RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI 2 MAGGIO 2022
A cura di Manlio Lo Presti
Esergo
Cercate di non fare mai raggelare il sangue ai buoni di cuore, perché una volta fatto l’errore non si scongela più. Non vi farebbero mai del male deliberatamente, ma non darebbero mai più ascolto alle vostre parole e alle vostre azioni!
FRANCESCA SIFOLA
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SOMMARIO
SUDAN-DARFUR: UNA CRISI UMANITARIA DI SERIE B
La parte del B’nai B’rith nella guerra
La Polonia ha intenzione di occupare nuovamente l’Ucraina occidentale
Londra dispiega i Caschi Bianchi in Ucraina
Allargamento della guerra al territorio russo
Le assicurazioni tedesche non copronopiù i danni da vaccino…
La sottile ipocrisia dei pacifisti: un deserto che chiamano pace
Santoro show sulle armi all’Ucraina: così zittisce tutti (Mieli compreso) in diretta. Cosa ha detto
Effetto Ucraina. “Senza stop alla guerra l’Italia rischia un massacro sociale”
La guerra per procura degli Stati Uniti in Ucraina
“Il Canada ha addestrato uomini del battaglione Azov fino al 2020”: il dossier che imbarazza Ottawa
In Ucraina tremila Lupi Grigi turchi
Gli Stati Uniti allargano la guerra in Europa
Behemoth e Leviathan exsistent. Carl Schmitt e l’arcano
Biden e la mancata stretta di mano: la gaffe del Presidente americano
Usa, l’ultima gaffe di Joe Biden: stretta di mano immaginaria nell’imbarazzo generale
Guerra in Ucraina, invio di armi e propaganda
Zelensky e la rivelazione dei servizi segreti americani: “Restano pochi giorni”. La pericolosa strategia russa
Florida rifiuta dozzine di libri di testo di matematica su presunti riferimenti a CRT
La Teoria critica della razza, l’ideologia che sta intossicando l’America (e l’Occidente)
Eni fa profitti, gli italiani pagano la crisi
PATRUSHEV: “GLI USA PARLANO DI UN POSSIBILE DEFAULT DELLA RUSSIA? È INVECE GIUNTO IL MOMENTO DEL LORO DEFAULT.”
La picchiata di Wall Street ad aprile: un campanello d’allarme?
I Gigacapitalisti
Green pass, ecco fino a quando l’Europa (zitta zitta) lo ha prorogato
Abramitico
Morti sul lavoro: la strage senza fine nelle statistiche Inail
La Cina attacca la Nato “strumento di egemonia”
Amnesty chiede soldi per indagare sui crimini di guerra in Ucraina
SOSPETTI DI FRODE SI ADDENSANO SULLE ELEZIONI PRESIDENZIALI FRANCESI?
Sulla Meloni atlantista
IL BIPENSIERO DELLA POLITICA SU AMBIENTE E SUSSIDI
La Nato e Aiace Telamonio
L’Holodomor, la propaganda liberale e le rimozioni storiche dell’Occidente
IN EVIDENZA
SUDAN-DARFUR: UNA CRISI UMANITARIA DI SERIE B
Ora, i partiti islamisti hanno iniziato a muovere le loro pedine per ottenere il potere. Le condizioni sociali che usualmente vengono sfruttate per questo tipo di operazioni politiche, dove la religione diventa politica, si basano sullo sfruttamento dei disagi della popolazione. Infatti, in Sudan l’economia è drammaticamente sull’orlo del baratro, la massa protesta contro il Governo militare golpista, tuttavia la speranza di poter avere prossime elezioni, che chiaramente rappresentano una effimera realtà e una inutile droga sociale, contribuiscono a indurre la società ad accettare qualsiasi alternativa che possa portare a una speranza di cambiamento. Così il Governo, il 18 aprile, ha aperto ufficialmente alla possibilità di formare una coalizione governativa con la formazione di una nuova alleanza con la Grande Corrente Islamica, segnando il loro ufficiale ritorno sulla scena politica. Che questa intesa politica fosse molto sentita dalle associazioni islamiste lo dimostra l’incontro avvenuto alcuni giorni fa in un parco di Khartoum, quasi al termine del Ramadan, e in ricordo della battaglia di Badr dell’ottobre del 623, rammentata come la prima vittoria dei sostenitori di Maometto. All’appuntamento si sono riuniti membri di organizzazioni islamiste, abbigliati con la tradizionale Jalabiya bianca, tra i quali molti sostenitori del deposto dittatore Omar Al-Bashir, esautorato nel 2019, dopo trenta anni di dittatura. L’obiettivo della nascente coalizione “politica” è quello, mai nascosto, di “rianimare il Paese nella religione”, come confermato da una delle figure più autorevoli del movimento islamista sudanese, Amin Hassan Omar, notoriamente vicino ai Fratelli musulmani che sostengono questa operazione e i gruppi islamisti con ogni mezzo. L’operazione prevede di coordinare tutte le associazioni islamiste sudanesi in previsione delle elezioni promesse dal Governo golpista per il 2024.
Ma dietro questa rischiosa mossa del capo del Governo, il generale Bourhane, si cela la grande debolezza politica del golpe. Ricordo che un golpe è un’azione di forza per rovesciare un Governo esistente, a volte anche elettivo, che si basa non su un consenso popolare ma sulla volontà di pochi. Questa struttura organizzativa, così, resta anche dopo un periodo di Governo relativamente lungo. Ora, il generale Abdel Fattah Al-Bourhane promette elezioni, ma senza avere un consenso ed essendo un golpista non ha nemmeno un profilo atto a essere riconosciuto dalle Comunità internazionali, le quali ufficialmente sostengono finanziariamente molti Stati africani. Da qui la necessità di Bourhane di cercare una base politica certa per non perdere il potere, in un momento in cui la maggior parte dei partiti politici lo disdegnano. Quindi, ecco la necessità di un sostegno politico attivo per formare un Governo, non militare, anche con lo scopo di sbloccare gli aiuti internazionali. Quello che ha organizzato Bourhane per ottenere il supporto degli islamisti è banale e si è concretizzato all’indomani dell’8 aprile, quando tredici dirigenti del National Congress Party (Ncp), partito del precedente regime, sono stati assolti dai tribunali dopo essere stati accusati di finanziare il terrorismo, di avere attentato alla Costituzione e di tentato omicidio dell’ex primo ministro del Governo di transizione, Abdallah Hamdok, avvenuto nel marzo 2020. Quindi sono stati liberati gli islamisti in cambio di sostegno politico. Ricordo che dal National Congress Party si scisse il Nif, Fronte nazionale islamico, che a sua volta si divise in due partiti, il Movimento islamico e l’esercito comandato da Omar al-Bashir.
Ai margini di questa avventurosa ricerca di nuove alleanze per mantenere tutto stabile, nella sventurata regione del Darfur, in un’area situata a circa 80 chilometri a est di Geneina, capoluogo della regione, da giovedì 21 a domenica 24 aprile, per questioni legate a complesse faide, circa mille miliziani armati hanno attaccato il villaggio di Kreinik, governato dallo sceicco Mohammed Kari e un villaggio vicino. In questa aggressione sono stati uccisi oltre duecento civili ed è stata esercitata ogni tipo di violenza sulla popolazione. Omicidi e brutalità condannati dall’Onu, che mercoledì scorso ha chiesto un’indagine “rapida” e “incondizionata”. Queste violenze rappresentano un rinvigorimento dell’escalation del conflitto in Darfur, che ricordo era scoppiato nel 2003 tra le forze del regime dell’ex presidente Omar Al-Bashir e le comunità locali ribelli, tra cui i Massalit, che si considerano una etnia discriminata. Tale conflitto, parcellizzato, ha prodotto almeno 310mila morti e oltre tre milioni di profughi in vent’anni, in un quadro di pulizia etnica e stupri di massa. Anche questi sono crimini contro l’umanità, ma pare di secondaria importanza e soprattutto non influenti, né per gli obiettivi dei golpisti, né per le “sensibilità internazionali”.
FONTE: https://www.opinione.it/esteri/2022/05/02/fabio-marco-fabbri_sudan-darfur-golpe-islamismo-crisi-umanitaria/
La parte del B’nai B’rith nella guerra
Da
Contrariamente a quanto si possa pensare, l’Ucraina è dominata da una potente loggia massonica di matrice ebraica, la B’nai B’rith, che fin dal 2014 ha soffiato sul fuoco della guerra, conducendo all’attuale conflitto
Poche ore dopo l’invasione russa dell’Ucraina (cominciata alle prime ore del 24 febbraio), la sezione inglese della loggia massonica ebraica B’nai B’rith – nota per influenzare la politica e i governi di tutto l’Occidente – ha emanato un significativo, seppur breve, comunicato di denuncia, che rivela le reali posizioni dell’ebraismo massonico e militante nei confronti del conflitto ucraino:
La loggia B’nai B’rith denuncia l’invasione ingiustificata e illegale dell’Ucraina da parte delle forze della Federazione Russa. È chiaro che questo attacco è una grave violazione del diritto internazionale e una violazione fondamentale della pace e della sicurezza in Europa. È altrettanto chiaro che le vite e le libertà di molti ucraini innocenti sono ora a rischio, comprese quelle di molti membri B’nai B’rith nel paese. La loggia B’nai B’rith chiede ai leader occidentali di fornire un vasto sostegno al popolo ucraino e di intraprendere tutte le azioni necessarie per contribuire a ripristinare la sovranità e l’integrità territoriale del paese. Senza tali azioni, la libertà di molte nazioni sarà in pericolo dal comportamento degli stati aggressivi [come la Russia].
Anche il governo d’Israele – molto critico nei confronti della Russia di Putin e dell’imperialismo slavo – ha espresso il proprio sostegno al popolo ucraino, condannando fermamente l’invasione. «L’attacco russo all’Ucraina è una grave violazione dell’ordine internazionale», ha dichiarato Yair Lapid, Ministro della Difesa israeliano. «Israele condanna l’attacco ed è pronto a fornire assistenza umanitaria ai cittadini ucraini».
Così, anche il Primo Ministro d’Israele, Naftali Bennet (che, a ottobre 2021, aveva partecipato ad un incontro «caloroso e positivo» con Putin), si è espresso a favore del popolo ucraino e contro l’invasione russa. «Come tutti gli altri, preghiamo per la pace e la calma in Ucraina», ha asserito. «Questi sono momenti difficili e tragici, e i nostri cuori sono con i civili, che non per colpa loro sono stati catapultati in questa situazione».
Pertanto, è doveroso domandarsi: che cosa unisce l’ebraismo militante e massonico, e con esso Israele, all’Ucraina e al suo presidente, l’ebreo Volodymyr Zelens’kyj? Esiste un legame occulto fra la B’nai B’rith e la nuova Ucraina europeista e filo-americana emersa dal “golpe” del 2014? Di chi sono le responsabilità del conflitto?
Maidan: progetto sionista?
Per rispondere a tali domande è necessario ritornare a novembre 2013, anno in cui il presidente ucraino filo-russo Viktor Yanukovych – stretto collaboratore di Putin – decise di sospendere l’accordo di libero scambio con l’Unione Europea, provocando forti proteste popolari, che, «appoggiate dal governo americano di Barack Obama e dalle logge massoniche progressiste occidentali», presero il nome di Euromaidan.
Fra le logge occidentali più influenti che hanno supportato finanziariamente e moralmente le proteste, contribuendo – nel febbraio 2014 – allo sviluppo di un vero e proprio colpo di Stato (al quale aderì anche l’ebreo ungherese George Soros), vi è la potentissima B’nai B’rith, loggia pre-sionista «d’ispirazione totalmente massonica, ma con una specificità giudaica», strettamente legata a Israele, ma con sede negli Stati Uniti.
Obiettivo della B’nai B’rith, in sintesi, fu quello di coinvolgere gli ebrei ucraini (e altre minoranze etniche, come i tatari) nelle proteste, convogliando tutte le forze anti-russe – compresa la destra radicale, composta dal partito Svoboda, dal Congresso Nazionalista e dal movimento Pravyj Sektor – in un unico, grande cartello europeista e filo-americano, in grado di condurre ad un radicale cambio di governo e svincolare così l’Ucraina dalle grinfie della Russia. Attraverso ONG e attivisti locali e stranieri, la loggia B’nai B’rith soffiò sul fuoco del malcontento ucraino, portando ad una veloce escalation delle proteste e alla conseguente fuga di Yanukovych (febbraio 2014), che, come previsto, lasciò il paese in mano alla cricca europeista e filo-sionista del nuovo presidente Petro Porošenko, il quale, un anno dopo, è già a Gerusalemme per stringere diversi accordi bilaterali, ammettendo: «L’Ucraina è con lo Stato di Israele».
Guerra in Donbass
Ma non tutti i cittadini ucraini hanno accettato in silenzio la rimozione del presidente Yanukovych e l’instaurazione di un governo europeista e filo-sionista. Difatti, mentre la Crimea, dopo un controverso referendum vinto con oltre il 90% dei voti, viene annessa alla Federazione russa, in Donbass (sud-est dell’Ucraina) esplode un’intensa guerra civile, dalla quale emergono due nuove repubbliche indipendenti anti-sioniste, la Repubblica di Doneck e la Repubblica di Lugansk, i cui leader accusano subito «del conflitto in corso i massoni americani ed europei», dichiarandosi ideologicamente vicini alla Russia di Putin.
«Nessuno è responsabile del fatto che le nostre banche, i negozi, l’aeroporto [di Doneck] siano chiusi, ad eccezione dei fascisti ucraini e dei liberi muratori degli Stati Uniti e dell’Europa», dichiarò Vladimir Antiufeyev, all’epoca vice Primo Ministro della Repubblica di Doneck. «Non siamo consapevoli dell’influenza che esercitano le logge massoniche in Occidente?!».
Volontari ebrei
Per contro, gli attivisti del B’nai B’rith, col supporto dalle logge progressiste e dei gruppi ebraico-sionisti americani, si sono attivati per mobilitare, in ottica anti-russa, gran parte degli ebrei ucraini, la cui comunità costituisce la terza più grande comunità ebraica in Europa e la quinta più grande al mondo. Fin dal 2014, numerosi ebrei vengono così arruolati come volontari, finendo inquadrati persino in reparti dichiaratamente nazionalsocialisti, come il famigerato battaglione Azov (equipaggiato con armi israeliane), il cui fondatore – Andry Bilecky – ha incredibilmente ammesso di essere «un convinto sostenitore di Israele», in quanto «il suo modello di società e di difesa è molto vicino al modello ideale per l’Ucraina». «Diversi ebrei hanno combattuto con noi», ha infine confessato. «Le opinioni personali non contano, conta difendere il Paese».
A conferma di ciò, Josef Zissels, co-presidente dell’Associazione delle organizzazione e delle comunità ebraiche in Ucraina, ha dichiarato che, dopo il golpe del 2014, «l’atteggiamento verso gli ebrei [in Ucraina] è drasticamente migliorato, poiché essi erano attivi durante [le proteste di] Maidan e si sono arruolati per combattere al fronte. Gli ebrei hanno dimostrato che si identificano con lo Stato ucraino, con il suo futuro e le sue sfide, e che sono pronti ad assumersi la loro parte di responsabilità».
Nuova Gerusalemme
Nel 2015, la maggior parte del debito sovrano dell’Ucraina viene acquisito dal fondo di investimento statunitense Franklin Templeton, che è di proprietà della famiglia Rothschild. Ma è nell’aprile 2016 che vi è la svolta. Appoggiato dalla B’nai B’rith e dall’ebraismo militante internazionale, il sionista ebreo Volodymyr Grojsman – presidente dal 2014 della Verchovna Rada – diviene Primo Ministro, succedendo ad Arsenij Jacenjuk. Il suo obiettivo, fin da subito, è quello di eseguire – affianco al compare Porošenko – gli ordini più rivoluzionari e ambiziosi della loggia B’nai B’rith, ossia ebraicizzare l’Ucraina, per farla diventare – come auspicava un tempo l’ebraismo “chassidico” dei Chabad Lubavitch – una sorta di nuova Israele.
È il giornale Kremenchug che, per la prima volta, in un articolo del 2017 scritto dal generale ucraino Grigory Omelchenko, svela al mondo il progetto occulto della B’nai B’rith. Secondo Omelchenko, il governo Grojsman-Porošenko avrebbe infatti «sviluppato un piano», per creare una «”nuova Gerusalemme“» in Ucraina, coinvolgendo le città di Odessa, Zaporizhzhya, Dnipropetrovsk, Mykolaïv e Cherson. Questa «nuova repubblica», con «capitale culturale» Odessa, avrebbe dovuto rappresentare, in antitesi alle prerogative di russificazione di Putin, una «”Gerusalemme ucraina“», nella quale reinsediare – secondo le direttive del piano – «circa 5 milioni di ebrei» provenienti da Israele o da altri paesi.
Stando alle parole del generale, furono persino formati i quadri politici (precisamente «dodici leader») di questa nuova repubblica, promettendo ad ogni abitante «una pensione di 500 euro mensili, indipendentemente dall’esperienza lavorativa». Ma, alla fine, a causa del proseguimento del conflitto in Donbass e della forte instabilità del paese, si decise di accantonare il progetto e attendere tempi più favorevoli.
Arriva Zelens’kyj
Dopo tre visite ufficiali del presidente Porošenko a Gerusalemme e la conclusione di vari accordi bilaterali con lo Stato di Israele, nel maggio del 2019 vince le elezione ucraine, con il 73% dei voti, il sionista e uomo della B’nai B’rith Volodymyr Zelens’kyj, divenendo il primo presidente ebreo nella storia dell’Ucraina.
Egli, affascinato dal vecchio progetto della “Gerusalemme ucraina” ideato da Grojsman e Porošenko, rafforza fin da subito i legami fra Ucraina e Israele, arrivando a firmare – nell’agosto del 2019 – un accordo con Netanyahu finalizzato a «promuovere lo studio della lingua ebraica nelle istituzioni educative in Ucraina». In sostanza, si comincia a insegnare l’ebraico nelle scuole. In tutte le scuole.
Ma v’è di più. Una ricerca condotta in quel periodo dal Pew Research Center di Washington, ha concluso che, fra le varie nazioni europee esaminate durante la ricerca, l’Ucraina è «la nazione più amichevole verso gli ebrei». Il generale Omelchenko, che è stato anche deputato della Verkhovna Rada, ha addirittura concluso che «l’Ucraina è il premio principale per il sionismo internazionale» e che essa «si sta trasformando in un “piccolo Israele”».
Biden e la guerra
Tuttavia, fino al 2020 l’Ucraina gode di una relativa pace, con l’insorgere di sporadici episodi di micro-conflitto fra i separatisti del Donbass e le forze nazionali ucraine, nelle quali continuano a combattere numerosi ebrei. Ma, nel gennaio 2021, con l’arrivo alla Casa Bianca di Joe Biden (agente occulto della B’nai B’rith e «uomo di Israele a Washington»), le direttive cambiano radicalmente.
È Biden, infatti, su ordine della massoneria occidentale (tra cui la B’nai B’rith), ad emanare nuove disposizioni al governo e all’esercito ucraino, «in modo da far innervosire Putin e sperare in un suo attacco improvviso contro l’Ucraina, al fine di fare apparire la Federazione Russa, nell’ambito dell’opinione pubblica internazionale, la nazione che ha dato vita al conflitto». L’obiettivo principale della loggia B’nai B’rith, non a caso, è quello di riportare la Crimea e i territori del Donbass all’Ucraina, indebolendo così la Russia e facendo entrare l’Ucraina nella NATO.
«Siamo davanti ad atti provocatori lungo la linea di contatto», ha dichiarato ad aprile 2021 Dmitri Peskov, portavoce del Cremlino. «Sono le forze armate dell’Ucraina che hanno intrapreso un percorso verso l’escalation di questi atti provocatori, e stanno continuando questa politica. Queste provocazioni tendono a intensificarsi. Tutto questo sta creando una potenziale minaccia per la ripresa di una guerra civile in Ucraina».
Nello stesso mese, anche Maria Zakharova, portavoce del Ministero degli Esteri russo, ha dichiarato che la situazione in Donbass peggiora di giorno in giorno a causa delle «intenzioni bellicose di Kiev».
«Truppe ed equipaggiamenti militari vengono dispiegati nella regione e i piani di mobilitazione vengono aggiornati», ha concluso Zakharova. «I media ucraini stanno fomentando l’isteria basata sul mito della minaccia russa».
Obiettivo raggiunto
In risposta alle provocazioni ucraino-americane, il 24 febbraio 2022 Vladimir Putin dichiara guerra all’Ucraina, mirando alla capitale Kiev, dove risiede il presidente Volodymyr Zelens’kyj. «Ho preso la decisione di un’operazione militare», ha enunciato il presidente della Federazione russa. «Un ulteriore allargamento della NATO ad est è inaccettabile».
Dunque, l’obiettivo della loggia B’nai B’rith è stato raggiunto: l’Ucraina è in guerra con la Russia. Così, per una seconda volta, gli uomini della B’nai B’rith – capitanati dal presidente della sezione ucraina, il “fratello” Vadim Kolotushkin – chiamano a raccolta l’intera galassia ebraica, che, in Ucraina, è rappresentata da oltre centossessanta comunità, tra cui «duecento famiglie di emissari Chabad Lubavitch», molte delle quali residenti a Kiev.
«Gli ebrei d’Ucraina combatteranno a fianco dei loro vicini contro l’invasione russa», ha dichiarato Meir Stambler, rabbino capo di Kiev vicino alla B’nai B’rith. «È vero, questo Paese è intriso del nostro sangue e la nostra storia, qui, è complessa e dolorosa. Ma gli ultimi anni sono stati buoni, abbiamo un’ottima relazione con i nostri concittadini e condividiamo le sofferenze di questa assurda invasione: fianco a fianco».
A conferma di ciò, l’ebreo italiano Paolo Salom, sul Corriere, ha rammentato che tantissimi ebrei «ora sono in prima linea a difendere quello che considerano il proprio paese [ossia l’Ucraina]. Dunque, ha senso parlare di «denazificazione»?».
«Non credete alla propaganda», ha fatto eco un artista di Kiev. «Giusto per vostra informazione, nel nostro parlamento non c’è un solo deputato nazista, mentre abbiamo eletto un presidente ebreo [Volodymyr Zelens’kyj]».
Appello ebraico
Tuttavia, oltre a supportare lo sforzo bellico delle forze armate ucraine, la B’nai B’rith ha lanciato una campagna di supporto a favore degli ebrei residenti in Ucraina, i quali sarebbero vittima del «nazionalismo antisemita» di Vladimir Putin. Tale campagna, analoga alla campagna di supporto che avviò la B’nai B’rith in epoca sovietica, ha preso il nome di “B’nai B’rith Disaster and Emergency Relief Fund” e opera per ricevere donazioni economiche da tutto il mondo.
«Questa è una crisi alla quale noi ebrei più fortunati non dobbiamo chiudere gli occhi e le orecchie», ha dichiarato Alan Miller, presidente della sezione britannica della B’nai B’rith. «Non possiamo ignorare la situazione. Dovremo aumentare considerevolmente gli aiuti… Tutti noi ci faremo avanti finanziariamente, per aiutare coloro che hanno un così grande bisogno».
De-ebraicizzazione?
Pertanto, sorge spontanea una domanda: è corretto, nel caso dell’invasione dell’Ucraina da parte delle truppe russe, parlare di «denazificazione», quando invece i cosiddetti “nazisti” ucraini non possiedono alcun seggio in parlamento e il paese è governato da un ebreo massone? «Dobbiamo concentrarci sui fatti», ha dichiarato il reporter Avi Yemini. «I russi hanno invaso perché l’Ucraina è nazista? No. Esiste un problema di estremismo in Ucraina? Sì, ma non è questa la ragione che spiega quello che sta accadendo».
Dunque, non sarebbe forse più giusto parlare di de-ebraicizzazione? In ogni modo, la giornalista ebrea Anne Applebaum, domandandosi: «Perchè l’Ucraina è diventata l’ossessione di Putin?», ha risposto: «È una democrazia, e questo per [Putin] è un pericolo. Putin è spaventato all’idea che a Mosca possa ripetersi quello che è accaduto a Kiev nel 2014. Lo considera una minaccia personale. Ho sempre pensato che Putin fosse razionale, a modo suo. Non ha mai preso grossi rischi, in fondo. Era brutale, magari, ma non si è mai buttato in sfide che non potesse vincere. Oggi è diverso. L’invasione sembra un azzardo. […] Non so di cosa abbia paura, se della morte o di perdere il potere».
Di Javier André Ziosi
Il Jerusalem Post: “le armi israeliane usate dai neo-nazisti ucraini”
FONTE: https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-il_jerusalem_post_apre_il_vaso_di_pandora_le_armi_israeliane_usate_dai_neonazisti_ucraini/45289_46055/
FONTE: https://www.maurizioblondet.it/la-parte-del-bnai-brith-nella-guerra/
La Polonia ha intenzione di occupare nuovamente l’Ucraina occidentale
Il governo polacco si è messo in contatto con leader ucraini dell’opposizione in vista di proporre il dispiegamento di una forza di pace nell’Ucraina occidentale. La proposta nasconde un retropensiero: nel periodo fra le due guerre la Polonia aveva infatti occupato la parte occidentale dell’Ucraina per proteggerla dal bolscevismo; in seguito l’aveva annessa in accordo con l’URSS.
Un mese fa degli ufficiali polacchi hanno rivendicato l’enclave di Kaliningrad, che tuttavia la Polonia non ha mai posseduto [1].
I banderisti sono nati nel periodo dell’occupazione dell’Ucraina occidentale da parte della Polonia. Nel 1934 Stepan Bandera organizzò per conto della Gestapo, di cui era già membro, l’assassinio del ministro dell’Interno polacco, Bronislaw Pieracki, che aveva represso i terroristi ucraini per la responsabilità collettiva dei loro villaggi.
Ungheria e Romania potrebbero a loro volta reclamare territori ucraini perduti.
Ogni azione contro forze di pace di soldati della Nato non farebbe scattare l’articolo 5 del Trattato del Nordatlantico, ossia non implicherebbe la mobilitazione automatica degli Stati membri della Nato.
FONTE: https://www.voltairenet.org/article216711.html
Londra dispiega i Caschi Bianchi in Ucraina
Il Regno Unito ha autorizzato il dispiegamento in Ucraina dei Caschi Bianchi.
Questa sedicente «associazione non governativa» (sic) fu creata da un ex ufficiale britannico, James Le Mesurier, cavaliere dell’Ordine dell’Impero Britannico. In seguito è stata mediatizzata dalla società di comunicazione subappaltatrice del Foreign Office, ARK (Analysis, Research and Knowledge). È finanziata da Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Germania, Danimarca, Olanda, Canada e Giappone.
Dopo aver modificato la propria storia in modo da camuffare il carattere di organizzazione governativa straniera, i Caschi Bianchi si sono distinti in Siria, ove prestavano effettivamente soccorso alla popolazione, ma al tempo stesso partecipavano alle riprese di falsi video e ad azioni di guerra. Per esempio, hanno rivendicato di aver privato di acqua corrente per oltre 42 giorni i 5,6 milioni di abitanti della regione di Damasco (foto), il che costituisce un crimine di guerra. La maggior parte dei suoi “volontari” (sic) erano membri di Al Qaeda e, più tardi, di Daesh.
Per le leggi contro il terrorismo, ai Caschi Bianchi è stato vietato l’ingresso negli Stati Uniti, ma l’ex presidente Barack Obama ha convinto Netflix, di cui è un produttore, a dedicare loro un “documentario” elogiativo.
L’organizzazione terroristica è stata invano candidata al premio Nobel per la Pace.
FONTE: https://www.voltairenet.org/article216678.html
Allargamento della guerra al territorio russo
Il 26 aprile 2022 ci sono state esplosioni in tre oblast russi, limitrofi all’Ucraina (Belgorod, Voronej e Kursk).
Il 27 aprile, alle ore 3 e 30 del mattino, un deposito di munizioni ha preso fuoco vicino al villaggio di Staraya Nelidovka, a circa dieci chilometri da Belgorod. A inizio aprile era già stato attaccato un deposito di idrocarburi.
La guerra si sta allargando a ovest, alla Transnistria, e a est, alla Russia.
FONTE: https://www.voltairenet.org/article216677.html
ATTUALITÀ SOCIETÀ COSTUME
Le assicurazioni tedesche non copronopiù i danni da vaccino…
Il più grande club automobilistico d’Europa ha adattato il suo sito web per le assicurazioni. Tra gli ESCLUSI ai risarcimenti insieme ai danni per uso di droghe, o per danno intenzionale alla salute anche i – danni da vaccinazione dovuti a vaccinazione di massa ordinate.
Moltissime compagnie assicuratrici stanno correndo ai ripari.
Persino le polizze sulla vita.
Che tutti ben sapete Non coprono in caso di suicidio.
Ebbene le vaccinazioni Covid19 sono annoverate come tali essendo considerati ‘ un farmaco o un trattamento sperimentale’.
Benvenuti nella cruda realtà.
Benvenuti nel nuovo ordine mondiale.
Link:
Corona-Hammer: l’assicurazione sulla vita non copre la morte per vaccinazione, poiché la “vaccinazione volontaria con vaccino sperimentale” conta come suicidio!
FONTE: https://www.maurizioblondet.it/le-assicurazioni-tedesche-non-copronopiu-i-danni-da-vaccino/
La sottile ipocrisia dei pacifisti: un deserto che chiamano pace
Chi può dissentire sull’essere la pace universale un bene assoluto? Solo che come tale non esiste, se non nell’empireo valoriale, che a sua volta presuppone una umanità perfetta. Quella che la storia ci ripropone non è la pace, ma quella pace che di volta in volta è infranta da una guerra in corso, con una puntuale identificazione dei protagonisti, dei trascorsi, dei rapporti di forza sul terreno, degli obiettivi, dei sistemi di alleanza. Questo è dove il pacifismo senza se e senza ma si rivela del tutto astratto, perché ritiene che sia sempre e comunque realizzabile, a prescindere dall’intero contesto, sì che di fatto si risolve al massimo in un cessate-il-fuoco, provvisorio e precario, rimesso al buon volere dei contendenti.
Si può ben dire che con riguardo alla guerra in Ucraina, la complessità della realtà concreta, proprio perché non colta nella sua interezza, ma valorizzando all’estremo questa o quella peculiarità, porta a proposte diverse, anzi addirittura opposte, sì da alimentare una discussione senza fine. Basterebbe tener presente quella che dovrebbe costituire la conditio sine qua non di una possibile intesa, quale data dalle aspettative vere delle due parti, che sembrano a tutt’oggi coincidere solo sulla neutralità del Paese, ma non sulla disponibilità di una sua forza armata, per non parlare della integrità territoriale, che la Ucraina rivendica in toto, lasciando comunque aperta in presenza di una pausa armistiziale quella questione del Donbass e della Crimea, che la Russia dà per scontata, facendo capire di puntare alla conquista dell’intera fascia costiera del Mar Nero.
Non c’è da farsi nessuna illusione che sia possibile al momento pur anche un cessate-il-fuoco, tutt’al più l’apertura di corridoi umanitari. Lo sarà una volta che la situazione sul campo si stabilizzerà, ma appare difficile capire quando potrà apparire tale ad entrambe le parti, senza che nessuna possa cantare vittoria. La carta decisiva avanzata e sostenuta dall’onda pacifista, molto forte in Italia, è che l’Ucraina dovrebbe realisticamente accettare l’amputazione del Donbass, pure anche estesa all’intera regione, ben oltre la parte già occupata dalle repubbliche indipendenti riconosciute dalla Russia, e della Crimea. Da qui il boicottaggio per l’invio di armi, con una difficile distinzione fra difensive e offensive, ora convertita da Conte fra leggere e pesanti, di quest’ultime espressione tipica i carri armati.
