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RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI 17 FEBBRAIO 2023
SPECIALE GIORDANO BRUNO
A cura di Manlio Lo Presti
Esergo
Cieco chi non vede il sole, stolto chi nol conosce, ingrato chi nol ringrazia
GIORDANO BRUNO, Spaccio de la bestia trionfante. Epistola esplicatoria,
In: Dialoghi filosofici italiani, Pag. 459. Mondadori, 2001
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SOMMARIO
Giordano Bruno
Il fuoco delle idee – Giordano Bruno
I processi a Giordano Bruno e Galileo Galilei
L’Uno e l’individuo in Giordano Bruno
Giordano Bruno: da solo, per cambiare il mondo
17 febbraio. Nel nome di Giordano Bruno, campione di libertà
Giordano Bruno – Emancipazione e libertà nelle pari opportunità
IL SACRIFICIO DI GIORDANO BRUNO CI RICORDA DI ANTEPORRE LA RAGIONE ALLE CONVINZIONI
Bruno, Giordano
Giordano Bruno: morte di un Filosofo al Rogo
Giordano Bruno
CULTURA
Giordano Bruno
Bruno Giordano (1548-1600) filosofo della tradizione magica rinascimentale.
L’universo è infinito, la terra è un astro in movimento al pari degli altri pianeti e mondi che sono infiniti, come la potenza divina di cui la natura è un’ombra. La mente dell’uomo è divina, in essa è impressa l’organizzazione dell’universo, catturabile attraverso il potere dell’immaginazione.
Condannato e arso come eretico in Piazza di Spagna a Roma il 17 febbraio 1600.
1 Il pensiero di Bruno
«In uno dei primi interrogatori da parte degli inquisitori veneziani Bruno fece un’esposizione assai ricca e franca della sua filosofia, come se si rivolgesse ai dottori di Oxford, di Parigi o di Wittenberg. L’universo è infinito, poiché l’infinita potenza divina non può produrre un mondo finito. La terra è un astro, come fu detto da Pitagora, simile alla luna ed agli altri pianeti e mondi che sono a loro volta infiniti. In questo universo esiste una provvidenza universale in virtù della quale ogni cosa in essa compresa vive e si muove, e questa natura universale è ombra o vestigio della divinità, di Dio, che nella sua essenza è ineffabile e inesplicabile. Gli attributi della divinità Bruno li intende – al pari dei teologi e dei più grandi filosofi – come “una medesma cosa”. I tre attributi della “potenza, sapienza e bontà” sono lo stesso che “mente, intelletto ed amore”» (F. Yates, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Biblioteca universale Laterza, 1985, p. 379).
Dal punto di vista della fede Bruno si dichiara ortodosso per quanto concerne il Padre o la mens, non crede che il figlio della mens chiamato intelletto dai filosofi e Verbo dai teologi si sia incarnato in Cristo e, analogamente alla tradizione dei cristiani neoplatonici, ritiene l’anima mundi o spirito divino.
«Questa tendenza a considerare il Filius Dei degli ermetici non come la seconda persona della Trinità cristiana è la ragione teologica di fondo dell’accezione puramente “egiziana” dell’ermetismo di Bruno per il quale la religione egiziana ermetica non si configura come una prisca theologia precorritrice del Cristianesimo ma come l’unica vera religione» (F. Yates, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, p. 380), che Bruno pensava di poter restaurare con tutta la sua carica magica in un contesto cattolico.
La stessa croce a quattro braccia – simbolo dei cristiani – apparteneva alla dea Iside e Mosè aveva imparato così bene la magia dai maghi del faraone da superarli in potenza. Cristo stesso era un mago.
2 Bruno e il copernicanesimo
Frances Yates ritiene che l’origine della condanna di Bruno da parte dell’Inquisizione non sia da ricercare nella professione di copernicanesimo, ma nel particolare significato che Bruno attribuiva al copernicanesimo come riscoperta della religione magica egizia.
Se il movimento della terra fu uno dei punti per cui Bruno venne condannato, da questo punto di vista il suo caso è completamente diverso da quello di Galileo, anch’egli costretto a ritrattare l’affermazione circa il movimento della terra. Le opinioni di Galileo erano basate su genuini studi matematici e meccanici;
egli visse in un diverso clima intellettuale rispetto a Giordano Bruno, in un clima in cui le «intenzioni pitagoriche» e i «sigilli ermetici» non entravano affatto e in cui lo scienziato raggiungeva le sue conclusioni su un terreno genuinamente scientifico. La filosofia di Bruno non può essere separata dalla sua religione. Essa era la sua religione, la «religione del mondo», che egli vedeva in questa forma dilatata dell’universo infinito e dei mondi innumerevoli, come una gnosi più vasta, una nuova rivelazione del divino nelle «vestigia». Il copernicanesimo fu un simbolo della nuova rivelazione che doveva significare un ritorno alla religione naturale degli Egiziani, ed alla sua magia, entro un contesto che Bruno così stranamente suppose di poter identificare con quello del cattolicesimo.
Perciò la leggenda secondo cui Bruno venne perseguitato come pensatore filosofico e venne messo al rogo per le sue temerarie opinioni sui mondi innumerevoli o sul movimento terrestre non regge più. […]
Sul piano morale, la posizione di Bruno resta incrollabile. Egli fu infatti il discendente dei Magi rinascimentali e si battè per la dignità dell’uomo nel senso della libertà, della tolleranza, del diritto dell’uomo a difendere le proprie idee in qualunque paese e a dire ciò che pensa, senza riguardo verso alcuna barriera ideologica. E Bruno come mago, si schierò per l’amore, in contrasto con ciò che i pedanti di ogni specie avevano fatto del Cristianesimo, la religione dell’amore (F. Yates, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, pp. 384-5).
3 La cena delle ceneri
Scritto sotto forma di dialogo come Lo spaccio della bestia trionfante nel 1584 durante la sua permanenza in Inghilterra, La cena delle ceneri è una satira che riflette la polemica di Bruno con i dottori di Oxford (che aveva incontrato durante le sue peregrinazioni in Europa) sulla teoria copernicana.
La teoria copernicana annuncia per Bruno il risorgere vittorioso della verità egiziana (ossia l’ermetismo), soffocata dalle tenebre dei cristiani, la verità del sole come Dio visibile. Bruno stesso è profeta e guida di questo movimento, lui che “ha compiuto l’ascensione gnostica, ha vissuto l’esperienza ermetica ed è pertanto divenuto un essere divino imbevuto dalle Potestà” (F. Yates, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, p. 263).
L’esposizione della filosofia è combinata con la narrazione del viaggio per raggiungere il luogo della cena e del dibattito con i due ‘pedanti’, che si tiene la sera del primo mercoledì di quaresima, la sera delle ceneri.
Gli accompagnatori giungono a prendere Bruno in ritardo e partono per vie ormai buie. Dopo un tratto di strada principale svoltano verso il Tamigi per proseguire su una vecchia barca che li scaricherà, dopo un lungo giro non lontani dal luogo di partenza, in un vicolo fangoso circondato da alte mura. Il viaggio prosegue tra mille difficoltà…
«Il racconto dell’avventuroso viaggio è tutt’altro che chiaro; l’esposizione è interrotta quando Bruno espone la sua nuova filosofia, la sua ascensione ermetica, attraverso le sfere, fino alla visione liberata di un vasto cosmo, e la sua interpretazione dell’eliocentrismo copernicano, in tono ben diverso da quello di Copernico stesso, che essendo ‘solo un matematico’, non aveva compreso il significato della sua scoperta. Durante la cena Bruno discute con i due dottori ‘pedanti’ se il sole sia o non sia al centro; ci sono fraintendimenti reciproci; i ‘pedanti’ si fanno vendicativi e il filosofo è estremamente rude. Comunque l’ultima parola è al filosofo, che sostiene contro Aristotele e con Ermete Trismegisto, che la terra si muove perché è viva.
Bruno, in seguito, affermò davanti agli inquisitori che la cena si era tenuta in realtà, all’ambasciata di Francia. Il viaggio per le vie di Londra e sul Tamigi era quindi interamente immaginario? Io metterei le cose in questi termini. Il viaggio è qualcosa del genere di un sistema di memoria occultista, grazie al quale Bruno ricorda i temi della discussione avvenuta durante la ‘cena’. ‘All’ultimo dei luoghi romani puoi aggiungere il primo dei luoghi parigini’, dice in uno dei suoi libri di memoria. Nella Cena delle ceneri egli adopera ‘luoghi di Londra’, lo Strand, Charing Cross, il Tamigi, l’ambasciata di Francia, una casa in Whitehall, per ricordare ricollegati ad essi, i temi di un dibattito sul Sole durante una cena: temi che hanno certamente un significato occulto, riferentesi, in qualche modo, al ritorno della religione magica, di cui è araldo il Sole copernicano» (F. Yates, L’arte della memoria, Einaudi, 1972, p. 288).
La Cena de le ceneri fornisce un esempio dello sviluppo di un’opera letteraria proprio dai procedimenti dell’arte della memoria.
4 Spaccio della bestia trionfante
Un conciglio degli dèi planetari, convocato da Giove, si riunisce per riformare le immagini celesti da cui consegue una riforma del mondo inferiore per gli stretti rapporti che intercorrono – nella concezione neoplatonica – tra mondo delle idee, stelle e mondo sensibile. La bestia trionfante e cioè il complesso dei vizi (i cattivi influssi delle stelle) viene spacciato dal complesso delle virtù (i buoni influssi) in vista della «formazione di una personalità nella quale prevalgano gli influssi del Sole, di Giove e di Venere e vengano controllati gli influssi negativi delle stelle nella direzione di una religione o di un’etica integralmente “egiziana” o ermetica, nell’ambito della quale la riforma, e cioè la salvezza, è conseguita nell’ordine cosmologico» (F.
Yates, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, p. 245).
Pubblicato nel 1584 in Inghilterra, Lo spaccio della bestia trionfante è stato di grande efficacia, unitamente alla Cena delle ceneri, nella formazione del Rinascimento shakespeariano.
Lo spaccio è anche un esempio mirabile di letteratura di immaginazione. “I suoi dialoghi possono essere letti direttamente per la loro forte e strana trattazione di molti temi, per il loro curioso umorismo e la loro satira, per l’impianto drammatico del racconto di questo concilio di dei riformatori, per i loro numerosi tocchi di ironia lucianesca. E tuttavia si può cogliere agevolmente alla base del testo la struttura di un sistema di memoria bruniano” (F. Yates, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, p. 294).
