RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI
14 OTTOBRE 2020
A cura di Manlio Lo Presti
Esergo
Vibrazioni
Tutto ha un suono e una voce nell’Universo.
Tutto ha un suono e una voce nel nostro corpo.
Tutto ha un suono e una voce nell’anima.
Tutto può essere visto e ascoltato attraverso i sensi.
Ma se non ci riusciamo allenandoli, allora il nostro universo resta muto!
Francesca Sifola, scrittrice
FONTE:https://www.facebook.com/100001820256565/posts/4520735384663759/
https://www.facebook.com/manlio.presti
https://www.facebook.com/dettiescritti
Le opinioni degli autori citati possono non coincidere con la posizione del curatore della presente Rassegna.
Tutti i numeri della Rassegna sono disponibili sul sito www.dettiescritti.com
Precisazioni
www.dettiescritti.com è un blog intestato a Manlio Lo Presti, e-mail: redazionedettiescritti@gmail.com
Il blog non effettua alcun controllo preventivo in relazione al contenuto, alla natura, alla veridicità e alla correttezza di materiali, dati e informazioni pubblicati, né delle opinioni che in essi vengono espresse.
Nulla su questo blog è pensato e pubblicato per essere creduto acriticamente o essere accettato senza farsi domande e fare valutazioni personali.
Le immagini e le foto presenti nel Notiziario, pubblicati con cadenza pressoché giornaliera, sono raccolte dalla rete internet e quindi di pubblico dominio. Le persone interessate o gli autori che dovessero avere qualcosa in contrario alla pubblicazione delle immagini e delle foto, possono segnalarlo alla redazione scrivendo alla e-mail redazionedettiescritti@gmail.com
La redazione provvederà doverosamente ed immediatamente alla loro rimozione dal blog.
°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°
SOMMARIO
Margin call ed Enti inutili ignorati dai media e dalla politica
Mascherina. “Non importa se scientificamente ha senso. E’ un segnale”
L’arrivo dell’islam radicale in America Latina – Il caso di Trinidad e Tobago
Lobotomizzati
CHE COSA SIGNIFICA INVECCHIARE OGGI?
Davvero questo governo è così interessato alla salute dei cittadini?
LE ARMI SOFISTICATE BRITANNICHE COMPAIONO NELLE MANI DELLE FORZE SPECIALI FILO RUSSE NEL DONBASS
Linguaggio e natura nella biopolitica contemporanea
L’attualità di Delitto e castigo
LO STRANO CASO DE LUCA/ZINGARETTI E I “DECRETI SICUREZZA”
Le Nazioni Unite ammettono che il vaccino di Gates sta causando un’epidemia di polio in Africa
Benvenuti nel capitalismo della sorveglianza
Carlo Padoan sarà presidente di Unicredit
La saga dei Dpcm, tra paternalismo e forzature giuridiche
Il problema è sempre quello: l’Inghilterra!
Il piano giallorosso per il Quirinale: prolungare il mandato di Mattarella per prendere tempo
MENZOGNA-VIRUS, O IL VIRUS DELLA DE-COSTITUZIONALIZZAZIONE
OMS: «Basta lockdown, raddoppia i bimbi poveri»; grazie presidente Conte
L’altra faccia del facciale
La storia di Alba Fucens
EDITORIALE
Margin call ed Enti inutili ignorati dai media e dalla politica
Manlio Lo Presti – 14 ottobre 2020
Allego la bozza sulle disposizioni governative covid1984 (1) per la conoscenza di tutti e per le opportune considerazioni. Prosegue la de-parlamentarizzazione del nostro Paese a colpi di regolamenti di quarto livello rispetto alla normativa approvata dal Parlamento. Detti regolamenti, pomposamente definiti DPCM, hanno una scadenza che finora, con la tecnica del TIRA E MOLLA, sono rinnovati. Lo stato di emergenza deve proseguire perché giustifica le emissioni di regolamenti
La spiegazione magistrale di questa strategia dello stringi-e-molla è visionabile qui:
NON CI ARRIVATE NEMMENO COSÌ EH…?L'IMMORALE STATO SANITARIO STRINGE LA SUA MORSA, SVEGLIATE LA COSCIENZA O PRESTO CI SARÀ UN TOTALITARISMO SANITARIO DOVE L'UOMO VERRÀ PRIVATO, IN NOME DELLA NUDA VITA, DI QUALSIASI LIBERTÀ.
Pubblicato da Piero Zito su Sabato 10 ottobre 2020
FONTE:https://www.facebook.com/100000672883372/videos/3715863705112689/
La logorroica emissione di una succecciose a raffica di provvedimenti ha causato per prima la la palese estromissione del Parlamento come luogo primo e unico delle decisioni sull’indirizzo politico del Paese.
Siamo di fronte alla realizzazione di gran parte del P.R.D. (Piano di Rinascita Democratica) di Gelli (2), su mandato di Cefis che a sua volta agiva per conto della CIA di cui era un addetto.
Teniamo conto che le pandemie europee e le politiche sostenibili-ecologiche-green-con treccine e pesciolini, sono strumenti per tenere le economie dell’area euro a TASSO ZERO affondando l’intero pianeta nella morsa del pauperismo spacciato per decrescita felice. In questo modo sono salvi i valori di borsa dei derivati detenuti nei portafogli titoli delle finanziarie, dei fondi sovrani e dei fondi pensione. Questo motivo VERO è coperto dallo sciame sismico dell’ecologismo, della cosiddetta pandemia ecc ecc ecc
Ma quante migliaia di bonifici sono stati inviati dalle multinazionali, da fondi sovrani, dai fondi pensione in favore dei centri decisionali del nostro Paese per arrivare a tutto questo?
Bankit, Consob, Guardia di Finanza, commissioni parlamentari di vigilanza, Authorities, Bruxelles, NATO, CIA, NSA, Germania, Francia, Inghilterra tacciono…
Nessuno, ripeto NESSUNO vuole chiarire che il disastro economico e sociale in Europa è la conseguenza della IMPOSIZIONE OSSESSIVA DEL TASSO ZERO CHE CREA DEPRESSIONE, STAGNAZIONE E DISOCCCUPAZIONE ENDEMICA.
Avere una visione più ampia delle linee di tendenza fornisce una chiave di lettura più articolata di dati che sembrano slegati fra loro.
Qualcuno parli del MARGIN CALL che è la chiave di questo caos socioeconomico in corso…
https://www.sostrader.it/2020/04/23/margin-call/
Ad integrazione delle mie riflessioni sulla distruttività del meccanismo “margin call”., propongo la lettura di questo articolo scritto senza ricorrere a stregonesche ermeneutiche tecnico-semantiche per non far capire nulla. La prosa dell’articolo è chiarissima (3) e va letto con pazienza ed attenzione.
Qualcuno parli della necessitò di eliminare e chiudere rapidamente oltre 9.000 (novemila) enti inutili che costano annualmente 12.000.000.000 (dodicimiliardi) di euro ai contribuenti italiani! Una tela di ragno vischiosa che viene definita con il più nome di parastato … Nessuno tratta questo argomento perché questo coacervo di strutture parassitarie occulte servono da paracadute per i politici trombati o “messi democraticamente a riposo” dopo feroci lotte intestine e remunerati adeguatamente con la presidenza di uno o più enti inutili. Onore al professor Cottarelli che ne fece ampia menzione quando ebbe l’incarico di semplificare la jungla burocratica statale italiana. Dopo pochi mesi – farlo subito sembrava proprio sporca – lo fecero fuori da tutto!
https://www.change.org/p/uscm-palazzochigi-it-egregio-sig-presidente-del-consiglio-in-qualita-di-cittadino-italiano-chiedo-che-lei-si-attivi-immediatamente-ad-emanare-decreti-attuativi-per-l-abolizione-degli-enti-inutili
Il totale e omertoso silenzio su questi due argomenti non trattati da nessuna organizzazione politica, centri di opinione, televisioni, web, carta stampata di terra, di mare, di aria, denotano la immensa e cinica ipocrisia di tutta la classe politica italiana. Ripeto: TUTTA.
Il resto, è retorica da bar, propaganda, sciame fonetico per distrarre e far capire niente …
Ne riparleremo!!!
NOTE
- https://www.gazzettaufficiale.it/eli/gu/2020/10/13/253/sg/pdf
- https://www.misteriditalia.it/loggiap2/ilpiano/P2(piano).pdf
- https://andreacecchi.substack.com/p/cos-la-margin-call-e-perch-ci-deve
IN EVIDENZA
Mascherina. “Non importa se scientificamente ha senso. E’ un segnale”
Per confronto:
TBC: 4000 nuovi casi l’anno. i dati generali; i dati sulle forme resistenti; i dati sulla coinfezione Hiv-Tb.
Portata da immigrati: “La proporzione di casi in persone immigrate è in costante aumento e, nel 2008, è stata del 46%. L’incidenza della patologia tra la popolazione italiana è stata di 3,8 casi per 100 mila abitanti mentre quella tra le persone nate all’estero è stata di 50-60 casi per 100 mila abitanti.
Due focolai scolastici nel 2009: Focolaio di Tbc in una scuola materna ed elementare in Italia
In Italia, nell’inverno 2008-2009, 62 bambini sono stati coinvolti in un focolaio (43 bambini con diagnosi di Tbc latente e 19 con Tbc attiva) sviluppatosi all’interno di una struttura educativa che ospita due scuole materne e una scuola elementare. Le indagini che hanno portato alla definizione del focolaio sono state avviate nel novembre 2008 in seguito al ricovero di una bambina di tre anni con Tbc polmonare. L’identificazione della patologia ha indotto le autorità sanitarie a svolgere un’indagine tra gli allievi dell’istituto da cui è emersa la positività al test cutaneo Mantoux (≥ 5 mm indurimento) per il 16,2% dei bambini.
L’arrivo dell’islam radicale in America Latina – Il caso di Trinidad e Tobago
7 ottobre 2020 – Emanuel Pietrobon
Un gruppo terroristico fa irruzione nell’edificio del Parlamento, prendendo in ostaggio il primo ministro e tentando di effettuare un colpo di stato che porti all’instaurazione di una teocrazia islamica; l’azione termina in un bagno di sangue ma la democrazia sopravvive. Alcuni anni dopo una cellula della stessa organizzazione viene sgominata prima che consumi un attentato contro l’aeroporto John Fitzgerald Kennedy di New York. Sullo sfondo di questi eventi, l’internazionale jihadista mette gli occhi su questo Paese e inizia a reclutare centinaia di combattenti, trasformandolo in una fabbrica del terrore. Potrebbe essere una storia accaduta in qualche angolo del Medio Oriente, del Nord Africa o dell’Africa subsahariana, se non fosse che è accaduta in un Paese cristianissimo e, apparentemente, privo di qualsivoglia legame con l’islam radicale e l’internazionale jihadista: Trinidad e Tobago. Quella che stiamo per raccontarvi è una storia vera, ed è il secondo appuntamento della rubrica sull’arrivo del terrorismo islamista in America Latina.
Un paradiso trasformatosi in un inferno
Vi è un posto in America Latina, più precisamente nei Caraibi, che possiede la triste fama di Paese dell’emisfero occidentale con il più alto tasso procapite di abitanti arruolatisi nello Stato Islamico: Trinidad e Tobago. Parliamo di uno stato insulare dalla storia atipica. Contrariamente al resto dell’America Latina, che è stata storicamente a maggioranza cattolica, Trinidad e Tobago ha una tradizione sedimentata di pluralismo culturale e religioso, le cui origini risalgono al 18esimo secolo e che è riflesso di una composizione etnica particolarmente eterogenea. Trinidad e Tobago è un luogo colorito e sfaccettato in cui cristiani, musulmani e induisti hanno convissuto pacificamente per due secoli, lavorando insieme alla costruzione di un’identità (multi)nazionale basata sul sincretismo. Sul finire degli anni ’60, poi, la svolta: la pax sociale si interrompe. Trinidad e Tobago viene travolto dalle proteste studentesche, come il resto dell’Occidente e dell’America Latina, che qui assumono un carattere etnico perché a prendervi parte sono soltanto i membri della minoranza afrocaraibica. È l’inizio della fine di due secoli di convivenza pacifica: i manifestanti vogliono sovvertire il presunto ordine culturale bianco-centrico imperante, la protesta viene ribattezzata la “rivoluzione del potere nero” (Black Power Revolution) e diventa violenta, terminando in un bagno di sangue. Il punto di forza di Trinidad e Tobago si scopre improvvisamente essere un grande tallone d’Achille: le etnie si dividono, smettendo di dialogare e iniziando a preferire le enclavi al cosmopolitismo.
La rivoluzione del potere nero fu sedata soltanto in superficie, perché il malcontento serpeggiante tra i neri rese possibile continuare la lotta a livello sotterraneo, culturale. I capi rivoluzionari importarono nello stato-isola gli insegnamenti di pensatori afroamericani radicali, appartenenti alle Pantere Nere e della Nazione dell’Islam (NoI). Impossibilitati a cambiare il sistema, si sarebbero autosegregati seguendo i consigli della NoI: separatismo nero. Fu in questo contesto di rivoluzione culturale creduta morta, ma in realtà soltanto sepolta, che il 27 luglio 1990 il Paese fu svegliato dalla notizia scioccante dell’assalto armato al Parlamento da parte di un esercito composto da 114 soldati, rispondente ad un’organizzazione terroristica sconosciuta: Jamaat al Muslimeen (JaM). Negli stessi minuti si attivarono altri gruppi di golpisti, attaccando commissariati, occupando la sede della televisione nazionale e mettendo a ferro e fuoco le strade della capitale, Port of Spain. In totale, almeno 250 soldati di JaM avrebbero preso parte alle operazioni. Si tratta ancora oggi del primo ed unico colpo di stato tentato da un’organizzazione terroristica islamista nelle Americhe. La crisi, aggravata da una presa di ostaggi, terminò dopo quattro giorni di negoziazioni con un bilancio di 24 morti e 231 feriti. Da allora se qualcosa è cambiato, è stato in peggio.
L’entrata in scena di JaM ha consacrato la trasformazione di Trinidad e Tobago nel principale bacino di reclutamento dell’internazionale jihadista nelle Americhe, dapprima per Al Qaeda e dopo per lo Stato Islamico. La domanda alla quale tenteremo di rispondere in questo approfondimento è la seguente: come ha potuto un Paese come Trinidad e Tobago, nato e maturato all’ombra del multiculturalismo, trasformarsi in un inferno a cielo aperto, diviso non in quartieri ma in ghetti etnici, dai cui ventri sono stati partoriti centinaia di jihadisti?
Dal nazionalismo nero al terrorismo islamista
Trinidad e Tobago è stato storicamente uno dei Paesi più multirazziali delle Americhe. Secondo il censimento della popolazione del 1946 gli abitanti di origine indiana, africana o mista, rappresentavano il 96% del totale; nel 2011 erano divenuti il 99%. Cristianesimo, induismo e islam sono le più grandi religioni del Paese e godono del riconoscimento ufficiale di pilastri fondanti dell’identità nazionale trinidadiana. Gli appuntamenti sacri cristiani, induisti e musulmani fanno parte del calendario festivo e ognuna di queste tre fedi è stata tradizionalmente coinvolta negli affari politici e nella società perseguendo gli obiettivi di migliorare il dialogo interconfessionale, di risolvere problematiche varie e di rafforzare la coesione sociale. Tornando al censimento del 2011, questo era il panorama religioso nel dettaglio: cattolici (21.6%), induisti (18.2%), pentecostali (12%), anglicani (5.7%), battisti (5.7%) e musulmani (5%).
Questa conformazione molto eterogenea è il motivo per cui il nazionalismo trinidadiano non è mai stato di tipo civico ma etnico. Le tensioni interreligiose, specie tra induisti e musulmani, risalgono al 18esimo secolo ma non hanno mai raggiunto una dimensione tale da provocare la rottura della pax sociale. Quelle tensioni, anzi, avevano contribuito a rafforzare il modello d’integrazione, generando arricchimento culturale e sincretismo produttivo sino alla fine degli anni ’60. La letteratura accademica è concorde: alla base di ogni forma di nazionalismo giace una profonda tensione tra elementi civici ed etnici. Il nazionalismo civico lega gli individui di una comunità facendo leva sulla condivisione di valori fondanti dello stato-nazione. Chiunque, perciò, può aspirare a diventare membro a pieno titolo del Paese, al di là della lingua parlata, delle pratiche culturali o delle origini razziali. Il nazionalismo etnico è molto differente perché enfatizza l’importanza di elementi quali il luogo di nascita, la cultura autoctona, la religione; solo una persona che soddisfa questi criteri basati sul sangue può diventare un membro della nazione. Nel caso di Trinidad e Tobago, i tre più grandi gruppi etnici hanno lavorato insieme per formare un terreno comune in cui collaborare per il benessere nazionale ma senza mai perdere le rispettive identità – che, a volte, sono state la causa principale di ambizioni separatiste e tensioni.
Oggi come in passato essere trinidadiano significa essere indiano, nero o di razza mista, e seguire e predicare l’induismo, il cristianesimo o l’islam. Il modello multiculturale ha funzionato per più di un secolo ma, alla fine, si è rivelato incapace di appianare il malessere serpeggiante tra i trinidadiani di discendenza africana, che hanno sempre percepito se stessi come un gruppo escluso dalla società – ragion per cui hanno iniziato a scontrarsi con essa a partire dall’entrata in scena del movimento del nazionalismo nero. Nel 1968 l’attivista politico Makandal Daaga, nato Geddes Granger, fondò il Comitato Nazionale di Azione Congiunta (NJAC, National Joint Action Committee) in un’aula dell’università delle Indie occidentali con l’obiettivo di sfidare il Movimento Nazionale del Popolo, l’allora partito di governo, accusato di perseguire gli interessi della minoranza bianca a detrimento di neri e mulatti. Daaga si formò leggendo i testi e i discorsi degli esponenti della NoI e del Partito delle Pantere Nere e iniziò a predicare gli insegnamenti anti-imperialisti di Fidel Castro, Malcolm X, Stokely Carmichael e Tubal Uriah Butler, invitando la comunità nera a rivoltarsi contro il governo e a dar vita ad un nuovo ordine politico e culturale nero-centrico.
