dovremo rivedere con più attenzione, perché non è tratto da un fumetto, ma dal massimo della produzione saggistica e poetica occidentale. La scena è questa QUI, quando Keating cita Frost “due strade trovai nel bosco e io scelsi quella meno battuta, ed è per questo che sono diverso” che apparentemente sembra dire la stessa cosa, ma in tono meno drammatico, invece no e ce lo chiarisce la scena del fim. Infatti quando Keating invita i ragazzi a trovare il loro modo di camminare, uno di loro non si muove. Keating gli chiede “Beh, Dalton, non partecipa?” e lui risponde “esercito il mio diritto a non camminare” dimostrando di avere capito bene la lezione, non come Neo che avrebbe solo camminato in modo più “speciale” di tutti avendo accettato la scelta come inevitabile. Cioé continuando a dormire.
Neo poteva infatti semplicemente alzarsi e andarsene o ingerirle entrambe quelle pillole. Quale effetto avrebbe conseguito? Quello di mostrare a noi che non siamo SOLO assidui bevitori di mezzi bicchieri proposti da un sistema che appare come alternativo quando è invece diversamente costrittivo (soprattutto l’imbuto percettivo del film che ci porta in quella scena, avendola caricata di alone drammatico) ma anche coloro che possono elevarsi al di sopra della condizione vigente sconvolgendone totalmente le regole, fino al punto (come ci suggerisce Jodorowsky con “la montagna sacra“) di sfondare la quarta parete, anche se si tratta semplicemente di non fare niente di quanto ci viene suggerito.
Ora, tutto questo discorso che appare astratto, mi serviva solo per dire che i bicchieri che ci vengono offerti, sono comunque sempre tutti mezzi pieni. Se non ci alleniamo a elevarci al di sopra del dramma che ci obbliga a conformarci o a essere “diversamente conformati“, non potremo fare altro che marciare attenti a quello che gli altri penseranno di noi, sia che questa preoccupazione ci occorra per lo stile standard da seguire “battendo le mani“, sia per trovarne uno che possiamo definire poi “personale” ed unico, sperando magari che divenga per tutti un nuovo standard, come suggerisce Neo alla fine del primo film con la “telefonata dalla cabina” della sua personale regia poco prima di volare via come Superman.
Bene, se per noi tutto è solo un bicchiere mezzo pieno, indipendentemente poi dalle buone intenzioni, come per Keating o Morfeus, qual’è la parte vuota a cui non prestiamo attenzione, ad esempio qui in CDC?
Una è propria delle intenzioni di chi lo gestisce. Qui non troviamo ad esempio la poesia o la commedia, a parte forse qualche vignetta ed è giusto così. L’esercizio di elevarsi non può mai provenire dalla fonte, ad esempio il Maestro, indipendentemente dalle sue buone (e per fortuna anche cattive) intenzioni. Per ciò imparare (non semplicemente avere fede) che possiamo apprendere tanto dall’avversario quanto dal benefattore lezioni importanti, è un passo difficile ma fondamentale per la nostra crescita interiore.
Un altro esempio è quello di un sito di analisi geostrategica che ho rigidato QUI sul blog di CDC, riprendendo il titolo con cui è stato pubblicato sul canale “Italia, radiografia strategica“. Il sito fa riferimento alla difesa e in particolare a quella della marina militare italiana, si nota sia per i contenuti, sia per “lo stile” delle analisi.
Ora, il nostro è un pese che si affaccia sul mediterraneo come nessun’altro paese al mondo. Rappresentiamo una lingua di terra protesa al centro di questo mare che costituisce un approdo verso l’europa (geografica prima che politica) ma anche una proiezione di potenza verso tutte le coste del mediterraneo. Siamo quindi nella posizione strategica migliore per dominarlo.
Il sito di Dario Fabbri “Limes Rivista Italiana di Geopolitica” che consiglio caldamente di spulciare (personalmente sto dando fondo a tutti i contenuti) sembra favorevole al vaccino (così come appare orientata la dirigenza militare in generale) e questo lo pone in forte costrasto con chi lotta disperatamente contro le potenti lobby americane dell’hi-tech e del farmaco.
Eppure, ci dice cose, proprio per questo, controcorrente più interessanti di quelle che normalmente troviamo in altri siti, altrettanto ricchi di spunti, come quello che cito spesso di Matteo Gracis. Capiamo bene che il distacco e l’osservazione attenta ci consente poi di zampettare tra l’uno e l’altro in modo indifferente, prendendo da ognuno quello che ci appare importante e tenendo conto di quello che invece si scontra con ciò che abbiamo fatto nostro. Non la verità, ad esempio sui vaccini che fanno bene o male, ma qualcosa che si eleva al di sopra dello scontro e che per forza di cose non si cura della verità, ma cerca confronti fertili.
Fabbri ad esempio ci dice che l’Italia se confrontata con il resto delle situazioni dei paesi anche limitrofi, non è affatto disomogenea come tendiamo a credere. Gli altri paesi che hanno una proiezione di potenza decisamente più spiccata e consapevole della nostra, se la sognano la nostra omogeneità. Precisa però che la sua non è un analisi culturale, ma geopolitica e strategica di chiara matrice militare aggiungo per puntiglio.
La visione strategica e militare, oltre ogni evidenza evidente manca platealmente qui su CDC e nonostante l’ho ribadito molte e molte volte, continua a mancare. Senza quella visione per parafrasare Fabbri “viene a mancare il punto“, cioé l’arcano motivo dietro al quale poi si osservano nel concreto azioni di governo che altrimenti rimangono completamente prive di motivazione e quindi inspiegabili. Perché ad esempio la Merkel dopo tanti anni di politica molto accorta avrebbe fatto uno scivolone così plateale da dover chiedere scusa al popolo tedesco? Bastano le proteste in piazza che tra l’altro non erano mai mancate nemmeno prima? No, perché ci manca la disamina critica della situazione geopolita e strategica che è fondamentale per capire quelle dimamiche.
Fabbri ci dice chiaramente che la politica è totalmente succube di quelle dinamiche e allo stesso modo rimangono legate a doppio filo anche le lobby economico-industriali americane che ai nostri occhi, quelli di una colonia, sembrano invece dettare legge, facendoci dimenticare come la struttura sottostante, fatta di agenzie di spionaggio, di industria e ricerca militare, di comandi strategici, sia saldamente in mani militari non da adesso, ma da sempre, perché così come ha concesso alle big-tech internet, domani può tirare fuori qualcosa di nuovo e spazzare via in un attimo le grandi industrie che sono nate attorno a questo business, rimpiazzandole con invenzioni custodite gelosamente in cassetti difesi con estrema perizia e date “in concessione” con il contagocce (come ci ha svelato Snowden tramite un preciso patto) ad altre industrie che sembrano poi sorgere come funghi dal nulla (o dai garage se preferite).
Quindi, ad esempio, la conseguenza e che se noi abbiamo internet certa difesa americana ha tecnologie che non diffonde perché all’occorrenza queste avranno valenza strategica e geopolitica sostitutiva da spendere al momento opportuno. Non ora. Perché il giorno in cui saranno spese ce ne saranno già altre sotto che ne garantiranno il superamento a tempo debito e il cui rilascio quindi non sarà mai casuale come ci viene fatto pedissequamente credere. Un altra conseguenza è quella che cita Fabbri e cioé che l’illusione di un potere economico è dato unicamente dalla condizione coloniale che sempre ha orientato poi le politiche verso una visione economicistica della prospettiva geopolitica per volontà diretta della stessa potenza centrale. Cosa che rende per forza deboli i confini dell’impero anche se ne garantisce la dipendenza succube rispetto poi la struttura burocratica che inevitabilmente regge l’impero, sia esso quello dell’antica Roma che il più recente americano.
Poi ci dice anche che l’Italia non è messa peggio di altri paesi, ma la condizione propria dell’età media molto alta, simile al Giappone in assenza di una cultura rigidamente verticale, finisce per farci mancare la nostra proiezione di potenza residua (aggiungo, avendo anche una debolissima quanto più efficace “appartenenza orgogliosa” alla propria Nazione) tanto da ridurci ad ogni confronto a fare da tappettino pulisci-scarpe per qualsiasi altro paese, al limite fantozziano del termine.
Questo fa certamente il gioco delle potenze stranere che vengono da noi a fare shopping facile, rendendo probabilmente la nostra casta politica una delle più corrotte e imbecilli del mondo. Questa però non è di certo una strategia logica e di buon senso, ne una condizione che può essere retta a lungo, come nella commedia “Arlecchino servo di due padroni” che diremmo noi, peggiora soltanto se aumentano i padroni all’infinito. La soluzione infatti della politica nostrata fin’ora è stata “se un padrone non basta, meglio averne un altro di riserva” e proviene dalla think tank di matrice fabiana legata a Dalema. Quella da cui provengono “Jinn” come Speranza per intenderci.
Questo vuol dire che @GioCo è per la guerra? No, solo che se vogliamo essere consapevoli e vogliamo il bene nostro, dobbiamo però anche essere realisti e non accettare semplicemente il mezzo bicchiere pieno o vuoto tenendo la testa tra le nuvole.
Occorre salire sul tavolo guardando dall’alto e dentro di noi.
FONTE: https://comedonchisciotte.org/forum/spazio-aperto/perche-e-inadeguato-il-parallelo-pillola-rossa-o-blu-di-matrix/
Com’erano i vicoli di Napoli?
Le case piccole e cupe, il bambino malato che invoca tenerezza dal letto, le botteghe, la denuncia, la rinuncia, l’acquaiolo malinconico, la scesa del Gigante, la Malia, ragazze preda di furieri, marinai che spariscono
«Io non ho, qui a Napoli, con chi sfogare, certe mie piccole pene, che mi pare abbiano tutta la buona intenzione di rimanersene meco alloggiate, in questa cameretta mia solitaria»
Com’erano i vicoli di Napoli, in che punto tagliava il sole dalla Marina ai Quartieri, dove faceva scuro e dove chiaro, quali voci andavano cantando o urlando a squarciagola vendendo mercanzie, scambiando insulti e passione, tutto mescolato; come si stava in un letto d’ospedale, chi assisteva e con che cura i malati, chi s’innamorava, chi cercava conforto nella magia, nella scaramanzia, nella fede.
Come si muovevano le ricamatrici di Mezzocannone, cosa accadeva (o doveva accadere la notte della befana), dove stava l’Albergo dei poveri e con quali speranze ci si finiva dentro; che voci uscivano dalle finestre di Chiaia, di Piazza Amedeo allora così tanto diverse da quelle di Corso Vittorio Emanuele; dove stavano e che s’inventavano i poveri, come si orientavano i ricchi, chi ossequiava, chi sputava, che storie nascevano lungo via dei Tribunali, quali poesie si scrivevano.
Come si moriva, come si campava, chi ammazzava, chi veniva uccisa. Tutto senza punto interrogativo, così era Napoli prima che finisse l’Ottocento, uno snodo di domande che non prevedono punto né risposta, suonate in una lingua più che musicale, antica, un misto di parole sparite e colorate.
Questo si legge nei racconti di Salvatore Di Giacomo racchiusi nel titolo perfetto Mattinate napoletane, pubblicato da poco da Polidoro editore, che prosegue il lavoro di riscoperta dei classici della letteratura partenopea, dopo Giuseppe Marotta.
«Il guardaporta dello spedale Pellegrini è un burbero rossiccio, il quale, quando in certi giorni ha infilato un soprabito che gli batte alle calcagna, tutto stinto e sparso di macchie d’olio, quando ha caricata la testa d’una tuba mostruosa, crede di essere il guardaporta di Palazzo Reale».
I racconti uscirono per la prima volta nel 1886, Di Giacomo li scrisse dopo aver abbandonato gli studi di medicina. Quello che fece fu puntare gli occhi (e dopo la penna) nel cuore della città, cogliendo dettagli, sfumature, colori, miserie, angustie, sguardi luminosi e crepe negli occhi prima ancora che nel tufo che tiene insieme Napoli.
Si tratta di quindici storie brevi o, se preferiamo, di quindici fatti, alcuni sanno di tramando, di leggenda, come se fossero passati di bocca in bocca, come la vicenda del canarino poeta, eppure Di Giacomo là stava, e che lo abbia immaginato o meno non importa; quel canarino ci arriva fresco e splendente proprio come le canzoni che l’autore ha scritto, insomma chi è che non ha mai pianto ascoltando una volta di più Era de maggio o ha sentito il cuore ringiovanire sulle note di ’E spingule francese.
Napoli sembra muoversi sotto i piedi di Di Giacomo e in fondo è così, non mi risulta che il capoluogo partenopeo sia in grado di stare fermo né può garantire stabilità. L’equilibrio lo si può trovare solo assecondandone la danza, capendo il tonfo dopo un saliscendi, avvertire il rumore di un corpo che cade o il suono della voce di una vecchia che canta.
Di Giacomo cerca la verità e la trova nella vedova che porta il figlioletto all’Albergo dei poveri perché lì avrà più possibilità, per capire quanto può essere grande la miseria, fino a dove possa condurre. Lo ha sempre fatto. Il bellissimo racconto, poi, della fiorista uccisa a colpi di coltello dal marito geloso, che quando viene portato via, alla domanda del perché lo abbia fatto risponde di domandarlo a lei. Napoli è sì «la città dolente», nella definizione di Munthe, medico svedese, ma è anche il luogo dello splendore.
E questo rapporto evidenzia Di Giacomo nei racconti: dolente/splendente, sta tutto lì. Ci si appassiona alle chiacchiere del maestro Otto Richter e si ascolta con lui Beethoven che salta fuori dalle finestre. La lingua è colloquiale, come se l’autore ci prendesse a braccetto e ci dicesse: Toh, guarda, ascolta, vivi. E dopo è una parola ricca, sapiente, capace di descrivere, di evocare gli odori che tempestano i vicoli di allora.
«Finora Mezzocannone ha avuto solo un re […] Ma questo budello Mezzocannone, questo schifoso intestino napoletano, ha pur una regina. Il re è orribile, la regina è incantevole».
Le case piccole e cupe, il bambino malato che invoca tenerezza dal letto, le botteghe, la denuncia, la rinuncia, l’acquaiolo malinconico, la scesa del Gigante, la Malia, ragazze preda di furieri, marinai che spariscono. Tutto vive e muore, e, nelle pagine di Di Giacomo, rimane, come se fosse accaduto stamattina, come se qui e ora fosse via dei Tribunali numero 105, verso la fine dell’Ottocento.
CYBERWAR SPIONAGGIO INFORMAZIONE DISINFORMAZIONE
Ecco tre nuovi bizzarri termini inglesi divenuti popolari nel corso della campagna per il referendum Brexit e durante l’ultima campagna presidenziale USA.
Woke, Post-Truth, Nothingburger
Tra l’altro, i primi due termini sono appena stati aggiunti all’Oxford English Dictionary (OED) e fanno quindi ufficialmente parte della lingua inglese.