Nell’elenco delle costellazioni, dei vizi e delle virtù ad esse collegati che Bruno ripercorre per tre volte, è sempre mantenuto l’ordine attribuito ad esse nel sistema delle costellazioni. Evidentemente segue le costellazioni come sistema di organizzazione della memoria.
5 L’arte della memoria
5.1 Capacità fantastica e arte della memoria
Il valore attribuito da Bruno alla capacità fantastica, a quella capacità di attingere ad un mare inesauribile di immagini fa parte del più vasto sistema dell’arte della memoria.
Bruno tratta in numerosi saggi l’arte della memoria, quell’arte nella quale eccelleva, che l’aveva reso famoso e che sarà indirettamente la causa della sua morte, perché ritornerà in Italia (a Venezia dove sarà arrestato e consegnato all’Inquisizione) proprio per insegnare al Mocenigo la sua mnemotecnica.
5.2 Le immagini celesti come luoghi della memoria
Il sistema di Bruno consisteva nell’usare come luoghi della memoria le immagini celesti, (le stelle e i pianeti) le quali in quanto appartenenti al mondo intermedio sono più vicine alle idee, sono ombre delle idee. Imprimere nella memoria le immagini degli agenti superiori (le stelle e i pianeti) vuol dire conoscere dall’alto le cose che si trovano al livello del mondo fisico, significa ricostruire nella mente umana, microcosmo in armonia con il macrocosmo, lo stesso ordine delle idee. L’immaginazione, la capacità della mente di costruire immagini che nel medioevo poteva essere utilizzata «nella memoria come una concessione alla debolezza dell’uomo, che ricorre a simboli corporei, perchè solo così può memorizzare le sue ‘intenzioni’ spirituali verso il mondo intelligibile… diventava il potere più alto dell’uomo, per mezzo del quale gli è possibile afferrare il mondo intellegibile, al di là delle apparenze» (F. Yates, L’arte della memoria, p. 213).
Usare le figure delle stelle come luoghi della memoria significava attingere a una fonte inesauribile di immagini, trascendenti l’esperienza sensibile.
L’arte della memoria diventa con Bruno arte magica perché attinge direttamente al mondo superiore, fonte di conoscenza.
5.3 La capacità fantastica come strumento di conoscenza
In altre parole se la personificazione di una virtù serviva durante il medioevo a costruire un’immagine per ricordarne le caratteristiche, il possedere l’arte della memoria di Bruno significa usare la capacità fantastica come strumento di conoscenza, significa, una volta ricostruita nella mente l’organizzazione delle immagini e la loro concatenazione nei vari livelli, trasformare la capacità fantastica in magico strumento di conoscenza, magico perché collegato al mondo delle idee stesse.
Il che è come dire che se durante il medioevo la capacità fantastica serviva per rendere concreta attraverso un’immagine corporea ̶ ossia attraverso la personificazione ̶ un concetto astratto, con Bruno diventa strumento stesso di conoscenza, in quanto capacità della mente di entrare magicamente in contatto con lo stesso mondo delle idee.
5.4 Bruno grande cosmologo visionario
Una prova della sua capacità fantastica e visionaria Bruno la fornisce, oltre che con l’ardita architettura della sua mnemotecnica, con l’attribuzione alla mente del potere di riflettere come in uno specchio l’infinito stesso e di poterlo cogliere con un solo colpo d’occhio in tutta la sua immensità.
Chi esercita la facoltà della mente trascende l’imperfezione dell’illimitato con «una semplice intuizione che senza niun discorso che la preceda o accompagni…, comprende tutte le cose, ed è simile a specchio vivo e piano, che è insieme luce, specchio e tutte le immagini, che ei veggon senza successione temporale o vicissitudinale, come se il capo fosse tutt’occhio o da per tutto la vista abbracciasse con un sol atto le cose superiori, inferiori, anteriori e posteriori» (Sta in P. Zellini, Breve storia dell’infinito, Adelphi, Milano, 1980, p. 108-109).
5.5 Totalmente infinito è Dio
L’unità dell’Universo infinito «non è affrancata dalla pluralità, cioè dalla materia; e la materia, come aveva già insegnato S. Tommaso, determina una contrazione della forma infinita nelle forme finite dell’esistenza. Il risultato è un certo ‘difetto’ intrinseco, una insopprimibile presenza, nell’Universo di una possibilità che non può estendersi oltre di sé» (ivi, p. 110).
Dice Bruno: «Io dico […] l’universo tutto infinito, perché non ha margine, termine, né superficie, dico l’universo non essere totalmente infinito, perché ciascuna sua parte che di quello possiamo prendere, è finita, e de mondi innumerabili che contiene, ciascuno è finito. Io dico Dio tutto infinito, perché da sé esclude ogni termine ed ogni suo attributo è uno ed infinito, e dico Dio totalmente infinito, perché tutto lui è in tutto il mondo, ed in ciascuna sua parte infinitamente e totalmente: al contrario dell’infinità de l’Universo, la quale è totalmente in tutto, e non in queste sue parti… che noi possiamo comprendere in quello» (ivi, p. 110).
6 Il ballo dei becchi
Il personaggio di Giordano Bruno così come è stato interpretato da Montaldo nel suo film nell’episodio del ballo dei becchi,[1] si presta a un parallelo con il racconto di Amore e Psiche di Apuleio.
Nelle supreme stanze
L’ingresso di Psiche nell’universo di Eros avviene in un’atmosfera sospesa. Contrariamente all’aspettativa suscitata dall’esposizione sulla rupe, foriera di eventi drammatici, l’atmosfera delle «nozze di morte» si dissolve in uno sciame di elementi sottili, rarefatti, impercettibili: una «mite aura di Zefiro», lo «svolazzare delle vesti», un «placido soffio» che «gonfia i lembi» e la «solleva insensibilmente»…
Il palazzo, nel quale giunge Psiche, reitera la stessa impalpabile sensazione: «voci senza aspetto», «vino nettareo», «portentoso spirito», «sole voci», qualcuno «prese a cantare non visto», una «cetra, che nemmeno si vedeva», la «voce concorde di un coro»… L’intero processo che sospinge, accompagna accoglie e assiste Psiche nel palazzo incantato di Eros è affidato a fili impalpabili, evanescenti, eterei.
Che è poi la stessa sostanza di Eros: un «dolce suono» annuncia «l’invisibile marito», che viene nell’ombra, che svanisce al sopraggiungere della luce. Psiche lo può “sentire”, come sente le voci del palazzo, ma non “vedere”, come non vede i servitori…
Ciò che è dato conoscere di Eros passa attraverso percezioni sonore, passa attraverso le sensazioni di Psiche. Giordano Bruno, durante il suo fatale soggiorno veneziano, aveva portato Fosca, l’amante del Morosini, nelle supreme stanze dell’incantato palazzo di Eros con la sola magia delle parole. Bruno, si sa, era stato chiamato a Venezia per le sue arti magiche.
Fosca si turbò alle prime, si ritrasse, pensò ad arti demoniache, lo allontanò da sé. Poi…
Poi si peritò presso il potente amante perché togliesse il “mago” dalle grinfie della Santa Inquisizione.
Che l’eros femminile non sia destato dal senso della vista, questo ognuno lo sa, direbbe il don Ferrante manzoniano, tanto è evidente. Agli increduli basti considerare che il target di immagini erotiche e pornografiche è di sesso maschile. Se ne avvidero, anni fa, anche gli ideatori di una rivista americana per sole donne, allorché constatarono che il loro pubblico era costituito da omosessuali maschi. La vista è la via del maschio. E le donne lo sanno.
La seduzione attraverso la vista è un’arte femminile. Le donne lo sanno. Anche Fotide ne era consapevole:
snudata fino all’ultimo lacciuolo, i capelli sciolti lietamente alla goduria, superbamente rigenerata nell’aspetto di Venere risorgente dai marini flutti, e con una rosea manina ad adombrare un pochino per vezzo, più che per nascondere per pudore il depilato pube… (II, 17).Pizzi, merletti e quant’altro indosso a un maschio sono grotteschi. Suscitano ilarità, se indossati per scherzo, come suscitano ilarità gli spogliarelli maschili se fatti per gioco; diversamente sono grotteschi, e certamente non infiammano la fantasia del pubblico femminile: solleticano una generica curiosità o compensano la voglia di trasgressione.
Non è per caso se Eros nella favola di Amore e Psiche resta ferito proprio dalla lucerna e non certo per caso Apuleio proprio in questo contesto lascia detto:
Hem audax et temeraria lucerna et amoris vile ministerium, ipsum ignis totius deum aduris, cum te scilicet amator aliquis, ut diutius cupitis etiam nocte potiretur, primus invenerit (V, 23).
Ahimè, audace e temeraria lucerna, mezzana d’amore a buon mercato! Bruciare proprio il dio di ogni fuoco quando te certamente un qualche dongiovanni, per possedere più alla grande le concupite anche di notte, per primo escogitò.Quale sia l’oggetto del desiderio, anche questo ognuno lo sa. E se malauguratamente non lo sapesse, basta che dia un’occhiata agli evviva affidati ai graffiti murali. Se invece volesse scoprire l’oggetto del desiderio femminile sarebbe in difficoltà, vanamente cercherebbe inni osannanti l’oggetto del desiderio femminile, perché l’oggetto del desiderio femminile è fatto da un’infinità di lampeggiamenti puntiformi.
Mentre per il maschio l’oggetto del desiderio è inscritto in un triangolo ben definito, per il gentil sesso pullula in una miriade di punti rarefatti: un «placido soffio», una voce indefinita, una «mite aura», un vago fluttuare di sensazioni… Per l’altra metà del cielo a destare il “mostro” è una nebulosa. Un po’ di fantasia, suvvia, signori uomini… non sarete accusati di stregoneria!
È pur vero che ha ragione anche Ariosto (Orlando Furioso, I, 58) quando fa dire a Sacripante:
So ben ch’a donna non si può far cosa
che più soave e più piacevol sia,
ancor che se ne mostri disdegnosa,
e talor mesta e flebil se ne stia.
Per quale ragione la donna non dovrebbe avvertire il desiderio? Solo che il suo nutrimento è ben diverso dalla pastura del desiderio maschile. Per questo se ne sta spesso mesta e flebil.
Ed è il nutrimento dell’eros femminile che Apuleio con la favola di Amore e Psiche descrive. Apuleio descrive la via femminile dell’eros. Lo racconta con le immagini della sua poesia.
