RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI
23 GIUGNO 2010
A cura di Manlio Lo Presti
Esergo
La beneficenza?
Solo soldi dei poveri dei Paesi ricchi
che finiscono ai ricchi dei Paesi poveri.
GINO & MICHELE, Le cicale 2008, Kowalski, 2007, pag. 24
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SOMMARIO
Esclusioni scolastiche e vaccinazioni: uno pseudopaper
The Tavistock Programme: The Government of Subjectivity and Social Life
Sineddoche Bibbiano
Alfano e la sanità privata
L’ultima intervista di Giulio Giorello al Dubbio: “Le mascherine ci tolgono identità e umanità…”
The Tavistock Programme: The Government of Subjectivity and Social Life
Va benissimo fare manifestazioni contro il razzismo, eh, per l’amor del cielo.
Le derive penitenziarie del sistema carcerario
La norma invisibile
Borsa Italiana presto in vendita? UE apre indagine su LSE-Refinitiv
Il messaggio che porta questa foto è devastante
Sineddoche
Rileggiamo lo Statuto dei Lavoratori, attualizzandolo e aggiornandolo
ORO: LA CINA FA SHOPPING DI MINIERE NEL MONDO
Prima di tutto vennero a prendere le statue.
Malainformazione e antivaccinismo
ATTUALITÀ SOCIETÀ COSTUME
Esclusioni scolastiche e vaccinazioni: uno pseudopaper
In collaborazione con gli amici del Comitato “Libertà di scelta” ho cercato di quantificare nello pseudopaper sotto allegato gli effetti del decreto Lorenzin sul diritto all’istruzione pre-primaria dei bambini da zero a cinque anni (età a inizio anno scolastico). La stima ha prodotto un risultato di quasi 130.000 minori oggi esclusi de iure dalla possibilità di frequentare gli asili nido e le scuole d’infanzia. Centotrentamila. Come scrivo nelle conclusioni, si tratta di un fenomeno che «non ha precedenti, neanche lontani, nell’intera storia repubblicana e nazionale».
Sono tanti, tantissimi i motivi per cui questo numero dovrebbe sbalordire, il primo dei quali è che… non sbalordisce nessuno. Già il fatto di averlo dovuto indovinare da pochi e reticenti trafiletti di giornale, e non da statistiche ufficiali, tradisce il tentativo delle autorità di nascondere l’enormità di ciò che sta avvenendo, di un’aggressione immotivata o almeno gravemente controversa ai diritti di un centinaio di migliaia di cittadini, oltretutto i più fragili. Un tentativo evidentemente ben riuscito, se queste masse di sub-cittadini non approdano sulle prime pagine o nel dibattito istituzionale se non nei termini diminutivi, paternalistici e denigratori di sparute frange di disinformati da rieducare alla «ragionevolezza» e alla «scienza» per gli uni, di rumorosi fanatici ossessionati da un «falso problema» per gli altri.
Non ripeterò qui ciò che ho già scritto in un libro e in numerosi articoli, di come cioè l’obbligo vaccinale e la collegata condizionalità dei diritti sociali rappresenti il banco di prova oggi più avanzato di un attacco combinato alla democrazia (gloriandosi in modo esplicito del suo essere «non democratico»), ai cittadini (irregimentandone non più le idee o i patrimoni, ma direttamente la sostanza fisica in cui esistono) e la scienza, con l’intimidazione delle voci dissonanti e la forzatura di un falso consenso. Un attacco che, è bene ricordarlo, è solo agli inizi e il cui dispositivo promette di estendersi ben oltre le punture contro le pustole.
A due anni dal varo del decreto Lorenzin e all’indomani della sua entrata a pieno regime appare vieppiù stomachevole e osceno l’atteggiamento di una classe politica tutta – tutta – intenta a sopire e troncare, troncare e sopire, a far passare per normale l’idea che all’improvviso si debbano medicalizzare, discriminare e perseguitare milioni di persone perché lo ha deciso la Casa Bianca, senza altro domandarsi.
Ma non ve la caverete, non ce la caveremo così. La storia insegna che quando mancano buoni argomenti – come è questo il caso – movimenti di resistenza così numerosi si possono sconfiggere solo con la repressione e le purghe. Proprio per evitare esiti così drastici e già invocati da troppe persone offro alla riflessione di tutti, lettori e decisori, la nostra analisi.
Clicca qui per scaricare lo pseudopaper.
FONTE:http://ilpedante.org/post/esclusioni-scolastiche-e-vaccinazioni-uno-pseudopaper
Sineddoche Bibbiano
02 agosto, 2019 Lettura necessaria, per non dimenticare!!!
Un patologia sociale?
Confesso che quando alcuni amici mi hanno chiesto un commento strutturato sull’inchiesta di Bibbiano, ho dubitato di potercela fare. Perché se fosse confermata anche solo una frazione di ciò che i magistrati contestano agli operatori sociali, alle famiglie affidatarie e agli amministratori della Val d’Enza, ci troveremmo di fronte alla più pura epifania del male. Da quei fatti emergerebbe una volontà sadica e più che bestiale di traumatizzare a vita i più innocenti e di gettare le loro famiglie in uno strazio senza fine e senza scampo – perché imposto dalla legge – spezzando in un sol colpo i vincoli sociali e della carne. Per un genitore è insopportabile il pensiero di quei piccoli che si addormentano tra le lacrime, lontani da casa, indotti a odiare chi li ama, in certi casi maltrattati, affidati a squilibrati o molestati sessualmente (!), mentre padri e madri inviano lettere e regali che non saranno mai recapitati e pregano di uscire da un incubo che non osano denunciare per non perdere la speranza di riabbracciare i loro figli. Con buona pace del codice penale, i reati qui ipotizzati superano per gravità l’omicidio: perché fanno morire l’anima, non il corpo. Svuotano le persone e le lasciano vivere nel dolore.
I presunti abusi della Val d’Enza sono, appunto, presunti fino a sentenza. Ma il loro modus operandi e il ricorrere di alcuni protagonisti hanno rinfocolato il ricordo di altri allontanamenti famigliari poi rivelatisi, anche in giudizio, gravemente ingiustificati, e dell’irreparabile scia di dolore che hanno inciso nelle comunità colpite. Il clamore delle cronache ha inoltre ridato forza alla denuncia di poche voci finora isolate, di un sistema che anche quando resta nel perimetro di una legalità formale conferisce agli operatori sociali un potere senza effettivi contrappesi in grado di strappare i figli alle famiglie per anni con le più arbitrarie delle motivazioni: dalla «inadeguatezza educativa» all’indigenza, dalla conflittualità tra i coniugi al disordine domestico, dalla «ipostimolazione» dei figli alla «immaturità» dei genitori. Queste fattispecie non sarebbero residuali ma prevalenti, come si apprende da un’indagine parlamentare conclusasi nel 2018:
Motivo di ingresso | Totale |
Vittime di abuso e maltrattamento | 1.399 |
Allontanati dal nucleo famigliare per problemi economici, incapacità educativa o problemi psico-fisici dei genitori | 7.632 |
Accolti insieme al genitore | 4.099 |
Stranieri non accompagnati | 3.672 |
Gestanti o madri minorenni col figlio a carico | 72 |
Coinvolti in procedure penali o in custodia alternativa | 465 |
Minori con altri motivi di ingresso | 2.617 |
Non indicato | 1 |
Minori ospiti nei presidi residenziali socio-assistenziali e socio-sanitari per genere, cittadinanza e motivo di ingresso presenti al 31 dicembre 2014 (da Camera dei Deputati, Indagine conoscitiva sui minori “fuori famiglia” – Documento conclusivo, 17 gennaio 2018).