Woke è usato da qualche decennio come aggettivo e significa “consapevole” e “ben informato” in senso strettamente politico. Grammaticalmente parlando, tuttavia, woke è un mostro, trattandosi di una forma verbale (past tense di to wake) e non di un aggettivo o un nome. Il termine è salito vertiginosamente di popolarità sulle bocche dei militanti della sinistra in tempi recenti, assumendo connotazioni più restrittive: essere woke vuole dire essere vigile di fronte a fenomeni di ingiustizia sociale e razzismo.
Curiosamente, woke è stato adottato dal movimento radicale Black Lives Matter, accusato a sua volta di razzismo per aver respinto il concetto di All Lives Matter e per altre prese di posizione integraliste e scarsamente democratiche.
Altro neologismo entrato honoris causa nell’Oxford English Dictionary è post-truth, addirittura con il titolo di Parola dell’Anno 2016.
Il prefisso post in post-truth denota ‘l’appartenenza a un periodo in cui il concetto che lo segue è diventato trascurabile o irrilevante’. Qui il significato di post è quindi più vicino a “oltre” che a “dopo”.
Presente con notevole frequenza nell’espressione “post-truth politics”, la locuzione indica delle posizioni politiche più fondate sull’emotività e sulle convinzioni personali che su basi di comprovata veridicità. Nelle parole di un giornalista britannico “la verità si è svalutata a un punto tale che ciò che rappresentava il termine di paragone, la parità aurea, nel dibattito politico è una valuta ormai priva di valore.”
E per chiudere, vi propongo l’espressione nothingburger. Letteralmente un hamburger di niente, questo slang significa qualcosa come aria fritta, una montatura priva di fondamento, tanto rumore per nulla oppure niente di niente.
Nothingburger non è propriamente un termine nuovo (c’è infatti chi lo fa risalire agli anni ’50) ma sta vivendo una nuova giovinezza nell’infuocato clima politico americano. Nel giro di pochi giorni l’ha pronunciato Van Jones, un commentatore politico della CNN, riferendosi alle isteriche accuse di collusione con la Russia mosse a Trump del partito democratico in assenza di qualsivoglia prova (un caso di post-truth politics?) Secondo Jones, che non è certo un sostenitore del presidente, si tratterebbe di una colossale montatura politico-giornalistica.
Altro utilizzatore di nothingburger è la ex-rivale di Trump, Hillary Clinton. Negli ultimi 7 mesi, la Clinton ha raccolto una dozzina di motivi alla base della sua sconfitta elettorale (ignorando quello più probabile—la pochezza della sua stessa candidatura—che a tutti gli altri è ben chiaro da tempo). Parlando appunto delle cause della sua sconfitta, Hillary Clinton ha definito nothingburger lo scandalo delle e-mail (decine di migliaia di messaggi) inviate tramite il suo server clandestino.
Se sia stato veramente tanto rumore per nulla, lo scopriremo nei prossimi mesi.
FONTE: https://theskillsfarm.com/neologismi-di-tendenza/
di Stefano Vespo
comedonchisciotte.org
“Ormai non c’è più bisogno di ragionare sulle prove fornite dagli esperti:
basta raccontare la propria esperienza.
È il trionfo dell’indignazione, l’atrofia della discussione razionale.
Il risultato è una cultura fortemente polarizzata,
che promuove il tribalismo e l’autosegregazione”
Geert Lovink, Nichilismo Digitale.
Il potere dell’informazione
Il nucleo autentico del processo politico e sociale che stiamo vivendo è l’informazione. Essa si mostra non soltanto come un vero e proprio potere, ma come il potere più forte, di gran lunga superiore a quello politico, le cui dimensioni e il cui raggio d’azione sono da tempo globalizzate. Infatti, chi detiene in ultima analisi questo potere è un gruppo ristretto di aziende che prosperano grazie al monopolio del settore dell’informatica, e i cui affari non conoscono confini. Si tratta di un settore dell’economia che da circa vent’anni ha raggiunto il primato su tutti gli altri. Un settore che ha incarnato la nuova forma di capitalismo definita da Shoshana Zuboff capitalismo della sorveglianza, il quale prospera grazie all’enorme massa di dati fornita quotidianamente da noi utenti connessi alla rete. L’informazione è un tutt’uno con questo settore dell’economia, ne incarna la necessità di controllo e condizionamento. Ha finito per avere a disposizione strumenti talmente pervasivi e capillari da trasformarsi in strumento di orientamento dell’opinione pubblica, di vero e proprio modellamento dei comportamenti, con una efficacia mai avuta prima d’ora.
Chi detiene il potere dell’informazione innanzitutto è in grado di orientarne l’intero apparato: dalle televisioni, alla carta stampata, a internet, imponendogli un’unica direzione, un unico scopo. Manipolare e dirigere l’opinione pubblica è l’essenza di tale potere, mostrando e amplificando i fatti, oppure sminuendoli e oscurandoli. Anche nel fornire interpretazioni dei fatti, esso presenta all’attenzione della gente una molteplicità di opinioni spesso contrastanti e senza alcun vaglio critico: si mescolano pareri di esperti autentici con opinioni di ciarlatani. In tal modo, il potere dell’informazione riesce ad abolire ogni differenza tra verità e falsità: così si diffonde la convinzione che non si possa mai riuscire a distinguerle. Piuttosto che pensare che questa sia una condizione creata ad arte dall’informazione, il pubblico è portato a credere che sia uno stato naturale delle cose. La confusione non è il solo effetto: da essa nasce la convinzione che sia impossibile esercitare alcuna critica da parte del pubblico. L’informazione ha rinunciato a qualunque tipo di vaglio, in nome di una assoluta libertà, di una assoluta uguaglianza, che non distingue più tra opinioni infondate e idee autentiche. Il pubblico, in balia di questa assoluta libertà dell’informazione, si convince che non abbia senso esercitare alcuna riflessione critica.
È facile comprendere che un simile concetto di libertà, nel quale è assente anche il più elementare principio correttivo, si muta immediatamente in tirannia. L’informazione finisce per diventare un mero stimolo emotivo, fomentatrice di reazioni irrazionali, in cui non contano più i fatti o l’autorevolezza delle opinioni, ma l’efficacia simbolica delle parole, degli slogan, delle immagini. A ciò si aggiunge la frammentarietà nella presentazione delle notizie: i fatti sono sempre irrelati, legati all’immediatezza, e solo con fatica si riesce a ricostruire una connessione tra di loro. Il quadro d’insieme resta sempre per lo più oscuro. Ma il mettere assieme, lo stabilire connessioni è la caratteristica più propria della riflessione critica.
Ecco quindi che, a livello sociale, piuttosto che un dibattito costruttivo, un confronto razionale tra idee, nascono fazioni, schieramenti: ogni questione diviene divisiva, crea gruppi opposti il cui unico scopo è quello di odiarsi a vicenda.
Attualmente i due schieramenti sono quello di chi inizia vagamente a sospettare qualcosa, ma senza avere ancora ben chiaro il quadro complessivo di quello che sta succedendo, guidato unicamente da una istintiva difesa della propria libertà personale; e quello di chi crede in modo timoroso e passivo, avendo per stanchezza e disperazione capitolato di fronte alla negazione sistematica di ogni certezza, all’impossibilità di esercitare qualunque facoltà di critica.
Questo potere, privo com’è di ogni limitazione, di qualunque messa in discussione sul piano del diritto e della politica, ha attualmente eroso ogni altro diritto. Le libertà personali, come il diritto alla libertà di movimento, o alla scelta della cura sanitaria; i diritti sociali, come il diritto al benessere economico, all’istruzione, o alla salute; le stesse garanzie costituzionali, dal momento che i poteri dei singoli amministratori locali eccedono sistematicamente la sfera delle loro competenze, generando un’abitudine all’abuso alla quale ormai ci siamo assuefatti.
Sul piano del diritto, ovvero della difesa di quei diritti secolari messi in crisi dal potere dell’informazione, le sentenze dei giudici e le pronunce dei tribunali possono ben poco: come si vede sempre più spesso, vengono semplicemente ignorate nelle disposizioni emanate dall’apparato politico. Il quale si trova ridotto a una mera burocrazia: un apparato che vive grazie al sostegno che il potere dell’informazione gli conferisce e che mette al suo servizio la propria organizzazione. Tale apparato utilizza oramai il linguaggio fortemente emotivo e simbolico dell’informazione, avendo rinunciato a qualunque riflessione autenticamente politica.
Ma su cosa si fonda il potere dell’informazione? E soprattutto a quale tipo di violenza ricorre per imporsi, dal momento che ogni potere ha bisogno di un sistema di coercizione? Il suo potere si fonda unicamente sul numero delle persone che riesce a orientare, di cui riesce a plagiare le opinioni. Tale potere non può esercitare direttamente la violenza: ha necessità di non scoprire i propri scopi, il proprio gioco, pena la crisi di qualsiasi efficacia. La violenza viene così demandata allo scontro sociale: il controllo reciproco, la delazione, al limite, la violenza aperta sono atteggiamenti messi in atto tra i gruppi sociali, fomentati all’interno della società stessa. Basti pensare a come vengano dipinti dall’informazione ufficiale coloro che non si assuefanno alle limitazioni e alle imposizioni: sono apertamente definiti causa del contagio, ovvero “untori”. E storicamente la sorte degli untori è stata terribile: alla condanna e all’annullamento fisico sono sempre seguiti la diffamazione e l’edificazione di “colonne infami”, che conservavano per i posteri la memoria del loro abominio. Colonne che solo molto tempo dopo, quando le società erano ormai ritornate alla consueta lucidità, venivano rimosse con vergogna, considerate esempio di oscurantismo del passato. Un passato che tuttavia ritorna troppo spesso!
La possibilità di resistere
Ormai, anche il semplice uscire fuori casa comporta una lotta con noi stessi, uno stato d’ansia, una vaga angoscia. È qualcosa di impercettibile ma costante. Le mascherine, tenacemente incollate sulle facce di chi ci circonda, ricordano a tutti che non siamo più padroni delle nostre scelte: uscire fuori casa e camminare per la strada non è più un atto libero, perché sentiamo che può essere revocato in ogni momento, con una discrezionalità superiore a qualsiasi legge; perché in ogni momento possiamo essere soggetti a un controllo, a una interrogazione. E in molti oramai quell’esame della propria coscienza se lo fanno da soli. Ogni nostro passo è sospetto innanzitutto a noi stessi.
Viviamo insomma in un ambiente privo di norme certe e condivise, un ambiente in cui la discrezionalità e l’abuso generano tensione e angoscia illimitate. Ci sentiamo soggetti privi di ogni diritto, e per questo motivo tutti uguali e tutti ugualmente insignificanti. L’unica differenza che si può raggiungere all’interno di una tale massa deriva dall’obbedienza entusiastica agli obblighi che vengono imposti. È l’illusione di poter prendere parte a quel potere che ci opprime, diventarne i sostenitori e i controllori, in modo da salvarsi dall’annullamento dell’insignificanza.
Non c’è un angolo del pianeta che sia rimasto immune da questo processo. Per questo la resistenza diventa una necessità, qualcosa a cui non si può sfuggire, pena la perdita della dignità umana.
L’esigenza di resistere si fa ogni giorno più pressante, perché le imposizioni si fanno ogni giorno più lesive della libertà: arrivano a violare il nostro corpo, contraddicono il nostro istinto di conservazione. Ma quale tipo di resistenza, di opposizione può essere messa in atto a questo punto? Se il potere dell’informazione esercitasse direttamente la violenza, lo si potrebbe smascherare facilmente: le manifestazioni, la resistenza passiva, la disobbedienza civile potrebbero suscitarlo e così renderlo visibile, identificabile. Invece, ogni manifestazione, ogni opposizione e disobbedienza non fanno che rafforzare l’odio e le convinzioni del gruppo che al contrario sostiene e giustifica l’imposizione di tali obblighi e restrizioni. Probabilmente sono addirittura funzionali alla sua coesione, alla sua durata.
L’opposizione e la resistenza devono lavorare pazientemente sulle coscienze. Nello stesso ambito dell’informazione. Oggi il vero campo di battaglia è la coscienza, la consapevolezza individuale. L’opposizione e la resistenza devono far nascere in ogni cittadino la consapevolezza di un diritto importantissimo: quello ad una informazione onesta e corretta. Restando all’interno del sistema dell’informazione, rivelando le sue strategie, le sue falsità, distinguendo tra verità e menzogna. L’informazione non è un blocco monolitico, per fortuna, e offre la possibilità di creare uno spazio in cui progettare e garantire questo diritto, in cui portarlo all’attenzione di tutti.
Resistere, dunque. Aspettando che un giorno la politica riesca a riconquistare la propria dignità, a elaborare i correttivi necessari per limitare e indirizzare un potere così distruttivo.
Stefano Vespo
Pubblicato da Tommesh per Comedonchisciotte.org
FONTE: https://comedonchisciotte.org/quale-resistenza-e-possibile/
ECONOMIA
Immaginate l’Europa del 2030. Immaginate porti, autostrade, infrastrutture e perfino pezzi interi di territorio degli stati europei in mano alla Cina. Intere province dei Balcani e dell’Europa meridionale sotto il protettorato di Pechino. Un’espansione avvenuta senza spargere neanche una goccia di sangue, non a colpi di cannone ma a colpi di prestiti, totalmente indolore e inodore. Se state pensando che questa fotografia dal futuro sia buona per la sceneggiatura della prossima serie tv distopica, vi sbagliate di grosso: è uno dei mondi possibili, anche perché qualcosa sta già avvenendo qui e ora in Europa, più o meno a 250 chilometri dalle coste italiane.
Il Montenegro, stato balcanico che si affaccia sull’Adriatico a due passi dalla Puglia, membro della Nato e aspirante candidato all’Unione Europea, è infatti finito nella morsa del debito con la Cina. Qualche anno fa il governo ha accettato un maxi-prestito di circa un miliardo dai cinesi per costruire un’autostrada con destinazione Belgrado. Ben presto Podgorica si è accorta di aver fatto un passo più lungo della gamba, troppo tardi però per porvi rimedio. Ora infatti arrivano le prime rate da restituire a Pechino e l’esecutivo si trova in difficoltà, senza soldi, tanto da chiedere all’Europa un prestito per onorare i propri impegni. Anche perché se i rimborsi non arrivano alla Cina, il Montenegro dovrebbe dare in cambio parte del proprio territorio. Un po’ quello che è già successo in Sri Lanka: i cinesi hanno accettato la gestione per 99 anni del porto di Hambantota a seguito di un’insolvenza.
Ora, si dirà, non si può paragonare la piccola economia montenegrina ai grandi paesi del sud Europa come Grecia, Spagna e Italia. Certo, si tratta di casi completamente diversi, sia da un punto di vista economico che geopolitico. Tuttavia il caso Montenegro insegna come il governo di Pechino non si faccia scrupoli a sfruttare le difficoltà in cui versano i paesi dopo la crisi pandemica. E ci tocca ricordare che a fine pandemia, quando ne saremo finalmente usciti, e si spera presto, i paesi dell’Europa meridionale avranno sulle spalle un macigno del debito pubblico che prima o poi dovrà essere riportato a livelli sostenibili, anche perché pian piano la Bce dovrà mettere sul mercato la grande quantità di titoli di stato di cui ha fatto incetta in questi ultimi due anni proprio per tenere gli spread sotto controllo ed evitare che gli stati – Italia in primis – avessero problemi di finanziamento sui mercati.