(A. Piacentini, Eros al femminile, pp. 204-206)
Note
[1] È un gioco scambista in casa Morosini alla fine del quale Bruno (con la sua fama di filosofo mago), e Fosca, l’amante del padrone di casa, si appartano.
Fosca: Ecco quali sono i segreti della nostra magia. Essere belle e desiderabili, far felice il proprio amante ed essere amica dei suoi amici, avere protezione e potere. Sì, essere amata, e amare. Avete visto quelle donne sui ponti, vendono il loro amore ai mercanti e ai marinai, e le loro tariffe sono fissate dal Senato. Essere ricchi e potenti, questa è la magia. Perle, oro, gioielli, la gente ti guarda e ti odia. Guarda la tua pelle bianca e sputa. Quando vado in San Marco e prego il Signore, mi rivolgo al potere più grande di tutti, al potere di Dio, perché io credo in Dio.
Bruno: I bambini si portano dentro una magia naturale che, a poco a poco, crescendo, sono costretti a distruggere. E allora cominciano a pregare, ‘a santissima Trinità, i Santi, ‘a Maronna… Una grande Madonna azzurra, con gli ori e gli incensi.
(I due sono vis-à-vis, lei nuda distesa sul letto).
Bruno: Dobbiamo imparare a respirare, per riscoprire che gli alberi, le pietre, gli animali, e tutta la macchina della Terra hanno un respiro interno, come noi. Hanno ossa, vene, carne, come noi.
E la invita a respirare al ritmo del suo respiro, che è il respiro dell’universo.
A poco a poco Fosca si sente presa dall’orgasmo prima ancora che Bruno l’abbia sfiorata…
E si spaventa, ritraendosi da lui credendolo dotato di poteri diabolici…
FONTE: http://www.adrianopiacentini.it/Giordano-Bruno.html
Il fuoco delle idee – Giordano Bruno
I processi a Giordano Bruno e Galileo Galilei
Giordano Bruno è uno di quei personaggi la cui storia si intreccia con la città di Roma.
A raffigurarlo, la statua in bronzo, situata in Campo de’ Fiori, che ci ricorda il punto esatto in cui il domenicano, il 17 febbraio del 1600, fu giustiziato, messo al rogo, poiché considerato eretico per le sue teorie religiose e filosofiche.
L’autore della scultura, ottocentesca, è l’artista romano Ercole Ferrari.
Quando fu arrestato, Giordano Bruno si trovava a Venezia. Il 23 maggio del 1592, il domenicano viene denunciato al Tribunale dell’Inquisizione, proprio dall’uomo che gli aveva offerto ospitalità, Giovanni Francesco Mocenigo che era un suo seguace e voleva impedire a Bruno di rientrare il Germania, dove era vissuto fino a quel momento.
Il processo che ne derivò fu molto complesso ed estenuante, fatto di numerosi interrogatori.
La difesa che il filosofo attuò non riuscì però a evitargli un secondo processo, nonostante la richiesta di grazia al tribunale veneziano.
Il 30 luglio, nello stesso anno del suo arresto, Giordano Bruno, con queste parole, si rivolse a chi lo giudicava: “Domando humilmente perdono al Signor Dio e alle Signorie Vostre illustrissime de tutti li errori da me commessi; et son qui pronto per essequire quanto dalla loro prudentia sarà deliberato et si giudicarà espediente all’anima mia. (…) et se dalla misericordia d’Iddio et delle Vostre Signorie illustrissime mi sarà concessa la vita, prometto di far riforma notabile della mia vita, ché ricompenserò lo scandalo che ho dato con altretanta edificazione”.
Purtroppo, nonostante questo gesto, per volere del Santo Uffizio, fu inviato a giudizio a Roma.
Arrivato nella capitale, passò un lungo periodo di prigionia e la ripresa del processo vide nuove ed infamanti accuse. Poi la revoca, da parte dello stesso, di una decisione di abiura, provocò la condanna a morte.
Altro famoso processo tenutosi a Roma, fu quello che vide protagonista Galileo Galilei che fu costretto a rinnegare tutte le sue teorie astronomiche, per cui era stato tacciato di eresia.
Galilei aveva, infatti, sovvertito le teorie bibliche, sostenendo l’eliocentrismo, ossia che non fosse la terra, bensì il sole, al centro dell’universo. Teorie, queste, pubblicate nel suo celeberrimo trattato “Dialogo sopra i massimi sistemi”, che ovviamente subì la censura.
Come Giordano Bruno, anche Galileo Galilei fu, dunque, giudicato dal Sant’Uffizio, subendo un duro processo. Fu così costretto a rinnegare le sue idee, obbligato all’abiura nel giugno del 1633. Morirà ad Arcetri, in Toscana, sua terra d’origine, l’8 gennaio 1642, restando sempre fermamente convinto della veridicità delle sue teorie scientifiche. Storica è la frase che Galileo avrebbe pronunciato dopo la sua abiura: “Eppur si muove!”
La Chiesa lo riabiliterà solo nel XIX secolo, attraverso la figura di papa Pio VII.
Sul viale di Trinità dei Monti, andando verso il Pincio, si trova la colonna commemorativa che ricorda il luogo in cui lo scienziato fu tenuto prigioniero, la vicina Villa Medici. L’opera fu collocata sul finire dell’Ottocento.
Di seguito l’abiura del Galilei: Io Galileo, figlio di Vincenzo Galileo di Fiorenza, dell’età mia d’anni 70, constituto personalmente in giudizio, e inginocchiato avanti di voi Eminentissimi e Reverendissimi Cardinali, in tutta la Republica Cristiana contro l’eretica pravità generali Inquisitori; avendo davanti gl’occhi miei li sacrosanti Vangeli, quali tocco con le proprie mani, giuro che sempre ho creduto, credo adesso, e con l’aiuto di Dio crederò per l’avvenire, tutto quello che tiene, predica e insegna la Santa Cattolica e Apostolica Chiesa. Ma perché da questo Santo Officio, per aver io, dopo d’essermi stato con precetto dall’istesso giuridicamente intimato che omninamente dovessi lasciar la falsa opinione che il Sole sia centro del mondo e che non si muova, e che la Terra non sia centro del mondo e che si muova, e che non potessi tenere, difendere né insegnare in gualsivoglia modo, né in voce né in scritto, la detta falsa dottrina, e dopo d’essermi notificato che detta dottrina è contraria alla Sacra Scrittura, scritto e dato alle stampe un libro nel quale tratto l’istessa dottrina già dannata e apporto ragioni con molta efficacia a favor di essa, senza apportar alcuna soluzione, sono stato giudicato veementemente sospetto d’eresia, cioè d’aver tenuto e creduto che il Sole sia centro del mondo e imobile e che la Terra non sia centro e che si muova; pertanto, volendo io levar dalla mente delle Eminenze Vostre e d’ogni fedel Cristiano questa veemente sospizione, giustamente di me conceputa, con cuor sincero e fede non finta abiuro, maledico e detesto li sudetti errori e eresie, e generalmente ogni e qualunque altro errore, eresia e setta contraria alla S.ta Chiesa; e giuro che per l’avvenire non dirò mai più né asserirò, in voce o in scritto, cose tali per le quali si possa aver di me simil sospizione; ma se conoscerò alcun eretico o che sia sospetto d’eresia lo denonziarò a questo S. Offizio, o vero all’Inquisitore o Ordinario del luogo, dove mi trovarò. Giuro anco e prometto d’adempire e osservare intieramente tutte le penitenze che mi sono state o mi saranno da questo Santo Officio imposte; e contravenendo ad alcuna delle mie dette promesse e giuramenti, il che Dio non voglia, mi sottometto a tutte le pene e castighi che sono da’ sacri canoni e altre costituzioni generali e particolari contro simili delinquenti imposte e promulgate. Così Dio m’aiuti e questi suoi santi Vangeli, che tocco con le proprie mani. Io Galileo Galilei sodetto ho abiurato, giurato, promesso e mi sono obligato come sopra; e in fede del vero, di mia propria mano ho sottoscritta la presente cedola di mia abiurazione e recitatala di parola in parola, in Roma, nel Convento della Minerva, questo dì 22 giugno 1633. Io Galileo Galilei ho abiurato come di sopra, mano propria”.
FONTE: https://www.amicidiroma.it/i-processi-a-giordano-bruno-e-galileo-galilei.html
L’Uno e l’individuo in Giordano Bruno
Pubblicato 17 Maggio 2021 di Massimo Piermarini
Giordano Bruno non è soltanto il filosofo-martire del Rinascimento italiano1 secondo la celebre definizione di Giovanni Gentile. In realtà Giordano Bruno supera i tempi e le epoche storiche e assume nella storia della filosofia, la funzione di un paradigma dell’essere filosofo, della missione del filosofo.
Rilette a distanza di tempo i Dialoghi italiani e il Candelaio appaiono come opere in cui la sovrabbondanza e il turgore barocco della prosa esprime un’inarrestabile Pulsione Desiderante e la maestria di chi conosce dall’interno il Gioco degli elementi e le strutture su cui poggia il divenire del mondo.
Molto interessante per comprendere la concezione del mondo, del tempo e degli eventi di Giordano Bruno è la Dedica del Candelaio “Alla signora Morgana” nel quale l’autore fa questa dichiarazione, che è anche la sua professione di fede filosofica:
“Il tempo tutto toglier tutto dà: ogni cosa si muta, nulla s’annichila; è un solo che non può mutarsi, un solo è eterno, e può perseverare eternamente uno, simile e medesmo”2.
Vi si ritrova il motivo antico, lucreziano de nihilo nihil fit certamente ma soprattutto una nuova concezione del tempo, che smentisce la concezione lineare e l’irreversibilità del tempo come divenire inafferrabile che tramonta nel passato. La mutazione degli enti è dal punto di vista bruniano soltanto un cambiamento di forma, di apparenza, non di natura e di essenza. La sostanza che rende possibile questa variazione e cambiamento degli enti, che però non può cambiare o mutare forma in quanto unità di tutte le forme è lo stesso Uno o l’Intelletto divino artefice, che Bruno pensa come il motore stesso del movimento e della vita dell’Universo infinito, la sostanza che ne fonda l’esistenza.
Non è un caso che, fedele a questo motivo neoplatonico dell’Uno inteso come fabbro del mondo Bruno abbia eletto quale motto della sua filosofia il celebre detto dell’Ecclesiaste (Qohelet) biblico: “nihil sub sole novum”. In effetti in una molteplicità che è animata e ridotta al Divino Intelletto che la plasma dall’interno non possono darsi né creazione né cambiamenti qualitativi di essenza.