La riserva non più tanto sottintesa è che in mancanza di armi, specialmente se pesanti, l’Ucraina dovrebbe prendere atto della realtà, comunque destinata a prevalere con un crescendo di distruzioni e di vittime, cioè della inevitabile prevalenza armata della Russia. Non occorrerebbe neppure avere l’assenso di Zelensky, cui l’essere diventato da comico presidente, testimonierebbe già di per sé un istinto megalomane; per quanto si dimeni a sostenere, novello Churchill, che il popolo continuerà a combattere con le unghie e coi denti, dovrà arrendersi all’avanzata russa, destinata a lambire la stessa Kiev. D’altronde questa sarebbe l’opinione prevalente in Italia, a cui ben risponde la distinzione ossessiva, portata avanti dalla Associazione nazionale partigiani, fra resistenza italiana e resistenza ucraina, sì che non paia contraddittorio inorgoglirsi della prima e dissociarsi dalla seconda, passando del tutto sopra al fatto che la nostra fu di élite, con la prospettiva di una vittoria certa quale assicurata dall’avanzata alleata, mentre quella ucraina è di popolo, con nessuna certezza di una qualsiasi vittoria rimessa solo alla sua capacità di durare.
Ma, per quanto non nobile come si vorrebbe, a dar fiato a tale opinione è il costume italico di chiamarsi fuori quando il costo appaia oneroso, già a cominciare dal ridotto uso del condizionatore, come detto egregiamente da Draghi, immaginiamoci dal possibile rischio di un conflitto atomico, dando credito ad un uso ricattatorio della bomba se pur solo tattica, che a questo punto potrebbe essere fatto valere sempre, fino a vedere i carri armati russi davanti a San Pietro.
Bene, nessun problema a considerare questa tesi del non invio di armi, almeno quelle pesanti, limitandoci ad aiuti umanitari, fra cui il rifugio dei profughi, che una volta costretta alla resa l’Ucraina, ben potrebbero non volerci o non poterci ritornare. L’Italia si chiama fuori dalla fornitura di armi, limitiamoci alle pesanti, ma anzitutto per stare ai fatti, dovremmo sapere se in effetti gliele mandiamo, con a indizio esemplare l’invio di carri armati. Il che non pare, nonostante il giudizio del Cosapir sia stato segretato. Ma anche ammettendolo, ci sarebbe da contare su un assenso istituzionale, che al momento non c’è, anzi tutto il contrario, a tener conto del parere del presidente della Repubblica, del governo, del Parlamento, sì che non c’è niente all’orizzonte che faccia pensare a quella che sarebbe una inevitabile crisi di governo, con conseguente scioglimento delle Camere.
Ma ammettiamo pure che questa tesi prevalga, che cosa ci resterebbe da fare? Chiamarci fuori dalla posizione unanime dell’Ue e della Nato, caratterizzandoci come antieuropei ed antiatlantici, oppure più semplicemente far valere questa posizione eterodossa a livello dei vertici di tali istituzioni, così da mandare a benedire tutte le ostentazioni di lealtà incondizionata rispetto alle stesse? È facile accorgersi della sottile ipocrisia che è celata nei sostenitori di questa tesi, che se l’Ucraina dovesse soccombere, come ben potrebbe visto il rapporto di forze, sosterebbero di aver avuto ragione, per cui una questione di libertà di un popolo intero verrebbe rimessa ad una confrontazione armata, chi la vince avrebbe per sé la ragione della storia. Non è il caso di richiamare la nostra resistenza, che ha accompagnato non determinato la vittoria. Meglio, molto meglio sarebbe allora ricordare la resistenza più o meno aperta dai popoli sottomessi all’Urss all’indomani della guerra mondiale, la repressione non l’ha spenta, anzi ha comportato un costo che alla fine ha prodotto il collasso del sistema sovietico.
A quanto sembra il composito movimento pacifista – che certo trova alimento nell’ambiguo messaggio del Papa, che non riesce a conciliare l’inconciliabile fra pace ad ogni costo e sopravvivenza dell’Ucraina come nazione ancor più che come stato – non tiene conto del mutamento radicale avvenuto nella mente di Putin dopo lo scacco della guerra lampo, che avrebbe dovuto concludersi in pochi giorni con la conquista di Kiev. Ormai, persa completamente la faccia rispetto all’opinione di larga parte del mondo, non solo per l’invasione, ma anche e soprattutto per non aver liquidato Davide in quattro e quattro otto, la sola cosa che, nella rabbiosa impotenza di un autocrate assoluto, lo motiva, è non solo vantare la conquista di una fetta larghissima dell’Ucraina, ma lasciare quel che ne resta distrutto e desertificato. È questo che vuole il movimento pacifista: “Desertum fecerunt et pacem appellaverunt”?
FONTE: https://www.atlanticoquotidiano.it/quotidiano/la-sottile-ipocrisia-dei-pacifisti-un-deserto-che-chiamano-pace/
BELPAESE DA SALVARE
Santoro show sulle armi all’Ucraina: così zittisce tutti (Mieli compreso) in diretta. Cosa ha detto
Sentir parlare Michele Santoro in questi giorni di informazione a senso unico è sempre una goduria. “L’opinione pubblica sta facendo la vera resistenza, contro il 99% dei partiti”, attacca subito commentando il sondaggio (che dice tutto) mostrato giovedì 28 aprile a “Piazza Pulita“, su La7, da Corrado Formigli. L’esito della rilevazione, infatti, ha mostrato che il 43,6% degli italiani si è definito contrario all’invio di armi in Ucraina. Al contrario, il 36,5% favorevole e il 19,9% non sa-non risponde. Si innesca dunque un botta e risposta con Paolo Mieli che contesta la visione di Santoro: “Non è vero: Conte e Salvini invocano sempre la ‘pace’”.
Santoro ribatte: “Dicono pace ma non sono contrari all’invio delle armi. C’è un’opinione pubblica senza partito. Quelli che sono andati a Perugia” alla marcia per la pace, “hanno camminato 24 km con la scritta ‘fermatevi’. Non hanno un partito che li rappresenti. Quelli del ’25 aprile’, non hanno un partito che li rappresenti”. Poi Santoro torna a picchiare sull’informazione sempre più appiattita, anche sulla questione dell’invio delle armi all’Ucraina con effetti, a suo dire, disastrosi. “Volgiamo parlare dei giornali? Agnelli si è comprato Repubblica che era pacifista e gli ha cambiato natura… A chi mi devo rivolgere?”.
Per Santoro ha ragione il presidente francese Emmanuel Macron, bisogna trattare con Putin che “è una persona intelligente” e non chiamarlo “animale” come ha fatto il ministro degli Esteri di Luigi Di Maio. “Se l’avessi detto io al Tg1 cosa sarebbe successo? Sarei diventato una vittima destinata alla fucilazione”. Santoro è chiaro: sulla guerra in Ucraina in tv c’è un “pensiero unico” e una “fanfara” allineata al sostegno senza se e senza ma a Kiev.
FONTE: https://www.ilparagone.it/attualita/santoro-invio-armi-ucraina/
Effetto Ucraina. “Senza stop alla guerra l’Italia rischia un massacro sociale”
Lorenzo Torrisi intervista Sergio Cesaratto
La guerra in Ucraina rischia di avere costi sociali importanti in Europa, in particolare nei Paesi più indebitati come l’Italia
Secondo la Bce, l’inflazione, aumentata in maniera significativa nei mesi scorsi, rimarrà elevata e per questo, nel corso della riunione del Consiglio direttivo di giovedì, è stata confermata la riduzione degli acquisti netti di titoli di stato nell’ambito del programma App e la loro conclusione nel terzo trimestre dell’anno.
La fiammata inflattiva sembra dunque far più paura del rallentamento dell’economia. “Qualcosa – ci dice Sergio Cesaratto, professore di politica monetaria europea all’Università di Siena – deve essere mutato nei rapporti di forza all’interno della Bce per cui da dicembre (almeno) è in corso la ‘normalizzazione’ della politica monetaria”.
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Cosa pensa di quanto deciso dalla Bce giovedì?
Se guardiamo al bicchiere mezzo pieno, i tassi sono ancora fermi e la politica di riacquisto a scadenza dei titoli pubblici già in pancia all’Eurosistema è stato confermata.
Christine Lagarde ha anche precisato che tale riacquisto potrebbe avvenire favorendo i titoli eventualmente sotto attacco per assicurare un’uniforme trasmissione della politica monetaria in tutte le giurisdizioni. Certo siamo lontani da una politica europea che metta in sicurezza il debito pubblico italiano in una situazione che può diventare drammatica. La Presidente della Bce ha anche distinto fra la congiuntura americana dove vi sono segni di ripresa dei salari monetari, e quella europea in cui questi sono fermi, cioè non reagiscono (ancora) all’inflazione. Il plumbeo clima di guerra si sovrappone alla debolezza sindacale. Se l’origine dell’inflazione è esterna alle nostre società, vale a dire nei prezzi dell’energia e più in generale nelle interruzioni negli approvvigionamenti globali, sarebbe per ora inutile – così si ragiona – accrescere la disoccupazione per frenare gli aumenti dei salari. È comunque un ragionamento rivelatore del ruolo delle banche centrali.
In che senso?
Nel senso che la regolazione del conflitto sociale viene affidata all’azione brutale delle banche centrali che accrescono la disoccupazione per sedare le proteste dei lavoratori, invece che all’accordo sociale, per quanto complicato. Del resto a noi italiani questo ruolo della banca centrale è ben noto dalla stretta monetaria di Einaudi del 1947 e da quella di Guido Carli del 1963 – ruolo che le fu tuttavia impedito dalla forza dei lavoratori negli anni Settanta. Perché la Bce non perora politiche nell’eurozona volte a redistribuire equamente i costi della crisi? La verità è che essa è parte del progetto di distruzione dell’Europa sociale per il quale è nata l’Europa monetaria.
Per l’Italia tutto questo cosa significa?
I tassi di interesse sui titoli di Stato italiani stanno già aumentando, mentre le previsioni di crescita stanno peggiorando. Non parliamo poi della sciagurata possibilità di un embargo nell’acquisto del gas russo, irresponsabilmente perorata da un Enrico Letta cinico verso il suo Paese. Il dibattito sulla riforma della governance europea è peraltro fermo, né si sta parlando di nuovi “Recovery fund” a fronte della nuova emergenza, come avevamo sperato. L’Europa sembra subire il conflitto senza reagire da alcun punto di vista. Doveva essere più ferma prima nel rassicurare la Russia circa la neutralità dell’Ucraina e il rispetto degli accordi di Minsk. Ora dovrebbe comunque allontanarsi dalla logica bellicista americana e da quella di ulteriori estensioni della Nato, e pensare a nuovi equilibri di pace in Europa, nel rispetto della sicurezza e indipendenza di tutti i Paesi. È molto difficile, ma all’Europa ci devono pensare gli europei, e la Russia fa parte dell’Europa. La Russia è il Paese aggressore, va bene; ma la pace si fa coi nemici. Sono orgoglioso di aver insegnato per alcuni anni il “realismo politico”, la scuola di relazioni internazionali a cui si rifanno i migliori studiosi internazionali critici dell’atteggiamento occidentale. Nel testo straniero che usavo (pubblicato dalla Bocconi), già vent’anni fa si avvertiva dei pericoli dell’allargamento della Nato a Est. Il prossimo anno lo adotterò di nuovo.
Di fronte alle rivendicazioni salariali che stanno crescendo in Italia (vedasi le recenti dichiarazioni del Segretario generale della Cgil Landini), non c’è il rischio di innescare la spirale prezzi-salari che potrebbe anche peggiorare il quadro?
In questa situazione credo che la Cgil farebbe bene a collegare la difesa dei livelli di vita dei lavoratori con il tema della guerra. Sono molto tiepido sull’”internazionalismo proletario”, i sindacati dei Paesi nordici non hanno mosso un dito a difesa dei lavoratori greci massacrati dalla Troika. Però la guerra, questa guerra, non è nell’interesse dei popoli, doveva e poteva essere evitata. Le sue conseguenze sui salari, sullo Stato sociale, sull’istruzione, sulle prospettive dei nostri giovani saranno devastanti. Il disastro ambientale ne verrà accelerato. Se non si reagisce ci attendono decenni di tensioni internazionali, se non peggio; un nuovo medioevo. Naturalmente sciagurata è l’opposizione del centrodestra a qualunque misura redistributiva basata sul riequilibrio del carico fiscale fra chi paga e chi non paga le tasse. La vicenda del catasto urbano è esemplare. Il paradosso italiano è che le ZTL che ci perderebbero votano a sinistra, e le periferie che ci guadagnerebbero votano per il centrodestra. Possibile che nessuno glielo spieghi?
Cosa pensa della decisione del Governo, sancita nel Def, di lasciare il deficit/Pil al 5,9% quest’anno e di tornare all’avanzo primario nel 2025?
Purtroppo se non si ferma questa guerra e si riafferma una volontà di pace, seppur difficilissima, i costi economici saranno tali da far tremare l’equilibrio finanziario del Paese e per molti anni. Senza un sostegno europeo, fiscale e monetario, sarà dura. Io spero che ci sia una rivolta popolare contro la guerra e i suoi costi sociali.
Se non potrà fare più deficit, e lo spread salirà, come farà l’Italia a sostenere l’economia? Dovrà fare ricorso al Mes?
II ricorso al Mes è stato sinora politicamente e socialmente improponibile, a meno di riforme alla Micossi, cioè trasformandolo in un’agenzia europea del debito. Nel quadro attuale l’armamentario europeo a fronte di un possibile crollo del debito pubblico italiano, cioè un balzo dei tassi di interesse a livelli insostenibili, è tuttavia ancora quello del “whatever it takes”: intervento della Bce e del Mes a sostegno dei titoli italiani, e Memorandum of understanding, leggi Troika. Sarebbe un massacro sociale. In un clima di guerra tutto diventa tuttavia possibile.
Un’ultima cosa: si parla di un possibile ingresso di Christine Lagarde nel Governo francese in caso di vittoria di Macron alle presidenziali. Ci sarebbe da chiedersi in primo luogo, se questi rumors non segnalino una certa volontà a non vederla più alla guida della Bce, e, in secondo luogo, cosa accadrebbe nel caso effettivamente lasciasse il suo incarico: a quel punto la presidenza andrebbe verosimilmente a un tedesco…
Christine Lagarde ha perso la voce quando le è stato domandato in conferenza stampa… Mi sembrerebbe strano che Macron intenda rinunciare a una francese in una posizione chiave, con il possibile peggioramento degli equilibri nel Governing council della Bce, in fondo per assegnarle un ruolo che in Francia non è di spicco. Certo, ci mancherebbe un tedesco presidente della Bce… Francia e Germania pensino a garantire la pace in Europa sganciandosi dal treno americano. All’eventuale aggressività russa verso l’Europa ci possiamo pensare da soli.
FONTE: https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/22897-sergio-cesaratto-effetto-ucraina-senza-stop-alla-guerra-l-italia-rischia-un-massacro-sociale.html
CONFLITTI GEOPOLITICI
La guerra per procura degli Stati Uniti in Ucraina
di John Belamy Foster
Una relazione importante tenuta da John Belamy Foster, professore di sociologia all’Università dell’Oregon e direttore della storica rivista americana Monthly Review, fa chiarezza su un aspetto finora poco esplorato della guerra per procura che si sta svolgendo in Ucraina, quello relativo al rischio nucleare. Questo aspetto della guerra in corso si inquadra nella ‘strategia della controforza’ e del ‘First Strike’ pericolosamente esplorata dagli Usa fin dagli anni ’60 e poi abbandonata, anche grazie a movimenti pacifisti di massa. Ripescata dopo il crollo dell’Urss e la fine della guerra fredda nell’ambito della strategia del grande impero americano, oggi si sta giocando una partita del cui possibile finale – il grande inverno nucleare e l’omnicidio – bisognerebbe essere tutti consapevoli. Come dice Foster, ‘c’è molto da capire, in poco tempo.’ (preziosa segnalazione di Vladimiro Giacché)
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Quello che segue è il testo di una presentazione di John Bellamy Foster all’Advisory Board del Tricontinental Institute for Social Research del 31 marzo 2022
Grazie per avermi invitato a fare questa presentazione. Parlando della guerra in Ucraina, la cosa essenziale da riconoscere in primo luogo è che questa è una guerra per procura. A questo proposito, nientemeno che Leon Panetta, che è stato direttore della CIA e poi segretario alla difesa sotto l’amministrazione Obama, ha recentemente riconosciuto che la guerra in Ucraina è una “guerra per procura” degli Stati Uniti, sebbene la cosa venga raramente ammessa. Per essere espliciti, gli Stati Uniti (appoggiati dall’intera NATO) sono impegnati da lungo tempo in una guerra per procura contro la Russia, con l’Ucraina come campo di battaglia.
Secondo questa visione il ruolo degli Stati Uniti, come ha insistito Panetta, è quello di fornire sempre più armi e sempre più velocemente, con l’Ucraina che combatte, sostenuta da mercenari stranieri.
Allora come è nata questa guerra per procura? Per capirlo dobbiamo guardare alla grande strategia imperiale degli Stati Uniti risalendo al 1991, quando l’Unione Sovietica si sciolse, o addirittura agli anni ’80. In questa grande strategia imperiale ci sono due fronti, uno è l’espansione e il posizionamento geopolitico, incluso l’allargamento della NATO, l’altro è la spinta degli Stati Uniti per il primato nucleare. Un terzo fronte riguarda l’economia, ma non sarà qui considerato.
Il primo fronte: l’espansione geopolitica
Il primo fronte è enunciato nelle “Linee guida per la politica di difesa degli Stati Uniti” di Paul Wolfowitz del febbraio 1992, pochi mesi dopo lo scioglimento dell’Unione Sovietica. La grande strategia imperiale adottata all’epoca e da allora perseguita aveva a che fare con l’avanzata geopolitica degli Stati Uniti nel terreno dell’ex Unione Sovietica e di quella che era stata la sfera di influenza sovietica. L’idea era quella di impedire alla Russia di riemergere come grande potenza. Questo processo di espansione geopolitica USA/NATO è iniziato immediatamente, ed è visibile in tutte le guerre USA/NATO in Asia, Africa ed Europa che hanno avuto luogo negli ultimi tre decenni. Particolarmente importante a questo riguardo è stata la guerra della NATO in Jugoslavia negli anni ’90. Già mentre era in corso lo smembramento della Jugoslavia, gli Stati Uniti hanno iniziato il processo di ampliamento della NATO, spostandola sempre più a est per comprendere tutti i paesi dell’ex Patto di Varsavia e parti dell’ex URSS. Bill Clinton nella sua campagna elettorale del 1996 fece dell’allargamento della NATO una parte della sua piattaforma. Washington ha iniziato a implementare questo piano nel 1997, per poi giungere infine ad ammettere nella NATO 15 paesi, raddoppiandone le dimensioni e creando un’Alleanza Atlantica contro la Russia composta di 30 nazioni, anche dando alla NATO un ruolo interventista più globale, come in Jugoslavia, Siria e Libia.
Ma l’obiettivo era l’Ucraina. Zbigniew Brzezinski, che è stato il più importante stratega di tutto questo disegno ed era stato consigliere per la sicurezza nazionale di Jimmy Carter, ha affermato nella sua Grande Scacchiera del 1997 che, in particolare in Occidente, l’Ucraina era il “perno geopolitico” e che se fosse stata inserita nella NATO sotto il controllo occidentale, questo avrebbe indebolito così tanto la Russia da bloccarla totalmente, se non provocarne lo smembramento. Questo è stato l’obiettivo da sempre e i pianificatori strategici statunitensi, insieme con i funzionari di Washington e gli alleati della NATO, hanno ripetutamente affermato di voler portare l’Ucraina dentro la NATO. La NATO ha ufficializzato questo obiettivo nel 2008. Solo pochi mesi fa, nel novembre 2021 nella nuova Carta strategica tra l’amministrazione Biden a Washington e il governo Zelensky a Kiev, si è convenuto che l’obiettivo immediato fosse portare l’Ucraina nella NATO. Del resto questa era la politica della NATO ormai da molto tempo. Gli Stati Uniti negli ultimi mesi del 2021 e all’inizio del 2022 si stavano muovendo molto velocemente per militarizzare l’Ucraina e realizzare il loro obiettivo come un fatto compiuto.
L’idea, articolata da Brzezinski e altri, era che una volta che l’Ucraina fosse stata assicurata dentro la NATO, la Russia sarebbe finita. La vicinanza di Mosca con un’Ucraina trentunesima nazione dell’alleanza avrebbe consentito alla NATO un confine di 1200 miglia con la Russia, lo stesso percorso attraverso il quale gli eserciti di Hitler avevano invaso l’Unione Sovietica, ma in questo caso la Russia si sarebbe trovata di fronte alla più grande alleanza nucleare del mondo. Ciò avrebbe cambiato l’intera mappa geopolitica, dando all’Occidente il controllo dell’Eurasia a ovest della Cina.
Il modo in cui questo progetto è stato effettivamente sviluppato è importante. La guerra per procura è iniziata nel 2014, quando in Ucraina ha avuto luogo il colpo di stato di Maidan, ideato dagli Stati Uniti, che ha rimosso il presidente democraticamente eletto e messo al potere in gran parte gli ultranazionalisti. Il risultato immediato è stato però che l’Ucraina ha iniziato a dividersi. La Crimea era stata uno stato indipendente e autonomo dal 1991 al 1995. Nel 1995 l’Ucraina ha strappato illegalmente la Costituzione della Crimea e l’ha annessa contro la sua volontà. Il popolo della Crimea non si considerava parte dell’Ucraina ed era in gran parte di lingua russa, con profondi legami culturali con la Russia. Quando si verificò il colpo di stato con il controllo degli ultranazionalisti ucraini, la popolazione della Crimea si è voluta separare. La Russia ha dato loro l’opportunità, con un referendum, di scegliere se rimanere in Ucraina o unirsi alla Russia e hanno scelto la Russia. Tuttavia, nell’Ucraina orientale la popolazione principalmente russa è stata sottoposta a repressione da parte delle forze ultranazionaliste e neonaziste di Kiev. La russofobia e l’estrema repressione delle popolazioni di lingua russa nell’est sono iniziate con il famigerato caso delle quaranta persone fatte saltare in aria in un edificio pubblico dai neonazisti associati al battaglione Azov. In origine c’erano un certo numero di repubbliche separatiste. Due sono sopravvissute nella regione del Donbass, con popolazione prevalente di lingua russa: le repubbliche di Luhansk e Donetsk.
In questo modo in Ucraina è nata una guerra civile tra Kiev a ovest e Donbass a est. Ma è stata anche una guerra per procura con gli Stati Uniti/NATO a sostegno di Kiev e la Russia a sostegno del Donbass. La guerra civile è iniziata subito dopo il colpo di stato, quando la lingua russa è stata praticamente bandita, tanto che le persone potevano essere multate per aver parlato russo in un negozio. È stato un attacco alla lingua e alla cultura russa e una violenta repressione delle popolazioni della parte orientale dell’Ucraina.
Inizialmente, nella guerra civile ci sono state circa 14.000 vittime nella parte orientale del paese, con qualcosa come 2,5 milioni di profughi che si sono rifugiati in Russia. Gli accordi di Minsk del 2014 e del 2015 hanno portato a un cessate il fuoco, mediato da Francia e Germania e sostenuto dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Secondo questi accordi le Repubbliche di Luhansk e Donetsk ricevevano uno status autonomo all’interno dell’Ucraina. Ma Kiev ha continuato sempre a infrangere gli accordi di Minsk, continuando ad attaccare le repubbliche separatiste del Donbass, anche se su scala ridotta, e gli Stati Uniti hanno continuato a fornire addestramento militare e armi.
Tra il 1991 e il 2021 Washington ha fornito un’enorme sostegno militare a Kiev. Dal 1991 al 2014 l’aiuto militare diretto a Kiev dagli Stati Uniti è stato di 3,8 miliardi di dollari. Dal 2014 al 2021 è stato di 2,4 miliardi di dollari, in aumento, e infine è salito alle stelle una volta che Joe Biden è entrato in carica a Washington. Gli Stati Uniti stavano militarizzando l’Ucraina molto velocemente. Il Regno Unito e il Canada hanno addestrato circa 50.000 soldati ucraini, senza contare quelli addestrati dagli Stati Uniti. La CIA in realtà ha addestrato il battaglione Azov e i paramilitari di destra. Tutto questo aveva come obiettivo la Russia.
I russi erano particolarmente preoccupati per l’aspetto nucleare, dal momento che la NATO è un’alleanza nucleare, e se l’Ucraina fosse entrata nella NATO e i missili fossero stati collocati in Ucraina, avrebbe potuto verificarsi un attacco nucleare prima che il Cremlino avesse il tempo di rispondere. In Polonia e Romania ci sono già strutture di difesa anti-missili balistici, cruciali come armi di contrasto in un primo attacco della NATO. Inoltre, è importante capire che i sistemi di difesa missilistica Aegis collocati lì sono anche in grado di lanciare missili nucleari offensivi. Tutto ciò ha influito sull’ingresso della Russia nella guerra civile ucraina. Nel febbraio 2022 Kiev stava preparando un’importante offensiva, con 130.000 soldati ai confini del Donbass a est e sud, con il continuo supporto USA/NATO. Questo superava le linee rosse chiaramente articolate di Mosca. In risposta, la Russia ha prima dichiarato che gli accordi di Minsk erano falliti e che le repubbliche del Donbass dovevano essere considerate stati indipendenti e autonomi. È poi intervenuta nella guerra civile ucraina al fianco del Donbass, in linea con quella che considerava la propria difesa nazionale.
Il risultato è una guerra per procura tra Stati Uniti/NATO e Russia combattuta in Ucraina, sviluppatasi a seguito di una guerra civile nella stessa Ucraina, iniziata con un colpo di stato progettato dagli Stati Uniti. Ma a differenza di altre guerre per procura tra stati capitalisti, questa si sta verificando ai confini di una delle grandi potenze nucleari ed è provocata dalla prolungata strategia del grande impero di Washington, volta a catturare l’Ucraina per conto della NATO al fine di distruggere la Russia come grande potenza e stabilire, come affermava Brzezinski, la supremazia degli Stati Uniti sull’intero globo. Ovviamente, questa particolare guerra per procura comporta gravissimi pericoli, a un livello mai visto dalla crisi dei missili cubani. In seguito all’offensiva russa, la Francia ha dichiarato che la NATO era una potenza nucleare e subito dopo, il 27 febbraio, i russi hanno messo in massima allerta le loro forze nucleari.
Un’altra cosa da capire sulla guerra per procura è che i russi hanno cercato con notevole successo di evitare vittime civili. Le popolazioni di Russia e Ucraina sono strettamente interconnesse e Mosca ha tentato di contenere le vittime civili. I dati delle forze armate statunitensi ed europee indicano che le vittime civili sono notevolmente più basse rispetto allo standard delle guerre statunitensi. Un’indicazione di ciò è che le vittime militari delle truppe russe sono maggiori delle vittime civili degli ucraini, che è l’opposto di come funziona la guerra degli Stati Uniti. Se si guarda a come gli Stati Uniti combattono una guerra, ad esempio in Iraq, si nota che attaccano gli impianti elettrici e idrici e l’intera infrastruttura civile, con la motivazione che ciò creerà dissenso nella popolazione e una rivolta contro il governo. Ma prendere di mira le infrastrutture civili aumenta naturalmente le vittime civili, come in Iraq, dove le vittime civili dell’invasione statunitense sono state nell’ordine di centinaia di migliaia. La Russia, al contrario, non ha cercato di distruggere le infrastrutture civili, cosa che per loro sarebbe stato facile. Anche nel bel mezzo della guerra, stanno ancora vendendo gas naturale a Kiev, rispettando i loro contratti, e non hanno distrutto Internet in Ucraina.
La Russia è intervenuta principalmente con l’obiettivo di liberare il Donbass, gran parte del quale era occupato dalle forze di Kiev. Una priorità era ottenere il controllo di Mariupol, il porto principale, per rendere praticabile il Donbass. Mariupol è stata occupata dal battaglione neonazista Azov. Il battaglione Azov ora controlla meno del 20% della città. Si stanno nascondendo nei vecchi bunker sovietici in una parte della città. La milizia popolare di Donetsk e i russi controllano il resto. Ci sono circa 100.000 forze paramilitari in Ucraina. La maggior parte dei paramilitari all’interno delle forze ucraine, che costituivano la maggior parte delle 130.000 truppe che circondavano il Donbass, sono state ora tagliate fuori dall’esercito russo. Oltre a prendere il controllo del Donbass insieme alle milizie popolari, Mosca cerca di costringere l’Ucraina a smilitarizzarsi e ad accettare uno status neutrale, rimanendo fuori dalla NATO.
Se si osserva la situazione dal punto di vista degli accordi di pace – e il Global Times ne ha riportato un buon resoconto il 31 marzo – si può vedere su cosa si svolge la guerra. Kiev ha provvisoriamente accettato la neutralità, che dovrà essere controllata da alcuni garanti occidentali, come il Canada. Ma il punto critico dei negoziati è ciò che Kiev chiama “sovranità”. Riguardo il Donbass e la guerra civile, l’Ucraina insiste sul fatto che il Donbass fa parte del territorio sovrano, indipendentemente dai desideri della popolazione nelle repubbliche separatiste di Donetsk e Luhansk. La gente nelle repubbliche del Donbass e i russi non possono accettare questo. In effetti, le milizie popolari e i russi stanno ancora lavorando per liberare parti del Donbass occupate da queste forze paramilitari. È questo il principale punto critico dei negoziati, che risale alla realtà della guerra civile in Ucraina. Il ruolo degli Stati Uniti in questo è stato quello di fungere da disturbo nei negoziati.
Il secondo fronte: la spinta al primato nucleare
Qui è necessario passare al secondo obiettivo della ‘Strategia Imperiale’ degli Stati Uniti. Finora ho discusso la grande strategia imperiale in termini di geopolitica, di espansione nel territorio dell’ex Unione Sovietica e della sfera di influenza sovietica, che è stata articolata nel modo più efficace da Brzezinski. Ma c’è un altro fronte della grande strategia imperiale statunitense che deve essere discusso in questo contesto, ed è la spinta verso un nuovo primato nucleare. Se si legge il Grande Scacchiere di Brzezinski, il suo libro sulla strategia geopolitica degli Stati Uniti, non si troverà una sola parola sulle armi nucleari. Il termine nucleare non compare affatto nel suo libro, mi pare. Eppure questo è ovviamente un punto cruciale della strategia generale degli Stati Uniti rispetto alla Russia. Nel 1979, sotto Jimmy Carter, quando Brzezinski era il suo consigliere per la sicurezza nazionale, fu deciso di andare oltre la Mutual Assured Destruction (MAD) e per gli Stati Uniti di perseguire una ‘strategia di controforza’ del primato nucleare. Ciò comportava il posizionamento di missili nucleari in Europa. Nella sua ‘A Letter to America’, che appare in Protest and Survive pubblicato dalla Monthly Review Press nel 1981, lo storico marxista e attivista anti-nucleare E.P. Thompson cita Brzezinski, il quale ammette che la strategia degli Stati Uniti si era spostata su una ‘guerra di controforza’.