Quindi non è fuori dal mondo pensare a un prossimo futuro in cui la Cina offra i suoi prestiti per aiutare i conti pubblici degli stati occidentali. Peraltro non ci sarebbe niente di male. L’importante è sapere che poi, nel caso di mancati versamenti, Pechino si comporta certamente in maniera poco occidentale, con modalità piuttosto “aggressive” per non usare altri termini più forti ma più calzanti. Piccolo memento per chi a palazzo Chigi dovrà gestire le finanze post pandemia (fino a che ci sarà Draghi possiamo stare piuttosto tranquilli visto il feeling con Biden e l’attuale amministrazione Usa).
FONTE: https://www.huffingtonpost.it/entry/con-la-pandemia-la-cina-puo-comprarsi-pezzi-di-stati-deuropa-memento-per-litalia_it_607568b6e4b02375ab435d9b?utm_hp_ref=it-homepage
FINANZA BANCHE ASSICURAZIONI
Riceviamo e pubblichiamo questo intervento con l’auspicio di alimentare il costruttivo dibattito esistente nel mondo dell’associazionismo e dell’attivismo in merito agli strumenti economici e monetari che sarebbe possibile utilizzare visto il contesto di profonda crisi in cui versa il nostro Paese, senza dimenticare l’attuale mancanza di volontà politica che ravvisiamo a livello istituzionale nel voler far ripartire l’economia, nel vero senso della parola.
Buona lettura.
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Lettera aperta al gruppo della proposta “Campagna di Salvezza Economica dell’Italia”.
di Megas Alexandros
Studio economia, in maniera seria, da oltre dieci anni, fin da quando mi capito’ per le mani il libro di Warren Mosler, “The 7 Deadly Innocent Frauds of Economic Policy“.
Certo, di economia ero forzato ad occuparmene anche in giovane eta’, quando ero costretto a leggere testi incomprensibili e noiosi per superare gli esami universitari.
Due temi stuzzicavano la mia fantasia: il debito pubblico e l’inflazione; pur non approfondendoli, i miei sensi non avvertivano tutta quella paura che gli economisti autori dei testi cercavano di incutermi.
L’uomo per natura non prevede e preferisce non occuparsi del futuro quando il presente e’ radioso, per questo le paure mi scivolavano addosso, fino a quando un giorno, molti anni dopo, riflettei sul fatto che la mia generazione, pur lavorando duramente non riusciva neanche lontanemente a fare tutte quelle cose che avevano fatto i nostri padri.
Lessi il libro di quello che oggi e’ diventato il mio maestro e capii che avevo ragione a non temere queste due entita’ mitologiche (il debito pubblico e l’inflazione), ma quello che avrei dovuto temere era: “l’ignoranza degli uomini che credono di sapere“.
Alcuni mesi fa mi viene chiesto, dal mio ex-editor, di far parte di un gruppo di economisti ed esperti in materia, per sviluppare una proposta da sottoporre al governo italiano con al centro lo strumento dei “tax-credit” (Certificati di Compensazione Fiscale – CCF).
Leggo due proposte gia’ esistenti, entrambe frutto dell’ottimo lavoro dell’economista Marco Cattaneo, le giudico positive come base di partenza ma principalmente, da esperto in moneta moderna fiat, credo nello strumento, perche’ e’ bene essere chiari fin da subito: la moneta moderna fiat per definizione e’ un tax-credit.
Quindi i certificati di compensazione fiscale sono soldi, soldi veri ma sopratutto sono creati dal nulla e non presi in prestito dai mercati finanziari, come è costretto il nostro paese a dover fare dalla sua entrata nell’euro.
In fin dei conti, cosa sono i cinquanta euro che avete in tasca? Sono soldi che lo Stato vi ha fatto arrivare tramite la spesa pubblica, in attesa che un giorno lo Stato stesso ve li ritiri indietro, tutti od in parte, a fronte di un pagamento di tasse.
Compreso, che emettere un credito fiscale equivale a fare spesa pubblica e quindi a creare spazio fiscale.
Se riuscissimo a dotare il nostro governo di tale strumento, avremmo di colpo risolto una delle principali lacune che i nostri governanti devono affrontare da quando abbiamo deciso di privarci di una moneta che emettiamo e controlliamo, ossia la possibilita’ di fare politica fiscale.
Ma, direte voi, se emettere un credito fiscale equivale a stampare moneta, in Europa ci fermeranno all’istante, appellandosi a tutti i trattati possibili. Ed avete ragione, basti pensare alle parole immediate di Mario Draghi (allora capo della BCE), che seguirono la proposta di Claudio Borghi di emettere “minibot” (ovvero, certificati di credito fiscale), per pagare tutti i debiti che la pubblica amministrazione aveva con il settore privato: «O sono una moneta illegale oppure fanno aumentare il debito pubblico (1)»
Aveva ragione il nostro attuale Presidente del Consiglio, che dimostrando una perfetta conoscenza della Modern Monetary Theory, equiparava l’emissione dei CCF all’emissione monetaria, cosa, naturalmente super-vietata all’interno dei trattati firmati dai paesi membri.
Ma, aver ragione nel far rispettare i trattati non vuol dire nella maniera piu’ assoluta che stiamo facendo la cosa giusta a livello di verita’ economica. Tant’e’ vero che solo pochi anni dopo, sia le dichiarazioni dello stesso Draghi, che le linee di azione della BCE stanno andando nella direzione opposta, fregandosene dei trattati.
Oggi, vuoi per le forze dell’economia che non hanno padroni, vuoi per l’avvento della pandemia, la BCE sta facendo tutto quello che per anni ci ha detto era sbagliato fare: dal finanziamento diretto agli Stati, alla chiusura degli spread fino a consentire livelli di deficit ben oltre il famoso ed ingiustificato limite del 3% sul PIL.
Anche se molti di voi non ve ne siete accorti, lo strumento dei crediti fiscali e’ gia’ presente nel nostro Paese, mi rifierisco al famoso bonus del 110% sulle ristrutturazioni edilizie. Oggi, e’ consentito ristrutturare completamente le nostre abitazioni ed i nostri condomini tramite crediti fiscali che lo Stato ritirera’ sulle tasse da pagare nei prossimi cinque anni; ed utilizzando un meccanismo di cessione di tali crediti al settore bancario, possiamo facilmente affermare che, in pratica, ti ritrovi con la tua casa completamente nuova senza tirare fuori neppure un euro dalle tue tasche.
Pare anche, come logica economica vuole – ed in base ai recenti dati del Ministero – , che lo strumento stia dando buoni risultati sia dal punto di vista della crescita economica che per quanto riguarda un ritorno positivo per le casse dello Stato.
Partendo dai disegni di legge depositati in Parlamento e con la collaborazione di Marco Cattaneo, che come sopra citato, ha contribuito alla loro stesura, ci siamo posti l’obiettivo di implementare tale proposta ed imporla ai nostri governi a “furor di popolo”.
A dire il vero, l’implementazione non richiedeva migliorie tecniche dello strumento, che gia’ di per se e nella sua semplicita’ e’ ben definito; e vale la pena ancora ripeterlo: trattasi di soldi creati dal nulla da immettere nel settore privato tramite la spesa pubblica.
Dovevamo semplicemente concentrarci, sulla quantita’ e la qualita’ della spesa pubblica, idonea e necessaria ad una ripresa economica vera propria per il nostro paese, per un ritorno ad una qualita’ di vita ed un benessere sinonimi di una “buona economia”, ormai da tempo, sconosciute alle famiglie ed alle imprese italiane.
Tutto questo, tenendo ben presente i due elementi fondamentali da considerare quando un Stato decide di spendere in deficit: l’obiettivo della piena occupazione ed il limite dell’inflazione.
Certo, dopo 30 anni di surplus governativi, una deflazione perenne ed una disoccupazione ai livelli di guerra, con risorse reali altamente inutilizzate; il compito di rispettare gli elementi sopra citati, potrete benissimo convenire con me, che non appare impossibile da realizzare.
Ma ecco, che come spesso accade negli ambienti di lavoro, nei gruppi e nelle squadre, si manifesta improvvisa la figura del “fuoriclasse”, che decide di portare palla pensando di poter vincere la partita da solo.
Pur parlando al singolare (“la figura”), il concetto di questo termine non e’ riferito ad una sola persona, ma ad un insieme di persone e situazioni, che, vuoi per ambizione professionale, vuoi per mancanza di conoscenza sulla materia trattata, vuoi perche’ si arrogano il ruolo di “novello Galileo Galilei”, fanno in modo di far prevalere il loro interesse personale sulla bonta’ del progetto. E spesso, come e’ accaduto nel nostro caso, contribuiscono a trasformare completamente quelli che erano i buoni intenti iniziali.
Intendiamoci, con questo non dico che in un gruppo non debba esserci un confronto, anzi il confronto porta sempre al miglioramento. Ma il confronto presuppone la conoscenza e la professionalita’, anche nel modo di confrontarsi; e naturalmente di fronte alla realta’ delle verita’ economiche, presuppone la “marcia indietro”… e non il “tirare dritto” per la propria strada, con il pilota automatico, verso il muro che si avvicina. Perche’ portando palla, spesso succede che te la prendono e ti infilano un contropiede devastante.
Quando parliamo al mondo delle associazioni ed all’uomo della strada, e’ facile fare presa proprio perche’ e’ difficile per loro cogliere i dettagli; ma in economia i dettagli fanno la differenza e posizionarsi e’ importante, in una materia dove a seconda da quale parte del tavolo ti trovi, puoi essere creditore o debitore.
Ma entriamo nel merito della questione, ed andiamo subito al dunque; quello che incontrovertibilmente ha bisogno l’economia italiana, dopo 30 anni di surplus governativi, e’ fare deficit.
Come ogni cura vuole, se vuoi guarire, devi fare il contrario di quello che hai fatto e, che ti ha portato al disastro. Tanto per ricordarlo, in economia il surplus di un soggetto corrisponde sempre al deficit di un altro soggetto, e nel nostro caso, il surplus del settore governativo corrisponde al deficit del settore privato. In poche parole e per maggiore chiarezza, quando lo Stato fa surplus, significa una sola cosa: che preleva piu’ soldi con le tasse, dalle tasche dei cittadini, di quelli che mette, sempre nelle loro tasche, con la spesa pubblica.
Quindi, e’ palese che 30 anni consecutivi della situazione sopra descritta, abbiano portato il settore privato e la nostra economia ad una tremenda crisi di liquidita’, la quale ha fortemente compresso i consumi, causando a sua volta fallimenti ed alto tasso di disoccupazione.
In una situazione del genere, non puoi parlare di prestiti al settore privato da parte del mondo bancario, proprio perche’ il mondo bancario, appartenente anch’esso al medesimo settore, opera in modo ciclico rispetto al ciclo dell’economia e risente delle stesse dinamiche negative, quali il forte calo dei consumi e quindi dei fatturati delle aziende che ha finanziato. Fino a subire danni patrimoniali consistenti, derivanti dalle insolvenze conseguenti.
Le banche, lo sanno tutti, non prestano se hanno il sentore che tali prestiti non le verranno restituiti. Ed anche, pur forzate da decisioni dei governi, se tali forzature non fossero accompagnate da politiche fiscali importanti da parte dei governi stessi, si trasformerebbero in inevitabili insolvenze.
Del resto, ed in poche parole, chi finanzierebbe i fatturati di una azienda!
Ma questo e’ quello che e’ avvenuto durante la pandemia, dove le aziende che si sono trovate improvvisamente senza fatturato, sono state indirizzate, per scelte politiche, presso le loro banche a prendere dei prestiti; che seppur garantiti dallo Stato, restano sempre e comunque prestiti che un giorno dovranno essere restituiti.
Fatte queste premesse, potrete ben capire, che l’arrivo nel gruppo di soggetti che apparentemente si dichiarano contrari ad altro debito ma che formalmente vanno diritti per la loro strada, proponendo a fronte, di un supposto intervento nell’economia di 1.000 miliardi, ben 800 miliardi di debiti e solo 200 miliardi di spesa pubblica non a debito…. beehh, lascio a voi immaginare cosa tutto questo ha provocato al gruppo ed all’intento su cui si basava il nostro lavoro iniziale, ossia “Campagna di Salvezza Economica dell’Italia”.
Proporre come ricetta, una banca pubblica che presta a tassi agevolati insieme a dei Conti Correnti di Risparmio utilizzabili per finanziare lo Stato e, mi spiego meglio, proporre per risolvere la crisi dei prestiti a tassi agevolati al settore privato e contemporaneamente far finanziare lo Stato dal settore privato stesso, non e’ affatto una ricetta risolutiva e salvifica, anzi, a dirla tutta, non e’ neanche una ricetta nuova.
Ciò ricorda infatti una esperienza vissuta recentemente: una esperienza, come ben sappiamo finita in tragedia. Sto parlando dei primi anni dell’introduzione dell’euro; chi di voi non ricorda, la corsa nelle banche a prendere prestiti ai tassi bassissimi che l’avvento dell’euro ci proponeva!! Per non parlare degli Stati membri, che si sono ritrovati nella malagurata situazione di farsi finanziare dal settore privato per poter spendere. Con tutte le tragiche conseguenze del caso: i ricatti dello spread, i tagli alla sanita’, alla scuola, i ponti che cadono, la poverta’ crescente, ecc.
Tra le varie discussione all’interno del gruppo, una delle piu’ accese ha riguardato l’introduzione dei Conti Correnti di Risparmio, cioe’ una nuova forma di investimento dei risparmi privati.
Premesso che per fare investire il proprio risparmio al settore privato, presupposto essenziale vuole che questo risparmio ci sia, altrimenti cosa investo! Non possiamo esimerci da fare una considerazione su chi, oggi detiene il risparmio privato.
Basta dare un occhiata a chi deteneva i titoli del debito pubblico nel 1988 e chi li detiene oggi. Il dato piu’ importante, che balza subito agli occhi, e’ quello che: se nel 1988, era detenuto dal 65% degli italiani (intesi come famiglie ed imprese), oggi soltanto il 5% di questi soggetti detiene i titoli del debito pubblico. Tutto questo a vantaggio in parte del settore estero, ma in buona parte del settore finanziario (banche, assicurazioni, fondi).
Una considerazione viene subito alla mente, ed e’ quella che un eventuale trasformazione del debito pubblico da BTP a CCR, a livello macro coinvolgerebbe in gran parte questi settori o tutt’al più‘ i piu’ ricchi, perche’ e’ impensabile che tra quel 5% possa esserci il cassa-integrato.
Certo, direte voi, il reddito da interessi si trasforma poi in consumi, ma vi chiedo quanto puo’ consumare una banca, una assicurazione, un fondo oppure la famiglia Agnelli!!
E non dimenticate, che il nostro paese aderendo all’euro non emette piu’ la sua moneta e quindi e’ costretto a finanziare la propria spesa per interessi tramite la tassazione del settore privato.