Il che significa che il manifestarsi di Dio, che è la stessa esplicazione ed espressione dell’essenza divina, costituisce il passaggio da un’unità assoluta ad una diffusione-moltiplicazione nella quale l’essenza di Dio si presenta tutta dispiegata nella “infinita genitura” dell’universo infinito. La generazione dall’Uno esclude la creazione cristiana e il pluralismo ontologico (ivi compreso il dualismo platonico) così come la possibilità di qualsiasi aggiunta o sottrazione all’essere. In questo circolo o rivoluzione dall’Uno alla molteplicità della natura, che ascende poi di nuovo al suo principio nulla si perde e nulla si conquista. Ogni singola manifestazione, ogni increspatura alla superficie del gran mare dell’essere rimanda immediatamente al Principio che vi si dispiega. Il significato degli eventi viene meno di fronte a questa interna formazione e trasformazione (cambiamento di forme apparenti) incessante.
Sembra essere questo il senso dei versi bruniani seguenti:
“E il medesimo garbuglio
medesme tutte sorti a tutti imparte”3
Il determinismo nelle determinazioni dell’Uno nello svolgimento del suo stesso principio configura una radicale immanenza. Al tempo stesso realizza in filosofia il massimo del vitalismo nell’esaltazione della Natura come manifestazione divina.
Si è voluto vedere in questa “processione” ispirata anche alla dialettica plocliana, in cui il molteplice esce dall’Uno una ripetizione della visione neoplatonica di Plotino. La differenza tra i due continenti di pensiero non potrebbe essere più netta, in quanto la filosofia di Plotino nega l’esperienza sensibile e il divenire naturale.
In effetti la visione bruniana dell’universo, in cui ogni punto è centro di una circonferenza infinita e noi possiamo al tempo stesso affermare che è la stessa cosa volare di qua al cielo, che dal cielo qua e “non altrimenti calcamo la stella e siamo compresi dal cielo”, è quella di un movimento rappresentato, per usare la bella espressione riferita a Spinoza, “ut pictura in tabula”, vale a dire semplicemente dipinto, un’espressione fissata, cristallizzata, del movimento reale. A Bruno non interessa celebrare il divenire, ma l’energia vitale divina che lo produce e riproduce. Questa visione del cosmo ha delle conseguenze pratiche molto importanti. La contemplazione del Tutto nella sua multiforme manifestazione, retta da un unico Dio in essa immanente (“Deus in rebus”) ha per Bruno soprattutto un valore liberatorio dal timore della morte e dall’ansia suscitata dalle circostanze contingenti dell’esistenza (il caso, l’imprevisto, il timore della giustizia sovrannaturale), perché in questa immagine del cosmo nulla realmente muta in essenza e nessun frammento dell’essere muore. Il cieco spavento della morte, infatti, scrive nello Spaccio
“non già …s’accoste dove l’inespugnabil muro della filosofica contemplazione vera circonda, dove la quiete de la vita sta fortificata e posta in alto, dove è aperta la verità, dov’è chiara la necessitade de l’eternità d’ogni sostanza; dove non si dee temere altro che d’esser spogliato dell’umana perfezzione e giustizia che consiste nella conformità de la natura superiore e non errante”4
L’impegno del Nolano è teso alla liberazione degli uomini dal timore e dall’ansietà per le cose future e per le cose ultime. Fa appello al Logos cosmologico greco e conferisce una forte connotazione stoicheggiante ad una filosofia che, come quella platonica e neoplatonica, vuole riformare, e per questa via liberare, l’intero uomo e non semplicemente coltivare la mente e la conoscenza dell’intelletto. Si tratta di altrettante linee portanti della rivoluzione filosofica bruniana che, dietro l’aspetto di una riflessione cosmologica anti-aristotelica in una dichiarata difesa delle ragioni del copernicanesimo, nient’affatto evidenti al suo tempo, si lancia alla conquista dell’universo grazie all’energia sorgiva dell’eros filosofico. Scrive in una delle opere latine:
“Alla mente che ha ispirato il mio cuore con arditezza d’immaginazione piacque dotarmi le spalle di ali e condurre il mio cuore verso una meta stabilita da un ordine eccelso….Così, io sorgo impavido a solcare con l’ali l’immensità dello spazio, senza che il pregiudizio mi faccia arrestare contro le sfere celesti […] mentre mi sollevo da questo mondo verso altri modi lucenti e percorro da ogni parte l’etereo spazio, lascio dietro le spalle, lontano, lo stupore degli attoniti”5.
Questo eros filosofico od eroico furore, che consente di fendere i cieli aristotelici ed ergersi all’infinito, guidati dalla mens (intelletto) che secondo la tradizione ermetica accolta dal Bruno, sola può aprirci la strada alla comprensione dell’immensità dell’infinito. Questa ascensione in direzione dell’Uno di natura contemplativa guadagna la sua mèta attraverso una gradualità di tappe che procedono dal senso, l’organo della conoscenza del limitato e del finito, alla conoscenza riflessa e rendono possibile l’approssimazione all’Uno sino alla completa fusione con esso. La simmetria è perfetta. Il descensus dall’Uno produce le cose, l’ascensus è teso alla cognizione di esse nell’Uno e per l’Uno. Entrambi i processi coincidono e costituiscono un medesimo carattere in cui la realtà si afferma.
Rispetto allo schema plotiniano Bruno sottolinea il valore dell’individualità, in modo tale che, come è stato giustamente osservato “la gradualità dell’ascesa è nel Bruno plotiniana e insieme fondata sull’intuizione del valore reale dell’io, posto, insieme, come negatività dell’Uno”6
Particolarmente nell’opera De umbris idearum Bruno si preoccupa di mettere a punto la sua teoria della conoscenza, in modo tale che il principio ontologico dell’Uno, comune al neoplatonismo, divenga il principio dell’affermazione individuata manifestata variamente dallo spirito umano, in fondo alla quale, immanentisticamente, esso si costituisce come unità, realizzando la sintesi mediatrice di immediato sensibile e di mediazione intellettiva, di molteplicità e di unità.
Nel Sigillus sigillorum, opera di mnemotecnica e di gnoseologia pubblicata in Inghilterra nel 1583, Bruno accentua ancor più l’immanenza dei gradi superiori dell’ascensus contemplativo in quelli inferiori. Essi sono il senso, che verte intorno ai corpi, l’immaginazione che si occupa delle immagini dei corpi o simulacri, la ragione, che si occupa delle specie intelligibili dei simulacri e l’intelletto che concerne l’Uno, inteso come la natura comune delle singole specie sensibili.
Sollevandosi dalla molteplicità del piano sensibile all’unità dell’intelletto si realizza una graduale e progressiva identificazione del soggetto conoscente con l’oggetto conosciuto. A queste quattro distinzioni di gradi Bruno aggiunge una molteplicità di sotto-gradazioni che tendono ad accentuare l’immanenza dei gradi superiori negli inferiori e l’immanenza dell’atto intellettuale, o Uno, via via nei gradi inferiori dell’essere, Così ogni forma di luce rinvia ad un’unica fonte, che è anche la vita che vivifica tutte le cose. Leggiamo nel Sigillo dei sigilli:
“Una sola luce illumina tutte le cose, una sola vita vivifica tutte le cose discendendo secondo determinati gradi dalle superiori alle inferiori ed ascendendo dalle inferiori alle superiori; e come è nell’universo, così è anche nei simulacri dell’universo. E a quanti ascendono più in alto non solo sarà manifesto che una sola è la vita di tutte le cose, una sola la luce in tutte le cose, una sola la bontà, e che tutti i sensi sono un solo senso, tutte le nozioni una sola nozione, ma anche che tutte le cose, come pure cognizione, senso, luce e vita sono in ultimo una sola essenza, una sola virtù e una sola operazione.”7
Risulta problematico affermare che la metafisica e la gnoseologia bruniane dipendano teoreticamente dal neoplatonismo di Plotino8. Si è visto, al contrario, che il maggior risultato della speculazione bruniana consiste nella conquista della tesi dell’immanenza del soggetto individuato e dell’Uno provvidenziale. Grazie all’esaltazione dell’attività dell’individualità, tratto tipicamente rinascimentale, il suo pensiero acquista caratteri squisitamente moderni. Per un verso l’iniziativa umana e l’attività creatrice dell’individuo potrebbe far pensare alla teoria vichiana degli uomini artefici della storia. Ma l’orizzonte di Bruno è rivolto ai grandi cicli naturali e alle rivoluzioni astronomiche, alle leggi eterne che governano il movimento della natura. La sua concezione dell’immanenza è, in senso profondo, naturalistica. Divinizza la natura ed esalta le forze che operano in essa, nelle quali soltanto la magia naturale può intervenire. L’uomo rappresenta soltanto l’eccellenza di questa divinità della natura, il cui impeto è “eroico furore” e amore della verità. Il principio generante alla base dell’universo è l’Intelletto, che è intrinseco alla natura stessa. Ne Dialogo quinto del De la causa, principio e uno Bruno definisce in maniera chiara il suo immanentismo o meglio mette a punto una introduzione alla nuova fisica copernicana e alla nuova concezione dell’universo con la morale eroica ad essa connessa. Il dialogo opera una revisione critica di tutti i concetti e termini della filosofia scolastica aristotelica, rinnovandone radicalmente il significato, particolarmente introducendo un rovesciamento del rapporto tra potenza e atto, materia e forma, all’interno di una visione cusaniana dell’universo infinito. La potenzialità allora non è più una privazione o una diminuzione, ma la costruzione “geometrica” e dinamica dei corpi viventi.