Molto presto le proteste diventarono violente e tra il 1968 e il 1970 il Paese fu scosso da frequenti e violenti disordini civili. Il NJAC ottenne un importante risultato nel 1970, quando convinse i sindacati a paralizzare l’economia nazionale per mezzo di uno sciopero generale delle principali categorie. Quello stesso anno il governo avrebbe proclamato lo stato di emergenza per ripristinare l’ordine nel Paese con l’introduzione del Public Order Act: maggiore repressione, esecuzioni extra-giudiziali, restrizione delle libertà civili e dei diritti negativi. Il pugno duro del governo riuscì a restaurare la calma, ma solo in superficie, perché le idee della rivoluzione nera continuarono a sopravvivere all’ombra delle crescenti povertà, polarizzazione e disuguaglianze sociali. Il successivo arrivo dell’islam politico avrebbe contribuito a riaccendere le tensioni, mescolandosi al, e attingendo dal, nazionalismo nero trinidadiano. L’idea che non si possa comprendere quando sta accadendo a Trinidad e Tobago senza riagganciarsi alla storia del nazionalismo nero ha avuto un certo successo in ambito accademico ed è stata esposta dai politologi John McCoy e Andy Knight, autori di uno studio del 2017 sulle origini della radicalizzazione religiosa tra i musulmani trinidadiani. Secondo il duo il nazionalismo nero sarebbe stato gradualmente sostituito dall’ideologia del separatismo afro-islamista fra gli anni ’80 e gli anni ’90 dopo che una parte consistente dei capi storici della rivoluzione del potere nero si sarebbe convertita all’islam. È in quegli anni che sarebbe iniziata la trasformazione di ghetti neri in enclavi afro-islamiche, e la povertà endemica e l’esclusione sociale avrebbero facilitato grandemente il lavoro ai predicatori radicali giunti nello stato-isola per diffondere il verbo distorto del Corano predicato dall’internazionale jihadista.
Jamaat al-Muslimeen
Un’organizzazione in particolare ha saputo trasformare quel malessere in consenso, trasformando l’islam in un’arma da impiegare contro il governo e riuscire laddove fallirono i protagonisti della rivoluzione del potere nero: Jamaat al-Muslimeen (JaM). Si tratta un’organizzazione sui generis, impossibile da inquadrare all’interno di una sola categoria, essendo impegnata in attività religiose, caritatevoli e, al tempo stesso, coinvolta in traffici illeciti e omicidi. JaM è stata fondata nel 1980 dall’imam Yasin Abu Bakr, al secolo Lennox Philip, con l’obiettivo di aiutare i trinidadiani di origine africana a recuperare la loro coscienza razziale per mezzo della conversione all’islam, ritenuta la religione originale di tutti gli afro-caraibici – un evidente ricollegamento alle teorie della NoI. Molto presto JaM si è trasformata in un’organizzazione simil-mafiosa con interessi nel traffico di sostanze stupefacenti e di armi, nello sfruttamento della prostituzione, nelle rapine, nelle estorsioni e nei sequestri. I proventi di tali attività sono stati utilizzati per finanziare programmi sociali, costruire moschee e permettere la ramificazione di Jam sull’intero territorio.
Ricostruire le vere origini di JaM è impossibile per il semplice fatto che mancano documenti fondativi e le informazioni su Abu Bakr nel pre-conversione scarseggiano. Qualcosa, però, è emerso: le indagini statunitensi svolte su JaM hanno concluso che sin dagli albori un ruolo-chiave sia stato giocato da Muammar Gheddafi, il defunto capo di stato libico. Gheddafi avrebbe visto nel sunnismo radicale di JaM l’opportunità di diffondere sentimenti antioccidentali nel cortile di casa degli Stati Uniti in un’epoca di confronto duro e acceso. Alla sua morte, avvenuta nel lontano 2011, lo stato-isola ha poi sperimentato l’arrivo del wahhabismo, certificato da uno strano e fitto via vai da Riad a Port of Spain, e dello Stato Islamico, dimostrato dalle numerose partenze nel Siraq.
Ma facciamo un passo indietro e torniamo a quel 27 luglio 1990, la data in cui il mondo ha scoperto l’esistenza di JaM. Quel giorno, duecentocinquanta soldati, pesantemente armati e pronti a morire per Abu Bakr, fecero irruzione nel Parlamento con l’obiettivo di consumare un colpo di stato e instaurare una teocrazia islamica. Tra i politici ivi presenti presi in ostaggio, lo stesso primo ministro dell’epoca, Arthur Raymond Robinson. Dopo quattro giorni di negoziazioni, interrotte dai periodici scontri a fuoco e dai tentativi di irruzione nell’edificio da parte delle forze di sicurezza, il governo optò per la scelta più drammatica: amnistia ad Abu Bakr e ai golpisti, nonostante la morte di ventiquattro persone, e la promessa che JaM non sarebbe stato dissolto né perseguito penalmente. E così fu. Ma perché accadde? L’esecutivo aveva paura che una campagna repressiva contro JaM avrebbe potuto trascinare il paese in nuova una stagione di tumulti razziali, similmente agli anni ’70. Si optò per la scelta più insensata: fare finta che nulla fosse avvenuto. E niente continuò ad essere fatto anche nei ghetti che, per via dell’assenza statale, si sarebbero gradualmente trasformati in roccaforti inespugnabili di JaM.
Il curioso caso di Trinidad e Tobago ha ovviamente attirato l’attenzione dei protagonisti dell’internazionale jihadista e, ancor prima di loro, dei volti noti del separatismo nero di stampo islamico. È il caso della Nazione dell’Islam che nel 1993 inviò nel Paese David Muhammad, un carismatico predicatore britannico, con l’obiettivo di sfruttare le rinate tensioni etniche per promuovere il radicamento dell’organizzazione, reclutare adepti e stringere un’alleanza con JaM. Muhammad è riuscito nell’intento perché, oggi, JaM e NoI collaborano attivamente in ogni settore: dalla manutenzione delle moschee all’elaborazione di programmi sociali ed educativi, dal supporto delle economie nere nei ghetti alla diffusione dell’islam in ogni angolo del Paese. Un campo in cui la NoI è particolarmente attiva sono le carceri. Lì, i predicatori dell’organizzazione dialogano con i detenuti, offrono loro sostegno spirituale e li introducono all’islam, distribuendo gratuitamente copie del Corano.
L’alleanza tra JaM e internazionale jihadista
Nel corso del tempo il sunnismo radicale propugnato da JaM, la cui carica polarizzante è stata aumentata dal sodalizio con la NoI, è stato sfruttato dall’internazionale jihadista per reclutare soldati e avverare il sogno di Gheddafi: creare un problema agli Stati Uniti nel loro cortile di casa. Washington si è accorta di avere un problema di islam radicale nelle Americhe nel 2007, quando i servizi segreti sventarono un attentato all’aeroporto John F. Kennedy di New York orchestrato da una cellula di JaM. Una prima assoluta: un piano assassino elaborato da dei terroristi islamisti di origine caraibica; la prova che la guerra al terrore dell’amministrazione Bush avrebbe dovuto essere ripensata e allargata alle Americhe. Ma JaM non è solo terrorismo: le indagini condotte dagli agenti statunitensi hanno appurato che essa abbia stabilito legami affaristici con l’intera galassia del crimine organizzato latinoamericano, dai cartelli della droga messicani a quelli venezuelani, passando per la collaborazione con le Forze Armate Rivoluzionarie Colombiane (FARC). Ma quanto grave e preoccupante fosse, e sia, la situazione radicalizzazione e terrorismo a Trinidad e Tobago lo si è capito soltanto all’indomani dell’ascesa dello Stato Islamico di Abu Bakr al Baghdadi. Negli anni più intensi dell’assalto jihadista a Siria e Iraq (2013-15) si stima che tra i 130 e i 400 trinidadiani abbiano lasciato il Paese per recarsi al fronte. Numeri che rendono Trinidad e Tobago il primo bacino di reclutamento del Daesh nelle Americhe e gli sono valsi il titolo non invidiabile di Paese con il tasso più elevato di combattenti stranieri procapite del continente, uno dei più alti al mondo. Abu Bakr e JaM, pur negando di avere rapporti di sorta con il Daesh, hanno più volte espresso supporto alla causa jihadista; anche in questo caso senza subire conseguenze da parte delle autorità. Neanche le informative provenienti da Washington circa i legami tra JaM e il terrorismo internazionale hanno convinto il governo a valutarne la messa al bando o, quantomeno, l’arresto dei membri più pericolosi.
Il vero problema è che l’immobilismo governativo, controbilanciato da un attivismo senza sosta di JaM, sta facendo sì che la retorica antiamericana, anti-bianca e anticristiana si stia espandendo a macchia d’olio in tutta la comunità musulmana nazionale. Non è più soltanto JaM a parlare con toni enfatici del jihad, anche le altre organizzazioni di rappresentanza si sono unite al coro, come il Fronte Islamico Trinidadiano; una situazione raccapricciante. Dylan Kerrigan è uno dei pochi antropologi ad essersi interessato al fenomeno Trinidad e Tobago e ha effettuato un’indagine approfondita sulle partenze nel Siraq. Lo studioso ha scoperto che la maggior parte dei trinidadiani che ha abbandonato il Paese per arruolarsi nel Daesh presentava dei tratti comuni: età compresa tra i 16 e i 25 anni, precedenti penali, residenza nei ghetti, scarsa o nulla formazione scolastica. In breve, secondo Kerrygan, non sarebbe stata la religione il motivo conduttore delle partenze en masse ma la promessa di un ritorno economico ricevuta dai reclutatori. Sicuramente dietro i riscontri dell’antropologo c’è del vero, ma ridurre le partenze ad una questione di denaro condurrebbe ad una semplificazione del problema erronea e incapace di offrire soluzioni. L’aspettativa di un ritorno economico può spiegare una parte delle partenze, ma non di tutte. Sono i fatti a confutare la tesi di Kerrygan, come la storia di Tariq Abdul Haqq.
Haqq, classe 1990, era un campione di pugilato di fama nazionale, medaglista ai giochi del Commonwealth e personaggio pubblico. Ad un certo punto del 2013 Haqq sparì dalla circolazione e dai riflettori per poi comparire in Siria nelle file del Daesh. Decise di abbandonare la promettente e folgorante carriera sportiva a soli 23 anni per giurare fedeltà, curiosamente, ad un Abu Bakr – non il fondatore di JaM, ma il fondatore del Daesh, Abu Bakr al Baghdadi. Dopo essere comparso in un video propagandistico destinato al pubblico latinoamericano, Haqq è stato ucciso sul campo di battaglia in Siria nel 2015. Il luogo della morte e il sito del cadavere restano tuttora ignoti. Come, quando e da chi sia stato radicalizzato Haqq continua ad essere oggetto di dibattito. Ciò che sappiamo è che la sua storia è utile a capire che l’islam radicale non attecchisce soltanto nei quartieri poveri e sulle persone più vulnerabili.
Conclusioni
Il modello multiculturale trinidadiano è fallito perché non ha saputo evolversi. Le domande di giustizia sociale della comunità nera sono state prima represse e poi ignorate, offrendo dei margini di manovra ad attori non-statuali altrimenti impossibili da conquistare. Quegli attori, sfortunatamente per Port of Spain, si sono rivelati uno più pericoloso dell’altro: JaM, NoI, Al Qaeda, Daesh. Oggi che la guerra contro lo Stato Islamico è quasi giunta al termine e che in alcuni Paesi occidentali si discute di riformare il modello d’integrazione e di come trattare i combattenti di ritorno, a Trinidad e Tobago continua a mancare un dibattito sul tema. Inoltre JaM è ancora operativo: non sono bastati i sospetti di un’alleanza con il Daesh, i crimini tremendi come lo stupro e l’uccisione dell’imprenditrice Vindra Naipul-Coolman e l’assassinio della senatrice Dana Seetahal, la scoperta di una cospirazione tesa all’eliminazione dell’attuale primo ministro e la maxi-operazione che nel febbraio 2018 ha evitato che il carnevale di Port of Spain venisse insanguinato da un sanguinoso attentato.
Il rischio è che, a questo punto, JaM possa sfruttare l’inerzia delle autorità per tentare un nuovo colpo di stato, questa volta senza armi. Fuad, il figlio di Abu Bakr, nel 2010 ha fondato un partito politico, “Nuova Visione Nazionale” (NNV), con il quale sta tentando di trasformare JaM in una forza di potere istituzionalizzata. Il partito di Fuad è la voce delle periferie dimenticate dal governo centrale ed è cresciuto a tal punto che quest’anno, 2020, ha azzardato il classico passo più lungo della gamba: entrare in Parlamento.
I partiti di governo hanno agitato (giustamente) lo spettro di Abu Bakr e riesumato il ricordo del fallito golpe del 1990, mentre la grande stampa ha ripescato vecchie interviste in cui Fuad difende e giustifica l’operato del genitore e, in particolare, l’assalto al Parlamento. La campagna di terrorismo psicologico ha vinto: NNV non ha vinto neanche un saggio, ma il vero traguardo di Fuad è che già si parli del suo tentativo. Le macchinazioni dei partiti tradizionali e della stampa di massa hanno impedito a Fuad di entrare in Parlamento, ma la storia recente e le tendenze demografiche (l’islam è la religione con il più alto tasso di crescita nel Paese) sono dalla sua parte. La domanda, a questo punto, è: per quanto a lungo si potrà evitare l’entrata nelle istituzioni della famiglia Bakr?
FONTE: https://www.lintellettualedissidente.it/controcultura/esteri/larrivo-dellislam-radicale-in-america-latina-il-caso-di-trinidad-e-tobago/
ATTUALITÁ SOCIETÀ COSTUME
Lobotomizzati
Roberta Cutrone
Bisogna essere dei lobotomizzati per continuare a difendere e dare credito a questo Governo di incompetenti e traditori, dopo tutti i disastri che hanno combinato !!!
Hanno consentito, anche in piena pandemia, a centinaia di perfetti sconosciuti, privi di qualunque documento di identificazione, di cui non si conosce né la storia giudiziaria, tanto meno quella sanitaria, di varcare ogni giorno, i nostri porti ed i nostri confini, alcuni ci costringono ancora a mantenerli su navi da crociera, altri nei centri di accoglienza che essendo strapieni, le persone che ci vivono, non possono mantenere il distanziamento sociale, indispensabile per limitare i contagi.
Mi chiedo, quanti positivi al covid, gli sono sfuggiti al controllo ? Mentre noi, cittadini italiani, veniamo costantemente monitorati e sottoposti ad ogni tipo di restrizioni assurde. Ma solo io noto che proprio quelli che oggi ci vogliono imbavagliati anche all’aperto, per evitare la diffusione del virus, erano gli stessi che ieri sminuivano il problema, facendo gli sbruffoni con apericene, ripetendo abbraccia un cinese ed a dirci che l’unica malattia contagiosa, fosse la nostra ignoranza, salvo poi rimangiarsi tutto, quando ormai, la situazione gli è inevitabilmente sfuggita di mano ?
Comunque, questa nuova ordinanza la trovo molto ridicola e leggendo i pareri dei più importanti virologi, non ho tutti i torti, perché non ha alcuna ragione scientifica, l’obbligo di mascherine all’aria aperta a meno che ci si trovi in situazioni di assembramenti, come negli orari e nei luoghi della movida : https://www.iltempo.it/…/mascherina-obbligatoria…/amp/ aspetto con ansia gli sviluppi della situazione, visto che anche il TAR, ha bocciato Zingaretti. https://m.facebook.com/story.php?story_fbid=3332342756818878&id=109837580722063. Comunque, qui nel Lazio 5 morti di Covid, su 6.000.000 di abitanti, neanche uno per milione… Ora, c’è qualche luminare che possa spiegarmi, qual’è l’evidenza scientifica, medica e statistica che supporta l’obbligo di mascherine anche all’aperto ?
Poi, sul nuovo Dpcm del dittatorello si legge: “Nei luoghi privati il titolare, può consentire l’accesso a un massimo di dieci persone diverse dal proprio nucleo familiare risultante dall’anagrafe comunale e che le autorità potranno in qualsiasi momento chiedere l’accesso all’abitazione per procedere all’identificazione dei soggetti presenti nell’immobile”.
In sostanza hanno fatto una Legge speciale in deroga al principio costituzionale dell’inviolabilità del domicilio (art. 14 Costituzione). Ricordo che la “segnalazione” era ed è uno strumento tipico dei regimi, come quello nazista di Hitler e comunista di Stalin.
C’è ancora qualcuno che ha il coraggio di negare l’evidenza che siamo in pieno regime fascio-comunista???
CHE COSA SIGNIFICA INVECCHIARE OGGI?
Il 2 ottobre ricorre la festa dei nonni, e anche quest’anno è stata un’ottima occasione per passare del tempo in famiglia e per riflettere sulla condizione dell’anziano oggi. Cominciamo dal principio. Chi può definirsi anziano?
La Società Italiana di Gerontologia ha definito nel 2018 “anziana” quella persona che ha tra i 65 anni compiuti e i 75 anni. Con una speranza di vita che si è allungata di molto, vivendo in un paese sviluppato e avendo la possibilità di mantenerci allenati sia dal punto di vista fisico che mentale, possiamo operare una distinzione ulteriore all’interno della categoria “anziano”.
Ci sono anziani che appartengono alla terza età, ovvero coloro che godono di buone condizioni di salute, e anziani che appartengono alla quarta età, ovvero coloro che purtroppo devono dipendere da altri per eseguire le operazioni più elementari.
Come se non bastasse, possiamo suddividere gli anziani in giovani anziani se hanno un’età compresa tra i 64 e i 74 anni, anziani veri e propri se hanno dai 75 agli 84 anni e grandi vecchi se hanno tra gli 85 e i 99 anni. Dopo i 99 anni si diventa senza dubbio centenari. Ma pochi ce la fanno.
In realtà, la tendenza che si sta affermando di recente è quella di definire anziana quella persona che ha compiuto 75 anni, in quanto i sessantacinquenni di oggi sono paragonabili ai quarantacinquenni di trent’anni fa e peraltro sono ancora in età da lavoro, perciò non possono essere considerati anziani.
Il primo Rapporto Censis – Tendercapital [1] pubblicato nel 2019, dedicato alla Silver Economy e alle sue conseguenze aveva evidenziato che in 25 anni il benessere economico degli over 65 è aumentato del 77%, in quanto gli anziani italiani si sono dichiarati soddisfatti del proprio tenore di vita e hanno speso risorse in attività che migliorano la qualità della vita grazie a risparmi e beni di proprietà, perché il livello medio di una singola pensione non supera i mille euro al mese.
Poi è arrivato il Covid. Il rapporto La silver economy e le sue conseguenze nella società post Covid-19 pubblicato a giugno 2020 [2] dai medesimi Enti ha messo in risalto una figura di anziano che diventa un ostacolo nel momento in cui è ritenuto colpevole di vivere troppo a lungo e questa longevità diventa un peso e un costo per la società e per i giovani.
È dimostrato ormai il fallimento del settore della residenzialità per anziani in Italia e soprattutto in Lombardia durante il Covid, considerati gli oltre 9mila decessi tra positivi e affetti da sintomi influenzali, ma che è stato solo il risultato di anni di inefficienze e di mancati interventi a sostegno della sicurezza delle persone.
Leggi anche:
Coronavirus, il disastro in Lombardia poteva essere evitato?