Altra situazione, completamente diversa era quella degli anni 80′-90′, dove, come mostrato sopra, il famoso “reddito da divano” derivante dagli interessi sui titoli del debito pubblico, era diffuso ed appannaggio del 65% delle famiglie italiane, le quali con gli interessi sui BOT e sui BTP, facevano le vacanze, compravano il motorino ai loro figli, i mobili nuovi per la casa, ecc. Ma non solo, tale reddito che per lo Stato era una forma di spesa pubblica, non necessitava di essere finanziato attraverso l’imposizione fiscale, ma poteva essere finanziato semplicemente con emissione di moneta dal nulla, stante l’essere, lo Stato italiano, il monopolista della Lira.
Altro tema proposto dai “fuoriclasse” a sostegno dei CCR, e’ quello di una “fantomatica” protezione dal ricatto dei mercati sul debito pubblico. Anche su questo argomento, devo evidenziare un mix-mentale di non comprensione, basato appunto, sulla cattiva comprensione del funzionamento dei sistemi monetari moderni all’interno di una mente ormai intrisa dalle teorie neo-liberal, oggi risultate completamente errate.
I tassi, non li decidono i mercati!
Le politiche monetarie sono esclusive delle banche centrali e se oggi il nostro spread si e’ ridotto notevolemente, come la nostra spesa per interessi, questo e’ dovuto esclusivamente all’operato della Banca Centrale Europea, la quale si e’ messa, finalmente a fare la banca centrale, svolgendo a pieno il suo ruolo di prestatore di ultima istanza, garantendo illimitatamente i debiti pubblici degli stati membri.
Questa realta’ la possiamo facilmente verificare sul campo, dove un rapporto depito/PIL al 130% nel 2011 fece schizzare lo spread oltre 500 punti, quandunque oggi un rapporto debito/PIL al 160% permette allo Stato italiano di finanziarsi a zero.
Dove sono finiti i mercati? Semplice, di fronte ad una banca centrale si sono sciolti come neve al sole!
Allora, cari amici miei partecipanti al gruppo della proposta “Campagna di Salvezza Economica dell’Italia”, mi rivolgo a voi: cosa potete fare voi con i pochi risparmi rimasti agli italiani di fronte al “click” infinito della BCE! NIENTE ASSOLUTAMENTE NIENTE… questa e’ la risposta. Finche’ saremo utilizzatori e non emettitori della moneta euro questa e’, e sara’ la nuda e cruda verita’. E prima la accetterete nelle vostre menti, prima eviterete di sbattere la vostra faccia contro il muro.
Del resto, ve l’ho detto ed avvertito piu’ volte, anche recuperando la possibilita’ di fare politica fiscale tramite i CCF, che – ripeto – e’ un passo fondamentale, non siamo liberi dal ricatto: per questo, e’ sempre ed opportuno seguire il consiglio del mio maestro e tenersi ben stretto in tasca il suo piano A e B.
di Megas Alexandros
NOTE
(1) = https://www.ilmessaggero.it/economia/news/minibot_draghi_moneta_illegale_debito-4543200.html
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Pubblicato da Jacopo Brogi per ComeDonChisciotte.org
FONTE: https://comedonchisciotte.org/ccf-unidea-geniale-per-eludere-le-regole-europee-e-riprenderci-la-politica-fiscale/
GIUSTIZIA E NORME
LE STRAGI DI VIAREGGIO E GENOVA, IL “RIMPALLO DI COMPETENZE”
Da Viareggio a Genova, passando per ponti, viadotti, strade ferrate ed autostrade, monta l’indignazione popolare contro il sistema delle grandi aziende. Un partenariato pubblico-privato protetto da una potente dea bendata, mentre ai familiari delle vittime rimarrebbe lo stesso calvario del mugnaio di Bertold Brecht che s’augurava di trovare giustizia a Berlino. Oggi, dopo certe sentenze, la difesa delle vittime ricorda che ci sono sempre appelli bis e poi le corti europee.
“Assolte perché il fatto non sussiste le società Gatx Rail Austria Gmbh, Gatx Rail Germania Gmbh, Jungenthal Waggon Gmbh, Trenitalia, Mercitalia Rail ed Rfi, in relazione all’illecito previsto dall’articolo 25-septies del decreto legislativo 231/2001 sulle norme in materia di responsabilità amministrative delle persone giuridiche”: questo il succo della sentenza di Cassazione, in merito alla strage di Viareggio (32 vittime e 26 feriti), che manda prescritti gli omicidi colposi. Ora le speranze dei familiari delle vittime (e di tutti i danneggiati) rimangono appese ad un futuribile nuovo appello per disastro ferroviario, che vedrebbe nuovamente alla sbarra Mauro Moretti (ex ad di Fs e Rfi) e Michele Mario Elia (ex ad di Rfi). Per Viareggio la Cassazione ha escluso l’aggravante della violazione delle norme sulla sicurezza sul lavoro: va comunque dato atto che Mauro Moretti nel giudizio di secondo grado aveva rinunciato alla prescrizione, e certamente l’ad di Fs potrebbe essere stato tenuto all’oscuro delle condotte colpose di funzionari, dirigenti, addetti.
Ora la mente corre alla strage più recente, quella del ponte Morandi, dove gli amministratori di Aspi e la proprietà (la famiglia Benetton) potrebbero essere stati tenuti all’oscuro delle svariate segnalazioni di cedimento della struttura genovese. Proprio sul crollo del ponte Morandi, i familiari delle vittime dicono “non vogliamo un’altra Viareggio”. La tragedia del Morandi (14 agosto 2018) è costata la vita a 43 persone. Durante il secondo incidente probatorio genovese, Egle Possetti (portavoce del comitato “Ricordo vittime di ponte Morandi”) aveva detto “la preoccupazione è dovuta a quanto visto qualche giorno fa in un altro processo: dopo 11 anni e mezzo, gli amici di Viareggio hanno ricevuto una sentenza allucinante”.
“Quanto emerso finora sul disastro dell’estate 2018 – precisa Egle Possetti – dà già delle indicazioni molto precise su quanto avvenuto, con intercettazioni che in merito al ponte dicevano è marcio, quindi qualcuno sapeva. Tutto questo però dovrà convergere nella verità processuale finale: il percorso sarà lungo, ad ostacoli, ma siamo decisi ad andare avanti con forza e determinazione. Non posso però negare che la preoccupazione ci sia”. L’Aspi (gruppo Atlantia, principale azionista la famiglia Beneton) ci ha messo i soldi e controlla il livello amministrativo-finanziario dell’azienda, ma chi dovrebbe vigilare sui lavori sta in Autostrade dai tempi dell’Anas, cioè da molto prima che i Benetton investissero nella rete.
Le intercettazioni di cui parla la Possetti tirano in ballo le responsabilità di funzionari e dirigenti Aspi, che hanno gestito gli appalti genovesi. Responsabilità, grovigli e rimpalli di competenze che dall’Anas sono passati all’Aspi. E vale la pena ricordare ai lettori la scandalosa gestione della costruzione della Salerno-Reggio Calabria (lavori durati più di cinquant’anni per assicurare lavoro al mare di subappaltatori del Mezzogiorno) e poi la tragedia di Monteforte Irpino del luglio 2013: esempi che hanno acclarato nei tribunali la cattiva gestione Anas. Quest’ultima, dal 2018, fa parte di Ferrovie dello Stato e dallo stesso anno è controllata dal ministero del Tesoro: quindi un organismo di diritto pubblico che, grazie a giochi di scatole cinesi e rimpalli di competenze, riesce a deresponsabilizzare gran parte dei propri dirigenti.
Anas potrebbe riprendersi Autostrade, a patto che lo Stato garantisca lo “scudo penale” alla socia di Ferrovie (Anas ovviamente). Di fatto, ben trentaseimila chilometri di strade e tremila di autostrade, cinquemila tra ponti e viadotti nella sola Italia peninsulare, ed omettiamo d’indagare sulle Autostrade Siciliane. Perché se nelle tragedie d’Irpinia e Liguria (soprattutto vittime del ponte Morandi) si potranno appurare e rendere pubbliche le responsabilità, viceversa un grosso strato d’omertà e prescrizione non permette alla stampa si torni a parlare della Salerno-Reggio Calabria e delle Autostrade Siciliane. E, prima di tornare alla Liguria, sarebbe bello sapere quando e come avrebbero avuto luogo le 348 ispezioni (da effettuare per legge) nelle Autostrade Siciliane. Omettiamo di trattare il reclutamento degli operai nei cantieri del Sud, che da indagine di sindacati ed uffici del lavoro risulterebbero per più del settanta per cento non coperti da contratto degli edili, quindi con minori garanzie infortunistico-previdenziali.
Egle Possetti, nel crollo del ponte Morandi, ha perso la sorella, il cognato e due nipoti. “Per me è importante la possibilità di seguire in loco le udienze ed è un segnale molto positivo lo sforzo fatto dal Tribunale di Genova. Alcuni familiari con cui ho parlato personalmente –ha detto Egle all’Agi e lo ripete nelle conferenze – ci saranno, altri sono lontani, alcuni non hanno mai partecipato a queste udienze, probabilmente perché fa anche tanto male. Ognuno è diverso: per me è determinante essere lì, altri non ce la fanno”. “Gli indagati non li ho mai incrociati – ha sottolineato Egle – forse ce n’erano un paio nel precedente incidente probatorio, ma non credo si presenteranno”.
I timori di Egle Possetti sono ben comprensibili, soprattutto dopo la sentenza di Cassazione sulla strage ferroviaria di Viareggio. Marco Piagentini (presidente dell’associazione dei familiari delle vittime di Viareggio) aveva commentato: “Oggi tutto il Paese ha perso, con la parola prescrizione è stato dato un colpo di spugna a tutto il lavoro fatto per la ricerca della verità e della giustizia”. Intanto i blitz della Guardia di Finanza di Genova acclaravano che a lavorare sulle autostrade liguri (note per disastri e crolli) sarebbero sempre le stesse aziende. “Può essere una concausa – ha riferito alla stampa e ai sindacati Franco Cozzi (procuratore capo di Genova) – le fessurazioni hanno potuto contribuire alle infiltrazioni di acqua e quindi alla corrosione”. Ed i funzionari dell’Aspi di Genova avrebbero dovuto vigilare sul Morandi on no?
Intanto la Cgil di Genova rammenta come nel gioco d’appalti e subappalti, spesso queste aziende finiscano anche in Liguria per non applicare il contratto degli edili ai lavoratori. Dello stesso avviso la Uil, che della messa in sicurezza dei cantieri fa battaglia quotidiana. Federico Pezzoli (segretario generale Fillea Cgil di Genova), Giovanni Ciaccio (Uil trasporti Liguria) e Mirko Trapasso (segretario generale Feneal Uil Liguria) sono stati partecipi dell’accordo stretto presso la prefettura di Genova, che obbliga tutte le aziende (anche subappaltatrici) a tenere nelle aree cantiere dell’Aspi solo operai con contratto nazionale degli edili, soprattutto opportunamente formati per quella tipologia di lavoro manutentivo. Ma perché gli accordi si rispettino nei cantieri autostradali, oltre all’Ispettorato del lavoro, non dovrebbero vigilare anche i funzionari dell’Aspi?
Infatti, a dicembre 2020 un incidente nel cantiere autostradale ligure è costato la vita all’operaio Luciano Sanna: quest’ultimo era dipendente della Bral srl, ma il cantiere sarebbe della Weico srl, quindi la Bral pare non avesse titolo a stare sul cantiere. Fonti liguri dicono che l’operaio sarebbe stato in distacco formativo presso la Weico. Sanna, ci dicono alcuni addetti ai lavori, operava da anni in ambito autostradale, e non necessitava d’alcuna formazione. Intanto familiari delle vittime del Morandi, parenti degli operai morti sul lavoro, cittadini danneggiati dal crollo del Morandi e d’altre strade e gallerie… tutti aspettano giustizia. È un silente ed ulteriore stillicidio.
Anche nella strage di Viareggio, prima che intervenisse la mannaia della Cassazione, erano emerse gravi violazioni in materia di sicurezza sul lavoro. Allora che succede, alle grandi aziende e relativi appaltatori è concesso risparmiare sulla sicurezza? Nel frattempo, sempre più cittadini si chiedono perché Aspi, Anas e Ferrovie non facciano più inchieste interne, perché non avvicendino funzionari e controllori che, forse per abitudine consolidata, danno troppo per scontata la bontà delle solite aziende.
Intanto la Cassazione aveva detto la sua sulla “strage di Viareggio”, parlando di “processo in tempi inferiori a standard e con misure anti-Covid”. La Cassazione, nel suo comunicato ufficiale, aveva sottolineato che “dopo indagini inevitabilmente lunghe e complesse, gli organi giudicanti hanno celebrato i dibattimenti in tempi inferiori agli standard previsti dalla disciplina nazionale ed europea… la durata del processo è stata di poco più di otto mesi e le udienze, pur in tempo di pandemia, sono state celebrate con la partecipazione diretta dei difensori e in assoluta sicurezza per tutte le parti”. Chissà se basterà una mascherina ad esorcizzare una strage ferroviaria o il crollo d’un viadotto. Tra bende e pezze varie, una certa politica invita il cittadino a guardare oltre, a dimenticare, come se poi i potenti dimenticherebbero mai offese ed imprecazioni dell’uomo di strada.
FONTE: http://www.opinione.it/societa/2021/04/13/ruggiero-capone_stragi-viareggio-genova-rimpallo-competenze-indignazione-ponte-morandi-cassazione/
Disegno legge Zan: nessuno usi i bambini
Nella discussione sul Disegno di Legge Zan, approvato dalla Camera e ora approdato al Senato, troppe volte distratti o maliziosi commentatori non fanno riferimento a quello che sta scritto nel testo ma alle bugie che vengono diffuse dai sostenitori della legge.
Basterebbe leggersi il bel testo pubblicato dal Centro Studi Livatino per capire quanto questo disegno di legge nulla abbia a che fare con la violenza e le discriminazioni, ma sia un goffo tentativo di criminalizzare tutti coloro che per esempio ritengono che i bambini abbiano diritto ad avere un padre ed una madre o si oppongono alla abominevole pratica dell’utero in affitto.
Proprio oggi tra l’altro Papa Francesco interviene su Repubblica per esaltare la figura del Magistrato martire Rosario Livatino, alla cui memoria ed al cui insegnamento si rifà il centro studi a Lui intitolato.
Prendiamo ad esempio l’art 7 così come approvato dalla Camera, con il quale si istituisce la giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia, al fine di promuovere la cultura del rispetto e dell’inclusione nonché di contrastare i pregiudizi, le discriminazioni e le violenze motivati dall’orientamento sessuale e dall’identità di genere…
In questa giornata il comma 3 dell’articolo prevede poi l’organizzazione di cerimonie, incontri e ogni altra iniziativa utile a cui devono concorrere le scuole nonché le altre Amministrazioni Pubbliche.