Da un lato appare perciò urgente mettere in mora ogni altra priorità per emendare questo sistema partendo dai gradi più alti dell’amministrazione dello Stato, perché sarebbe vano e penoso discettare in prima serata di rinascite politiche, economiche e culturali mentre si erodono le basi biologiche della comunità. Sarebbe – come di fatto è – la metafora più calzante dell’impotenza etica e civile dell’umanità a noi coeva, che mentre blatera di salvare il mondo non riesce a proteggere la vita dei suoi figli da una carta bollata. Dall’altro, è però utile riflettere sulle salvaguardie culturali che da anni presidiano questo sistema. Superando le circostanze della cronaca, il dibattito sui dintorni e i precedenti di Bibbiano ha suscitato in molti il sospetto di una civiltà che non fa argine all’orrore ma lo veste con le sue procedure e i suoi feticci. Indagando su questi ultimi ci si accorgerebbe che gli abusi qui accertati, denunciati o ipotizzati possono alludere a problemi più radicali.
***
Secondo chi ha condotto le indagini, i responsabili dei servizi sociali della Val d’Enza avrebbero agito «in modo tale da sostenere aprioristicamente e in modo privo di qualsivoglia minimo equilibrio, le tesi o i sospetti… che i bambini avessero subito abusi sessuali» anche quando le presunte vittime negavano e imploravano di ritornare in famiglia. Avrebbero cioè anteposto all’indagine psicologica un’ideologia dell’abuso da «dimostrare» a tutti i costi. Un’ideologia, aggiungiamo noi, che nelle sue motivazioni e verbalizzazioni ambiva a collocarsi nel più ampio alveo di una precisa area politica e culturale, come si evince dagli scritti e dalle scelte di alcuni dei principali protagonisti dell’inchiesta: dalla retorica femminista e già marxista del maschio-padrone («in questo Paese è ancora troppo forte l’idea della famiglia patriarcale padrona dei figli», commentava l’assistente sociale Anghinolfi su La Stampa, nel 2016) all’attivismo per i diritti e la genitorialità LGBT, dal sostegno alle ONG del Mediterraneo alla partecipazione a incontri, convegni e audizioni organizzati dalla sinistra locale e nazionale.
È tutto legittimo e nulla aggiunge ai reati contestati. Né implica che esistano oggi schieramenti politici «che rubano i bambini» come una volta si diceva che li mangiassero. Qui non interessano i mandanti morali – qualsiasi cosa significhi, peraltro – ma il modo in cui queste vicende sono state recepite e tradotte in simboli da parte del corpo sociale, e la solidità dell’ipotesi che gli eccessi riconosciuti in parte a Bibbiano (sette minori affidati sono già rientrati nelle famiglie di origine) e certificati altrove si siano fatti scudo, nel loro reiterarsi, di una rispettabilità non solo scientifica, ma anche etica e culturale.
Reductio ad pueros
Da anni mi colpisce l’attenzione ossessiva, ma insieme chirurgicamente selettiva, che i progressisti riservano all’infanzia sofferente. In un articolo di qualche tempo fa coniavo il termine «reductio ad pueros» per denunciare l’uso di asservire la rappresentazione delle tragedie che colpiscono i più piccoli alla promozione di un obiettivo politico. È ancora vivo il ricordo del giovanissimo Alan Kurdi, annegato nel 2015 durante un tentativo fallito di raggiungere clandestinamente le coste greche al seguito del padre. La foto straziante del suo corpo fu riprodotta ovunque, e quasi ovunque accompagnata da inviti ad «aprire le frontiere» e ad allargare le maglie del diritto d’asilo per evitare il ripetersi di tragedie simili. Qualche anno dopo Beppe Severgnini teorizzava sul Corriere della Sera la liceità, anzi il dovere, di «mostrare la foto di un bimbo che muore» per denunciare misfatti come quello di Douma, dove il governo siriano avrebbe usato il gas nervino contro il suo stesso popolo. Per crimini di questa portata, spiegava il giornalista, «non può esistere il sospetto che sia un modo di speculare sui minori». Purtroppo – per lui, non per i siriani – l’Organizzazione per la proibizioni delle armi chimiche avrebbe di lì a poco certificato che quell’attacco chimico non era mai avvenuto. Ma non è un caso, né un’eccezione.
Nello stesso articolo osservavo che spesso le rappresentazioni della sofferenza puerile, oltreché accuratamente filtrate per rinforzare un messaggio, risultano a una più attenta analisi stiracchiate, esagerate o semplicemente inventate. Il piccolo Kurdi, ad esempio, non poteva essere stato vittima del negato diritto d’asilo in quanto la sua famiglia fuggita dalla Siria godeva già da tempo della protezione internazionale in Turchia. E tante altre piccole presunte vittime delle bombe o dei cecchini siriani erano in realtà attori, protagonisti di videoclip o testimonial delle fazioni ribelli. Così come non sono mai esistite le centinaia di bambini inglesi morti di morbillo ripetutamente citate dall’ex ministro Lorenzin in televisione per sostenere l’urgenza del suo decreto vaccinale. Così come non è credibile che i nostri bimbi «ci chiedano» di ridurre il debito pubblico o, se stranieri, di ottenere la cittadinanza italiana prima dei diciotto anni, a parità di diritti.
Nel concludere con la massima «ubi puer ibi mendacium», avanzavo l’ipotesi che il dolore dei bambini – vero o più spesso inventato – servisse a disattivare le resistenze razionali del pubblico e indurlo così ad accettare proposte politiche altrimenti controverse, perché agganciate a un’emozione innata, immediata e profonda. Il facile successo di questa operazione, non dissimile da quella di chi sceglie un corpo avvenente per reclamizzare un prodotto, è tale da avere spinto qualcuno addirittura ad auspicare quel dolore. Così accadeva allo scrittore Edoardo Albinati, che un anno fa confessava in pubblico di avere «desiderato che morisse qualcuno sulla nave Aquarius. Ho detto: adesso, se muore un bambino, io voglio vedere che cosa succede per il nostro governo».
Aggiungo qui una terza proprietà della reductio ad pueros: che nel selezionare (prima proprietà) una disgrazia minorile in termini iperbolici, deformanti o fantasiosi (seconda proprietà) per dissimulare un fine ideologico (movente), promuove quasi sempre una disgrazia di molti ordini più grave. Questa disgrazia maggiore, per effetto della prima proprietà, resta in sordina e può così dispiegarsi in tutta la sua atrocità senza resistenze o rimedi. Consideriamo l’esempio fondativo della Guerra del Golfo, quando un’attricetta quindicenne seminò raccapriccio in mondovisione spacciandosi per un’infermiera sotto i cui occhi sarebbero stati barbaramente uccisi alcuni neonati kuwaitiani. Quella testimonianza (falsa) ebbe l’effetto di convincere l’opinione occidentale della necessità di muovere guerra contro il governo iracheno. La conseguenza (vera) fu che decine di migliaia di bambini (veri) persero la vita sotto le bombe e centinaia di migliaia (veri) per le privazioni causate dal successivo embargo. In un esempio più recente, la necessità di agevolare il trasferimento di massa di esseri umani dall’Africa all’Europa (movente) è stata in certi casi sostenuta rappresentando le sofferenze (presunte) patite dagli immigranti minorenni (presunti) in patria e in viaggio, con la conseguenza di consegnare molti di loro a un destino (vero) di sfruttamento lavorativo e sessuale, o alla sparizione.
Il fenomeno degli allontanamenti famigliari per motivi futili o inesistenti, per errore o per dolo, può soddisfare i requisiti della reductio ad pueros. In questi casi la giusta attenzione rivolta al fenomeno degli abusi in famiglia e della loro eventuale sottostima (prima proprietà) si è accompagnata all’urgenza di ingigantirne o immaginarne i segnali se non addirittura, come ipotizzano i magistrati reggiani, di «supportare in modo subdolo e artificioso indizi, o aggravare quelli esistenti, nascondendo elementi indicatori di possibili spiegazioni alternative» (seconda proprietà). La fabbricazione della falsa sofferenza da abuso ha infine prodotto la sofferenza vera dello sradicamento affettivo e della conseguente distruzione di vite e famiglie (terza proprietà).
Resta da indagare il movente.
Familles je vous hais!