Per spiegarlo, è necessario tornare un po’ indietro. Negli anni ’60 l’Unione Sovietica aveva raggiunto la parità nucleare con gli Stati Uniti. C’è stato un grande dibattito all’interno del Pentagono e dell’establishment della sicurezza su questo, perché la parità nucleare significava MAD. Significava ‘Mutua Distruzione Assicurata’. E qualunque nazione, non importava quale, avesse attaccato l’altra, entrambe sarebbero state completamente distrutte. Robert McNamara, il segretario alla difesa di John F. Kennedy, iniziò a promuovere la nozione di controforza per aggirare la MAD. Essenzialmente, ci sono due tipi di attacchi nucleari. Uno è la ‘guerra di controvalore’ (forza equivalente da entrambe le parti, ndt) che prende di mira le città, la popolazione e l’economia dell’avversario. Questo è ciò su cui si basa la MAD. L’altro tipo di attacco è una ‘guerra di controforza’ mirata a distruggere le forze nucleari nemiche prima che possano essere lanciate. E, naturalmente, una strategia di controforza è la stessa cosa di una strategia di ‘First Strike’ (colpire per primi, ndt). Gli Stati Uniti sotto McNamara iniziarono a esplorare la controforza. McNamara poi decise che un simile approccio era folle e decise di utilizzare la MAD come politica di deterrenza degli Stati Uniti. Questa situazione è andata avnti per la maggior parte degli anni ’60 e ’70. Ma nel 1979, nell’amministrazione Carter, quando Brzezinski era il consigliere per la sicurezza nazionale, decisero di attuare una strategia di controforza. Gli Stati Uniti a quel tempo decisero di localizzare i missili Pershing II e i missili da crociera con armi nucleari in Europa. Ciò ha portato alla nascita del movimento europeo per il disarmo nucleare, il grande movimento europeo per la pace.
Washington inizialmente ha messo i missili nucleari intermedi Pershing II, così come i missili da crociera, in Europa. Questo è diventato un grosso problema per il movimento per la pace sia in Europa che negli Stati Uniti. I pericoli di una guerra nucleare erano enormemente aumentati. L’amministrazione Reagan promosse pesantemente la strategia della controforza e aggiunse la sua ‘Iniziativa di Difesa Strategica’ ispirata alla fantascienza (meglio conosciuta con il soprannome di Star Wars), che prevedeva un sistema in grado di abbattere contemporaneamente tutti i missili nemici. Questa era in gran parte una fantasia. Alla fine, la corsa agli armamenti nucleari in questo periodo è stata interrotta di movimenti di massa per la pace in Europa su entrambi i lati del muro di Berlino e dal movimento per il congelamento nucleare negli Stati Uniti, nonché dell’ascesa di Gorbaciov in Unione Sovietica. Ma dopo lo scioglimento dell’URSS, Washington ha deciso di portare avanti la strategia della controforza e la sua spinta verso il primato nucleare.
Nel corso dei successivi tre decenni, Washington ha continuato a sviluppare armi e strategie di controforza, potenziando le capacità statunitensi in tal senso, al punto che nel 2006 è stato dichiarato che gli Stati Uniti erano vicini al primato nucleare, come spiegato all’epoca in Foreign Affairs, pubblicato dal Council on Foreign Relations, il principale centro della grande strategia statunitense. L’articolo su Foreign Affairs dichiarava che la Cina non aveva un deterrente nucleare contro un primo attacco degli Stati Uniti, visti i miglioramenti nella tecnologia di puntamento e rilevamento degli Stati Uniti, e che nemmeno i russi potevano più contare sulla sopravvivenza del loro deterrente nucleare. Washington stava premendo per raggiungere il primato nucleare completo. Tutto questo è andato di pari passo con l’allargamento della NATO in Europa, perché parte della strategia della controforza consisteva nell’avvicinare sempre più le armi della controforza alla Russia per ridurre il tempo di risposta da parte di Mosca.
La Russia era l’obiettivo principale della strategia. Mentre la Cina era chiaramente destinata a essere l’obiettivo successivo. Poi Trump ha deciso di perseguire la distensione con la Russia e concentrarsi sulla Cina. Ciò ha scombussolato le cose per un po’, destabilizzando la grande strategia USA/NATO, poiché l’allargamento della NATO era una parte essenziale della strategia del primato nucleare. Una volta che l’amministrazione Biden è entrata in carica, si è cercato di recuperare il tempo perduto stringendo il cappio dell’Ucraina intorno alla Russia.
In tutto questo i russi – ormai uno stato capitalista che sta riguadagnando uno status di grande potenza – non si sono fatti ingannare. Lo hanno visto arrivare. Nel 2007 Vladimir Putin dichiarò che il mondo unipolare era impossibile, che gli Stati Uniti non sarebbero stati in grado di raggiungere il primato nucleare. Sia la Russia che la Cina hanno iniziato a sviluppare armi che avrebbero aggirato la strategia degli Stati Uniti della controforza,. L’idea di un primo attacco è che l’attaccante – e solo gli Stati Uniti hanno qualcosa di simile a questa capacità – colpisce i missili terrestri, sia in silos temprati che mobili, e tracciando i sottomarini è in grado di eliminare anche quelli. Il ruolo dei sistemi missilistici antibalistici è quindi quello di eliminare qualsiasi attacco di rappresaglia rimasto. Naturalmente l’altra parte, ovvero Russia e Cina che sono anch’esse tra le grandi potenze nucleari, sanno tutto questo, quindi fanno tutto il possibile per proteggere la loro capacità di deterrenza nucleare o di attacco di rappresaglia. Negli ultimi anni Russia e Cina hanno sviluppato missili ipersonici. Questi missili si muovono straordinariamente veloci, al di sopra di Mach 5 e allo stesso tempo sono manovrabili, quindi non possono essere fermati da sistemi missilistici antibalistici, indebolendo la capacità di controforza degli Stati Uniti. Gli stessi Stati Uniti non hanno ancora sviluppato tecnologie missilistiche ipersoniche di questo tipo. Questo tipo di arma è ciò che la Cina chiama “colpire l’assassino”, il che significa che può essere utilizzata da una potenza inferiore per contrastare un avversario con un potere militare schiacciante. Ciò aumenta quindi il deterrente fondamentale di Russia e Cina, proteggendo le loro capacità di ritorsione in caso di primo attacco contro di loro. È uno dei principali fattori che sta contrastando le capacità di primo attacco degli Stati Uniti.
Un altro aspetto in questo braccio di ferro nucleare è il predominio USA/NATO nei satelliti. È in gran parte per questo che la precisione nel colpire il bersaglio del Pentagono ora è così accurata da poter concepire la possibilità di distruggere i silos missilistici temprati con testate più piccole, a causa dell’assoluta precisione del loro puntamento, e prendere di mira anche i sottomarini. Tutto questo ha a che fare con i sistemi satellitari. E’ opinione diffusa che questo dia agli Stati Uniti la capacità di distruggere silos missilistici rinforzati o almeno centri di comando e controllo con armi che non sono nucleari, o con testate nucleari più piccole, a causa della maggiore precisione. Gli eserciti russo e cinese si sono quindi concentrati molto sulle armi anti-satellite per eliminare questo vantaggio.
Inverno nucleare e Omnicidio
Tutto ciò può suonare già abbastanza brutto, ma è necessario dire qualcosa sull’inverno nucleare. L’esercito americano, e immagino che sia vero anche per l’esercito russo, a leggere i loro documenti declassificati, risulta che si siano completamente allontanati dalla scienza sulla guerra nucleare. Nel documento declassificato sugli armamenti nucleari e la guerra nucleare non si fa alcuna menzione delle tempeste di fuoco nella guerra nucleare. Ma in un attacco nucleare le tempeste di fuoco sono in realtà ciò che provoca il maggior numero di morti. Le tempeste di fuoco in un attacco termonucleare possono diffondersi su una città per 150 miglia quadrate. Le istituzioni militari, che sono tutte concentrate sul combattere e prevalere in una guerra nucleare, nelle loro analisi e anche nei calcoli della MAD non tengono conto delle tempeste di fuoco. Ma c’è anche un’altra ragione per questo, poiché le tempeste di fuoco sono ciò che genera l’inverno nucleare.
Nel 1983, quando le armi di contrasto venivano piazzate in Europa, scienziati atmosferici sovietici e americani, lavorando insieme, crearono i primi modelli di inverno nucleare. Un certo numero di scienziati chiave, sia nell’Unione Sovietica che negli Stati Uniti, sono stati coinvolti nella ricerca sui cambiamenti climatici, che è essenzialmente l’inverso dell’inverno nucleare, anche se non così brusco. Questi scienziati hanno scoperto che in una guerra nucleare con tempeste di fuoco in 100 città, l’effetto sarebbe stato un calo della temperatura media globale di una misura che Carl Sagan all’epoca disse arrivare fino a “diverse decine di gradi” Celsius. Successivamente hanno fatto marcia indietro con ulteriori studi e hanno affermato che il calo sarebbe arrivato fino a venti gradi Celsius. Possiamo immaginare cosa significhi. Le tempeste di fuoco porterebbero la fuliggine e il fumo nella stratosfera, bloccando fino al 70% dell’energia solare che raggiunge la terra, il che significherebbe la fine di tutti i raccolti sulla Terra. Ciò distruggerebbe quasi tutta la vita vegetativa, così che gli effetti nucleari diretti nell’emisfero settentrionale sarebbero accompagnati dalla morte di quasi tutti anche nell’emisfero meridionale. Solo poche persone sul pianeta potrebbero sopravvivere.
Gli studi sull’inverno nucleare sono stati criticati dai militari e dall’establishment negli Stati Uniti, in quanto esagerati. Ma nel 21° secolo, a partire dal 2007, gli studi sull’inverno nucleare sono stati ampliati, replicati e convalidati numerose volte. Hanno dimostrato che anche in una guerra tra India e Pakistan, utilizzando bombe atomiche a livello di Hiroshima, il risultato sarebbe un inverno nucleare non così rigido, ma capace di ridurre l’energia solare che raggiunge il pianeta in misura tale da uccidere miliardi di persone. Al contrario, in una guerra termonucleare globale, come hanno dimostrato i nuovi studi, l’inverno nucleare potrebbe essere anche peggiore di quanto avevano determinato gli studi originali negli anni ’80. E questa è la scienza, accettata nelle principali pubblicazioni scientifiche sottoposte a revisione paritaria e i cui risultati sono stati ripetutamente convalidati. È molto chiaro in termini scientifici che se ci sarà uno scontro termonucleare globale, questo ucciderà l’intera popolazione della terra, con forse alcuni resti della specie umana che potranno sopravvivere da qualche parte nell’emisfero meridionale. Il risultato sarà un omnicidio planetario.
All’inizio McNamara pensava che la controforza fosse una buona idea, perché era vista come una strategia No-Cities. Gli Stati Uniti avrebbero potuto semplicemente distruggere le armi nucleari dell’altra parte e lasciare intatte le città. Ma questa idea è rapidamente sfumata, e nessuno ci crede più, perché la maggior parte dei centri di comando e controllo si trovano dentro o vicino alle città. Non c’è modo che questi possano essere tutti distrutti in un primo attacco senza attaccare le città. Inoltre per quanto riguarda le maggiori potenze nucleari, non c’è modo che il deterrente nucleare dell’altra parte possa essere completamente distrutto, e anche una parte relativamente piccola degli arsenali nucleari delle grandi potenze può distruggere tutte le grandi città dell’altra parte. Pensare diversamente significa perseguire una fantasia pericolosa che aumenta le possibilità di una guerra termonucleare globale capace di distruggere l’umanità. Ciò significa che i maggiori analisti nucleari, ora profondamente impegnati nelle teorie della controforza, stanno promuovendo la follia totale. I pianificatori della guerra nucleare fingono di poter prevalere in una guerra nucleare. Eppure, ora sappiamo che la MAD, la distruzione reciproca assicurata, come era originariamente immaginata, è meno estrema di ciò che oggi comporta una guerra termonucleare globale. La distruzione reciproca assicurata significava che entrambe le parti sarebbero state distrutte, a centinaia di milioni. Ma l’inverno nucleare significa che praticamente l’intera popolazione del pianeta viene eliminata.
La strategia di controforza, la spinta verso la capacità di primo attacco o primato nucleare, significa che la corsa agli armamenti nucleari continua ad aumentare, nella speranza di eludere la MAD, mentre in realtà minaccia l’estinzione umana. Anche se il numero delle armi nucleari è limitato, la cosiddetta “modernizzazione” dell’arsenale nucleare, in particolare da parte degli Stati Uniti, è progettata per rendere pensabile una controforza e quindi un primo attacco. Ecco perché Washington si è ritirata dai trattati nucleari come il Trattato ABM e il Trattato sui missili nucleari a raggio intermedio, visti come un blocco alle armi di controforza che interferiva con la spinta del Pentagono verso il primato nucleare. Washington ha abbandonato tutti quei trattati, mentre è stata disposta ad accettare un limite al numero totale di armi nucleari, perché il gioco veniva giocato in un modo diverso. La strategia degli Stati Uniti è ora focalizzata sulla controforza, non sul controvalore.
C’è molto da comprendere, in poco tempo. Ma penso che sia importante conoscere i due fronti della grande strategia imperiale USA/NATO per capire perché il Cremlino si considera minacciato, e perché ha agito come ha fatto, e perché questa guerra per procura è così pericolosa per tutto il mondo. Quello che dovremmo tenere a mente in questo momento è che tutte queste manovre per la supremazia mondiale assoluta ci hanno portato sull’orlo di una guerra termonucleare globale e di un omnicidio globale. L’unica risposta è creare un movimento di massa mondiale per la pace, l’ecologia e il socialismo.
FONTE: https://www.sinistrainrete.info/geopolitica/22914-john-belamy-foster-la-guerra-per-procura-degli-stati-uniti-in-ucraina.html
“Il Canada ha addestrato uomini del battaglione Azov fino al 2020”: il dossier che imbarazza Ottawa
Ottawa – Il Canada ha speso quasi un miliardo di dollari per addestrare le forze ucraine dal 2014. E anche i soldati appartenenti al battaglione Azov, noto per i suoi legami con la destra neonazista, hanno beneficiato di questo addestramento, secondo i documenti pubblicati in esclusiva da Radio-Canada.
“Sebbene i membri del battaglione siano cambiati dal momento dell’integrazione nella Guardia nazionale ucraina, il reparto militare mantiene ancora legami con l’estrema destra”, scrive Radio-Canada.
FONTE: https://www.ilsecoloxix.it/mondo/2022/04/14/news/il-canada-ha-addestrato-nazisti-del-battaglione-azov-fino-al-2020-1.41374640
In Ucraina tremila Lupi Grigi turchi
Da dieci giorni tremila Lupi Grigi turchi combattono in Ucraina. Sono divisi in tre gruppi: a Kharkiv, Odessa e Mykolaiv.
I Lupi Grigi sono una milizia di estrema destra turca, storicamente legata alla Nato. La loro ideologia è neofascista, anticomunista, omofoba, sono contro greci, alevi, kurdi, armeni, antisemiti e anticristiani.
Il loro segno di riconoscimento è un gesto della mano (foto).
FONTE: https://www.voltairenet.org/article216684.html
Gli Stati Uniti allargano la guerra in Europa
Il senato degli Stati Uniti ha approvato il ripristino della Legge degli Affitti e Prestiti (Lend-Lease Act) della seconda guerra mondiale (S. 3522). Il testo, attualmente alla Camera dei Rappresentanti, è destinato non soltanto ad armare l’Ucraina, ma anche tutti «i Paesi dell’Europa dell’est toccati dall’invasione della Federazione di Russia».
FONTE: https://www.voltairenet.org/article216679.html
CULTURA
Behemoth e Leviathan exsistent. Carl Schmitt e l’arcano
di Ludovico Cantisani
Il giurista tedesco Carl Schmitt rappresenta una delle pietre angolari del pensiero del Novecento. Non solo e non tanto perché sulle sue tesi, e soprattutto sulla sua nozione di “stato d’eccezione”, sono stati pubblicati innumerevoli libri, saggi e riflessioni, l’ultimo, di poche settimane fa, Che cos’è lo stato di eccezione? secondo Mariano Croce e Andrea Salvatore (Nottetempo, 2022). Schmitt è una pietra angolare anche e soprattutto in virtù della sua non sopita capacità di fare scandalo, uno scandalo che solo in parte si giustifica con la sua momentanea adesione e partecipazione ai primi anni del potere hitleriano in Germania. Ma sfogliare le sue pagine tuttora dona un brivido inesplicabilmente panico, come se in opere di filosofia del diritto in parte datate sia rimasto oscuramente celato qualcosa di grandioso, come un segreto antichissimo che si sporge alla luce.
Giudicata “ai limiti dell’escatologico”, e dello gnostico, da Franco Volpi, ogni pagina di Schmitt è prima di ogni altra cosa una grande lezione di eleganza di pensiero, e di stile. La prosa di Schmitt è segretamente ossessiva, come tutte le grandi prose, quando non lo sono apertamente. Senza dubbio, si tratta di un inseguimento: di riga in riga, di pagina in pagina, Schmitt insegue come un cacciatore sacro le “parole originarie” – il conio è suo – su cui intessere una griglia di interpretazione del politico, e del giuridico. Nihil aliud. Ogni fondazione parte dal tracciare una linea di confine, lo sa fin troppo bene Remo. Ecco allora i confini di Schmitt.
“Un intrigante amalgama di interpretazione storica e teoria politica, mitografia e teologia, filosofia ed esoterismo”, venne definito da Franco Volpi il fortunato saggio di Schmitt Terra e mare, in un’elencazione che potrebbe facilmente essere estesa all’intero corpus schmittiano, e a ogni discorso potenziale sulla sua prosa.
“Più che offrirci un’interpretazione storica, Schmitt ci pone dinanzi a una visione”.
Una visione che non ha paura di scontrarsi con la Storia, di basarsi su di essa e, alla bisogna, di affidarsi al suo vaglio. Vaglio che può essere anche negativo: a Norimberga Schmitt dovette usare tutta la sua ars retorica per chiarire la differenza di piani di discorso che intercorreva tra la sua teoria dei “grandi spazi” e i richiami hitleriani della necessità di uno “spazio vitale” per la razza ariana, e scampare così a un processo al fianco dei veri gerarchi. La riflessione che fa Schmitt non ha mai la pretesa di essere immune dalla storia passata, rispetto alla quale è anzi molto precisa nella ricostruzione, soprattutto in ciò che riguarda atti legislativi o giuridici; e sa di poter non essere giudicata esente di conseguenze per un’eventuale storia futura, quando nelle sue analisi subentrano subdolamente degli elementi di profezia circa i nuovi nomos.
Il senso dell’impresa concettuale di Schmitt – impresa, non opera, perché Schmitt, sia pure dall’altro lato della barricata, è stato uno dei pochi pensatori del Novecento a mettere alla prova della Storia e della prassi le proprie idee – lo si ritrova in un suo testo del 1952, L’unità del mondo. Qui Schmitt non parla per sé – lo ha fatto, ma sempre a modo suo, in Ex Captivitate Salus – ma dalla prospettiva dei grandi Stati-blocco della Guerra fredda, dell’Est e dell’Ovest del mondo, URSS ed USA. Entrambi, agli occhi di Schmitt, tentano la loro “autointerpretazione in termini di filosofia della storia”.
E una simile formulazione è interessantissima, soprattutto in un momento, quale è il nostro, in cui la guerra e con essa la Grande Storia torna a bussare alle porte dei nostri giornali, agli angoli non più praticati delle nostre cronache.
Alla forza del marxismo dell’Est, “filosofia della storia in sommo grado”, l’Occidente ha saputo replicare soltanto con una più timida “filosofia della storia saint-simoniana del progresso industriale e dell’umanità pianificata, con tutte le sue numerose varianti e volgarizzazioni”.
Gli intellettuali vivono nell’angoscia provocata dalla “consapevolezza di una discrepanza fra progresso tecnico e progresso morale”, ma “le masse non si perdono in certi dubbi”, e si lasciano conquistare dall’ideale fantastico di un mondo tecnicizzato. Ideale che era lo stesso annunciato da Lenin, quando parlò di un’unità della Terra elettrificata: “qui fede orientale e fede occidentale confluiscono l’una nell’altra”.
In queste parole si lascia cogliere una sinistra corrispondenza di intenti che, negli stessi anni dello Schmitt de L’unità della terra, faceva tremare anche Heidegger di fronte a L’essenza della tecnica. Non per forza l’unità è un bene , soprattutto se affidata a una forza spersonalizzata o spersonalizzante come l’elettricità.
Passaggi come questo dimostrano appieno la profonda attenzione tributata da Schmitt all’attualità che lo circondava, attenzione che è però inattuale, se così si può dire.
Pochi pensatori del Novecento sono stati così consequenziali e deduttivi nello stile del pensare, eppure il suo armamentario concettuale, e l’immaginario visivo da cui attinge per illustrare i suoi concetti, è antichissimo. Schmitt è uno degli ultimi, grandi pensatori cattolici, e uno dei più complessi, sin dai tempi della Controriforma.
Dopo di lui c’è solo René Girard, poi il pensiero occidentale sembra intenzionato a fare del tutto a meno del messaggio di Cristo. Messaggio che, in sé e per sé, nel suo portato salvifico, è invero poco presente nelle pagine di Schmitt: da buon primitivo, lui guarda indietro, più indietro, verso i tempi del Diluvio, o tutt’al più di Giobbe. Magnifico commentatore di Hobbes, Schmitt non teme di evocare, in pieno XX secolo, il Leviatano, e anche la sua controparte terrigna, l’ancor più ineffabile Behemoth. Behemoth et Leviathan erano una coppia di mostri biblici su cui già William Blake nel secolo precedente si era inerpicato, ma più come pittore che come poeta. Risvegliarli in pieno Novecento non fu impresa da poco, l’occasione venne data a Schmitt da un agile saggio intitolato Terra e mare. Scritto che, nella sua brevità, rappresenta un punto cruciale nell’evoluzione del pensiero di Schmitt, perché segna le prime occorrenze del concetto escatologico di katechon.
“I cabalisti dicono che Behemoth si sforza di dilaniare il Leviatano con le corna o con le zanne, mentre il Leviatano serra con le pinne la bocca e il naso dell’animale terrestre, in modo che non possa più mangiare né respirare”.
In Terra e mare, il gusto di Schmitt per le immagini albeggia sin dalle prime pagine, non meno del suo amore per un’ontologia dei conflitti, che pone il tedesco in una genealogia diretta con Eraclito.
“Ora questa è – icastica come solo un’immagine mitica può esserlo – la rappresentazione del blocco di una potenza terrestre da parte di una potenza marittima, che taglia i rifornimenti alla terraferma per affamarla”. Poche pagine dopo Schmitt non temerà neanche di scomodare il Moby Dick di Melville, definendolo “il più grande epos dell’oceano in quanto elemento” mai scritto; e per tutta la lunghezza di Terra e mare la dimensione saggistica resta assediata da una sotterranea pulsione romanzesca, con cui Schmitt traccia, nella cornice ideale di un racconto fatto a sua figlia Alma, l’opposizione tra potenze marittime e potenze terragne nella storia dell’Occidente, sin dai tempi di Roma e Cartagine.
Gli sforzi teorici dell’ultimo Schmitt confluirono in quello che rimase uno dei suoi testi più voluminosi, Il nomos della terra – per l’esattezza, Il Nomos della Terra nel diritto Internazionale dello «Jus publicum europaeum». Questo lungo saggio, datato 1950, riprendeva le preoccupazioni del più coinciso Terra e mare, e sarebbe stato ulteriormente riverberato in due testi radiofonici, messi in onda negli anni cinquanta, il Dialogo sul potere e il Dialogo sul nuovo spazio. Per l’ultimo Schmitt, il punto sferzante è sempre quello: se già la scoperta dell’America e l’affermarsi della Gran Bretagna come vasto impero transoceanico avevano rappresentato una rivoluzione giuridica e quasi ontologica, perché ha accostato accanto al tradizionale nomos della terra il ben più sfuggente ambito del mare e dell’oceano, i progressi della tecnica stanno complicando ulteriormente la questione, perché adesso ad assistere al passaggio di uomini di diversi Stati ed, eventualmente, a entrare in guerra e diventare materia di conflitto c’è anche il cielo.
Schmitt non ha potuto assistere agli esiti, per il momento, ultimi della tecnica, all’instaurazione di un mondo dapprima digitale e adesso, sempre più spesso, tout court virtuale. Il virtuale è l’antitesi definitiva a ogni nomos della terra, a ogni fondazione chiara, a ogni confine netto: il virtuale è un regno di atopia. L’insistenza di Schmitt sulla terra come nomos resta nondimeno essenziale proprio nell’evidenziare una cesura. Il digitale ha dato un’illusione di unità al mondo, che il blocco di Facebook e Instagram imposto dalla Russia ha senza dubbio contribuito a scalfire. Lo diceva anche Roberto Calasso ne L’Innominabile Attuale: l’imporsi del digitale sta implicando delle rivoluzioni anzitutto cognitive nell’umano e nel sociale, che nessuno studioso di nessuna disciplina contemporanea sembra intenzionato ad affrontare fino in fondo. Se Schmitt aveva predicato cautela e attenzione nel momento fatidico dell’instaurarsi del “terzo nomos” dopo terra e mare, il nomos dei cieli, a maggior ragione oggi avrebbe rinnovato il monito su cui si chiudeva il Dialogo sul nuovo spazio: “la sottomissione della tecnica scatenata, questa sarebbe l’impresa degna di un nuovo Eracle!”.
Proprio qui si coglie il risvolto primitivo del pensiero di Schmitt. Primitivo non à la Lévi-Strauss, non solo perlomeno, primitivo nel senso di archetipico, di inevitabilmente religioso, di pericolosamente vicino a tutto ciò che, nel duplice senso della parola, compone gli arcana imperii. In quella rete eterogenea di filosofi, antropologi, romanzieri e psicologi alla Julian Jaynes che si potrebbero variamente definire “pensatori della secolarizzazione”, Schmitt riveste una posizione unica, sia per l’eterogeneità del suo percorso, sia per il suo carattere superbamente metariflessivo. Che un antropologo come Ernesto de Martino affermi che le esperienze di “apocalisse psicopatologiche” narrate nella letteratura esistenzialista dei suoi anni siano il riflesso simmetrico, in un tempo di crisi del rito, dei miti di “apocalisse culturale” tramandati dalle civiltà antiche, è un conto; che sia un filosofo del diritto e del politico ad affermare, a proposito della sua stessa disciplina, che “tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello stato sono concetti teologici secolarizzati” apre questa diagnosi a una dimensione riflessiva inaspettata, per speculum.
Ecco allora spiegata l’invocazione a Behemoth e al Leviatano non solo nell’affrontare la produzione di Hobbes, ma anche in un saggio metastorico come Terra e Mare: Schmitt pensa di praticare in prima persona una forma secolarizzata di teologia, e non teme di adoperare in forma esplicita alcuni dei concetti e dei protagonisti di quella “scienza madre” ormai defunta. È un gioco di specchi.
Risvegliare i mostri, invocare i titani. Non si può dire che l’agenda intellettuale di Schmitt mancasse di imprese cavalleresche, degne d’altri tempi. Conficcata nel cuore del Novecento nella posizione più insicura e al tempo stesso più vicina alle mostruosità del politico, nella posizione di chi bene o male si è compromesso col regime nazista al suo sorgere, la sua opera si erge tuttora come un’aspra lezione. All’interno della sua produzione, per potenza simbolica e per una capacità insperata di commischiare un pensiero “pagano” con i simboli della tradizione giuridico-cristiana, Terra e mare riveste una posizione felicemente liminare, a cui si deve la brillantezza della prosa di quel saggio. Se altri suoi testi più pragmatici come la giovanile Teologia politica o il più conclusivo Il nomos sulla terra possono assolvere più facilmente alla funzione cronachistica di essere riesumati per commentare il presente – nella contingenza, il conflitto tra Russia e Ucraina, o, prima, il Coronavirus – Terra e mare preserva l’eleganza intatta di un sovrastorico incarnato.
“Non pretendere di forzare gli arcana, ma aspetta di esservi ammesso e iniziato in forma conveniente”, scrisse Schmitt ad Ernst Jünger nel 1938, “altrimenti potresti essere tentato di distruggere qualcosa di indistruttibile”. Si parlava, ancora una volta, del Leviatano, ma con una magnifica incertezza fra l’originario Leviatano di Hobbes e il commento che Schmitt gli aveva dedicato in quell’anno tanto fatidico per la storia della Germania. Far così spesso riferimento ai mostri biblici, all’interno di testi per il resto così cristallini e quasi kantiani nella conseguenzialità delle loro teorie e interpretazioni, sembra quasi una cesura, una reazione restaurativa, nei confronti della cecità illuminista contro il sacro, ma anche un corollario del più oscuro monito goyano. La biografia stessa di Schmitt lascia intendere come, a furia di studiare i mostri, ci si possa trovare ad affiancarli.
C’è un verso meraviglioso di Eliot, dice You ought to be ashamed, I said, to be so antique. Si trova al termine della seconda stanza della Terra desolata, e le traduzioni, qui, un po’ si perdono: “ti dovresti vergognare, dissi, di sembrare una mummia” è la più comune, ma non rende appieno il tono disarmante e dolce di quell’antique.
Se la teoria junghiana non ha l’esclusiva sul concetto di “archetipo”, si può dire che il pensiero di Schmitt, almeno nella seconda parte del suo percorso inaugurata proprio da Terra e mare, proceda con fare archetipizzante. Dev’essere in questo che risiede la sua forza, dev’essere in questa inattualità dei simboli, che rende le tesi schmittiane paradossalmente contemporanee a ogni momento, e a ogni congiuntura storica.
FONTE: https://www.sinistrainrete.info/filosofia/22899-ludovico-cantisani-behemoth-e-leviathan-exsistent-carl-schmitt-e-l-arcano.html
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Biden e la mancata stretta di mano: la gaffe del Presidente americano
Usa, l’ultima gaffe di Joe Biden: stretta di mano immaginaria nell’imbarazzo generale
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Guerra in Ucraina, invio di armi e propaganda
Intervista al gen. Fabio Mini
“Negoziare, finirla con il pensiero unico e la propaganda, aiutare l’Ucraina a ritrovare la ragione e la Russia ad uscire dal tunnel della sindrome da accerchiamento non con le chiacchiere ma con atti concreti.” E’ il pensiero di Fabio Mini, generale di Corpo d’Armata dell’Esercito Italiano, già Capo di Stato Maggiore del Comando NATO del Sud Europa e comandante della missione internazionale in Kosovo. “E quando la crisi sarà superata, sperando di essere ancora vivi, Italia ed Europa dovranno impegnarsi seriamente a conquistare quella autonomia, dignità e indipendenza strategica che garantisca la sicurezza europea a prescindere dagli interessi altrui”, dichiara a l’AntiDiplomatico. E’ stato scritto correttamente come le voci più sensate nel panorama della propaganda a senso unico siano quelle dei generali, di coloro che conoscono bene come pesare le parole in momenti come questi. Come l’AntiDiplomatico abbiamo avuto l’onore di poter intervistare uno dei più autorevoli.
* * * *
L’INTERVISTA
Dal Golfo di Tonchino alle armi di distruzione di massa in Iraq- e tornando anche molto indietro nella storia – Generale nel suo libro “Perché siamo così ipocriti sulla guerra?” Lei riesce brillantemente a ricostruire i falsi che hanno determinato il pretesto per lo scoppio di diverse guerre. Qual è l’ipocrisia e il falso che si cela dietro il conflitto in corso in Ucraina?
Il falso è che la guerra sia cominciata con l’invasione russa dell’Ucraina. Questo in realtà è un atto nemmeno finale di una guerra tra Russia e Ucraina cominciata nel 2014 con l’insurrezione delle provincie del Donbas poi dichiaratesi indipendenti.