“E’ necessario dunque che il punto ne l’infinito non differisca dal corpo, perché il punto, scorrendo da l’esser punto, si fa linea: scorrendo da l’esser linea, si fa superficie; scorrendo da l’esser superficie, si fa corpo: il punto dunque, perché è in potenza ad esser corpo, non differisce dall’esser corpo, dove la potenza e l’atto è una medesima cosa”9
Viene distinto il principio che concorre alla costituzione della cosa e rimane in essa, dalla causa che agisce esteriormente e resta fuori della composizione della cosa. L’Intelletto divino rappresenta in questo senso il principio di tutte le cose, in quanto artefice e fabbro del mondo e motore del movimento degli esseri. È la più alta facoltà dell’anima del mondo e riempie, per così dire, la sfera del vivente:
“”L’Intelletto universale è l’intima, più reale e propria facultà e parte potenziale de l’anima del mondo. Questo è uno medesmo che empie il tutto, illumina l’universo ed indrizza la natura a produrre le sue specie come si conviene; e cossì ha rispetto alla produzione di cose naturali, come il nostro intelletto alla congrua produzione di specie razionali”10
Questa visione di Dio nelle cose stesse Bruno la ritrova nella Mens che “agitat molem” del libro VI dell’Eneide virgiliana11. Ma essa presenta, oltre il richiamo all’Uno di Plotino, una forte impronta stoicheggiante, in quanto Dio è l’artefice interno e il principio razionale attivo, animatore del tutto, che opera “tutto in tutto”12. Questa divinità, come quella dello stoico Cleante “empie tutte le cose, inabita tutte le parti dell’universo, è centro da ciò che ha l’essere, uno in tutto e per cui uno è tutto”13.
Note con rimando automatico al testo
1 Cfr. G. Gentile, “Giordano Bruno nella storia della cultura” in Id., Giordano Bruno e il pensiero del Rinascimento, Vallecchi, Firenze, 1920. Per Gentile Bruno è “la conchiusione logica di tutto il Rinascimento” che “accogliendo la nuova dottrina copernicana, sconvolge l’intuizione cosmologica, che la terra dell’uomo contrapponeva ai cieli di Dio in un sistema chiudo di rapporti finiti” (ivi, p. 52)
2 G. Bruno, Il candelaio, Rizzoli, Milano, 1976, pp. 220-1.
3 G. Bruno, De l’infinito universo e mondi, Mondadori, in Id., Dialoghi filosofici italiani, Mondadori, Milano, 2000, p. 376.
4 G. Bruno, Spaccio della bestia trionfante, cit. in Id., op.cit, ed. cit., p.655.
5 G. Bruno, De immenso ed innumerabilibus, seu de universo et mundis, trad. ital., Utet, Torino, 1980, p.417-8.
6 G. Galli, La vita e il pensiero di G. Bruno, Marzorati, Milano, 1973, p. 107.
7 G. Bruno,Il sigillo dei sigilli, in Id., Le ombre delle idee, Il canto di Circe, Il sigillo dei sigilli, Rizzoli, Milano 2013, ed, digitale, par. 34.
8Contra l’attualista di sinistra Giuseppe Saitta, nel suo Il pensiero italiano nell’Umanesimo e nel Rinascimento, Firenze, Sansoni, 1961, vol. III, p. 109, il quale sostiene che Bruno non si sia liberato dalla soluzione plotiniana del problema conoscitivo “anzi neppure della tradizione peripatetico-scolastica”.
9 G. Bruno, De la causa, principio e uno, Mursia, Milano, 1985, Dialogo quinto, p.215.
10 G. Bruno, De la causa, principio e uno, op.cit., ed. cit., p.94.
11 G. Bruno, cit., p.95.
12 G. Bruno, cit., ibidem.
13 G. Bruno, op.cit., p.215.
FONTE: https://www.azioniparallele.it/30-eventi/atti,-contributi/409-l%E2%80%99uno-e-l%E2%80%99individuo-in-giordano-bruno.html
Giordano Bruno: da solo, per cambiare il mondo
(Alberto Restivo)
A Campo dei Fiori tutti ne parlano bene, tutti gli vogliono bene, lo rispettano, lo considerano un eroe, un personaggio speciale, sia pure ribelle, un contestatore, un difensore della verità, come si dice oggi.
Ma se chiedi loro chi è, che cosa sanno di lui, scende fitta la nebbia. Così è il popolo di Campo de’ Fiori (dal nome dell’amante di Pompeo Magno, Flora, che abitava nei pressi)
Girando con il piccolo registratore tascabile per la piazza gremita di gente, in una mattinata assolata abbiamo potuto raccogliere tanti esempi.
Risponde un giovanotto F.C., nato e cresciuto a Campo dei Fiori: “Nessuno dice mai perché ‘sto posto se chiama Campo de Fiori. Prima era un campo di terra e basta, dopo che hanno bruciato Giordano Bruno so’ spuntati li fiori. Un altro giovane risponde: “Io so’ solo che Bruno era una cosa seria… tanto seria che gli hanno dato foco!”. Un venditore di frutta, da tempo sempre presente nello storico mercato, mi dice: “Era un frate, l’hanno bruciato vivo i preti perché pensavano che era uno stregone. Invece diceva sempre la verità… che verità? Non lo so, però so che… faceva del bene a tutti!”. Un’altra, venditrice di uova, che sembra saperla più lunga, si fa sotto e dice: “Era un filosofo che contestava i preti, gli diceva che le cose che facevano non andavano bene. E quelli… l’hanno abbruciato!” (non si riporta la vera finale della risposta).
S.C., altro figlio di Campo dei Fiori, la butta in politica: “Da buon socialista quale era dava fastidio a tutti specialmente alla Chiesa. Era il principe del libero pensiero…”, e l’amico che gli era vicino con in mano una treccia d’agli e cipolle, rincara: “Era un ribelle. E dove è la statua, è stato sempre un punto di ritrovo di contestatori e piantagrane” (Forse un anarchico?…)
Girando per la piazza e le strade limitrofe, ti senti ancora rispondere che era “un grande”, ma non l’hanno veramente capito… lo pensavano come un pazzo furioso, oppure un martire innocente, però tutti (fruttivendoli, pescivendoli, trattori, baristi ecc.) lo considerano come uno dalla loro parte, cioè dalla parte del popolo e della verità. E giungiamo al pensiero di un idraulico, che arriva a dire che quel frate è come fosse il loro patrono, il loro santo protettore, un amico, un vero amico che non tradisce le aspettative…! Sta di fatto che la verità vera è che attraverso i secoli, Giordano Bruno è diventato un Mito.
Ma vorremmo dire qualcosa di più in questo spazio tiranno e intransigente, e per soddisfare questa giusta esigenza, non possiamo non estendere la ricerca e le nostre riflessioni sulla persona di Giordano Bruno e sui tempi in cui visse.
Giordano Bruno e il suo tempo
Con Giordano Bruno siamo in pieno Rinascimento, epoca di rinnovamento radicale della letteratura, dell’arte, della filosofia, della scienza, in Italia e in Europa. Ma Rinascimento va inteso anche e soprattutto come Rinascita dell’uomo nel mondo, nel senso che l’uomo, emergendo dal buio del Medioevo, si ricostituisce come parte del mondo, distinguendosi però da esso per affermare la propria personalità e per servirsi della propria posizione privilegiata per fare del mondo stesso il suo regno. Conseguentemente, l’indagine della natura comincia ad apparire come strumento indispensabile per la realizzazione dei fini umani nel mondo: l’uomo si rende conto cioè che può desumere solo da essa i mezzi per la sua realizzazione.
Gli studi e le speculazioni mistico filosofiche di Bernardino Telesio (Cosenza 1509-1588), Tommaso Campanella (Stilo di Reggio Cal. 1568-1639) e Giordano Bruno di Nola (1548-1600), permettono l’affermazione nel pensiero europeo di quella visione rigorosamente naturalistica che segnò il passaggio dalla filosofia antica e medievale alla filosofia moderna.
Nelle scienze, le ipotesi di Copernico, le leggi sul movimento dei pianeti di Keplero ed infine le osservazioni astronomiche di Galileo, portano il pensiero scientifico alla scoperta di nuove realtà con conseguenze rilevanti sul piano della concezione del mondo.
Infatti, le persecuzioni, i processi, le condanne contro T. Campanella, Galileo, G. Bruno, sebbene trovassero una spiegazione nel clima di odi e sospetti instaurato dalle lotte di religione in Europa e sebbene avessero risvolti politici contingenti, essendo le idee sostenute da questi autori viste come minaccia all’autorità morale ed alla forza della Chiesa e dello Stato, scaturivano pur sempre da un giudizio ideale e da principi filosofici che non potevano essere sottovalutati.
Intendiamo dire cioè che la validità di una affermazione ed il suo grado di verità venivano confrontati con il patrimonio di conoscenze accettato come valido e vero da tutti in quanto avvalorato dalla scienza degli antichi: si trattava cioè di stabilire una rispondenza tra le nuove idee e quelle già consolidate (ovvero una non rispondenza nel caso di condanna).
In tale situazione, la posizione dell’uomo nel mondo, costruita sulla base dell’insegnamento della Chiesa, finiva per essere esposta a pesanti rischi e poteva risentirne anche sul piano materiale e fisico.
L’autorità ecclesiastica finì per dichiarare incompatibili con la fede cattolica le teorie che tentavano di scardinare i principi che avevano costituito per secoli le basi della religione cattolica, condannando tutti i libri che le sostenevano (a partire dalla teoria copernicana) e fino a proibirne l’insegnamento.
Ma Giordano Bruno, in perenne contrasto con quelle autorità, infiammato dalla visione della natura a cui era pervenuto interpretando e portando alle estreme conseguenze la teoria di Copernico, dedusse non solo l’infinità del mondo, ma anche l’esistenza di Dio come anima universale del mondo stesso e le necessità di emanciparsi dalla tradizione ecclesiastica per raggiungere la verità. In tale “panteismo” (o presenza di Dio in ogni piccola parte del cosmo) l’uomo deve agire con “eroico furore”, né può rimanere in una posizione statica, ma deve operare per superarsi e raggiungere fini sempre più elevati.
“Le sue idee, dice Michele Ciliberto, profondo conoscitore di Giordano Bruno e fecondo saggista sul tema, erano profondamente eversive. Più che eretico, egli è fuori della tradizione cattolica, pensatore più anticristiano di tutto il 500”.
Tutti gli scritti di Giordano Bruno presentano una nota comune: l’amore per la vita nella sua infinita espansione. Questo amore gli rese insopportabile il chiostro (prigione angusta e nera) ed alimentò un odio inestinguibile verso tutti i pedanti, i grammatici, gli accademici incontrati durante le sue peregrinazioni in Europa, che facevano della cultura una pura esercitazione, distogliendo lo sguardo dalla natura e dalla vita.
Dall’amore per la vita, nasce il suo interesse per la natura che si esaltò in un impeto lirico e religioso, trovando spesso espressione nella poesia. Egli considerò la natura viva ed animata e fissò il nucleo del suo pensiero filosofico in questo proiettare la vita nell’infinità dell’universo. Egli accetta la religione, ma la riconosce come sistema di credenze utile solo per l’istruzione di popoli rozzi che devono essere governati, ma le rifiuta qualsiasi altro valore. La considera cioè un insieme di superstizioni, direttamente contrarie alla natura e alla ragione.