Cos’è che abbiamo perso di vista? Gli anziani possono essere davvero attivi e felici? Se, come sostiene Adriano Fabris in Relazione. Una filosofia performativa [3], «invecchiare è il farsi del tempo» perché «vecchi non si è ma si diventa» e quindi la vecchiaia è una condizione insita nel nostro essere dal momento che siamo nati. Non si comprende allora l’avversione e il senso di fastidio che nutriamo spesso verso i nostri anziani e questo nostro desiderio di restare sempre giovani. Ogni anziano porta con sé un’esperienza di vita e può continuare a dare un contributo alla società, soprattutto alle giovani generazioni.
Il problema dell’invecchiamento nella civiltà occidentale è il progressivo rallentamento della vita sociale, ovvero “l’irrigidirsi delle relazioni” fino a quando la vita diventa mera sopravvivenza. Ma le persone non sono cose e se non fossimo accecati dal continuo consumo di cose a cui ci spinge questa società liquida in cui viviamo, per riprendere il pensiero di Zygmut Bauman, capiremmo che ogni persona è un valore.
Leggi anche:
Società liquida e postmodernità: l’irrisolvibile in Zygmunt Bauman
Invecchiare è un’esperienza che ci auguriamo di poter vivere tutti. Dobbiamo prendere consapevolezza di questo. L’unica strada è recuperare la dimensione della relazione e vivere i nostri anni come un tempo di opportunità.
Virginia Colonna
Note
[1] Primo Rapporto Censis – Tendercapital “La Silver economy e le sue conseguenze” – ottobre 2019
[2] Rapporto Censis – Tendercapital “La silver economy e le sue conseguenze nella società post Covid-19” – giugno 2020
[3] Adriano Fabris “Relazione. Una filosofia performativa”, Editrice Morcelliana, 2016
FONTE: https://www.frammentirivista.it/invecchiare-oggi/
BELPAESE DA SALVARE
Davvero questo governo è così interessato alla salute dei cittadini?
di Gennaro Scala – 11/10/2020
Fonte: Gennaro Scala
Davvero questo governo è così interessato alla salute dei cittadini, visto che finora le stesse forze politiche hanno portato una politica di costante smantellamento della sanità pubblica?
Quali possono essere allora motivi di questa “guerra al virus” che ormai si sta configurando come una delle più “rigorose” a livello mondiale.
Timore per le conseguenze di un colla sso del sistema sanitario? Poco credibile, visto che in questi mesi si è fatto ben poco per l’adeguamento del sistema sanitario, si è preferito spendere i soldi in banchi a rotelle e finanziamento all’acquisto di bici e monopattini.
Timore che una diffusione incontrollata del virus possa mettere in crisi strutture fondamentali dello Stato quali forze armata e forze dell’ordine? La possibilità di un’eventualità del genere è molto bassa, non sto a fare il calcolo ma basta commisurare l’eta media delle forze armate con il rischio covid per fasce d’età per comprenderlo intuitivamente.
Allora non sarà che le forze politiche al governo utilizzino il covid per altri motivi? Lasciando da parte il fatto che a livello dell’intero occidente c’è la possibilità che determinati settori delle classi dominanti utilizzino il virus per giungere ad una diversa configurazione sociale, c’è una questione specificamente italiana, grazie anche al virus (e ai 5stelle) una forza come il pd che sembrava entratea in un trend che portava alla sua scomparsa, ora è tornata a galla.
Difficile che non approfittassero della situazione per superare la crisi di consenso, vista la paura superstiziosa diffusa tra una popolazione disorientata, divisa, confusa, tant’è che si vede di frequente persone che perfettamente sole per strada o in macchina indossare la mascherina-che-protegge.
FONTE: https://www.ariannaeditrice.it/articoli/davvero-questo-governo-e-cosi-interessato-alla-salute-dei-cittadini
CONFLITTI GEOPOLITICI
SCANDALO IN GB: LE ARMI SOFISTICATE BRITANNICHE COMPAIONO NELLE MANI DELLE FORZE SPECIALI FILO RUSSE NEL DONBASS
Le forze speciali filo-russe nel Donbas hanno utilizzato fucili da cecchino prodotti nel Regno Unito contro le forze armate ucraine negli ultimi due anni. Allo stesso tempo, il governo britannico sostiene di non aver mai permesso l’esportazione di queste armi a Mosca. Questi i risultati dell’indagine resi pubblici dal canale televisivo britannico Sky News .
I giornalisti hanno trovato un fucile da cecchino britannico in uno dei video diffusi dal Joint Forces Command nella primavera del 2020. È stato girato nel villaggio di Donetsk (regione di Luhansk), che al momento della sparatoria era sotto il controllo dei militanti. .
Gli investigatori affermano che uno dei militanti (combattenti della LDNR) registrati nel video potrebbe essere probabilmente un rappresentante del servizio di sicurezza federale russo. Il camuffamento tipico dei servizi segreti russi lo indica. Nelle sue mani c’era un’arma che corrisponde al fucile da cecchino AX338, prodotto dalla società britannica Accuracy International .
I giornalisti sono riusciti a trovare almeno un altro esempio dello stesso uso del fucile da parte dei militanti nel Donbas – in una storia del canale televisivo russo “NTV” nel 2019. Inoltre, campioni simili di armi leggere sono stati visti con le forze siriane appoggiate da Mosca e nel guardia presidenziale al Cremlino.
VIDEO QUI: https://youtu.be/RZgogqVYJOo
In risposta a una richiesta di Sky News, il governo britannico ha dichiarato di non aver consentito la vendita di questi modelli di armi britanniche ai cittadini della Federazione Russa. In precedenza, in un’intervista per il Sunday Express, Accuracy International ha affermato di non aver venduto fucili alla Russia dal 2000 e che l’embargo dell’UE sulle forniture di armi alla Russia era in vigore dal 2014.
I giornalisti notano che la loro indagine solleva seri dubbi su come la Russia abbia ricevuto i fucili e se sia successo attraverso una terza parte senza la consapevolezza del governo britannico. Attualmente, gli esperti suggeriscono che i russi molto probabilmente hanno ricevuto le armi tramite terze parti che le avevano ufficialmente acquistate per la caccia o per scopi sportivi. Nel frattempo, il governo non ha un’idea precisa di quante armi di produzione interna vengano esportate.
“Non c’è modo di rintracciarlo se la vendita di armi ha luogo, nonostante le ripetute dichiarazioni del governo secondo cui la Gran Bretagna ha uno dei sistemi di licenza delle armi più ‘affidabili’ e ‘trasparenti’ al mondo”, afferma l’inchiesta.
Forse c’è ancora del vero nelle “indagini” di Sky News. Il fatto è che la pratica mondiale delle forze speciali in qualsiasi paese è la capacità di maneggiare le armi di un potenziale nemico e, in generale, con armi di altre marche.
Pertanto, non sorprende che le forze speciali dell’LDNR possano studiare i fucili da cecchino inglesi, alcuni dei loro campioni.
P.S. La notizia è stata commentata dal politologo Vladimir Kornilov
“Il canale SkyNews ha fatto scalpore: dicono che le forze speciali della LPR stiano usando fucili di precisione AX338 britannici. E si chiede: come potrebbero essere lì ?!
Cari britannici, non fornite le vostre armi all’esercito ucraino: se non volete che verranno consegnate al Donbass. Non sorprenderti se presto vedrai i missili Javelins nella DPR e nella LPR (repubbliche del Donbass). Non sapevate che tutto è in vendita in Ucraina? “
Fonti: Prometeukraine.org/donbass news – Sky News.com
Traduzione e sintesi: Luciano Lago
CULTURA
Linguaggio e natura nella biopolitica contemporanea
di MARCO PIASENTIER
La biopolitica può essere un naturalismo critico? Se lo chiede Marco Piasentier in ‘On Biopolitics. An Inquiry into Nature and Language’ (Routledge, 2020) e nella presentazione del libro che qui mettiamo a disposizione dei lettori.
“dato di fatto dell’umano volere, il suo horror vacui:
quel volere ha bisogno di una meta”
Friedrich Nietzsche
Il libro si propone di indagare la relazione tra natura e linguaggio, al fine di contribuire a far luce sull’“enigma della biopolitica.”[1] In gioco non vi è lo studio empirico della relazione tra ambiente e invarianti biologici. Oggetto del libro è il legame tra due paradigmi filosofici che trovano nel linguaggio e nella natura il loro punto archimedeo. Il primo paradigma analizza l’essere-nel-mondo dell’uomo, ovvero il suo essere gettato in un’apertura di senso storicamente situata. Il linguaggio è il carattere costitutivo dell’essere-nel-mondo, in quanto la significazione permea i codici e le pratiche culturali di una determinata apertura storica. Il secondo paradigma filosofico consiste nell’immagine scientifica del mondo. Il numero di discipline impegnate nella ricerca empirica è tale da rendere impossibile il delinearsi di un’immagine scientifica unitaria. Nonostante la pluralità dei saperi, è indubbio che i metodi e i risultati delle scienze naturali abbiano fatto da guida nel definire questa immagine.
La biopolitica è uno dei terreni d’incontro e scontro di questi due paradigmi filosofici. Sin da quando le società occidentali hanno varcato “la soglia di modernità biologica,”[2] l’incontro tra questi due paradigmi è stato tanto inevitabile quanto conflittuale. Tra le espressioni più radicali di tale tensione si annovera il tentativo di ridurre un paradigma a epifenomeno dell’altro. Il libro contribuisce ad analizzare e contestare la declinazione biopolitica di questa tendenza. Da un lato, il libro problematizza quelle filosofie della natura che considerano imprescindibile il ricorso a letterali o metaforiche nozioni teleologiche e normative per definire il mondo organico e, di conseguenza, anche l’animale umano. Dall’altro, il testo affronta quegli approcci che riducono ogni concezione della natura a specifici regimi di discorso e potere, rendendo impossibile definire l’essere umano come un vivente. Quando declinati in chiave biopolitica, questi due approcci conducono a esiti diametralmente opposti: il primo individua in una natura teleologica e normativa il fondamento per la politica, mentre il secondo considera ogni nozione di natura un’invenzione politica.
Secondo l’ipotesi del libro, il comune denominatore che lega queste concezioni di natura e linguaggio è un horror vacui di memoria nietzschiana, il quale non consente loro di liberarsi da una visione umana, troppo umana del mondo. Da un lato, una nozione di natura in cui continua ad aggirarsi lo spettro di un disegno intelligente; dall’altro, una nozione di linguaggio che, ponendosi assolutamente in principio, reitera il contenuto ineffabile della rivelazione. Attingendo a una pluralità di saperi – che spaziano dalla svolta linguistica heideggeriana al naturalismo darwiniano – il libro cerca di mostrare che la teoria biopolitica può essere il sito di una diversa relazione tra linguaggio e natura.
1. In un passo dell’Etica Nicomachea, caro a diversi teorici della biopolitica, Aristotele si interroga sulla “funzione dell’uomo” (to ergon tou anthrōpou): “come esiste evidentemente una funzione dell’occhio, della mano, del piede e insomma di ciascuna delle membra, così anche dell’uomo si potrà supporre una qualche funzione oltre a tutte queste?”[3] Prestando attenzione all’attualità della domanda posta da Aristotele, il libro suggerisce che il naturalismo contemporaneo offre le risorse teoretiche per pensare una nozione di essere umano, libero da qualsiasi scopo e norma di natura. Tale conclusione non è raggiunta tracciando una linea di demarcazione tra uomo e natura, ma dimostrando che la natura stessa è priva di scopi (purposes) e norme biologiche (biological norms). Se si considera la conflittuale pluralità di teorie in gioco nel contemporaneo dibattito scientifico-filosofico, si intuisce che la possibilità di concepire una natura priva di scopi e norme non è per nulla scontata. Il libro prende in considerazione gli approcci filosofici volti a naturalizzare scopi e norme biologiche, con particolare attenzione a quelle teorie filosofiche che ricorrono a una nozione “teleologica” e “normativa” di “funzione.”[4] In antitesi agli approcci che fanno della teoria darwiniana il punto di riferimento per naturalizzare gli scopi e le norme di natura, il libro si propone di mostrare che una tale interpretazione dell’evoluzione per selezione naturale trasforma la sopravvivenza e riproduzione nei fini ultimi degli esseri viventi. Sulla scorta dei lavori filosofici di Robert Cummins, Paul Sheldon Davies ed altri,[5] il libro sostiene che gli organismi indubbiamente necessitano di certe capacità per sopravvivere e riprodursi in un dato ambiente, ma ciò non significa “che il punto o il fine del vivere sia di sopravvivere e riprodursi (ovvero, il fine ultimo della vita); sopravvivenza e riproduzione sono solo alcune tra le molte cose che un organismo compie.”[6]
In un celebre passo della sua autobiografia, Darwin dà ragione del suo disincanto nei confronti di una tesi che in passato lo aveva particolarmente affascinato: l’argomento del disegno divino formulato da William Paley. L’elaborazione della sua teoria scientifica lo conduce a concludere che “[n]on si può più sostenere, per esempio, che la cerniera perfetta di una conchiglia bivalve debba essere stata ideata da un essere intelligente, come la cerniera della porta dall’uomo. Un piano che regoli la variabilità degli esseri viventi e l’azione della selezione naturale, non è più evidente di un disegno che predisponga la direzione del vento.”[7] Per teologi naturali come Paley, gli organismi equivalgono a complessi macchinari creati da una mente divina; non deve, quindi, sorprendere che egli attribuisca ai caratteri degli organismi scopi e norme biologiche. Contrariamente a coloro che vedono nella selezione naturale un processo capace di naturalizzare gli scopi e le norme di natura, il libro suggerisce che la teoria darwiniana dischiude una visione non teleologica e non normativa della biologia. Daniel Dennett formula una simile tesi, quando scrive che il darwinismo definisce un mondo organico “assurdo (absurd) nel senso esistenzialista del termine: non insensato, ma privo di senso nella misura in cui la sua visione degli esseri viventi è completamente indipendente da ‘significati’ o ‘scopi’.”[8] Nonostante ciò, il filosofo americano maschera immediatamente questa “assurda” concezione del mondo organico con una nozione immaginaria di selezione naturale – “Madre Natura” – che “costruisce” gli organismi e le loro parti “come se” fossero artefatti, finalizzati alla sopravvivenza e riproduzione. Senza voler criticare il fondamentale valore euristico delle analogie e metafore nella ricerca scientifica, va notato che l’interpretazione della selezione naturale come “Madre Natura” è così radicata nella sua lettura della teoria evolutiva, da condurlo a sostenere che “dalla verità del darwinismo segue che voi ed io siamo artefatti di Madre Natura,”[9] ovvero “macchine per la sopravvivenza” (survival machines).[10]
Il libro suggerisce che il vuoto lasciato dalla mancanza di un fine ultimo di natura non va considerato come una lacuna da colmare con antiche o nuove, letterali o metaforiche teleologie naturali. Pensare l’evoluzione dei viventi libera da scopi e norme, tanto quanto lo è il soffio del vento, non implica solo la messa in discussione degli autori che cercano di naturalizzare gli scopi e le norme biologiche attraverso la selezione naturale, ma anche di coloro che individuano nelle metafore del disegno intelligente una imprescindibile precondizione concettuale per dar ragione del mondo biologico. Davide Tarizzo – tra i filosofi che hanno colto con più lucidità le ramificazioni dell’ipoteca teleologica di queste filosofie della natura – invita il lettore a riflettere sulla difficoltà di naturalizzare la teleologia e normatività in biologia, senza introdurre surrettiziamente una “pura volontà di vita,”[11] ovvero una sorta di intenzionalità posta al fondo del mondo organico. Sulla scorta della tesi sviluppata da Tarizzo, sembra legittimo interrogarsi sulle ragioni che conducono ad assumere l’esistenza di scopi e norme di natura, siano essi interpretati in maniera letterale o metaforica. Forse, parte della risposta si cela nel tentativo di contrastare un horror vacui di memoria nietzschiana, ovvero l’idea che non vi sia alcuna funzione naturale dell’essere umano.
Per Aristotele, individuare la funzione dell’uomo era il presupposto necessario per stabilire il compito più alto della politica. Per ragioni che non possiamo qui indagare, è legittimo assumere che egli abbia individuato la funzione dell’uomo in una dimensione altra, rispetto a quella naturale.[12] Eppure, una prospettiva biopolitica che volesse reinterpretare la filosofia aristotelica in chiave naturalistica, fonderebbe la sua politica della vita nel legame tra i presunti scopi e norme di natura e gli scopi e le norme della sfera politica.[13] Al contrario, cerca di mostrare, con l’ausilio del lavoro di diversi filosofi e scienziati, che la natura “non può servire come misura delle società, […] non può offrire una prescrizione di una ‘società veramente umana’.”[14]
2. L’idea di un’umanità gettata nel mondo senza alcun compito da realizzare non è certo estranea ad importarti correnti della filosofia contemporanea. Eppure, la critica a ogni imperativo inscritto nella natura dell’essere umano è stata spesso condotta a spese della possibilità di definire l’origine naturale dell’essere umano. Al fine di far luce su questo punto, è opportuno distinguere due sensi in cui si può affermare che l’uomo non è essenzialmente un essere vivente. Il primo vuole l’umano partecipe di una dimensione altra, superiore rispetto a quella naturale. Il secondo senso non si caratterizza per una nuova o più autentica definizione della differenza antropologica – ovvero della scissione tra uomo e natura – quanto per la mancanza di un’articolazione tra i due termini che la costituiscono. L’essere umano non può essere considerato un vivente, in quanto risulta impossibile fissare tanto una sua origine preistorica, quanto metastorica. In gioco non vi è più un’eccedenza dell’umana essenza rispetto alla dimensione naturale, ma una mancanza, la quale fa del silenzio l’unica risposta possibile al quesito: quid est homo? Ogni definizione dell’essere umano è una costruzione prodotta da specifici regimi di discorso e potere. Tanto una nozione teologica, definita a partire dalla distinzione ontologica tra un’anima e un corpo, quanto una scientifica, antitetica al dualismo teologico in nome di una storia naturale comune ad ogni vivente, appartengono a diverse politiche dell’umano e sono, dunque, invenzioni storiche legate a specifici contesti sociopolitici. Da questa prospettiva, l’interesse filosofico per lo studio della dimensione naturale dell’umano risiede nell’analisi critica del presente, ovvero nell’analisi di quei regimi di discorso e potere che tracciano i perimetri di inclusione ed esclusione propri di una particolare società.