Da allora le forze ucraine hanno martoriato la popolazione russofona ai limiti del massacro e nessuno ha detto niente. Per quella popolazione in rivolta contro il regime ucraino non è stata neppure usata la parola guerra di liberazione o di autodeterminazione così care a certi osservatori internazionali. E’ bastato dire che la “Russia di Putin” voleva tornare all’impero zarista per liquidare la questione. L’ipocrisia è l’atteggiamento della propaganda occidentale pro-Ucraina che, prendendo atto che esiste una guerra, finge di non sapere chi e che cosa l’ha causata e si stupisce che qualcuno spari, qualcun altro muoia e molti siano costretti a fuggire. Ipocrisia ancor più grave della propaganda è il silenzio omertoso di coloro che tacciono sul fatto che dal 2014 Stati Uniti e Nato hanno riversato miliardi in aiuti quasi interamente destinati ad armare l’Ucraina e migliaia di professionisti della guerra per addestrare e arricchire i gruppi estremisti e neo-nazisti.
Nella stampa occidentale si tende a definire Putin come “un pazzo che ha scioccato il mondo con la sua iniziativa”. Eppure in un video del 1997 l’attuale presidente americano Biden dichiarava come l’allargamento ai paesi baltici (non all’Ucraina!) della Nato sarebbe stato in grado di generare una risposta militare della Russia. Non crede che dal 2014 l’Europa abbia sottovalutato la questione ucraina?
Non credo sia stata sottovalutata, ma è stata volutamente indirizzata verso la trasformazione graduale del paese in un avamposto contro la Russia, a prescindere dalla sua ammissione alla Nato. Di qui la pseudo rivoluzione arancione “ (2004), il sabotaggio interno ed esterno di ogni tentativo di stabilizzazione, l’alternanza di governi corrotti, la pseudo rivolta di Euromaidan, il colpo di stato contro il presidente Yanukovich (2014) fino alla elezione di Zelensky. Quest’ultimo è passato da un programma elettorale contro gli oligarchi, contro la corruzione politica e la promessa di “servire il popolo” ad una politica dichiaratamente provocatoria nei confronti della Russia. E questo era esattamente ciò che volevano gli Stati Uniti e quindi la Nato dal 1997.
Il tema dell’espansione Nato però è sempre stato tabù da noi…
L’espansione della Nato a est iniziata in quell’anno dopo una serie di prove di coinvolgere nella “cooperazione militare “i paesi dell’Europa orientale ( programma “Partnership for peace”) è stata una provocazione continua per 24 anni. Per oltre un decennio la Russia non ha potuto opporsi e la Nato, sollecitata in particolare da Gran Bretagna, Polonia e repubbliche baltiche ha pensato di poter chiudere il cerchio attorno ad essa “attivando” sia Georgia sia Ucraina. La Russia è intervenuta militarmente in Georgia e questo ha dato un segnale forte agli Usa e alla Nato, che non hanno voluto intervenire. Durante la crisi siriana del 2011 la Russia si è schierata con il governo di Bashar Assad e successivamente con la guerra all’Isis è intervenuta militarmente dando un contributo sostanziale alla sua neutralizzazione. Bashar Assad è ancora lì. Le operazioni russe in Siria ancorchè concordate e coordinate sul campo con la coalizione a guida americana, hanno disturbato i piani di chi voleva approfittare dell’Isis e delle bande collegate per destabilizzare l’intero medioriente. Un altro segnale del mutato umore russo è stata l’annessione della Crimea subito dopo il colpo di stato contro Yanukovic sostenuto dagli Stati Uniti e in particolare dall’inviata del Dipartimento di Stato Victoria Nuland e dall’allora vice presidente Biden. Dal 2014 in poi l’Ucraina con il sostegno degli Stati Uniti e della Nato ha assunto una linea ancora più ostile nei confronti della Russia e iniziato ad integrare nelle forze armate e nella polizia i gruppi neonazisti che si erano “distinti” negli scontri di Maidan. Gli stessi che ora organizzano la “resistenza ucraina” e coordinano i circa 16000 mercenari sparsi per il paese. Per tutto questo mi sento di dire che la Nato non ha trascurato l’Ucraina, anzi l’ha spinta con forza in un’avventura pericolosa per entrambi e soprattutto per noi europei.
In una recente apparizione in TV Lei ha detto di aver avuto modo di conoscere in prima persona i generali russi e ha definito quella russa “una guerra limitata per scopi limitati”. Quali sono gli obiettivi che i russi si sono posti sul territorio secondo lei?
In Kosovo avevo alle dipendenze anche il contingente russo di cui una parte garantiva sicurezza dell’aeroporto militare/civile di Pristina e un’altra schierata nel settore montano al confine con la Serbia. I rapporti con i generali russi erano quasi giornalieri e sempre molto corretti soprattutto nei miei confronti (in quanto italiano). Parlavamo di sicurezza collettiva e di futuro del Kosovo, una cosa alla quale nessuno nella Nato aveva pensato prima di andare in guerra. Parlavamo anche di operazioni militari e di dottrina. Vent’anni fa. La guerra limitata è una categoria prevista anche da Clausewitz e i russi sono sempre stati clausewitziani. All’inizio dell’invasione ho cominciato a vedere i segni non di una operazione speciale come l’ha definita Putin, ma di una serie di operazioni ad obiettivi limitati, unite dallo scopo strategico di impedire all’Ucraina di diventare il fulcro della minaccia militare alla Russia , ma tatticamente indipendenti. Le operazioni riguardavano la messa in sicurezza di territori del Donbass, la fascia costiera del mare d’Azov e del Mar Nero fino a Odessa e, se necessario, fino al confine con la Moldavia neutrale. L’avanzata su Kiev doveva essere l’operazione principalmente politica di pressione per i negoziati e l’eventuale instaurazione di un governo favorevole alla linea russa. Questa operazione non vincolata né al tempo né agli obiettivi: dipende dagli eventi. Se quelli diplomatici, politici e operativi evolvono in maniera soddisfacente l’operazione può essere interrotta. In caso contrario, dalla marcia d’afflusso le forze possono passare allo schieramento attorno alla città, e se ancora gli eventi sono negativi possono passare alla “preparazione” di fuoco poi al fuoco aereo e poi se e quando la città è allo stremo potrà iniziare la presa vera e propria della città. Questo tipo di operazioni con la tecnica del carciofo ha spiazzato tutti gli analisti della domenica che si aspettavano e forse cinicamente si auguravano di vedere la tempesta di fuoco alla quale ci hanno abituato gli americani in tutte le loro guerre. Ovviamente questa incredulità ha alimentato le speculazioni sull’effettiva potenza dell’apparato russo e sulla eroica resistenza ucraina che avrebbe arrestato l’invasione. L’apparato che vediamo in televisione dice però una cosa diversa: l’operazione è ancora intenzionalmente alla prima fase, in attesa di eventi. In questa situazione i vantaggi vengono soltanto dall’efficacia e credibilità della pressione. Gli svantaggi riguardano sia le provocazioni esterne (da parte della Nato) sia il rafforzamento della resistenza interna che non muterebbe il risultato dell’operazione ma farebbe molti più danni.
Ritiene che le armi che l’Italia invierà e i mercenari che stanno influendo potranno incidere sulle sorti del conflitto? E se comunque possono essere causa di ulteriori rischi…
Credo proprio di no. Lo renderanno più sanguinoso e anche di livello operativo più elevato. In caso di squilibrio di forze tattiche , si tende a passare a quello strategico e allora potranno essere impiegate armi di livello strategico come bombardieri, missili e perfino armi nucleari tattiche: tutte cose che porterebbero ad uno scontro diretto fra Nato e Russia.
Ritiene che il pericolo che i jihadisti-mercenari possano affluire dalla Siria in Ucraina in gran numero? E che complicanze si creerebbero nel conflitto?
I Jihadisti mercenari saranno pochi e potranno influire sul livello di barbarie, alzandolo. Di mercenari ce ne sono tanti e sono anche ben pagati. Quelli per l’Ucraina con i soldi nostri e quelli per la Russia con i soldi russi. L’afflusso di mercenari ha però un lato interessante: smonta completamente la tesi dei volontari combattenti per la patria. Inoltre, le compagnie di mercenari o contractors non si accontentano mai della semplice paga per i soldati ma pretendono sempre grandi cose dagli stati che li assoldano. Vogliono anche potere, assetti nazionali importanti come miniere, industrie, infrastrutture sensibili. Non sono mai soddisfatti e sono caduti dei regni per mercenari insoddisfatti.
Sui negoziati in Bielorussia. La Francia e Germania sembrano orientate ad un approccio di maggior mediazione mentre il nostro paese, assente nel vertice franco-tedesco-cinese, sembra preferire una visione più oltranzista. Giudica le richieste della Russia una base di partenza valida per l’Europa e cosa si rischia prolungando l’attesa di un vero confronto?
Le richieste russe, come in qualsiasi negoziato sono la base di una discussione. Se non è soddisfacente, ciascuna parte deve finirla di dire cosa vuole e cominciare a pensare cosa può cedere. In genere il più forte è quello più disponibile a cedere perché ritiene di “concedere” e quindi mantiene il prestigio intatto. La parte più debole deve solo ridimensionare il livello di ambizione. In questo caso ogni minima riduzione dell’ambizione ucraina porterebbe una grande concessione: la salvezza del paese. Il nostro paese ha decretato unilateralmente, come se parlasse per tutti, la fine dei negoziati, fra l’altro con un atteggiamento bullistico. L’atteggiamento degli altri è molto meno arrogante. E questo li rende in sintonia. Ma anche nel bullismo non siamo fra i migliori. La Gran Bretagna e la Polonia ci battono.
Il governo polacco ha dichiarato di voler fornire i propri Mig alle forze ucraine, ma facendoli partire dalle basi tedesche. Gli Stati Uniti hanno poi frenato l’iniziativa polacca. Quanto è reale l’opzione di una No fly zone in Ucraina e quanto è probabile un futuro coinvolgimento militare della NATO?
La dichiarazione di No fly zone dei cieli dell’Ucraina sarebbe un modo per accelerare il disastro. Chi la sta chiedendo a gran voce vuole il disastro e dimostra la propria incapacità di controllare il proprio spazio aereo. Vuole un pretesto per trascinare in guerra tutta l’Europa. Non dobbiamo cedere a questa tentazione perversa, soprattutto nei momenti come questi quando un attacco aereo finisce per colpire un padiglione di ospedale e l’emozione soffoca la razionalità.
La narrativa occidentale cerca oggi di minimizzare (o censurare del tutto) la presenza di neo-nazisti nei battaglioni incorporati alle forze ucraine, nonostante decine di reportage (dalla Bbc al Time al Guardian) in passato avessero fatto luce sulla vicenda con toni giustamente inorriditi. Ritiene credibile Putin quando parla di denazificare l’Ucraina come uno degli obiettivi?
La denazificazione a cui si riferisce Putin non riguarda l’Ucraina, ma il suo apparato governativo in cui tali elementi si trovano anche in posizione di vertice. I reportage hanno tutti ragione e comunque non rendono l’esatto conto della presenza e dell’influenza di questi gruppi. Sono state proprio le forze di polizia e dell’intelligence ucraina ad opporsi all’inserimento di tali elementi nei loro ranghi. Hanno dovuto subire ma oggi la caccia al russo (o filorusso) potrà mutare in caccia al nazi e visti i numeri e la frenesia degli interessati non mi stupirei se domani l’Ucraina cadesse dalla padella della guerra contro la Russia nella brace di una guerra civile .
Cosa dovrebbe fare il governo italiano in questo contesto e più in generale l’Europa?
Negoziare, finirla con il pensiero unico e la propaganda, aiutare l’Ucraina a ritrovare la ragione e la Russia ad uscire dal tunnel della sindrome da accerchiamento non con le chiacchiere ma con atti concreti. E quando la crisi sarà superata, sperando di essere ancora vivi, Italia ed Europa dovranno impegnarsi seriamente a conquistare quella autonomia, dignità e indipendenza strategica che garantisca la sicurezza europea a prescindere dagli interessi altrui.
FONTE: https://www.sinistrainrete.info/geopolitica/22510-fabio-mini-guerra-in-ucraina-invio-di-armi-e-propaganda.html
Zelensky e la rivelazione dei servizi segreti americani: “Restano pochi giorni”. La pericolosa strategia russa
E’tempo di resa per l’Ucraina? Secondo le previsioni dei servizi segreti di Stati Uniti e Gran Bretagna, l’esercito russo si è riposizionato per poter risalire il Paese dal Donbass, penetrare da Kharkiv, a est e convergere verso la città di Dnipro. E’ il Corriere della Sera a riportare che la strategia a tenaglia mira a “distruggere gli ucraini”.
Il Pentagono sa che la Federazione russa finora non ha espresso tutta la sua potenza di fuoco potendo contare su oltre 600 tank, 3 mila mezzi militari, artiglieria pesante, missili e aerei oltre a bombe chimiche, batteriologiche e peggio nucleari. Forze ingenti che il presidente ucraino Zelensky, a corto di armi e dispositivi anti aerei, non è in grado di neutralizzare rischiando di essere sopraffatto entro un mese.
Uno scenario disastroso che metterebbe fine all’indipendenza e alla libertà degli ucraini, ma che avrebbe conseguenze negative anche sull’Occidente. Ecco perché Zelensky non smette di lanciare appelli: “Abbiamo ancora bisogno di tempo e armi. Abbiamo parlato con tanti leader di Paesi amici e sono tutti concordi nel fornirci più armi e porre più sanzioni alla Russia”. Oggi il parlamento europeo ha chiesto l’embargo totale e immediato per gas petrolio dalla Russia, ma il nodo è che una maggior fornitura di armi porti a un’escalation che sfoci nella terza guerra mondiale.
FONTE: https://www.iltempo.it/esteri/2022/04/07/news/ucraina-servizi-segreti-americani-zelensky-pochi-giorni-strategia-russia-guerra-putin-31131031/
DIRITTI UMANI
Florida rifiuta dozzine di libri di testo di matematica su presunti riferimenti a CRT
16 04 2022
Un totale di 54 dei 132 libri di matematica recentemente presentati per la revisione statale sono stati ritenuti “inammissibili con i nuovi standard della Florida o contenevano argomenti proibiti”, ha affermato il Florida Department of Education (DOE) in un comunicato stampa. Questo segna il numero più alto di libri di testo rifiutati nella storia dello stato, ha aggiunto l’agenzia.
Secondo il DOE, almeno 28 di quei libri, la maggior parte dei quali destinati ai livelli K-5, incorporavano “argomenti proibiti o strategie non richieste, incluso CRT”.
“Sembra che alcuni editori abbiano tentato di schiaffeggiare una mano di vernice su una vecchia casa costruita sulle fondamenta del Common Core e indottrinando concetti come l’essenzialismo razziale, in particolare, stranamente, per gli studenti delle scuole elementari”, ha affermato il governatore repubblicano dello stato Ron DeSantis in una dichiarazione. “Sono grato che [il commissario per l’istruzione Richard] Corcoran e il suo team del Dipartimento abbiano condotto un controllo così approfondito di questi libri di testo per assicurarsi che rispettino la legge”.
Il DOE non ha incluso un elenco dei libri rifiutati né fornito esempi di come contenevano riferimenti a CRT o altri materiali “non richiesti”. Tuttavia, la mossa arriva mentre la Florida e altri stati a guida repubblicana stanno tentando di reprimere il curriculum scolastico.
L’anno scorso, il consiglio per l’istruzione della Florida ha annunciato che avrebbe vietato l’insegnamento del CRT nelle scuole pubbliche, anche se prima non faceva parte del curriculum statale.
La teoria accademica descrive come razza, classe, genere e sessualità influenzino la vita americana e insegna che l’ingiustizia razziale è stata una questione sistemica nella storia degli Stati Uniti. Gli oppositori del CRT si sono attaccati ad esso come un “catch-all” per discutere di razza e hanno sostenuto che insegna agli studenti a nutrire senso di colpa o odio verso il paese.
DeSantis in precedenza si riferiva al CRT come “tossico” e affermava che avrebbe insegnato ai bambini a credere che “il paese è marcio e che le nostre istituzioni sono illegittime”. La Florida è uno dei numerosi altri stati, tra cui Arkansas, Idaho e Oklahoma, che si sono mossi per vietare l’insegnamento del CRT nelle aule scolastiche.
Più recentemente, la Florida è stata al centro di polemiche riguardo alla sua legislazione sui diritti dei genitori nell’istruzione, che i critici hanno soprannominato il disegno di legge “Non dire gay”. Il disegno di legge, che DeSantis ha firmato alla fine del mese scorso, vieta la discussione in classe “sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere in determinati livelli scolastici o in un modo specifico”.
Il governatore ha anche firmato di recente un disegno di legge che consente ai genitori di avere una maggiore voce in capitolo sui libri che le biblioteche scolastiche possono trasportare. Ora, i consigli scolastici devono informare il pubblico quando intendono approvare nuovo materiale didattico e qualsiasi obiezione deve essere segnalata allo stato, ha riferito l’Associated Press. La Florida è attualmente al terzo posto per numero di incidenti che vietano libri scolastici in tutto il paese, con oltre 200 libri fuorilegge da luglio 2021 a marzo 2022, secondo NBC Miami.
L’ultima decisione del DOE di rifiutare dozzine di libri è stata accolta con aspre critiche, con un utente di social media che ha paragonato la questione alla “Rivoluzione culturale di Mao”.
La legislatore dello stato democratico della Florida Anna Eskamani ha dichiarato venerdì di aver richiesto un elenco completo dei libri di testo vietati.
“Mi chiedo se questi libri di matematica mettano in evidenza le statistiche sulle disparità razziali e questo è ciò che non gli piace?”, ha chiesto su Twitter. “Se quelle statistiche ti mettono a disagio, forse fai qualcosa al riguardo invece di cancellarle?”
Newsweek ha contattato il Dipartimento dell’Istruzione della Florida per un commento.
FONTE: https://www.ommercato.com/it/trad/florida-rejects-dozens-of-math-textbooks-over-alleged-references-to-crt_172686
La Teoria critica della razza, l’ideologia che sta intossicando l’America (e l’Occidente)
In un suo recente tweet, l’ex segretario di Stato Mike Pompeo ha scritto che la cosiddetta Critical Race Theory (teoria critica della razza) “fa parte del tentativo della sinistra radicale di iniettare il socialismo in ogni aspetto della nostra vita e indottrinare la prossima generazione di americani”. L’allarme di Pompeo si conclude con un’esortazione che lascia presagire un futuro piuttosto fosco: “We cannot allow our military leaders to be subjected to an un-American curriculum” (non possiamo permettere che i nostri capi militari siano soggetti a un curriculum non-americano).
Il dibattito nazionale sulla CRT si è aperto con gran clamore solo recentemente, anche se in America è un concetto accademico che affonda le sue radici negli anni ’60 e ’70 e ha ufficialmente visto la luce nel 1989. L’argomento è esploso nell’arena pubblica questa primavera, specialmente in ambito educativo — nel segmento scolastico che va dalla scuola materna a quella secondaria, o K-12, come viene definito nel sistema formativo statunitense — poiché numerose legislazioni statali hanno varato o stanno progettando leggi che intendono vietare l’applicazione/l’insegnamento in classe della teoria medesima.
Relegata per molti anni nelle università e in oscure riviste accademiche, negli ultimi dieci anni la CRT è diventata in pratica la nuova ortodossia istituzionale americana, cioè l’ideologia predefinita nelle istituzioni pubbliche del Paese. L’idea centrale è che il razzismo è un costrutto sociale e che non è semplicemente il prodotto di prevenzioni o pregiudizi individuali, ma anche qualcosa di incorporato nei sistemi legali e nelle politiche. Per maggior precisione si può vedere anche la definizione che si legge sul sito di Encyclopædia Britannica:
Movimento intellettuale e struttura di analisi giuridica non molto ben organizzata e basata sulla premessa che la razza non è una caratteristica naturale e biologicamente fondata di sottogruppi di esseri umani fisicamente distinti, ma una categoria socialmente costruita (inventata culturalmente) che viene utilizzata per opprimere e sfruttare le persone di colore. I teorici critici della razza sostengono che la legge e le istituzioni legali negli Stati Uniti sono intrinsecamente razziste nella misura in cui funzionano per creare e mantenere disuguaglianze sociali, economiche e politiche tra bianchi e non bianchi, in particolare gli afroamericani.
L’organizzazione conservatrice Heritage Foundation ha probabilmente dato inizio alle danze attribuendo alla CRT la responsabilità di aver favorito la nascita di movimenti di protesta spesso violenti, come il Black Lives Matter, o le limitazioni della libertà di parola e dibattito nei campus universitari. “Quando la sua logica viene applicata fino in fondo, la CRT è distruttiva e rifiuta le idee fondamentali su cui si basa la nostra repubblica costituzionale”, ha affermato l’organizzazione. “La teoria critica della razza”, spiega la Fondazione sulla prima pagina della sezione del suo sito web dedicata all’argomento, “fa della razza il prisma attraverso il quale i suoi sostenitori analizzano tutti gli aspetti della vita americana, classificando gli individui in gruppi di oppressori e vittime. È una filosofia che sta infettando tutto, dalla politica all’istruzione, al posto di lavoro e all’esercito”. Coerentemente con questi pesanti addebiti, a metà maggio in Idaho, Iowa, Oklahoma e Tennessee sono state approvate leggi che vietano la CRT nelle scuole, mentre in altri stati leggi analoghe sono in cantiere.
Qualche esempio di teoria critica della razza in azione (tra quelli riportati da Christopher F. Rufo sul New York Post nel luglio 2020 e nel maggio scorso): 1) il Dipartmento di Homeland Security dice ai dipendenti bianchi che commettono “microiniquità” e che si sono stabilmente “socializzati” nel ruolo di “oppressori”; 2) il Dipartimento del Tesoro tiene una sessione di formazione in cui dice ai membri dello staff che “praticamente tutti i bianchi contribuiscono al razzismo” e che devono convertire tutti, nel governo federale, all’ideologia dell’antirazzismo; 3) i Sandia National Laboratories, che progettano l’arsenale nucleare americano, inviano i dirigenti maschi bianchi in un campo di rieducazione di tre giorni dove si dice loro che la “cultura maschile bianca” è analoga al KKK, ai suprematisti bianchi e, udite udite, alle uccisioni di massa (i dirigenti sono pertanto costretti a rinunciare al loro “privilegio maschile bianco” e a scrivere lettere di scuse a donne fittizie e persone di colore); 4) A Cupertino, in California, una scuola elementare ha costretto i bambini di prima elementare a decostruire le loro identità razziali e sessuali e a classificarsi in base al loro “potere e privilegio”; 5) a Springfield, Montana, una scuola media ha pensato bene di costringere gli insegnanti a collocarsi in una “matrice di oppressione” basata sull’idea che i maschi etero, bianchi, cristiani e di lingua inglese, sono membri della classe degli oppressori e devono espiare per il loro privilegio e “supremazia bianca nascosta”; 6) a Filadelfia, una scuola elementare ha costretto gli alunni di quinta elementare a celebrare il Black Communism e simulare un raduno del Black Power per liberare la radicale degli anni ‘60 Angela Davis dalla prigione nella quale un tempo era stata detenuta con l’accusa di omicidio; 7) a Seattle, il distretto scolastico ha detto agli insegnanti bianchi che sono colpevoli di “omicidio spirituale” contro i bambini neri e devono rottamare il proprio privilegio “in riconoscimento dell’eredità rubata a questi ultimi”. Può bastare a rendere l’idea? “Sono solo un giornalista investigativo”, scrive Rufo, “ma ho sviluppato un database di oltre 1.000 di queste storie. Quando dico che la teoria critica della razza sta diventando l’ideologia operativa delle nostre istituzioni pubbliche, non esagero: dalle università alle burocrazie ai sistemi scolastici K-12, la teoria critica della razza ha permeato l’intelligenza collettiva e il processo decisionale del governo americano, senza alcun segno di rallentamento”.
Un altro episodio emblematico, riportato tra gli altri dal National Review per la penna di Charles C.W. Cooke. Una quindicina di giorni fa, l’attore Tom Hanks ha scritto per il New York Times un pezzo sul massacro di Tulsa del 1921, quando una folla composta da bianchi attaccò le persone e le proprietà della comunità afroamericana, provocando molte vittime, diverse centinaia di ospedalizzati, alcune migliaia di neri con la casa distrutta e danni per l’equivalente di oltre 30 milioni di dollari attuali. “Per tutto il mio studio”, ha ammesso Hanks, “non ho mai letto una pagina di nessun libro di storia della scuola su come, nel 1921, una folla di bianchi bruciò un posto chiamato Black Wall Street, uccise fino a 300 dei suoi cittadini neri e sfollò migliaia di neri americani che vivevano a Tulsa, in Oklahoma”. Questo, ha scritto Hanks, era forse dovuto al fatto che “la storia è stata scritta principalmente da bianchi su bianchi come me, mentre la storia dei neri – compresi gli orrori di Tulsa – è stata troppo spesso tralasciata”. Per tutta risposta, il critico televisivo del NPR (National Public Radio) Eric Deggan, ha spiegato che ciò che Hanks aveva scritto sul NYT “non era abbastanza”. “Tom Hanks”, ha ammesso Deggans, “è un non-razzista”. Ma, ha aggiunto, “è ora che sia anti-razzista”. Già, perché c’è una differenza tra l’essere non-razzisti e l’essere anti-razzisti. “L’anti-razzismo”, ha precisato Deggans, “implica azione: guardarsi intorno nel proprio universo e adottare misure specifiche per smantellare il razzismo sistemico”. E se le parole di Hanks sono “carine”, non bisogna dimenticare che il Nostro “ha costruito una parte considerevole della sua carriera su storie di uomini bianchi americani che fanno la cosa giusta”. “Se vuole davvero fare la differenza”, ha concluso Deggans, Hanks, così come tutte le altre star, “deve parlare in modo specifico di come il suo lavoro ha contribuito a questi problemi e di come intende cambiare le cose”. C’è da giurare che se anche Tom Hanks decidesse di seguire alla lettera le istruzioni di Deggans, il popolare attore sarebbe comunque ritenuto colpevole di qualcosa…
Che dire? Per fortuna questa follia ideologica e gli eccessi ai quali induce i suoi seguaci ha finito per stomacare anche alcuni neri, oltre che moltissimi bianchi. Sempre il New York Post ha riproposto un video pubblicato su TikTok in cui un padre di colore e sua figlia parlano contro la teoria critica della razza. Il video è diventato rapidamente virale. “Non importa se sei bianco o nero o di qualsiasi colore”, dice la bambina. “Il modo in cui trattiamo le persone si basa su chi sono e non su di che colore sono”, osserva il papà, e la ragazzina aggiunge “e se sono simpatici e intelligenti”. “Questo è il modo in cui pensano i bambini qui”, chiosa il padre, e conclude: “La teoria critica della razza vuole porre fine a tutto questo. Non con i miei figli, non succederà. Dobbiamo fermare la CRT. Punto. I bambini non vedono il colore della pelle. Amano tutti.” Il video ha ottenuto 26.000 visualizzazioni da quando è stato pubblicato su TikTok il 19 maggio scorso, ma ha raccolto 1,6 milioni di visualizzazioni su Twitter quando è stato condiviso dal candidato al Congresso repubblicano Robby Starbuck.
Le esagerazioni e il manicheismo maniacale di quelli come Deggans sono andati talmente oltre il limite che adesso la sinistra, dopo aver cercato di sfruttare (l’estate scorsa) gli entusiasmi suscitati dal movimento Black Lives Matter al fine di portare avanti la propria idea di anti-razzismo e la stessa teoria critica della razza, sta cercando freneticamente di ridefinire i termini del dibattito, dal momento che tutta la questione si sta ritorcendo contro i suoi promotori. I liberals ora cominciano a prendere le distanze dai pasdaran dell’anti-razzismo e a negare ipocritamente che la CRT venga insegnata, in maniera palese o occulta, nelle scuole K-12, anche se, come abbiamo visto, ci sono chiari esempi che li contraddicono. E del resto il New York Times ha pubblicato solo tre settimane fa un pezzo in cui si afferma che la teoria critica della razza è un “framework che ha trovato la sua strada nell’istruzione pubblica K-12”.
Ciò non toglie, appunto, che una certa aria di svolta la si respira, come fa notare Zachary Faria sul Washington Examiner del 16 giugno. La qual cosa significa che la spinta contro queste idee tossiche, sia da parte di genitori preoccupati alle riunioni del consiglio scolastico locale, sia da parte delle amministrazioni di vari stati a guida repubblicana, sta funzionando. La verità è che stanno perdendo la battaglia per indottrinare i giovani americani con la loro ossessione razziale tossica e divisiva. Che probabilmente le cose stiano evolvendosi nella giusta direzione è la prova di quel che ha scritto il 12 giugno scorso Victor Davis Hanson sul Las Vegas Review-Journal: “Sebbene questa rivoluzione elitaria di sinistra sia più pericolosa del suo sciatto predecessore degli anni ’60, è anche più vulnerabile, dato il suo odioso e pesante apparato, ma solo se il proverbiale ‘popolo’ alla fine dice alla sua follia: ‘Quando è troppo è troppo’.” Insomma, è arrivato il momento di dire basta.
FONTE: https://www.atlanticoquotidiano.it/rubriche/la-teoria-critica-della-razza-lideologia-che-sta-intossicando-lamerica-e-loccidente/
ECONOMIA
Eni fa profitti, gli italiani pagano la crisi
I fatti sono facili facili da mettere sul piatto: l’Eni chiude il primo trimestre con un più 300% rispetto all’anno precedente mentre gli italiani arrancano su bollette e benzina. Ora qualcuno potrebbe contestare la sovrapposizione delle due notizie ma questo è un esercizio arbitrario: c’è chi lo considera demagogico e populista, e chi invece fa notare che Eni è una partecipata di Stato quindi il governo una certa risposta ce la deve dare. A meno che non preferisca andare avanti con le dichiarazioni tipo quelle di Draghi (<Preferite la pace o i condizionatori>) o quelle di Cingolani che ha parlato di colossali truffe e aumenti ingiustificati.
PATRUSHEV: “GLI USA PARLANO DI UN POSSIBILE DEFAULT DELLA RUSSIA? È INVECE GIUNTO IL MOMENTO DEL LORO DEFAULT.”
Intervista al Segretario del Consiglio di Sicurezza: “Affinché un sistema finanziario nazionale possa essere sovrano, i suoi mezzi di pagamento devono avere un valore intrinseco e i prezzi devono essere stabili, senza essere ancorati al dollaro”. Nikolai Patrushev a tutto campo: dall’intervento militare in Ucraina, ai neonazi. Dal futuro dell’Europa a quello della Russia
thesaker.is
Nikolai Patrushev, segretario del Consiglio di sicurezza russo, in un’intervista alla Rossiyskaya Gazeta ha parlato dei compiti dell’operazione speciale russa e del ruolo degli Stati Uniti nel sostenere i neonazisti. E anche del prossimo futuro dell’Europa, delle riserve d’oro e di valuta estera russe, delle sanzioni e di quali cambiamenti potrebbero verificarsi in Russia nel prossimo futuro.
Nikolai Platonovich, oggi, forse, il termine “Guerra Fredda II” non sembra più un’esagerazione. Gli Americani non esitano a dichiarare di aver vinto il confronto con l’URSS e che vinceranno anche ora. Come valuta queste opinioni?
Nikolai Patrushev: Washington ha causato e sta causando tutta una serie di crisi nel tentativo di consolidare la sua egemonia, resistendo al crollo del mondo unipolare. Gli Stati Uniti stanno facendo di tutto perché gli altri centri del mondo multipolare non osino nemmeno alzare la testa, e il nostro Paese non solo ha osato, ma ha dichiarato pubblicamente che non giocherà secondo le regole imposte. Hanno cercato di costringere la Russia a rinunciare alla propria sovranità, all’identità, alla cultura e ad una politica estera e interna indipendente. Non abbiamo nessun dovere di essere d’accordo con questo approccio.
