RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI
16 DICEMBRE 2020
A cura di Manlio Lo Presti
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SOMMARIO
EDITORIALE
IN EVIDENZA
La solidarietà degli italiani rimpatriati dalla Libia alle famiglie dei pescatori
É un pomeriggio di dicembre piovoso quello in cui dall’altra parte della cornetta a parlare è Giovanna Ortu: lei, presidente dell’associazione italiana rimpatriati dalla Libia, ci tiene ad esprimere la solidarietà verso i pescatori ancora trattenuti a Bengasi. In tutta Italia, nel bel mezzo di un dicembre all’insegna della pandemia, ci sono luci natalizie e addobbi con i quali si prova a dare un piccolo clima di festa: “Ma per 18 famiglie non ci sarà alcun Natale se non si risolve la questione – dichiara al telefono – Per questo con la mia associazione voglio lanciare un augurio particolare a chi in questo momento ha i parenti trattenuti in Libia”. Il suo tono è composto, di chi a fatica tiene in gola una forte emozione dettata dall’aver già sofferto, come italiana, le vicende politiche alternatesi negli anni dall’altra parte del Mediterraneo.
“Nessun sequestro è stato così lungo”
Giovanna Ortu è tra le tante che nell’ottobre del 1970 ha dovuto lasciare improvvisamente Tripoli per far ritorno in Italia. Il rais Muammar Gheddafi voleva chiudere a modo suo ogni retaggio coloniale. La Libia, secondo l’indicazione del leader della Jammahiriya, non poteva permettersi la permanenza di altri italiani nel suo territorio. Avrebbe significato la mancata chiusura di una cicatrice avvertita in modo molto forte dai libici, ma soprattutto dallo stesso Gheddafi. Lui nelle interviste le cicatrici, quelle fisiche portate al braccio, spesso le mostrava per far ricordare i danni delle mine lasciate dagli italiani nel deserto vicino la sua Sirte in tempo di guerra. Ma migliaia di famiglie nostre connazionali non avevano alcuna responsabilità dei danni del conflitto e del colonialismo. Ad esempio, quella di Giovanna Ortu si trovava in Libia già dagli anni ’20, aveva costruito lì i propri affetti e la propria quotidianità. Dalla cacciata del 1970 sono trascorsi oramai cinquant’anni. Mezzo secolo ripercorso nella mente della presidente dei rimpatriati italiani quando ha visto che 18 pescatori partiti da Mazara del Vallo ancora non hanno fatto ritorno a casa.
“In tutti questi anni – sottolinea Giovanna Ortu – Ne ho visti di sequestri. La questione dei confini marittimi del resto si trascina da decenni. Mai però dei pescatori italiani erano rimasti fuori così a lungo”. Forte della sua lunga esperienza in Libia, anche lei dopo le notizie sul sequestro pensava che nel giro di pochi giorni, come accaduto molte volte, tutto si poteva risolvere: “Invece le settimane e i mesi passano. Posso solo immaginare quanto dolore stiano provando quelle famiglie. Viene incredibile pensare che ancora non siano saltati fuori degli spiragli”. L’incubo dei pescatori, di cui otto italiani, è iniziato il primo settembre: a poche ore dalla visita del ministro degli Esteri Luigi Di Maio in Libia, le motovedette del generale Haftar, che controlla la Cirenaica, sono salpate da Bengasi per rintracciare alcuni pescherecci siciliani. Da allora solo qualche telefonata e nulla più per mostrare la propria esistenza in vita.
“La Libia mai così in basso”
La questione relativa ai pescatori sequestrati nel Paese nordafricano è solo l’ultima che ha scosso la presidente degli italiani rimpatriati: “Vede – sottolinea al telefono Giovanna Ortu – Quando nel 2011 è iniziata la rivoluzione io ci credevo in un cambiamento. Sono stata, dopo la fine di Gheddafi, in Libia e speravo in un vento diverso”. Ma la storia ha costretto a ben altre conclusioni: “Sono costretta ad ammettere – ha proseguito Giovanna Ortu – che in effetti le condizioni sono peggiorate. È incredibile come un Paese così bello, ricco di risorse e così poco abitato debba essere preda di guerre, conflitti e povertà”. Gli italiani sequestrati il primo settembre sono caduti in una disputa interna ed esterna alla Libia. Il generale Haftar, sconfitto nella battaglia di Tripoli, voleva tornare protagonista sfruttando le sorti dei pescatori di Mazara e, contemporaneamente, voleva ricattare l’Italia: “Questo è il segno – ha aggiunto la presidente dei rimpatriati – di come la Libia ha raggiunto un punto molto basso”.
L’augurio alle famiglie coinvolte
A maggior ragione, per Giovanna Ortu lanciare un augurio ai familiari dei pescatori assume ancora più importanza: “Questo è un Natale diverso per tutti – aggiunge – Anche qui in Italia non si farà festa e non ci sarà il clima degli altri anni. Ma è una questione di principio: essere lontani nei giorni del Natale dalle proprie famiglie è comunque uno strazio, sia per i protagonisti che per i loro cari. Per questo voglio lanciare uno speciale augurio a loro. E spero che arrivi ai diretti interessati”. Il dolore di oggi è quello di mezzo secolo fa. Essere lontani dalla propria casa perché espulsi o perché sequestrati cambia poco: le inquietudini sono sempre le stesse.
FONTE: https://it.insideover.com/politica/la-solidarieta-degli-italiani-rimpatriati-dalla-libia-alle-famiglie-dei-pescatori.html
“La cabina di regia disprezza le istituzioni democratiche”.
Quando Fico attaccava il “comitato di conciliazione” Renzi-Gentiloni
Attacco durissimo a maggio del 2017, all’indomani della rielezione di Renzi al Nazareno, per la “cabina di regia”
Maggio 2017, Roberto Fico scrive un durissimo post su Facebook:
Il segretario del Pd, Matteo Renzi, ha deciso di convocare ogni giovedì una sorta di pre-Consiglio dei ministri privato, per fare il punto con i capigruppo del suo partito, la sottosegretaria Boschi [..], e i vari ministri a seconda del provvedimento in discussione. Si tratta di un atto gravissimo, che dimostra una totale mancanza di senso dello Stato e di rispetto delle istituzioni.
L’attuale presidente della Camera dei deputati non usava certo i guanti per definire l’ultima iniziativa di Renzi, da pochi giorni rieletto segretario del Partito Democratico dopo averne lasciato la guida in seguito alla disfatta del 4 dicembre 2016. Si tratta della cosiddetta “cabina di regia” con cadenza settimanale, battezzata da Renzi al Nazareno l’11 maggio. Presenti: il suo vice (e ministro) Maurizio Martina, Anna Finocchiaro, ministro dei rapporti col Parlamento e la sottosegretaria Maria Elena Boschi, i capigruppo Zanda e Rosato. E non mancò di sollevare critiche. Il sospetto che si trattasse di una sorta di “commissariamento” del Governo Gentiloni, in seguito a diversi passi falsi della maggioranza, non impiegò molto a circolare: “Siamo collaborativi con il governo, questo è un modo per aiutarlo non per commissariarlo, evitiamo casini invece di crearli”, fece trapelare Renzi. L’ultimo scivolone era appena avvenuto su un decreto vaccini annunciato dal ministro Lorenzin senza consultare prima il premier Gentiloni e poi smentito.
“Parliamo di un segretario che continua ad atteggiarsi a proprietario ma a cui mancano le basi della democrazia e della Costituzione. Totale ignoranza e disprezzo delle regole e delle istituzioni democratiche. Niente di nuovo, purtroppo, sotto al sole”, attaccò Roberto Fico. Storia vecchia ma che torna attuale dopo l’introduzione nel contratto di Governo del “comitato di conciliazione”. Contratto non definitivo, va ricordato, ma che ha fatto discutere anche per la previsione di un organo consultivo e decisionale parallelo al Consiglio dei ministri che delibera con maggioranza a due terzi e composto non solo dal premier, dai capigruppo parlamentari di Lega e M5S e da singoli ministri variabili a seconda del tema trattato, ma anche dai leader dei rispettivi partiti. E, al momento, non è detto che facciano parte del Governo né, per quanto appaia improbabile, che non possano nel futuro cambiare.
Il “comitato” prenderebbe decisioni vincolanti per i contraenti Lega e M5S in caso di “conflitti e divergenze rilevanti”, per arrivare a una sintesi rispetto a questioni non previste dal contratto né prevedibili al momento della sua sottoscrizione. E, si legge nelle bozze, ogni volta che Lega o M5S ritengano ci siano questioni fondamentali da esaminare.
Nulla a che vedere con il Consiglio di gabinetto, menzionato ad esempio dal giurista Giacinto della Cananea, regolato dall’articolo 6 della legge 400/1988, formato in via esclusiva da componenti del governo. Né tantomeno con quel comitato introdotto dallo stesso Della Cananea nella prima bozza di programma rivolta al Pd e a Lega, che prevedeva componenti “nominati in pari numero dalle parti”, senza entrare nel dettaglio.
Simili organi sono stati riproposti, seppur con modalità differenti, dai tempi di Craxi a quelli di Berlusconi fino a Renzi. Modalità che ricordano, per certi versi, la Prima Repubblica più che proiettare nella Terza. Ma una volta i grillini gridavano allo scandalo, oggi invece “conciliano”.