A ben guardare, anche questo approccio filosofico ingaggia un corpo a corpo con la definizione aristotelica di animale politico e cerca di disattivarne il portato normativo, dimostrando che non è l’uomo ad avere una dimensione politica, ma è la politica ad avere l’uomo: se ogni definizione di essere umano dipende da specifici regimi di discorso e potere, anche quella aristotelica e le sue moderne declinazioni biopolitiche andranno inevitabilmente considerate come invenzioni storiche. La filosofia heideggeriana, in particolar modo una certa interpretazione delle riflessioni sul valore filosofico del linguaggio successive alla “svolta” (Kehre), riecheggia sullo sfondo. Nella sua Lettera sull’’umanismo’, Heidegger scrive, proprio in dialogo con la filosofia aristotelica, che “l’uomo non è solo un essere vivente che, accanto ad altre facoltà, possiede anche il linguaggio. Piuttosto il linguaggio è la casa dell’essere, abitando la quale l’uomo e-siste.”[15]
La critica sin qui condotta non si propone di oscurare il fondamentale e imprescindibile contributo del pensiero heideggeriano, ma è volta semplicemente a mettere in discussione quelle interpretazioni che fanno del linguaggio un “inspiegabile principio esplicativo.”[16] Se il linguaggio è posto assolutamente in principio (En archē), la sua origine rimane ontologicamente inspiegabile, ovvero smarrita in un grande silenzio, che non indica né un inaccessibile linguaggio divino, da cui tutti i discorsi scaturiscono, né una dimensione pre-linguistica, indifferente al significato.[17] Questo silenzio è, invece, una pura volontà di significazione. La mancanza di rivelazione, che dovrebbe scaturire da questa svolta linguistica, diventa la premessa per la rivelazione della mancanza di ogni fuori dal linguaggio, ovvero un horror vacui di memoria nietzscheana che satura ogni possibilità di concepire una dimensione indipendente dal linguaggio. Prendendo in prestito un termine reso celebre dalla decostruzione, il libro suggerisce che la pura volontà di significazione, introdotta da questa interpretazione della svolta linguistica, non è riconducibile a una forma di “logocentrismo,” in quanto non vi è un metalinguaggio più autentico ed originario rispetto all’infinito scorrere dei discorsi. Il “logocentrismo” è sostituito da quello che, nel libro, prende il nome di logomorfismo.
Il tentativo di pensare un essere umano libero da ogni compito finisce per essere disatteso, in quanto l’idea che l’essere umano sia preso, senza punti di ancoraggio, nel linguaggio impone un compito: perdersi nel silenzio del linguaggio, il quale non cela un intimo segreto, ma infinita potenzialità di significazione.
3. Michel Foucault – padre dei contemporanei studi biopolitici – ha più volte affrontato la relazione tra linguaggio e natura. Il suo pensiero è complesso e articolato, altrettanto articolata ed eterogenea è la letteratura a lui dedicata. In Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, Foucault scrive di una “esperienza” nietzscheana costituita “attraverso una critica filologica, attraverso una certa forma di biologismo.”[18] Sebbene Foucault non approfondisca i tratti di questa visione filosofica, egli la ritiene “la soglia a partire dalla quale la filosofia contemporanea può ricominciare a pensare.”[19] In “Nietzsche, la genealogia e la storia”, il testo che inaugura il metodo genealogico, Foucault prede le mosse dall’esortazione nietzschiana a pensare “storicamente e fisiologicamente,” al fine di contrastare “l’idiosincrasia del filosofo,” che consiste nel “disconoscimento del corpo” e nella “mancanza di senso storico.”[20] Senza voler fare proclami sulla cifra costitutiva della filosofia foucaultiana e tanto meno sul destino della filosofia in quanto tale, si può comunque desumere che da questi passi emerge un profondo legame con la filosofia nietzschiana,[21] la quale è interpretata come l’incontro tra una prospettiva filologico–filosofica ed una biologico–filosofica. Come Foucault, Nietzsche può essere letto come un pensatore ermeneutico, precursore del postmoderno, oppure come un pensatore naturalista, magari in dialogo con lo stesso pensiero darwiniano. Foucault ci invita a considerare una diversa interpretazione, capace di tenere assieme queste due prospettive. Lo stesso Nietzsche, nella Genealogia della morale, suggerisce la necessità di una “seconda vista” (Zweites Gesicht), ovvero una visione filosofica capace di correggere la miopia del naturalismo, così da mettere a fuoco storia e natura, filologia e fisiologia in una visione unitaria. Senza approfondire i termini del parallelismo, è interessante notare che un importante filosofo americano, quattordici anni più anziano di Foucault, ha articolato – partendo da una posizione diametralmente opposta a quella di Nietzsche–Foucault – una prospettiva simile, che va sotto il nome di “visione stereoscopica” (Stereoscopic Vision) e si propone di oltrepassare la frattura tra “immagine manifesta” e immagine scientifica” dell’essere umano.[22] Al pensiero di Wilfrid Sellars si sono ispirati sia i filosofi che credono nella necessità di naturalizzare gli scopi o le norme di natura, sia i filosofi che hanno subordinato l’immagine scientifica a quella manifesta. Il libro cerca di fare un passo in un’altra direzione, contribuendo a una diversa lettura della relazione tra “immagine scientifica” e “immagine manifesta,” una lettura che potrebbe essere definita, sulla scorta di un’espressione utilizzata da Davide Tarizzo e diversamente declinata anche altrove: naturalismo critico.[23]
Marco Piasentier è Postdoctoral Researcher presso la University of Jyväskylä (Finlandia)
NOTE
[1] Cf. Esposito, Roberto. 2004. Bíos. Biopolitica e filosofia. Torino, Einaudi.
[2] Seuil de modernité biologique è un’espressione coniata da Michel Foucault nel testo del 1976 Histoire de la Sexualité. La Volonté de Savoir. Paris, Gallimard. p. 188. Traduzione italiana a cura di Pasquale Pasquino e Giovanna Procacci, Milano, Feltrinelli, p. 127.
[3] Aristotele, Etica Nicomachea 1097b 30–32.
[4] Il dibattito filosofico sul ruolo della teleologia e normatività in biologia è particolarmente interessante, non solo per il tema trattato, ma anche per la ricchezza di contributi. La nozione di funzione ha progressivamente assunto un ruolo centrale in questo dibattito. Tra i testi chiave dei difensori di una nozione “teleologica” e “normativa” di funzione biologica si veda Millikan, Ruth G. 1989. “In Defense of Proper Functions.” Philosophy of Science 56, 2, pp. 288–302; Neander, Karen. 1991. “The Teleological Notion of Function.” Australasian Journal of Philosophy 69, 4, pp. 454–68. Per una introduzione al dibattito si veda, ad esempio: André Ariew, Robert Cummins e Mark Perlman. eds. 2002. Functions: New Essays in the Philosophy of Psychology and Biology. Oxford, Oxford University Press; Lewens, Tim. 2007. “Functions.” In Philosophy of Biology. A cura di Mohan Matthen e Christopher Stephens, pp. 525–48. Amsterdam: Elsevier.
[5] Alcuni tra i contributi più rilevanti sono: Cummins, Robert. 1975. “Functional analysis.” Journal of Philosophy 72, pp. 741–60. Cummins, Robert. 2002. “Neo-Teleology.” In Functions: New Essays in the Philosophy of Psychology and Biology, a cura di André Ariew, Robert Cummins, and Mark Perlman, pp. 157–73. Oxford: Oxford University Press; Davies, Paul Sheldon. 2001. Norms of Nature. Naturalism and the Nature of Functions. Cambridge, MA: MIT Press; Amundson, Ron e George V. Lauder. 1994. “Function without Purpose: The uses of Causal Role Function in Evolutionary Biology.” In Biology and Philosophy 9, 4, pp. 443–69.
[6] Cummins, Robert e Martin Roth. 2010. “Traits Have Not Evolved to Function the Way They Do Because of a Past Advantage.” In Contemporary Debates in Philosophy of Biology, a cura di Francisco J. Ayala e Robert Arp, pp. 72–86. New York, John Wiley & Sons, p. 81.
[7] Darwin, Charles. 2002. Autobiographies, a cura di Michael Nerve e Sharon Messenger. London, Penguin, p. 50. Versione italiana a cura di Nora Barlow, traduzione di Luciana Fratini, Torino, Einaudi, p. 69.
[8] Dennett, Daniel C. 1995. Darwin’s Dangerous Idea: Evolution and the Meanings of Life. New York, Norton, p. 153. Traduzione italiana a cura di Simonetta Frediani, Torino, Bollati Boringheri, p.192 (Traduzione modificata).
[9] Ibid. p. 426; trad. it. 543 (Traduzione modificata).
[10] Tale conclusione non può essere completamente ricondotta al carattere divulgativo del testo di Dennett per due ragioni. La prima riguarda il registro del testo, che può essere considerato solo in (minima) parte divulgativo. La seconda riguarda la visione del mondo organico di Dennett, nella quale la metafora del design sembra essere una ineliminable precondizione concettuale. A tal proposito si veda: Fodor, Jerry. 1996. “Deconstructing Dennett’s Darwin.” Mind & Language 11, 3, pp. 246–262; Ratcliffe, Matthew. 2001. “A Kantian Stance of the Intentional Stance.” Biology and Philosophy 16, 1, pp. 29–52; e Lewens, Tim. 2002. “Adaptationism and Engineering.” Biology and Philosophy 17, 1, pp. 1–31.
[11] Tarizzo, Davide. 2010. La vita, un’invenzione recente. Bari, Laterza. Sebbene il temrine “volontà di vita” sia uno dei fili d’Arianna del testo, ai fini della presente analisi si veda, in particolar modo, il secondo capitolo, pp. 37–160.
[12] Per una diversa intepretazone di Aristotele su questo punto si veda Foot, Philippa. 2001. Natural Goodness. Oxford, Oxford University Press.
[13] Sulla relazione tra pensiero aristotelico e biopolitica si veda anche il raffinato saggio di Giorgio Agamben, “L’opera dell’uomo.” In Agamben, Giorgio. 2005. La potenza del pensiero. Saggi e conferenze. Vicenza, Neri Pozza, pp. 372–384.
[14] Lewontin, Richard C. e Richard Levins. 1985. The Dialectical Biologist. Cambridge MA, Harvard University Press, p. 246.
[15] Heidegger, Martin. 1995. Lettera sull’’umanismo’ . Milano, Adelphi, pp. 60–1.
[16] Cf. Brassier, Ray. 2011. “The View from Nowhere.” In Identities: Journal for Politics, Gender, and Culture 8, 2, pp. 7–23.
[17] A tal proposito, si veda, in chiave critica, il saggio “L’idea del linguaggio.” In Agamben, Giorgio. 2005. La potenza del pensiero. Saggi e conferenze. Vicenza, Neri Pozza, pp. 24–35.
[18] “à travers une critique philologique, à travers une certaine forme de biologisme” citazione da Foucault, Michel. 1966. Les Mots et les Choses: Une archéologie des sciences humaines. Paris, Gallimard, p. 353. Traduzione di Emilio Panaitescu, Milano, Rizzoli, p. 367–8.
[19] Ibid. p. 353. Trad. it. p. 367.
[20] “Histotiquement et physiologiquement” citazione da Foucault, Michel. 1971. “Nietzsche, la généalogie, l’histoire.” In Hommage à Jean Hyppolite. Paris, PUF, pp. 145-172, p.163. Ristampato in Dits et écrits : 1954-1988, op. cit., vol. 2, pp. 136-156. Versione italiana a cura di Alessandro Fontana e Pasquale Pasquino, Torino, Einaudi, p. 45.
[21] In diversi saggi e interviste, Foucault ha riconosciuto il profondo debito nei confronti di Nietzsche. Nella suo libro dedicato a Foucault, Paul Veyne scrive che tra tutte le etichette attribute al lavoro dell’amico e collega, forse solo quella di ‘nietzscheano’ calza veramente. Cf. Veyne, Paul. 2010. Foucault. Il pensiero e l’uomo. Traduzione di Laura Xella, Milano, Garzanti.
[22] Sellars, Wilfrid. 1963. “Philosophy and the Scientific Image of Man”. In Empiricism and the Philosophy of Mind, New York, Routledge, pp. 1– 40.
[23] Tarizzo, Davide. 2011. “Cosa chiamiamo naturalismo.” In Prometeo. 29, 115, pp. 34–41. Il termine ‘critical naturalism’ è stato variamente declinato, si veda, ad esempio Roy, Bhaskar. 1998. The Possibility of Naturalism: A Philosophical Critique of the Contemporary Human Sciences. New York, Routledge.
(8 ottobre 2020)
FONTE: http://ilrasoiodioccam-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2020/10/08/linguaggio-e-natura-nella-biopolitica-contemporanea/
L’attualità di Delitto e castigo
6 OTTOBRE 2020
Il superbo e orgoglioso Raskol’nikov, l’eroe del romanzo più celebre di tutti i tempi, diviene il portavoce di una lacerante crisi ideologica e morale. Uno specchio che riflette i conflitti, i demoni della nostra epoca.
a trama è apparentemente semplice, quasi banale: un ex studente universitario, oppresso dalla miseria, uccide una vecchia usuraia per appropriarsi dei suoi tesori ma, al di là dell’intreccio, sono i tormenti, i contorcimenti interiori di Raskol’nikov, nel suo continuo oscillare tra senso di colpa, orgoglio e rimorsi, a dominare l’intera narrazione. Fin dalle prime righe il lettore moderno prova una spontanea empatia per il giovane antieroe di Dostoevskij.
Si era talmente chiuso in se stesso e isolato dal resto del mondo che la sola idea d’incontrare qualcuno, non solo la padrona ma chiunque, lo metteva in agitazione. Era afflitto dalla miseria, eppure persino le ristrettezze, negli ultimi tempi, non gli pesavano più. Aveva smesso del tutto di occuparsi dei problemi quotidiani ed era ben deciso a continuare così.
L’alienazione e la solitudine sono una costante della nostra epoca, in misura perfino maggiore rispetto agli anni in cui venne pubblicato il romanzo. L’ambientazione è cupa, anticipa le atmosfere allucinate e oniriche delle avanguardie surrealiste, un palcoscenico di misere bettole, squallidi uffici, bassi e opprimenti caseggiati popolari; anche il tempo, afoso, denso, soffocante, saturo del puzzo della città che con le sue folle rumorose, i suoi luoghi di perdizione, le sue taverne esaspera e rispecchia il dramma interiore del protagonista. La Pietroburgo del XIX secolo è una città che ha accolto masse di diseredati e di contadini che dalle campagne, all’alba della liberazione dei servi della gleba, sono andate a ingrossare le file del proletariato urbano. E questo nuovo proletariato, venuto meno il sistema feudale che per secoli aveva dominato nel bene e nel male la società russa, si dibatte in un girone infernale di povertà, alcolismo, prostituzione e criminalità.
I personaggi che popolano il romanzo sono le personificazioni di un mondo in rovina, apparentemente senza speranza, dall’ubriacone Marmeladov, ex funzionario decaduto, che tenta inutilmente di liberarsi del vizio di bere e che muore travolto dalle ruote di un carro, a Sonja, la tenera adolescente bambina che si prostituisce per mantenere la matrigna tisica e i suoi fratellini, a Svidrigajlov, il turpe libertino, che si dibatte tra la coscienza della sua depravazione e i sensi di colpa e che alla fine, schiacciato dai rimorsi, si suicida con un colpo di rivoltella. Non c’è un attimo di tregua, un refolo di pace nel corso dell’intera narrazione. Soltanto Razumichin, lo studente gioviale, grossolano nei modi ma sincero nei sentimenti, incarna un tipo umano positivo, ma Raskol’nikov alla compagnia salutare di Razumichin preferisce la compagnia dei diseredati, pare cercare col lanternino altre anime come lui afflitte dalla sventura, qualcuno cioè che possa comprendere e che rispecchi l’angoscia che grava sul suo cuore.
L’anno in cui venne concepito il romanzo fu un anno estremamente drammatico per Dostoevskij, che annaspa tra le rovine di una catastrofe economica, la morte dell’amato fratello, la liquidazione forzata della sua rivista Epocha. Ma il tracollo personale di Dostoevskij è parte della grande crisi monetaria che si era abbattuta sul popolo russo negli anni Sessanta. Il mondo dei giornali e delle riviste, venuto meno il numero degli abbonati, aveva conosciuto una crisi senza precedenti, e lo scrittore russo per sbarcare il lunario ipoteca le sue opere ed entra in contatto con tutto un sordido microcosmo di usurai, commissari di polizia, avidi creditori, figure che ritroviamo in Delitto e Castigo.
Il denaro, o più precisamente la sua mancanza, diviene il motore che sprona i personaggi ad agire, la scintilla che innesca in Raskol’nikov l’idea del delitto. È lo stesso Dostoevskij a ribadire che il suo eroe è “figlio dei suoi tempi”, incarna le ansie, i tormenti e l’instabilità della società russa degli anni Sessanta, ma è anche un figlio dei nostri tempi. Il giovane studente con il suo lacero cappotto, esponente di una piccola classe nobiliare caduta in rovina (specchio di quella classe media che nella nostra attualità, in balia di una diversa crisi, si dibatte e annaspa per sopravvivere) che diviene il portavoce di una lacerante crisi ideologica e morale, della “morte di Dio” preannunciata da Nietzsche, rispecchia anche i conflitti, i demoni della nostra epoca.
Non ho ucciso per raggiungere la ricchezza e il potere o per diventare un benefattore dell’umanità. Sciocchezze! Ho semplicemente ucciso; ho ucciso per me stesso, soltanto per me: che poi fossi diventato il benefattore di qualcuno, oppure come un ragno avessi acchiappato gli altri nella mia ragnatela per tutta la vita, succhiando a tutti il sangue, in quel momento non doveva importarmene nulla, proprio nulla! E soprattutto non era il denaro che mi serviva, Sonja, quando ho ucciso. Tutto questo ora lo so… Avevo bisogno di sapere un’altra cosa, era qualcos’altro che mi spingeva la mano: avevo bisogno di sapere allora, e di saperlo al più presto, se ero un pidocchio come tutti oppure un uomo! Avrei osato chinarmi e raccogliere quello che avevo a portata di mano oppure no?
Ed è in questa confessione straziante e sincera che vi è racchiuso l’intero nocciolo, l’essenza del romanzo. L’eroe di Dostoevskij esaspera fino ai limiti estremi il “tutto è lecito” dei nichilisti. È un’idea che porta Raskol’nikov a uccidere, in un giovanile sogno di onnipotenza, una vecchia usuraia, un tentativo abortito di dimostrare a se stesso di poter, con un atto di pura volontà, evadere dalla prigione angusta del proprio materialismo storico, dagli opprimenti, schiaccianti condizionamenti del proprio ambiente. La genesi di quest’idea risale nella divisione, per Raskol’nikov, del genere umano in due categorie di uomini: ordinari e straordinari. Gli uomini straordinari sono coloro, che in virtù della loro stessa forza, riscrivono le leggi, perché non sono disposti a chinare docilmente il collo, ad adattarsi a quelle contingenze storiche, culturali, geografiche in cui ogni individuo, venendo al mondo, si trova ingabbiato. Ma se l’uomo comune si sottomette, senza grossi scossoni, a ciò che il suo ambiente gli insegna, a quel sistema millenario di tradizioni, usanze, divieti morali che la razza umana custodisce con implacabile osservanza, l’uomo straordinario viola le leggi vigenti e ne plasma da sé delle nuove, perché agisce e risponde soltanto alla sua coscienza.