Nel tentativo di sopprimere la Russia, gli Americani, usando i loro protetti a Kiev, hanno deciso di creare un’antitesi al nostro Paese, scegliendo cinicamente l’Ucraina e cercando di dividere quello che essenzialmente è un unico popolo. Non avendo offerto nulla di positivo all’Ucraina, anche prima del colpo di stato del 2014, Washington ha promosso l’idea dell’esclusività della nazione ucraina e l’odio per tutto ciò che è russo. Tuttavia, la storia insegna che l’odio non può mai diventare un fattore affidabile di unità nazionale. Se c’è qualcosa che oggi unisce i popoli che vivono in Ucraina, è solo la paura delle atrocità dei battaglioni nazionalisti. Pertanto, il risultato della politica dell’Occidente e del regime di Kiev da esso controllato può essere solo la frammentazione dell’Ucraina in più stati.
L’Europa, come lei aveva avvertito un anno fa, ha finito per affrontare una crisi senza precedenti, compresa quella causata dal flusso di rifugiati ucraini. Come può questo influenzare la situazione interna degli stessi Paesi europei?
Nikolai Patrushev: I Paesi europei stanno affrontando una profonda crisi economica e politica. L’aumento dell’inflazione e il calo degli standard di vita stanno già facendo sentire il loro effetto sul portafoglio e sull’umore degli Europei. Inoltre, la migrazione su larga scala aggiunge nuove sfide alle vecchie minacce alla sicurezza, come la distribuzione illegale di droga e il crimine transnazionale. Quasi cinque milioni di migranti ucraini sono già arrivati in Europa.
Nel prossimo futuro, il loro numero crescerà fino a dieci milioni. La maggior parte degli Ucraini che sono andati in Occidente credono che gli Europei dovrebbero sostenerli e provvedere a loro e, quando saranno costretti a lavorare, inizieranno a ribellarsi.
I rappresentanti della comunità criminale che sono fuggiti dall’Ucraina cercheranno di occupare le nicchie a loro favorevoli, di mettere sotto controllo i gruppi criminali locali, il che sarà senza dubbio accompagnato da un aumento della criminalità in Europa. Vedremo un revival della diffusa vendita di bambini orfani presi dall’Ucraina e destinati alle adozioni illegali in Europa. L’Occidente sta già affrontando una rinascita dellla compravendita illegale di organi umani, prelevati da segmenti socialmente vulnerabili della popolazione ucraina e destinati a trapianti clandestini su pazienti europei.
Il flusso di migranti dall’Ucraina era iniziato molto prima del 2022 e ha riportato inEuropa malattie dimenticate da tempo. Infatti, solo un decimo dei rifugiati che arrivano dall’Ucraina sono vaccinati contro l’infezione da coronavirus, l’epatite virale, la tubercolosi, la rosolia e il morbillo. Questo perché in questa un tempo prospera repubblica dell’Unione Sovietica, le strutture per la prevenzione epidemiologica e del sistema sanitario di base sono state quasi completamente distrutte.
Ma questo, apparentemente, è solo l’inizio?
Nikolai Patrushev: Ha ragione. Questo è solo l’inizio. Sullo sfondo delle sanzioni anti-russe, il mondo sta gradualmente sprofondando in una crisi alimentare senza precedenti. Decine di milioni di persone in Africa o in Medio Oriente rischieranno di trovarsi senza cibo per colpa dell’Occidente. Per sopravvivere, si precipiteranno in Europa. Non sono sicuro che l’Europa sopravviverà alla crisi. Le istituzioni politiche, le associazioni sovranazionali, l’economia, la cultura e le tradizioni potrebbero diventare un ricordo del passato. L’Europa gemerà nella sua impotente frustrazione, ma l’America sarà liberata dalla sua principale paura geopolitica – l’unione politica ed economica di Russia ed Europa.
L’America ha a lungo diviso il mondo intero in vassalli e nemici. Noi, per loro, siamo un terreno di prova.
Gli Stati Uniti e i loro alleati ignorano i neonazisti e l’evidente ideologia fascista in Ucraina, armandola con le armi più moderne. Non è ora di riconoscere alcuni Paesi non amici alla stregua di Paesi che sostengono il fascismo, con tutte le conseguenze che ne derivano?
Nikolai Patrushev: L’Europa sta già affrontando un aumento delle manifestazioni fasciste e neonaziste, ufficialmente vietate, e questo perchè i criminali banderisti di ispirazione neonazista stanno fuggendo dall’inevitabile processo penale mescolandosi ai migranti che lasciano l’Ucraina. Questo porterà in Europa alla rinascita delle idee naziste, un fenomeni considerato impossibile fino a non molto tempo fa. Con tutta probabilità assisteremo alla crescita dell’ultradestra, alimentata da decine di migliaia di radicali ucraini addestrati e con esperienza di combattimento che hanno già trovato un linguaggio comune con i sostenitori europei di Hitler.
La storia si sta ripetendo. Dopo tutto, l’Occidente, quasi fino al settembre 1939, aveva negato il pericolo del regime nazista. Nel 1938, la rivista Time aveva riconosciuto Hitler come l’uomo dell’anno.
Nikolai Patrushev: Negli anni ’30, l’Occidente non solo non aveva negato, ma aveva contribuito attivamente alla formazione e all’ascesa al potere del fascismo in Germania. Soprattutto il grande capitale. Era stato più tardi, dopo la guerra, che gli storici occidentali avevano creato il mito degli industriali tedeschi che avrebbero dato il principale contributo alla creazione dell’economia di guerra di Hitler. Alcune aziende americane avevano collaborato con i nazisti addirittura fino al 1943, cioè fino alla svolta decisiva della guerra.
C’è persino una teoria secondo la quale il gas Zyklon B usato dai nazisti per uccidere gli internati nei campi di sterminio sarebbe stato sintetizzato con tecnologie occidentali.
Nikolai Patrushev: E si può leggere come i nazisti avessero costruito tutto questo processo. Tutti conoscono, per esempio, l’IBM. Era con le sue macchine calcolatrici che i nazisti tenevano i registri e pianificavano i processi di sterminio nei campi di concentramento. Il suo amministratore delegato, Watson, aveva ricevuto un’onorificenza di stato da Hitler. E questo è solo uno dei tanti esempi. Ora la storia si sta davvero ripetendo. È l’Occidente a fornire ancora il sostegno più attivo ai neonazisti ucraini, continuando a pompare armi in Ucraina.
Il complesso militare-industriale americano ed europeo esulta, perché grazie alla crisi in Ucraina è pieno di ordinativi. Non sorprende che, a differenza della Russia, che è interessata al rapido completamento di un’operazione militare speciale e a minimizzare le perdite da tutte le parti, l’Occidente sia determinato a combattere fino all’ultimo Ucraino. Per qualche ragione, il mondo pensa ancora che i militaristi e gli aggressori debbano indossare l’uniforme. Ma non fatevi ingannare dal perbenismo anglosassone. Nessun abito elegante può mascherare l’odio, la rabbia e l’assenza di umanità.
Molti dei nostri avversari globali affermano di non capire o di non riconoscere gli obiettivi dell’operazione militare speciale, ritenendoli inverosimili.
Nikolai Patrushev: L’operazione militare speciale ha degli obiettivi specifici, dal cui raggiungimento dipende non solo il benessere, ma la vita di milioni di persone, la salvezza della popolazione delle LPR e DPR dal genocidio che i neonazisti ucraini stanno portando avanti da 8 anni. Un tempo, il fascismo hitleriano sognava di distruggere l’intera popolazione russa e oggi i suoi seguaci, secondo i precetti di Hitler, stanno in modo blasfemico cercando di farlo per mano degli Slavi. La Russia non permetterà che ciò accada.
Parlando di denazificazione, il nostro obiettivo è quello di distruggere il santuario neonazista che l’Occidente ha creato ai nostri confini. La necessità di una tale demilitarizzazione è dovuta al fatto che un’Ucraina pesantemente armata rappresenta una minaccia per la Russia, anche dal punto di vista dello sviluppo e dell’uso di armi nucleari, chimiche e biologiche.
Lei pensa che gli Stati Uniti possano davvero mettere in scena tali provocazioni in Ucraina?
Nikolai Patrushev: Lei sta parlando di un Paese la cui élite non è in grado di apprezzare la vita altrui. Gli Americani sono abituati a fare terra bruciata. Dalla Seconda Guerra Mondiale, intere città sono state cancellate dai bombardamenti, compresi quelli nucleari. Hanno inondato di veleni la giungla vietnamita, bombardato i Serbi con munizioni radioattive, bruciato vivi gli Iracheni con il fosforo bianco e aiutato i terroristi ad avvelenare i Siriani con il cloro. Non credo che agli Stati Uniti, che hanno ripetutamente dimostrato la loro natura aggressiva anti-umana, importi qualcosa delle vite degli Ucraini. Come dimostra la storia, anche la NATO non è mai stata un’alleanza difensiva, ma solo offensiva.
Perché le élite americane avrebbero bisogno di tutto questo?
Nikolai Patrushev: L’America ha da tempo diviso il mondo intero in vassalli e nemici. Negli Stati Uniti, alla gente viene insegnato fin dall’infanzia che l’America è una città splendente su una collina, e il resto dell’umanità è solo un terreno di prova per esperimenti e un’appendice dove procurarsi le risorse. Quattrocento anni fa, i coloni inglesi derubavano e uccidevano gli Indiani perché li consideravano selvaggi incivili. Ora tutto questo è stato sostituito da una retorica democratizzante e basata sui diritti umani, ma la pirateria continua su scala globale. Le élite americane ricordano come gli Stati Uniti erano riusciti a diventare una superpotenza dopo due guerre mondiali, ma ora non vogliono accettare il fatto che l’impero globale americano è in agonia.
Secondo lei, il crollo del mondo americano-centrico è una realtà?
Nikolai Patrushev: Questa è la realtà in cui bisogna vivere e operare. A questo proposito, la Russia ha scelto la strada della piena protezione della propria sovranità, della ferma difesa degli interessi nazionali, dell’identità culturale e spirituale, dei valori tradizionali e della memoria storica.
I nostri valori spirituali e morali ci permettono di rimanere noi stessi, di essere onesti con i nostri antenati, di preservare l’individuo, la società e lo stato. Gli Europei, per esempio, hanno fatto una scelta diversa. Hanno adottato i cosiddetti valori liberali, anche se in realtà sono neoliberali. Promuovono la priorità del privato sul pubblico, l’individualismo che sopprime l’amore per la patria e il graduale appassimento dello stato. È ormai evidente che con una tale dottrina, l’Europa e la civiltà europea non hanno futuro. A quanto pare, ripeteranno le lezioni che non hanno ancora imparato.
Quali lezioni?
Nikolai Patrushev: Ce ne sono parecchie. Non bisogna dimenticare che tutti gli sconvolgimenti storici iniziano con la diffusione di idee popolari ma potenzialmente distruttive. Pensi alla Rivoluzione Francese. Dai suoi slogan mal interpretati era emersa la tirannia di Napoleone, che aveva affogato mezza Europa nel sangue ma che si era rotta i denti contro la Russia.
Cosa aveva fatto il nostro Paese? Aveva smembrato la Francia, bruciato Parigi? No, l’imperatore Alessandro I aveva ripristinato lo stato francese e, nel 1815, aveva dato inizio alla creazione della Santa Alleanza in Europa. Quell’Unione mirava a rispettare l’integrità territoriale degli stati, a sopprimere i movimenti nazionalisti e aveva assicurato all’Europa quarant’anni di esistenza pacifica.
Poco più di cento anni dopo era apparsa l’ideologia del nazismo. L’Unione Sovietica aveva fatto tutto il possibile per distruggerlo, ma allo stesso tempo aveva patrocinato la rinascita di uno stato tedesco indipendente. Stalin, alla Conferenza di Yalta, aveva insistito su questo punto. L’URSS, alla fine degli anni ’80, era stata la prima a sostenere l’unificazione della Germania. Il nostro Paese ha storicamente giocato un ruolo speciale nel plasmare non solo il clima geopolitico, ma anche quello morale nel mondo.
Lei ha definito “pirateria” lo stile anglo-americano di interazione con il mondo. Ora l’Occidente sta facendo una simile incursione piratesca contro la Russia. E a questo proposito si pone la domanda: quanto era giustificata la decisione di collocare fuori dai confini nazionali le riserve di oro e di valuta estera?
Nikolai Patrushev: Questa decisione si è rivelata ingiustificata dal punto di vista della sicurezza finanziaria dello Stato. Un’altra considerazione è che, così facendo, l’Occidente sta colpendo non solo la Russia, ma anche se stesso. L’attuale sistema finanziario globale è costruito esclusivamente sulla fiducia, anche negli Stati Uniti come emittente della valuta di riserva mondiale. Mezzo secolo fa l’oro era un fattore che occorreva tenere in considerazione, ma nel 1971, gli Stati Uniti avevano slegato la loro moneta dal prezzo dell’oro e questo aveva reso possibile l’emissione di denaro in modo praticamente incontrollato.
Cercando di sostenere la loro economia, continuamente in condizione di pre-crisi, gli Stati Uniti inondano le loro banche, le imprese e la popolazione con denaro garantito da obbligazioni statali. Il risultato in America e in Europa è un alto tasso di inflazione. Allo stesso tempo, il debito estero degli Stati Uniti ha superato i 30 trilioni di dollari. Eppure, per qualche insondabile motivo, gli Americani stanno discutendo di un possibile default della Russia. È però giunto il momento del loro default. Per superare le conseguenze negative delle politiche passate e creare nuove opportunità di arricchimento, gli Stati Uniti stanno creando una crisi globale. Cioè, vogliono risolvere i loro problemi a spese del resto del mondo e, tra l’altro, soprattutto a spese dell’Europa.
Secondo me, questo non preoccupa affatto gli Europei.
Nikolai Patrushev: Al contrario, sono felici di camminare verso quell’abisso che gli Stati Uniti hanno scavato per loro. In questo senso, molto è cambiato dalla Guerra Fredda. Allora gli Europei resistevano a Washington con più fiducia. Forse a causa del fatto che le vecchie generazioni di politici realisti non erano ancora diventate un ricordo del passato. A quel tempo, il muro era a Berlino, ma l’attuale élite europea il muro ce l’ha in testa.
Negli anni ’80, nel tentativo di indebolire l’economia sovietica, gli Stati Uniti avevano cercato di vietare alle compagnie europee di comprare idrocarburi da Mosca. A quel tempo l’Europa non era d’accordo con Washington. Gli Stati Uniti avevano anche vietato alle proprie aziende di vendere tecnologie di perforazione offshore all’URSS, e questo aveva danneggiato decine di aziende americane e giapponesi. Washington aveva fatto ricorso alla disinformazione per ritardare la costruzione da parte dell’Unione Sovietica di un gasdotto verso l’Europa. Le ricorda qualcosa?”
E cosa dobbiamo fare per garantire la sovranità del rublo?
Nikolai Patrushev: Affinché un sistema finanziario nazionale possa essere sovrano, i suoi mezzi di pagamento devono avere un valore intrinseco e i prezzi devono essere stabili, senza essere ancorati al dollaro. I nostri esperti stanno lavorando, su un progetto proposto dalla comunità scientifica, per creare un sistema monetario e finanziario a doppio circuito. In particolare, si propone di determinare il valore del rublo facendolo sostenere sia dall’oro che da un paniere di materie prime e di allineare il tasso di cambio del rublo con la reale parità di potere d’acquisto.
Idee simili erano state sollevate in precedenza. Ma molti esperti avevano sostenuto che andavano contro le teorie economiche…
Nikolai Patrushev: Non contraddicono le teorie economiche, ma piuttosto i libri di testo di economia occidentale. L’Occidente ha stabilito unilateralmente un monopolio intellettuale sulla struttura ottimale della società e lo usa da decenni. Permettetemi di ricordare che le riforme shock degli anni ’90 nel nostro paese erano state realizzate rigorosamente secondo le direttive americane.
L’innamoramento dei nostri imprenditori usciti da quell’epoca per i soli meccanismi di mercato, senza tener conto delle specificità del nostro Paese, è un fattore di rischio. Non siamo contrari all’economia di mercato e alla partecipazione alle catene globali di produzione, ma siamo chiaramente consapevoli che l’Occidente permette agli altri Paesi di essere suoi partner solo quando lo considera redditizio. Pertanto, la condizione più importante per garantire la sicurezza economica della Russia è fare affidamento sul potenziale interno del Paese, sull’adeguamento strutturale dell’economia nazionale su una base tecnologica moderna.
Come si potrebbe arrivare oggi a questo risultato? Si parla molto di una sostituzione delle importazioni, ma non è un segreto che una svolta decisiva non è ancora stata raggiunta.
Nikolai Patrushev: I compiti e le priorità sono fissati in modo assolutamente corretto e noi continueremo ad attuarli. Un’altra cosa è che è necessario rafforzare significativamente la disciplina della loro attuazione, anche tra i servizi competenti.
Se tutte le istruzioni del capo di stato nel campo della sostituzione delle importazioni fossero eseguite in tempo, saremmo in grado di evitare molti dei problemi che l’economia russa sta affrontando oggi.
Vi faccio un esempio. La creazione di un impianto a San Pietroburgo per la produzione di insulina di alta qualità era stata osteggiata da diverse entità russe. Oggi, questa è un’impresa seria, dove la produzione di medicinali è completamente indipendente dalle importazioni, ad eccezione dell’imballaggio. Tuttavia, anche questo dovremmo produrlo noi, come ci dicono, per esempio, i produttori di alimenti. Naturalmente, non dobbiamo chiudere gli occhi di fronte a risultati significativi. Un successo significativo nella sostituzione delle importazioni è stato raggiunto dalle imprese della Rostec Corporation, soprattutto quelle che producono prodotti per l’industria della difesa.
Per citare un altro esempio, grazie alla Dottrina della Sicurezza Alimentare sviluppata dal Consiglio di Sicurezza, siamo stati in grado di aumentare l’autosufficienza del nostro Paese nel campo dell’alimentazione di base. Questo è un risultato molto significativo, che il nostro Paese non era riuscito a raggiungere durante tutto il 20° secolo. Pertanto, tutti i tentativi degli Occidentali di scaricare sulla Russia la responsabilità della crisi alimentare globale da loro provocata sono, ovviamente, destinati a fallire.
La Russia dovrà ampliare la gamma di prodotti nazionali ad alta tecnologia. È importante promuovere lo sviluppo della produzione il più presto possibile. Presteremo particolare attenzione ai cambiamenti qualitativi nella selezione del personale scientifico e alla valutazione dell’efficacia delle loro attività. La scienza russa dovrebbe diventare una forza produttiva leader, una delle forze trainanti dello sviluppo del nostro Paese.
Sono fiducioso che risolveremo tutti i problemi sorti a causa delle delle sanzioni. La Russia si sta spostando dal mercato europeo a quello africano, asiatico e latinoamericano. Diamo un’attenzione prioritaria all’Unione Economica Eurasiatica, la cui importanza sta crescendo nelle condizioni attuali. Stiamo intensificando la cooperazione con i Paesi BRICS e SCO, che raccolgono circa tre miliardi e mezzo di persone sul pianeta.
Lei ha menzionato la scienza, ma, nel mondo moderno, penso che sia necessario ricostruire non solo essa, ma anche l’istruzione superiore e scolastica.
Nikolai Patrushev: Sono sinceramente convinto che non potremo svilupparci con successo senza una chiara comprensione da parte di tutta la società dei nostri scopi e dei nostri obiettivi nazionali, la vera profondità della nostra identità spirituale e storica. Pertanto, ogni cittadino del nostro Paese, ogni Russo, fin dall’infanzia dovrebbe conoscere e capire per cosa viviamo e lavoriamo tutti, come un unico popolo, e per cosa lottiamo.
L’Occidente continua ad agire in linea con la dottrina disumana del “miliardo d’oro,” che implica una riduzione significativa, con varie modalità, della popolazione mondiale. Per fare questo, l’Occidente ha creato malignamente un impero di bugie che comporta l’umiliazione e la distruzione della Russia e di altri stati indesiderabili. Ci sputano negli occhi e dicono che è la rugiada di Dio.
Washington e Bruxelles non nascondono che le loro sanzioni mirano all’impoverimento materiale e spirituale dei Russi. Distruggere la nostra educazione, imponendo i cosiddetti modelli progressivi di educazione, è un compito strategico per gli Occidentali come, per esempio, avvicinare la NATO ai nostri confini.
In realtà, qui non c’è nulla di progressista. Negli Stati Uniti, per esempio, molti già dicono che si dovrebbe cantare e ballare nelle lezioni di matematica, perché risolvere problemi ed equazioni potrebbe opprimere e discriminare qualcuno. Noi non abbiamo bisogno di questo “progresso.” La situazione attuale dimostra la necessità di difendere i tradizionali valori spirituali e morali russi, di riformare il sistema educativo e il miglioramento culturale con il ritorno dei vantaggi, storicamente giustificati, della scuola nazionale. Sono ancora convinto che il sistema scolastico sovietico fosse, storicamente, il più avanzato e progressista del mondo, e, se vogliamo andare avanti, dovremmo tenerne conto.
Cosa si dovrebbe fare esattamente?
Nikolai Patrushev: E’ necessario prestare maggiore attenzione allo sviluppo del pensiero logico, per formare una conoscenza stabile e la capacità di prendere decisioni indipendenti, non solo per riempire caselle vuote nei test. Sviluppare l’applicazione delle scienze fondamentali.
Non si può contare solo sulla digitalizzazione dell’educazione, poiché Internet può essere non solo una fonte di informazione enciclopedica ma anche di disinformazione politicizzata. Al centro di tutto sta lo sviluppo delle qualità intellettuali e spirituali personali. Bambini istruiti correttamente, a tutto tondo, fisicamente e moralmente sani, che conoscono e comprendono la storia e la cultura della loro patria sono la nostra ricchezza e garantiscono il successo dello sviluppo della Russia. Per il bene del futuro dei nostri figli, per il bene del Paese prospero e ricco in cui vivranno, stiamo lavorando oggi.
Link all’articolo originale: https://rg.ru/2022/04/26/patrushev-zapad-sozdal-imperiiu-lzhi-predpolagaiushchuiu-unichtozhenie-rossii.html
Link alla traduzione inglese: https://thesaker.is/nikolai-patrushev-secretary-of-the-russian-security-council-in-an-interview-with-rossiyskaya-gazeta/
30.04.2022
FONTE: https://comedonchisciotte.org/patrushev-gli-usa-parlano-di-un-possibile-default-della-russia-e-invece-giunto-il-momento-del-loro-default/
La picchiata di Wall Street ad aprile: un campanello d’allarme?
La Federal Reserve inizia a varare la fine del lungo piano di stimoli avviato per contrastare la crisi pandemica, il mondo assiste alla tempesta geopolitica della guerra russo-ucraina e nei poteri economici a stelle e strisce c’è maretta sulla scia della “guerra dei miliardari” tra Jeff Bezos ed Elon Musk. Risultato? Il Nasdaq, l’indice dei titoli tecnologici americani che è stato il motore del decollo delle borse nell’ultimo biennio, ha conosciuto una forte correzione negativa.
Come ha sottolineato Rai News, infatti, le perdite sono state notevoli e estese all’interno mondo borsistico americano, su cui spicca il “calo cumulativo del 13,3% del Nasdaq, che ha subito il suo mese peggiore dal 2008, trascinato al ribasso dalle massicce vendite nel settore tecnologico”. Nasdaq che non è i Ad aprile, il Dow Jones ha perso un cumulativo del 4,9% e l’S&P 500, che rappresenta il mercato più ampio negli Stati Uniti e comprende molte società tech, è sceso dell’8,8%. Ovvero per entrambi è stato il mese peggiore dal 1970″.
Tesla, perla dell’impero di Elon Musk, ha lasciato a terra in un mese un quinto della sua capitalizzazione (-19,72%); Amazon quasi un quarto (-24,01%). Più contenute le perdite di Apple e Meta, attorno al 10%, mentre Netflix è andata invece vicina al dimezzamento: -49% ad aprile. Il Big Tech ha lasciato sul terreno oltre 1,4 trilioni di dollari di capitalizzazione.Gli investitori, in questa fase, “hanno scaricato in massa i loro titoli per beni più sicuri di fronte a una serie di fattori molto preoccupanti: dall’aumento dei tassi di interesse e l’inflazione record negli Stati Uniti, alla guerra in Ucraina e lo scoppio di una nuova epidemia di Covid in Cina”. Ma c’è di più. La fine della fase di vacche grasse monetarie e del lungo decennio del quantitative easing globale, scaricatosi sulla scia del surriscaldamento economico in America e della bomba inflattiva che sta divorando la ripresa europea, ha messo gli investitori in una mentalità più prudente.
Non è la fine del mondo, dunque, ma è sicuramente la fine di un mondo: il mondo distopico emerso dal totale disaccoppiamento tra economia reale e finanza speculativa dopo l’inizio della pandemia. L’immissione di gigantesche quantità di denaro nei circuiti finanziari e il crescente fenomeno della dipendenza dei sistemi occidentali dal Big Tech ha fatto sì che mentre nel mondo i lockdown si moltiplicavano, le vittime di Covid si contavano a centinaia di migliaia e lo scambio di merci frenava le borse, quelle Usa in testa, conoscessero il più grande boom della loro storia. Dall’1 gennaio 2020 al 31 dicembre 2021 il solo Nasdaq, ad esempio, è cresciuto complessivamente del 73%, Tesla addirittura del 1092%, vedendo le azioni passare da 88,60 1056,78 dollari a unità. Valori insostenibili in un mondo non più soggetto al doping finanziario costante. A cui si aggiungeva l’imprevedibilità dei fenomeni sistemici e geopolitici dell’era successiva all’emergenza pandemica globale.
Dunque, si sta assistendo al definitivo sgonfiamento della grande bolla alimentata dagli stessi protagonisti della finanza mondiale con il processo dei buyback azionari: enormi quantità di denaro preso a prestito a basso costo sfruttando il contesto favorevole in campo monetario sono statie dirottate verso il riacquisto di azioni da parte dei gruppi stessi, in modo tale da gonfiarne il valore e, di conseguenza, favorire il top management che guadagna dividendi direttamente legati al risultato azionario. Il più recente buyback di Alphabet, di fine aprile, ha riguardato una quota di azioni dal valore di 70 miliardi di dollari: un quantitativo degno di due corpose manovre di bilancio italiane. Nel 2021 le compagnie dell’indice S&P 500 – che raggruppa le 500 imprese statunitensi quotate a maggiore capitalizzazione – hanno riacquistato azioni per 882 miliardi di dollari e nei primi tre mesi del 2022 tale quota è stata pari a 319 miliardi.
La grande sardana finanziaria ballata dagli operatori americani è giunta al termine. E, lo ribadiamo, potrebbe non essere una cattiva notizia. Uno sgonfiamento graduale verso valori meno speculativi dei giganti della borsa, le compagnie tecnologiche, può prevenire un’esplosione della bolla finanziaria che travolgerebbe il mondo. Nuovi, rovinosi casi come quello di GameStop sarebbero, in caso di deflazione borsistica, solo un ricordo. E soprattutto si potrebbe evitare l’effetto panico, la realizzazione della mai abbastanza compresa lezione di Charles Kindleberger sul ruolo delle emozioni nell’esplosione delle bolle finanziarie accelerato dalla vendita degli investitori in preda al panico.
Qual è la morale di tutta questa storia? Il fatto che il motore per la vera ripresa globale e il rilancio del mondo post-bellico segnato da inflazione feroce, crisi energetica e relazioni internazionali nel caos sarà l’economia reale delle industrie, dei giacimenti energetici, dei trasporti, dell’agricoltura, dei commerci. Non più subordinabile all’umoralità di una finanza che dà e toglie con imprevedibilità. E che si è spinta troppo oltre i suoi perimetri più gestibili nell’ultimo biennio. Un effetto positivo della guerra e del caos globale potrebbe essere la spinta dei mercati a governare la ritirata verso livelli più sostenibili in forma non caotica. Prevenendo dunque uno schianto rovinoso. E consentendo ai governi di capire in che modo muoversi per regolamentare gli eccessi della finanza e, soprattutto, preservare le economie reali e gli investimenti strategici oggi più necessari dalla sua volatilità. Che si rispecchia, ricordiamolo, anche in quei beni energetici e quelle materie prime decisive per l’economia reale, sul cui affidamento ai mercati borsistici oggi è giusto interrogarsi.
FONTE: https://it.insideover.com/economia/la-picchiata-di-wall-street-ad-aprile-un-campanello-dallarme.html
I Gigacapitalisti
di Riccardo Staglianò
A distanza di tempo il ricordo più vivido che ho della passeggiata sulla versione nautica di Versailles è la schiena di una donna. All’apparenza magrebina, china per terra ad appiccicare pezzetti di nastro adesivo azzurro su scalfitture nel parquet di rovere. Guasti che io, pur sforzandomi, non riuscivo a vedere. Lei sì. Il suo mestiere era di individuare i graffi impercettibili nel pavimento patrizio di quella nave da 160 milioni di euro. E poi quelli sui lavandini in travertino, sulle boiserie alle pareti e così via. A bordo anche la più piccola imperfezione era bandita. Lei doveva denunciarla, appiccicandoci sopra un nastro adesivo blu, e qualche specialista sarebbe intervenuto per sanarla. Mentre camminavo con soprascarpe di gomma per non peggiorare la situazione mi sono chiesto quanto guadagnasse per quel lavoro parossistico e ho provato a immaginarmi che casa avesse lei e quanta acribia potesse permettersi nella sua manutenzione. Milleduecento euro, il suo stipendio mensile, era quanto quella sontuosa abitazione marina consumava di cherosene in mezza giornata per tenere accese le luci. Lo sapeva? Ci pensava mai? E che effetto le faceva questa pantagruelica sproporzione? Centosessanta milioni di euro. Fermatevi un attimo a pensare. In equivalenze al tempo del Covid significano mascherine per tutta l’Africa o prime dosi Astrazeneca per quasi 90 milioni di esseri umani. (…)
Una ricchezza pericolosa (per la democrazia)
La parabola nautica, con i suoi record di business pandemico, serviva solo come location (dove piazzare i nostri eroi) e metafora (dell’andamento strepitosamente anticiclico dei loro portafogli).
Ciò che proverò a fare, nelle pagine che seguiranno, è abbozzare un identikit dei campioni assoluti di questa nuova schiatta di ultra-ricchi. Non per invidia di classe – sono decisamente sazio con i soldi che ho e non trovo niente di male nel fatto che ci siano persone che ne hanno tanti di più – ma perché mi sembra che i patrimoni dei Bill Gates, Jeff Bezos, Elon Musk, Mark Zuckerberg del mondo abbiano raggiunto dimensioni incompatibili con un buon funzionamento della democrazia. Nel senso che quelle spaventose quantità di denaro si traducono inevitabilmente in altrettanto potere. Compreso quello di interferire sulle leggi che decidono ad esempio quante tasse far pagare e a chi (vale la pena rammentare che questi signori hanno tutti almeno due mestieri: il proprio e quello di elusore fiscale). Studiandone le biografie il topos più ricorrente, e storicamente inedito, è che si tratta di privati cittadini in grado di fare cose prima appannaggio solo degli stati.