Si tratta in sostanza di andare a spiegare nelle scuole che è reato rifarsi ai princìpi del diritto naturale, e dunque avanzare obiezioni alla teoria dell’identità sessuale “a la carte” descritta dalla proposta di legge Zan all’articolo 1, secondo il quale “per identità di genere si intende la identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dall’ aver concluso un percorso di transizione”. Tesi, peraltro, avversata anche dalle femministe e dalle stesse organizzazioni omosessuali femminili.
Davanti a questo arrogante manifesto ideologico, con tintinnar di manette per i dissidenti, il Senato della Repubblica non può cedere alle pressioni di lobbies potenti e organizzate e deve difendere con decisione i principi fondamentali contenuti nella nostra Costituzione laica e repubblicana.
Carlo Giovanardi, Gaetano Quagliariello, Eugenia Roccella
FONTE: https://loccidentale.it/disegno-legge-zan-nessuno-usi-i-bambini/
Davvero, nonostante porto avanti da anni strumenti concettuali che mi aiutano poi a vedere dove normalmente non riusciamo, la potenza dell’evidenza evidente e dei meccanismi sottostanti di mutua esclusione che tante volte ho descritto, ogni volta mi lascia perplesso.
Perché i vaccini sono così importanti da dover essre imposti con la forza e in modo così truffaldino, pressapochista e “urgente” da questo governo che ha tutto da perdere (potenzialmene rispetto l’immagine che ci lascia) se ha come primo obbiettivo “incensare” il drago per la presidenza della Repubblica di prossima scadenza? Se siamo davanti a un piano decennale, possibile che il manovratore non ci abbia pensato per tempo? Cos’è tutta questa “urgenza” dopo un anno di frottole che la massa ancora si beve? Perché forzare le cose con il rischio di farle saltare?
Il motivo per cui il personale sanitario deve vaccinarsi risponde fondamentalmente a due evidenze evidenti perfettamente coerenti rispetto al disegno più generale che ci viene imposto da decenni e riguarda l’obbiettivo minimo dal momento che l’evidenza evidente ci dice che l’obbiettivo “massimo” principale di raggiungere (=convincere) la maggioranza della popolazione è sfumato anche se una massa rilevante si é convinta di tutto e di tutto il contrario di tutto, accentando di fatto di farsi acefala.
Da decenni la sanità viene compressa e se ha resistito è stato proprio per l’abnegazione di chi ha portato avanti nonostante tutto in modo convinto e serio il suo compito “sociale” sanitario onorando il giuramento e sopportando i tagli del personale e i conseguenti sovraccarichi di impegni (senza adeguamento economico) insieme alla sistematica demolizione dello stato sociale e del diritto al lavoro e alla sicurezza, per esempio con la riformulazione dei contratti di lavoro al fine di privilegiare cooperative che praticano dumping salariale e per il mero fine del profitto che il nuovo concetto di “azienda sanitaria” ospedaliera portava inevitabilmente con l’evidente fine di rimuovere il sottostante concetto di “diritto alla salute” che ancora era prevalente nel secolo scorso.
Di fatto i sanitari renitenti sono l’ultimo argine di una sanità “sana” che tenta di difendere gli ultimi scampoli di quel diritto alla salute di cui i governi che si sono succeduti hanno fatto carta straccia.
In questo contesto di “rinnovamento” del settore sanitario in senso pienamente involutivo e destrutturato di fondamento, troviamo quindi perfetta la comoda scusa che da una parte individua precisamente i sanitari che si muovono ancora con coscienza (“no a un vaccino sperimentale“) che bloccano o rallentano l’imposizione dall’alto di terapie sperimentali “ad ca%%um” perché sanno riconoscerle e dall’altra ne fa dei capri espiatori perfetti che devono pagare per ogni atto di quella “malasanità” che diffonde il male per incoscienza.
Per ciò i P.R. che stanno seguendo la campagna vaccinista obbligatoria a tutti i costi, non vogliono una legge seria e ben fatta, sanno benissimo che sarà demolita e che tutto si consuma in una corsa contro il tempo, contano però di usarla per un periodo sufficiente ad aggredire (mediaticamente ma anche dal punto di vista morale, per fiaccarlo) quella parte di personale sanitario che si oppone allo sfruttamento della popolazione a fini medici sperimentali scoraggiandone l’attuazione, per il banale motivo che i media da soli non possono fare anche questo lavoro capillare. Per questo la campagna si muove su due fronti, da una parte lo scudo legale per l’inoculazione di un prodotto di cui ancora si sa troppo poco che deve indignare chi ancora ha una dignità e vuole difenderla e dall’altro l’obbligo legale e morale propagandato come “unico argine contro la pandemia“. Serve cioé a fare uscire allo scoperto e poi finalmente distruggere in modo mirato la massa degli operatori sanitari che si frappongono tra l’azione di governo acefalo totalmente antitetico al diritto che dovrebbe formalmente proteggere e la popolazione ignara.
Il simbolo massimo di questa “acefalia” non è però il drago ma il mattarellum (QUI) che la rappresenta simbolicamente, politicamente e persino fisicamente in modo perfetto.
Eppure NESSUNO ne parla.
FONTE: https://comedonchisciotte.org/forum/spazio-aperto/perche-siamo-arrivati-allobbligo-vaccinale-per-il-personale-sanitario/
L’associazione che vuole giudicare al-Assad è una truffa
Un’operazione di destabilizzazione è stata organizzata contro il Working Group on Syria, Propaganda, and Media (Gruppo di Lavoro sulla Siria, la Propaganda e i Media) del professor Tim Hayward, direttore del Just World Insitute dell’università di Edimburgo [1].
L’operazione è stata condotta dalla Commission for International Justice and Accountability (CIJA), associazione istituita per dimostrare la colpevolezza della Repubblica Araba Siriana e dei suoi dirigenti. L’Associazione ha ricevuto un finanziamento di 50 milioni di dollari da Germania, Canada, Danimarca, Stati Uniti, Norvegia, Olanda, Regno Unito e Unione Europea.
Il principale dirigente della CIJA, William Wiley (foto), è a capo anche del gabinetto Tsamota – che ha sede nello stesso luogo – specializzato in consulenze alle imprese per sottrarsi ad azioni giudiziarie penali; la CIJA si occupa dell’organizzazione di azioni giudiziarie penali. Tsamota ha lavorato per Stati Uniti e Regno Unito, e il suo nome figura nei Panama Paper.
William Wiley sembra sia stato anche analista della CIA in Iraq.
La CIJA si è messa in contatto sotto falsa identità con il professor Paul McKeigue, membro del Working Group on Syria, Propaganda, and Media, fornendogli false informazioni affinché venissero divulgate e il Gruppo ne venisse così screditato. L’operazione però è fallita.
Lo scorso anno, l’Ufficio per la Lotta Antifrode (OLAF) dell’Unione Europea ha sollecitato Regno Unito, Olanda e Belgio a perseguire la CIJA per «aver fornito documenti falsi e false fatturazioni, nonché per profitti illegali» [2].
Nonostante il denaro ricevuto, il lavoro della CIJA contro la Siria sembra non avere tutto sommato basi serie. Nel 2020 la Germania ha sottoposto a giudizio Anwar Raslan, accusato di essere un torturatore del “regime di Bashar”. La fonte documentale che rivelava la posizione di Raslan all’interno dell’amministrazione siriana era la CIJA. Risultò che l’uomo era invece membro dell’opposizione e lavorava con i jihadisti.
NOTE
[1] “Western govt contractor entrapped British scholar in sting operation to cover up Syria corruption scandal”, Ben Norton, The Greyzone, March 27, 2021.
[2] “OLAF unravels fraud among partners in Rule of Law project in Syria”, European Anti-Fraud Office, March 24, 2020.
FONTE: https://www.voltairenet.org/article212703.html
PANORAMA INTERNAZIONALE
Andrei Martyanov
unz.com
Eccovi alcuni numeri, iniziamo con un paio: 447 milioni e 4,67 miliardi. Queste due cifre parlano chiaro e sono alla base del declino dell’America e del suo comportamento sempre più irrazionale che potrebbe, tanto per citare un famoso pezzo dei Bachman Turner Overdrive, portarci al punto del proverbiale “e non avete ancora visto nulla.” Il primo numero si riferisce alla popolazione dell’Unione Europea, mentre il secondo a quella dell’Asia. La popolazione dell’Asia costituisce circa il 60% di tutta la popolazione mondiale. Il secondo posto in questa classifica è occupato dall’Africa, con circa 1,37 miliardi, e il terzo dall’America Latina e i Caraibi con la rispettabile cifra di 659 milioni, che è ancora considerevolmente più grande della popolazione dell’Unione Europea. La popolazione dell’America del Nord è di circa 371 milioni, che, nel grande schema delle cose, non sembra poi così impressionante. In effetti, non lo è.
Il colonialismo (ometto deliberatamente l’aggettivo “occidentale,”visto che di colonialismi ce ne sono stati di tutti i tipi) in relazione al capitalismo classico è sempre stato un qualcosa di più del semplice sfruttamento delle colonie a beneficio del territorio metropolitano. Anche se le immagini dell’estrazione di risorse naturali dalle colonie e della loro spedizione al centro metropolitano sono corrette, non formano un quadro completo. Alla fine, le colonie venivano considerate come mercati, dove la metropoli avrebbe venduto i suoi prodotti. Più grande era la colonia, più numerosa la sua popolazione, più grande era il mercato per i prodotti fabbricati nel territorio metropolitano. Economicamente, tutto questo aveva un senso (anche se spesso sanguinoso) ai tempi del buon vecchio capitalismo industriale, quando la metropoli prendeva le risorse dalla colonia, le trasformava in prodotto finito e poi spediva questo prodotto finito, con un enorme valore aggiunto, per essere venduto nella colonia. Per i nativi americani, che, nel 1626, avevano ceduto l’sola di Manhattan agli Olandesi per il presunto (e fortemente contestato dagli storici) valore di 24 dollari in beni finiti, qualsiasi cosa fosse stata offerta loro aveva un valore enorme, perché non erano in grado di produrre quegli oggetti che, come afferma la leggenda, gli Olandesi, molto più avanzati tecnologicamente, avevano da offrire, non importa che fossero perline di vetro colorato o qualsiasi altra cosa. È così che, più o meno, ha funzionato per secoli. Più e migliori oggetti si producevano, più si diventava ricchi. Questo fino a quando l’economia FIRE [finance, insurance, and real estate, finanza, assicurazioni, settore immobiliare] e il simulacro del post-industrialismo non sono stati portati all’onore della ribalta da persone che, per la maggior parte, avrebbero avuto difficoltà a passare un esame da appaltatore generale, non parliamo neanche di laurearsi in ingegneria industriale.
Facciamo un salto in avanti fino a maggio 2000, all’approvazione del House Resolution 4444 China Trade Bill. In una delle dichiarazioni più insensate e poco lungimiranti della politica estera ed economica americana, Bill Clinton aveva dichiarato che:
“Oggi, la Camera dei Rappresentanti ha fatto un passo storico verso l’eterna prosperità dell’America, le riforme in Cina e la pace nel mondo. Se il Senato voterà, come ha appena fatto la Camera, per estendere normali relazioni commerciali permanenti con la Cina, per l’America si apriranno nuove porte al commercio e nuove speranze di cambiamento in Cina. Sette anni fa, quando ero diventato presidente, avevo tracciato un nuovo corso per una nuova economia, un corso di disciplina fiscale, di investimenti a favore della nostra popolazione e del libero commercio. Ho sempre creduto che aprendo i mercati all’estero si sarebbero aperte opportunità in patria. Dal 1993 abbiamo lavorato sodo per portare avanti l’obiettivo di un commercio più aperto e più equo, fino alla storica proposta di legge che ho firmato pochi giorni fa per espandere il commercio con l’Africa e il bacino dei Caraibi.”
Assolutamente imbarazzante in tutta la sua falsità e il suo insopportabile pathos (l’equivalente economico del proclama di Chamberlain “Pace nel nostro tempo” del 1938, subito dopo aver firmato davanti a Hitler la capitolazione di Monaco) la dichiarazione di Clinton aveva fatto trasalire anche coloro che altrimenti non avrebbero prestato molta attenzione agli affari economici degli Stati Uniti. La Cina non era arrabbiata, e perché avrebbe dovuto esserlo? Sia il NAFTA che l’adesione della Cina al WTO erano serviti come un enorme aspirapolvere che aveva risucchiato la vita stessa delle industrie americane e, di certo, non erano le “industrie” bancarie o di consulenza finanziaria quelle che erano state spedite all’estero. La produzione americana aveva così iniziato ad abbandonare il Paese. L’America aveva cominciato a perdere lo strumento che era, e rimane ancora oggi, l’unico mezzo valido per mantenere la prosperità economica: la capacità produttiva. Un concetto che sfugge alla maggior parte degli economisti e pseudo-scienziati politici americani, la maggior parte dei quali oggi indossa abiti cinesi fatti su misura, ha in tasca iPhone fabbricati in Cina e usa computer portatili e PC assemblati sempre in Cina.
Certo, l’America produce ancora alcune cose, aerei civili, per esempio. Ma, dopo le vicissitudini del Boeing 737 Max, che potrebbero essere descritte solo con un grande uso di turpiloquio, la lucentezza della levigata facciata esterna di Boeing è in gran parte sparita e la colonna portante dell’aviazione commerciale americana ha, di fatto, perso la competizione con il suo rivale europeo, Airbus. Auto? Certo, l’America rimane ancora competitiva nella produzione di camion. Il resto? Le berline americane non sono competitive e perdono contro le case automobilistiche giapponesi e coreane, sia a livello nazionale che internazionale, basta dare un’occhiata alla Ford che ha perso il mercato russo a favore delle case automobilistiche asiatiche, russe e dell’UE, mentre l’ultimo stabilimento della Ford Focus in Russia ha da poco chiuso i battenti.
In un altro sviluppo abbastanza sorprendente, la principale esportazione di soft power dell’America, Hollywood, sta perdendo il suo potere di penetrazione in Cina e in Russia. In effetti, non lo sta solo perdendo, lo ha già perso. Se un’affermazione del genere vent’anni fa sarebbe stata accolta con una risata, il fatto che oggi i film prodotti in Russia dominino il box office russo è accettato come un fatto assolutamente normale. Lo stesso vale per il mercato cinematografico cinese, tanto che Hollywood è stata costretta ad assecondare la Cina per avere una chance con il gigantesco pubblico cinese. Anche prima della pandemia, la performance di Hollywood non era impressionante ed era già in declino. I “valori” hollywoodiani del femminismo radicale, della misoginia anti-maschile e della promozione della devianza sessuale sono scarsamente richiesti nelle società cinesi e russe, in gran parte conservatrici.