Secondo gli inquirenti, in Val d’Enza le «false rappresentazioni della realtà» sarebbero state «tese in ogni caso a dipingere il nucleo famigliare originario come connivente (almeno se non complice o peggio) con il presunto adulto abusante». Altri autorevoli commentatori hanno denunciato più direttamente una «cultura molto invadente che vede nella famiglia… un luogo potenzialmente oppressivo e perciò da colpire». Secondo altri, esisterebbe un piano per «distruggere la famiglia».
All’estremo opposto leggiamo le parole di Claudio Foti, lo psicanalista (anche della citata Anghinolfi) e direttore scientifico dell’associazione Hansel e Gretel che collaborava con i servizi sociali di Bibbiano, secondo il quale il problema sarebbe invece che
per una parte della comunità sociale la famiglia è sacra ed intoccabile. E guai a chi la tocca! La famiglia è sempre e comunque un microcosmo idealizzato dove i bambini sono protetti e benvoluti! E gli operatori che si occupano di tutela,di abusi, che mettono in discussione l’immagine sacra ed idealizzata della famiglia diventano il bersaglio di una rabbia talvolta cieca e distruttiva!
Il professionista oggi indagato, nel riconosce nella famiglia «la più straordinaria risorsa educativa dei bambini», ritiene che tra chi oggi si indigna per le cronache bibbianesi vi sia «un’area vasta di persone… che tendono a schierarsi a priori a difesa dei genitori e della famiglia (“un padre ed una madre non possono aver fatto questa cosa terribile!”)» e che la loro reazione violenta «si [sia] sviluppat[a] mano a mano che crescevano gli interventi sociali e psicologici per sostenere i genitori, ma anche per limitare la loro onnipotenza e… nella società maturava una consapevolezza critica nei confronti della famiglia».
Queste contrapposizioni segnalano senz’altro una radicalizzazione del dibattito, sia pure nella forma speciale della reciproca accusa di eccesso ideologico. A essere onesti, è però difficile imbattersi in qualcuno che voglia distruggere tutte le famiglie in quanto tali, inclusa la propria. Ma ancora più difficile è che altri le considerino tutte sante e immacolate in quanto tali. A chi si riferisce il dottor Foti? Chi sono questi integralisti? Pur frequentando sponde politiche molto lontane dalle sue non ne ho mai incontrato uno, neanche tra coloro che oggi augurano i peggiori supplizi agli indagati di Bibbiano. Il sospetto è che qui si faccia confusione tra sostanze prime e seconde in senso aristotelico: la sacralizzazione o quasi-sacralizzazione dell’istituto famigliare (sostanza seconda), in senso religioso (Gen 2,24, Mc 10,6-9) o civile (Cost. art. 31), non esclude che se ne possano criticare i singoli σύνολα genitoriali (sostanza prima), e che anzi lo si debba fare se indegni. Persino la sacralità intrinseca del sacerdozio non impedisce alla dottrina di condannare i cattivi sacerdoti, anzi lo impone. Il peccato che dissacra il progetto divino è una condizione ineliminabile dell’uomo e il peccato più grave è anche quello originario, di presumere che le cose degli uomini possano diventare sacre nel senso di fregiarsi della perfezione divina (ὕβϱις).
Quelli di Foti e dei suoi eventuali nemici massimalisti sembrano perciò essere argomenti fantoccio le cui iperboli alludono a scontri culturali più profondi, alla dialettica tra la ragion di Stato del princeps e le ragioni del sangue del pater familias e, in radice, tra legge (νόμος) e natura (φύσις) umana. Oggi il polo normativo, quello del dover essere, vive una fase ipertrofica e le sue invasioni nel campo dell’essere sono evidenti: ambisce a istituire la genitorialità di chi non può generare, a promuovere o imporre la bioingegneria di massa, a comprimere la realtà fisica in algoritmi e flussi di dati, a sostituire i sessi biologici con accrocchi culturali (ruoli e identità di genere) e altro, ma le sue pretese non sono nuove.
Né è è nuova l’idea a cui Foti sembra aderire, che il progresso sociale debba reclamare anche la demistificazione, il contenimento e la critica dei diritti familiari. Nel 1958 il sociologo Edward Banfield coniava la fortunata definizione di «familismo amorale» per spiegare come l’arretratezza materiale e morale di certe aree del nostro Meridione trarrebbe origine dalla centralità assunta dai rapporti famigliari stretti a scapito di una socialità più strutturata, cooperativa e solidale. Il binomio arretratezza-famiglia trova sponda nel sentire comune, ad esempio quando si identificano le economie famigliari con mafie, corruzione e favoritismi (mentre le imprese familiari sono le più floride e resilienti) o si auspica che i nostri giovani abbandonino presto le famiglie di origine per rendersi indipendenti e incrementare la forza lavoro nazionale, poco importa a quali condizioni – che smettano, diceva un ex ministro di famiglia ricchissima, di fare i «bamboccioni» per consegnarsi a una più salutare «durezza del vivere». O ancora, quando si subordina l’integrazione dei giovani immigrati alla loro emancipazione da retaggi famigliari «arcaici» e «oppressivi», cioè al loro sradicamento affettivo.
Mentre politici ed economisti di area liberale mettono i figli contro i padri e i padri contro i nonni insinuando che i più anziani starebbero «rubando il futuro» ai giovani con i loro «privilegi» pensionistici, le cure sanitarie di cui fruiscono e, a monte, il debito pubblico spensieratamente accumulato, negli ambienti accademici più blasonati raccoglie consensi l’idea di inasprire le tasse di successione affinché i nuovi lavoratori, non più protetti dal patrimonio di famiglia, si immolino nell’arena della competizione meritocratica «in un Paese dove spesso un giovane adulto conta troppo, volente o nolente, sulla casa e sui finanziamenti dei genitori o sulla raccomandazione del parente». Nel frattempo chi detta le riforme dell’istruzione chiede che i nostri figli trascorrano molto più tempo tra i banchi – e quindi meno in famiglia – con l’estensione dell’obbligo scolastico a partire dai tre anni e il tempo lungo obblgatorio fino ai quattordici. Ciò servirebbe, commenta candidamente il Corriere, «proprio a ridurre il peso (sic) dei condizionamenti ambientali e familiari».
Sul terreno della salute si osano gli esperimenti più audaci. Nel dibattito sorto attorno ai nuovi obblighi di vaccinazione per l’infanzia si è discussa con allarmante ossessione l’opportunità di sottrarre i figli ai genitori renitenti alle inoculazioni, accettando così la certezza di traumatizzare a vita i più piccoli (terza proprietà della citata reductio) per preservarli da rischi eventuali e remoti (prima proprietà) ingigantiti fino all’apocalisse (seconda proprietà). Ricorderanno i lettori che questa opzione mai osata nel nostro ordinamento, di annichilire i dissidenti privandoli degli affetti, era prevista a chiare lettere nel comma 5 dell’articolo 1 del decreto Lorenzin, poi abrogato nella conversione in legge. Per motivi analoghi, si reclama la facoltà dei minori, anche giovanissimi, di sottoporsi a test e trattamenti sanitari senza il consenso parentale, li si rappresenta come eroi quando si affidano agli apparati medici contro la volontà di genitori naturalmente retrogradi, si autorizza lo scempio chemioterapico dei loro corpi per sperimentare nuovi paradigmi sessuali e si patologizzano le loro difficoltà e il loro carattere per affidarli alle cure di appositi esperti, fin quasi dalla culla.