Privati come Stati
Gates, come mi ha fatto notare un’amica no green pass al termine di un’intemerata altrimenti piena di fattoidi distorti e sfondoni puri e semplici, se la defezione dell’America minacciata da Trump fosse andata in porto, col suo 10 per cento sarebbe diventato il principale finanziatore dell’Organizzazione mondiale della sanità. Per dire. Bezos, se i suoi piani continuano a marciare come negli ultimi vent’anni, si candida a diventare l’emporio unico dell’umanità. Prima di Musk nello spazio c’erano andati sono Russia, Stati Uniti e Cina. Oggi questo Creso che sembra ancora scontare i danni del bullismo patito da piccolo è il fornitore ufficiale della Nasa per scarrozzare avanti e indietro i suoi astronauti. Nell’attesa di colonizzare Marte. Infine c’è Zuckerberg di cui sempre più commentatori (e investitori) chiedono la testa per offrirla in pasto alla pubblica opinione scandalizzata dalla serie crescente di rivelazioni su un cinismo aziendale innalzato a forma d’arte. E parliamo di uno che, se la sua creatura fosse una nazione, con quasi tre miliardi di cittadini sarebbe più popolosa della Cina. Con un livello di sorveglianza, sia detto per inciso, che Pechino si sogna. Com’è quindi che, nello spazio di una generazione, questi che chiamerò gigacapitalisti (in ossequio sia al gigayacht da 500 milioni di dollari che Bezos si sta facendo costruire dall’olandese Oceanco e che tutti loro potrebbero largamente permettersi, sia ai gigabyte e ai gigabit, unità di misura del mondo digitale di cui sono a vario titolo campioni), com’è, dicevamo, che sono diventati addirittura più potenti dei loro predecessori dell’inizio del secolo scorso?
Cos’hanno in comune…..
Parlo del gruppo di imprenditori statunitensi che nei cinquant’anni tra il 1865, fine della guerra civile americana, e l’inizio della Prima guerra mondiale, fu largamente responsabile della trasformazione della società in cui operavano da agricola a industriale. E che in quel traghettamento ammassarono anche enormi fortune. (…) Ma al di là del pallottoliere, che pur conta, quali sono similitudini e differenze tra i «baroni di rapina» e i «sultani del silicio» secondo una nomenclatura rilanciata dall’Economist qualche anno fa? Molto, rispondeva il settimanale liberale, economicamente super pro-mercato e politicamente conservatore: «Sono gli Übermenschen degli ultimi 200 anni di capitalismo americano, le persone che sentono il futuro nelle loro ossa, lo fanno accadere e a volte si spingono troppo oltre». Che è già, considerata la fonte, un discreto segnale di allarme. E, come i «malfattori di grande ricchezza» di un tempo, anche questi «nuovi capitalisti stanno perdendo la loro patina» accusati da sempre più fronti di applicare le stesse spudorate strategie di subornare politici, impiegare lavoro precario, danneggiare i concorrenti e soprattutto monopolizzare i mercati perché se «Rockefeller una volta controllava l’80 per cento del petrolio mondiale oggi Google detiene il 90 del mercato delle ricerche in Europa e il 67 negli Stati uniti». Ieri come oggi la «somiglianza che colpisce di più è il fatto di aver rimodellato le basi materiali della civiltà».
Leland Stanford e E.H. Harriman stesero oltre 200 mila miglia di binari creando le ferrovie. Andrew Carnegie rimpiazzò il ferro con l’acciaio, reinventando l’edilizia e tutto il resto. Ford inaugurò l’era dell’automobile. Bill Gates ha messo un pc in ogni casa. Larry Page e Sergey Brin li hanno riempiti di tutta la conoscenza del mondo. Mark Zuckerberg ha collegato in una piazza virtuale quasi 3 miliardi di persone. «Come le ferrovie resero possibile per oscure aziende di rivoluzionare dal cibo (Heinz) al bucato (Procter & Gamble), internet consente ad altri imprenditori di rivoluzionare ogni cosa dalle vendite al dettaglio (Amazon) ai trasporti (Uber)».
Ieri come oggi il successo ottenuto in un settore ha fatto sviluppare loro un appetito insaziabile anche per quelli vicini. Il solito Rockefeller comprò foreste, creò fabbriche per trasformare il legno in barili, produsse componenti chimici per la raffinazione e mise in piedi flotte di navi e treni per trasportare i suoi prodotti. Jezz Bezos dal commercio in proprio è passato ai server che rendono possibile quello di tutti gli altri, alla robotica che gestisce i magazzini, allo streaming che invoglia sempre più persone ad abbonarsi a Prime e così via. Elon Musk dalle auto elettriche alle batterie, ai pannelli solari per alimentarle. L’edizione 2019 del rapporto della Internet Society ha coniato il termine di «total service environments», ambienti a servizio totale. Ovvero della tendenza delle piattaforme a diventare una destinazione onnicompresiva, espandendosi nel maggior numero di direzioni possibili, offrendo sempre nuovi servizi e contenuti, sia per trattenere gli utenti che aumentare i fatturati.
Chiediamo allo storico
Sebbene l’Economist sia un gran giornale, è pur sempre un giornale. Per il raffronto storico meglio chiedere a uno specialista. Noam Maggor, che insegna alla Queen Mary University of London, è l’autore di Brahmin Capitalism che per i tipi della Harvard University Press ha raccontato l’America industriale della fine del diciannovesimo secolo. Dopo le doverose cautele di rito («Paragoni in epoche diverse sempre difficili») approva il parallelo, che può contribuire «a un’utile conversazione pubblica»: «Allora chi possedeva le ferrovie e il telegrafo decideva i prezzi da praticare agli agricoltori che le usavano per spedire le merci o quelli per far circolare le informazioni. Amazon, Google e Facebook non sono in condizioni tanto diverse». «Discriminazione» era il termine che ricorreva più spesso nelle denunce dei produttori di allora: «Non doveva essere un privato a decidere i vincitori e vinti di quel commercio. All’epoca era chiaro ma poi, fino a oggi, la dottrina antimonopolistica è stata interpretata in chiave di consumer welfare, ovvero di tutela dei consumatori dal rialzo dei prezzi. E lì Amazon ha avuto buon gioco nel dire che con loro i prezzi andavano addirittura giù».
I parallelismi proseguono, sul fronte della lotta alla sindacalizzazione, tanto odiata dai robber barons quanto dagli odierni gigacapitalisti. «Ma quella di pensare ai dipendenti di Amazon come a un gruppo circoscritto di una fase temporanea – come Lincoln diceva del lavoro in fabbrica, in attesa che ognuno diventasse imprenditore di se stesso – che non ci riguarda è un errore di prospettiva perché il trattamento di quei lavoratori si riverbererà, come sempre è avvenuto, su tutti gli altri» avverte Maggor.
Infine c’è l’attitudine dell’opinione pubblica: i gigacapitalisti sembrano più amati che disprezzati. «Anche Richard Hofstadter, uno degli storici più importanti del secolo scorso, sosteneva la stessa cosa dei robber barons» dice Maggor «ma poi storici successivi hanno mostrato gli scioperi, le marce, la violenza: una storia di conflitti. Quando faccio lezione cito l’esempio di George Pullman, il cui nome è diventato sinonimo di bus, che da un giorno all’altro tagliò del 30 per cento i salari dei suoi dipendenti per fronteggiare una crisi economica lasciando intatti quelli dei manager e quando morì dovettero seppellirlo in una speciale cripta di metallo per paura che venisse riesumato per spregio dagli anarchici. Se Hofstadter leggesse oggi Time che celebra Musk come uomo dell’anno, l’ammirazione dei media mainstream nei confronti dei Gates, Jobs e così via, arriverebbe forse alla stessa conclusione. Ma c’è una corrente di odio che non va sottovalutata. La stessa che Trump, fra tutti i politici possibili, è stato così scaltro da cavalcare quando ha puntato il dito contro Big tech in difesa dell’America manifatturiera. Una rabbia montante che, fino al 1930, fu sottovalutata come oggi. Allora c’è voluto un Franklin Delano Roosevelt per incanalarla, ora non so chi sarà, ma so che è un sentimento che esiste e ha ottime ragioni».
…e cosa dovrebbero avere!
(…) Nel 1911, accogliendo l’iniziativa del dipartimento di giustizia, la Corte Suprema decretò lo smembramento della Standard Oil in trentaquattro distinte società. John D. Rockefeller si ritirò in silenzio da ogni carica. In una recensione sul New Yorker di An Ugly Truth: Inside Facebook’s Battle for Domination di Sheera Frenkel e Cecilia Kang Jill Lepore ricorda il ruolo decisivo della Tarbell nell’aver apparecchiato lo spezzatino di un secolo fa. Le assonanze di oggi con ieri sono vistose. Solo la reazione è diversa. Molto più urbana. Anzi questi gigacapitalisti – sarà che trafficano in merci molto meno sporche di petrolio e acciaio – il più delle volte fanno simpatia. Colpa dell’eterno elemento afrodisiaco del potere, di politici spesso non all’altezza della situazione e di tanti giornalisti – o quanti, che si bevono la retorica siliconvallica di «rendere il mondo un posto migliore» o che di ogni nuovo smartphone non trovano di meglio da dire che è «il migliore di sempre» – che preferiscono vestire i panni dei cheerleader che quelli dei guastafeste. Ecco, tra tanti difetti, almeno quest’ultimo ce lo siamo fatti mancare. E in questo libriccino, che vorrebbe essere una specie di keisaku (il bastoncino che il maestro zen usa per ridestare chi, nella meditazione, si assopisce, pur non essendo io né maestro né tantomeno zen), un keisaku editoriale con cui proviamo a dire: fate attenzione. Perché i nostri concittadini hanno dato prova di essere sin troppo zen rispetto alle mostruose disuguaglianze di cui sono vittime o spettatori ma la loro pazienza – immagino, reputo, spero – non è infinita.
FONTE: https://www.sinistrainrete.info/neoliberismo/22935-riccardo-stagliano-i-gigacapitalisti.html
GIUSTIZIA E NORME
Green pass, ecco fino a quando l’Europa (zitta zitta) lo ha prorogato
In Italia il premier Draghi ed il ministro della Salute Speranza hanno già “candidamente” ammesso che il Green pass, studiato come strumento emergenziale, diverrà presto ordinario, in previsione di una futura pandemia. I mezzi di controllo e gestione utilizzati, quindi, verranno semplicemente messi nel cassetto, pronti ad essere tirati fuori al bisogno. E per molti il bisogno sarà già in autunno, quando ritorneranno a parlare di varianti, aumento dei contagi, restrizioni, mascherine e lasciapassare. In quest’ottica l’Europa non è stata da meno. Le istituzioni europee, infatti, hanno dimostrato una certa riluttanza ad abbandonare le misure adottate durante la pandemia e la cui esistenza era giustificata unicamente dal sussistere dell’emergenza sanitaria. Cosa è successo nell’ultima votazione nella Commissione per le libertà civili, afferente al Parlamento europeo?
È stata approvata l’estensione del certificato sanitario Covid europeo (il Green pass, appunto) fino al 30 giugno 2023, affinché i cittadini non siano privati del loro diritto alla circolazione “indipendentemente dall’evoluzione della pandemia”. Come puntualizza L’Indipendente, “nonostante l’attenuarsi della pandemia abbia portato diversi Paesi in Europa a non rinnovare lo stato di emergenza, il Green pass si profila come uno strumento per il momento destinato a rimanere sul piatto ancora per qualche tempo.
La decisione della Commissione è stata presa, si legge sul sito del Parlamento europeo, “per garantire che i cittadini dell’UE possano beneficiare del loro diritto alla libera circolazione indipendentemente dall’evoluzione della pandemia Covid-19″. La risoluzione è stata approvata con 48 voti a favore, 16 contro e nessun astenuto. La proposta era al vaglio già dall’inizio dell’anno, con la motivazione che non fosse determinabile “l’impatto di un possibile aumento delle infezioni nella seconda metà del 2022 o dell’emergere di nuove varianti”.
Gli eurodeputati hanno sottolineato che gli Stati membri dovrebbero “evitare ulteriori restrizioni alla libertà di movimento per i titolari dell’EUDCC [il Certificato Covid digitale dell’UE], a meno che non sia assolutamente necessario”. Il provvedimento sarà ad ogni modo riesaminato e “proporzionato” sei mesi dopo la sua estensione, in quanto l’intento sarebbe quello di “abbreviare il periodo di applicazione del regolamento non appena la situazione epidemiologica lo permetta”.
FONTE: https://www.ilparagone.it/attualita/europa-proroga-green-pass/
LA LINGUA SALVATA
Abramitico
Parole semitiche
a-bra-mì-ti-co
SIGNIFICATO Che riguarda il patriarca biblico Abramo, che è proprio delle fedi monoteiste che riconoscono Abramo come patriarca
ETIMOLOGIA dal nome del patriarca Abramo, che nella Tanakh, la bibbia ebraica, ricorre nelle due forme Abram e Abraham. In entrambe ab significa ‘padre’, nella prima ram sta per ‘alto, innalzato’, nella seconda raham comunica il senso di ‘moltitudine, di molti’.
«Ebraismo, cristianesimo e islam sono le tre religioni abramitiche.»
Le tre fedi monoteiste sono anche dette religioni abramitiche perché riconoscono come patriarca la figura di Abramo (Ibrahim in arabo). Quindi posso dire che stasera vado a mangiare una pizza con Rachele e Nur: è kasher e halal, quindi rispettiamo tutte le regole delle religioni abramitiche e facciamo contente tutte, ma anche che ci sono state delle discussioni interessanti alla conferenza in merito ad alcuni punti in comune tra le fedi abramitiche.
Nato dalla stirpe di Noè attraverso Sem, Abramo compare nella Genesi, in cui si dice che veniva da Ur, nell’attuale Iraq, e che prese in sposa la sorellastra Sara. Ella, sterile, non poté generare figli. Dio parlò ad Abramo e gli promise una stirpe numerosa e una terra nella quale prosperare. Abramo allora partì. Il resto è ‘storia’.
La tradizione vuole che il popolo ebraico discenda da Abramo attraverso il figlio legittimo, avuto dalla moglie Sara, ovvero Isacco, mentre il popolo arabo proverrebbe dalla stirpe nata dal figlio illegittimo avuto con la schiava Agar. Chi era costui? Chiamatelo Ismaele.
La cosa più interessante del nome di Abramo è che compare in due forme, nel testo biblico. La prima è Abram, la seconda è Abraham. Nella Bibbia di Gerusalemme queste due versioni del nome vengono rese con Abram e Abramo (così come, d’altra parte, sua moglie è presentata come Sarai e successivamente come Sara). È in Genesi 17,4 che avviene questo cambio di nome, quando Dio e Abramo stringono un patto d’alleanza suggellato dal simbolo della circoncisione:
Subito Abram si prostrò col viso a terra e Dio parlò con lui:
«Quanto a me, ecco, la mia alleanza è con te:
diventerai padre di una moltitudine di nazioni.
Non ti chiamerai più Abram,
ma ti chiamerai Abramo,
perché padre di una moltitudine di nazioni ti renderò.»
Nella forma italiana è un discorso di cui alla prima occhiata non si coglie il senso, ma se si va a guardare il nome in ebraico si capiscono molte cose: ab significa padre, mentre le due desinenze hanno direzioni differenti.
La prima, ram, si collega al concetto di altezza, di innalzamento: ne risulta quindi un primo nome dal significato di ‘padre glorificato, innalzato, esaltato’. La seconda desinenza, raham, è legata ad una radice semitica che ritroviamo anche in altre lingue come l’arabo, e comunica il significato di moltitudine. Il risultato è ‘padre di molti, padre di moltitudini’. Il che spiega come mai Dio decide di chiamarlo così, perché una delle promesse che fa all’uomo di Ur è una stirpe numerosa, malgrado la sterilità della moglie Sara.
Se andiamo a fare i conti di quanta gente di schiatta abramitica c’è al mondo, non si può dire che Dio non sia stato di parola!
Parola pubblicata il 29 Aprile 2022
Parole semitiche – con Maria Costanza Boldrini
Parole arabe, parole ebraiche, giunte in italiano dalle vie del commercio, della convivenza e delle tradizioni religiose. Con Maria Costanza Boldrini, dottoressa in lingue, un venerdì su due esploreremo termini di ascendenza mediorientale, originari del ceppo semitico.
FONTE: https://unaparolaalgiorno.it/significato/abramitico
LAVORO PENSIONI DIRITTI SOCIALI
Morti sul lavoro: la strage senza fine nelle statistiche Inail
Dopo il martedì nerissimo dei morti sul lavoro – il 28 settembre 2021 sette persone sono decedute in poche ore e un infermiere è stato stroncato dal Covid – siamo andati a vedere quanto è pesante il tributo di sangue che si paga lavorando. Con l’aiuto delle statistiche Inail e cercando di conoscere nomi e storie delle vittime
Gli ultimi dati parziali e provvisori diffusi dall’Inail (che aggiorna di mese in mese i bollettini nella sezione “open data”) raccontano che da gennaio ad agosto 2021 hanno perso la vita almeno 772 lavoratori e lavoratrici dipendenti, oppure appartenenti a particolari categorie (una media di 3,2 tragedie quotidiane).
Durante i turni di servizio e nelle postazioni assegnate sono morte 620 persone (pari all’80,3%), altre 152 (19,7%) sono decedute in itinere (nei tragitti casa-lavoro e viceversa, in spostamenti tra due sedi diverse o per recarsi a pranzo e poi rientrare).
Nel 2020 si era arrivati a 1.538 denunce di decessi (4,2 al giorno), compresi quelli correlati al Covid. Nel 2019 le morti furono 1.205, 1.279 nel 2018. Ma il bilancio è ancora più pesante e drammatico, per quest’anno e per quello passato.
Morti sul lavoro 2021: dentro i riders, fuori le categorie extra Inail
«L’Istituto – dice a Osservatorio Diritti Silvino Candeloro, della direzione nazionale di Inca Cgil – computa le denunce di morte delle lavoratrici e dei lavoratori dipendenti coperti dalla propria assicurazione, dei soggetti assimilati (ad esempio i parasubordinati) e del personale del “Conto Stato” (cioè di amministrazioni centrali, scuole e università statali). Restano fuori gli abusivi e i sommersi, in nero o clandestini, e gli operatori di categorie che non ricadono sotto l’ombrello Inail: forze di polizia e forze armate, vigili del fuoco, liberi professionisti indipendenti, consulenti del lavoro e periti industriali, commercianti titolari di imprese individuali, alcune partite iva, giornalisti, dirigenti e impiegati del settore agricolo, contadini per hobby, amministratori locali, sportivi dilettanti, parte del personale di volo, volontari della protezione civile e infermiere volontarie della Croce rossa. In compenso nelle statistiche e nelle tutele dell’Istituto da poco rientrano i riders, i ciclofattorini delle imprese di consegna a domicilio, perlomeno quelli messi in regola. A breve – continua Candeloro – dovrebbero essere ricompresi anche i lavoratori autonomi dello spettacolo (incluso il personale di supporto, ad esempio elettricisti, falegnami, parrucchieri».
Nel confronto 2020-2021 per ora il numero cala, ma molti morti sul lavoro restano non censiti
Le denunce presentate all’Istituto tra gennaio e agosto 2021, tornando ai dati parziali e provvisori, sono per ora attestate a quota 772 (in attesa dell’arrivo di tutte le segnalazioni per decessi Covid correlati), 51 in meno rispetto alle 823 raccolte nei primi otto mesi del 2020 (-6,2%).
La differenza è il risultato di un diverso andamento delle due macro categorie prese in considerazione. I decessi in itinere sono saliti da 138 a 152, 14 in più (+10,1%). Sempre nei primi otto mesi dell’anno in corso sono calati i morti nei luoghi di lavoro, 65 in meno (da 685 a 620, -9,5%).
Fonti ufficiose ipotizzano che circa un terzo degli infortuni mortali sul lavoro rimanga sottotraccia, non censito, e che la quota di sommerso sia ancora più rilevante nel settore agricolo e sul fronte degli incidenti stradali. Il ministero del Lavoro, contattato per avere il totale globale dei morti, non fornisce numeri né stime, rimandando ai soli dati Inail.
Luna, Laila e le altre: nomi e storie di donne morte lavorando
Le vittime restano in gran maggioranza uomini, con lo stesso tasso per i primi otto mesi 2021 e i primi otto mesi 2020 (89,9%). Nei due periodi raffrontati le lavoratrici decedute sono passate da 83 a 78 (5, -6,0%), i colleghi da 740 a 694 (46 meno, -6,2%).
Nomi e volti di donne e ragazze rimangono però più impressi di altri. Luana D’Orazio, ad esempio. Aveva 22 anni e un figlio piccolo. Lavorava in una azienda tessile di Montemurlo, vicino a Prato. Il 3 maggio 2021 è stata risucchiata e stritolata da un orditoio con le protezioni manomesse.
E Laila El Harim, 40 anni, madre di una bimba. Tre mesi dopo è stata uccisa da una fustellatrice in un’azienda di packaging di Camposanto, nel Modenese. Non era stata formata per le mansioni affidate, aveva inviato al compagno le foto dei congegni che la preoccupavano.
I morti italiani e quelli stranieri nelle statistiche Inail
Sempre nei primi otto mesi 2021 è sceso il numero delle denunce di decessi di lavoratori italiani (da 700 a 663, -67, pari al -9,6%) e colleghi comunitari (da 41 a 25, 16 in meno, cioè -39,0%), mentre le segnalazioni per lavoratori extracomunitari erano 82 e sono diventate 84 (2 in più, +2,4%).
Dall’analisi per età delle vittime emergono incrementi per le classi 15-19 anni (2 casi in più), 25-29 anni (+5 casi) e 40-54 anni (+43 ) e decrementi per la fasce 20-24 (-4 morti), 30-39 anni (-12 casi) e per gli over 55 (-86 croci), che rappresentano comunque il 45% del totale (349 morti).
Morti sul lavoro in Italia: ci sono anche ragazzi e ragazze
Vecchi con esperienza e giovani pieni di energie, nessuno è al sicuro. Il 24 agosto 2021 è toccata a Enzo Ferrari, 91 anni, contadino in pensione. Una delle pesanti balle di fieno che stava sistemando, in una tenuta agricola di Cadebosco di Sotto (Reggio Emilia), gli è franata addosso e non gli ha lasciato scampo.
Tra i ragazzi si ricorda Simone Valli, 18 anni appena, da poche settimane guardiacaccia. È scivolato in un dirupo, all’interno di una azienda faunistico-venatoria del comune montano di Teglio (Sondrio). Un volo di 100 metri. La fine, in una domenica d’estate, l’8 agosto 2021.
Quali sono i settori più pericolosi e le regioni in cui si muore di più sul lavoro
La gestione Industria e servizi tra gennaio e agosto 2021 è l’unica a far registrare un segno negativo nella conta delle vittime (-10,4%, da 721 a 646 denunce mortali, pari a 75 vittime in meno).
Di segno opposto il ramo Agricoltura (da 70 a 84 denunce, relative ai soli assicurati e non a tutti i lavoratori del settore, pari a 14 morti in più, +20%) e il Conto Stato (da 32 a 42 vittime, 10 morti di differenza, +31,2%).
Dall’analisi territoriale emergono un’impennata di infortuni letali nel Sud (da 165 a 211 casi mortali) e un curva crescente nel Nord-Est (da 161 a 167) e al Centro (da 147 a 150). I cali sono localizzati nel Nord-Ovest (da 265 a 169) e nelle Isole (da 52 a 50 morti).
Una commissione ad hoc per chi muore in divisa
Per l’Inail sono infortuni mortali sul lavoro anche quelli provocati dal Covid-19, che sta condizionando la raccolta e la comparazione dei dati: la causa virulenta è equiparata a quella violenta ai fini assicurativi. Il riconoscimento degli indennizzi, fatti i controlli di rito e salvo eccezioni, è previsto innanzitutto per i sanitari esposti a un elevato rischio di contagio e poi per i lavoratrici e lavoratori a costante contatto con il pubblico e l’utenza (come addetti ai front-office, cassiere, banconisti, lettighieri).
Altre amministrazioni statali (come ministero dell’Interno e della Giustizia, interpellati da Osservatorio Diritti) hanno maglie strettissime. I casi vengono esaminati ad uno ad uno da una commissione creata ad hoc, chiamata a decidere se accordare o meno il riconoscimento del nesso causale tra pandemia e attività lavorativa, con le ricadute economiche e le garanzie previste per coniugi, partner e figli.
A fine agosto, a fronte di 17 poliziotti di Stato (dati sindacali) e 13 poliziotti penitenziari uccisi dal Covid (dati ministeriali), l’attribuzione di caduto in servizio non era ancora stata accordata per alcuna vittima.
Vittime del virus e del dovere: chi sono i poliziotti morti sul lavoro
Qualche esempio. Per la polizia penitenziaria, 37 mila effettivi e quotidiane aggressioni in carcere, tra gennaio 2020 e agosto 2021 risulta un unico deceduto e in itinere: l’assistente capo Mauro Di Bernardo, coinvolto in un incidente mentre in macchina stava andando a prendere servizio al carcere de l’Aquila, il 17 maggio 2021.
Per la polizia di Stato, 98 mila uomini e donne, i caduti in servizio tra gennaio e agosto sono due: Marino Terrazza e Gianluca Quaino, 37 e 54 anni. Il primo è stato investito durante un intervento per un tamponamento, il 28 luglio 2021, a Posada (Nuoro). ll secondo non è scampato a un frontale avvenuto sulla strada per rientrare a casa a fine turno, a Moimacco (Udine), il 16 settembre 2021. Un morto nel 2020, quattro nel 2019.
Dove la vita corre i pericoli maggiori
I picchi di infortuni mortali denunciati all’Istituto, prendendo come riferimento l’intero 2020, riguardano imprese di costruzioni (149 assicurati morti), trasporti e magazzinaggio (144), sanità e assistenza sociale (108, con la variabile Covid che ha pesato), fabbriche di prodotti in metallo (42 decessi), aziende alimentari e delle bevande (30).
Artigianato e Agricoltura totalizzano 223 e 124 vittime e “solo” contando i lavoratori coperti dall’Inail (come confermano dalla sede centrale).
FONTE: https://www.osservatoriodiritti.it/2021/10/04/morti-sul-lavoro-2021-oggi-2020-2019-statistiche-italia/
PANORAMA INTERNAZIONALE
La Cina attacca la Nato “strumento di egemonia”
La Cina contro la Nato: strumento per cercare egemonia
La Cina attacca la Nato, definita “uno strumento di singoli Paesi per cercare l’egemonia” non solo nel Nord Atlantico, ma anche nell’Asia-Pacifico, verso cui si è rivolta negli ultimi anni “per mostrare la sua potenza e fomentare conflitti”.
Così il portavoce del ministero degli Esteri Wang Wenbin, in risposta ai giudizi della ministra degli Esteri britannica Liz Truss sull’importanza della Nato di avere una prospettiva globale, citando Taiwan e l’Indo-Pacifico. La Truss ha rimarcato che “come prodotto della Guerra Fredda e più grande alleanza militare al mondo, l’Alleanza dovrebbe valutare la situazione e apportare gli adeguamenti necessari”. liberoquotidiano.it
FONTE: https://www.imolaoggi.it/2022/04/28/la-cina-attacca-la-nato-strumento-di-egemonia/
Amnesty chiede soldi per indagare sui crimini di guerra in Ucraina
“Se qualcuno si era illuso che una guerra in Europa sarebbe stata meno crudele quell’llusione è terminata molto presto a Bucha a Mariupol e in altri luoghi dell’Ucraina perché lì si stanno svolgendo come sempre in guerra crimini contro la popolazione civile”: così Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, in un video appello.
“Amnesty International è in Ucraina ogni volta che sia possibile per raccontare gli attacchi russi contro i civili, quando non è possibile lavoriamo da remoto con il nostro Crisis Evidence Lab che verifica immagini filmate o fotografie per stabilire che si riferiscano esattamente a quel luogo, a quella data, a quell’ora. Inoltre esamina i resti delle munizioni, i danno dei bombardamenti e gli obbiettivi colpiti per determinare se si è trattato di crimini di guerra” prosegue Noury.
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“Le prove, Amnesty intende sottoporle alla giustizia internazionale che ha già avviato indagini con la Procura del Tribunale Penale Internazionale, perché quando questa maledetta guerra sarà finita non cominci il tempo dell’impunità” conclude Noury. “Tutto questo lavoro ha un costo enorme ed è per questo che chiediamo di sostenerci con il 5 per mille ad Amnesty International Italia”. askanews
CRIMINI DI GUERRA DEI RUSSI?
SOSPETTI DI FRODE SI ADDENSANO SULLE ELEZIONI PRESIDENZIALI FRANCESI?
Di Tomaso Pascucci per ComeDonChisciotte.org
Si sa, siamo stati traghettati a marce forzate nell’era del digitale e del “in tempo reale”, per cui non c’è da sorprendersi se il 24 aprile 2022 il canale del servizio pubblico francese France 2 abbia proposto ai telespettatori una serata post-elettorale inedita.
Da una parte, il classico studio televisivo dove si avvicendano politici ed opinionisti per commentare le Presidenziali e le prossime Legislative, dall’altra, un altro studio televisivo che ha per protagonista una carta interattiva della Francia al voto analizzata da due presentatori, Johanna Ghiglia e Jean-Baptiste Marteau. “In tempo reale”, la carta si colora progressivamente di rosa o di viola, ossia i due colori assegnati rispettivamente a Emmanuel Macron e Marine Le Pen, in base ai risultati dello spoglio comunicati tempestivamente dal Ministero dell’Interno alla redazione di France 2, attraverso un fornitore di servizi.
In poche parole, una bella transizione digitale in salsa francese che, però, non è stata al riparo da cortocircuiti.
Questo format innovativo crea qualche sorpresa all’interno del secondo studio televisivo allorché, verso le 21.10, i dati diramati dal Ministero restituiscono una ripartizione di voti tra i due candidati che vede prevalere Marine Le Pen. In quel momento, su Marine Le Pen convergono 13.899.494 voti contro i 13.697.236 di Emmanuel Macron (1) e, questo, stupisce, perché alle 20 i sondaggi avevano annunciato la rielezione del presidente uscente con il 58,5 % dei voti. Tuttavia, niente paura rassicura il conduttore Jean-Baptiste Marteau, evidentemente incapace di restare neutrale:
Per il momento, una parità quasi perfetta con un piccolo vantaggio per Marine Le Pen… attenzione, non vuol dire che le tendenze non si invertiranno questa sera, vuol semplicemente dire che sono prima le zone rurali, i piccoli comuni che fanno salire prima i loro risultati. Dei comuni che, lo sappiamo, votano un po’ più Marine Le Pen rispetto alle grandi metropoli che dovrebbero arrivare nel corso della serata (2)
Mai un conduttore televisivo fu così predittivo. Ma andiamo per gradi. Appena due minuti dopo il commento di Jean-Baptiste Marteau, la carta interattiva si tinge ancora più di viola e Marine Le Pen conferma il proprio vantaggio, raggiungendo 14.603.774 voti contro i 14.338.938 per Emmanuel Macron (3).
Si tratta dell’ultima volta in cui si vede Marine Le Pen in testa, perché dopo un intervallo di circa un’ora e mezzo, in cui i dati sul voto spariscono dai radar, si ritorna infine sul sistema interattivo di France 2 per scoprire che il conduttore aveva doti divinatorie. Come la peau de chagrin descritta da Balzac, i voti di Marine Le Pen si sono ridotti a 11.661.111 !
In circa 90 minuti, Marine Le Pen avrebbe, quindi, dilapidato inconsapevolmente 2.942.663 voti, a fronte dei soli 145.231 persi da Emmanuel Macron, il quale ne totalizza in quel momento 14.193.707 (4). Il fatto sorprendente è che Jean-Baptiste Marteau legge quei dati senza accennare ad alcun problema insorto nel frattempo, come se fosse normale che 2.942.663 preferenze si fossero sciolte come la neve sotto il sole. Il risultato finale è noto a tutti.