FONTE: https://www.huffingtonpost.it/2018/05/16/la-cabina-di-regia-disprezza-le-istituzioni-democratiche-quando-fico-attaccava-il-comitato-di-conciliazione-renzi-gentiloni_a_23436300/
La democrazia è l’altra vittima di Covid-19: tornare alla normalità, un’illusione
Cresce il malessere della popolazione con proteste contro i divieti e insofferenza verso richiami alla responsabilità. Gli equilibri mondiali sono in pericolo
ARTE MUSICA TEATRO CINEMA
ATTUALITÁ SOCIETÀ COSTUME
BELPAESE DA SALVARE
Vaccini e diffidenza
10 12 2020
Questa vicenda dei vaccini è sempre più paradossale ed è un compendio perfetto dell’epoca in cui viviamo. Vediamo insieme perchè.
In caso di problemi con la visualizzazione del video, clicca qui per vederlo.
VIDEO QUI: https://youtu.be/u6fl0x48YEY
FONTE: http://www.aldogiannuli.it/vaccini-e-diffidenza/
CONFLITTI GEOPOLITICI
Rompicapo alla NATO
Durante la guerra fredda nessun Paese ha mai contestato la NATO, a eccezione della Francia. Ma alla luce delle derive successive al 2001, tutti i membri (tranne la Turchia) progettano di uscirne. Anche gli USA, per i quali la NATO è tuttavia indispensabile. Un rapporto interno su come l’Organizzazione dovrebbe cambiare ne mostra le contraddizioni e quanto sia difficile riformarla.
- La gigantesca sede della più importante organizzazione militare della storia.
Mentre l’iperpotenza statunitense è in declino avanzato e il presidente Donald Trump ha ipotizzato l’uscita degli USA dalla NATO, gli Stati membri s’interrogano sul futuro dell’Alleanza Atlantica. Ecco perché ad aprile il segretario generale, Jens Stoltenberg, ha istituito una Commissione di Riflessione, formata da dieci personalità atlantiste, per delineare come sarà la NATO del 2030.
L’obiettivo è ridefinire l’Alleanza, come accadde nel 1967, dopo l’uscita della Francia dal comando integrato e all’approssimarsi della scadenza dei 20 anni durante i quali a nessun Paese membro era consentito uscire dal Trattato.
All’epoca il ministro belga degli Esteri, Pierre Harmel, avviò una consultazione molto vasta, che teneva conto della determinazione francese a tutelare l’indipendenza nazionale. Adeguandosi alla logica del presidente Charles De Gaulle, Harmel tenne separati gli aspetti politici (il Trattato) dagli aspetti militari (l’Organizzazione).
Ovviamente Harmel aderiva pienamente alla volontà statunitense di dominio sul “Mondo libero”. In quando cristiano-democratico, si opponeva all’URSS sia per l’ateismo sia per i principi collettivistici. Per questa ragione entrò nel Movimento dei Dirigenti Cristiani [1], organizzato dal Pentagono.
La Commissione di Riflessione ha consegnato il rapporto il 25 novembre 2020.
Contrariamente alle attese, il documento non delinea nuovi orizzonti, ma invita gli Stati membri a focalizzarsi su quanto li unisce. Cioè i valori comuni definiti dal Trattato costitutivo dell’Alleanza: «i principi della democrazia, le libertà individuali e il regno del diritto» [2]. La storia recente dimostra in realtà che negli Stati Uniti le frodi elettorali hanno violato i principi della democrazia e in tutti gli Stati membri le libertà individuali sono state limitate per l’epidemia di Covid-19. Quanto al regno del diritto, in Turchia non esiste più.
Premessa
È necessaria una premessa. La NATO non è mai stata un’alleanza, nel senso di libera associazione di Stati finalizzata alla difesa. Al contrario, sin dalla fondazione tutti i Paesi sono stati costretti ad accettare un comando militare imperituro degli Stati Uniti e a obbedirgli. Nei fatti, la NATO è una legione straniera al servizio degli anglosassoni: innanzitutto del Pentagono, poi di Whitehall. Questa palese violazione del principio di sovranità enunciato dalla Carta dell’ONU ha costretto la NATO a praticare un linguaggio distorto.
La sua nobile e fiorita retorica non deve trarre in inganno: la gestione è canagliesca.
Durante la guerra fredda gli anglosassoni utilizzarono un servizio segreto dell’Alleanza per assicurarsi l’obbedienza degli Stati membri. Organizzarono una rete clandestina (stay-behind) sotto falso pretesto di resistere a un’eventuale invasione sovietica. In realtà la utilizzarono per soffocare ogni velleità d’indipendenza. Organizzarono assassinii di dirigenti e fomentarono colpi di Stato in Paesi alleati. Oggi questi fatti sono insegnati nelle accademie militari anglosassoni e studiati nel dettaglio da molti storici [3].
Dopo la fine della guerra fredda il sistema assunse una forma diversa. A ogni Stato membro fu ordinato di autorizzare per iscritto gli anglosassoni, coadiuvati da propri funzionari, a spiarli. È quanto ha rivelato Edward Snowden ed è quanto accaduto non più tardi del mese scorso in Danimarca [4].
Infine, il comando militare anglosassone non ha esitazioni a violare lo statuto dell’Alleanza quando gli fa comodo. È successo con il bombardamento della Libia e il rovesciamento di Muammar Gheddafi: fu una decisione del comando militare, non del Consiglio Atlantico, che anzi vi si oppose.
Una Commissione sorvegliata
Stando così le cose sarebbe ingenuo pensare che alla Commissione di riflessione sia stato permesso di pensare con la propria testa.
Era presieduta da Wess Mitchell, ex assistente per gli affari europei ed euroasiatici del segretario di Stato, Rex Tillerson.
Si dà il caso che Wess Mitchel sia autore di un sorprendente lavoro, La Dottrina del Padrino [5], che però non figura nella biografia divulgata dalla NATO. In essa Mitchel paragona le tre più importanti scuole di politica estera degli Stati Uniti ai metodi dei tre figli del “padrino”, don Vito Corleone, ossia degli eroi dei libri di Mario Puzo e dei film di Francis Ford Coppola. Mitchel esorta a una commistione di soft e hard power, senza escludere tecniche mafiose.
Ma è difficile non riconoscere l’uso di questi metodi in operazioni di ricatto di cui sono stati vittima negli anni scorsi diversi membri della Commissione. Attenzione: i fatti che esporrò non significano che alcuni membri della Commissione abbiano commesso crimini gravissimi, ma che ne sono venuti a conoscenza senza però denunciarli.
Prendiamo il caso di Thomas de Maizière, ex direttore della Cancelleria federale e in seguito ministro tedesco della Difesa [6]. Tralasciamo la sua indubbia attività di sponsor dei think-tank statunitensi. Prima di diventare braccio destro di Angela Merkel, quest’illustre personaggio è stato ministro dell’Interno della Sassonia (2004-5), ed è perciò venuto a conoscenza dello scandalo della “palude della Sassonia” (Sachsensumpf). Ha giudicato «serie» le informazioni raccolte dai servizi, ma tuttavia non le ha inoltrate alla giustizia. Una vicenda di prostituzione di minori, in cui erano implicate alte personalità locali, riemersa anni dopo – quando Thomas de Maizière divenne ministro della Difesa – accompagnata da rivelazioni di fatti prima occultati, da testimonianze rimesse in discussione, nonché da dibattiti parlamentari [7].
Oppure il caso di Hubert Védrine, ex segretario generale dell’Eliseo (1991-95), poi ministro degli Esteri (1997-2002). Quand’era il più stretto collaboratore del presidente François Mitterrand [8], la NATO gli preparò una trappola in una casa dove si recava due volte al mese per partecipare al Consiglio municipale del piccolo paese in cui era stato eletto. Senza che Védrine sospettasse nulla, membri neonazisti della rete stay-behind della NATO allestirono il più grande studio di pornografia d’Europa [9]. Lo scandalo fu soffocato. Il responsabile della sicurezza dell’Eliseo fece sparire di sua iniziativa due protagonisti, uno dei quali per “crisi cardiaca”. La morte del secondo – probabilmente assassinato da un poliziotto dell’intelligence, recatosi abusivamente a casa sua per arrestarlo – non passò però inosservata, tanto da provocare un dibattito parlamentare [10].
Si tratta di due casi in cui, non essendo stata resa pubblica la verità, i membri della Commissione potrebbero essere ricattabili.
Un rapporto rivelatore di conflitti interni
Il rapporto della Commissione di riflessione, intitolato NATO 2030: uniti per una nuova era (NATO 2030: United for a New Era) è molto illuminante più per quel che avrebbe dovuto dire e non dice che per quanto enuncia.
In primo luogo, insiste grossolanamente sui «valori comuni»: affermazioni che suonano come accuse a Stati Uniti e Turchia. Propone di smettere di reagire alle trasgressioni accertate (sarebbe impraticabile contro Washington), e di prendere iniziative atte a prevenire la violazione dei valori comuni. Un modo come un altro per fare tabula rasa di quel che è stato e pretendere che simili violazioni non si ripetano.
La Russia viene indicata come l’unico rivale del momento e la Cina come il prossimo.
Ricapitola tutte le operazioni della NATO dentro e fuori la propria zona geografica, ma non parla della distruzione della Libia. Questo significa che brucia ancora la decisione presa dal comando anglosassone, all’insaputa del Consiglio atlantico. Questa “dimenticanza” rivela che il rancore non è sopito.