I legislatori e i fondatori della società umana, a partire dai più antichi sino ai vari Licurgo, Solone, Maometto e via discorrendo, tutti sino all’ultimo sono stati dei delinquenti, già per il semplice fatto che ponendo una nuova legge, infrangevano la legge antica, venerata dalla società e trasmessa dai padri; inoltre certamente non si arrestano nemmeno dinanzi al sangue, quando il sangue potè essere loro d’aiuto.
E in realtà con questo concetto si apre un’intricata querelle che dai tempi dell’Antigone di Sofocle ha infiammato il dibattito filosofico e morale: che valore hanno le leggi? E come deve comportarsi l’individuo? Obbedendo ciecamente alle leggi che gli sono state tramandate o agendo secondo la sua coscienza? È una questione irrisolta tra ciò che l’individuo ritiene giusto e ciò che gli viene imposto, un amletico ginepraio di conflitti tra l’individuo e le leggi della società, che si ripresenta con drammatica potenza ogni qual volta l’uomo s’interroga su nuove questioni etiche: dall’eutanasia all’aborto, dalla procreazione assistita ai matrimoni tra omosessuali. Naturalmente questa questione in Delitto e Castigo viene lasciata in sospeso, perché l’autonomia della coscienza individuale in Raskol’nikov è la pretesa, la conditio sine qua non, per compiere un azione malvagia, un delitto per l’appunto.
La perfetta teoria dell’omicidio, così come l’aveva concepita in un titanico, glaciale lavorio della ragione, non tiene conto della realtà, sicché una volta compiuto il delitto, esso si rivela ai suoi occhi come qualcosa di mostruoso. Ed è nella coscienza del proprio crimine, celato a coloro che ama, che l’antieroe di Dostoevskij sprofonda in un isolamento ancora più crudele, come un moderno Caino non può che aggirarsi di landa desolata in landa desolata, avanza inesorabilmente da una solitudine all’altra, perché, in virtù della sua stessa colpa, è escluso fatalmente dal consorzio umano. Il castigo per il delitto commesso, non consiste nella cattura, nella reclusione, che viene descritta sommariamente nell’epilogo del romanzo, ma nel lungo e tormentato calvario che conduce il protagonista all’ammissione della propria colpa. L’intero racconto è un percorso di espiazione, una dolorosa capitolazione di quell’intelligenza poderosa che in un mostruoso slancio della fantasia aveva creduto di poter sopportare senza battere ciglio il peso dell’omicidio.
La sofferenza e il dolore sono sempre inevitabili per una coscienza sensibile e un cuore profondo,” confessa Raskol’nikov debolmente. “Gli uomini davvero grandi, secondo me, devono provare una grande tristezza su questa terra.
L’uomo diventa malvagio, s’incattivisce, quando si rinchiude nel proprio bozzolo di solitudine, nel proprio sottosuolo, quando resta prigioniero e vittima delle sue stesse elucubrazioni mentali. L’isolamento di Raskol’nikov è stato l’origine e la causa di tutti i suoi mali. La redenzione avviene soltanto quando incontra Sonja, quando cioè rompe il suo isolamento. Egli le confessa in modo disperato: “ho ucciso, sono un assassino”, e da Sonja non viene nessuna condanna, nessuna ripulsa morale, ma lo abbraccia e gli dice “io ti comprendo”. Soltanto attraverso questo legame, egli ridiventa conscio e recupera la propria umanità, ritrova finalmente il contatto i suoi simili. Sono gli altri la nostra salvezza, è questo il messaggio finale di Dostoevskij, un messaggio spaventosamente attuale oggi come ieri, ma soprattutto oggi nella nostra liquida, isolata, sempre più alienata società postmoderna, in cui l’individuo si sta rinchiudendo negli abissi del proprio Io.
FONTE: https://www.lintellettualedissidente.it/controcultura/letteratura/delitto-castigo/
CYBERWAR SPIONAGGIO INFORMAZIONE DISINFORMAZIONE
LO STRANO CASO DE LUCA/ZINGARETTI E I “DECRETI SICUREZZA”
“Abbiamo interi territori nei quali la presenza di extracomunitari che vanno avanti a ruota libera sta cambiando il modo di vivere delle nostre famiglie. Abbiamo pezzi di città che sono occupati quasi militarmente da extracomunitari. Abbiamo gente che continua a fare accattonaggio molesto davanti ai supermercati, davanti alle farmacie, davanti alle chiese, davanti ai distributori del biglietto per il parcheggio. Abbiamo bande organizzate che spacciano droga la mattina nei nostri quartieri o davanti alle scuole. Abbiamo il litorale Domizio che è rovinato, abbiamo il quartiere Vasto intorno alla stazione centrale di Napoli che è occupato e governato insieme da camorra e nigeriani… Beh, questo problema il Partito Democratico lo vede sì o no? E vuole dire qualcosa ai cittadini che hanno paura sì o no?”.
Chi può aver fatto un’intemerata simile? Un leader del centrodestra? Di sicuro se fosse stato un leader del centrodestra sarebbe stato bombardato, per questo, da un’artiglieria di accuse e condanne.
In realtà le parole che ho citato fra virgolette sono state pronunciate – e con molta enfasi ed energia – dal governatore Dem della Campania, Vincenzo De Luca, nel comizio di chiusura della Festa dell’Unità di Telese, nel settembre 2018.
Il video impazza oggi nella rete perché De Luca – che ha queste idee e le esprime nei comizi – è stato ricandidato dal Pd alla guida della regione Campania e ha appena vinto “a furor di popolo” le elezioni. Non ha vinto dunque il Pd. Ha vinto De Luca nonostante il Pd. Ha vinto con idee che – almeno su questi temi – sono lontane anni luce dal Pd e casomai potrebbero dirsi di centrodestra.
Dopo questa filippica il comizio di De Luca proseguiva così: “Noi siamo arrivati al punto da colpevolizzare un padre di famiglia solo perché chiede di essere lasciato in pace. L’ho detto a Roma e lo ridico qua: se io devo scegliere fra la sicurezza dei miei figli e la bandiera di partito io scelgo i miei figli e vi mando a quel paese. E’ chiaro? (applausi dalla platea). Nella mia città abbiamo un centro di accoglienza in un quartiere periferico. Ho raccontato questo episodio e me lo hanno detto i cittadini di quel quartiere: venerdì sera, sabato sera, tornano queste bande, ubriachi, drogati… le nostre ragazze cominciano ad essere infastidite. Un padre di famiglia si deve mettere sul balcone fino alla due di notte in attesa che arrivi la figlia per stare tranquillo. Ohh! Uhééé! Qui la solidarietà non c’entra più niente… Allora io non voglio esagerare e generalizzare nulla. Voglio soltanto che noi guardiamo in faccia la realtà per quella che è. La sicurezza urbana è diventata un problema chiave per la gente di oggi. E sto spiegando al Partito Democratico, ma ancora oggi sono totalmente sordi, che ci sono due valori da difendere se vogliamo riprendere il cammino: il lavoro e la sicurezza. E incredibilmente non dicono una parola né sul lavoro né sulla sicurezza. Ma quale rilancio del partito vogliamo avere in queste condizioni”.
Con idee di questo genere De Luca ha vinto trionfalmente le elezioni, salvando la segreteria a Zingaretti (perché il Pd sarebbe stato terremotato da una sconfitta in Campania). Il quale Zingaretti però ha idee opposte.
Infatti subito dopo le elezioni Zingaretti ha detto finalmente “una parola” sulla sicurezza, ma non “quella” invocata da De Luca, bensì una parola opposta: vuole spazzare via i “decreti sicurezza” che furono varati da Salvini proprio per affrontare tutti quei problemi che De Luca aveva dettagliatamente descritto.
Il governatore, vincendo in Campania, ha salvato la segreteria di Zingaretti (e forse anche il governo), anche con quelle sue idee contro l’immigrazione incontrollata e contro il degrado delle nostre città in mano allo spaccio e alla delinquenza. Ma ora Zingaretti e il Pd, incassato il voto e la vittoria, vanno nella direzione diametralmente opposta.
Sembra la conferma delle parole di De Luca che accusava il Pd di infischiarsene del bisogno di sicurezza dei cittadini. Ma un problema si pone anche per chi, come il governatore campano, lancia invettive come quelle e poi accetta che il suo partito vada nella direzione contraria.
Del resto lui, in quel discorso, aveva già fatto la sua diagnosi sul Pd. Dopo averlo strapazzato (“ci sono nel nostro partito delle autentiche nullità, che non rappresentano neanche la propria ombra”), essendo all’indomani della sconfitta del 4 marzo 2018 – le elezioni politiche che avevano visto il Pd crollare al minimo storico – De Luca aveva tuonato: “Il Pd continua a non capire quello che deve fare”.
Si chiedeva: “perché Il Pd il 4 marzo (2018) ha perso la metà del suo elettorato? Qualcuno del gruppo dirigente nazionale vi ha spiegato per quali motivi razionali un partito passa dal 41 per cento al 18 per cento in tre anni? Non c’è nessuno nella dirigenza nazionale che abbia approfondito le ragioni per cui abbiamo perso sei milioni di voti. Io credo che in queste condizioni il Pd non andrà molto avanti”.
La riflessione sul crollo del 2018 il Pd non l’ha fatta, ma in compenso è riuscito a tornare al governo (nonostante la sconfitta alle politiche). E al governo ora, anche grazie alla vittoria di De Luca, si prepara a rifare gli stessi errori sulla sicurezza e sull’immigrazione contro cui De Luca aveva tuonato. L’ideologia continua a prevalere sulla realtà.
Antonio Socci – Da “Libero”, 4 ottobre 2020
FONTE: https://www.antoniosocci.com/lo-strano-caso-de-luca-zingaretti-e-i-decreti-sicurezza/
DIRITTI UMANI
21stcenturywire.com
Questo dovrebbe essere uno dei più grandi scandali di salute pubblica del decennio, invece riceve scarsa copertura soprattutto per l’alto profilo delle persone e delle organizzazioni coinvolte.
Le Nazioni Unite sono state costrette ad ammettere che un’importante campagna internazionale di vaccinazione sta causando un’epidemia mortale proprio della malattia che avrebbe dovuto eliminare.
Mentre le organizzazioni internazionali come l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) si vantano sistematicamente di “eradicare la poliomielite” con i vaccini, sta succedendo il contrario con vaccini che causano la morte di tanti bambini in Africa.
I funzionari sanitari hanno ora ammesso che il loro piano per fermare la polio “selvaggia” sta fallendo, poiché molti bambini sono rimasti paralizzati da un ceppo mortale derivato da un vaccino vivo, scatenando un’ondata virulenta di polio.
Quest’ultima pandemia indotta da farmaci è iniziata nei paesi africani del Ciad e del Sudan, e il colpevole è stato identificato come virus Polio di tipo 2, derivato dal vaccino.
I funzionari ora temono che questo nuovo pericoloso ceppo possa presto “saltare i continenti”, provocando ulteriori epidemie mortali in tutto il mondo.
Per quanto possa sembrare scioccante, questa debacle di Big Pharma non è nuova. Dopo aver speso circa 16 miliardi di dollari in 30 anni per eradicare la polio, gli organismi sanitari internazionali hanno reintrodotto “accidentalmente ” la malattia in Pakistan, Afghanistan e Iran, che sono stati colpiti da un ceppo virulento di polio generato dal vaccino. Inoltre, nel 2019, il governo dell’Etiopia ha ordinato la distruzione di 57.000 fiale di vaccino antipolio orale di tipo 2 (mOPV2) a causa di un’epidemia di polio indotta da quel vaccino.
Un incidente simile si era verificato anche in India.
È importante notare che il vaccino antipolio orale è promosso dalla Global Polio Eradication Initiative (GPEI), un consorzio sostenuto e finanziato dalla fondazione Bill & Melinda Gates.
Tutto ciò è molto preoccupante, soprattutto ora che i governi occidentali e i giganti farmaceutici transnazionali si apprestano a sottoporre la popolazione mondiale ad una nuova vaccinazione sperimentale contro il coronavirus, col finanziamento di Bill Gates.
Attualmente, il primo vaccino sperimentale per la COVID-19 si sta testando sulla popolazione africana tramite GAVI Vaccine Alliance (link italiano), anch’essa finanziata dalla fondazione Gates. In Sud Africa è in corso una vasta campagna di sperimentazioni sull’uomo, gestita dall’Università del Witwatersrand a Johannesburg, pure finanziata da Bill Gates.
Quest’ultima rivelazione dall’Africa dovrebbe spingere i giornalisti e i sostenitori della salute a porre domande più pressanti sull’efficacia e sulla sicurezza del tanto acclamato “miracoloso” vaccino per la COVID-19.
FONTE: https://comedonchisciotte.org/le-nazioni-unite-ammettono-che-il-vaccino-di-gates-sta-causando-unepidemia-di-polio-in-africa/
ECONOMIA
Benvenuti nel capitalismo della sorveglianza
13 OTTOBRE 2020
Il nuovo libro della professoressa di Harvard Shoshana Zuboff, “Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri” (edito in Italia da Luiss), ci avverte che la Silicon Valley sta accumulando i nostri dati affinché l’intelligenza artificiale possa sovvertire ogni nostro diritto, libertà e pensiero cosciente.
“Tirannia Sanificata”
Zuboff afferma fin dall’inizio di non essersi concentrata solo su una società, ma piuttosto sul fenomeno complessivo nella sua “realtà di mercato”. Ciononostante, il libro è in gran parte incentrato su Google, che lei ritiene abbia inaugurato il capitalismo di sorveglianza nei primi anni 2000, e sui tentativi a ruota di Facebook, Amazon, Verizon ed altre società di diventare la nuova Google acquisendo sempre più dati su sempre più persone per venderli ad un prezzo sempre più alto in un ciclo di “tirannia sanificata e temperata” che fa sembrare il capitalismo di Smith e Hayek come una pappa per bambini. Perlomeno, sostiene Zuboff, Hayek e Smith esaltavano un sistema in cui i lavoratori guadagnavano abbastanza da poter alimentare un’economia di consumo intorno ai prodotti che essi stessi producevano. Zuboff fa una distinzione tra il totalitarismo, col suo desiderio di possedere e trasformare l’umanità in un’unità collettivistica intrisa di ideologia statale, e lo “strumentarismo” del capitalismo di sorveglianza, che lei descrive come una determinazione a raggiungere la certezza totale e il potere predittivo sugli affari umani dal punto di vista di uno sfruttamento economico basato sull’indifferenza morale ed ideologica. Mentre il totalitarismo trae il suo potere dall’“amministrazione gerarchica del terrore”, lo strumentarismo trae la sua forza dal “possedimento dei mezzi di modifica comportamentale”. Il sistema del capitalismo di sorveglianza è “radicalmente indifferente” al nostro destino o al nostro benessere. Secondo Zuboff, esso è amorale e manca di una posizione ideologica a parte un crudo appetito per i dati ed il controllo, anche se questo sembrerebbe contraddire la sua tesi secondo cui il capitalismo di sorveglianza vuole venderci dei prodotti e dei servizi. (Le persone morte di solito non acquistano prodotti o servizi, e in genere un sistema smette di generare profitti se, ad esempio, cessa di essere basato sul mercato).
L’intero libro ruota intorno a una domanda che il direttore di uno stabilimento aveva posto a Zuboff qualche anno fa:
Lavoreremo tutti per una macchina intelligente o avremo delle persone intelligenti che lavorano intorno ad una macchina?
Attraverso la scoperta dei surplus comportamentali (il comportamento degli utenti in termini di velocità di clic, modelli, tendenze emotive e altri dati strettamente correlati tra loro) Google ha ottenuto un enorme vantaggio, che Zuboff chiama “risorse di sorveglianza”. Questo patrimonio di informazioni acquisito da Google per analizzare il comportamento, il pensiero e gli schemi di azione “diventa la materia prima fondamentale per il perseguimento di un profitto da sorveglianza” che viene poi tradotto in un “capitale di sorveglianza” come parte di una “economia di sorveglianza” che è nata sull’onda di un “eccezionalismo della sorveglianza” nel mondo post-11 settembre. Se hai la sensazione che a Zuboff piaccia usare la parola “sorveglianza”, non ti sbagli.
Vita reale Vs. Internet
Secondo Zuboff, coloro che si preoccupano del fatto che le persone stiano incollate ai loro smartphone o sedute a casa tutto il giorno non colgono il disegno complessivo. Il futuro immaginato dai nostri signori della tecnologia è quello in cui, essenzialmente, la vita reale è Internet.
L’obiettivo finale è una sintesi grandiosa: la raccolta e fusione di ogni sorta di dato catturato da appositi sensori su ogni canale e dispositivo, per sviluppare un ‘ambiente di sensori virtuali’ in cui ‘i crawler attraverseranno costantemente i dati … calcolando il loro stato e stimando altri parametri derivati dai dati stessi’ che saranno raccolti un po’ dovunque, dagli interni degli uffici ad intere città.
Shoshana Zuboff
Big Tech è molto più avanti in termini di sofisticatezza della raccolta dati di quanto possa rendersi conto la maggior parte della gente, non solo per gli strani modi in cui esso riesce a ficcare il naso nella nostra corrispondenza privata e nei nostri quotidiani processi decisionali, ma anche per il modo in cui utilizza tali informazioni nell’ambito di quel business estremamente redditizio che è la pubblicità predittiva e in generale per promuovere la sua visione onnicomprensiva di un futuro “smart” e “connesso”. Ciò che alcuni film di fantascienza hanno provato a mostrarci, ma molti si ostinano ancora a non voler capire, è che il futuro di cui stiamo parlando va ben oltre Internet o i robot domestici.
Come disse l’ex presidente esecutivo di Google Eric Schmidt a Davos nel 2015,
Internet scomparirà. Ci saranno così tanti indirizzi IP … così tanti dispositivi, sensori, cose che indossi, cose con cui stai interagendo, che non lo percepirai nemmeno. Farà parte della tua esistenza in ogni momento. Immagina di entrare in una stanza e la stanza è dinamica.