Certo, oggi esistono ancora alcuni articoli che gli Stati Uniti producono e che sono richiesti o, per dire le cose come stanno, imposti con la forza ai clienti: i sistemi d’arma americani, enormemente sopravvalutati e di dubbia efficacia. Questo è ciò che rimane del potente impianto industriale americano di un tempo, che poteva produrre qualsiasi cosa, dai calzini e i set da cucina fino ad arrivare a discreti aerei da combattimento ed eccellenti velivoli commerciali. Oggi questa capacità non c’è più, poiché è la Cina il principale produttore mondiale di beni di consumo e l’unico modo che rimane agli Stati Uniti per garantire un mercato alle loro armi è mantenere l’Europa, cioè la NATO, come suo principale cliente e vassallo. La NATO “comprerà” volentieri (in caso contrario, le Rivoluzioni Colorate sono sempre un valido strumento per convincere i dubbiosi) le armi dell’America e la “difesa” dell’Europa, ma l’America ha bisogno che gli Europei credano che orde di barbuti e arretrati Russi di nome Ivan, nemici della democrazia e che accettano solo due generi biologici, siano pronti ad avventarsi contro di loro per sottrarre all’Europa i suoi valori preferiti (quelli di una completa depravazione sessuale), le sue città (conosciute anche come sporche cloache multiculturali) e l’economia in declino (per le ragioni che solo gli Americani conoscono), anche se la stragrande maggioranza dei Russi, specialmente i giovani, non vuole identificarsi come europea.
Quindi, per convincere i 447 milioni di abitanti dell’UE che necessitano della protezione e delle armi dell’America, l’America ha bisogno che la Russia entri in guerra in Ucraina e, se questo dovesse portare alla distruzione totale (e lo farà se la Russia deciderà in questo senso) delle forze armate ucraine e magari anche dello stato ucraino, così sia. Gli Americani non si sono mai preoccupati di quanti aborigeni potrebbero morire, almeno finché la cosa torna a vantaggio della politica statunitense. O anche a vantaggio dello status americano che si sta deteriorando costantemente perché, non solo gli Stati Uniti hanno sempre meno sostanza (cioè valore aggiunto) da vendere al mondo, ma perchè la formazione del gigante economico e militare eurasiatico rimuove gli Stati Uniti dal loro grossolanamente esagerato e autoproclamato status di egemone globale e (nel migliore dei casi) li mette al pari delle altre due/tre maggiori potenze mondiali. Nel peggiore dei casi, gli Stati Uniti, da validi concorrenti, verranno rimossi dall’Eurasia e relegati allo status di potenza regionale, con ancora una certa voce in capitolo nei confronti dei propri vicini continentali, ma senza la possibilità di raggiungere i 4,67 miliardi di clienti asiatici. Questa è una grossa fetta di popolazione e di clienti. Ora immaginate se gli Stati Uniti perdessero l’UE. Improvvisamente 4,67 miliardi diventerebbero: 4,67 miliardi + 447 milioni = 5,117 miliardi; il 65% della popolazione della Terra.
Si tratta della stragrande maggioranza della popolazione mondiale e, soprattutto, di una popolazione che può pagare i beni che acquista, a differenza di quanto accade con la gigantesca popolazione dell’Africa. Inoltre, questa clientela è concentrata in un’unica massa continentale separata dagli Stati Uniti da due oceani. Gli Stati Uniti non possono permettere questo consolidamento del mercato e la perdita dell’Europa perchè, secondo il pensiero di Washington, questo equivarrebbe ad una capitolazione. Quindi, gli Stati Uniti devono mantenere il controllo dell’UE (o di qualsiasi cosa sarà diventata l’UE dopo il suo inevitabile crollo) e la NATO rimane l’unico strumento per costringere alla sottomissione i deboli Europei. Fare in modo che la Russia distrugga le forze armate ucraine è un modo perfetto per spaventare gli Europei e far loro abbandonare qualsiasi tentativo di competere economicamente con gli Stati Uniti e privarli dell’accesso alle risorse energetiche della Russia.
Considerando il livello culturale estremamente basso dell’Occidente nel campo della geopolitica pratica e della sua ramificazione pseudo-scientifica, la geoeconomia, che, negli ultimi 30 anni, non è riuscita a fornire nemmeno la più vaga descrizione del mondo emergente, non ha più importanza se gli Stati Uniti “controllano,” o no, l’Europa. Le ragioni del totale fallimento di quelle previsioni “accademiche” e delle politiche che ne derivano sono numerose, ma alcune di esse meritano di essere sottolineate.
1. L’Europa non è più un partner commerciale cruciale per la Russia e, negli ultimi anni, il commercio bilaterale è crollato. La tendenza continuerà e non è solo dovuta alla pressione dell’America sull’UE, ma è il risultato del costante cambiamento della Russia, sia del suo modello economico che del suo riorientamento verso l’Asia, che ora è in gran parte completato. La Russia, semplicemente, non ha più bisogno di molti i quei beni che comprava dall’UE. La politica di sostituzione delle importazioni ha avuto abbastanza successo e la Russia si sta isolando economicamente dall’Occidente.
2. Il tanto discusso gasdotto Nord Stream 2 non è più un progetto economico cruciale per la Russia. Se il progetto venisse sabotato dagli Stati Uniti e dai suoi cagnolini europei, come la Polonia, la Russia sarebbe in grado di assorbire le perdite, ma per la Germania, e l’UE in generale, questo sabotaggio si tradurrebbe in una catastrofe, a causa delle politiche energetiche suicide dei verdi europei, politiche che rendono i costi dei prodotti europei estremamente energia-dipendenti. In realtà, i tentativi dell’America di sabotare il Nord Stream 2 sono diretti principalmente contro l’UE in generale, e la Germania in particolare, non contro la Russia in sé.
3. Gli Stati Uniti hanno perso la corsa agli armamenti. Il processo di acquisizione dei sistemi d’arma e la dottrina militare americana non possono più essere visti come un processo normale, cioè logico e giustificato. Pur essendo ancora in grado di produrre alcune piattaforme e sistemi di facilitazione d’avanguardia, come elaborazione dei segnali, reti di computer, comunicazioni e sistemi da ricognizione, in termini di armi vere e proprie gli Stati Uniti sono indietro rispetto alla Russia non di anni ma di generazioni. Come ammesso dal recente rapporto del Congressional Budget Office sulla difesa missilistica, uscito nel febbraio 2021, gli Stati Uniti sono indifesi contro le salve combinate dei nuovi missili da crociera della Russia e non c’è nulla che possa fermarli. Nulla. I sistemi di difesa aerea degli Stati Uniti rimangono drammaticamente indietro rispetto a quelli russi e il divario cresce, mentre l’S-500 russo inizia ad essere prodotto in serie e l’ultimo modello di S-350 è già in distribuzione alle unità di prima linea.
4. Gli Stati Uniti, semplicemente, non sono in grado di sviluppare un moderno missile supersonico anti-nave e la Marina statunitense è costretta, incomprensibilmente, a comprare il Kongsberg Naval Strike Missile norvegese, un insoddisfacente missile subsonico che non può competere con le moderne armi d’attacco supersoniche e ipersoniche schierate dalla Russia e che non sopravviverebbe contro una moderna difesa aerea e in presenza di contromisure elettroniche.
5. Infine, il livello intellettuale e di consapevolezza delle moderne élite americane è in un precipitoso declino, che, nel 2020, ha portato all’inevitabile e imbarazzante risultato delle ultime elezioni americane, in particolare allo scandaloso dibattito tra due candidati geriatrici che ha trasformato gli Stati Uniti in uno squallido show televisivo da avanspettacolo. La conseguente perdita di legittimità e l’ennesima riconferma dell’America come entità incapace di accordi, non potrebbero fare di più per rafforzare la già compromessa reputazione dell’America di bullo prepotente con a capo una classe dirigente incolta e ignorante.
Gli Stati Uniti già non riescono a soddisfare una serie di criteri indispensabili per lo status di superpotenza, tra i quali quello militare è cruciale. Se, nel 2014, alcuni “strateghi” militari americani avevano ancora l’idea suicida di combattere la Russia in Ucraina con armi convenzionali, oggi, nel 2021, tale idea è assolutamente folle, perché gli Stati Uniti non possono vincere una guerra convenzionale nelle vicinanze della Russia e qualsiasi forza statunitense sarebbe annientata. Questo lascia agli Stati Uniti solo due opzioni:
1. Dando retta alla loro stessa propaganda, potrebbero cercare di scatenare il caos in Ucraina, provocare la Russia in un’operazione militare diretta e poi introdurre truppe USA e NATO nel teatro delle operazioni. Qualsiasi piano del genere è destinato a fallire miseramente, perché non solo una tale forza sarebbe annientata, ma le nazioni NATO partecipanti dovrebbero prendere in considerazione la possibilità che le loro stesse installazioni militari siano distrutte da armi da stand-off. Questo solleva la possibilità di un’escalation da parte degli Stati Uniti verso la soglia nucleare, il che significa che gli Stati Uniti potrebbero cessare di esistere come Paese. Questo è un esito non certo desiderabile e la maggior parte dei politici statunitensi ( a parte alcuni gravi casi di disturbi psichiatrici da russofobia, numerosi nell’attuale amministrazione e nelle élite americane) capisce cosa significhi. Quindi, anche se non del tutto impossibile, la probabilità che un tale piano venga attuato è piuttosto bassa. Per non parlare del fatto che, per gli Stati Uniti, un conflitto convenzionale alle porte della Russia richiederebbe un concentramento di forze e di mezzi da far impallidire quello della Prima Guerra del Golfo, e lì gli Stati Uniti avevano impiegato quasi 6 mesi per completarlo.
2. Quindi, ciò che realisticamente rimane è spingere l’Ucraina in una campagna suicida contro una Russia già designata come aggressore prima ancora che vengano sparati i primi colpi. Quello che gli Stati Uniti non capiscono è che questo slega le mani alla Russia che ha già una schiacciante dominanza di escalation non solo sull’Ucraina, ma su qualsiasi altra cosa potrebbe essere tentata in termini di “sostegno” all’irrazionale regime di Kiev. La Russia ha molte opzioni, gli Stati Uniti ne hanno solo una: hanno bisogno della guerra nel Donbass, che, secondo il pensiero di Washington, permetterà di spingere gli Europei alla sottomissione, cosa che, a sua volta, dovrebbe consentire agli Stati Uniti di salvare il proprio status egemonico. Non sarà così, nemmeno se l’Europa fosse costretta alla sottomissione.
Gli Stati Uniti hanno oggi un’unica risorsa, sempre più inefficace, che permette loro di rimanere rilevanti: la realtà virtuale della stampa monetaria e della propaganda mediatica. Però non si possono nascondere per molto tempo le città decrepite dell’America, le rivolte di massa, la distruzione del sistema educativo, l’incompetenza dei vertici politici e militari, le pratiche sociali suicide e il crollo dell’ordine pubblico, aggravato dalle enormi file ai banchi alimentari. Ora sono sotto gli occhi di tutti e persino la sottomissione dell’Europa e, presumibilmente, l’apertura dei mercati europei a quei pochi articoli che gli Stati Uniti possono ancora fornire ai loro clienti, non cambierebbe il fatto che gli Stati Uniti, come sono oggi, non hanno futuro, con o senza Europa, e che devono ancora confrontarsi con l’immensa capacità produttiva della Cina e con l’avanzata potenza militare della Russia che spingono all’unificazione del mercato eurasiatico, e questo indipendentemente dal fatto che gli Stati Uniti scatenino, o meno, la guerra in Ucraina. Anche senza l’UE, il mercato eurasiatico renderà insignificante qualsiasi cosa gli Stati Uniti potrebbero “recuperare” per evitare la retrocessione in serie B.
Gli USA non sono in grado fermare un processo in corso da anni, da quando la Russia, dopo il sanguinoso colpo di stato in Ucraina, aveva capito che non c’era nessuno con cui parlare in tutto un Occidente che, oltre a perdere la sua potenza militare ed economica, aveva iniziato a disintegrarsi dall’interno a causa della sua stessa società, sempre più totalitaria e incapace di affrontare il fatto che viviamo ancora in un mondo altamente industrializzato che ha bisogno di energia, impianti industriali e armi per difenderli. Cina e Russia sembra che tutto questo lo abbiano già capito e perciò il destino degli Stati Uniti è segnato. Bill Clinton, nel 2000, poteva anche aver pensato di aver “tracciato la nuova rotta per una nuova economia,” peccato però che per lui, e per gli Stati Uniti, la “nuova economia” si sia rivelata essere una vecchia economia. Pensava forse che jeans, smartphone e motori a razzo crescessero sugli alberi?
Andrei Martyanov
Fonte: unz.com
Link: https://www.unz.com/article/the-dictatorship-of-numbers/
07.04.2021
FONTE: https://comedonchisciotte.org/lamerica-e-la-dittatura-dei-numeri/
La verità sul “sofagate” di Ankara
A torto, la stampa ha presentato l’incidente di protocollo di Ankara come un’umiliazione inflitta dal presidente Recep Tayyip Erdoğan alla presidente della Commissione europea, Ursula von der Layen. In realtà il presidente turco, in accordo con il presidente del Consiglio dell’Unione, Charles Michel, ha cercato di elevare quest’ultimo all’inesistente rango di presidente dell’Unione.
Gli organi di stampa hanno ampiamente diffuso immagini del vertice fra Unione Europea e Turchia, svoltosi ad Ankara il 6 aprile scorso. Vi si vede il presidente Erdoğan accogliere il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, e la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Layen: ci sono due poltrone per tre persone. La signora von der Layen, dopo un attimo di esitazione, siede su un sofà.
I media europei hanno interpretato le immagini come un’offesa dell’autocrate turco all’Unione Europea. Alcuni vi hanno visto una riprova del suo maschilismo. Interpretazione errata di un fatto che, in realtà, maschera un grave problema interno all’Unione Europea.
L’incontro avrebbe dovuto svolgersi a Bruxelles, ma il presidente Erdoğan ha voluto a ogni costo che si tenesse ad Ankara; è stato telefonicamente preparato dai servizi di protocollo delle due parti. La sala dell’udienza è stata quindi allestita in modo conforme alle richieste dell’Unione Europea. Dunque Ursula von der Layen non è stata umiliata dal presidente Erdoğan.
Per comprendere l’accaduto, bisogna collocare il fatto nel contesto dell’evoluzione delle istituzioni della UE.
- Consiglio dei capi di Stato e di governo europei del 25 marzo 2021.
Il 25 marzo, ossia 13 giorni prima dell’incontro ad Ankara, si è svolto il Consiglio dei capi di Stato e di governo europei. A causa del Covid, la riunione non si è svolta in presenza, ma per videoconferenza. Vi hanno partecipato i 27 capi di Stato, sotto la presidenza di Charles Michel, nonché il loro vero capo: il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden [1]. Costui ha ribadito a chiare lettere che Washington ha bisogno di un’Unione Europea forte e ligia ai suoi ordini. Biden ha impartito diverse istruzioni; in particolare ha raccomandato di mantenere buoni rapporti con la Turchia, nonostante i numerosi contenziosi aperti (delimitazione delle frontiere nel Mediterraneo orientale; occupazione militare di Cipro, Iraq e Siria; violazione dell’embargo dell’ONU in Libia; ingerenza religiosa in Europa).