Passando al Sud, il rapporto sottolinea che quando i vicini dei Paesi NATO sono più sicuri, la NATO stessa è più sicura; un modo indiretto di rigettare la dottrina Rumsfeld/Cebrowski di distruzione sistematica delle strutture statali del Medio Oriente Allargato, nonché di rimettere in causa la distruzione della Libia.
Ricordiamoci che nel 2011, quando iniziò la guerra contro la Libia, Muhammar Gheddafi si era alleato con gli Stati Uniti. Il presidente Bush figlio si era congratulato con lui, in particolare per la rinuncia al nucleare, e aveva accettato che l’incarico di riorganizzare l’economia libica fosse affidato a Mahmoud Jibril. Ebbene, da un giorno all’altro Jibril divenne il capo dell’opposizione e la NATO intimò a Gheddafi di andarsene.
A proposito del controllo degli armamenti, la Commissione sorvola sul trattato dell’ONU per il disarmo nucleare, che del resto la NATO ha fermamente condannato. Rinvia agli studi del 1967 di Pierre Harmel e all’affermazione del duplice obiettivo: dissuasione e distensione. Anche in questo caso siamo di fronte a una condanna dell’attuale deriva dell’Organizzazione, che rafforza il proprio arsenale e respinge le proposte sul disarmo del presidente Putin.
Sulle risorse energetiche pone come fatto acquisito il diritto della NATO ad assicurarsi pieno accesso alle risorse d’idrocarburi ovunque nel mondo, prescindendo dai bisogni delle altre potenze.
Rispetto alla guerra dell’informazione, la Commissione invita l’Organizzazione ad appoggiarsi ai cittadini. Senza mettere in discussione la gara d’appalto del 15 ottobre 2020, approva gli obiettivi del Centro di Eccellenza per le Comunicazioni Strategiche di Riga, contestandone però i metodi.
Sull’unità dell’Alleanza, la Commissione sottolinea l’impegno di tutti a difesa di un Paese membro sotto attacco (articolo 5). Spiega però che l’impegno varrà solo se ogni Stato membro rispetta strettamente i «valori comuni» dell’Organizzazione: un’allusione al comportamento della Turchia. Dopo la pubblicazione del rapporto, il segretario di Stato USA, Mike Pompeo, è andato a dire ai suoi omologhi tutto il male che pensa della Turchia, aprendo così a una possibile esclusione di Ankara dall’Alleanza e persino a una guerra contro di essa.
Non senza senso dell’umorismo, la Commissione suggerisce l’istituzione di un Centro di eccellenza per la resilienza democratica.
Sul funzionamento dell’Alleanza, la Commissione vorrebbe prevenire nuove violazioni dello statuto col pretesto dell’urgenza, come accadde con la distruzione della Libia. Raccomanda perciò consultazioni il più possibile a valle, soprattutto con l’Unione Europea e con i partner della zona indo-pacifica che potrebbero potenzialmente aderire alla NATO.
Conclusione
Nonostante le pressioni subite dai membri, la Commissione consultiva non ha eluso i problemi, benché non li abbia resi espliciti. Tutti sono consapevoli che l’Alleanza è uno strumento di dominio degli anglosassoni, chi desidera affrancarsene tenta di non farsi coinvolgere a proprie spese in nuovi conflitti.
[1] Questo gruppo ecumenico di preghiera è tuttora molto attivo. Oggi è conosciuto con il nome di “La Famiglia”. Ha sede nella proprietà dei Cedri, proprio di fianco al Pentagono. Dalla seconda guerra mondiale ne fanno parte tutti i capi di stato-maggiore USA, nonché diversi capi di Stato e di governo attualmente in carica. Cfr. The Family: The Secret Fundamentalism at the Heart of American Power, Jeff Sharlet, HarperCollin (2008) e gli archivi dell’autore.
[2] «Traité de l’Atlantique Nord», Réseau Voltaire, 4 avril 1949.
[3] Nato’s Secret Armies : Operation Gladio and Terrorism in Western Europe, Daniele Ganser, Franck Cass (2004). Versione italiana: Gli eserciti segreti della NATO. Operazione Gladio e terrorismo in Europa Occidentale, Fazi Editore (2005). Il testo è disponibile in francese e spagnolo sul sito di Réseau Voltaire.
[4] «In Danimarca è sempre attiva la rete Stay-Behind della NATO», Rete Voltaire, 8 dicembre 2020.
[5] “Pax Corleone”, Hulsman, John Hulsman & Wess Mitchell, The National Interest n° 94, March-April 2008. The Godfather Doctrine, John Hulsman & Wess Mitchell, Princeton University Press (2006).
[6] L’autore di questo articolo è un ex compagno di collegio di Thomas de Maizière.
[7] Die Zeit des Schweigens ist vorbei (Il tempo del silenzio è finito), Mandy Kopp, Ullstein Taschenbuchvlg (2014). La vicenda ha ispirato anche il romanzo a chiave: Im Stein (Nella pietra), Clemens Meyer, S. Fischer (2013).
[8] François Mitterrand e la famiglia Védrine nel 1942 si allearono al servizio di Philippe Pétain.
[9] L’autore di questo articolo è stato uno dei primi testimoni sentiti dalla polizia giudiziaria sulla vicenda. Ha ricevuto le felicitazioni del Memoriale Yad Vashem per l’inchiesta su queste reti neonaziste.
[10] Mort d’un pasteur, l’affaire Doucé, Bernard Violet, Fayard (1994).
FONTE: https://www.voltairenet.org/article211819.html
Accuse choc al vertice dell’Oms: fu complice delle repressioni in Etiopia?
Torture, omicidi, sequestri di persona. Ma anche repressioni di proteste, detenzioni arbitrarie e connivenza con un progetto politico di centralizzazione autoritaria delle decisioni. Di queste e altre accuse il direttore dell’Organizzazione mondiale della sanità, l’etiope Tedros Adhanom Ghebreyesus, è stato colpito su esplicita segnalazione dell’economista, attivista per la democrazia in Africa e candidato al Nobel per la Pace David Steinman.
Steinman, riporta il Daily Mail, ha recentemente dichiarato che Tedros dovrebbe essere incriminato alla Corte penale internazionale dell’Aja per la sua condotta politica da Ministro degli Esteri di Addis Abeba (2012-2016) in una fase in cui il governo del suo partito, il Fronte di Liberazione del Popolo Tigrino, guidato da Haile Mariam Desalegn, si rese responsabile di un durissimo giro di vite contro le proteste e i tentativi di secessione o di ricerca dell’autonomia politica interni al territorio nazionale.
Secondo Steinman, da titolare degli Esteri Tedros avrebbe fatto parte di un ristretto comitato di controllo sulle forze di sicurezza che ha glissato o addirittura ignorato il fatto che le problematiche sociali, politiche e etniche portavano i militari di etnia tigrina a calcare la mano contro i manifestanti o i ribelli di altre etnie (Amhara, Konso, Oromo e Somali). In particolare la regione dell’Oromia, la più grande dell’Etiopia, fu teatro di proteste di massa dal novembre 2015 e quella dell’Amhara dal giugno 2016 la seguì. In entrambi i casi le forze di sicurezza del governo colpirono manifestanti e proteste in larga parte pacifiche causando, secondo Human Rights Watch, oltre 500 morti.
Le accuse arrivano a poche settimane di distanza dallo scoppio delle dure schermaglie tra il nuovo governo centrale etiope, guidato da Abiy Ahmed, e il citato Flpt, che dopo l’estromissione dal governo nel 2019 ha voluto consolidare la sua roccaforte regionale nel Nord-Ovest dell’Etiopia, nella consapevolezza che la minoranza tigrina (6 milioni di abitanti su 110 milioni di etiopi), persi i controlli dei gangli vitali dello Stato occupati dopo la rivolta contro la dittatura militare conclusasi nei primi Anni Novanta, difficilmente avrebbe potuto riconquistarli. Gli scontri, degenerati presto in guerra aperta, hanno visto il governo etiope catturare la capitale tigrina di Mekelle il 28 novembre scorso e il Flpt dichiarare che la guerra sarebbe continuata.
l capo dell’esercito etiope, Berhanu Jula, ha affermato addirittura che Tedros sarebbe impegnato nel fornire armi ai ribelli tigrini. Accusa, questa, priva di prove concrete a sostegno se non il ricordo di quando Tedros, da giovane medico e esule, sosteneva i ribelli nella madrepatria durante gli Anni Ottanta. Ben più dure le bordate dell’economista statunitense Steinman, che richiamano a episodi recente, mai chiariti e ben nascosti dalla biografia ufficiale di Tedros, divenuto figura di rilevanza globale in questo 2020 per l’esposizione mediatica e politica legata al contrasto al Covid-19.
Una simile spinta a indagare nel passato politico di Tedros non si vedeva dai tempi della sua nomina alla guida dell’Oms, nel 2017. Allora l’Apu (Amhara Professionals Union), un gruppo di pressione con sede negli Stati Uniti che si sforza di fare pressione per promuovere la causa del popolo Amhara di fronte alle cancellerie internazionali, in una lettera aperta pubblicata ad aprile intitolata “Il dottor Tedros Adhanom è un individuo sospettato di crimini contro l’umanità”» elencò diversi casi di possibili connivenze tra il medico-politico e le repressioni, ma anche condotte ben più subdole, come il rifiuto di regolamentare la Khat, una sostanza psicotropa che avrebbe “devastato i giovani amhari” tanto da essere invece stata bandita nella regione del Tigré.