Eric Schmidt
Sebbene i giornali abbiano frainteso l’affermazione di Schmidt, ciò che stava dicendo era molto profondo e si basava sulle idee dell’informatico Mark Weiser, che in un influente documento del 1991 aveva scritto che “le tecnologie più radicali sono quelle che scompaiono. Si intrecciano nel tessuto della vita quotidiana fino a rendersi indistinguibili da essa.” Egli descriveva un nuovo modo di pensare “che consenta ai computer stessi di svanire sullo sfondo … Nuove macchine che si adattano all’ambiente umano invece di costringere gli umani ad entrare nel loro renderanno l’uso di un computer rinfrescante come una passeggiata nel bosco”.
In altre parole, come possiamo già vedere con le “città intelligenti”, il potere immagina un futuro di totale integrazione ed interattività, con informazioni che fluiscono in ogni momento e tutti collegati alla rete.
I capitalisti della sorveglianza hanno capito che la loro ricchezza futura dipenderà da questi nuovi canali di approvvigionamento che si estendono alla vita reale sulle strade, tra gli alberi, in ogni parte della città. Vogliono raggiungere il tuo flusso sanguigno e il tuo letto, la tua conversazione di prima mattina, il tuoi spostamenti quotidiani, la tua corsetta, il tuo frigorifero, il tuo garage, il tuo soggiorno.
Shoshana Zuboff
Colonialismo digitale
Più avanti, Zuboff paragona il capitalismo di sorveglianza all’abuso di potere coloniale, scrivendo che “questi invasori del ventunesimo secolo non chiedono il permesso; vanno avanti, facendo terra bruciata con pratiche di falsa legittimazione”:
Invece di cinici editti monarchici, offrono cinici accordi sui termini di servizio le cui clausole sono altrettanto oscure ed incomprensibili. Costruiscono le loro fortificazioni, difendendo ferocemente i territori rivendicati, mentre raccolgono le forze per la prossima incursione. Infine, erigono le loro città all’interno di intricati ecosistemi di commercio, politica e cultura dove viene proclamata la legittimità e l’inevitabilità di tutto ciò che hanno appena realizzato.
Shoshana Zuboff
E noi, proprio come gli indigeni sulle spiagge del Sud America quando arrivarono per la prima volta gli spagnoli, non siamo tanto sopraffatti dalla loro forza quanto dall’impatto di qualcosa che non ha precedenti:
Il nostro caso non è semplicemente quello di cadere in un agguato o di essere sopraffatti da una maggior potenza di fuoco. Siamo stati colti alla sprovvista perché non potevamo immaginare questo tipo di invasione ed espropriazione, non più di quanto il primo, ignaro cacicco Taíno potesse prevedere i fiumi di sangue che sarebbero scaturiti dal suo inaugurale gesto di ospitalità verso quegli uomini pelosi, sudati e mugugnanti, quegli adelantados che apparirono dal nulla sventolando lo stendardo dei monarchi spagnoli e del loro papa mentre arrancavano lungo la spiaggia.
Shoshana Zuboff
Il sottile confine tra interessi commerciali e politici
Quindi, riassumendo: dovresti leggere questo libro? Sì. Questo libro ha dei difetti? Sì. Uno dei difetti di questo libro è che si focalizza principalmente sull’intersezione tra tecnologia e commercio. Sebbene Zuboff accenni alla Cina in un sottocapitolo intitolato “La Sindrome Cinese”, il libro perlopiù evita di toccare l’argomento. La Cina sta implementando una rete incredibilmente sofisticata di sorveglianza e controllo con sistema integrato di punizioni e premi per i suoi cittadini, e merita sicuramente una discussione approfondita a parte in quanto il promotore di tale progetto è lo stesso stato cinese, invece che un gruppo di imprese private. Come osserva Zuboff, “il sistema tiene traccia dei comportamenti ‘buoni’ e ‘cattivi’ per una serie di attività finanziarie e sociali, assegnando automaticamente punizioni e ricompense per indirizzare in modo decisivo il comportamento” verso modelli ritenuti virtuosi nella vita economica, sociale e politica.
Il sistema cinese è tanto più rilevante vista la decisione di Google di tornare in Cina accettando di censurare il proprio servizio Dragonfly. Google ha anche annunciato che aprirà proprio in Cina un centro di ricerca sull’intelligenza artificiale, in quanto l’assenza di leggi sulla privacy darà loro massima libertà per sperimentare a piacimento. Le rivelazioni riguardo alla decisione di Google sul caso Dragonfly sono trapelate da un dipendente che ha detto: “Sono contrario a che grandi aziende e governi collaborino nell’oppressione della propria gente.” Zuboff scrive che “Nel contesto cinese, lo stato controllerà e gestirà l’intera faccenda, non come un progetto di mercato ma come un progetto politico, una soluzione meccanica per plasmare una nuova società di comportamenti automatizzati al fine di garantire determinati risultati politici e sociali: la sicurezza senza il terrore.”
FINANZA BANCHE ASSICURAZIONI
Carlo Padoan sarà presidente di Unicredit
di Andrea Deugeni – – L’ex ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan sarà il prossimo presidente di UniCredit. Fonti finanziarie confermano ad Affaritaliani.it l’indiscrezione del Sole 24 Ore, secondo cui l’economista romano, ex Ocse e ora parlamentare del Pd, ha accettato l’incarico che gli sarebbe stato prospettato dagli azionisti della banca di piazza Gae Aulenti che per il dossier si sono affidati alla società di head hunting Spencer&Stuart. Padoan dovrebbe essere cooptato nel board odierno in vista della sua futura nomina da presidente, ruolo in cui riceverà il testimone da Cesare Bisoni, subentrato dopo la scomparsa di Fabrizio Saccomanni.
Padoan era in corsa per la presidenza della Banca europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo (Bers), corsa da cui l’ex ministro dell’Economia si è ritirato la scorsa settimana, anche perché all’orizzonte è maturato il prestigioso incarico in UniCredit. Incarico cui Padoan dovrà guidare la banca nella stagione del nuovo consolidamento europeo caldeggiato dalla Vigilanza comunitaria. Accelera dunque il dossier presidenza di UniCredit, visto che originariamente il programma era di aprire il file in consiglio a inizio novembre.
Le fonti spiegano che, spuntato fuori il profilo e registrata la soddisfazione di entrambe le parti, si è deciso di affrettare il processo. La nomina verrà ratificata dall’assemblea ad aprile. Padoan ha avuto così la meglio sugli altri candidati forti alla presidenza come Lucrezia Reichlin, ex UniCredit in passato e nome dato come preferito dall’attuale Ceo Jean Pierre Mustier, l’ex membro del Consiglio di vigilanza della Bce Ignazio Angeloni, gli ex ministri dell’Economia Vittorio Grilli e Domenico Siniscalco e l’attuale vicepresidente del gruppo Lamberto Andreotti.
FONTE: https://www.imolaoggi.it/2020/10/13/carlo-padoan-sara-presidente-di-unicredit/
GIUSTIZIA E NORME
La saga dei Dpcm, tra paternalismo e forzature giuridiche
Qualche mese fa è stato dato alle stampe un piccolo volume intitolato “Berlino Est 2.0” (Eclettica edizioni), scritto dal giovane giornalista Federico Cenci. E’ una narrazione distopica che si richiama evidentemente al modello di 1984 di George Orwell, ma anche alla memorialistica dei dissidenti del blocco sovietico. Racconta, attraverso una serie di “scene” immerse in un’atmoscera allucinata, la vita quotidiana sotto una dittatura che viene descritta con le categorie tipiche di quelle totalitarie del Novecento. Ma al lettore basta poco per accorgersi che gli episodi descritti rappresentano, senza esagerazioni, la vita quotidiana di tutti i cittadini nel periodo del “lockdown” motivato con l’emergenza sanitaria Covid dello scorso inverno-primavera. E così accade che sotto il tenue velo della “fictio” narrativa le caratteristiche del regime di vita imposto agli italiani in quel periodo si rivelano nella loro verità essenziale: un regime di fatto dittatoriale, imperniato sulla soppressione delle libertà individuali, sulla sorveglianza poliziesca e su una propaganda martellante.
Il confinamento forzato, l’impedimento alla libera circolazione, le “autocertificazioni” per le più elementari necessità di movimento quotidiano, l’impedimento all’attività motoria e persino alle passeggiate e giochi dei bambini, le file davati ai negozi dagli orari contingentati, la soppressione delle funzioni religiose e dei funerali, persino elementi grotteschi come i canti dell’inno nazionale e le bandiere dai balconi: tutto ciò ci appare nella sua luce sinistra e più autentica, ricordandoci che in nome della sicurezza da un morbo descritto in forme apocalittiche (in nome della “nuda vita”, per citare Giorgio Agamben) la società civile italiana ha accettato praticamente senza batter ciglio di sospendere democrazia e libertà costituzionali, consegnando un potere assoluto al governo, ai presidenti delle Regioni, a un comitato tecnico-scientifico di nomina governativa.
E’ stata una sospensione illegittima, fondata su provvedimenti normativi non aventi valore di legge, inutile dal punto di vista sanitario (visti i tassi altissimi di mortalità e letalità italiani in quel periodo, se confrontati con quelli di paesi che hanno adottato provvedimenti di salvaguardia più mirati lasciando ampi margini di normalità alla vita sociale) e assolutamente disastrosa dal punto di vista economico. Ma, soprattutto, nel caso italiano lo stato di emergenza è stato prorogato più volte anche dopo la fine della fase acuta dell’epidemia, è ancora in vigore oggi (caso unico in Europa, anche rispetto a paesi con una diffusione del virus molto maggiore) e oggi continua, sotto la veste di una abolizione della normalità praticamente indefinita, giustificata da parte governativa sempre con l’argomentazione secondo cui per la salute e la sicurezza si giustifica la rinuncia a qualche libertà. Il tutto nella diffusa indifferenza, o al massimo in una latente insofferenza, di gran parte dell’opinione pubblica.
E questo ci porta agli sviluppi delle ultime settimane e giorni, quando di fronte ad una inequivocabile (per chi guarda i dati e non la propaganda) “normalizzazione” del virus, il “blocco” di governo, Cts e regioni emergenzialiste non soltanto insiste nel mantenere misure restrittive che distruggono interi comparti economici e sabotano scuola, università, cultura, arte, ma addirittura rilancia un’ulteriore campagna di terrorismo psicologico per imporre nuovi confinamenti, e addirittura pretende di entrare nella vita privata e nelle residenze private degli italiani con divieti e minacce di repressione poliziesca (come in forma clamorosa ha fatto in particolare nei girni scorsi il Ministro della Salute Speranza). ancora una volta colpevolizzando e criminalizzando i comportamenti dei cittadini, e violando patentemente gli articoli 13, a4 e 16 della Costituzione sulla inviolabilità della libertà individuale, del domicilio e della libertà di circolazione.
Il nuovo, ennesimo DPCM licenziato il 13 ottobre dall’esecutivo ribadisce, sotto una veste cavillosa e in paragrafi contorti, questo ormai consolidato ingresso nella nostra vita politica e istituzionale di una componente autoritaria, paternalistica, repressiva che dovrebbe essere guardata con orrore da chiunque si professi democratico o liberale, compresi tutti quelli che in questi anni hanno ossessivamente gridato all’allarme del “ritorno del fascismo” quando al governo c’era Matteo Salvini.
In particolare, la “forte raccomandazione” ai cittadini di indossare le mascherine in casa in caso di visite di “non conviventi” apre una breccia dalle conseguenze potenzialmente devastanti nella difesa dei diritti fondamentali. Una breccia che, se fossimo in un paese dalla salda cultura liberale, dovrebbe muovere enti locali o privati cittadini a sollevare in ogni sede possibile ricorsi ed eccezioni di costituzionalità. La limitazione delle manifestazioni pubbliche ad una “forma statica” viola patentemente la libertà di riunione e associazione. E la rinnovata, drastica limitazione di tutte le attività ludiche e ricreative – dalle feste alla frequentazione di bar e ristoranti) tradisce il pervicace proposito di sabotare sistematicamente ogni forma di socializzazione autonoma.
Insomma, “Berlino Est 2.0” non se ne è mai andata dall’Italia. E’ diventata, ad onta di ogni seria analisi sulla situazione sanitaria ed epidemiologica, parte integrante, realtà quotidiana della dialettica politica e civile. Apparentemente in una forma attenuata, ma in realtà pronta a riesplodere nella sua veste più virulenta e repressiva appena il “blocco” di potere del regime sanitario trovi, manipolando pretestuosamente la realtà grazie anche a media in gran parte compiacenti, l’occasione per farlo. E’ diventata una mentalità, talmente radicata in pochi mesi che ormai la popolazione attende con rassegnazione i Dpcm e le trovate emergenzialiste dei governatori come se fossero una specie di dato naturale inevitabile. Almeno per ora, e fino a quando gli effetti economici suicidi dell’emergenzialismo non avranno toccato interessi diffusi in maniera nettamente percepibile.
In sostanza, se in altri paesi occidentali l’emergenza sanitaria ha fatto emergere pulsioni autoritarie, ma anche proteste contro di esse, in Italia essa ha riportato in piena luce una tradizione di asservimento e di acquiescenza a poteri dispotici che è profondamente radicata nella storia e nella cultura nazionale: da un’unità nazionale realizzata con un’operazione verticistica e nel segno del centralismo burocratico, all’autoritarismo di Crispi e Pelloux, fino all’egemonia politico-culturale del fascismo e del comunismo e al compromesso catto-comunista che nell’epoca repubblicana ha soffocato in larga parte la cultura liberale.
FONTE: https://loccidentale.it/la-saga-dei-dpcm-tra-paternalismo-e-forzature-giuridiche/
PANORAMA INTERNAZIONALE
Il problema è sempre quello: l’Inghilterra!
di Enrico Galoppini
Ma voi vi fate infinocchiare sempre ben bene e v’infervorate sulla Francia, la Germania… Per non parlare di quei servi ottusi che credono alle fole russofobe ed islamofobe dei media.
Il problema, a ben vedere, non è nemmeno l’America: semmai è l’american way of life, altrimenti detto “occidentalizzazione del mondo” per le plebi globalizzate. Potrà sembrare strano, ma il problema vero non sono nemmeno i famosi Innominabili, che pure di danni ne fanno.
No, il problema è l’Inghilterra, che detiene una serie di poco invidiabili record: prima rivoluzione con testa coronata mozzata (Cromwell); prima banca centrale che rende il denaro una merce; prima massoneria speculativa (Gran Loggia d’Inghilterra). Ma si potrebbe continuare con le origini del razzismo moderno (Chamberlain), del darwinismo sociale, del disumano sfruttamento dei lavoratori. Della elevazione della proprietà privata al rango di furto ed abuso (qui comincia la pratica delle enclosures, con la fine dei diritti collettivi delle comunità). Della riduzione del mondo intero a “mercato”, con la riduzione di millenarie civiltà (si pensi all’India e alla Cina) a simulacri di se stesse. È in Inghilterra che nascono (coi prodromi a Venezia) i primi servizi segreti, in odor di magia ed inganno ontologico, ed è qui che bolle in pentola la prima “riforma” (Enrico VIII). Ed è sempre in Inghilterra che dilaga il gioco d’azzardo, così come la mania degli sport (da vedere) usati come arma di distrazione di massa.
Vogliamo parlare, inoltre, della giurisprudenza inglese per la quale le sentenze, anche le più assurde, costituiscono un “precedente”? Tutto il contrario del Diritto romano!
Chi ha poi istituito una vera centrale della speculazione mondiale come la City con tutti i vari “paradisi fiscali” da essa dipendenti?
E concludo questa galleria degli orrori con il traffico di droga, vera arma escogitata da quella allegra combriccola oggetto dei pettegolezzi dei tabloid in combutta col solito Innominabile di turno, allo scopo di forzare “l’apertura” di qualche nazione “chiusa” e corromperne nel fisico e nell’animo la popolazione.
Ma all’apice della mistificazione e dell’inganno, si è di fronte a chi, dovendo stabilire un dominio sui mari, ha elevato al rango di “baronetto” veri pendagli da forca come i pirati, salvo poi nobilitarli grazie al monopolio della fabbricazione della cultura dell’intrattenimento per grandi e piccini, nella quale anche uno stupratore d’infanti diventa giustificabile.
L’Inghilterra è il Paese della doppia morale, e con questo abbiamo detto tutto!
FONTE: http://www.ildiscrimine.com/il-problema-e-sempre-quello-linghilterra/
POLITICA
Il piano giallorosso per il Quirinale: prolungare il mandato di Mattarella per prendere tempo
Ma alla fine l’ipotesi di un Mattarella bis prenderà davvero piede? Sarà la conferma dell’attuale presidente della Repubblica la strada scelta dalla formazione giallorossa, il fine comune che terrà unita una coalizione tutt’altro che omogenea e alle prese, anzi, con liti e incomprensioni quotidiane? Possibile, anche se ancora non scontato. Con un’ipotesi a fare capolino in questi giorni concitati: l’idea di prolungare il mandato del Capo dello Stato per prendere tempo e fare i conti con quella riforma del Parlamento che, nel frattempo, è stata approvata soprattutto per volontà dei Cinque Stelle. Una strategia perfettamente nelle corde di una maggioranza che ha fatto del tergiversare un’arte.
L’idea di un prolungamento del mandato di Mattarella ha fatto nuovamente capolino sui giornali in queste ore, rilanciata sulle pagine di Repubblica da Claudio Tito. Il piano si inserirebbe sulla scia di quello che portò al bis di Napolitano, che all’epoca fu scelto più che altro per mancanza di alternative condivise. Stavolta, si tenterebbe di guadagnare altro tempo prezioso nascondendo il tutto sotto argomentazioni istituzionali. La domanda che infatti alcuni onorevoli si pongono è: “Si può eleggere un nuovo Capo dello Stato con un Parlamento la cui composizione è stata sottoposta ad una legge di revisione costituzionale?”. Un quesito dietro il quale i giallorossi sembrano già pronti a nascondersi.
L’elezione del nuovo Capo dello Stato, infatti, è prevista per il gennaio 2022. Con tutta probabilità sarà quindi questo Parlamento, con 950 parlamentari e non 600, a nominarlo. La nuova normativa che taglia di un terzo il numero di deputati e senatori sarà però in vigore dal prossimo novembre e sarà applicata in maniera concreta soltanto dopo in occasione delle prossime elezioni. È giusto, dunque, che siano questi onorevoli a scegliere il prossimo Presidente della Repubblica? La domanda avrebbe anche un fondamento. Ma, senza troppo badare alla risposta, tra i giallorossi si ragiona già su come sfruttare al meglio l’occasione: prolungare il mandato di Mattarella, vista l’eccezionalità del momento, e garantirsi così un’exit strategy preziosa.
Le Camere, in realtà, sono pienamente legittimate a eleggere il successore di Mattarella. Con il diretto interessato che avrebbe tra l’altro già fatto di sapere di non essere interessato a un secondo giro al Quirinale. Resta, però, il patto tra giallorossi: evitare che il prossimo presidente sia una figura anti-europeista, costi quel che costi. Se non sarà Mattarella, dunque, urge trovare un’alternativa. Prendere tempo, in questo scenario, potrebbe essere ancora una volta la scelta più gradita da tutti.