È difficile non vedere il filo rosso che lega queste e altre vicende. Il progressismo è la la volontà di imporre un progresso che, per il fatto di dover essere imposto, non è riconosciuto come tale dai suoi presunti beneficiari. Il suo momento propositivo è perciò eternamente posposto e schiacciato dall’urgenza preliminare di forzare le resistenze sociali al cambiamento e i sedimenti pregressi di costume e pensiero, tanto da identificarlo quasi sempre con la sola pars destruens, con una guerra al vecchio di cui il nuovo non è più il fine, ma il pretesto. Non può sorprendere che il progressismo mal tolleri i diritti delle famiglie. Perché queste sono luogo della traditio letteralmente intesa in cui valori, rappresentazioni e credenze si «consegnano» da una generazione all’altra legandosi al veicolo inespugnabile e primordiale degli affetti. Chi vuole aggredire il vecchio deve aggredire le famiglie e spezzarne la catena di trasmissione: anche fisicamente, non disponendo gli uomini di surrogati pedagogici altrettanto incisivi (ma ci si sta lavorando).
***
Attraverso una minuziosa analisi di accordi, intese e raccomandazioni internazionali, Elisabetta Frezza ha ricostruito le tappe di un processo che dal dopoguerra a oggi ha preparato e promosso la progressiva esautorazione dei riferimenti pedagogici famigliari per favorire programmi di educazione pansessualista e di eroticizzazione precoce dei fanciulli, a cura degli apparati scolastici. In un intervento recente la studiosa ha citato un passo da L’impatto della scienza sulla società (1951) di Bertrand Russel dove il filosofo britannico immaginava una «dittatura scientifica» in cui «i socio-psicologi del futuro» potranno «convincere chiunque di qualunque cosa», anche che «la neve sia nera… a patto di poter lavorare con pazienza sin dalla giovane età». In ciò il principale ostacolo da superare sarà, appunto, l’«influenza della famiglia».
Anche queste idee sono antiche. Se l’utopia è l’esercizio più estremo e trasparente di progressismo, la dissoluzione della famiglia era già predicata nel testo utopico più antico che conosciamo: la Repubblica di Platone. Nella polis dei sapienti (che oggi chiameremmo «tecnici» avendo messo la ragioneria davanti alla metafisica) le donne sono «tutte in comune», la convivenza coniugale è vietata e «il padre non conosc[e] il figlio, né il figlio il padre» giacché «autorità apposite… prenderanno in consegna i neonati» subito dopo il parto per indirizzarli all’educazione e alle carriere stabilite dai guardiani dell’oligarchia. In un breve passaggio del libro VII si descrive il modo in cui avverrà questa rivoluzione. «I veri filosofi che prenderanno il potere nelle città», spiega Socrate a Glaucone,
manderanno in campagna tutti i cittadini al di sopra dei dieci anni, prenderanno in cura i loro figli ancora immuni dai costumi dei genitori e li cresceranno secondo i modi di vita e le leggi loro propri… Questo è il modo più rapido e più facile per istituire quella città è quella costituzione di cui abbiamo parlato.
Duemilacinquecento anni fa il testo platonico fissava così un archetipo, la scorciatoia contronatura che da lì in poi avrebbe sedotto tutti i rivoluzionari frettolosi e incompresi. Sulla china di quella tragica illusione, di rigenerare la società minando le basi biologiche del matrimonio «prima societas» e della famiglia «principium urbis et quasi seminarium rei publicae» (Cicerone, De officiis) furono in molti a seguire l’ateniese, dal Campanella de La città del sole ai socialisti utopici alla Fourier, ma purtroppo anche governi non letterari come quello cambogiano del quadriennio rosso o quello canadese, che strappava i figli agli indigeni per cancellarne anche fisicamente il retaggio.
Tra gli esponenti più citati, spesso a sproposito, di questa tendenza, Marx ed Engels non avversavano l’istituto famigliare in sé ma criticavano nella «famiglia borghese» uno strumento con cui le classi dominanti opprimerebbero sia le famiglie proletarie («sie findet ihre Ergänzung in der erzwungenen Familienlosigkeit der Proletarier») sia le mogli («ein bloßes Produktionsinstrument») e i figli («die Ausbeutung der Kinder durch ihre Eltern») propri. I seguaci estesero in seguito le definizioni di famiglia borghese, di classe dominante e di «padre-padrone» a tutte le famiglie convenzionali dell’emisfero ricco, in pratica senza eccezioni, rendendole sistemiche e giustificando così la partecipazione in prima linea delle sinistre nelle battaglie per il divorzio, l’aborto e altre «conquiste» atte a indebolire un modello non più politico, ma antropologico.
Da questa breve e insufficiente antologia mi sembra emergere che l’idea di migliorare la società criticando la forma-famiglia, affidandone alcune prerogative allo Stato o addirittura disgregandola, è antica e frusta, in qualche modo onnipresente, sempre pronta a infliggere i suoi fallimenti. Se non il fenomeno degli affidi troppo facili, può certo spiegare l’intensità delle reazioni che esso sta suscitando in entrambe le sponde del dibattito. Negare l’enormità della posta in gioco è tanto più disonesto se non si riconosce che queste cronache portano munizioni a una guerra in corso contro la definizione e il ruolo della famiglia – una guerra che parte dai livelli più alti, proprio quelli delle «classi dominanti» su scala mondiale, e si dispiega negli ambiti dell’istruzione, della salute e della sessualità avendo già colpito quello della sussistenza con la deflazione di salari, occupazione e servizi. Al di là dell’oggetto, l’invito a «non parlare di Bibbiano» rischia perciò di apparire come un tentativo poco credibile di anestetizzare un conflitto che già divampa nelle retrovie e di normalizzare i tentativi sempre più audaci di espugnare una delle trincee psicologiche, assistenziali, culturali e spirituali più tenaci, perché prepolitica, di un popolo che si ostina a non voler prendere la medicina globale.
FONTE:http://ilpedante.org/post/sineddoche-bibbiano
BELPAESE DA SALVARE
Alfano e la sanità privata
Fulvio Dumdum → Diamo voce al Dott. Stefano Montanari
– 8 06 2020
Ma voi sapete che Angelino Alfano , che non si sente e non si vede , è il presidente del più grande gruppo ospedaliero privato d’Italia e tra i più grandi d’Europa ?
Lo avranno preso per le sue qualità manageriali in ambito sanitario , lui che fu Ministro alla Giustizia ?
Voi sapete che il gruppo San Donato (della famiglia Rotelli) controlla il San Raffaele a Milano , il policlinico San Donato (provincia MI) , il San Marco e il San Pietro a Bergamo e altre strutture per un totale di 44 sedi in Italia, 5.361 medici e 4,7 milioni di pazienti ?
E secondo voi le tariffe con la SSN per i malati Covid , chi li ha trattati con il Ministero della Sanità?
Sapete che una degenza in terapia intensiva è costata 1.500 euro al giorno al SSN e quasi tutti i degenti sono finiti in una struttura del gruppo San Donato ?
E sapete che chi è finito in intensiva è rimasto mediamente 22 giorni per poi passare in sub intensiva a 900 euro al giorno , fino ai 500 euro al giorno della degenza in reparto ?
E come mai in Italia abbiamo avuto – statistiche alla mano – in assoluto le più lunghe degenze ospedaliere ?
FONTE:
https://m.facebook.com/groups/767223116737784?view=permalink&id=2796285387164870
CULTURA
L’ultima intervista di Giulio Giorello al Dubbio: “Le mascherine ci tolgono identità e umanità…”
Carlo Fusi – 15 06 2020
Il filosofo della scienza allievo di Geymonat è morto a Milano. Aveva 75 anni. Era stato ricoverato per il coronavirus circa un mese fa al Policlinico da cui era stato dimesso da una decina di giorni. Negli ultimi giorni la sua situazione era peggiorata.
E’ morto a Milano a 75 anni il filosofo Giulio Giorello: era nato nel capoluogo lombardo il 14 maggio del 1945. Era allievo di Ludovico Geymonat ed è stato il suo successore nella cattedra di Filosofia della Scienza all’Università Statale milanese. Da quanto si è appreso, era stato ricoverato per il coronavirus circa un mese fa al Policlinico da cui era stato dimesso da una decina di giorni. Negli ultimi giorni la sua situazione era peggiorata. Si era sposato tre giorni fa con la sua compagna Roberta Pelachin.