Non esistono, tuttora, processi aperti contro Tedros nè pistole fumanti che certifichino queste accuse. Il direttore dell’Oms è sicuramente uomo ancora influente nel suo Paese natale, rampante “tigre” economica e politica ritrovatasi preda delle sue contraddizioni interne nel contesto di un equilibrio sempre più teso in Africa Orientale. Tedros, come Abiy, è nell’occhio del ciclone per la rilevanza della sua posizione, uno direttore dell’Oms, l’altro giovane premier Premio Nobel per la Pace, e entrambi hanno assunto il ruolo di figure divisive per gli stessi connazionali. Nel mosaico etnico e politico etiope, perturbato dall’escalation di violenze, accuse sotterranee e colpi bassi sono all’ordine del giorno. Staremo a vedere se le accuse di Steinman, le uniche veramente circostanziate, avranno seguito in un’indagine penale: le altre sembrano piuttosto voci ostili alla figura di Tedros fatte circolare per cause politiche interne all’Etiopia.
FONTE: https://it.insideover.com/guerra/accuse-tedros-oms-complice-repressioni-etiopia.html
CULTURA
Dante ha fatto la patria, ma oggi rischierebbe la censura (di P. Becchi e G. Palma su Libero)
Articolo a firma di Paolo Becchi e Giuseppe Palma su Libero del 14 dicembre 2020:
Tra poche settimane entreremo nel 2021 e inizieranno le celebrazioni per il 700° anniversario della morte di Dante Alighieri (1321-2021). Sull’HuffingtonPost è apparso qualche giorno fa un interessante articolo di Nicola Mirenzi su “Dante, l’antitaliano”, che mette in discussione la figura tradizionale di Dante come “padre della patria”. Sarà, immaginiamo, il primo di una lunga serie. Del resto parlare oggi di patria è come parlare dei dinosauri. La nostra patria è l’Unione europea, no anzi il mondo intero… O no?
Quale patria, in effetti, se al tempo di Dante non esisteva alcuna patria? Fino alla nascita del Sommo Poeta, il 1265, in tutta la penisola regnavano gli Hohenstaufen, la corona germanica retta da Federico II di Svevia fino alla sua morte, avvenuta nel 1250, e successivamente dal figliastro Manfredi, morto nella battaglia di Benevento nel febbraio del 1266 per mano degli Angioini. Dopo la morte di Manfredi di Svevia gran parte dell’Italia meridionale diventa per oltre due secoli Angioina (ramo cadetto dei Borbone di Francia), mentre il centro-nord si divide tra la fazione imperiale dei ghibellini e quella papale dei guelfi, a loro volta bianchi e neri, per poi tornare solo formalmente sotto la corona germanica – seppur per poco tempo – con Comuni dotati di ampia autonomia. Così, nel percorso secolare che ha visto regnare sulla nostra penisola germanici, spagnoli, francesi e austriaci – tra marcate autonomie comunali ed esosi feudatari – siamo diventati nazione solo nel 1861. Tutto storicamente corretto.
Eppure c’è un punto su cui occorre riflettere. Per avere una patria non è sufficiente disporre di un territorio, di un esercito, di un’unica corona o di una legittima autorità politica: senza lingua non può esserci patria. Se ne accorse Camillo Benso conte di Cavour, che comprese più di chiunque altro l’importanza della unificazione nazionale attraverso una lingua comune, quella – appunto – di Dante. Come sosteneva Pier Paolo Pasolini, la lingua italiana non ha un’origine burocratica ma letteraria, nasce dalle composizioni poetiche, dalle novelle, dalle epistole, dalle narrazioni. E la nostra lingua, che dopo molti secoli “farà” la patria, nasce proprio da Dante. Lui e un gruppo di amici suoi – tra cui Guido Cavalcanti, Lapo Gianni, Cino da Pistoia e Dino Frescobaldi – dal 1283 e per circa quindici anni danno vita ad un nuovo genere poetico, la poesia d’amore scritta in volgare, cioè nella lingua parlata dal popolo di Firenze. Dante e i suoi amici “fanno” dunque la patria, non coi confini territoriali, con la spada o con una condivisa autorità regia e politica, ma con la lingua. Esemplare il sonetto “Tanto gentile e tanto onesta pare” scritto nel 1283 e contenuto nella “Vita Nova” (1292-95), dove diversi endecasillabi sembrano scritti oggi. “Ch’ogne lingua devèn, tremando, muta, / e li occhi no l’ardiscon di guardare”, esattamente come potremmo scrivere oggi quando vogliamo dire che siamo imbarazzati nel vedere una bella ragazza e facciamo fatica a spiaccicare due parole, “e par che sia una cosa venuta / da cielo in terra a miracol mostrare”, oggi diremmo più banalmente di una donna tanto bella che sembra una stella caduta dal cielo.
Ma aggiungiamo una seconda riflessione. La lingua, nel caso di Dante, esiliato perché nemico politico della fazione vincitrice, è una lingua “politicamente scorretta”. Un sodomita peccatore tra le fiamme dell’Inferno? È la sorte che Dante riserva addirittura al suo maestro Brunetto Latini, sprofondato nel terzo girone del VII Cerchio infernale (Canto XV), perché omosessuale (“Siete voi qui, ser Brunetto?”). Nello stesso Cerchio dei sodomiti, ma nel Canto XVII dell’Inferno, i banchieri usurai posizionati nel sabbione infuocato (“ma io m’accorsi / che dal collo a ciascun pendea una tasca / ch’avea certo colore e certo segno, / e quindi par che ’l loro occhio si pasca”). Dante un pericoloso omofobo e per giunta “sovranista”, visto che attacca i banchieri considerandoli alla stregua degli usurai? Non basta, il poeta era anche un “pericoloso” maschilista, se consideriamo la figura di Francesca da Rimini, peccatrice trasportata dal vento infernale ed abbracciata al suo amante, Paolo Malatesta, nel V Canto dell’Inferno (“se fosse amico il re dell’universo, / noi pregheremmo lui de la tua pace, / poi ch’hai pietà del nostro mal perverso”). Una donna, Francesca, che considera il suo amore extraconiugale alla stregua di una perversione, sapendo che Dio non è dalla loro parte perché traditori del rapporto coniugale. E ancora nella “Vita Nova” la figura angelica di Beatrice, la donna amata ch’egli non sfiorò mai nemmeno con un dito, destinata al Paradiso (“Lo ciel, che non have altro difetto / che d’aver lei, al suo segnor la chiede”), si contrappone nelle “Rime petrose” alla dura Donna Petra, immaginata come donna da sottomettere sessualmente: “S’io avessi le belle trecce prese, / che fatte son per me scudiscio e ferza, / pigliandole anzi terza, / con esse passerei vespero e squille: / e non sarei pietoso né cortese”. E che dire, cambiando discorso, di Maometto, tornando alla “Commedia”, collocato all’Inferno (Canto XXVIII) tra i seminatori di discordia e squarciato nel petto, descritto con le seguenti “scorrettissime” parole: “Tra le gambe pendevan le minugia; / la corata pareva e ‘l tristo sacco / che merda fa di quel che si trangugia”.
Non solo, dunque, non “padre della patria” ma addirittura omofobo, razzista e sessista? È questo il prossimo passo che dobbiamo attenderci in vista delle imminenti celebrazioni di Dante? Magari “raccomandando” con apposito Dpcm una versione per le scuole opportunamente censurata della “Commedia” e delle “Rime petrose”? Diversamente noi pensiamo che proprio le sue celebrazioni dovrebbero essere l’occasione per una discussione realistica su un autore che ha fatto con la sua lingua “politicamente scorretta” la nostra lingua, dunque la nostra patria. È la lingua di Dante che, come italiani, vogliamo ancora? Su questo bisognerebbe interrogarsi in occasione delle prossime celebrazioni, magari tenendo conto del fatto che sulla base delle nostre leggi vigenti oggi il “padre della patria” avrebbe rischiato la galera.
di Paolo Becchi e Giuseppe Palma su Libero del 14 dicembre 2020.
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Consigli letterari:
di Giuseppe Palma, “DANTE, DALLA LINGUA ALLA PATRIA. Nel settecentenario della morte siamo ancora Figli del Duecento“, Gds, 2020. Qui per l’acquisto
FONTE: https://scenarieconomici.it/dante-ha-fatto-la-patria-ma-oggi-rischierebbe-la-censura-di-p-becchi-e-g-palma-su-libero/
Morto John le Carré, maestro di spy story da 100 milioni di dollari
Ex agente di MI5 e MI6, scrisse «La spia che venne dal freddo», best seller da 20 milioni di copie. Dai romanzi al successo sul grande schermo
In Una spia che corre sul campo, uscito poco più di un anno fa, aveva raccontato gli anni della Brexit, immaginando un’alleanza tra i servizi segreti di Londra e l’America di Trump con il duplice scopo di minare le istituzioni democratiche europee e smantellare il sistema internazionale dei dazi. «È mia convinta opinione che per la Gran Bretagna, per l’Europa e per la libera democrazia in tutto il mondo, l’uscita della Gran Bretagna dalla Ue al tempo di Trump e la conseguente dipendenza senza riserve sugli Stati Uniti in un’era in cui gli Usa hanno imboccato la strada del razzismo istituzionale e del neo-fascismo è un disastro senza precedenti», aveva fatto dire a uno dei personaggi del romanzo. E per manifestare contro la Brexit era sceso in piazza a ottobre 2019 John Le Carré, maestro della spy story acclamato nel mondo, celebre per le sue storie di spionaggio intrise di realismo e critiche nei confronti della società moderna, dalla Guerra Fredda ai fallimenti della globalizzazione, morto il 13 dicembre all’età di 89 anni.