Il presidente Donald Trump aveva sicuramente inteso sostituire i rapporti imperiali con rapporti commerciali. Aveva messo in discussione sia la NATO sia l’Unione Europea, nonché posto gli europei di fronte alle loro responsabilità. Ma la volontà degli Stati Uniti di tornare all’organizzazione del mondo ereditata dalla seconda guerra mondiale non ha incontrato ostacoli: tutti i dirigenti europei trovano più comodo mettere la difesa dei loro Paesi sotto “l’ombrello americano” e sono disposti a pagarne il prezzo.
La costruzione dell’Unione Europea è avvenuta in diverse tappe.
Al principio, nel 1949, Stati Uniti e Regno Unito inserirono l’Europa in un’alleanza diseguale, la NATO, al fine di gestire la zona d’influenza negoziata con l’Unione Sovietica. In seguito, nel 1957, incoraggiarono sei Stati membri della NATO – di cui uno militarmente occupato da loro – a concludere il Trattato di Roma, che istituì la Comunità Economica Europea (CEE), antenata dell’Unione Europea. La CEE doveva strutturare un mercato comune, imponendo le regole commerciali volute dalla NATO. Per questo motivo la CEE fu organizzata attorno a due centri di potere: uno burocratico, la Commissione, incaricata di tradurre nel diritto locale le norme anglosassoni della NATO, l’altro esecutivo, il Consiglio dei capi di Stato e di governo, incaricato di attuare i provvedimenti della Commissione nei vari Paesi. Il tutto sotto il controllo di un’Assemblea composta da delegati dei parlamenti nazionali.
Questo sistema da guerra fredda, essendo stato concepito contro l’URSS, fu rimesso in questione con il crollo di quest’ultima, nel 1991. Dopo molte peripezie, Washington impose una nuova architettura: prima dello svolgimento del Consiglio dei capi di Stato e di governo dell’Europa occidentale, il segretario di Stato James Baker annunciò che NATO e CEE – ribattezzata Unione Europea – avrebbero aperto le porte a tutti gli Stati dell’ex Patto di Varsavia, Russia esclusa. Le istituzioni, pensate per sei Stati membri, dovettero essere riformate per funzionare con 28 Paesi, se non più.
Quando il presidente Trump decise di liberare gli Stati Uniti dal carico di obblighi imperiali, alcuni dirigenti europei immaginarono di trasformare l’Unione Europea in superpotenza indipendente e sovrana – sul modello degli Stati Uniti – a scapito dei Paesi membri. Emendarono il bilancio dell’Italia e fecero il processo a Ungheria e Polonia. Incontrarono però troppe resistenze e non riuscirono a trasformare la Commissione in un sovra-Stato. Con l’elezione di Joe Biden, il ritorno del padrino statunitense consente d’intravvedere una nuova via d’uscita istituzionale: la Commissione continuerebbe a tradurre in diritto europeo i sempre più numerosi dettami della NATO e il Consiglio a metterli in atto, ma, dato il numero degli Stati membri, al suo presidente (attualmente Charles Michel) dovrebbe essere riconosciuta una funzione esecutiva.
Fino a oggi i presidenti della Commissione e del Consiglio sono stati posti su un piano di parità. Se il presidente della Commissione è a capo di un’imponente burocrazia, quello del Consiglio è personaggio di bassa levatura, responsabile unicamente di fissare l’ordine del giorno e registrare le decisioni. Entrambi, non essendo [direttamente] eletti, sono semplici funzionari. Il protocollo attribuisce loro identico rango.
Così Charles Michel ha comunicato a Erdoğan, sua comparsa di scena, l’ambizione di diventare il super-capo di Stato dell’Unione, relegando la presidente della Commissione Ursula von der Layen alla funzione di super-primo ministro.
- Charles Michel si aggrappa alla poltrona mentre Ursula von der Layen protesta debolmente con un «uhm!».
È stato solo e soltanto Charles Michel a provocare l’“incidente protocollare” di Ankara. Il presidente Erdoğan è stato ben lieto di assecondarlo, cogliendo l’occasione di dividere gli unionisti europei. Se guardate attentamente i video, vedrete che Charles Michel sale i gradini del palazzo bianco senza aspettare Ursula von der Layen, poi si precipita sulla poltrona libera e vi si aggrappa, guardandosi bene dal cedere il posto alla signora von der Layen o dal lasciare con lei la sala se non si fosse provveduto a portare una terza poltrona. Se leggete la dichiarazione di Michel al termine dell’incontro, non vi troverete nemmeno un cenno all’incidente [2]. Se guardate i video turchi, constaterete che il sofà sul quale siede la presidente della Commissione è di fronte a quello su cui prende posto il ministro degli Esteri turco, Mevlüt Çavuşoglu. Un assetto conforme alle disposizioni del protocollo europeo. Infatti in Turchia, ora regime presidenziale, non c’è più un primo ministro. Çavuşoglu siede quindi correttamente di fronte alla “prima ministra” europea.
Non si tratta perciò di un incidente diplomatico, ma di un tentativo di Charles Michel di arrogarsi un potere in seno all’Unione a danno dell’Unione stessa. La battaglia è appena iniziata.
NOTE
[1] « Le président Biden participe au Sommet du Conseil européen », Maison-Blanche, Réseau Voltaire, 25 mars 2021.
[2] « Intervention de Charles Michel à l’issue de sa rencontre avec Recep Tayyip Erdoğan », par Charles Michel, Réseau Voltaire, 6 avril 2021.
FONTE: https://www.voltairenet.org/article212668.html
La dittatura sanitaria diventa WOKE
(consapevole: https://theskillsfarm.com/neologismi-di-tendenza/)
“Al Parlamento Europeo di Strasburgo, il 12 aprile, s’è discusso di vietare l’uso di gabbie per gli animali allevati nelle fattorie”, mi avverte un lettore. Cerco, e trovo la conferma: si tratta di una istanza che l’Europarlamento presenta come “spontaneamente nata dal basso”, “iniziativa dei cittadini europei (ICE) ” End the Cage Age) (Finire l’Era delle Gabbie”), una ONG di animalisti che ha come dirigenti tali Olga Kikou e Leopoldine Charbonneaux, la prima che si autodefinisce “avvocatessa per la gentilezza verso gli animali e capo della ONG mondiale Compassion in World Farming EU , la seconda direttrice in Francia della medisima “Compassion”.
Ma le due cittadine spontanee sono state accolte trionfalmente dal presidente della Commissione Agricoltura (il tedesco Norbert Lins, PPE) e della Commissione per le Petizioni al Parlamento Dolors Montserrat (spagnola); e la tesi “basta gabbie” è stata sostenuta in successivi discorsi dalla commissaria per la Salute e la sicurezza alimentare Stella Kyriakides , e di Kerli Ats e Guillaume Cros , rappresentanti del Comitato economico e sociale europeo (CESE) e del Comitato delle regioni”.
Quindi non c’è dubbio: l’istanza “spontanea dei cittadini” ha trovato l’euro-oligarchia pronta ad accoglierla, anzi avidamente in attesa di approvare il divieto di usare gabbie nell’allevamento di animali da fattoria. Il voto degli animalisti e green farà il resto: la Rivoluzione Animali Liberi sarà ordinata agli agricoltori europei. Fra pochi giorni.
“Come pensano si possano allevare i conigli?”, si domanda sgomento il lettore.
Ingenuo, pensa che gli eurogarchi green siano accessibili ad argomenti di buon senso; invece qui si assiste alla rapidissima adozione dell’ideologia WOKE da parte della Dittatura Terapeutica, ideologia che positivamente vieta di lasciare che il Bene Assoluto (in questo caso, Gentilezza per le Bestie) venga ostacolato, indebolito o anche solo messo in discussione da meschine considerazioni concrete.
Roberto Pecchioli ha dato qualche esempio della vigente wokenizzazione del Potere eurocratico: “l’Agenzia Europea del Farmaco (EMA) sta valutando di proibire l’adozione del vaccino russo anti Covid Sputnik per motivi “etici”; perché chi ha partecipato alle ricerche potrebbe essere stato costretto a farlo dal governo russo.
A Portland, dove WOKE è nato e crea la nuova civiltà ispirando il Potere globale, ai poveri, se bianchi, sono stati tolti tutti i sussidi, perché il Bene Assoluto prescrive che essi scontino i precedenti secoli di suprematismo bianco; solo i negri hanno i sussidi di povertà: l’imperativo dellUguaglianza Razziale deve attuarsi attraverso la Discriminazione Razziale. L’Oregon ha destinato il fondo di soccorso per Covid (62 milioni di dollari) ai soli residenti di colore; esplicitamente, per legge. La Georgia, per aver varato una legeg elettorale che prescrive che il votante dimostri la sua identità presentando una documento, è stata travolta dalla rivolta “popolare WOKE”, rivolta sostenuta freneticamente da gigantesche multinazionali “ tra cui Amazon, McDonalds, Microsoft, PayPal, Uber, Airbnb, Best Buy, Capitol One, Dow, Hewlett Packard, Macy’s, Starbucks, United Airlines, Pepsi, hanno dato vita a un’incredibile “Alleanza Civica” unita nel rifiuto della nuova legge elettorale georgiana”.
Da cui si vede che l’ideologia WOKE essendo funzionale a progetti dei miliardari, essa sarà adottata nel modo più integrale e senza mitigazioni: totalitario appunto.
Per ordine UE i conigli saranno liberati; prevedibilmente (come accaduto in Australia e ancora accade) devasteranno i raccolti; e chi proverà ad ammazzarli sarà punito per mancanza di Compassion, magari con l’internamento per animal-fobia on ospedale psichiatrico (protetto da Covid). Mucche e pollame sarà parimenti liberato… fino a sparire.
Da qui s’intravvede il motivo centrale l’animalismo WOKE è funzionale al Grand Reset ed è stato da loro promossa: ci aiuterà a rinunciare a cibarci di carne e ad nutrirci delle proteine dei vermi ed altri insetti, raccomandati dal World Economic Forum:
perché molto più sostenibili climaticamente e ad effetto-serra zero… almeno fino al giorno in cui non troveranno una spontanea associazione di cittadini che hanno “compassion” anche di loro. Allora il WOKE è già pronto a fornirci il Soylent Green
Attenzione, non pensate che si parli qui di un rischio futuro: il WOKE è già qui e già impone le sue norme – per esempio – in Germania, dove i Verdi sono il partito in crescita travolgente e in piena ideologia WOKE e con cui dovrà allearsi la CDU al tramonto e in calo di voti.
Un Consiglio di Cittadini per il Clima è già nato in Germania; appoggiato dalla spontanea associazione Scientists for Future, spontanea che è nata dal Friday for Future della nota e spontanea Greta..nel modo più spontaneo s’intende, ma subito patrocinato dall’ex presidente federale Horst Köhler; il 26 aprile 2021 già inizierà i suoi lavori e darà al governo le sue raccomandazioni per ridurre il CO2 e l’effetto-serra. Ovviamente presieduto dall’ex presidente ferale Kohler che ha già dichiarato: “è necessaria una grande volontà di cambiare la società” per raggiungere gli obiettivi climatici. È importante coinvolgere i cittadini nella ricerca di soluzioni e prenderli sul serio.
I social e giornali della sinistra, ogni giorno più WoKE, titolano:
Eco-dittatura? Sì grazie!: ‘Limite di velocità, divieto di volo, uscita del carbone: un duro intervento salva il pianeta’ – a cui si aggiunge adesso il Bene Assoluto della Liberazione dei Conigli e Polli.
La Confindustria tedesca, letto il programma dei Verdi, ha segnalato “moltitudine di divieti, quote e specifiche tecnologiche” imposte all’industria e consumatori sulla base di “una prospettiva molto ristretta su un obiettivo nazionale di protezione del clima” … “ sono elementi costitutivi di un diverso ordine sociale”, in cui la vita delle persone e l’economia sarebbero controllate dallo Stato”. Il grave, segnala il DWN, è che “un focus esclusivo sulla “protezione del clima” e una restrizione dei diritti alla libertà personale che ne derivano – siano ora perseguiti anche al più alto livello dell’UE”.
WOKE per tutti. Lo stalinismo sembrerà una ragazzata.
(La veggente di Garabandal parlò della Chiesa perseguitata da una specie di “comunismo” mondiale. Ogni giorno questa profezia diventa più chiara. Preghiamo sempre più intensamente che Egli abbrevi questo periodo, mandi in malora le loro macchinazioni e trionfi il Cuore Immacolato)
FONTE: https://www.maurizioblondet.it/la-dittatura-sanitaria-diventa-woke/
SCIENZE TECNOLOGIE
Le auto ibride si confermano una pagliacciata dei costruttori e dei legislatori
30 Marzo 2021
VIDEO QUI: https://youtu.be/wfGDUpv6Xq8
FONTE: https://comedonchisciotte.org/forum/spazio-aperto/le-auto-ibride-si-confermano-una-pagliacciata-dei-costruttori-e-dei-legislatori/
Luigi Cavanna: “L’errore italiano contro Covid”
Il primario di Piacenza, pioniere delle cure precoci a domicilio: “Aspettare il virus barricati dentro un ospedale non funziona”
Vinceremo la sfida. In estate saremo al sicuro, dice il ministro della Salute, Roberto Speranza, alla Repubblica. Protetti sotto l’ombrello dell’immunità di gregge scacceremo le nostre paure. E allora potremmo convincerci che cambiare il nostro modello di salute non era necessario, che curare presto e curare a casa era troppo oneroso, che quei centoventimila, o magari centotrentamila morti, erano un prezzo da pagare, una scommessa sulla nostra inguaribile rigidità. Scommessa vinta, perché i morti si dimenticano presto. E la Sanità potrà restare arroccata dentro gli ospedali a regolare i conti tra le diverse e rivali scuole di pensiero, i medici di base torneranno a distribuire prodighe ricette à gogo, senza mai portare il proprio stetoscopio a casa di un malato, i pronto soccorso si affolleranno nei weekend e durante le vacanze invernali, le liste d’attesa si sgonfieranno ma non troppo, e arriverà finalmente il turno dei malati di cancro e dei cardiopatici, o almeno di quelli non decimati dal ritardo delle cure. Tutto sarà come prima, o quasi. E il riordino ospedaliero, la medicina di territorio, i piani antipandemici saranno i titoli di faldoni di carta ingiallita e impolverata, stipata negli scaffali ministeriali. Giro questa distopica, ma non troppo, rappresentazione del futuro prossimo a Luigi Cavanna, primario oncoematologo di Piacenza, pioniere delle cure precoci a domicilio, a cui nei giorni del primo lockdown il Time ha dedicato una copertina.
Professore, il vaccino coprirà, insieme alla nostra fragilità biologica, anche l’incapacità del sistema di mettersi in discussione?
Tutti i rimedi contro le emergenze portano con sé questo rischio. Nella mia esperienza, è la prima cosa che ho pensato quando è arrivata la pandemia. La molla che mi ha indotto a uscire dal reparto è stata quella di evitare che i pazienti intasassero l’ospedale. E occupassero i letti di altri che hanno bisogno di cure, aggiungendo all’emergenza reale del virus un’emergenza indotta dalla reazione sbagliata del sistema sanitario. Mettiamoci un attimo nei panni dei malati di cancro, che devono essere operati e non trovano il posto letto. Non sapremo mai quanti di loro pagheranno con una metastasi il nostro ritardo. Sappiamo però che la mortalità per infarto è nettamente aumentata durante il Covid. Abbiamo ospedalizzato la crisi sanitaria e ne paghiamo il prezzo. Se mi chiedo perché è andata così, mi rispondo che abbiamo peccato di assoluto. Ma la medicina non ha niente di assoluto in sé, è un’esperienza che non cerca verità, mette insieme i suoi dubbi e approda a una nuova esperienza. Non è accaduto.