Pubblichiamo l’ultima intervista concessa al Dubbio poche settimane fa
Siamo tutti mascherine. Ne facciamo uso, ce le portiamo appresso, le personalizziamo. Le usiamo come barriera contro il male oscuro e invisibile del Coronavirus. E come protezione verso gli altri. Le indossiamo quando pensiamo di essere in pericolo, le togliamo quando ci rilassiamo. C’è un uso pubblico: quando siamo in mezzo agli altri. E un altro privato: quando siamo in famiglia o in ambiti ristretti. Le mascherine sono diventate parte di noi, sono un pezzo della nostra identità. Ma, appunto, quale identità? Con le mascherine siamo noi, ma lo siamo anche senza. Qual è dunque l’identità vera: quella dove nascondiamo il viso o quella dove trasmettiamo – col pianto, col sorriso, digrignando i denti, schiudendo le labbra – le nostre emozioni, il nostro linguaggio non verbale?
Giulio Giorello, filosofo della scienza, epistemologo, matematico, rimugina qualche secondo. Poi spiega: «Se la questione della mascherina viene presa in modo ossessivo, effettivamente può nascere un problema di identità. La nostra persona una volta era particolarmente caratterizzata dal volto e dalle sue espressioni. E la mascherina invece queste espressioni le cela. Dunque parliamo di una perdita. Se questa perdita viene mantenuta nell’ambito del ragionevole, non è un disastro. Ma se invece diventa una difficoltà, una perturbazione, se il mascheramento diventa una sorta di ossessione allora è chiaro che la mascherina produce un colpo alla nostra identità personale».
E a quel punto, professore, che succede: ci sdoppiamo, diventiamo schizofrenici?
«Succede che non ci ritroviamo più nelle modalità che abitualmente usavamo per riconoscerci» .
Il tratto somatico e la sua manifestazione è ciò che da sempre contraddistingue le relazioni umane. La riconoscibilità è sintomo di sicurezza: sui documenti c’è la nostra fotografia, ed è una conquista. Ora invece la sicurezza passa attraverso il nascondersi, la negazione almeno parziale della riconoscibilità. Cosa significa e cosa comporta nella socialità?
«Non è facile rispondere. Io penso che se la cosa rimane in ambiti contenuti, se l’uso della mascherina è ragionevole e non è vissuta come una ossessione, allora noi rimaniamo sempre noi. Se al contrario diventa un atteggiamento che cambia il nostro modo di porci per le strade, diciamo così, allora può sorgere una sorta di doppia identità con aspetti fortemente destabilizzanti».
Ma in cosa può consistere questo sdoppiamento, questa doppia identità che rischiamo di subire?
«Beh, la difficoltà principale è che accanto alla fisionomia cui siamo abituati, alla riconoscibilità reciproca che determina, all’immagine di noi che lo specchio di casa ci rimanda, si affianca un altro noi, un noi mascherato che offriamo al mondo che ci circonda e che modifica negli altri la percezione di come siamo. Un cambiamento inimmaginabile anche solo fino a pochi mesi fa. E se questo cambiamento finisce per essere vissuto in modo drammatico, può provocare una sorta di scissione interiore. Mi sembra un punto molto delicato».
Però professore noi siamo obbligati a portare questa mascherina, non è una scelta. È lo Stato che ci obbliga a scinderci?
«Diciamo che anche questa faccenda dell’obbligo è una cosa curiosa. Tanta gente andando in giro non la porta. Si tratta di un obbligo per così dire diversificato. Io per esempio che sono guarito non sarei tenuto a portarla. Io comunque la porto lo stesso volentieri perché so benissimo che si tratta di un momentaneo episodio del mio modo di uscire, di entrare i contatto con gli altri. Tuttavia sé questa modalità, questo momentaneo episodio, diventa una costante vissuta drammaticamente nel senso che io non riconosco più me stesso, allora si possono produrre conseguenze anche gravi sulla psiche delle persone, sul loro equilibrio psicologico».
Esiste anche un altro aspetto riguardo l’uso delle mascherine, che finora abbiamo solo sfiorato. Nel corso della evoluzione umana, abbiamo dato sempre maggiore risalto alla parola, al cosiddetto “secondo sistema di segnalazione”. Il primo, cioè il linguaggio non verbale, l’espressività del volto che trasmette informazioni sui nostri sentimenti, è sempre più rimasto sullo sfondo. Se io mi maschero, nascondo in parte il mi volto, chi ho di fronte non sa più se sorrido, se condividilo, se sono arrabbiato e così via. Non può comprendere il non detto, il non verbale. Questo non crea un corto circuito nelle relazioni?
«Direi proprio di sì. Può creare un corto circuito con forme quasi patologiche di diffidenza nei confronti dell’altro. Vede, io questa cosa la percepivo quando ero in ospedale. Non riuscivo a distinguere un infermiere dall’altro. Poi ho trovato modi per riconoscere le persone e i loro atteggiamenti, ho stretto legami che ad un certo punto sono diventati di amicizia. Ma sono state costruzioni limite. Ci sono invece persone, come il filosofo Cartesio, che amavano dire di se’ stessi larvatus prodeo, ossia “procedo mascherato”. In questo senso era nota la quasi patologica diffidenza di questo grandissimo protagonista della modernità. Ma il suo impatto sulla modernità non sta nel fatto che girava mascherato, bensì nel fatto “pubblico” che riuscì a produrre alcuni grandissimi saggi scientifici ai quali fu poi premesso il famoso Discorso del metodo».
Dunque c’è del metodo nel mascherarsi?
«Direi meglio: l’aspetto pubblico è quello privato giocano continuamente tra di loro. Talvolta c’è perfino una sorta di contrapposizione tra pubblico e privato. Nelle grandi personalità questa dicotomia è stata risolta dalla produzione scientifica. Ma per quanto riguarda l’amico che incontravamo uscendo di casa per andare a comprare il giornale, questo universo relazionale è assai più difficile da ricostruire. Si può anche dire che in parte l’abbiamo perduto. La mia speranza è che non sia stato perduto per sempre e che il più rapidamente possibile si ritorni a forme di espressione più consone a ciò che è umano».
Ecco. Dal punto di vista “umano” noi riusciamo a metabolizzare le cose, anche quelle più difficili. Le mascherine sono un esempio. Adesso ci sono quelle personalizzate, con le iniziali, i colori e così via. Come le giudica, professore?
«Lo vedo come un meccanismo di compensazione. Siccome non posso più farmi riconoscere dell’espressione del volto allora ricorro alla “personalizzazione” della mascherina per far sapere chi sono e che sono io. È un palliativo. Noi siamo abili a trovare sostitutivi. Che poi tuttavia creano nuovi problemi. Chi mi dice che non ci sia qualcun altro una mascherina personalizzata uguale alla mia, che so con la bandiera tricolore o con qualche alto simbolo, nera piuttosto che bianca e così via.
Sono forme, come ho detto, sostitutive della identità personale. Torniamo sempre al punto. La mascherina, anche simbolicamente, è un modo per celare l’identità. È anche il primo passo per avviarsi sulla strada della non responsabilità. Se non mi si riconosce, non sono responsabile di ciò che faccio. Le conseguenze “morali” nei casi di mascheramento più patologico, possono essere a mio avviso molto gravi».
Professore, c’è anche un altro aspetto levato alla pandemia e che interseca le relazioni sociali. Parlo del “remoto” come modalità di rapporto interpersonale e sociale. È una salvaguardia sanitaria, ma stravolge il modo di relazionarsi. Che ne pensa?
«Sono d’accordo. Pensi al caso dell’insegnamento universitario a distanza, come viene definito. Da remoto come espressione è ancora peggio. Questa modalità mi pare ci faccia perdere una delle componenti più interessanti dell’insegnamento: il faccia a faccia tra docente e studente. Si tratta di uno strumento enorme di controllo e di valutazione nel corso della lezione stessa. Tutto questo viene perduto e onestamente non capisco bene con cosa si possa recuperare. Stiamo diventando tutti delle università telematiche? Mi viene male solo a pensarci».