Un professore al servizio segreto di Sua Maestà
Vero nome David J. M. Cornwell, nato a Poole, nella regione inglese del Dorsetshire, nel 1931, Le Carré insegna all’università di Eton, prima di diventare un funzionario del ministero degli Esteri britannico ed essere reclutato dall’MI5 e poi dall’MI6. Dall’esperienza nei servizi segreti prenderà spunto per creare il personaggio di George Smiley, leggendario protagonista di numerosi suoi romanzi. L’esordio, nel 1961, è con Chiamata per il morto, poi verrà Un delitto di classe, ma sarà la sua terza fatica letteraria, La spia che venne dal freddo, uscito nel 1964, a regalargli la fama planetaria. Oltre 20 milioni di copie vendute nel mondo, racconta la storia di Alec Leamas, agente britannico trasferito nella Germania dell’Est, che sarà interpretato sul grande schermo da Rupert Davies nel primo di una lunga serie di adattamenti delle sue opere, tra cinema e tv. Basso, tozzo, occhiali spessi, paranoico, ma dotato di intelligenza acuta, una sorta di anti James Bond, come lo descrive lo scrittore in Candele nere (1962), Smiley resta l’eroe preferito di Le Carré.
Quando Smiley scovò «La Talpa»
Ne La Talpa (1974) questo formidabile ufficiale dei servizi segreti smaschera una talpa sovietica infiltrata nelle sue fila. I sequel, L’onorevole scolaro e Tutti gli uomini di Smiley, vengono portati in tv e al cinema con Gary Oldman nel ruolo di Smiley. Tra gli altri romanzi celebri, La tamburina, La spia perfetta, La casa Russia, Il direttore di notte, diventato di recente un serial di successo (con il titolo originale The Night Manager) con Tom Hiddleston e Hugh Laurie. Con la fine della Guerra Fredda nel 1991, Le Carré mette alla berlina nelle sue opere gli eccessi del nuovo ordine mondiale costruito sulle rovine del muro di Berlino: mafia, traffico di armi e droga, riciclaggio di denaro e terrorismo. Sono gli anni di Il sarto di Panama e Il giardiniere tenace, approdato anche al cinema, che denuncia gli abusi delle multinazionali farmaceutiche in Kenya. Il nostro traditore tipo e Una verità delicata tracciano una satira feroce dei padroni del mondo e delle manovre costruite nei salotti di ambasciate, ministeri e banche.
L’eredità letteraria (ed economica)
Negli ultimi anni Le Carré ha scelto una vita ritirata, tra Cornovaglia e Hampstead. Sposato due volte, ha avuto quattro figli e tredici nipoti. Nel 2011 ha lasciato in eredità tutti i suoi archivi alla Bodley Library, fondata all’inizio del Diciassettesimo secolo a Oxford, dove ha studiato lingue negli anni Cinquanta. «Per Smiley, come per me, Oxford è la nostra casa spirituale», spiega. «E mentre ho il massimo rispetto per le università americane, la Bodley Library è il luogo dove riposerei il più felice possibile». A figli e nipoti andrà invece il patrimonio da 100 milioni di dollari accumulato in 60 anni di attività editoriale.
FONTE: https://www.ilsole24ore.com/art/morto-john-carre-maestro-spy-story-100-milioni-dollari-ADBp597
CYBERWAR SPIONAGGIO INFORMAZIONE DISINFORMAZIONE
Ipersonico, I.A. e cyber: Russia e Cina più vicine agli Stati Uniti
“Il mondo geopolitico è cambiato enormemente nel corso di una generazione, ma questo non è niente in confronto ai cambiamenti nella tecnologia, e l’Esercito americano deve tenere il passo per difendere la nazione”. Con questa frase si è aperta una videoconferenza del generale Mark A. Milley, capo di Stato maggiore della Difesa Usa, che ha toccato una vasta gamma di argomenti durante il suo intervento con Michael O’Hanlon della Brookings Institution, pochi giorni fa.
Il generale ha preso servizio negli anni ’80 e durante la sua carriera ha attraversato tutti i cambiamenti epocali che si sono susseguiti a cavallo tra due secoli: dalla fine della Guerra Fredda e del confronto politico/militare con l’Unione Sovietica, che, allora, si pensava fosse durato per un tempo indefinito, sino all’insorgere dei conflitti asimmetrici, passando per la fine del mondo unipolare venutosi a creare proprio per via del termine della contrapposizione in blocchi e terminando col (ri)sorgere di vecchie e nuove potenze avversarie.
Il generale lo dice esplicitamente: “Noi, i militari, eravamo completamente impegnati nel mezzo di quella che pensavamo fosse una Guerra Fredda quasi senza fine con l’Unione Sovietica” sottolineando come quello fosse un mondo geopolitico fondamentalmente molto diverso da quello attuale. Oggi esistono dei “poli” di potere che si accompagnano, e in molti casi sfidano, la supremazia statunitense nel campo economico, politico e militare globale: basti pensare all’Unione Europea, ad alcuni grandi Paesi in via di sviluppo come il Brasile o l’India, e, ovviamente, alla Russia e alla Cina, che rappresentano oggi i veri antagonisti degli Stati Uniti in tutti i settori.
Questo nuovo assetto geopolitico si è accompagnato, e vi è anche intimamente legato per certi versi, a un progresso nella tecnologia che ha rivoluzionato la nostra vita quotidiana e pertanto anche l’ambito militare: Milley ha fatto notare che la prima e-mail in assoluto fu inviata nel 1970, mentre all’inizio degli anni ’90 arrivarono i primi siti web, passano pochi anni ancora per giungere al 2008 quando sono stati prodotti i primi smartphone che ci hanno permesso non solo di essere costantemente connessi con i nostri contatti ovunque essi siano, ma anche di avere “il mondo a portata di mano” attraverso il web con la possibilità di interagire con altri strumenti a distanza tramite delle semplici applicazioni.
Il generale l’ha definita “un’esplosione nella tecnologia dell’informazione” che non esisteva quando prese servizio nell’U.S. Army. Proprio l’informazione globalmente usufruibile e, per molti versi, “senza regole”, è uno dei domini che più si è modificato negli ultimi 40 anni di confronto tra potenze: la “info war” che spesso viene chiamata in causa in questioni elettorali (non solo americane, vedere il caso Bielorussia), rappresenta sicuramente un ambito essenziale della nuova guerra ibrida (nella terminologia anglossassone Hybrid Warfare) che è entrata prepotentemente nell’agenda politica e degli Stati maggiori dei Paesi del mondo, siano essi grandi potenze globali come Russia, Cina o Stati Uniti, o realtà più regionali come Iran, Turchia, India, Australia ecc.
Proprio i progressi generalizzati nella tecnologia sono stati il motore che ha ridotto il vantaggio statunitense rispetto alle potenze sue avversarie e non. A questo fenomeno è legata un’altra causa molto più contingente rappresentata dal cambio dottrinale della strategia militare degli Usa connessa all’insorgere della necessità di affrontare il terrorismo di matrice islamica, che si è sviluppato a macchia di leopardo in diverse regioni di Asia, Medio Oriente e Africa, pur facendo parte di una rete ideologica unica e, per questo, interconnessa.
Questo fenomeno, che perdura da più di un ventennio volendo farlo genericamente coincidere con il primo, non riuscito, attacco alle Torri Gemelle di New York del 1993, ha spostato l’asse militare statunitense verso i conflitti asimmetrici, causando quindi, parallelamente, l’abbandono delle logiche di contrapposizione militare verso le forze convenzionali di uno Stato avversario: un esempio lampante in questo senso, che ancora il Pentagono sta pagando con un tributo pesante per quanto riguarda l’usura di uomini e mezzi, è la decisione, maturata proprio tra la fine degli anni ’90 e il primo decennio dei 2000, di non procedere al completamento dell’ordine di acquisto dei caccia di quinta generazione F-22 Raptor, che ora sono in servizio nell’U.S. Air Force in 186 esemplari a fronte dei 648 originariamente previsti, che oggi farebbero molto comodo agli Stati Uniti per coprire le necessità globali di proiezione di forza e mantenimento della supremazia aerea.
Mentre gli Stati Uniti erano impegnati a livello globale in questo conflitto asimmetrico di “counterinsurgency” (controinsurrezione), Russia, Cina, ma anche in tono minore e con scopi differenti i Paesi dell’Ue e altri come l’India, non sono certo rimasti a guardare. Il generale, infatti, afferma che oggi, l’Esercito americano è “straordinariamente capace” e potente in tutti i domini della guerra “ma ciò che è importante sapere, e riconoscere come un dato di fatto, è che il divario tra noi e i potenziali avversari – Cina o Russia, per esempio – si sono ridotti e chiusi un po’ negli ultimi 10, 15, 20 anni”.