Alle 9.41 del 25 aprile il sito del Ministero dell’Interno riporta la vittoria di Emmanuel Macron e pubblica il numero di voti ripartiti tra i due candidati : 18.779.641 per Emmanuel Macron e 13.297.760 per Marine Le Pen. Invece di guadagnare voti rispetto alle 21.10 del giorno precedente a spoglio in corso, Marine Le Pen ha perso in una notte 1.306.014 voti ! Qualcosa non torna e non sono pochi quelli che hanno cominciato a denunciare il fattaccio e a subodorare il broglio elettorale. Qui si apre il secondo cortocircuito.
Come in ogni Democrazia dell’era digitale che si rispetti, quando c’è da tentare di lavare i panni sporchi, si sguinzagliano i factcheckers. Il 25 aprile, i factcheckers del giornale Le Monde pubblicano sullo stesso una verifica inerente la voce sul presunto broglio elettorale con argomentazioni che, tuttavia, non fanno che aggravare la situazione (5).
Stando a tale verifica, il cortocircuito al livello dei dati pubblicati dal sistema interattivo di France 2 si sarebbe generato a causa di un bug tecnico prodottosi nel sistema informatico del fornitore di servizi, non essendoci, secondo France Télévisions, « nessun intervento umano tra la ricezione dei dati e la loro visualizzazione » (6).
Quanto alla risoluzione del problema, con relativa correzione dei dati, sarebbe in realtà intervenuta « immediatamente » dopo l’errore di affissione, ma il pubblico se ne sarebbe accorto solo verso le 22.40, perché dopo la sequenza incriminata la linea era passata al discorso di Emmanuel Macron sul Champ de Mars.
Se quest’ultima affermazione risulta poco convincente, dal momento che, in realtà, già verso le 22.15 la linea era stata restituita allo studio con la carta interattiva e singolarmente il conteggio dei voti non era mai stato mostrato (7), ancora più pretestuosa appare la giustificazione addotta per l’accaduto da France Télévisions :
Quando si innova, ci sono necessariamente degli aggiustamenti che non sono presi in conto… abbiamo mostrato un calcolo che non avrebbe dovuto essere visualizzato e comprendiamo che le persone si siano poste delle domande. Ne siamo spiacenti
A rendere sospette tali dichiarazioni è innanzitutto la tempistica. La presunta correzione in buona fede del conteggio avviene in effetti solo a fine trasmissione, così come le dichiarazioni di France Télévisions intervengono solo a seguito delle denunce formulate da alcuni telespettatori.
Inoltre, vi è da notare che l’errore più grossolano riguarda Marine Le Pen, non il presidente uscente che se la cava con poco più di 145 mila voti persi. Come se non bastasse, la verifica di Le Monde accoglie senza colpo ferire queste dichiarazioni rendendosi, pertanto, anch’essa sospetta. Peggio, la verifica di Le Monde alimenta ancora di più il dubbio che la frode si sia invitata nelle elezioni presidenziali francesi, nella misura in cui essa veicola false informazioni.
Nel testo della verifica si precisa che l’assenza di dolo è facilmente dimostrabile navigando nel sito del Ministero dell’Interno, così come si presentava al momento dell’errore di conteggio pubblicato dal sistema interattivo di France 2, grazie a Wayback machine, la macchina per viaggiare nel tempo del cyberspazio.
Con quello strumento, secondo i factcheckers di Le Monde, chiunque potrebbe appurare che il Ministero dell’Interno non ha mai attribuito a Marine Le Pen 14 milioni di preferenze e che alle 21.40 del 24 aprile 2022, per esempio, il sito del Ministero conteggiava 9,6 milioni di voti per Emmanuel Macron e 8,6 per Marine Le Pen.
Molto probabilmente, i factcheckers credevano che la presunta autorevolezza di Le Monde avrebbe indotto il pubblico ad aderire acriticamente alla loro dimostrazione, perché, ad una verifica approfondita attraverso Wayback machine, che chiunque può eseguire (9), tale dimostrazione non regge.
Come provano gli screenshots di seguito pubblicati (Fig. 1-3), che registrano la configurazione del sito del Ministero alle ore 20.54 e 23.06 del 24 aprile 2022, il sito forniva quella sera esclusivamente i dati elettorali relativi al primo turno delle Presidenziali.
Solamente il giorno dopo, alle 9.41, un utente poteva finalmente accedere tramite il sito del Ministero ai dati definitivi del secondo turno (vedi : Fig. 4-7), ossia molte ore dopo rispetto al cortocircuito verificatosi su France 2.
Alla luce di quanto avvenuto su France 2 nella serata post-elettorale del 24 aprile 2022 e del tentativo dei factcheckers di Le Monde di neutralizzare con argomentazioni fallaci e l’uso della menzogna un sospetto di frode elettorale non infondato, è più che doveroso domandarsi se degli illeciti non siano stati veramente commessi in fase di conteggio dei voti per favorire la rielezione di Emmanuel Macron.
Quest’interrogativo è tanto più ragionevole in quanto, da una parte, lo scrivente ha già rilevato precedentemente come, nelle settimane precedenti il voto, i media mainstream francesi abbiano favorito il candidato Macron (10), dall’altra, le scorse elezioni presidenziali negli Stati Uniti non sono state probabilmente immuni da manipolazioni del voto popolare a vantaggio di Joe Biden (11).
Non che brogli elettorali siano una prerogativa degli ultimi tempi, ma è evidente che con l’avvento dell’era digitale questi non possono che aumentare a scapito della capacità dei popoli ad autodeterminarsi.
Se prima, un’elezione truccata richiedeva una catena di corruzione difficile da organizzare e gestire, ora può bastare un click!
Di Tomaso Pascucci per ComeDonChisciotte.org
NOTE
1- Vedasi la sequenza a 2 ore 49 minuti e 30 secondi dall’inizio della trasmissione, di cui si fornisce di seguito il link : https://mobile.france.tv/france-2/presidentielle-2022/3284233-2nd-tour-partie-3.html.
2 – Il conduttore si esprime in questi termini a 2 ore 49 minuti e 32 secondi dall’inizio della stessa trasmissione. La traduzione in italiano, così come quelle successive, sono nostre.
3 – Vedasi la sequenza a 2 ore 51 minuti e 46 secondi dall’inizio della stessa trasmissione.
4 – Vedasi la sequenza a 4 ore 24 minuti e 30 secondi dall’inizio della stessa trasmissione
6 – Ivi.
7 – Vedasi la sequenza a 3 ore 59 minuti e 45 secondi dall’inizio della stessa trasmissione.
9 – Basta digitare nella mascherina di ricerca di Wayback machine il sito del Ministère de l’Intérieur (ossia https://www.interieur.gouv.fr/ ) e selezionare le date del 24 e 25 aprile 2022.
10 – https://comedonchisciotte.org/marine-le-pen-una-vittoria-impossibile/
11 – Vedi : Stefano Graziosi, « Trova la frode sui voti in Georgia ». La frase che Trump non ha mai detto, La Verità, 17 marzo 2021 e Beatrice Nencha, Così « rubarono » le presidenziali Usa. Un report svela le trame di Facebook, La Verità, 31 marzo 2022.
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Pubblicato da Jacopo Brogi per ComeDonChisciotte.org
FONTE: https://comedonchisciotte.org/sospetti-di-frode-si-addensano-sulle-elezioni-presidenziali-francesi/
POLITICA
Sulla Meloni atlantista
“Giorgia Meloni ci regala questa perla di fantageopolitica e si merita l’Albo d’Oro degli imbecilli integrali: “Se l’Ucraina capitolasse il vero vincitore non sarebbe domani tanto la Russia di Putin ma la Cina capitalcomunista di Xi Jinping. L’Occidente uscirebbe fortemente ridimensionato e all’interno dell’Occidente chi è più debole, cioè l’Europa finirebbe subordinata alla Cina. E io non voglio finire sotto la Cina comunista, amici miei”.
Così uno sdegnato Roberto Buffagni sulla performance-spettacolo della capessa di Fratelli d’Italia. Uno sdegno largamente condiviso nell’opinione di destra alla rivelazione che la Meloni vuole governare “da atlantista”. Io non riesco a condividere lo sdegno, perché queste adesioni alla NATO (non solo della Meloni ma di Salvini.) da una parte sono non libere, anzi forzate dal potere globale vigente, dall’altro come impegni non valgono nulla: appena si indebolisse il potere globale, vedremmo questi cagnetti dell’Occidente mordere per primi il gigante sconfitto, e proclamare la loro adesione al sistema di valori di Putin.
Proprio la frase della Meloni sul pericolo cinese, per contrastare il quale bisogna essere antirussi e filo-americani, rivela la situazione: non è nemmeno “fantageopolitica”; è una arrampicata sugli specchi acrobatica, una insensatezza che sa di posticcio al massimo grado, e che la indica appunto come priva di valore proprio in quanto è priva di senso.
Criticare la Meloni per la sua dichiarazione di fede atlantista, significa dimenticare che stiamo schiacciati sotto la dittatura più disumana della storia, che sta uccidendo deliberatamente i suoi cittadini con il siero, e contro cui non possiamo difenderci né obiettare, sia perché è globale, sia perché controlla totalmente – totalitariamente – i media; che si autonomina “democrazia”, e quindi generosamente ha una “opposizione” – dove l’”opposizione” deve essere autorizzata e permessa per avere un minimo spazio .
Ogni giorno raccontiamo lo strapotere inumano di questa dittatura, il fatto che ha privato di salario lavoratori renitenti al vax, senza che i sindacati abbiamo non si dice protestato, ma elevato un gemito; le decine di giovani e sani che ha ucciso per “malore” infartuale letale, e cosa pretendiamo dalla Meloni, che è sotto continuo esame, e che i media hanno sdoganato in modo del tutto condizionato e precario?
Pensate se, al congresso di Fratelli d ‘Italia, la Meloni si fosse dichiarata critica dell’atlantismo bellicista che sta ampliando e prolungando il conflitto nel cuore d’Europa, invece di tentare di sedarlo con negoziato; cosa sarebbe successo? Improvvisamente i media, che ora la coccolano un pochino, l’avrebbero riscoperta “la Fascista”, il Male Assoluto incarnato, a capo di una banda criminale di mussoliniani di cui – all’unisono – avrebbero preteso dalla magistratura che la mettesse fuorilegge, subito, immantinente, per “ricostituzione del disciolto partito fascista”.
I gradi di libertà che la dittatura globale e sterminatrice consente sono molto limitati. In questo senso, va segnalato come coraggiosa l’opposizione di Giuseppe Contee di quelli che lo seguono dei 5 Stelle contro l’invio di armi all’Ucraina; opposizione e sfida coraggiosa che tuttavia non serve a nulla, perché le armi sono e continuano ad essere inviate dal governo Draghi entusiasticamente belligerante con la NATO; un grado di libertà che alla Meloni, semplicemente, non è permesso. Senza il controllo dei media, nulla è possibile contro l’impostura vigente, trionfante e schiacciante.
Quanto sia stretta la catena lo dimostra la posizione del cancelliere tedesco, che prima ha provato resistere al bellicismo “atlantista”; ma ha dovuto cedere inviando armi e distruggendo la propria economia con l’embargo energetico, che sta ritardando con deboli espedienti quanto può. Cosa volete che faccia una Meloni? O un Salvini?
Bisogna aspettare che il potere s’indebolisca, che cada nel caos in un altro apese (come la Francia) o negli Stati Uniti (dove il potere del Deep State è meno fermo, è contestato, ed ha in Trump bene o male una alternativa; allora vedrete i cagnetti rivoltarsi e addenare i calcagni delll’Occidente…
https://twitter.com/Musso___/status/1520663254632173569?s=20&t=eAv9jlulNb1JHZE0DhSp5g
FONTE: https://www.maurizioblondet.it/sulla-meloni-atlantista/
IL BIPENSIERO DELLA POLITICA SU AMBIENTE E SUSSIDI
Intendiamoci: tra le tante distorsioni presenti nel nostro ordinamento tributario, molte hanno anche effetti sull’ambiente, incentivando l’utilizzo di tecnologie, processi o combustibili inquinanti e penalizzando quelli puliti. Quindi fare ordine è una manovra utile sia dal punto di vista economico sia ambientale. Solo che, per arrivare al risultato, bisogna prendere le mosse da una comprensione corretta del problema. Ed è proprio quello che manca. Il catalogo del Mite usa una definizione ampia e vaga di “sussidio”, sicché mette nel calderone anche scelte di natura fiscale che nulla hanno a che vedere col finanziamento di attività inquinanti. Il caso più clamoroso è quello del diverso trattamento fiscale di benzina e gasolio: poiché l’accisa sul diesel è inferiore a quella sulla benzina, il Mite considera questa differenza come un sussidio al gasolio. E, all’obiezione che con questo principio il sussidio potrebbe essere rimosso semplicemente tagliando l’accisa sulla benzina, ribatte che no, bisogna proprio alzare le tasse sul diesel. Tutto ciò accade a febbraio 2022, in piena crisi energetica e alla vigilia dell’invasione dell’Ucraina.
Risultato: mentre il governo con la mano sinistra prometteva il taglio dei sussidi e chiedeva addirittura l’inasprimento della fiscalità sui carburanti, con la mano destra invece si muoveva in tutt’altra (e più ragionevole) direzione. Tagliando di 25 centesimi le accise su benzina e gasolio, e mantenendo immutata la distanza tra i due balzelli. Contemporaneamente, varava un piano senza precedenti di riduzione dei costi dell’energia a carico della fiscalità generale, che nell’arco di circa un anno (da maggio 2021 a maggio 2022) ha già assorbito o sta per assorbire circa 25 miliardi di euro. Si può essere favorevoli o scettici su questo approccio: noi dell’Ibl abbiamo già avuto modo di esprimere varie perplessità per la sua natura regressiva e perché attenua i segnali di prezzo legati alla crisi in essere.
Ma è certamente bizzarro che la politica insista nella retorica del taglio dei sussidi ambientalmente dannosi, proprio mentre mette in atto la più grande campagna di sussidi ambientalmente dannosi (secondo la definizione del Mite) che si sia mai vista nella storia nazionale. Ed è una curiosa forma di bipensiero quella che ha spinto le Camere, all’atto di convertire questi decreti straripanti di sussidi, ad approvare contestualmente mozioni e ordini del giorno che impegnavano il governo (non ridete) a “proseguire (sic!) con la progressiva riduzione dei sussidi ambientalmente dannosi”. Anziché oscillare tra una retorica infondata e moralista e una prassi distorsiva, sarebbe meglio mettere a fuoco l’una e l’altra: definire in modo più sensato cosa è “sussidio” e perché è “ambientalmente dannoso” ed essere meno di manica larga nell’erogazione di aiuti e agevolazioni. Ne guadagnerebbero l’ambiente, l’erario e la qualità del dibattito pubblico.
(*) Direttore Studi e Ricerche Istituto Bruno Leoni
FONTE: https://www.opinione.it/economia/2022/05/02/carlo-stagnaro_sussidi-ambientalmente-dannosi-bipensiero-transizione-ecologica/
La Nato e Aiace Telamonio
L’esigenza dell’unità dei comunisti e delle forze antimperialiste nella lotta contro la guerra
di Fosco Giannini*
Riceviamo e con grande piacere rilanciamo l’ultimo bellissimo editoriale di Fosco Giannini, direttore di Cumpanis: Segnaliamo anche questa importante iniziativa
La guerra incombe. Ben la di là dell’Ucraina, la sua ombra cupa si allarga su ogni Paese e su ogni popolo. Con la follia di un Aiace Telamonio al quale la dea Atena ha ottenebrato la mente per poi spingerlo alle più violente fantasie distruttive e indurlo a credere che i capi di bestiame siano gli odiatissimi comandanti degli Atridi da massacrare senza pietà, così – con la stessa hybris della tragedia greca – gli Usa e la Nato hanno abbandonato ogni residua prudenza umana e politica, ogni ponderazione militare teorizzata da von Clausewitz, persino ogni paura dell’ignoto e considerazione del proprio stesso destino, spingendo le loro Basi, le loro testate nucleari, le loro truppe nel cuore profondo dell’Europa dell’Est, là dove non si doveva andare, dove nessun Ettore sagace si sarebbe spinto.
Giungendo, la Nato-Aiace Telamonio, sino al Circolo Polare Artico, nelle Basi militari norvegesi al confine russo di Evenes e Rasmund, tra le città di Narvik e Harstad; ad Ämari, nella lontana e sconosciuta contea di Harjumaa, nei pressi del lago Klooga, in Estonia; nella terra di Šiauliai, in Lituania, ove prende misteriosamente corpo la missione di guerra americana “Baltic Air Policing”; ad Arazil, in Lettonia, dove la Nato trascina dietro sé le Penne Nere, gli alpini italiani del “Task Group Baltic”, minacciosamente operativi col Fronte degli Alleati nell’ambito dell’“Enhanced Forward Presence”. Per poi, attraverso un raptus incontrollabile, installarsi in territorio polacco, lungo lo stesso confine dell’enclave russa di Kaliningrad. Spingendosi sino a Krtsanisi, in Georgia, a 20 chilometri dalla capitale, Tiblisi, collocando lì una nuova Base militare, inaugurata direttamente dal segretario generale della Nato Jens Stoltenberg, a braccetto dell’allora presidente georgiano Margvelashvili, nel settembre del 2015.
In un tempo ben lontano dall’intervento russo in Ucraina, febbraio 2022, a dimostrazione dell’infinita pazienza con la quale Mosca ha sopportato per anni e anni l’accerchiamento atlantista e gli orrori inflitti al popolo del Donbass dagli attuali eredi ucraini di Stepan Bandera.
Dalla Norvegia alla Georgia, per giungere al progetto di un’Ucraina trasformata in un’ immensa Base Nato, dunque, si allarga la hybris della Nato, passando per la Croazia, la Bulgaria, l’Albania, la Macedonia del Nord, il Montenegro, la Repubblica Ceca, la Slovacchia, l’Ungheria, un nuovo mondo che accende inopinatamente la propria aggressività sul fuoco russofobico occidentale storico e che trova le sue attive retrovie negli USA, in Canada, in Spagna, in Italia, in Portogallo, in Germania, nel Regno Unito, in Turchia e in tutti gli altri Paesi Nato.
Una spinta alla guerra, quella della Nato, che abbatte ogni antica neutralità, che prosciuga ogni cultura popolare di pace, sino a convincere anche gli attuali governi socialdemocratici di Sanna Marin in Finlandia e Magdalena Andersson in Svezia, a portare i loro Paesi all’interno dell’Alleanza Atlantica. Come se il voto ai crediti di guerra, da parte dei socialisti moderati della Seconda Internazionale, si replicasse all’infinito…
Questo è il quadro, questo è il pericolo. Questa è la guerra Usa-Nato in corso, progettata, preannunciata, sottoscritta da tutto il G7 nel giugno 2021 in Cornovaglia, nel sanguinoso Documento di Carbis Bay, col quale gli imperialismi uniti Usa-Ue-Regno Unito-Giappone iniziano a costruire un immenso fronte militare mondiale contro la Russia e la Cina.
Dalla fase del pieno sostegno Usa e Ue alla “rivoluzione arancione” ucraina filo-americana dei primi anni ’90, condotta dalla “principessa del gas” Julija Tymošenko – grande imprenditrice di aziende energetiche ucraine che a partire dal proprio ruolo imprenditoriale venne subito eletta beniamina di Washington e rappresentante politica degli interessi imperialisti in Ucraina –, a questa fase che viviamo, successiva al summit G7 in Cornovaglia, infiniti fiumi di denaro occidentale, centinaia di miliardi di dollari, euro, sterline sono continuamente corsi verso Kiev.
Questi fiumi di denaro corsero per costruire, prima, le vittorie politiche della Tymošenko e poi la costruzione dei gruppi paramilitari di estrema destra “Svoboda” e “Pravyi Sektor”; il colpo di stato nazifascista di Euromaidan del 2014 diretto contro il filo russo Viktor Janukovy?; lo strenuo impegno dell’emittente radiofonica “Radio Free Europe” nel fomentare la stessa Piazza Maidan; il successivo insediamento alla presidenza dell’Ucraina da parte di Oleksandr Tur?ynov, estremo rappresentante istituzionale del golpe; l’intero processo politico successivo ad EuroMaidan sfociato nella vittoria elettorale del Partito “Servitore del popolo” di Zelensky, nel maggio 2019.
In questo quadro generale non possiamo dimenticare, poiché assume un valore fortemente paradigmatico dell’intero corso politico ucraino post sovietico, il discorso che la prima esponente filo-americana e filo-Ue dell’Ucraina, la Tymošenko, tenne il 22 febbraio 2014, di fronte ad una Piazza Maidan in ebollizione golpista e guidata dagli squadristi nazifascisti che avrebbero poi costituito il battaglione Azov. Disse allora, dal palco, la Tymošenko, rivolgendosi alla piazza e agli eredi di Bandera: “Siete eroi. Siete il meglio che l’Ucraina possa avere. Non perderò un minuto, farò di tutto per rendervi felici”. E tutto ciò mentre i dirigenti e i militanti del Partito Comunista di Piotr Simonenko-ai quali è rivolta ogni giorno la totale solidarietà di “Cumpanis” e di tutti i comunisti e gli antimperialisti italiani-venivano assassinati, picchiati (sin dentro il Parlamento), torturati, arrestati, cacciati dai loro posti di lavoro. Mentre l’ambasciata Usa a Kiev si offriva come punto di riferimento politico e persino logistico per i capi nazifascisti di EuroMaidan.
Lo stesso fiume di denaro occidentale è poi corso e corre tuttora per armare Zelensky, l’esercito ucraino e il Battaglione nazifascista Azov. Non è stata “La Pravda” a scriverlo: è stato Giuseppe Sarcina sul “Corriere della Sera” di giovedì 21 aprile u.s.: “Gli Stati Uniti stanno stanziando, in armi, circa 800 milioni di dollari alla settimana per aiutare la resistenza ucraina e il governo americano avrà speso, solo dall’inizio della guerra, 3,4 miliardi di dollari, divisi in 8 tranche. L’Unione europea è, complessivamente, a 1,6 miliradi di dollari, il Regno Unito, da solo, è a quota 550 milioni di dollari. Sul versante occidentale, dunque, la reazione all’attacco putiniano è già costato 5,5 miliardi di dollari”. E riflette Giuseppe Sarcina: “Biden ha iniziato a cambiare passo subito dopo il vertice straordinario della Nato il 24 marzo scorso a Bruxelles. Della sua strategia iniziale, di fatto, resta invariato un solo assunto: i soldati americani e dell’Alleanza Atlantica non combatterano in Ucraina. Tutti gli altri vincoli sono stati rivisti o superati”.
Quali sono gli altri vincoli superati? Essenzialmente tre: primo, passare dalla consegna, all’esercito ucraino, di armi “di difesa” alla consegna di ogni tipo di armi, super tecnologiche, pesanti, in enormi quantità, totalmente “d’offesa”; secondo: allargare l’area dei Paesi Nato e di grandi aziende private che consegnano armi (Usa, Norvegia, Olanda, Gran Bretagna, Lussemburgo, Francia, Spagna, Italia) e allargare l’area dei Paesi che ricevono armi per smistarle in Ucraina (Svezia, Estonia, Germania, Slovacchia, Repubblica Ceca). Un intero mondo contro la Russia! Terzo: superare il tabù della “no fly zone”. Da tempo Zelensky chiede alla Nato di intervenire nei cieli ucraini contro gli aerei russi e da tempo chiede cacciabombardieri per l’esercito ucraino. Sino a poche settimane fa anche gli Usa e la Nato ritenevano tali richieste pericolosissime per l’allargamento del conflitto e capaci di provocare lo scontro diretto contro la Russia.
Oggi, scrive Sarcina sul “Corriere della Sera”: “Nel concreto la “no fly zone” non è più un tabù. Il Segretario di Stato Antony Blinken sta lavorando assiduamente con i partner dell’Est Europa, in particolare con la Polonia. L’8 marzo il Pentagono aveva bloccato il governo di Varsavia che voleva inviare 28 Mig-29 a Zelensky, passando per la Base Usa di Ramstein in Germania. Ma adesso si stanno cercando, senza fare rumore, altre soluzioni. Zelensky avrà gli aerei per la battaglia nel Donbass”.
Dunque corrono incessantemente oggi, verso l’Ucraina, convogli strapieni di potenti mezzi militari Usa, inglesi ed europei. Corrono ad armare – lungo le strade dell’illegalità internazionale, lungo il rischio di un intervento armato russo sui convogli stessi e di una terza guerra mondiale – il potere ucraino costituitosi attraverso il golpe imperialista del 2014 a Kiev.
Vola, in tutto ciò, nel più alto dei cieli la follia di Aiace Telamonio, che sembra uscire dalle terre greche per spargere ormai sull’intera Europa dell’Est il sangue innocente dei capi di bestiame. Vola, la hybris della Nato, sospinta dal vento potente dei profitti del complesso militare-industriale americano che, euforico, riempie sempre più di missili, bombe, carri armati e droni i convogli verso Kiev.
Ma se la guerra della Nato molto somiglia – sino ad un certo punto, sino al punto dell’ascia che s’abbatte contro i greggi di pecore – alla mente offuscata di Aiace, da un certo punto in poi la similitudine Nato-Aiace Telamonio finisce, poiché sull’orizzonte strategico la follia americana inizia a saldarsi con la ratio imperialista americana.
E vi è un punto preciso ove la follia e la ratio si saldano e stabiliscono il punto solidale: è il punto dato dal sentore che l’imperialismo americano ha di sé, di fine della propria storia e del proprio dominio planetario. Dal sentore della fine della centralità dell’Occidente, dalla consapevolezza che “un altro mondo è possibile” ed è in espansione storica: il mondo euro-asiatico, il mondo dell’Oriente, l’intero, grande mondo extra-occidentale: due terzi ed oltre dell’intera umanità. Due terzi che, infatti, esprimono – dall’America Latina all’Africa e all’Asia – solidarietà a Mosca. Poichè il potere dittatoriale del sistema mediatico eurocentrico e angloamericano l’ottenebra: ma la grande maggioranza dei popoli e degli Stati non si allinea con Washington e con Kiev, ma si colloca dalla parte del multilateralismo e del futuro.
E, ancora, non sono “La Pravda” o “Il Quotidiano del Popolo” del Partito Comunista Cinese ad affermarlo, ma un giornalista dall’anticomunismo d’acciao come Federico Rampini sul “Corriere della Sera” dello scorso 16 aprile, in un pezzo dal titolo “Il mondo diviso in due blocchi”, quando scrive: “Il leader di un grande Paese africano ha scritto su Twitter: «La maggioranza dell’umanità, che non è bianca, sostiene la posizione della Russia in Ucraina». È una verità sgradevole ma incontestabile. Corrisponde alla mappa dei Paesi che non applicano sanzioni economiche contro Mosca. Vi figurano la maggior parte dell’Asia, Medio Oriente incluso; Africa e America latina. La Russia viene trattata come un partner rispettabile dentro quello che fu definito come il club dei Paesi emergenti, l’alternativa al G7, cioè i Brics (Brasile Russia India Cina Sudafrica). Un membro della Nato, la Turchia, si dissocia dalle sanzioni; così come Israele e l’Arabia Saudita che pure godono da decenni di aiuti militari americani essenziali. La più grande delusione per Joe Biden su questo fronte viene da Delhi. Il governo nazionalista indù di Narendra Modi stava proseguendo un avvicinamento strategico verso gli Stati Uniti in funzione anti-cinese; però non se l’è sentita di guastarsi i rapporti con l’altra superpotenza vicina, la Russia…Quando descriviamo un Vladimir Putin isolato dovremmo aggiungere: rispetto a noi occidentali, più qualche alleato di ferro dell’America come Giappone Corea del Sud Australia. L’insieme della coalizione pro Ucraina che applica sanzioni rappresenta pur sempre la maggioranza del Pil mondiale; ma non la maggioranza delle nazioni né tantomeno della popolazione mondiale. E se sono vere le proiezioni sul futuro del pianeta — economico, demografico — il «mondo del terzo millennio» sta dall’altra parte, non dalla nostra”.
Gli Usa, la Nato, l’Ue e gli altri poli imperialisti, come in una coazione colonialista a ripetere, come un Aiace accecato dall’ira, sono nemici di gran parte dell’umanità, di gran parte degli Stati e dei popoli del mondo: stanno qui le basi della guerra, della terza guerra mondiale. Basi verosimili, concrete, tutte materiali e senza ombra di dubbio terrificanti. Non dovrebbe, ogni Paese sottrarsi a questo disgraziato destino? Non dovrebbe lottare per salvarsi dall’Apocalisse? Un Paese membro della Nato, ma con qualche residuo barlume di lucidità, non dovrebbe agire per salvarsi ed uscire da quell’Alleanza che spinge le sue Basi – di terra e di mare – sino alle frontiere russe, sino alle terre artiche, sino ai mari della Cina del Sud, sino a Taiwan, sino all’Australia? Non dovrebbe sfuggire alla legge della guerra voluta, firmata da quel complesso militare-industriale-politico americano che sogna convogli infiniti di armi verso Kiev? E poi verso Taiwan, verso Pechino?
La guerra, la terza guerra mondiale è consustanziale sia al declino storico americano che alla sua lotta disperata e sanguinaria per evitarlo.
L’Italia è parte e insieme vittima di questo infernale marchingegno di guerra, di sterminio, di fine (nucleare) del tutto. Ne è parte per il suo governo, per i i suoi partiti politici succubi degli Usa. Ne è vittima per il suo popolo, per i lavoratori, per l’intero proletariato.
Se mai fosse vero, anche parzialmente vero, il quadro disperante che chi scrive ha dipinto, se la guerra strisciasse ormai in ogni dove, se la sua armata fosse accampata, in attesa di muoversi ed emergere improvvisamente alla luce, in ogni rete fognaria delle città italiane, allignasse già nelle caserme, nelle basi militari, nei distretti militari nucleari di Ghedi e di Aviano, a Camp Darby e a Niscemi, nella “Ederle” di Vicenza e nella “JFC Naples” di Lago Patria, a Napoli, nelle cartine topografiche dei generali Nato in Italia, nelle menti dei governanti, se la guerra fosse, come crediamo, connaturata alla fase, sua stessa “anima”, se tutto ciò fosse minimamente vero, non dovremmo essere allarmati, disperati per il fantasma languido che s’aggira nelle piazze e nelle città, il fantasma estenuato e grigio del movimento contro la guerra?
Chi è stato, storicamente, in ogni epoca moderna, alla testa di questo movimento, se non i comunisti?
E dove sono, ora, i comunisti italiani?
Si sono forse sentiti, hanno parlato tra di essi i loro gruppi dirigenti, in questa fase segnata non tanto da un “evento storico”, ma da un titanico meteorite caduto sulla Terra e chiamato “terza guerra mondiale”? Si sono cercati, si sono convocati, si sono riuniti attorno ad un tavolo progettuale, stanno forse liberandosi dalla zavorra micidiale delle loro differenze, dei loro asti, delle loro loro liti rugginose, delle loro antipatie personali per il bene supremo dell’unità, dell’azione comune contro il mostro della guerra? Per sopprimere anche quell’Aiace che è in loro e si manifesta quando incontrano un altro comunista, per conquistare razionalità e costruire un primo nucleo di ferro, quello comunista-antimperialista, avente il fine di mettere in campo un più ampio fronte, un fronte di popolo, contro la guerra?
No, i comunisti italiani continuano essenzialmente ad ignorarsi, a tenersi lontani gli uni dagli altri, a far prevalere le antiche diatribe, ormai davvero risibili e stantie di fronte alla necessità dell’odierna lotta comune contro il meteorite di fine mondo.