Vita e personalità di Giordano Bruno.
Giordano Bruno nacque a Nola nel 1548. A 15 anni entrò nel chiostro domenicano di Napoli, dove, per le sue eccezionali qualità di ingegno e di memoria, crebbe come un ragazzo prodigio. Ma, già a 18 anni i primi dubbi sulle verità della religione cristiana lo posero in urto con l’ambiente ecclesiastico e alcuni anni dopo (1576) fu costretto a ritirarsi prima a Ginevra, poi a Tolosa e Parigi dove pubblicò la sua commedia “Il Candelaio” ed il suo primo scritto filosofico “Le Ombre e le Idee”, dedicato al Re Enrico III, che ebbe per lui una straordinaria ammirazione e sostegno nella disputa contro i sapienti del regno.
Qui ebbe i primi successi come maestro dell’arte “lulliana” della memoria (da Lullo Raimondo, filosofo, teologo, missionario catalano, 1235-1315), dando dimostrazioni strabilianti delle sue capacità mnemoniche, superando nelle dispute i suoi avversari, rispondendo altresì in modo sorprendente a quesiti, da questi propostigli sul contenuto di un libro sconosciuto al filosofo ed appena sfogliato in quella circostanza.
Nel 1583, da Parigi passò in Inghilterra dove colse altri successi e consensi insegnando ad Oxford ed intrecciando una relazione con la Corte della regina Elisabetta. Ritornato a Parigi, da dove fu costretto ad andare via per l’ostilità degli ambienti aristotelici, e trasferitosi in Germania dove riprese gli insegnamenti e terminò la stesura di alcuni poemi latini, accogliendo l’invito del patrizio veneziano Giovanni Mocenigo, si trasferì a Venezia credendosi al sicuro sotto la protezione della repubblica. Il 23 maggio 1592, su denuncia del Mocenigo, il filosofo fu arrestato e rinchiuso in carcere sotto l’accusa di aver negato l’Incarnazione, la Trinità e la Transustanziazione (Conversione del pane e del vino nel Corpo e sangue di Cristo durante la Messa), messo in dubbio i miracoli di Gesù e degli Apostoli, dileggiato i frati, deriso la religione e proposto di sostituirla con la filosofia. Gli fu rimproverato persino di essere dedito alla lussuria. Le udienze iniziarono il 26 maggio e l’imputato dovette subire minuziosi ed estenuanti interrogatori per molte settimane. Si difese con abilità facendo una sottile distinzione fra il credente che accetta senza discutere le verità rivelate ed il filosofo che le sottopone al vaglio critico della ragione. Riconobbe di aver dubitato che la prima persona della Trinità fosse distinta dalla seconda e dalla terza, discolpandosi di non averlo mai messo per iscritto. Nel settembre, fu trasferito nelle mani del Sant’Uffizio a Roma, ove rimase in carcere per sette anni, rifiutando i ripetuti inviti a ritrattare. Fra gli inquisitori, spiccò il gelido e ascetico Cardinale Bellarmino, supervisore nella vicenda, agli ordini di Papa Clemente VII che ebbe a rimproverargli che “ben diciassette interrogatori e cinque ore di torture non erano serviti a far abiurare l’ex religioso protervo e segaligno”.
Anzi, sembra che lo stesso Clemente VII abbia mal sopportato questa “grana” capitatagli fra le mani appena dopo essere stato eletto Papa ed anzi, sollevò un serio dubbio sulla conclamata ereticità di Giordano Bruno, tanto che sentite le accuse contro di lui e le loro motivazioni e spiegazioni fornite dal Cardinale Bellarmino, sembra che si sia espresso così: “Caro Bellarmino, ma allora se queste sono le idee di Bruno, è eretico anche Santo frate Francesco e tutto il suo ordine…!”. Fatto sta che dopo un processo durato sette anni, l’imputato non si piegò, pur dopo aver subito ogni sorta di sevizie e il 17 febbraio 1600 veniva arso vivo in Campo de’ Fiori, senza essersi riconciliato con il Crocefisso, dal quale, si dice, negli ultimi istanti distolse lo sguardo.
Persino l’Europa protestante inorridì per l’esecuzione, pur non essendo anch’essa avara di roghi…, Giordano Bruno mancò sicuramente al re di Francia Enrico III, alla regina Elisabetta d’Inghilterra, agli allievi di Oxford e di Germania e a numerosi studiosi del suo pensiero in Italia.
Il monumento in Campo de’ Fiori.
Nella Roma di Francesco Crispi, siciliano, ex garibaldino iniziò una ardente campagna per l’erezione della statua a Campo de’ Fiori, (già nel 1876 un Comitato studentesco per il monumento al martire del libero pensiero, raccolse contributi prestigiosi), a cui risposero le proteste ufficiali del Papa che infiammarono la polemica fra “bruniani” e “antibruniani”, costringendo la Giunta capitolina ad opporsi alla concessione dell’area. Ma la mobilitazione pubblica fu talmente forte e decisa che le forze liberali in Comune ottennero, nel 1888, la maggioranza. Tra gli eletti, vi era Ettore Ferrari (1846-1929) ottimo scultore, che aveva già pronta la forma in gesso della statua. Il monumento fu inaugurato il 9 giugno 1889 con il concorso di una immensa folla plaudente, a cui, si dice, rispose anatema da oltre Tevere.
Ai giorni nostri, anche se la Chiesa non può in alcun modo approvare la confusione di idee negatrici di ogni divinità e di ogni religione, del tutto estranee alla essenza stessa del Cristianesimo, sono stati fatti significativi passi avanti per chiedere scuse per la morte di esseri umani uccisi in nome di Dio, da uomini che pensavano di difendere i diritti della fede e della Chiesa.
L’esimio saggista Michele Ciliberto ricorda ciò che un grande eretico, Sebastiano Castellione (1), disse a Calvino che aveva condannato a morte Servito (2): “Uccidere un uomo vuol dire uccidere un uomo, non una dottrina”.
Dice sempre il Ciliberto: “Se non ci fosse stato il rogo di Campo de’ Fiori, così come se non ci fosse stata l’abiura di Galileo, la storia della Chiesa sarebbe stata diversa e non ci sarebbe ora necessità di purificazione della memoria”.
E oggi (18 febbraio 2002), Giovanni Paolo II, per il tramite del Cardinale Sodano, suo Segretario di Stato, esprime profondo rammarico “per quel rogo e per tutti gli analoghi casi”. Un passo della lettera inviata al Preside della Facoltà teologica di Napoli, don Bruno Forte, dice: “il cammino del suo pensiero lo condusse a scelte intellettuali che si rivelarono incompatibili con la dottrina cristiana”. “Mea culpa” per quel rogo, l’eresia c’era, ma il modo di fermarla era anti evangelico”.
Giordano Bruno seppe morire su quel rogo che oltre ad attribuire i connotati di aguzzino a chi lo inflisse, chiude il ‘500 ed apre il ‘600, illuminando con una luce più pertinente lo squallido paesaggio dell’Italia della Controriforma: “un prete e un gendarme intenti ad arrostire un ribelle privo anche del conforto di una causa a cui intestare il proprio sacrificio…!”.
Note:
(1) Castellion Sebastien (Bugey 1515- Basilea 1563): razionalista dogmatico in contrasto con Calvino, lottò per la tolleranza religiosa.
(2) Miguel Servet (Vilanova de Sirena – Aragona 1511 – Ginevra 1553): studioso di diritto, filosofia e patristica, scrisse “Christianismi restitutio” opera di teologia, di scienza e filosofia. Fu denunciato come eretico ostinato da Calvino.
FONTE: https://www.controluce.it/notizie-old-html/giornali/a13n02/19-storia-giordanobruno.htm
17 febbraio. Nel nome di Giordano Bruno, campione di libertà
Il 17 febbraio è una data importante per chi è incessantemente impegnato a combattere in ogni momento gli integralismi, l’imposizione di dogmi e di copyright divini, il prevalere del pensiero unico, i tentativi di ridurre a soggezione individuale e sociale gli essere umani. Una data che si identifica con Giordano Bruno, che il 17 febbraio del 1600 venne messo sul rogo per eresia a Roma in piazza Campo dè Fiori, ma una data che celebra anche la conquista dei diritti civili da parte dei valdesi – e successivamente degli ebrei – con l’emanazione nel 1848 delle Regiae Patenti di Carlo Alberto.
Ricorrenze entrambe da sempre care alla Massoneria. Il pensiero va al filosofo nolano e ai falò della Val di Pellice che ogni anno in questo giorno vengono gioiosamente accesi in ricordo appunto della fine per la piccola comunità valdese di secoli di persecuzioni .
15 Febbraio 2023
IL SACRIFICIO DI GIORDANO BRUNO CI RICORDA DI ANTEPORRE LA RAGIONE ALLE CONVINZIONI INFONDATE
DI MANUEL SANTANGELO 12 OTTOBRE 2020
A Roma, James Joyce visse non lontano da dove, il 17 febbraio del 1600, Giordano Bruno venne arso vivo per ordine del tribunale della Santa Inquisizione e disseminò l’Ulisse di riferimenti su questo personaggio rivoluzionario. In uno dei momenti più onirici del libro, Leopold Bloom rischia la sua stessa fine perché ha promesso in modo simile: “Mondi nuovi per rimpiazzare i vecchi. L’unione di tutti, ebrei, musulmani e gentili… Un’amnistia generale… libero amore e una chiesa libera e laica in uno stato libero e laico”.
Il poeta Trilussa, che della capitale era figlio e in qualche modo portavoce, secoli dopo riassunse la storia e l’importanza del filosofo in pochi versi di un componimento a lui dedicato: “Fece la fine de l’abbacchio ar forno perché credeva ar libbero pensiero, perché se un prete je diceva: – È vero – lui rispondeva: – Nun è vero un corno”. La libertà di poter avere un’opinione controcorrente e di contraddire il punto di vista dei potenti fu quella per cui Giordano Bruno si batté e morì perché per lui valeva “più di tutte le altre”.