Un divario che si è ristretto grazie alla corsa verso nuove tecnologie in cui gli Stati Uniti hanno perso un po’ di terreno, ricorda Milley, ma che vede Washington ancora in testa, sebbene con prospettive future di mantenere questo vantaggio non più certe.
“Direi che il paese che padroneggia tutte quelle tecnologie e sviluppa indirizzi militari appropriati con le organizzazioni appropriate e il corretto sviluppo della leadership avrà un vantaggio decisivo nel prossimo conflitto”, sono state le parole del generale, il quale porta l’esempio della Cina, che ormai da tre lustri, è sotto osservazione da parte di Washington che la considera tra i Paesi che più minacciano la politica statunitense, come ricordato anche nell’ultima National Defense Strategy.
Cina e Stati Uniti, sottolinea nel suo intervento, hanno economie concomitanti e potenti e trovandoci in un mondo multipolare diventa tutto automaticamente più complesso, quasi per definizione, e più dinamico. Quindi, ribadisce, “questa è una condizione in cui ci troviamo e che probabilmente rimarrà per un periodo di tempo considerevole”.
Nuove tecnologie significa nuove tattiche di impiego, e questo è forse uno degli svantaggi più sensibili che toccano l’ambito della Difesa statunitense: se durante gli anni ’90 gli Stati Uniti potevano vantare la supremazia assoluta iniziale nel campo, ad esempio, degli armamenti “intelligenti” – ovvero missili e bombe guidate – e potevano dedicarsi a progettare velivoli avveniristici rivoluzionari mai visti sul campo di battaglia – in una parola erano il faro che guidava il progresso tecnologico – ora questo status quo è leggermente cambiato e si trovano, in alcuni campi, a dover “inseguire” gli avversari.
Il pensiero va, ad esempio, alla tecnologia ipersonica, sviluppata e giunta a risultati concreti da Russia e Cina per prime. Gli Stati Uniti, che pure avevano sviluppato per primi dimostratori di vettori ipersonici, sono rimasti al palo proprio per il cambiamento di dottrina strategica che si era rivolta all’eliminazione della minaccia “asimmetrica”: perché spendere miliardi di dollari per sistemi costosi e assolutamente rivoluzionari quando bastava utilizzare ciò che si aveva già negli arsenali se pur con tattiche diverse per colpire terroristi organizzati “tribalmente”?
Ora che questa tipologia di minaccia è passata in secondo piano, e lo è diventata proprio per via dei progressi tecnologici raggiunti dalle potenze avversarie degli Stati Uniti, è tornato impellente – e forse tardivo – il bisogno di un approccio dottrinale più convenzionale basato su armi “non convenzionali”. La tecnologia ipersonica, infatti, diventerà presto – ammesso che non lo sia già diventata – un ambito a sé: pertanto si parlerà di Hypersonic Warfare come si parla di Electronic Warfare o Antisom Warfare. Non si tratta, infatti, solo di missili da crociera capaci di volare a velocità mai raggiunte prima (superiori, anche di molto, a Mach 5), ma anche di sistemi legati ai missili balistici intercontinentali e non (i veicoli di rientro tipo Hgv – Hypersonic Glide Vehicle) capaci, proprio per le loro caratteristiche (anche di manovrabilità legate quindi a un certo grado di intelligenza artificiale), di eludere le difese antimissile statunitensi e della Nato.
Una vera e propria rivoluzione che tocca pertanto tutti gli ambiti del campo di battaglia: da quello terrestre a quello navale passando per quello nucleare strategico o tattico convenzionale. Una rivoluzione tecnologica a cui farà seguito – una volta che saranno messi a punto i sistemi “anti-ipersonici” – inesorabilmente, una rivoluzione dottrinale e quindi porterà con sé un profondo cambiamento nel concepire i conflitti moderni, anche alla luce della guerra ibrida così prepotentemente assurta a metodologia di contrasto “in tempo di pace” tra gli Stati.
Parallelamente la rivoluzione ipersonica è stata affiancata da quella robotica e cibernetica: come affermato giustamente dal generale sarà possibile, un giorno, che sul campo di battaglia siano presenti armamenti (Mbt, unità navali sottili e velivoli) robotizzati, autonomi, dotati di intelligenza artificiale che permetteranno anche (in caso) di eliminare l’elemento umano di controllo sull’arma stessa, mentre già ora è possibile, attraverso il web, colpire software di installazioni civili e militari avversarie minandone la capacità o mettendole anche fuori servizio. Milley ha però tenuto a sottolineare che questa esclusione dell’uomo dal sistema d’arma “non sto dicendo che succederà, ma è teoricamente possibile” terminando il suo intervento affermando anche come “sia ragionevole pensare che a un certo punto tra la metà e la fine degli ’20 anni ’30, all’inizio ’40, forse verso la metà del secolo si inizierà a vedere un uso reale e significativo di queste tecnologie e combinazioni da parte delle società avanzate”.
Gli Stati Uniti pertanto, secondo il Csm Difesa Usa, e anche a livello oggettivo, sono ancora il Paese leader per potenza militare, ma il vantaggio tecnologico, accumulato durante gli anni della Guerra Fredda, si è andato via via assottigliandosi per una motivazione contingente ben precisa che ha permesso ai suoi avversari di concentrarsi nella ricerca in nuovi e avveniristici ambiti in cui il Pentagono è rimasto indietro: il concentrare risorse, per quasi 20 anni, nei conflitti asimmetrici “dimenticandosi” di quelli convenzionali, che solo negli ultimi anni sono tornati al centro dell’agenda politico/militare di Washington.
FONTE: https://it.insideover.com/guerra/ipersonico-i-a-e-cyber-russia-e-cina-piu-vicine-agli-stati-uniti.html
DIRITTI UMANI
ECONOMIA
EVENTO CULTURALE
FINANZA BANCHE ASSICURAZIONI
GIUSTIZIA E NORME
L’assoluzione di Calogero Mannino dopo 26 anni.
Leggo della definitiva assoluzione dell’ex ministro Calogero Mannino rispetto alla sua ipotetica collusione con la Mafia. Mi ero occupato di questo caso anche nel maggio scorso e vorrei tornarci su per sottolineare alcuni elementi, partendo dal dato che questo processo è durato circa 26 anni.
In caso di problemi con la visualizzazione del video, clicca qui per vederlo.
VIDEO QUI: https://youtu.be/c8GYL0uykQE
FONTE: http://www.aldogiannuli.it/lassoluzione-di-calogero-mannino-dopo-26-anni/
Covid, disastro Italia: dossier, l’Oms nel mirino dei giudici
Adesso che i riflettori puntano dritti sull’Organizzazione Mondiale della Sanità, qualche testa rischia di saltare. I fatti ormai sono tristemente noti. E non riguardano solo il mancato aggiornamento del Piano pandemico, fattore che ha sicuramente contribuito ad affrontare in modo caotico la pandemia lo scorso marzo e ha portato a livelli di mortalità impressionanti, ma anche (e soprattutto) il rapporto che la divisione europea dell’ente ha redatto sulla risposta dell’italia alla pandemia. Risposta che Francesco Zambon, coordinatore degli autori del documento pubblicato l’11 maggio e fatto sparire nel giro di poche ore, definisce «caotica» e «improvvisata». Cosa è successo in quelle settimane? Nessuno lo vuole dire. Le versioni sono tante e non combaciano. E quando i pm di Bergamo hanno provato a vederci chiaro, ecco che l’Oms ha silenziato la verità obbligando i ricercatori a usare l’immunità. Non solo. Nelle ultime ore, secondo quanto apprende l’agenzia “LaPresse” da fonti vicine al dossier, il responsabile europeo, Hans Henri Klug, sarebbe pronto a ritirare le deleghe all’attuale vice presidente della sezione europea, Ranieri Guerra. Sin dall’inizio, come ricostruito nel “Libro nero del coronavirus”, l’Organizzazione mondiale della sanità non ha fatto altro che fare passi falsi nella gestione del coronavirus.
C’è il tweet del 14 gennaio in cui nega la trasmissione del virus da uomo a uomo. Ci sono le inesattezze contenute nel report redatto dopo aver mandato i propri delegati a Wuhan per capire contro quale nemico avevamo iniziato a combattere. Ci sono pacchi di documenti sull’uso delle mascherine che non hanno fatto altro che creare malintesi e imbarazzi. E poi ci sono le ombre che, come già anticipato nei giorni scorsi dal “Giornale.it”, hanno portato i nomi dei vertici di Ginevra a finire non solo sul tavolo dei magistrati bergamaschi, ma anche su quello di altre procure del Belpaese. Nel mirino degli inquirenti ci sarebbe il rapporto intitolato “Una sfida senza precedenti: la prima risposta al Covid-19″. A incuriosire inizialmente era stata la frettolosa cancellazione dal sito dell’Oms dopo essere stato messo online solo poche ore prima. Il perché di questo passo indietro potrebbe essere spiegato da alcuni passaggi scottanti. Tra questi il mancato aggiornamento del “piano pandemico”. Nonostante le normative europee ed internazionali, l’Italia si è trovata ad affrontare la pandemia con linee guida vecchie che risalivano a quattordici anni fa. Per vederci chiaro lo scorso 5 novembre ha convocato Guerra per una audizione. Il direttore aggiunto dell’Oms si è presentato davanti ai pm, ma “a titolo personale”. Questa presa di posizione ha probabilmente iniziato a far sgretolare il muro di silenzi che si è costruito attorno al palazzo di Ginevra.