Professore, questo distanziamento da remoto è salvavita ma scardina il rapporto interpersonale. Quale aspetto, nel bene e nel male, è più difficile da gestire?
«È tutte e due le cose. Si salva la vita? Certo. Ma tenga presente un aspetto. Se uno esce di casa può essere colpito in testa da una tegola che cade da un tetto. Allora dovremmo vietarci di uscire di casa per evitare tegole vaganti? Certo stando chiusi in casa ci sentiamo più al sicuro. Ma si tratta di una sicurezza ben miserabile» .
Il discorso vale anche per la giustizia, asset fondamentale di un sistema democratico. I tribunali sono chiusi, alcune udienze si fanno a distanza…
«L’esercizio della legge era la prova di un grande teatro. Adesso il grande teatro non più, è sostituito da palliativi. Prima o poi si dovrà tornare alle forme di espressioni classiche della giustizia. Sia nelle aule giudiziarie come in quelle universitarie. Questo tipo di palliativi sono portato a giustificarli soltanto se hanno una durata temporale assai limitata. Questo è il punto di fondo. Se così non fosse, rischiamo di perdere molte componenti rilevanti sotto il profilo umano del nostro vivere sociale».
FONTE:https://www.ildubbio.news/2020/06/15/lultima-intervista-di-giorello-al-dubbio-le-mascherine-ci-tolgono-identita-e-umanita/
CYBERWAR SPIONAGGIO INFORMAZIONE DISINFORMAZIONE
The Tavistock Programme: The Government of Subjectivity and Social Life
First Published May 1, 1988 Research Article
https://doi.org/10.1177/0038038588022002002Abstract
In contemporary western societies the subjective features of social life have become the object and target of a new expertise. The paper addresses the limitations of certain influential approaches to this phenomenon, in particular analyses framed in terms of `social control’ and `medicalisation’. It offers an alternative framework based on three elements: firstly, a conception of government as a varying set of rationales and programmes which seek to align socio-political objectives with the activities and relations of individuals; secondly, the constitutive roles of psychological and managerial techniques and vocabularies. These are seen to be crucial in the formation of new ways of thinking about and acting on the social relations of the family and the workplace; thirdly, a notion of subjectivity as a capacity promoted through specific regulatory techniques and forms of expertise. This framework is utilised in the analysis of the Tavistock Clinic and Tavistock Institute of Human Relations to explore some of the fundamental transformations in twentieth century British society. Three `case studies’ are provided: the mental hygiene movement in the 1920s and 1930s; the role of psychological expertise in the Second World War; and the links between industrial productivity, group relations and mental health forged in the immediate post-war period.
Ahrenfeldt, R. 1958. Psychiatry in the British Army in the Second World War, London: Routledge & Kegan Paul, 1958. Google Scholar |
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Armstrong, D. 1983. Political Anatomy of the Body, Cambridge: Cambridge University Press. Google Scholar |
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Baritz, L. 1960. The Servants of Power: A History of the Use of Social Science in American Industry, Middletown, Connecticut: Wesleyan University Press. Google Scholar |
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Bion, W.R. 1946. `The leaderless group project’, Bulletin of the Menninger Clinic 10. Google Scholar | Medline | ISI |
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Bion, W.R. 1948-51. `Experiences in groups I – VII’, Human Relations 1-4. Google Scholar |
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Blacker, C. 1946. Neurosis and the Mental Health Services, London: Oxford University Press. Google Scholar |
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Board of Education 1921, 1928, 1930. Annual Reports of the Chief Medical Officer of the Board of Education, London: HMSO. Google Scholar |
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Bowlby, J. 1944. `Forty-four juvenile thieves: their characters and home lives’, International Journal of Psychoanalysis 25: 19-53, 107-128. Google Scholar |
CONTINUA QUI: https://journals.sagepub.com/doi/10.1177/0038038588022002002
Va benissimo fare manifestazioni contro il razzismo, eh, per l’amor del cielo.
Andrea Zhok 7 06 2020
Quello che lascia sempre un po’ perplessi è come l’agenda dei problemi che sollevano le folle in Italia (ed in Europa) sia quella dettata dalle magagne interne americane.
Con la complicità di Hollywood, dei nostri media, e di una colonizzazione culturale estensiva, gli europei (e gli italiani più di ogni altro) vivono una sorta di esistenza vicaria di quella americana. Come i lettori di tabloid che sospirano su intrighi e turbamenti delle famiglie reali, così noi ci appassioniamo dei casini nella capitale dell’Impero.
Viviamo con angoscia i problemi delle tate messicane che non riescono ad avere il ricongiungimento famigliare, condanniamo la violenza della polizia (americana), ci stracciamo le vesti sull’eccessiva diffusione delle armi (in America), eleviamo l’antirazzismo a problema centrale della politica, come se fossimo noi quelli che avevano il Ku-Klux-Klan e l’apartheid fino alla metà degli anni ’60.
Noi viviamo le nostre vite immaginarie tra Manhattan e le strade di San Francisco, mentre ignoriamo in modo rigorosissimo quel che succede nella periferia di Napoli o in paesi confinanti (dalla Jugoslavia alla Libia), salvo poi bombardarli distrattamente, se lo zio Sam dà luce verde.
Ci ricordiamo della mafia se ci fa sopra un film Scorsese, ma quella reale, quella sotto casa, è troppo poco cinematografica, e francamente troppo complicata per occuparcene davvero.
E’ bellissimo darsi una lustrata periodica alla coscienza prendendo coraggiose, e “altamente simboliche”, posizioni su problemi che conosciamo di striscio, dall’altra parte del mondo.
Non si rischia di scontentare nessuno, e non c’è bisogno di entrare in nessuno scomodo dettaglio.
E così domani possiamo tornare serenamente alle camere a gas delle nostre città, allo sfruttamento del lavoro, alla devastante dispersione scolastica, a generazioni perse per emigrazione, all’assenza di stato che delega il welfare alla criminalità organizzata, ecc. ecc.
Ci torniamo con la coscienza pulita di chi – come da film americano – “ha fatto la cosa giusta”; e tanto basta.
FONTE:https://www.facebook.com/100005142248791/posts/1558318257682901/
DIRITTI UMANI
Le derive penitenziarie del sistema carcerario
Solo qualche giorno fa, non potendo, evidentemente, fare più altrimenti, vista oramai la gravissima, e probabilmente irreversibile, situazione delle carceri italiane, è stato pubblicato un misero bando per 45 posti di dirigente penitenziario: numero assolutamente insufficiente per assicurare, dignitosamente, un servizio pubblico essenziale che tocca da vicino gli aspetti più delicati di un cittadino allorquando, a prescindere dalle sue eventuali responsabilità, viene privato della libertà.
di Enrico Sbriglia*
Per favore, non ripetiamo la marcescente espressione che “Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri”, rovinando ancora una volta il sonno di Voltaire, perché altrimenti dovremmo tutti incamminarci, senza indugio, verso le caverne più buie dell’umanità.
Sono trascorsi ormai 15 anni dalla Riforma della Dirigenza Penitenziaria del 2005 che imponeva una diversa ed organica architettura organizzativa dell’amministrazione penitenziaria e che invece è stata affossata dalla bramosia di quanti hanno governato il Dap; sono, però, nel frattempo passati circa 27 anni senza che venissero banditi, puntualmente, i necessari concorsi pubblici per poter assicurare il turn- over e la doverosa copertura degli incarichi di direttore e vice negli istituti penitenziari.
Solo qualche giorno fa, non potendo, evidentemente, fare più altrimenti, vista oramai la gravissima, e probabilmente irreversibile, situazione delle carceri italiane, è stato pubblicato un misero bando per 45 posti di dirigente penitenziario: numero assolutamente insufficiente per assicurare, dignitosamente, un servizio pubblico essenziale che tocca da vicino gli aspetti più delicati di un cittadino allorquando, a prescindere dalle sue eventuali responsabilità, viene privato della libertà.