Era inevitabile che questa voglia di esprimere il proprio pensiero senza dover rispettare poteri e fare attenzione a obblighi formali e certezze considerate inscalfibili lo portasse a diventare nemico della Chiesa di allora. Come emerge dalla prefazione agli Articuli adversus mathematicos, per Bruno non avevano senso “i dogmi, le cerimonie o le sottigliezze teologiche”: dal suo punto di vista, per far funzionare tutto in armonia sarebbe stato bastato non fare agli altri ciò che non volessimo fosse fatto a noi, evitando sempre di porsi in una posizione di superiorità. Il mondo in cui auspicava di vivere Giordano Bruno era un universo infinito e senza confini in cui si realizzava la coincidentia oppositorum – teorizzata da Niccolò Cusano, un altro grande pensatore, teologo, astronomo e matematico – e in cui nessuna differenza (neanche di pensiero) veniva censurata o stigmatizzata. Nel De gli eroici furori, Bruno chiariva come tale armonia si realizzasse non “dove un essere vuol assorbire tutto l’essere, ma dove c’è ordine e analogia di cose diverse, dove ogni cosa serve la sua natura”.
Secondo Bruno per vivere in armonia è necessario incoraggiare le diversità e sospettare di chi vuole imporre un solo punto di vista sulle cose: il pensiero unico e la tendenza a omologarsi erano di fatto i grandi nemici della sua idea di libertà e giustizia. “È stoltissimo credere per abitudine, è assurdo prendere per buona una tesi perché un gran numero di persone la giudica vera”, ricorda denunciando i pericoli di un mondo che, al pari di quello di oggi, restava per comodità arroccato sulle stesse posizioni comuni. In questo senso, va ricordato che il cristianesimo di cui aveva paura Giordano Bruno era quello che, attraverso i dogmi, il suo potere secolare e l’influenza che aveva sulla scienza, assoggettava l’uomo e gli imponeva cieca obbedienza e sottomissione. Un tipo di religione simile impone all’umanità di trasformarsi in un gregge inerte, che non si cura delle cose del mondo o, peggio, ha timore di quello stesso mondo e per questo non fa nulla di concreto per cambiarlo, nella speranza di guadagnarsi attraverso la propria immobilità un paradiso che gli viene promesso dal sistema: l’unico destino possibile per le persone d’allora era d’altronde quello di perdersi nell’estasi della contemplazione di Dio, e di non dare fastidio con scoperte che avrebbero rivoluzionato la concezione della natura, dell’universo e di Dio.
Giordano Bruno
Se sfruttata come strumento per uniformare le masse allo stesso modo di pensare e scoraggiarle al cambiamento e all’azione diretta, la religione finisce per alimentare la spinta a conformarsi e porta a gravi danni tra cui l’abitudine comune a considerarsi come soggetti passivi e impossibilitati ad agire sulla realtà. In realtà, ci dice il filosofo, anche le grandi trasformazioni politiche e sociali non vanno attese come se fossero da attribuire sempre e solo a cause indipendenti dalla nostra volontà: qualunque evoluzione rimane il frutto di cambiamenti che nascono dal lavoro di uomini in grado di operare insieme guidati da un’idea comune. Chi parla dell’esistenza di una ragione superiore per cui accadrebbero le cose sposa questa convinzione solo per proprio vantaggio, o perché non desidera assumersi le proprie responsabilità. È questa stessa pigrizia d’altronde che spinge molti a “cattivare l’intelletto a colui che gli monta sopra et, a sua bella posta, l’addirizza e guida”, rinunciando così alla propria emancipazione come individui in cambio dell’effimera sicurezza garantita dall’affidarsi a chi gestisce già il potere.
Una tale rassegnazione va evitata per non rischiare di finire in uno stato di perenne immaturità che ci impedisca di pensare autonomamente, senza bisogno di qualcuno che decida per noi. L’essere umano deve credere nella sua possibilità di autodeterminarsi e non può accontentarsi di essere come coloro “che nel corpo han la catena che le stringe […] ne la mente il letargo che uccide”. Nel De immenso et innumerabilibus, Bruno scrive che l’uomo non deve avere paura di emanciparsi perché “le ali della sua libertà” non sono fatte di cera come quelle di Icaro ma, al contrario, sono costruite da ragione e da intelligenza. La libertà di agire dell’uomo può modificare il corso degli eventi. Per questo, prenderne coscienza è il primo passo per uscire dalla sudditanza nei confronti di chi mantiene il potere con la paura.
Nello Spaccio della bestia trionfante, Bruno avanza l’ipotesi modernissima che l’affermazione della dignità di ognuno passi per forza attraverso il riconoscimento dei suoi diritti sociali e l’annientamento di un sistema che garantisce la gestione del potere nelle mani di pochi. Per il filosofo, è fondamentale vengano garantite a chiunque le stesse possibilità di realizzazione personale: “Non è possibile che tutti abbiano una sorte; ma è possibile ch’a tutti sia ugualmente offerta”. Se ciò non accade la colpa è dei padroni, contro cui Giordano Bruno si scaglia rivolgendocisi direttamente: “Non fate tutti equali e avete gli occhi delle comparazioni, distinzioni, imparitadi ed ordini, con gli quali apprendete e fate differenze. Da voi, da voi, dico, proviene ogni inegualità, ogni iniquitade”.
Per cambiare le cose è fondamentale che il filosofo, inteso come chi cerca di comprendere e fare un passo avanti, non abbia paura di scardinare questo sistema ingiusto impegnandosi a rivestire in prima persona un ruolo nella sfera politica e sociale. Ciò non significa che il filosofo debba governare ma che faccia almeno il possibile affinché chi venga scelto in propria rappresentanza non sia un approfittatore o un furfante. Il fine ultimo di ogni legge e iniziativa politica deve essere in fondo sempre lo stesso: il raggiungimento della convivenza civile, che chiama “l’ottimo fine”. In questo senso quindi “Nessuna legge che non è ordinata alla prattica del convitto umano, deve essere accettata. Non deve esser approvata, né accettata quella istituzione o legge che non apporta la utilità e commodità, che ne amena ad ottimo fine”.
Il filosofo che cerca di conoscere e comprendere per poter crescere, anche attraverso l’impegno politico, non va confuso con quegli intellettuali che si trasformano in “servili pedanti” e che assecondano per comodità il pensiero unico dei padroni. A questi, Bruno dà esplicitamente la responsabilità della decadenza della cultura: “La sapienza e la giustizia iniziarono a lasciare la terra dal momento che i dotti, organizzati in consorterie, cominciarono ad usare il loro sapere a scopo di guadagno. Da questo ne derivò che… gli Stati, i regni e gli imperi sono sconvolti, rovinati, banditi assieme ai saggi… e ai popoli”. Gli uomini di cultura che si accontentano di stare nel sistema, pur sapendo che esso è sbagliato e andrebbe combattuto sono “la follia del mondo, la vanesia negazione del buon senso e della razionalità, con la loro riproposizione asinina dell’accumulo del già definito (magari eterno e rivelato), tanto funzionale al potere dominante a cui si vendono”. È facile trovare menti disposte ad abiurare per convenienza alle proprie convinzioni, “vanno a buon mercato come le sardelle”, scrive Bruno. Ma alla loro pigrizia e apatia, tanto intellettuale quanto morale, il Nolano contrappone il coraggio di pensare, di verificare e di discutere il frutto delle proprie riflessioni.
Giordano Bruno invita a non conformarsi né ad arrendersi alle storture del tempo in cui si vive: bisogna continuare a sentirsi “fastidito” da ciò che ci circonda, come lui dice di essere ne Il Candelaio . Solo questa voglia di lottare porterà al sovvertimento delle strutture di potere e all’annientamento di qualsiasi dogma. Nell’ultimo dialogo con Sagredo, il filosofo si dice però ottimista sul fatto che prima o poi questo accadrà: “Non so quando, ma so che in tanti siamo venuti in questo secolo per sviluppare arti e scienze, porre i semi della nuova cultura che fiorirà, inattesa, improvvisa, proprio quando il potere si illuderà di avere vinto”.
Come fa notare la saggista e giornalista Maria Mantello, Giordano Bruno venne mandato al rogo soprattutto “perché non voleva conformarsi e sottomettersi a Verità presupposte e assolute”. E non voleva farlo soprattutto perché sentiva di aver ragione e di essere nel giusto ma, come ricordava Voltaire facendo indirettamente riferimento anche a lui: “È pericoloso avere ragione in questioni su cui le autorità costituite hanno torto”.
Secoli dopo dobbiamo ricordare la figura di Giordano Bruno soprattutto per aver rivendicato la propria libertas philosophandi, intesa come il diritto a pensare liberamente, anche in un mondo dove questo veniva impedito in tutti i modi da un apparato di dogmi che sembravano indiscutibili, ma che in realtà servivano solo a pochi padroni per mantenere il proprio potere sul popolo, come ancora oggi accade.