Tra le accuse che gli vengono mosse c’è anche quella di aver fatto pressioni per cancellare il rapporto. A inchiodarlo ci sarebbero anche delle mail che “Report” ha reso pubbliche e su cui ora balla una querela. «Se anche l’Oms si mette in veste critica non concordata con la sensibilità politica del ministro che è certo superiore alla mia non credo che facciamo un buon servizio al paese», avrebbe scritto. «Ricordati che hanno appena dato 10 milioni di contributo volontario sulla fiducia e come segno di riconoscenza per quanto fatto finora, dopo sei anni di zero». Cosa c’è davvero dietro al rapporto censurato? Cosa ha spinto l’Oms a “spubblicarlo” in fretta e furia? Il ministro della salute Roberto Speranza ne era davvero a conoscenza? Ma soprattutto: perché non è mai stato aggiornato il piano pandemico? Se lo avessero fatto si sarebbe evitata l’ecatombe dello scorso marzo? Molto probabilmente sono queste le domande che i pm di Bergamo avrebbero voluto fare agli undici ricercatori dell’European Office for Investment for Health and Development di Venezia per vederci chiaro. Ma nei giorni scorsi i vertici di Ginevra hanno invocato l’immunità diplomatica, impedendo loro di presentarsi di fronte ai magistrati guidati dal procuratore Antonio Chiappani.
«Ho ricevuto pressioni e minacce di licenziamento affinché modificassi il rapporto e scrivessi che il Piano pandemico risale al 2016 e non al 2006, come invece è». Zambon, che coordina la sede veneziana che ha redatto il documento, non si fa troppi problemi a dirlo. E probabilmente lo avrebbe anche detto davanti ai pm di Bergamo che lo hanno già convocato almeno tre volte (l’ultima il 10 dicembre). Il problema è che i vertici dell’Oms non glielo lasciano fare. Nelle scorse ore è intervenuta anche la Farnesina. Sabato scorso, secondo quanto anticipato da Massimo Giletti a “Non è l’Arena”, infatti, il ministro degli esteri Luigi Di Maio avrebbe chiesto all’Organizzazione Mondiale della Sanità di «considerare la possibilità di permettere a funzionari ed esperti di acconsentire alla richiesta del procuratore di essere sentiti come persone informate sui fatti». A Ginevra, però, la procedura non ha sortito grandi effetti. E se da una parte l’Oms ha assicurato che il documento è stato rimosso dopo che «sono state riscontrate inesattezze fattuali» e che l’obiettivo era di «di correggere gli errori e ripubblicarlo», dall’altra ha già preso i primi provvedimenti facendo saltare l’incarico a Guerra che, oltre a lavorare per l’organizzazione, fa anche parte del Comitato Tecnico-Scientifico ed è, quindi, a stretto contatto con il ministero della salute.
(Andrea Indini, “Un terremoto ora investe l’Oms, l’uomo del Cts rischia di saltare”, dal “Giornale” del 14 dicembre 2020).
FONTE: https://www.libreidee.org/2020/12/covid-disastro-italia-dossier-loms-nel-mirino-dei-giudici/
IMMIGRAZIONI
LA LINGUA SALVATA
LAVORO PENSIONI DIRITTI SOCIALI
PANORAMA INTERNAZIONALE
USA: il generale Flynn fa un appello per sospendere la Costituzione
Il 1° dicembre 2020 sul Washington Times è apparsa un’intera pagina pubblicitaria ove un gruppo dell’Ohio, We the People Convention, si appella al presidente degli Stati Uniti perché segua l’esempio del suo illustre predecessore, Abraham Lincoln. Sembra sia un’iniziativa del generale Michael Flynn, ex consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Donald Trump.
Durante la guerra civile Lincoln sospese la Costituzione, proclamò la legge marziale, chiuse i giornali d’opposizione, fece arrestare alcuni parlamentari e membri della Corte Suprema.
Durante la guerra civile l’Ohio era uno Stato nordista. I Democratici considerano Lincoln il miglior presidente della storia americana.
We the People Convention e il generale Flynn invitano Trump a seguire le orme di Lincoln: sospenda la Costituzione, proclami la legge marziale, chiuda i giornali d’opposizione, faccia arrestare alcuni parlamentari e membri della Corte Suprema, e infine affidi l’organizzazione di nuove elezioni alle forze armate. L’unico modo, secondo loro, per evitare una guerra civile.
Il 9 novembre 2020 il presidente Trump ha decapitato il Pentagono [1] e sostituito la vecchia squadra con amici del generale Flynn [2].
[1] «Donald Trump non gioca soltanto a golf, ripulisce anche il Pentagono», di Thierry Meyssan, traduzione di Rachele Marmetti, Rete Voltaire, 17 novembre 2020.
[2] «Il generale Flynn, QAnon e le elezioni USA», di Thierry Meyssan, traduzione di Rachele Marmetti, Rete Voltaire, 1° dicembre 2020.
FONTE: https://www.voltairenet.org/article211821.html
Sondaggio CBS: la maggioranza degli americani ritiene che le elezioni siano state truccate
Lisa Stanton – 14 12 2020
FONTE: https://www.facebook.com/lisa.stanton111/posts/3823178244367090
POLITICA
Governo, Bellanova: “L’unica soluzione è ritirare la cabina di regia, decida il Parlamento”
L’opinione della ministra dell’Agricoltura
MILANO – “L’unica soluzione (a una eventuale crisi di governo) è ritirare la proposta di governance, che non dovrà essere inserita surrettiziamente all’ultimo momento in Bilancio, senza la possibilità di discuterla. Se così fosse, voteremo contro la legge di Bilancio. In Parlamento hanno approvato le linee di indirizzo e le macroaree, e si è indicata la necessità di coinvolgimento su tutti i passaggi. Che non è una concessione del presidente Conte ma un obbligo costituzionale. La nostra è ancora una democrazia parlamentare”. Così la ministra dell’Agricoltura Teresa Bellanova in un’intervista al Corriere della Sera. Secondo la ministra, la proposta di governance arrivata dal premier Conte per il Recovery Plan “presenta opacità, criticità, profili di incostituzionalità che potrebbero oltretutto compromettere la realizzazione del Piano e l’efficacia dell’azione amministrativa voluta”.
(LaPresse)
FONTE: https://cronachedi.it/2020/12/13/governo-bellanova-lunica-soluzione-e-ritirare-la-cabina-di-regia-decida-il-parlamento/
Task force tra “tecnica” e “politica”
Il governo Conte rischia la crisi – così si sente dire – a causa di una “task force”. Ossia di una struttura a prevalenza tecnica che potrebbe essere chiamata a governare e spendere il “tesoro” di oltre 200 miliardi in arrivo dai Recovery Fund comunitari. «Una task force non può sostituire governo e parlamento», ha tuonato alla Camera Matteo Renzi.
Minacciando la crisi se la governance di quei fondi strategici per il Paese non verrà restituita alle sedi politico-istituzionali, e sottratta alla preannunciata “cabina di regia” dove siederebbero solo, oltre al premier, alcuni ministri (Gualtieri-Economia e Patuanelli-Sviluppo) e ben 6 super-tecnici, uno per ogni ambito di intervento previsto dal Recovery Plan.
Molti accusano Renzi di attaccare strumentalmente la task force per altri fini. Ma anche Zingaretti non ha nascosto importanti perplessità per questo modo troppo “autonomo” di prendere decisioni a Palazzo Chigi. La domanda è dunque lecita, al di là delle eventuali strumentalità politiche: una task force siffatta è un vulnus alla Costituzione, alla democrazia?
È giusto fidarsi delle istituzioni, o in certe occasioni occorre più efficienza? In altri termini: è la politica che deve prevalere sempre o, quando si fa sul serio, servono i tecnici?
Tecnica e politica. Se pensiamo che il tema nasca oggi, sbagliamo prospettiva. Da sempre i curricula interni alle istituzioni si contendono il primato con quelli nati “nella società civile” e poi prestati – più meno momentaneamente – alla politica. Persino gli imperatori romani e bizantini venivano tanto dalla politica attiva quanto dagli alti ranghi della burocrazia.
Max Weber parlava degli alti ranghi delle burocrazie come dei nuovi “sacerdoti” della razionalità tecnica. Il potere dei tecnici – anche in termini paretiani – è stato studiato lungamente nel corso del ‘900.
Tecnici in politica: un fenomeno esploso dopo “mani pulite”
Ma, se non vogliamo andare così indietro, o così in teoria, possiamo dire che in Italia è almeno dal 1993, da “mani pulite”, che il ricorso ai tecnici è “esploso”. Dalla crisi di credibilità della politica nasce il bisogno periodico di delegare la guida ai tecnici.
Si ricorda prima di tutto il governo Ciampi (1993-94): seppure composto di politici, era guidato per la prima volta da un non parlamentare, scelto in quanto ex governatore della Banca d’Italia, per evitare la bancarotta. Assai più tecnico il governo Dini (1995-96), letteralmente infarcito di non politici, e poi il governo Monti (2011-2013) che, con le sue misure drastiche, ha forse consumato anche il consenso dato ai “tecnici” come valida alternativa quando la politica ristagna. Una riserva di credibilità –quella dei tecnici – che dagli anni ’90 ad oggi si è oggettivamente offuscata.