Attualmente i direttori superstiti presenti, quelli che eufemisticamente, vengono indicati come i “più giovani”, sono di epoche precedenti, con alcuni nel 1997, e poi di corsa, indietro nel tempo, per arrivare agli anni ’ 80.
Però, sentite, è solo di qualche settimana fa il riconoscimento ai dirigenti penitenziari di diritto pubblico ( così si chiama il loro rapporto di lavoro alle dipendenze dello Stato) di un contributo economico per i loro figlioli che frequentino gli “asili nido”: provvedimento questo che appartiene alla saga del ridicolo, perché, per ragioni anagrafiche, è inverosimile che vi siano ancora dirigenti di mezza età con prole fruente le predette strutture; insomma l’apoteosi del nulla, una concessione che risulta quasi come una sorta di sfottò.
Ma come se non bastasse, si aggiunge un’altra amenità del “non diritto” del lavoro: ai Direttori delle nostre carceri sarà addirittura riconosciuto il pagamento delle ore di straordinario effettuate, sempre però che ci siano i fondi; chissà, probabilmente per evitare tale esborso per l’erario, i maggiori responsabili degli istituti, mostrando eroico senso pubblico del risparmio, avrebbero potuto e dovuto abbandonare ogni giorno le carceri alle 14 in punto, soprattutto in caso di proteste e rivolte anche violente dei detenuti, così come in presenza di risse, suicidi, perché come si sa, questi disguidi impegnano tempo.
E poi, in fondo, è noto a tutti come le carceri italiche siano obiettivamente luoghi sereni e monotoni, vedasi per ultima Santa Maria Capua Vetere: sempre le stesse rivendicazioni del personale penitenziario, in sottorganico da lustri, sempre gli stessi tossicodipendenti, sempre più vecchi, infettivi e sdentati, sempre le stesse gerarchie criminali, oggi ancora più forti perché in grado di governare pure le piazze penitenziarie, rectius, i larghi corridoi dei reparti detentivi, dove, come se fossero dei fori commerciali, si affacciano le celle aperte per un tempo non inferiore alle otto ore giornaliere e dove può accadere di tutto che, ovviamente, non sarà mai raccontato.
Questi luoghi, infatti, sono presidiati dalle stesse organizzazioni criminali con rigore militare, mentre gli agenti, da fuori le sezioni, possono solo immaginare cosa accada in quegli slum, di ferro e cattivo acciaio, commisto di odore di sugo, curry, candeggina e, non di rado, sangue.
I luoghi, comunque, rispettano l’italica tradizione dei decumani e si coniugano con la monotonia del carcere: ove si constaterà la stessa sbobba alimentare, somministrata di regola dalle medesime imprese operanti da tempo immemorabile, e poi sempre gli stessi orari della vita- nonvita quotidiana, sempre gli stessi cancelli e le stesse grate, sempre gli stessi autolesionismi di braccia tagliate, di labbra cucite, di scioperi della fame, di medici che non si trovano; sempre gli stessi noiosi suicidi ed evasioni, che poi sono la stessa cosa: a volte si evade con il sogno, con un libro e con la fantasia, a volte, invece, con la carezza di un lenzuolo stretto al collo, altre volte, poche, scivolandoci sopra, come un dito scorre la corda tesa di una chitarra, un intreccio di pezze rubate ed annodate che ti portano sulla strada, dove potrai palpare la libertà!
Direttori in via di estinzione, ricordavo, che si assottigliano giorno dopo giorno, come il Kebab, e con carceri ormai dirette “a distanza”, perché molti dirigenti, oltre alla ordinaria sede naturale, ne devono coprire, contemporaneamente, almeno altre due o tre, se non quattro, perfino ubicate in regioni diverse.
Si aggiungano poi gli ulteriori incarichi a scavalco, quelli della Giustizia Minorile e di Comunità, per supplire pure la carenza dei dirigenti degli uffici distrettuali ed interdistrettuali dell’Esecuzione Penale Esterna ( le riforme a costo zero, sono questo dopotutto…), i quali si interessano, prevalentemente, di misure alternative alla pena, della messa in prova e dei lavori di pubblica utilità.
Le carceri italiane, quindi, come navi alla deriva, senza direttori che provino a mantenere una rotta credibile, e con a bordo equipaggi stanchi, demotivati e preoccupati, ma stracolme di passeggeri obbligati, rumorosi, in guerra tra loro, e poco interessati ai tramonti, insomma comunità abbandonate.
Ma la cosa non interessa, l’importante è che le macellerie penitenziarie mantengano le saracinesche abbassate e tutto rimanga chiuso nelle celle frigorifere, vivi o morti non fanno differenza, come quelli di Modena. Intanto il container arrugginito, per stare sempre in mare, continua a riempirsi: tossici, qualche spolveratina di colletti bianchi, folli e folletti, piccoli delinquenti e grandi criminali, giovanissimi in carriera e ottuagenari che hanno scritto la storia delle criminalità, autolesionisti e portatori di malattie psichiatriche, falliti aspiranti suicidi e persone disabili, donne e bambini e qualche cimice da letto, tutto uguale e monotono.
I suicidi, oramai riguardano pure gli stessi operatori penitenziari, in psicologia si dice “ricalco”, non c’è bisogno della stampante tridimensionale delle carceri, d’altronde i poliziotti sono stanchi: turni spesso terribili, sempre tesi e sul chi vive, si sentono come esche sanguinolente in mezzo ai pescecani, con un rapporto, se va bene, di un agente e trenta/ quaranta detenuti e l’insicurezza può generare mostri, gli educatori poi, sono pochissimi, e non sanno come dividersi nei mille compiti che devono assicurare. Gli psicologici, poi, sono professionalità rara, pagati ad ore come le sguattere, massimo 80 ore mensili: eppure dovrebbero scandagliare le personalità dei detenuti, per fornire alla magistratura di sorveglianza elementi obiettivi di giudizio per le proprie decisioni: con 80 ore e semmai 100 detenuti da osservare, è già tanto se gli psicologi riusciranno a ricordarne i nomi esotici e le nazionalità. Tutto ciò, evidentemente, acuisce le tensioni e la rabbia, trasfor-mando in una mera aspirazione le condizioni di vita che si vorrebbero di ordine e legalità e che non solo tranquillizzerebbero l’opinione pubblica ma anche le famiglie dei ristretti, oltre che quelle dello stesso personale.
In verità, mai come adesso ci vorrebbe un’azione di politica penitenziaria sistemica, che derivasse anch’essa da una visione strategica delle problematiche della giustizia, anzi della non giustizia, invece si preferisce continuare ad abbandonare le navi alla deriva, ben sapendo che in caso di affondamento esse trascineranno, senza distinzioni, detenuti e detenenti, ma in fondo, anzi nel fondale, cosa interessa, l’importante è occupare Roma e gli scranni alti del Dap, dopotutto c’è sempre un giudice che ci assolve a Berlino.
* Penitenziarista – Già Dirigente Generale dello Stato
FONTE:https://www.ildubbio.news/2020/06/17/le-derive-penitenziarie-del-sistema-carcerario/
FINANZA BANCHE ASSICURAZIONI
Borsa Italiana presto in vendita? UE apre indagine su LSE-Refinitiv
23 Giugno 2020
Borsa Italiana sarà venduta? L’UE ha ufficialmente aperto un’indagine sull’operazione LSE-Refinitiv. L’accaduto
La possibile vendita di Borsa Italiana e le conseguenze sull’affare LSE-Refinitiv sono tornate ad attirare l’attenzione dell’intero mercato.
Nelle ultime ore, l’Unione europea ha comunicato di aver dato il via a un’indagine sull’operazione, con l’obiettivo di scovare eventuali effetti distorsivi sul fronte competitività.
Le preoccupazioni espresse dall’UE hanno portato nuovamente a ipotizzare la vendita di Borsa Italiana, anche se al momento nessun commento ufficiale è ancora trapelato. L’esito della citata indagine potrebbe chiarire, e non poco, il quadro.