FONTE: https://www.ilparagone.it/attualita/il-piano-giallorosso-per-il-quirinale-prolungare-il-mandato-di-mattarella/
MENZOGNA-VIRUS, O IL VIRUS DELLA DE-COSTITUZIONALIZZAZIONE
Due fattori fondamentali per capirlo sono esclusi dal pubblico dibattito sul Covid 19:
a) Il Covid 19 è stato realizzato dai militari cinesi nel laboratorio di Wuhan in un progetto che poteva avere scopo unicamente offensivo.
b) E’ in corso una campagna mondiale di gonfiaggio del numero dei malati e dei morti di Covid 19 attraverso l’uso di metodi diagnostici volutamente errati e di un linguaggio ingannevole.
Analizziamo questi due fattori.
Il Covid 19 è il risultato dell’ibridazione e potenziamento in laboratorio tra un virus di una certa specie di pipistrelli cinese e il virus dei pangolini cinesi; quest’ultimo ha una componente che si attacca alle cellule umane e consente al virus di penetrarle[i]. Una tale ibridazione non può avere altro concepibile scopo che quello di creare epidemie. Infatti ha prodotto una pandemia che ha colpito tutto il mondo, ma in modo asimmetrico che avvantaggia la Cina: ha causato gravissimi danni economici, in termini di indebitamento e durevole recessione (- 8,5% quest’anno), all’Occidente, mentre la Cina, essendo un sistema formicaio centralizzato, ha tenuto nascosto il grosso dei suoi morti e si è ripresa rapidamente e chiuderà l’anno con un + 1,2% di pil e un + 10% di export – ossia avanza conquistando nuovi mercati nel mondo. Ancora qualche colpo così, e soppianterà gli USA nel ruolo di piattaforma di controllo planetario. Pare che Washington contrattacchi richiedendo il risarcimento dei danni alla Cina, per aver creato la pandemia vuoi per negligenza, vuoi per intenzione. Non mi sorprenderei qualora, in tal senso, congeli il proprio debito pubblico in mano a Pekino.
Quasi tutti i governi, come obbedendo a una regia superiore, fanno in modo di moltiplicare i numeri dei contagiati e dei morti di Covid 19, mediante i seguenti metodi, avallati pienamente dai mass media:
1-hanno ritardato di decine di giorni le misure per impedire o contenere l’arrivo del contagio dalla Cina;
2- adoperano uno story-telling per l’opinione pubblica che fa percepire come malati di Covid 19 anche coloro che sono già guariti o sono solo venuti in contatto col virus o sono asintomatici (queste categorie, col diffondersi del virus, saranno sempre più numerose); e che fa percepire come morti di Covid 19 anche coloro che sono morti di altrro (cancro, infarto, diabete, Parkinson, etc.) ma risultavano positivi al tampone prc;
3-adoperano uno strumento diagnostico, ossia il tampone prc, che è stato realizzato non per uso diagnostico, ma per moltiplicare, ad uso di studio scientifico, minuscole tracce di pezzi di rna, troppo piccole per poter essere studiate, e che quindi vanno moltiplicate (questo è il caso delle persone che sono solo venute in contatto col virus o che sono guarite); inoltre il prc reagisce positivamente a tutti i virus della famiglia Covid[ii]; il risultato è che i test producono una marea di falsi positivi;
4-pagano i medici e le famiglie (l’OMS anche i governi di paesi poveri: Kenia, Madagascar, Bielorussia – che hanno rifiutato e denunciato) per far dichiarare malati o morti di Covid 19 anche coloro che sono morti di altro (ho avuto conferme che questo avviene anche in Germania). All’opinione pubblica si sottace, inoltre, che la percentuale dei morti sui contagiati è minima, oggi, e che nel passato era alta perché li si curava per polmonite, aggravando la malattia reale, che era una tromboflebite. I morti effettivi per Covid 19 sono sicuramente tra 1/10 e 1/100 del dichiarato dai governi, come anche risulta da dichiarazioni di istituzione sanitarie.
Orbene, anche per capire quando l’”emergenza” potrà finire e se potrà arrivare una seconda ondata o piuttosto un secondo virus pandemico, dovremmo chiederci quale sia lo scopo di questa globale campagna di terrorismo e se sia legata col fattore a), ossia la strategia espansionistica cinese. Perché, palesemente, se è in corso una siffatta campagna mondiale di falsificazione terroristica, necessariamente vi è una strategia altrettanto mondiale, con qualche obiettivo globale, ampio e ben preciso, che non sembra sia soltanto quello di accrescere i guadagni di Big Pharma o di giustificare una immissione straordinaria di liquidità nell’economia mondiale per superare un passaggio critico, ma piuttosto una ristrutturazione su scala planetaria della società, incentrata su:
– un processo di ‘decostituzionalizzazione’ (fine delle libertà garantite, come lo spostamento e le decisioni sanitaria, assunzione del potere legislativo da parte del potere esecutivo, fine dei controlli dal basso sul potere politico) degli ordinamenti statuali e alla loro conversione in aziende centralizzate, autoritarie e ‘traccianti’ (ossia sorveglianti), gestite da governi decisionisti e autocratici, sul modello cinese;
– una sistematica apertura dei corpi delle persone ad interventi biologici dei governi mediante inoculazione di sostanze che vengono presentate e fatte percepire come ‘vaccini’, ma che hanno molti altri effetti, perlopiù nocivi per l’individuo, e chiaramente finalizzati a deprimere le capacità di resistenza mentale e fisica, agendo sin dalla prima infanzia, attraverso le vaccinazioni multiple e ripetute, sul sistema nervoso centrale e sul sistema immunitario soprattutto, durante la loro formazione.
Come interpretare allora la presente ondata mediatica di allarmismo crescente in questi giorni di ottobre? Verosimilmente come campagna per predisporre la gente a nuove restrizioni e maggiore autoritarismo, che altrimenti non accetterebbe. A vivere isolate, nella paura, con ridotte possibilità di spostamento e di incontro, e impossibilitate ad aggregarsi a fini sociali e politici. Altro quesito: quando finiranno le seconde, terze etc. ondate di contagio, e le campagne di disinformazione terroristica? Presumibilmente quando la ristrutturazione politica, normativa e psichica della società sarà stata completata, quando il pensiero unico e la verità unica di regime si sarà affermata e ogni dissenso sarà stato spento o delegittimato assieme a ogni pretesa di controllo dentro l’operato del potere e sui suoi fini. Cioè quando sarà stato realizzato il mondo orwelliano che ho descritto in Oligarchia per popoli superflui e in Tecnoschiavi.
Marco Della Luna
[i] Jospeh Tritto, Cina Covid 19, Cantagalli 2020, ha raccolto e offre tutte le necessarie prove.
[ii] https://www.facebook.com/notes/stefano-scoglio/i-tamponi-covid-19-producono-fino-al-95-di-falsi-positivi-confermato-dallistitut/10219184857114453/
FONTE: https://www.controinformazione.info/menzogna-virus-o-il-virus-della-de-costituzionalizzazione/
SCIENZE TECNOLOGIE
OMS: «Basta lockdown, raddoppia i bimbi poveri»; grazie presidente Conte
L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) si è dichiarata contraria ai lockdown: «Producono una conseguenza che non dovete assolutamente sottovalutare».
Qualche giorno fa, in un’intervista a La Stampa, Ricciardi aveva affermato: «Siamo sulla lama di un rasoio, se non interveniamo subito tra due o tre settimane rischiamo di ritrovarci come in Francia, Spagna e Gran Bretagna».
L’ultimo Dpcm ha aumentato le restrizioni. La paura di molti italiani è che si prospetti la possibilità di un secondo lockdown.
Ma cosa pensa dei lockdown l’OMS? L’ultimo messaggio rilasciato da un incaricato dell’organizzazione è molto forte.
Il messaggio di Nabarro dell’OMS sui lockdown
David Nabarro è un medico molto importante a livello internazionale che ha lavorato sia per il Segretario generale delle Nazioni Unite (ONU), sia per il Direttore generale dell’OMS.
Dal 21 febbraio 2020 è entrato a far parte del team incaricato dall’OMS per rispondere all’emergenza sul coronavirus.
In uno dei suoi ultimi interventi ha affermato: «Noi dell’OMS non siamo favorevoli al lockdown come strumento principale per controllare il virus».
Il dottor Nabarro ha specificato che il confinamento è giustificato solo nel caso in cui si abbia necessità di riorganizzare, riunire e bilanciare le risorse o per proteggere gli operatori sanitari stanchi.
«Tuttavia noi non l’auspichiamo», ha ribadito riferendosi alla chiusura di tutto. Come quella che c’è stata in Italia in primavera. Anzi, proprio l’Italia è stata la nazione ad aver effettuato il più pesante dei confinamenti.
Ha poi portato alcuni esempi di quello che ha conseguito il blocco totale dei paesi: dal crollo del turismo ai piccoli agricoltori che sono andati in rovina.
Nabarro ha affermato che il prossimo anno il livello di povertà potrebbe raddoppiare, insieme alla malnutrizione infantile.
«Questa è una terribile e grave catastrofe globale. Facciamo appello a tutti i leader mondiali. Basta utilizzare i lockdown come mezzo di gestione primaria del virus».
Ha poi invitato tutti a cercare alternative migliori e ha suggerito ai Paesi di comunicare e lavorare insieme per trovare le soluzioni ideali.
«I lockdown – ha concluso l’incaricato dell’OMS– producono una conseguenza che non dovete assolutamente sottovalutare. Producono poveri, gente sempre più povera». Foto Nabarro: YouTube – Foto Conte: YouTube
VIDEO QUI: https://youtu.be/TVwVppQ7ueI
FONTE: https://www.oltre.tv/oms-basta-lockdown-raddoppia-bimbi-poveri/
L’altra faccia del facciale
Il riconoscimento facciale è un problema o un’opportunità? Una opportunità. Ma la logica del credit rimanda a Orwell.
Nel mese di aprile sul canale d’informazione Channel Asia News è rimbalzata la notizia che in Cina sempre più comunità locali stanno sperimentando, su larga scala, un social credit system. Il quale rileva i comportamenti dei cittadini attraverso il riconoscimento facciale grazie e milioni di telecamere di sorveglianza disseminate ovunque e fuori sorveglianza dal comune cittadino. La notizia di Channel Asia News è interessante perché data l’entrata in vigore del sistema “di almeno due anni”. Ai cittadini, grazie al sistema, viene attribuito un punteggio ( credit) attraverso il quale finiscono relegati nel girone della affidabilità ovvero in quello della inaffidabilità. Chi ha un credit alto ha certamente maggiori possibilità di ottenere un lavoro governativo, un posto in asilo pubblico ed anche un controllo medico annuale, gratuito.
Viceversa – come direbbe Cevoli- chi ha un credit basso perché ha svoltato a sinistra anziché a destra oppure ha acquistato troppi videogiochi oppure , infine, ha consultato troppe notizie false (secondo il rigido protocollo del “vero” che viene dall’alto del Celeste Impero) non può più pagare il biglietto per i viaggi su voli interni o sui treni, tantomeno sognare di spostarsi all’estero. Naturalmente non rinnoverà la carta di credito e quando andrà in banca per via del prestito ottenuto si sentirà dire che il prestito è estinto mentre il rientro dal prestito gode di ottima salute. Channel Asia News ha quantificato in 9 milioni di persone le vittime da credit insufficiente. Basso, troppo basso.
Le versione utopica dell’intelligenza artificiale ci fa sognare magnifiche sorti. La versione distopica di tale sogno ci permette di considerare appieno la minaccia delle magnifiche sorti.
In Italia il riconoscimento facciale sarebbe perfetto in qualche curva sud degli stadi. Anche in molte stazioni ferroviarie. E nelle piazze dove il distanziamento sociale non viene mai applicato a causa del distanziamento mentale di chi le frequenta.
Ma Channel Asia News ci informa anche che nel giro di pochi mesi le persone iscritte nel fondo classifica del social credit sono balzate da 9 a 17 milioni, progressione che Orwell non aveva considerato.
Negli Usa qualche domanda in più è stata posta, al riguardo; la municipalità di San Francisco, oltre alla domanda, ha dato una risposta impedendo alla polizia locale di ricorrere al software di riconoscimento facciale, prima città metropolitana americana a contrastare la marcia trionfale della schedatura di massa a fini amministrativi.
La questione etica legata ai software di riconoscimento ha ricadute esemplari sul fronte commerciale. Ne sa qualcosa Amazon, accusata di utilizzare un sistema rekognition che quando analizza i volti di persone nel 31% dei casi confonde i visi femminili con quelli maschili. L’Azienda ha minimizzato il bias ma molti esperti di AI hanno tenuto il punto sottoscrivendo dapprima una lettera aperta alla stessa Amazon e ottenendo infine che la stessa Assemblea degli azionisti decretasse l’abbandono del sistema di riconoscimento. Siamo a San Francisco, culla dell’hi tech, epicentro di un complessivo e complesso confronto sulla adottabilità (sostenibilità) di sistemi di controllo delegati alla intelligenza artificiale.
Il fondatore dell’Icelandic Institute for Intelligent Machines, Kristinn Thorisson non nega affatto che il tema dell’Intelligenza Artificiale sia il grande tema del futuro. Ma precisa subito che per ora “siamo nell’era della stupidità artificiale”. Manca la comprensione: “in realtà queste macchine non comprendono proprio nulla e questo è un problema.
FONTE: https://www.infosec.news/2020/10/12/news/ai-robotica/laltra-faccia-del-facciale/
STORIA
La storia di Alba Fucens
La storia di Alba Fucens è strettamente legata a quella dei Marsi, un popolo italico storicamente stanziato nel I millennio a.C. nel territorio circostante il lago Fucino, zona che attualmente corrisponde a un’ampia area dell’Abruzzo chiamata appunto Marsica.
Nei corredi funerari di tutto il mondo antico, l’uomo usava deporre all’interno delle tombe oltre ai beni personali del defunto, anche cibi e bevande, che secondo le credenze popolari questi avrebbero consumato durante il viaggio verso l’aldilà. Solo una popolazione in tutta l’antichità rifiutò questa usanza in maniera categorica: i Marsi. Nelle loro tombe infatti, non trovarono mai cibo, piatti o altre cianfrusaglie da cucina, ma solo ed esclusivamente armi, dalle quali sembrava non volessero separarsi neanche da morti.
La presenza dell’uomo nella Marsica è indiscutibilmente antica. Già circa centomila anni fa gli uomini che transitavano dal Tirreno all’Adriatico, scoprirono la feracità è la bellezza di queste terre.
Ma fu solo approssimativamente diciassette mila anni fa che l’uomo si stabilì definitivamente nelle numerose accoglienti grotte disponibili ai margini del lago.
Intorno al 450 a.C., gli abitanti che vivevano sulle sponde del terzo lago d’Italia, si specializzarono nella guerra e soprattutto nel mercenariato, meritandosi così il nome di Marsi, ovvero figli di Marte, dio della guerra.
Oggi per identificare il pericolo di morte si usa il simbolo del teschio con le ossa incrociate, nell’antichità invece veniva usata la Chimera. Ecco perché quei leggendari guerrieri Marsi scelsero proprio la Chimera come simbolo distintivo. Riportandone l’effigie sui loro scudi, ricordavano al nemico di essere portatori di morte.
Le gesta storiche dei Marsi iniziarono a diventare leggenda in tutto il mondo intorno al 350 a. C.
Roma divenuta ormai una potenza egemone, si trovò a dover affrontare una coalizione di popoli italici guidati dai Marsi e dei Sanniti che chiedevano il riconoscimento dei loro diritti sociali. Il campo di battaglia conobbe subito la violenza dei Marsi, che come loro solito, grazie alla loro forza e audacia si conquistarono subito la fama di incredibile popolo guerriero. Uno in particolar modo, distintosi contro i Troiani per tempra e valore, fu ricordato e lodato perfino da Virgilio nell’Eneide: il suo nome era Umbrone.
Nonostante l’esercito Romano fosse immensamente più numeroso e organizzato, arrivò ad un soffio dall’essere spazzato via dall’accoppiata marso-sannita che guidava la coalizione dei popoli italici. Dopo una sanguinosa guerra intestina Roma dovete scendere a patti con quegli indomiti guerrieri e si trovò costretta a concedere loro la cittadinanza romana, con tutti i diritti ad essa connessi.
I generali romani si accorsero già dalle prime battaglie dell’elevato valore militare dei Marsi e cambiarono idea, invece di combattere quel temibile popolo gli proposero un’alleanza, entrare a far parte del più potente e ambito esercito del mondo antico.
I Marsi accettarono, ma imposero le loro condizioni, non volevano essere impiegati come semplici soldati ma come corpo d’élite, un vero e proprio corpo speciale. Divennero le forze speciali del più grande e potente esercito che la storia ricordi. L’Impero ricorreva costantemente a questi battaglioni quando c’era qualche compito particolarmente ingrato o difficile da far digerire a chiunque altro. Infatti furono proprio due guerrieri Marsi a crocifiggere Gesù sulla croce, poiché erano loro gli addetti a portare termine quelle crude esecuzioni che non tutti avevano il coraggio di attuare. Al battaglione dei guerrieri Marsi apparteneva anche Longino, il soldato romano che trafisse con la propria lancia il costato di Gesù crocifisso, per accertare che fosse morto.
Persino i Pretoriani, le guardie private dell’Imperatore, erano guerrieri Marsi. Il mito dei guerrieri Marsi crebbe così velocemente che, in pochi anni, non esisteva un angolo in tutto l’Impero Romano in cui non si sapesse che per far fronte ad un guerriero marso servivano almeno quattro legionari romani. Fu così che a partire da quel momento, almeno una compagine di guerrieri Marsi accompagnò l’esercito romano in un’impresa militare, dentro e fuori il territorio italico.
Gli impavidi guerrieri consentirono a Roma di dominare il mondo. Da allora e nei secoli a venire, non ci fu cittadino romano o schiavo dell’Impero che non conoscesse il detto tramandatoci da Appiano di Alessandria: “Nec sine marsis nec contra marsos triumphari posse” (“Non si può vincere né senza i Marsi né contro di essi”).
Roma non poteva più fare a meno di quei temibili alleati. Diversi furono i casi documentati, in cui gli impavidi guerrieri risultarono determinanti in battaglia, come per esempio contro i terribili Galli, Parti, i Traci e i Daci, che come scrisse Flacco: “ancora nascondono in cuore il terrore dei Marsi“.