Troppi forse i tecnici che, col tempo, hanno fatto il “salto” in politica, con dubbie fortune. La lista è lunghissima: Brunetta, Tremonti, Savona, lo stesso Monti, Passera, Calenda… Anche in tempi recenti i nomi di tanti tecnici sono spesso invocati come possibili “riserve della Repubblica”: Colao, Cottarelli, Cantone, Lamorgese, e su tutti Mario Draghi, solo per citarne alcuni. Salvatore Rossi, ex DG di Bankitalia, ebbe a chiosare qualche anno fa: «non è più tempo in Italia di chiedere ai tecnici di vestire ruoli politici».
In effetti, molti tecnici hanno consumato la loro credibilità nella difficile arena della politica italiana, o hanno prodotto risultati inferiori alle attese, specie quando hanno tentato di mettersi “in proprio”.
L’esteso ruolo delle autorità tecniche nel nostro Paese
Eppure, la stagione della centralità dei tecnici non pare affatto finita, nel nostro Paese. Ovviamente, l’epidemia Covid ha spinto in questa direzione, portando a rilevanti ruoli decisionali i vari Comitati Tecnico-Scientifici, e i loro componenti virologi, infettivologi, epidemiologi. Ancora una volta, non senza polemiche sull’autonomia della politica e sui confini tra l’ambito decisionale e quello tecnico-consultivo.
Ma anche senza l’enorme enfasi data dal Covid ai tecnici, in questo Paese, ben prima dell’epidemia, erano attive ad ogni livello task forces, tavoli, cabine di regìa, stati generali, e altri infiniti luoghi – più o meno annunciati, più o meno reali ed efficienti – in cui la politica si faceva “consigliare” dalla tecnica. Per tacere del fatto che sono ad oggi vigenti ben dodici autorità amministrative indipendenti (i famosi “garanti” della privacy, della concorrenza, delle comunicazioni, anticorruzione…) e risultano attivi – dal sito della Presidenza del Consiglio – ben 32 commissari straordinari di governo, sui temi più disparati.
Aggiungendo che quasi ogni emergenza – ambientale, sismica, infrastrutturale – genera nuovi commissari, anche a livello locale. Ricordiamo su tutti il ponte di Genova, le tante aziende a partecipazione pubblica o la sanità in tante regioni…
Il ricorso ai tecnici e alle autorità indipendenti – seppure teoricamente sottoposte alla nomina e al vaglio politico – è dunque ben più vasto e ben più esteso della sola task force per i Recovery Fund, che pure fa tremare il governo. Quasi ogni volta che c’è un problema complesso da affrontare, in Italia, si abdica alle “vie ordinarie” e si cercano soluzioni che – per quanto ordinamentali – sono di fatto un salto fuori dall’ordinario funzionamento istituzionale e amministrativo.
Alla radici di un fenomeno: la sfiducia nella politica e nella pubblica amministrazione
C’è dunque un’analisi ben più ampia da fare, oltre l’attualità politica. Alle spalle di questo fenomeno c’è – come detto – la perdita di credibilità ormai cronica del sistema politico e delle sue capacità strategiche e decisionali. Ma c’è anche di più: c’è l’evidente perdita di fiducia della politica stessa verso le amministrazioni, dai livelli locali fino – soprattutto – alle amministrazioni centrali e ai ministeri.
Illuminante una recente dichiarazione di Luigi di Maio, proprio a proposito della spesa dei Recovery Fund: «Non si può fare a meno dei poteri che consentono di velocizzare le procedure», ha dichiarato, proseguendo con chiedersi esplicitamente se questa spesa di 200 miliardi si possa fare dentro o fuori i ministeri…
Dietro a questo ricorso imponente a commissari e a tavoli tecnici “collaterali” all’ordinarietà vi è dunque non solo la crisi della politica, ma l’eterno problema della pubblica amministrazione italiana.
Su questo serve una parola in più, per non cedere a luoghi comuni. Nelle pubbliche amministrazioni italiane ci sono straordinarie competenze ed eccellenze, accanto a fenomeni sconfortanti. Anni di tagli, patto di stabilità e mancato turn-over hanno impoverito le pubbliche amministrazioni e portato l’età media (media, sottolineo) ben oltre i 55 anni, in molte strutture. Niente giovani, niente nuove idee, niente dinamismo. Molti ministeri appaiono oggettivamente impoveriti di capacità rispetto anche solo a 10 anni fa.
La famosa riforma “Bassanini”, poi, andrebbe una volta per tutte riesaminata, per vedere se quel modello dirigenziale e organizzativo abbia dato i frutti voluti: se l’intenzione era quella di creare una sorta di spoil system alla americana, dove i dirigenti pubblici sono professionals che entrano ed escono dall’amministrazione (come vediamo in questi giorni con il passaggio Trump-Biden) spendendo le loro competenze nel privato come nel pubblico, in base alle esigenze effettive di chi governa e dei suoi programmi, non c’è dubbio che la pubblica amministrazione italiana resta lontana anni luce.
I modelli contrattuali pubblici portano alla continuità delle amministrazioni, mentre le figure politiche ruotano – o roteano, addirittura – sempre più velocemente. Ne nasce spesso sfiducia e poca collaborazione tra politici e strutture. Spesso, la prima cosa che fa un sindaco, un presidente di regione, un ministro è quella di cercare risorse per creare un proprio staff “fedele” e portato da fuori: non cercare dentro all’amministrazione che governa le competenze di cui servirsi e fidarsi.
Un rischio democratico o un’opportunità?
Alla fine, alla politica fa spesso comodo giustificare la propria impotenza dando la colpa alla “bestia”, all’amministrazione inefficiente, e che pure governa… Da qui l’imponente ricorso a commissari, autorities, incarichi straordinari, CTS e task forces, nel tentativo di trovare un’efficienza che, oggettivamente, spesso manca.
C’è un rischio democratico in tutto questo? Difficile negarlo, o quanto meno c’è il rischio che una “seconda costituzione”, materiale, de facto, prenda il posto di quella formale, istituzionale, nelle decisioni che contano o nelle questioni più urgenti, delicate, significative, anche economicamente. Quanta distanza rispetto a uno dei cardini della democrazia moderna: non puoi spendere i soldi pubblici se non hai rappresentanza politica (no taxation without representation).
L’idea di poter rafforzare – se non sostituire – la decisione politica con quella tecnica è un’utopia antica quanto Platone, e probabilmente molto pericolosa.
In ogni decisione c’è una componente ottativa, di opinione, di visione del mondo, che è ineliminabile anche nella sfera apparentemente più legata alla scienza, come nel caso delle misure anti-Covid. «Al politico inerisce l’idea», avrebbe detto un famoso e discusso politologo tedesco del ’900: non ci può essere politica ridotta a mera tecnica neutrale.
Neutralizzare la politica, cioè toglierle la sua natura di parte, di scelta, di idea non per forza obiettiva, ma che dà una lettura e un indirizzo al mondo e alla società, è un’operazione che presuppone solo un dislocamento ad altro luogo della dimensione “partigiana” della politica. Non lo elimina.
In questo dislocamento – dai banchi del Parlamento o del Governo ai tavoli di qualche task force – non c’è dunque maggiore oggettività di decisione: in compenso, la partigianeria, invece di essere sottomessa alle maggioranze democratiche, sarà soggetta alle lobby tecniche più imponenti, o alle correnti scientifiche. Se le task forces sono questo, ha ragione chi se ne preoccupa: non c’è in esse nessun guadagno per la collettività.
Se invece la task force – anche quella dei Recovery Fund – fosse non un tavolo decisionale, ma una struttura di missione; non un luogo decisionale ristretto, ma un “pezzo” di amministrazione creato ad hoc, il giudizio potrebbe essere diverso. Fermo restando che nelle nostre pubbliche amministrazioni ci sono moltissime straordinarie competenze spesso poco valorizzate, da sempre capita che la politica si serva di strutture speciali per compiti speciali.
Lo fece De Gasperi, ad esempio, quando creò nel 1950 la Cassa del Mezzogiorno. Molte partecipazioni statali – oggi valide realtà industriali o economiche – sono nate così. Certo, molte anche fallite in un mare di debiti… Ma molte amministrazioni – ancora una volta, tipicamente, quelle americane – si basano quotidianamente e ordinariamente su strutture di missione, su modelli a progetto: sotto ciò che noi chiamiamo Pentagono o Food and drug administration, ad esempio, lavorano centinaia di strutture tecniche di progetto che nascono e muoiono con le loro mission o i fondi ricevuti da gestire.
Se la task force di Conte fosse questo, potrebbe essere un’interessante occasione per discutere una volta per tutte, seriamente, perché non ci si fida della pubblica amministrazione “ordinaria” e quali potrebbero essere i modelli per una sua autentica riforma.
Il rischio, però, è che il dibattito sia alla fine strumentale, tattico, o puramente di principio, e quindi rappresenti solo, ancora una volta senza alcun esito, l’ennesima tappa della lunga querelle tra “tecnica” e “politica” nel nostro paese.
FONTE: http://www.settimananews.it/politica/task-force-tecnica-politica/
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