Perché?
Perché la maggior parte dei colleghi che sono nel comitato tecnico scientifico e nelle altre istituzioni di indirizzo hanno un’estrazione ospedaliera. L’ospedale non copre l’intera realtà della malattia, anzi in un certo senso la distorce, perché la schiaccia dentro la sua gravità. Chi segue il paziente oltre l’ospedale e lo prende in carico prima, durante e dopo il ricovero, sa che la sfida alla malattia si combatte in tempi e con strumenti diversi. La sfida al Covid è anzitutto un’impresa del tempismo: curare presto e a casa per evitare che il malato si aggravi e che il suo aggravarsi impatti sul sistema sanitario, indebolendolo.
Lei quando lo ha capito?
Il 29 febbraio del 2020. È un sabato, ho appena finito la visita in reparto. Dal centralino mi passano una paziente oncologica. Respira a fatica. Viene dal pronto soccorso, le hanno fatto una lastra, ma ha visto tante persone in barella ed è stata presa dal panico, ha firmato le dimissioni e con un taxi è rientrata a casa. Le faccio: «Signora, torni qui, le trovo un posto letto». Mi risponde secca: «No, grazie, se volete venite voi, io non mi muovo». Consulto la sua cartella clinica: 66 anni, operata di tumore e in fase di guarigione. Ha una polmonite bilaterale in stadio intermedio, è sola, senza farmaci, e senza fiato. Chiamo Gabriele, il caposala, ci vestiamo con tuta e mascherina e in un baleno siamo da lei. Faceva fatica a star seduta. Le pratico le prime terapie e le propongo di tornare con me in ospedale. Ma non c’è verso. Allora facciamo un patto: lei mi chiama tre volte al giorno e mi invia su Whatsapp la fotografia del saturimetro. Quella notte non ci ho dormito. Ma, dopo pochi giorni di cure precoci, lei ha iniziato a star meglio.
Da lì la decisione di estendere le visite a casa?
Tutte le mattine alle 9.30 ci incontravamo nella sala della direzione generale per la cosiddetta cabina di regia. E già nei primissimi giorni di marzo abbiamo capito che il pronto soccorso stava andando il tilt. L’afflusso dei malati era ingestibile. L’unica cosa da fare era decongestionare l’ospedale. Ho raccontato al manager e al direttore sanitario la mia esperienza con quella paziente, e si è deciso di riprovarci con altri malati. Un’associazione di volontariato ha postato su Facebook l’iniziativa. Dopo poche ore siamo stati sommersi dalle telefonate. Oggi abbiamo otto squadre di medici e infermieri che hanno fin qui visitato migliaia di pazienti. Il territorio è presidiato, non a caso la pressione sugli ospedali è diminuita rispetto alla prima ondata.
Però la strategia delle cure precoci è ancora, dopo quattordici mesi, un’incompiuta nazionale. I medici di base, con rarissime eccezioni, non mettono i piedi in casa del paziente. Le unita speciali di continuità assistenziale sono un fantasma per lo stesso Ministero della Salute, la medicina di territorio è una terra di nessuno. Non abbiamo imparato niente?
Nella segreteria telefonica dell’ospedale ho lasciato il mio cellulare per i pazienti oncologici, che spesso chiamano per le complicanze. Ricevo ancora messaggi e telefonate di malati di Covid da tutta l’Italia: molti di loro aspettano invano a casa una visita che non arriva e si sentono abbandonati. Il monitoraggio del sistema sanitario è burocratico e difensivo: serve a valutare il colore da attribuire a una Regione e ad aspettare la malattia barricati dentro l’ospedale. Non funziona.
C’è voluta una mozione del Senato, votata alla quasi unanimità l’8 aprile scorso, per certificare che curare subito a casa è un dovere. Che però il servizio sanitario non adempie. È come se, non riuscendo a modificare la sua organizzazione che ha l’ospedale al centro, il sistema abbia teorizzato l’inutilità delle cure precoci?
Temo di sì. Eppure si tratta di una credenza ormai ampiamente contraddetta dalla pratica clinica. Le vittime giovani del Covid sono pazienti giunti all’ospedale dopo dieci o quindici giorni di malattia non trattata. Ma se lei avesse un parente con 38/39 di febbre, tosse insistente e fatica a respirare, gli direbbe di chiudersi in casa con il paracetamolo, aspettando di vedere come va? Cerchiamo di essere pratici. Molti miei colleghi che parlano in televisione non hanno alcun rapporto con i malati.
Che vuol dire in concreto cure precoci?
All’inizio, quando la pandemia è arrivata, eravamo disarmati. I cinesi, colpiti prima di noi, ci suggerivano due o tre farmaci: l’idrossiclorochina, che oggi si fa fatica anche a nominare ma che era nelle linee guida della società italiana di malattie infettive tropicali, e alcuni antivirali già impiegati contro l’Aids, associati ad antibiotici. Timidamente cominciavano a somministrare l’eparina, ma solo per i pazienti allettati. Così abbiamo curato trecentotrenta persone a casa, ricoverandone meno di venti, due sole gravi e nessun morto. Poi sull’idrossiclorochina è caduta la scomunica di Lancet. Oms e Aifa si sono adeguate. Ma eravamo a giugno, e ci siamo illusi che presto non avremmo più visto un malato di Covid. Non è andata così.
Nella seconda ondata lei ha continuato a usare l’idrossiclorochina?
No, ho obbedito all’Aifa socraticamente. Cioè secondo il principio che i divieti si criticano, ma si rispettano. Ho fatto da consulente per i colleghi che hanno portato quel divieto davanti al Consiglio di Stato, vincendo. Ma nel frattempo sono arrivati nuovi farmaci. L’azitromicina, i cortisonici dopo la quinta o la sesta giornata, quando il paziente comincia ad avere difficoltà respiratorie, l’eparina con più coraggio dall’inizio, e molto ossigeno a domicilio. Ma soprattutto i farmaci antinfiammatori suggeriti dall’istituto Mario Negri e dal professor Fredy Suter, cioè Aspirina, Ibuprofene, Aulin. Che, a differenza del paracetamolo, hanno il potere di scongiurare quella reazione autoimmune chiamata cascata di citochine, che attacca e compromette i polmoni.
Com’è andata?
È difficile fare un confronto. Nella seconda ondata abbiamo contato più ricoveri e qualche morto, ma erano malati diversi. Più anziani e con più patologie. Non c’è ancora uno studio retrospettivo, che categorizzi i pazienti per un confronto scientifico. Purtroppo la medicina offre una garanzia di cura che si basa sugli stadi randomizzati, cioè su evidenze sperimentali testate in situazioni ordinarie. Il Covid era ed è qualcosa di straordinario, che meriterebbe una verifica diretta delle terapie applicate. A maggio eravamo stati coinvolti in uno studio dello Spallanzani a quattro bracci, tre sugli antivirali e uno sull’idrossiclorochina. Ma non è mai partito per difficoltà che definirei burocratiche. Peccato, ci avrebbe dato molte informazioni utili.
Vuol dire che ha rinunciato all’idrossiclorochina, ma non è sicuro di aver fatto la cosa migliore?
Molti colleghi dicono che l’idrossiclorochina non funziona ed è pericolosa, citando pubblicazioni che forse non hanno mai letto. Non mi stupisce. Succede così in tutte le professioni. Spunta uno studio, un collega ritenuto importante lo accredita, e una regola s’impone per conformismo. La maggior parte degli studi che bocciano l’idrossiclorochina riguardano pazienti ospedalizzati, con una malattia avanzata, spesso rimasti a casa sette o dieci giorni prima di essere trattati. Non hanno niente, davvero niente a che vedere con un paziente curato precocemente. Assumere un dato in un contesto clinico e trasferirlo in un altro è metodologicamente sbagliato. Con l’idrossiclorochina è stato fatto.
Non vorrà dire che è accaduto perché la sponsorizzava Trump?
No, anche se Trump e Bolsonaro con le loro grossolanità antiscientifiche non hanno fatto le fortune di questo farmaco. Però mi fa un po’ di specie che gli effetti avversi dell’idrossiclorochina sui malati di Covid abbiano tanto preoccupato la comunità scientifica. La stessa che da anni la prescrive senza alcuna remora come profilassi per la malaria a chi va in vacanza in Africa. Anche se magari ha diabete, ipertensione e pesa centoventi chili. Allora mi viene un sospetto: che l’idrossiclorochina sia un farmaco troppo povero per appassionare.
Non teme di apparire ideologico?
E allora dico in premessa che considero gli interessi dell’industria decisivi per il futuro della ricerca. E che se la Coca Cola avesse un effetto anticovid, sarei il primo a prescriverla. Però so che la messa in commercio di un farmaco passa per uno studio randomizzato di fase di tre. Non esiste uno studio simile che non sia sponsorizzato dall’industria. E l’industria non ha un grande interesse a investire su una vecchia molecola antimalarica. Non a caso non esistono riscontri attendibili sull’uso precoce dell’idrossiclorochina. Aggiungo ai miei dubbi quelli del professor Antonio Cassone, ex direttore dell’Istituto Superiore di Sanità, uno che sa come vanno le cose: lui fa notare che le riviste più autorevoli non hanno pubblicano un solo report a favore dell’idrossiclorochina, ma lavori di basso livello che la demolivano. Questo per dire che la ricerca è sovrana, l’industria è utile, ma talvolta non sempre l’una e l’altra promuovono l’interesse generale.
La stessa sorte l’ha subita il plasma. Prima elevato a terapia risolutiva, poi scartato senza un chiaro perché.
Gli studi spontanei, opera di medici di buona volontà, non saranno mai così potenti da superare tutti i paletti richiesti per imporre una terapia. E nessuna industria che produca farmaci è interessata a investire sul plasma.
L’industria ha puntato tutto sui vaccini, trascurando le cure?
Non dico questo. La cura, il vaccino, le rianimazioni efficienti giocano tutte per la stessa squadra. Una malattia infettiva richiede una risposta integrata e multiprofessionale. Ma nessuna strategia da sola vince la partita.
Vuol dire che è mancato un governo politico della ricerca?
Il Covid è arrivato tra capo e collo e ci ha trovato impreparati. Non sono un censore per costume, e non vorrei stare nei panni del decisore politico. Non ha avuto vita facile. Non tener conto di questa complessità significa cedere ai teoremi cospirazionisti o, peggio, negazionisti. Non mi hanno mai appassionato.
E invece i teoremi non sono mancati nel dibattito pubblico tra gli scienziati. Quando ci siamo chiesti perché il Covid uccide di più in Italia, ne abbiamo sentite di tutti i colori. Dall’inquinamento al fatto che, essendo più anziani, siamo più malati. Ma i dati raccontano che nella prima fase della pandemia in Lombardia una persona su quattro è morta in casa. E che la mortalità è diversa da ospedale a ospedale, e da rianimazione a rianimazione. Vuol dire che il filtro della medicina di territorio è stato inesistente e che la risposta dell’offerta clinica è stata e continua a essere disomogenea. E allora non puoi non chiederti perché il governo politico della sanità ha rinunciato a mettere insieme le diverse esperienze, a chiamare attorno a un tavolo i maggiori esperti sul campo per condividere una strategia comune. Dopo 115mila morti lei se lo chiede, professore?
Praticamente ogni giorno. Attorno a quel tavolo mancava chi cura i malati. La cosiddetta real world evidence, che in un’emergenza inedita e straordinaria vale più di uno studio randomizzato.
Prima era fake news, vietato scriverlo…
Prima era “fake news”, e chi l’ha rivelata mesi fa è stato bollato di negazionista cospirazionista criminale, filo-Putin filo-cinese, omofobo, antisemita.
Adesso che è apparsa sul Daily Mail, e financo su Il Messaggero, possiamo riprenderla
Gli scienziati dell’unità segreta del Pentagono stanno ricercando virus e sviluppando cure pandemiche . Lavorano presso la Defense Advanced Research Projects Agency (DARPA) e altri laboratori del Pentagono
- Le squadre della DARPA hanno visto COVID-19 infettare 1.271 marinai a bordo della USS Theodore Roosevelt mentre il virus si diffondeva incontrollato – In risposta hanno sviluppato un microchip per rilevare COVID asintomatico nel tentativo di prevenire un focolaio
- Il chip, immerso in un gel, viene inserito sotto la pelle e attiva un sensore se COVID infetta il corpo
- DARPA ha anche creato un filtro in grado di rimuovere il virus COVID dal sangue quando è collegato alla dialisi
- Stanno lavorando a un vaccino che funzionerebbe contro tutti i coronavirus, anche quelli non ancora identificati
Un’altra invenzione del team di Hepburn è un filtro, che viene posizionato su una macchina per dialisi e rimuove il virus dal sangue. Il trattamento sperimentale di quattro giorni è stato somministrato al “Paziente 16”, il coniuge di un militare, che era in terapia intensiva con insufficienza d’organo e shock settico. “Lo fai passare e questo elimina il virus e rimette il sangue”, ha detto Hepburn. In pochi giorni, il paziente 16 si è ripreso completamente.
La FDA ha autorizzato il filtro per l’uso di emergenza ed è stato utilizzato per trattare quasi 300 pazienti in condizioni critiche.
Hanno nei loro laboratori tessuti di pazienti infettati dall’influenza spagnola 100 anni fa, e nel 2005 un team dell’ospedale Mount Sinai e dei Centers for Disease Control and Prevention (CDC) sono riusciti a ricreare il virus (per usi ulteriori…)
Un altro scienziato, il dottor Kayvon Modjarrad, sta attualmente cercando di creare un vaccino contro tutti i coronavirus. “Questa non è fantascienza, questo è un fatto scientifico”, ha detto allo show.
“Abbiamo gli strumenti, abbiamo la tecnologia, per fare tutto questo adesso.”
Ha detto che l’obiettivo era quello di essere in grado di vaccinare le persone contro virus mortali che non sono stati nemmeno identificati. “Virus killer che non abbiamo visto o nemmeno immaginato, saremo protetti”, ha detto.
Fin qui Daily Mail.
Possiamo quindi smentire che sia Bill Gates a voler inserire microchip terapeutici: è direttamente il DARPA, l’ente di ricerca di nuove armi del Pentagono.
Bill e Melinda c’entrano, vale la pena di rievocare, con qualcosa di molto simile per scopo, segnalato dal MIT (Massachusetts Institute of Technology), nel 2019, con l’ormai storica immagine:
Memorizzazione delle informazioni mediche sotto la superficie della pelle
Coloranti specializzati, forniti insieme a un vaccino, potrebbero consentire l’archiviazione “sul paziente” della storia vaccinale.
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