FONTE: https://thevision.com/cultura/giordano-bruno/
Bruno, Giordano
Filosofo (Nola 1548 – Roma 1600). Filippo della famiglia dei Bruni, assunse il nome di Giordano entrando a 17 anni nel convento di S. Domenico a Napoli. Sospettato di eresia, riparò a Roma (1576), di qui, deposto l’abito ecclesiastico, andò peregrinando di città in città; fu a Ginevra (1579), dove per alcuni mesi abbracciò il calvinismo, a Tolosa, a Parigi (dove pubblicò nel 1582 il De umbris idearum e la commedia il Candelaio), in Inghilterra (1583-1585), dove per alcuni mesi insegnò a Oxford e pubblicò a Londra, con il finto luogo di Parigi e di Venezia, Cena de le ceneri, De la causa principio et uno, De l’infinito universo et mondi, Spaccio de la bestia trionfante (1584), De gli eroici furori (1585). Dopo un breve soggiorno a Parigi, passò nell’agosto del 1586 in Germania, e tra il 1590 e 1591 a Francoforte pubblicò i poemi latini De minimo, De monade, De immenso et innumerabilibus. Nel 1591 accogliendo l’invito di G. Mocenigo, si recò a Venezia dove, denunziato come eretico dal suo ospite, fu nel 1592 arrestato dall’Inquisizione e processato. Si dichiarò disposto a fare ammenda, ma, trasferito all’Inquisizione di Roma, e sottoposto a nuovo processo, rifiutò di ritrattarsi, onde fu come eretico condannato al rogo, che egli affrontò impavido a Roma in Campo de’ Fiori. ▭ Alla radice della filosofia bruniana può porsi l’intuizione della originaria unità e infinità del tutto, in cui l’uno-Dio, infinito in un solo atto, si riverbera e moltiplica in infinite sussistenze attraverso un processo di discesa necessario e immanente alla stessa natura divina. Sicché ovunque è visibile e quasi sensibile Dio; onde religione è il riconoscere Dio ovunque, risalire dalle forme mutevoli alla divinità, religione questa che in modo diverso sottostà – e insieme sovrasta – le religioni storiche, modi diversi di riconoscere Dio, ma anche creazioni “politiche” atte a educare le masse incolte. I temi e i termini che B. utilizza nella sua costruzione metafisica sono di tutte le scuole e tradizioni, ma profondamente originale è l’ispirazione e il “furore” che regge la sua speculazione: come pure fondamentale appare la sua trasvalutazione metafisica dell’ipotesi copernicana, da lui sentita come rottura di un universo finito per affermare l’attualità di un infinito che non è solo Dio, ma il mondo tutto come suo causato, infinito nello spazio e nel tempo in cui Dio si espande e si manifesta. In questo infinito fatto di corrispondenze e consonanze segrete il sapere assume motivi magici, onde l’esaltazione bruniana della magia che introduce nei segreti dell’universo e ci rende capaci di signoreggiarne le forze. Alla metafisica bruniana si salda la sua morale che rompe il determinismo insito nella circolarità di uno e molteplice: poiché il ritorno all’uno è iniziativa e conquista, rottura delle leggi del fato, “impeto razionale”, “eroico furore”, in cui l’atto conoscitivo è anche atto di libertà, superamento della “natura”. ▭ Anche nel campo letterario egli è tra coloro che preannunciano, nell’ultimo Cinquecento e nel primo Seicento, la letteratura più moderna. Si pone, risolutamente, in nome della libertà del poeta e dell’uomo, contro le regole letterarie esterne, ricavate ai suoi tempi dalla Poetica di Aristotele, contro le imitazioni, in particolare del Petrarca; inizia la violenta satira contro il pedante, cioè contro l’erudizione fine a sé stessa e la letteratura paga di semplici esornamenti. Rozzo, dialettale, sovente contorto e torrenziale, esprime tuttavia, spesso con rara potenza nella satira o nella esaltazione intellettuale, la sua ansia di dignità e di verità.
FONTE: https://www.treccani.it/enciclopedia/giordano-bruno/
Giordano Bruno: morte di un Filosofo al Rogo
Giordano Bruno
Giordano Bruno (Nola 1548 – Roma 17 febbraio 1600), filosofo italiano. Entrato sui diciotto anni nell’ordine domenicano (in quest’occasione cambiò l’originario nome di Filippo con quello di Giordano, che mantenne per tutta la vita), ne usci nel 1576 perché sospettato di eresia: cominciò così una vita errabonda attraverso l’Europa che continuò fino alla morte. A Ginevra ebbe un’effimera conversione al calvinismo, ma ben presto, entrato in attrito con le autori la locali, scappò in Francia, a Tolosa e a Parigi. Qui Giordano Bruno pubblicò le sue prime opere di mnemotecnica, ispirate alle dottrine di Lullo (De umbris idearum, Cantus circaeus, Sigillus sigillorum e la commedia in lingua italiana Il candelaio). Da Parigi passò in Inghilterra al seguito dell’ambasciatore francese: fu a Oxford e a Londra, dove pubblicò i suoi dialoghi italiani: La cena de le ceneri, De lo causa principio e uno, De l’infinito, universo e mondi, Spaccio de la bestia trionfante (tutti del 1584); Cabala del cavallo pegaseo con l’aggiunta dell’asino cillenico, De gli eroici furori (1585). Tornato a Parigi, dovette ben presto lasciare la città per un suo attacco pubblico contro i peripatetici. Fu allora a Wittenberg, Praga, Helmstaedt e Francoforte, dove stampò la trilogia dei poemi latini, De minimo, De monade (1590), De immenso et innumerabilibus (1591), e l’ampia opera De imaginum compositione. Dopo un soggiorno a Zurigo rientrò in Italia, chiamato a Venezia dal patrizio Mocenigo, che desiderava istruirsi nella mnemotecnica e nelle arti magiche. Il Mocenigo però, insoddisfatto del suo insegnamento, lo denunciò per eresia all’Inquisizione. Il Sant’Uffizio ottenne poi il suo trasferimento a Roma, dove Giordano Bruno rimase in carcere otto anni. Lungamente e più volte interrogato, rifiutò di ritrattare le sue dottrine: fu allora condannato come eretico e arso vivo in Campo dei Fiori. La fermezza dimostrata nel lungo processo romano e l’intrepidezza con cui salì al rogo ne fecero un martire del libero pensiero, e come tale fu variamente celebrato lungo i secoli.
[Segnaliamo su questo sito l’articolo di Eliana Macrì Giordano Bruno]
Il panteismo
La filosofia di Giordano Bruno deve essere collocata sullo sfondo di due grandi eventi, la rivoluzione copernicana e la riforma protestante, nel clima di ricerca di orizzonti nuovi e di rottura con la tradizione che a questi eventi si accompagnano. Ciò che fa da filo conduttore nelle pur diverse fasi del pensiero di Bruno è l’idea dell’infinità del mondo, della sua unità e animazione, e quindi una cosmologia antitolemaica e antiaristotelica e il rifiuto dell’autoritarismo dottrinario della chiesa e della filosofia scolastica. All’universo aristotelico finito e diviso (le sfere celesti di sostanza diversa dal mondo sublunare, i motori immobili) Bruno oppose la visione di un universo infinito e unitario. Tale concezione è già esposta nel De la causa, dove, dopo aver ricondotto i concetti di causa e di principio a quello di Uno, egli non solo rifiuta la dottrina aristotelica delle quattro cause, riducendo la causa finale e quella formale alla causa efficiente (l’intelletto universale che agisce in ogni cosa), ma riporta anche forma e materia a “uno essere e una radice”. La forma è l’anima universale, la cui principale facoltà è l’intelletto, il quale muove la materia dal di dentro, come “fabbro del mondo”, che dall’interno del seme fabbrica ogni corpo. Esso è talmente intrinseco alla materia da far sì che essa stessa, come “potenza” universale, diventi energia produttrice che manda fuori le forme dal proprio seno e se ne riveste. Forma e materia non sono due sostanze, ma piuttosto due aspetti dell’unica sostanza, la natura, di cui Bruno non cessa di celebrare il carattere divino. La dottrina eleatica dell’Uno-Tutto è paradossalmente unita a quella del flusso eracliteo e della ruota delle nascite di Pitagora, nel quadro di un panteismo dinamico cui sono frammisti elementi di platonismo rinascimentale e di tradizione ermetica. Nonostante il fondamentale monismo e panteismo, traviamo in Bruno anche una dottrina della trascendenza: al di là della Mente insita nelle cose, che fa tutt’uno con la natura e di cui si occupa la filosofia, si dà una Mente sopra le cose, che nella sua essenza sfugge al pensiero filosofico. In questa dottrina si sono visti, di volta in volta, l’irrinunciabilità alla dimensione del trascendente propria di un pensiero pur sempre religioso, oppure “residui” di tradizione, omaggi verbali all’ideologia dominante.
L’universo infinito
L’idea dell’unità e dell’infinità della natura è alla radice della sua accettazione entusiastica della teoria di Copernico e del suo appassionato interesse per le scoperte di Tycho Brahe sulle comete: l’astronomia moderna andava infatti nella direzione del rifiuto del geocentrismo tolemaico e scolastico, dell’abbandono della teoria delle sfere celesti e della loro sostanziale difformità. Piuttosto indifferente agli aspetti strettamente scientifici della cosmologia moderna, Bruno ne fu un vivace e coraggioso sostenitore per le conseguenze che essa comportava sul piano filosofico, per l’immagine dell’universo aperto, che egli peraltro non concepiva come eliocentrico ma, alla maniera di Cusano, come onnicentrico in quanto infinito. In questo universo l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo coincidono, e così pure la generazione e la corruzione, l’amore che unisce e l’odio che divide: per Bruno, come per Cusano, nell’unità dell’infinito gli opposti coincidono e trapassano l’uno nell’altro. Queste tesi sono svolte nel De l’infinito e riprese nel De immenso, in cui la discussione delle nuove dottrine astronomiche è subordinata alla visione della natura nella sua infinitudine e universale fecondità, visione a cui debbono anche essere riportati i tentativi di matematica concreta e qualitativa svolti nel De minimo e nel De monade.
La religione naturale e l’etica razionale
Nel dialogo De gli eroici furori Bruno esalta il “furioso” cioè il ricercatore eroico della verità, che non obbedisce ad altri impulsi fuorché a quelli razionali, giungendo a contemplare la natura nei suoi caratteri di unità e infinità e identificandosi con essa. In questa attitudine contemplativa si superano tutte le distinzioni e i numeri, tutti quegli strumenti del conoscere che in realtà inquinano la fonte della vera conoscenza, la quale non è altro che l’intuizione diretta del principio unico dal quale tutte le specie e i numeri si dipartono, la monade. Tale principio divino non si manifesta però solo in questo stato, a cui pochi giungono, ma anche nelle virtù civili, di cui Bruno tesse l’elogio specialmente nello Spaccio de la bestia trionfante: in quest’opera troviamo inoltre l’esaltazione del lavoro come attività che, assoggettando la materia all’intelligenza, continua nel regno dell’uomo la mirabile arte plasmatrice della natura. La religione che Bruno difende è così una religione puramente razionale o naturale che mira a portare l’uomo alla natura, a metterlo in contatto con i suoi poteri, a divinizzarlo con essa. Egli considerava le religioni positive utili per governare i “rozzi popoli”, ma riteneva che fossero comunque da valutarsi alla luce della religione naturale, la quale per lui faceva tutt’uno con la filosofia: e dalla diffusione della filosofia Bruno si aspettava il rimedio ai mali dell’umanità del suo tempo. La riforma protestante lo aveva sollecitato a uscire dalla chiesa cattolica, ma ben presto Bruno aveva trovato nella confessione calvinista un nuovo intransigente dogmatismo, ancor più pericoloso e fanatico di quello cattolico: da questa esperienza egli aveva tratto il rifiuto per ogni religione confessionale e l’aspirazione a un rinnovamento morale e intellettuale che si fondasse su di una religione e un’etica razionali. Il suo processo e la sua condanna costituirono l’esito tragico di una vita interamente dedicata a questo progetto e non priva di illusioni nei confronti di un ambiente che non poteva accoglierlo.
Massimo Marcocchi
fonte: Enciclopedia Garzanti di Filosofia – 1990
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