Se la guerra fosse una vasta prateria pronta ad essere incendiata, l’atteggiamento dei comunisti che continuano anche ora ad ignorarsi e combattersi, somiglierebbe all’atteggiamento di colui che si china a criticare un filo d’erba, perdendo di vista tutta la prateria e l’orizzonte.
Non so di un segretario generale dei tre partiti comunisti italiani più strutturati (il PRC, il PCI, il PC) che abbia cercato gli altri per iniziare un dialogo volto all’unità d’azione contro la guerra. Per poi ampliare il fronte di lotta.
Allo stato delle cose, questi tre partiti non sono d’accordo su tutto. Ma, visibilmente, sono tutti e tre d’accordo contro l’entrata in guerra dell’Italia, contro l’invio di armi in Ucraina, contro il riarmo generalizzato a discapito di quel poco di welfare che è rimasto dei diritti e dei salari dei lavoratori. Individuano, questi tre partiti comunisti, nella Nato le maggiori responsabilità dello stato di guerra in corso e sono d’accordo per l’uscita dell’Italia dalla Nato. E, non per amore del calembour, ma per ragioni politiche pregnanti, per l’uscita della Nato dall’Italia.
Ce n’è a sufficienza per mettere a fuoco una prima e importante piattaforma politica unitaria di lotta per coinvolgere altre forze e movimenti e dare avvio alla costruzione di un movimento di massa contro la guerra.
Compagno Mauro Alboresi, compagno Maurizio Acerbo, compagno Marco Rizzo, cosa aspettate ad incontrarvi, ad unire i vostri partiti, i vostri gruppi dirigenti, i vostri militanti, le vostre bandiere, tutte e tre rosse con la falce e il martello, in una grande manifestazione contro la guerra a Roma? Molti compagni e compagne, anche non appartenenti ai vostri partiti, quelli e quelle della diaspora comunista, si unirebbero a voi. E da Roma la manifestazione comunista unitaria e allargata si riverserebbe e si moltiplicherebbe in ogni città d’Italia. Con moto spontaneo e diretto.
Poiché, ne siamo convinti, niente riconsegnerebbe passione e spinta alla militanza, ai comunisti italiani, iscritti e non più iscritti a nulla, come il vedere finalmente sfilare insieme, contro la guerra imperialista, contro la Nato, tutte le bandiere rosse.
Non si tratta di costruire il partito unico. Si tratta solo di mettere in campo un’azione unitaria.
L’unità, come il comunismo, è “la semplicità che è difficile a farsi”. E, scrive Bertolt Brecht nelle righe che precedono questa straordinaria, nota e amatissima chiusura de “La lode del comunismo”, “questa non è follia, ma la fine della follia”.
FONTE: https://www.sinistrainrete.info/geopolitica/22900-fosco-giannini-la-nato-e-aiace-telamonio.html
STORIA
L’Holodomor, la propaganda liberale e le rimozioni storiche dell’Occidente
di Domenico Losurdo [1]
1. L’olocausto ucraino quale bilanciamento dell’olocausto ebraico
Le due personalità criminali [Hitler e Stalin ndr], reciprocamente legate da affinità elettive, producono due universi concentrazionari tra loro assai simili: così procede la costruzione della mitologia politica ai giorni nostri imperversante. Per la verità, pur inaugurando questa linea di pensiero, Arendt fa un discorso più problematico. Per un verso accenna, sia pure in modo assai sommario, ai «metodi totalitari» preannunciati dai campi di concentramento in cui l’Inghilterra liberale rinchiude i boeri ovvero agli elementi «totalitari» presenti nei campi di concentramento che la Francia della Terza Repubblica istituisce «dopo la guerra civile spagnola». Per un altro verso, nell’istituire il confronto tra Urss staliniana e Germania hitleriana, Arendt fa valere alcune importanti distinzioni: solo a proposito del secondo paese parla di «campi di sterminio».
C’è di più: «nell’Urss i sorveglianti non erano, come le SS, una speciale élite addestrata a commettere delitti». Com’è confermato dall’analisi di una testimone passata attraverso la tragica esperienza di entrambi gli universi concentrazionari: «I russi […] non manifestarono mai il sadismo dei nazisti […] Le nostre guardie russe erano persone per bene, e non dei sadici, ma osservavano scrupolosamente le regole dell’inumano sistema»[2]. Ai giorni nostri, invece, dileguati il sia pur sommario riferimento all’Occidente liberale e l’accenno alle diverse configurazioni dell’universo concentrazionario, tutto il discorso ruota attorno all’assimilazione di Gulag e Konzentrationslager.
Perché tale assimilazione sia persuasiva, in primo luogo si dilatano le cifre del terrore staliniano. Di recente, una studiosa statunitense ha calcolato che le esecuzioni realmente avvenute ammontano a «un decimo» delle stime correnti[3]. Resta fermo, ovviamente, l’orrore di questa repressione pur sempre su larga scala. E, tuttavia, è significativa la disinvoltura di certi storici e ideologi. Né essi si limitano a gonfiare i numeri. Nel vuoto della storia e della politica la costruzione del mito dei mostri gemelli può compiere un ulteriore passo avanti: all’olocausto consumato dalla Germania nazista a danno degli ebrei a partire soprattutto dall’impantanarsi della guerra ad Est corrisponderebbe l’olocausto già in precedenza (agli inizi degli anni ’30) inflitto dall’Urss staliniana agli ucraini (il cosiddetto «Holodomor»); in questo secondo caso si sarebbe trattato di una «carestia terroristica» e pianificata, alfine sfociata in un «immenso Bergen Belsen», e cioè in un immenso campo di sterminio[4].
Nell’agitare questa tesi si è distinto in particolare Robert Conquest. I suoi critici l’accusano di aver a suo tempo lavorato in qualità di agente addetto alla disinformazione presso i servizi segreti britannici e di aver affrontato il dossier ucraino facendo tesoro di questa sua professione[5]. Anche gli estimatori riconoscono un punto che non è privo di importanza: Conquest è «un veterano della guerra fredda» e ha scritto il suo libro nell’ambito di un’«operazione politico-culturale», che è stata diretta in ultima analisi dal presidente statunitense Ronald Reagan e che ha conseguito «numerosi frutti: da un lato incidendo in modo importante nel dibattito internazionale sul valore e i limiti delle riforme gorbacioviane, dall’altro, attraverso la presa di posizione del Congresso degli Stati Uniti, andando a influenzare potentemente la radicalizazione delle spinte indipendentiste dell’Ucraina»[6]. In altre parole, il libro è stato pubblicato nell’ambito di un’«operazione politico-culturale», mirante a dare l’ultima e decisiva spallata all’Unione sovietica, screditandola in quanto responsabile di infamie del tutto simili a quelle commesse dal Terzo Reich e stimolando la sua disintegrazione grazie alla presa di coscienza del popolo vittima dell’«olocausto», ormai impossibilitato a coabitare coi suoi carnefici. Non bisogna perdere di vista il fatto che, nello stesso periodo di tempo, assieme al libro sull’Ucraina, Conquest ne pubblica un altro (in collaborazione con un certo J. M. White) in cui dà consigli ai suoi concittadini su come sopravvivere alla possibile (o incombente) invasione ad opera dell’Unione sovietica (What to Do When the Russian Come: A Survivalist’s Handbook)[7].
Certo, indipendentememte dalle motivazioni politiche a suo fondamento, una tesi dev’essere comunque analizzata in base agli argomenti che adduce. E quella della «carestia terroristica» pianificata da Stalin per sterminare il popolo ucraino potrebbe essere più attendibile della tesi del pericolo corso dagli Stati Uniti di Reagan di essere invasi dall’Urss di Gorbaciov! E dunque concentriamo la nostra attenzione sull’Ucraina dei primi anni ’30. Nel 1934, di ritorno da un viaggio in Unione sovietica che l’aveva portato anche in Ucraina, il primo ministro francese Edouard Herriot, nonché il carattere pianificato, nega anche l’ampiezza e la gravità della carestia[8]. Rilasciate dal leader di un paese che l’anno dopo avrebbe stipulato un trattato di alleanza con l’Urss, queste dichiarazioni sono in genere considerate scarsamente attendibili. Insospettabile è però la testimonianza contenuta nei rapporti dei diplomatici dell’Italia fascista. Anche nel periodo in cui più spietata è la repressione dei «controrivoluzionari», essa s’intreccia con iniziative che vanno in direzione diversa e contrapposta: ecco i soldati «inviati in campagna per collaborare ai lavori rurali» o gli operai che accorrono per riparare le macchine; assieme all’«azione di distruzione di ogni velleità separatista ucraina» assistiamo ad una «politica di valorizzazione dei caratteri nazionali ucraini», che cerca di attrarre «gli ucraini della Polonia verso una possibile e sperabile unione con quelli dell’Urss»; e questo obiettivo viene perseguito favorendo la libera espressione della lingua, della cultura, del costume ucraino[9]. Stalin si proponeva di attrarre «gli ucraini della Polonia» verso gli ucraini sovietici, sterminando questi ultimi mediante l’inedia? A quanto pare, le truppe sovietiche che, subito dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale, irrompono nei territori ucraini sino a quel momento occupati dalla Polonia, sono salutate favorevolmente dalla popolazione locale[10].
Vediamo ora il quadro che emerge dalle prese di posizione di altri nemici di Stalin, questa volta collocati all’interno del movimento comunista. Trotskij che, com’è noto, è nato in Ucraina, e che negli ultimi anni della sua vita si occupa ripetutamente della sua terra natia, prende posizione a favore del movimento indipendentista: egli condanna la ferocia della repressione ma, pur non risparmiando nessuna accusa a Stalin (in più occasioni paragonato a Hitler), non fa alcun cenno al cosiddetto olocausto della fame pianificato a Mosca[11]. Trotskij sottolinea che «le masse ucraine sono animate da inconciliabile ostilità nei confronti della burocrazia sovietica», ma individua la ragione di tale ostilità nella «repressione dell’indipendenza ucraina». A giudicare dalla tesi oggi corrente, l’«Holodomor» si sarebbe verificato nei primi anni ’30; ma secondo Trotskij «il problema ucraino si è acutizzato agli inizi di quest’anno», e cioè del 1939[12]. Come Stalin, anche il leader dell’opposizione antistaliniana vorrebbe unificare tutti gli ucraini, anche se questa volta all’interno non più dell’Urss, bensì di uno Stato indipendente: ma sarebbe stato sensato formulare questo progetto, tacendo del tutto sul genocidio già consumato? Agli occhi di Trotskij, la perfidia della burocrazia sovietica consiste in ciò: essa erige sì monumenti al grande poeta nazionale ucraino (Taras Schewtschenko), ma solo per costringere il popolo ucraino a rendere omaggio agli oppressori moscoviti nella lingua del suo poeta nazionale[13]. Come si vede, nonché di genocidio, non si parla neppure di etnocidio; per dura che sia la condanna del regime staliniano, ad esso non viene addebitata nonché la distruzione fisica, neppure quella culturale del popolo ucraino. Collocati che siano all’esterno ovvero all’interno del movimento comunista, i nemici di Stalin finiscono col convergere in questo essenziale riconoscimento.
Cominciano a essere chiare la fragilità e la strumentalità della corrispondenza istituita tra «Holodomor» e «soluzione finale». Hitler e gli altri caporioni nazisti proclamano in modo esplicito e ripetuto che occorre procedere all’annientamento degli ebrei, paragonati ad un bacillo, ad un virus, ad un agente patogeno, il cui sterminio consentirebbe alla società di recuperare la salute. Sarebbe vano ricercare dichiarazioni simili nei dirigenti sovietici a proposito del popolo ucraino (o ebraico). Potrebbe essere più interessante mettere a confronto la politica dell’Urss staliniana e quella della Germania hitleriana in relazione in entrambi i casi all’Ucraina. Hitler proclama in più occasioni che gli ucraini, come tutti i «popoli assoggettati», devono essere tenuti a debita distanza dalla cultura e dall’istruzione; occorre distruggere anche la loro memoria storica; è bene che non sappiano neppure «leggere e scrivere»[14]. E non è tutto: si può «benissimo fare a meno» dell’80-90 per cento della popolazione locale[15]. Soprattutto si può e si deve fare a meno, in modo totale, dei ceti intellettuali. La loro liquidazione è la condizione per poter trasformare il popolo assoggettato in una casta ereditaria di schiavi o semischiavi, destinati a lavorare e a morire di lavoro al servizio della razza dei signori. Il programma nazista è ulteriormente chiarito da Himmler. Si tratta di eliminare immediatamente gli ebrei (la cui presenza è rilevante nell’ambito dei ceti intellettuali) e ridurre al «minimo» la popolazione ucraina complessiva in modo da spianare la strada alla «futura colonizzazione germanica». E così che – commenta lo storico qui citato – anche in Ucraina vanno di pari passo «costruzione dell’impero nazista» e «olocausto»; ad esso danno il loro contributo i nazionalisti ucraini che costituiscono la fonte principale e i principali propagandisti del libro di Conquest[16].
Rispetto al Terzo Reich il potere sovietico si muove in direzione esattamente contrapposta. Conosciamo la politica di affirmative action promossa dal potere sovietico nei confronti delle minoranze nazionali e dei «fratelli e compagni» ucraini, per riprendere le parole utilizzate da Stalin subito dopo la rivoluzione d‘ottobre[17]. In effetti, a promuovere con più decisione l’«azione affermativa» a favore del popolo ucraino è proprio colui che oggi è considerato il responsabile dell’«Holodomor». Nel 1921 egli respinge la tesi di coloro secondo i quali «la repubblica ucraina e la nazione ucraina erano un’invenzione dei tedeschi»: no, «è chiaro che la nazione ucraina esiste e che i comunisti devono svilupparne la cultura»[18]. A partire da tali presupposti si sviluppa l’«ucrainizzazione» della cultura, della scuola, della stampa, dell’editoria, dei quadri di partito e dell’apparato statale. All’attuazione di tale politica dà particolare impulso Lazar Kaganovic, che è un collaboratore fidato di Stalin e che nel marzo 1925 diviene segretario del partito in Ucraina[19]. I risultati non si fanno attendere: nel 1931 la pubblicazione di libri in ucraino «raggiunse il suo culmine con 6.218 titoli su 8.086, quasi il 77%», mentre «la percentuale dei russi nel partito, pari nel 1922 al 72%, era scesa al 52%». Occorre altresì tener presente lo sviluppo dell’apparato industriale ucraino, sulla cui necessità insiste ancora una volta Stalin[20].
Si può cercare di minimizzare tutto ciò rinviando al persistente monopolio del potere esercitato a Mosca dal Partito comunista dell’Unione sovietica. E, tuttavia, questa politica di «ucrainizzazione» ha un impatto così forte che essa è costretta ad affrontare la resistenza dei russi:
«Questi ultimi restarono comunque delusi dalla soluzione data alla questione nazionale in Urss. Bruciava la parificazione della Russia alle altre repubbliche federali, irritavano i diritti concessi alle minoranze all’interno della repubblica russa, infastidiva la retorica antirussa del regime […] e pesava il fatto che i russi, unica nazionalità della federazione, non avevano né un loro partito né una loro accademia delle scienze»[21].
Non solo non ha senso paragonare alla politica nazista quella sovietica, ma quest’ultima si rivela in realtà nettamente superiore anche alla politica dei Bianchi (appoggiati dall’Occidente liberale). Finisce suo malgrado col riconoscerlo lo stesso Conquest. Collocandosi su una linea di continuità rispetto all’autocrazia zarista, Denikin «rifiutava di ammettere l’esistenza degli ucraini». Esattamente contrapposto è l’atteggiamento di Stalin, che saluta l’«ucrainizzazione delle città ucraine». In seguito al successo di questa politica si apre una pagina nuova e altamente positiva:
«Nell’aprile 1923, al XII Congresso del partito [comunista], la politica di “ucrainizzazione” trovò pieno riconoscimento legale: per la prima volta fin dal Diciottesimo secolo, un solido governo ucraino includeva nel proprio programma la difesa e lo sviluppo della lingua e della cultura ucraine […] Le personalità culturali ucraine che tornavano nel loro paese, lo fecero con la reale speranza che anche un’Ucraina sovietica avrebbe potuto dar vita alla rinascita nazionale. E in gran parte essi ebbero, per alcuni anni, ragione. Poesia e narrativa, opere linguistiche e storiche si diffusero ampiamente e con stimolante intensità tra tutte le classi, mentre tutta la letteratura precedente venne ristampata su ampia scala»[22].
Abbiamo visto che questa politica è in vigore, anzi è in pieno sviluppo in Ucraina ancora agli inizi degli anni ’30. Certo, in seguito intervengono un terribile conflitto e la carestia e, tuttavia, come nel giro di pochissimo tempo si possa passare da una radicale affirmative action a favore degli ucraini alla pianificazione del loro sterminio resta un mistero. E’ bene non dimenticare che nella elaborazione e diffusione della tesi dell’«Holodomor» hanno svolto un ruolo importante i circoli nazionalisti ucraini che, dopo aver scatenato «molti pogrom» antiebraici negli anni della guerra civile[23], hanno spesso collaborato con gli invasori nazisti impegnati a promuovere la «soluzione finale»: dopo aver funzionato come strumento al tempo stesso di demonizzazione del nemico e di confortevole auto-assoluzione, la tesi dell’«Holodomor» diviene poi una formidabile arma ideologica nel periodo conclusivo della guerra fredda e nella politica di smembramento dell’Unione sovietica.
Un’ultima considerazione. Nel corso del Novecento l’accusa di «genocidio» e la denuncia dell’«olocausto» sono state declinate nei modi più diversi. Abbiamo già visto diversi esempi. Conviene aggiungerne un altro. Il 20 ottobre 1941 il «Chicago Tribune» informa dell’appassionato appello rivolto da Herbert Hoover perché sia posto fine al blocco imposto dalla Gran Bretagna alla Germania. E’ già da alcuni mesi iniziata la guerra di sterminio scatenata dal Terzo Reich contro l’Unione Sovietica, ma su ciò l’ex presidente statunitense non spende una parola. Si concentra sulle terribili condizioni della popolazione civile nei paesi occupati (a Varsavia «il tasso di mortalità dei bambini è dieci volte più elevato del tasso di natalità») e chiama a porre fine a «questo olocausto», peraltro inutile, dato che non riesce a bloccare la marcia della Wehrmacht[24]. E’ chiaro che Hoover si preoccupa di screditare i paesi a fianco dei quali F. D. Roosevelt si appresta a intervenire, ed è appena il caso di dire che del presunto «olocausto» dal campione dell’”isolazionalismo” messo sul conto di Londra e in parte di Washington si è persa la memoria.
2. La carestia terroristica nella storia dell’Occidente liberale
In effetti, ancora più delle forzature, sono i silenzi ad inficiare in blocco il discorso del «veterano della guerra fredda». Si potrebbe cominciare con un dibattito che si svolge alla Camera dei Comuni il 28 ottobre 1948: Churchill denuncia il dilagare del conflitto tra indù e musulmani e l’«orribile olocausto» che si sta consumando in India in seguito all’indipendenza concessa dal governo laburista e allo smantellamento dell’Impero inglese. Ed ecco che un deputato laburista interrompe l’oratore: «Perché non parli della fame in India?». L’ex-primo ministro cerca di svicolare, ma l’altro incalza: «Perché non parli della fame in India, di cui è stato responsabile il precedente governo conservatore?»[25]. Il riferimento è alla carestia, ostinatamente negata da Churchill, che nel 1943-44 provoca nel Bengala tre milioni di morti. Nessuna delle due parti evoca invece la carestia verificatasi alcuni decenni prima, sempre nell’India coloniale: in questo caso, a perdere la vita erano state due o tre decine di milioni di indiani, spesso costretti a erogare «duro lavoro» con una dieta inferiore a quella garantita ai detenuti del «tristemente noto Lager di Buchenwald». In questa occasione, la componente razzista era stata esplicita e dichiarata. I burocrati britannici ritenevano che fosse «un errore spendere tanti soldi solo per salvare un sacco di neri». D’altro canto, secondo il viceré, sir Richard Temple, a perdere la vita erano stati soprattutto mendicanti senza alcuna reale intenzione di lavorare: «Non saranno molti a piangere la sorte che si sono procurati e che ha posto termine a vite oziose e troppo spesso criminali»[26].
A conclusione della seconda guerra mondiale, sir Victor Gollancz, un ebreo approdato in Inghilterra in seguito alla fuga dalla persecuzione antisemita in Germania, pubblica nel 1946 The Ethics of Starvation e l’anno dopo In Darkest Germany. L’autore denuncia la politica di affamamento che, dopo la disfatta del Terzo Reich, infuria sui prigionieri e sul popolo tedesco, continuamente esposti alla condanna a morte per inedia: sì la mortalità infantile era dieci volte più elevata che nel 1944, un anno che pure era stato particolarmente tragico; le razioni a disposizione dei tedeschi sono pericolosamente vicine a quelle in vigore a «Bergen Belsen»[27].
Nei due casi appena citati, ad essere paragonati ad un campo di concentramento nazista sono non l’Ucraina sovietica bensì i campi di lavoro dell’India assoggettata dall’Inghilterra e il regime di occupazione imposto agli sconfitti dall’Occidente liberale. Almeno l’ultima accusa sembra essere più persuasiva, com’è confermato dal libro più recente e più esaustivo pubblicato sull’argomento: «I tedeschi erano nutriti meglio nella Zona Sovietica». Ad essere più generoso era il paese che aveva subito la politica genocida del Terzo Reich e che a causa di tale politica continuava a soffrire la penuria. In effetti, a spingere l’Occidente liberale ad infliggere agli sconfitti la morte per inedia non era la scarsità di risorse bensì l’ideologia: «Politici e militari – come sir Bernard Montgomery – insistevano che nessun alimento doveva essere inviato dalla Gran Bretagna. La morte per l’inedia era la punizione. Montgomery affermava che i tre quarti di tutti i tedeschi erano ancora nazisti». Proprio per questo, era vietata la «fraternizzazione»: non bisognava rivolgere la parola e tanto meno sorridere ai membri di un popolo perverso in modo così totale e irrimediabile. Il soldato statunitense era messo in guardia: «nel cuore, nel corpo e nello spirito ogni tedesco è un Hitler». Anche una ragazza poteva risultare micidiale: «Non fare come Sansone con Dalila; lei amerà tagliarti i capelli e poi la gola». Questa campagna d’odio mirava esplicitamente a mettere fuori gioco il sentimento della compassione, e quindi a garantire il successo dell’«etica della condanna all’inedia». No, i soldati statunitensi erano chiamati ad essere impassibili anche dinanzi a bambini affamati: «in un bambino tedesco dai capelli gialli […] è in agguato il nazista»[28].
Se le tragedie del Bengala e dell’Ucraina si spiegano con la scala di priorità dettata dall’approssimarsi o dall’infuriare della seconda guerra mondiale, che impone la concentrazione delle scarse risorse nella lotta contro un nemico mortale[29], di carestia pianificata e terroristica si può ben parlare a proposito della Germania immediatamente successiva alla disfatta del Terzo Reich, dove la scarsità delle risorse non gioca alcun ruolo, mentre influisce in misura considerevole la razzizzazione di un popolo, che lo stesso F. D. Roosevelt ha la tentazione per qualche tempo di cancellare dalla faccia della terra mediante la «castrazione» (supra, cap. 1, § 5). Si potrebbe dire che a salvare i tedeschi (e i giapponesi) o ad accorciare sensibilmente le loro sofferenze è stata lo scoppio della guerra fredda: nella lotta contro il nuovo nemico, potrebbero risultare utili e preziose la carne da cannone e l’esperienza messe a disposizione dell’ex-nemico.
Ma è inutile cercare cenni alla carestia nell’India coloniale e britannica o alla Bergen Belsen occidentale in Germania nel «veterano della guerra fredda», impegnato a far valere lo schema costruito a priori dal revisionismo storico: tutte le infamie naziste sono solo la replica delle infamie comuniste; e dunque anche la Bergen Belsen hitleriana riproduce la Bergen Belsen ante litteram di cui è responsabile Stalin.
In piena coerenza con tale schema Conquest ignora del tutto il fatto che il ricorso all’affamamento e alla minaccia della morte per inedia costituiscono una costante nel rapporto istituito dall’Occidente coi barbari e coi nemici di volta in volta assimilati a barbari. Dopo la rivoluzione nera di Santo Domingo, temendo l’effetto di contagio del primo paese che sul continente americano ha abolito la schiavitù, Jefferson si dichiara pronto a «ridurre Toussaint alla morte per inedia». A metà dell’Ottocento Tocqueville chiama a bruciare i raccolti e a svuotare i silos degli arabi che in Algeria osano resistere alla conquista francese (infra, cap. VIII, § 5). Cinque decenni dopo, con questa medesima tattica di guerra, che condanna un intero popolo alla fame o alla morte per inedia, gli Stati Uniti soffocano la resistenza nelle Filippine. Anche quando non è intenzionalmente pianificata, la carestia può comunque costituire un’occasione da non perdere. Nello stesso periodo in cui Tocqueville chiama a fare il deserto attorno agli arabi ribelli, una devastante malattia distrugge in Irlanda il raccolto di patate e decima la popolazione già duramente provata dal saccheggio e dall’oppressione dei colonizzatori inglesi. La nuova tragedia appare agli occhi di sir Charles Edward Trevelyan (incaricato dal governo di Londra di seguire e fronteggiare la situazione) come l’espressione della «Provvidenza onnisciente», che così risolve il problema della sovrappopolazione (e anche dell’endemica ribellione di una popolazione barbara). In questo senso, il politico britannico è stato talvolta bollato come un «proto-Eichmann», protagonista di una tragedia da considerare il prototipo dei genocidi del ventesimo secolo[30].
Ma concentriamoci sul Novecento. I metodi tradizionalmente messi in atto a danno dei popoli colonali possono risultare utili anche nel corso della lotta per l’egemonia tra le grandi potenze. Con lo scoppio della prima guerra mondiale, l’Inghilterra sottopone la Germania ad un micidiale blocco navale, il cui significato è così chiarito da Churchill: «Il blocco britannico trattò l’intera Germania come una fortezza assediata e cercò in modo esplicito di ridurre all’inedia, e costringerla così alla capitolazione, l’intera popolazione: uomini, donne e bambini, vecchi e giovani, feriti e sani». Il blocco continua ad essere imposto anche dopo la fine dell’armistizio, per mesi, ed è sempre Churchill a spiegare la necessità, nonostante il silenzio delle armi, del perdurante ricorso a «questa arma di affamamento sino all’inedia, che colpisce soprattutto le donne e i bambini, i vecchi, i deboli e i poveri»: gli sconfitti devono accettare sino in fondo le condizioni di pace dei vincitori[31].
Ma con l’emergere minaccioso della Russia sovietica, il nemico è ormai un altro. Se Jefferson temeva il contagio della rivoluzione nera, Wilson si preoccupa di contenere la rivoluzione bolscevica. Restano immutati i metodi. Per impedire che possa seguire l’esempio della Russia sovietica, l’Austria viene messa dinanzi, per dirla con Gramsci, ad una «brigantesca intimazione»: «O l’ordine borghese o la fame!»[32]. In effetti, qualche tempo dopo è Herbert Hoover, alto esponente dell’amministrazione Wilson e futuro presidente degli Usa, ad ammonire le autorità austriache che «qualsiasi disturbo dell’ordine pubblico renderà impossibile la fornitura di generi alimentari e metterà Vienna faccia a faccia con la fame assoluta». E, più tardi, sarà sempre lo stesso uomo politico americano a tracciare questo bilancio, di cui mena esplicitamente vanto: «la paura della morte per inedia ha trattenuto il popolo austriaco dalla rivoluzione»[33]. Come si vede, soprattutto in Jefferson e Hoover è esplicitamente teorizzata quella «carestia terroristica» che Conquest rimprovera a Stalin.
Siamo in presenza di una politica che continua ad imperversare ai giorni nostri. Nel giugno del 1996, un articolo-intervento del direttore del Center for Economic and Social Rights metteva in evidenza le terribili conseguenze della «punizione collettiva» inflitta mediante l’embargo al popolo irakeno: già «più di 500.000 bambini irakeni» erano «morti di fame e di malattie». Molti altri erano sul punto di subire la stessa sorte. Ad una considerazione di carattere più generale procede alcuni anni dopo una rivista ufficiosa del Dipartimento di Stato qual è «Foreign Affairs»: dopo il crollo del «socialismo reale», in un mondo unificato sotto l’egemonia Usa, l’embargo costituisce l’arma di distruzione di massa per eccellenza; ufficialmente imposto per prevenire l’accesso di Saddam alle armi di distruzione di massa, l’embargo in Irak, «negli anni successivi alla guerra fredda, ha provocato più morti che tutte le armi di distruzione di massa nel corso della storia» messe assieme. Dunque, è come se il paese arabo avesse subito contemporaneamente il bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki, gli attacchi all’iprite dell’esercito di Guglielmo II e di Benito Mussolini, ed altro ancora[34]. In conclusione: la politica della «carestia terroristica» rimproverata a Stalin attraversa in profondità la storia dell’Occidente, è messa in atto nel Novecento in primo luogo contro il paese scaturito dalla rivoluzione d’ottobre e conosce il suo trionfo dopo il crollo del’Unione sovietica.
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Note
[1] Titolo redazionale di Marxismo Oggi. Il testo che segue riproduce i capitoli 5.4 e 5.5 di D. Losurdo, Stalin. Storia e critica di una leggenda nera, Carocci, Roma 2008.
[2] Arendt 1989a, pp. 602-03 e 614-15.
[3] Goldman 2007, p. 5.
[4] Conquest 2001a, pp. 11-14.
[5] Tottle 1987, p. 86.
[6] Argentieri 2004, pp. VII-VIII.
[7] Tottle 1987, p. 86.
[8] In Tottle 1987, p. 15.
[9] Losurdo 1996, cap. V, § 9.
[10] Wolkogonow 1989, p. 484; Mayer 2000, pp. 670-71.
[11] Trotskij 1988, pp. 1173 sgg.
[12] Trotskij 1988, pp. 1241 e 1243.
[13] Trotskij 1988, pp. 1174-75.
[14] Hitler 1989, p. 215.
[15] In Kershaw 2001, p. 668.
[16] Lower 2005, pp. 8 e passim; Sabrin 1991, pp. 3-13; Tottle 1987, pp. 75 sgg.
[17] Stalin 1971-73, vol. 4, p. 6 (= Stalin 1952-56, vol. 4, p. 17).
[18] Stalin 1971-73, vol. 5, p. 42 (= Stalin 1952-56, vol. 5, p. 63).
[19] Graziosi 2007, p. 205.
[20] Graziosi 2007, pp. 311 e 202.
[21] Graziosi 2007, pp. 203-04.
[22] Conquest 2001a, pp. 65 e 79-80.
[23] Figes 2000, p. 815.
[24] In Baker 2008, p. 411.
[25] Churchill 1974, p. 7722.
[26] Davis 2001, pp. 46-51.
[27] In MacDonogh 2007, pp. 362-63.
[28] MacDonogh 2007, pp. 366, 363 e 369-70.
[29] Cfr. Losurdo 1996, cap. V, § 10.
[30] Losurdo 2005, cap. V, § 8; Losurdo 1996, cap. V, § 10. Un accostamento dell’«ebreicidio» nazista alla carestia irlandese, piuttosto che a quella ucraina, si legge anche in Mayer 2000. p. 639.
[31] In Baker 2008, pp. 2 e 6.
[32] Gramsci 1984, pp. 443-44.
[33] Rothbard 1974, pp. 96-97.
[34] Losurdo 2007, cap. I, § 5.
FONTE: https://www.sinistrainrete.info/storia/22891-domenico-losurdo-l-holodomor-la-propaganda-liberale-e-le-rimozioni-storiche-dell-occidente.html
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