Oltre ad affiancare i Romani nelle più importanti battaglie contro i Cartaginesi, i Celti, i Macedoni, i Siriani di Re Antioco, gli Illiri, durante la guerra contro i Numidi i guerrieri Marsi da soli riuscirono a fermare la terribile e imponente cavalleria di Re Siface. Costui, dopo essere stato fatto prigioniero da Scipione l’Africano, fu confinato ad Alba Fucens dove fu seppellito dopo la sua morte. Altrettanto toccò in seguito a Perseo, Re di Macedonia, e a Bibuito, Re degli Averni. In tutta la sua storia, ad Alba Fucens furono confinati molti prigionieri importanti.
Meglio ancora fece Publio Cornelio Scipione Emiliano, il quale riuscì a radere al suolo Cartagine solo grazie ai fieri guerrieri Marsi, e non appena tornato in Italia, quale segno di riconoscimento volle a tutti i costi visitare Marruvium, l’allora capitale dei Marsi, l’attuale San Benedetto dei Marsi. Publio Cornelio Scipione Emiliano donò a Marruvium le migliori opere d’arte sottratte alla potente città africana.
I Romani avevano costruito una propria città nel territorio dei Marsi, scegliendo quale luogo la sponda settentrionale del lago del Fucino. Sorgeva in alto, a quasi 1000 m s.l.m., ai piedi del Monte Velino, a 7 km circa a nord di Avezzano. La città fondata dai Romani si chiamava Alba Fucens, la più grande colonia militare mai fondata nella Roma Repubblicana, che con un presidio di seimila uomini e poderose mura di fortificazione visibili ancora oggi, permettesse anche di controllare i bellicosi guerrieri Marsi.
Il geografo e storico greco Strabone, nella sua opera “Geografia”, afferma che Alba Fucens fu fondata da Roma come colonia di diritto latino nel 304 a.C., nel territorio al confine tra quello occupato dagli Equi e quello occupato dai Marsi, in una posizione geografica strategica. Si sviluppava su tre colline appena a nord della via Tiburtina Valeria. Gli Equi, non potendo tollerare una colonia romana sul loro territorio, l’attaccarono più volte cercando di espugnarla, ma sempre senza successo.
Alba Fucens era una vera e propria città militare, con uno statuto creato ad hoc solo per lei.
Solo a tre città nell’Impero Romano fu dato il nome di Alba. Alba Pomeia, l’attuale Alba in provincia di Cuneo, oggi famosa per i suoi preziosi tartufi. Alba Julia in Transilvania, nota per essere il capoluogo dell’antica Dacia romana. E Alba Fucens, senza ombra di dubbio l’Alba più famosa della storia dell’Impero. Alba Fucens significa “Alba del Fucino” e Tito Livio nelle sue “Storie” racconta come ad Alba Fucens si verificasse il miracolo “dei due soli”. Sembra infatti che in alcune ore del giorno, prevalentemente all’alba, nel cielo della città si potessero scorgere non uno, ma ben due soli affiancati.
Si trattava di una città enorme. Alba era presidiata da 20 coorti che facevano capo a due legioni, la Quarta e la Martia, tra le più leggendarie e gloriose di Roma. Per un lungo periodo fu la città più popolosa e importante di tutto l’Abruzzo. Diverse testimonianze raccontano che tra i soldati, relativi familiari e gli immancabili schiavi, arrivò ad una popolazione di oltre 40 mila abitanti, che per l’epoca rappresentavano una ragguardevole cifra, calcolando che nel 270 a. C., Roma stessa contava appena 187 mila residenti, e nel Mediterraneo era seconda solo a Cartagine.
Per un breve periodo vi stazionarono circa un terzo delle truppe regolari dell’Impero Romano. Da questo avamposto infatti, da sempre considerato come uno snodo particolarmente strategico dal punto di vista geografico, era possibile raggiungere qualsiasi destinazione del centro Italia in un massimo di sette giorni di marcia.
A livello militare poi, Alba Fucens divenne la città fortezza per antonomasia di tutta la penisola italica, con le sue tre inespugnabili linee difensive costituite da imponenti mura ciclopiche non dovete mai ricorrere alle sue difese estreme. Nessun nemico riuscì mai ad entrare, neanche nella sua cintura urbana, e grazie a questo invidiabile primato rimase l’unica città romana della storia a non essere mai stata violata.
Alba Fucens offrì un’assoluta fedeltà a Roma, come dimostrò già dai primi anni del III secolo a.C., quando una forte coalizione tra Etruschi, Umbri, Sanniti e Galli minacciò Roma. Alba si alleò a Roma seguendola fino alla vittoria di Sentinum nel 295 a.C..
Durante l’invasione di Annibale, Alba Fucens intimorì gli invasori i quali evitarono di assediarla. Avendo compreso che le truppe di Annibale si stessero recando ad assediare Roma, Alba Fucens inviò un contingente di duemila legionari per soccorrere Roma. Legionari che non dovettero mostrare tutto il loro valore poiché Annibale desistette dall’assedio e si diresse verso sud.
La sua prosperità, nel periodo imperiale, è testimoniata dai monumenti creati all’epoca, sia pubblici che privati. Notevole impulso economico dette anche la bonifica del lago Fucino.
Fu Strabone il primo autore ad occuparsi del Fucino, che descrisse come “un lago che sembra un mare“, che subiva “delle forti variazioni di livello“.
Altri storici tra cui Tacito, Plinio il Vecchio e Svetonio ricordano che furono le popolazioni della Marsica a chiedere a Roma di regolare le acque.
Giulio Cesare concepì il progetto, Nerone fece iniziare gli scavi, Claudio li completò tra il 41 e il 52 d.C., facendovi lavorare 30 mila schiavi.
Dal IV secolo d.C. la città antica fu progressivamente abbandonata, e finì per l’essere abbandonata del tutto dopo un grave terremoto avvenuto nella prima metà del VI secolo d.C.. Successivamente, nel corso dei secoli, delle ricchezze architettoniche romane si persero progressivamente le tracce. I magnifici resti che possiamo oggi ammirare, sono venuti alla luce solo pochi decenni fa. Infatti nel 1949 iniziarono ad Alba Fucens degli scavi sistematici realizzati un gruppo di lavoro dell’Università di Lovanio guidata da Fernand De Visscher, seguita dal Centro belga di ricerche archeologiche in Italia diretto da Joseph Mertens.
Ecco che così oggi possiamo ammirare le ciclopiche mura della città. La cinta muraria era lunga circa 2,9 km e si è conservata integra in gran parte. Le mura sono a massi poligonali perfettamente incastonati fra di loro con le superfici levigate.
Se ne conserva anche una torre e due bastioni a protezione di tre delle quattro porte principali. Su uno dei bastioni sono scolpiti simboli fallici probabilmente scaramantici. Sul lato settentrionale, per circa 140 m, c’è una triplice linea difensiva eretta in epoche diverse.
La struttura viaria urbana, ancor oggi chiaramente identificabile, era basata sull’incrocio degli assi stradari principali, cardo e decumano. Pertanto le strade intersecandosi formano una scacchiera di edifici, e la via principale percorre l’intero asse centrale della città.
Il foro, di fine IV secolo a.C., era rettangolare e circondato da edifici, probabilmente tempietti ed edifici pubblici.
Nel settore pubblico, a nord, c’era il comizio, risalente al III secolo a.C., un edificio circolare inscritto in un quadrato, con la porta assiale. Sul lato opposto c’era un portico con un triplice colonnato tardo repubblicano.
Parallela alla via Tiburtina Valeria, corre la via dei Pilastri, così denominata per la presenza di pilastri in pietra, tre dei quali sono stati rialzati. In questa via vi era un porticato con alcune botteghe che s’affacciavano sulla via stessa.
Nella seconda bottega si può ancora riconoscere un Thermopolium, o taberna di vini e vivande, fornita di vasca.
Vi era inoltre il macellum, o mercato, edificio circolare con i muri a raggiera del II secolo a.C., con varie botteghe ed ai margini, tra la via Tiburtina Valeria e la via dei Pilastri.
Oltrepassato il macellum si giunge al famoso miliario (quello esposto è un calco dell’originale) che dà il nome alla via, nel quale il nome dell’Imperatore è attentamente spicconato: era Magnenzio, che subì la damnatio memoriae.
E’ il cippo che indica in 68 miglia (circa 100 km) la distanza da Roma. È del 350 a.C. e dimostra appunto che la via Tiburtina Valeria attraversava la città.
A Sud del portico era posta la basilica, di epoca sillana, che si affacciava sul foro. Misurava 142 m di lunghezza per 43,50 di larghezza ed era suddivisa in tre navate, con tre ingressi sul lato principale.
All’interno si possono ancora ammirare i pavimenti e le pitture parietali del II secolo a.C. Visibile è anche la pianta delle tabernae aperte sulla via principale.
Qui si trattavano gli affari e si amministrava la giustizia.
Della Basilica, oltre il porticato, da notare le buche ancora conservate utilizzate dai romani per le votazioni.
Era il Diribitorium, dove avvenivano le consultazioni elettorali.
Più a sud troviamo le terme, con varie iscrizioni che attestano molteplici interventi edilizi, e ben riconoscibili dai pavimenti con suspensurae per il riscaldamento.
Interessanti sono anche le latrine, molto ben conservate.
Le terme presentano un bel mosaico d’ingresso. Furono costruite in età tardo-repubblicana, ma ampliate e abbellite in epoca imperiale, decorate con preziosi mosaici raffiguranti scene e soggetti marini.
Visibili sono anche gli ambienti del Tepidarium, Calidarium e Frigidarium che conservano la canalizzazione delle acque che, insieme a quelle reflue, erano di servizio anche alla lavanderia.
Un’area porticata di 83 metri per 36 metri ospita il Santuario di Ercole, del I secolo a.C., con due colonne che immettono in uno spazio ospitante un altare con la statua di Ercole a banchetto; il pavimento è a mosaico con tessere bianche e nere.
La statua che ha dato nome all’edificio, si trova al Museo Archeologico di Chieti. La statua colossale di Ercole è stata ritrovata la mattina del 28 giugno 1960, durante gli scavi ad Alba Fucens. L’Ercole, in marmo pentelico, dall’eccezionale altezza di 2,4 metri, è rappresentato seduto su un seggio purtroppo perduto, mentre regge una patera con la mano sinistra sollevata e con la destra stringe un oggetto andato perduto, con ogni probabilità ricostruibile come una clava rivolta verso il basso. Il volto è caratterizzato da una folta barba lavorata a ciocche simmetriche. Sulla fronte è visibile una corona di foglie di ulivo, che possono alludere alla partecipazione al banchetto, o piuttosto di alloro, simbolo di vittoria. Intorno al braccio sinistro e ai fianchi doveva essere rappresentata la leontè che caratterizza immancabilmente l’eroe, ma secondo altre ipotesi vi poteva essere avvolto un mantello.
La statua è identificata con la raffigurazione di Ercole detto Epitrapezios, “a tavola” (trápeza in Greco antico).
Sempre a sud troviamo uno dei monumenti più affascinanti di Alba Fucens: l’anfiteatro. Scavato nella roccia ed adiacente alle mura meridionali della città, misura 96 metri per 79 metri e poteva ospitare fino a cinquemila spettatori.
Qui si effettuavano le esibizioni dei gladiatori, documentate da molte iscrizioni. Oggi si riconoscono ancora i parapetti a protezione delle belve lungo il perimetro dell’arena.
L’anfiteatro romano di Alba Fucens, fu costruito dopo il 38 d.C., successivamente alla morte di Nevio Sutorio Macrone.
Macrone nacque ad Alba Fucens, nell’odierno Abruzzo, nel 21 a.C. da un certo Quinto Nevio. Tracce epigrafiche nella sua città natale ci testimoniano che egli ricopri sotto Tiberio il ruolo di prefetto dei vigili. Nel 31, Tiberio, che si trovava a Capri da quattro anni ormai, temendo per le ambizioni del prefetto del pretorio Lucio Elio Seiano, nominò in gran segreto Macrone al posto di questi per tale incarico. Alcuni storici sospettano che Macrone possa aver agito come spia di Tiberio, oltre ad essere usato come strumento per la caduta in disgrazia di Seiano. Infatti, quando Tiberio decise di agire contro il proprio ministro, istruì Macrone d’entrare nella capitale di notte e di avere un abboccamento con il console Publio Memmio Regolo ed il prefetto dei vigili Grecinio Lacone.
La mattina seguente, Macrone salì sul Palatino (dove, nel tempio di Apollo, il Senato si sarebbe riunito), e lì incontrò Seiano, preoccupato del fatto che Tiberio non gli avesse inviato nessun messaggio. Macrone tuttavia disse al prefetto che il principe intendeva conferirgli la potestà tribunizia. Eccitato dalla notizia, Seiano entrò giubilante nel tempio, mentre Macrone inviava i pretoriani che scortavano il prefetto ai Castra Praetoria, rivelandogli la propria nomina, sostituendoli con i vigili di Lacone. Infine lui stesso corse ai Castra Praetoria, per evitare disordini.
Intanto fu letta la lettera di Tiberio, che, con lo sbigottimento generale, chiedeva l’arresto di Seiano e di due senatori a lui collegati. Il prefetto fu giudicato dal Senato e giustiziato il giorno stesso, dato che i pretoriani non avevano reagito al suo arresto, come invece temeva Tiberio. Tutti i congiunti e gli alleati di Seiano furono parimenti perseguitati, ed in questo contesto Macrone riuscì a disfarsi di molti dei propri nemici, come Mamerco Scauro. Costui fu infatti accusato di aver alluso a Tiberio in alcuni versi di una sua tragedia, di aver praticato adulterio con Livia e di pratiche magiche. Scauro, per sfuggire alla condanna, si diede la morte tagliandosi le vene, suggerito dalla moglie Sestia, che si uccise assieme al marito.
Nel 37, inoltre, Lucio Arrunzio fu accusato d’aver compiuto adulterio con Albucilla. L’ascolto dei testimoni e la tortura degli schiavi furono però fatti in presenza di Macrone, e ciò, unito al fatto che non fosse giunta nessuna lettera da Tiberio contro l’accusato, fece sospettare a molti che il prefetto avesse montato l’accusa contro Arrunzio approfittando della debolezza dell’ormai anziano imperatore. Lucio Arrunzio decise anch’esso di darsi la morte, tagliandosi le vene.
Macrone sembra aver avuto un profondo rapporto di amicizia con Caligola, adottato come successore da Tiberio, anche prima che questi salisse sul trono, forse perché a questi piaceva l’adulazione del prefetto. La moglie di Macrone, Ennia Trasilla, era inoltre amante proprio di Caligola, il quale promise addirittura di sposarla.
Macrone, dal canto suo, metteva a tacere i dubbi di Tiberio, il quale, vedendo nel giovane Caligola comportamenti crudeli, dubitava sul fatto che questi fosse pronto ad assumere un incarico così solenne come quello di imperatore, sostenendo che avrebbe sorvegliato sulla condotta del futuro sovrano.
Nel 37, le condizioni di Tiberio si aggravarono e sembrò essere morto, tant’è che Caligola era già stato acclamato Imperatore. Tuttavia l’anziano Imperatore si riprese, gettando tutti nel panico; Macrone tuttavia non perse la calma e fece soffocare Tiberio sotto le sue stesse coperte.
Fu sempre il prefetto a portare in Senato il testamento di Tiberio. Sotto il nuovo Imperatore, Macrone raggiunse inoltre una grandissima influenza, tanto che Caligola si rifiutava addirittura di conferire con la nonna Antonia minore se non in presenza del prefetto.
Ben presto, tuttavia, Caligola iniziò a non sopportare più l’autorità del proprio prefetto. Incominciava ad inventare accuse contro Macrone, e si ingegnava in tutti i modi per incriminarlo. La sfortuna del prefetto fu anche quella d’essere amico di Aulo Avilio Flacco, il quale era stato a sua volta sostenitore di Tiberio Gemello, che Tiberio aveva lasciato come altro possibile erede nel proprio testamento, il che, agli occhi di Caligola, era una gravissima offesa.
Così, quando Macrone fu chiamato a succedere a Flacco stesso come prefetto d’Egitto, Caligola inviò a lui, alla moglie ed ai figli l’ordine di suicidarsi. Macrone rispettò l’ordine ed ottenne in cambio che la sua eredità non fosse requisita. Prima di morire, Macrone stilò il suo testamento donando ad Alba Fucens tutta la sua eredità, che secondo le sue stesse disposizioni avrebbe dovuto essere adoperata per la costruzione dell’anfiteatro romano di Alba Fucens.
Una targa di marmo posta sopra uno dei due ingressi dell’anfiteatro, ricorda proprio la donazione effettuata da Macrone, grazie alla quale ancora oggi possiamo ammirare questo meraviglioso anfiteatro.
Ad Alba Fucens restano inoltre vestigia di un tempio tuscanico incorporato nella romanica chiesa di San Pietro del XII secolo, edificata sui resti del Tempio di Apollo del III secolo a.C. con i graffiti di epoca romana ancora leggibili sulle mura riutilizzate.
Trasformato in chiesa cristiana e ampiamente ristrutturato in età medievale, contiene antiche colonne romane ed alcuni mosaici di fattura cosmatesca, ricavata dalla frammentazione dei marmi policromi romani.
All’interno la chiesa di San Pietro conserva uno straordinario apparato liturgico, che è costituito dalla presenza della iconostasi e dell’ambone. L’iconostasi è un tipo di struttura che non è comune vedere nelle chiese occidentali, dopo il Concilio di Trento specialmente, quando a motivo delle riforme liturgiche, molte di queste antiche strutture furono eliminate.
L’ambone è a doppia scala la quale conferisce all’ambone stesso una forma trapezoidale.
Il violentissimo sisma che colpì l’Abruzzo il 13 gennaio 1915, privò la chiesa di San Pietro di gran parte delle sue strutture architettoniche, degli arredi e degli affreschi. Solo la cella del Tempio di Apollo e l’ambone rimangono al loro posto. Tutte le opere recuperate sono esposte al Museo della Marsica, presso il Castello Piccolomini di Celano.
Il terremoto di gennaio del 1915 distrusse quasi interamente anche il Castello Orsini e il borgo medievale circostante.
Il castello sorge nei pressi dell’area archeologica caratterizzata dai resti dell’insediamento di Alba Fucens. Strategicamente posizionato a controllare l’originario tracciato della via Tiburtina Valeria, il castello fu ricostruito dai signori di Albe (famiglia Ocre) per poi essere distrutto nel 1268 da Carlo I d’Angiò, vincitore della battaglia di Tagliacozzo, ed infine ricostruito dalla famiglia Orsini a partire dal 1372.
Durante la Seconda Guerra Mondiale nei resti del castello si stabilì il quartier generale tedesco dello schieramento impegnato tra la linea Gustav e la linea Caesar.
Luca D’Agostini
FONTE: http_www.madrerussia.com/?url=http%3A%2F%2Fwww.madrerussia.com%2Fla-storia-di-alba-fucens%2F
°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°