Borsa Italiana in vendita? I motivi dell’indagine su LSE-Refinitiv
27 miliardi di dollari. A tanto ammonta l’affare che permetterebbe al London Stock Exchange (controllante di Borsa Italiana) di mettere le mani su Refinitiv, provider di servizi finanziari controllata al 55% da Blackstone e al 45% da Reuters.
Nella giornata di ieri però l’Antitrust dell’UE ha deciso di voler esaminare più da vicino la questione e di lanciare una vera e propria indagine ufficiale.
Il timore dell’autorità è che l’operazione potrebbe finire per danneggiare la competizione nel trading, nel clearing di strumenti finanziari e anche nei prodotti di dati finanziari.
Ma perché? L’acquisizione andrebbe a sposare le attività del LSE e con quelle di Refinitiv, a sua volta controllante di Tradeweb. Ebbene proprio la combinazione tra la piattaforma Mts di Borsa Italiana e Tradeweb darebbe al London Stock Exchange un’ampia quota di mercato nel trading elettronico del debito pubblico UE, della Svizzera e anche del Regno Unito.
“Abbiamo aperto un’indagine approfondita per verificare se l’operazione proposta che combinerà le attività di LSE e Refinitiv possa incidere negativamente la concorrenza in questi mercati”,
ha dichiarato la Commissione europea, che avrà tempo fino al 27 ottobre per comunicare la sua decisione in merito.
Secondo le indiscrezioni di Milano Finanza, Bruxelles potrebbe decidere di vietare l’operazione o anche di approvarla solo a determinate condizioni, tra le quali potrebbe rientrare anche la vendita di Borsa Italiana.
FONTE:https://www.money.it/Borsa-Italiana-vendita-indagine-UE-su-LSE-Refinitiv-dettagli
GIUSTIZIA E NORME
La norma invisibile
Nel merito della proclamata epidemia di questi mesi sono state spese parole autorevoli ma finora poco o per nulla definitive, sempre atteso che possa darsi un «definitivo» nelle cose della scienza. In quanto al metodo è stato invece più facile identificarvi l’ultima metamorfosi di una crisi ininterrotta che da almeno vent’anni reclama deroghe ai precedenti etici e giuridici per risolvere emergenze ogni volta inaffrontabili con gli strumenti del prima. Se tentassimo una tassonomia delle eccezioni condensatesi in questo breve periodo, quella attuale ricadrebbe nella fattispecie dell’attacco terroristico. Non tanto per il terrore che integra già la fenomenologia dell’emergenza, quanto più per i prodotti propri del collegato momento riformante: instillare la paura del prossimo come latore di rischi invisibili e mortali → rinforzare i dispositivi di sorveglianza → limitare le libertà che attengono alla sfera fisica.
Le misure straordinarie di volta in volta adottate nell’evo della crisi perpetua lasciano sempre un sedimento irreversibile nella legge e nella percezione di ciò che è ordinario. E in questo loro spingere ogni volta più in alto la piattaforma su cui si innesteranno le eccezioni successive, in questo qualificarsi non già degli eventi, ma delle reazioni agli eventi come incrementalmente «senza eguali», anche nella loro versione sinora ultima non sfuggono alla regola di ogni ultima versione, di superare cioè le applicazioni pregresse in ogni dimensione possibile.
Il primo prodotto in elenco si specchia oggi, direi in maniera radicale, nel dispositivo del «distanziamento sociale» che fa della negazione della prossimità e del suo comandamento (Mt 22,39) una norma generale. L’aumento della sorveglianza (secondo prodotto) si è tradotto in un dispiegamento di forze pubbliche per la prima volta indirizzato a sanzionare i movimenti quotidiani ovunque e di tutti. Entrambi i prodotti convergono strumentalmente sul terzo, più ampio e in fieri, della segregazione e del controllo dei cittadini nello spazio fisico.
L’assuefazione ai miti della dematerializzazione digitale ed economicistica, di una realtà cioè sempre riproducibile senza vincoli di spazio e di velocità nel numero elettronico (digit, cfr. fr. numérique) e monetario ha affievolito nei contemporanei la consapevolezza del primato corporeo sulle produzioni ideali. Le parole che oggi esprimono la sede dei pensieri e delle emozioni — spīrĭtŭs, ănĭma (gr. ἄνεμος), psiche (gr. ψυχή) — indicavano tutte in origine il medium fisiologico della respirazione. La moderna radice pneu- era invece per gli antichi il πνεύμα: anima, soffio vitale, Spirito Santo (ebr. רוח, soffio). È rilevante osservare come le emergenze dell’ultima stagione si siano particolarmente accanite su questo crocevia metafisico, criminalizzando prima lo scarto gassoso del movimento respiratorio (CO2) e poi ribaltando lo spiraculum vitae divino (Gen 2,7) in un soffio mortifero da incarcerare e nascondere dietro a una maschera, come un affronto osceno alla vita. Nelle proteste che scuotono oggi le piazze la sua negazione è diventata uno slogan da recitare in ginocchio: «I can’t breathe».
Quando il corpo muore ed esala l’ultimo respiro, l’anima fugge e «si rende» al cielo, cessa di esistere nell’immanenza e trascende, senza però sciogliere la dialettica che la rende viva e possibile nelle membra. La storia cristiana della salvezza culmina con il farsi carne della stessa divinità e la resurrezione del suo corpo che si dona nella memoria eucaristica, preconizzando la «resurrezione della carne» del Symbolum. Spiega Tertulliano nel De resurrectionis mortuorum:
La carne è il cardine della salvezza. Infatti se l’anima diventa tutta di Dio è la carne che glielo rende possibile. La carne viene battezzata, perché l’anima venga mondata; la carne viene unta, perché l’anima sia consacrata; la carne viene segnata della croce, perché l’anima ne sia difesa; la carne viene coperta dall’imposizione delle mani, perché l’anima sia illuminata dallo Spirito; la carne si nutre del corpo e del sangue di Cristo, perché l’anima si sazi di Dio. Non saranno separate perciò nella ricompensa, dato che son state unite nelle opere.
Le rappresentazioni astratte vivono e muoiono nello spazio fisico degli organismi che le producono e le trasmettono agli altri organismi. Procedono dalle percezioni degli organi sensori e tradiscono di continuo la loro ascendenza strutturandosi secondo le metafore del mondo fisico (Lakoff, Johnson). Sicché gli apparecchi elettronici e le reti, al pari delle concettualizzazioni filosofiche, politiche ed economiche — in primis il denaro — non scalfiscono i vincoli fisici della realtà né quelli della percezione, che sul lato ricevente dell’imbuto cognitivo rimane la stessa di cento o cinquantamila anni fa. Non creano nuove antropologie ma sono alla meglio pròtesi, in certi casi utili, in altri d’impiccio, o invalidanti.
Umanità e corpo si pongono dunque in un rapporto di identità ontologica per così dire primaria, che si allarga secondariamente alle restanti realtà nella misura in cui si manifestano agli uomini attraverso i sensi. È perciò necessario che i dispositivi di governo dell’essere umano, come singolo o in comunità, tendano in ultima istanza a governarne la corporeità. O, per dirla al contrario, che le garanzie della persona in corpore precedano ogni altra garanzia per l’ovvia ragione che non può darsi un diritto immateriale senza la materialità di un titolare e le condizioni materiali affinché possa essere goduto. Ovunque nel mondo le leggi più importanti si impongono con i deterrenti del confinamento fisico o anche della soppressione fisica del reo. L’«habeas corpus» della Magna Charta Libertatum (1215), uno dei cardini delle civiltà costituzionali moderne, garantisce l’integrità fisica dell’imputato e la legalità della sua carcerazione: non un valore, un ideale o un progetto, ma il suo corpo.
La tendenza dei moderni all’astrazione e allo sprezzo già gnostico della materia è paradossalmente antispirituale perché li trascina nel vicolo cieco delle loro fantasie, di ciò che è morto e quindi non ha spiritus, non respira. La tendenza a farsi guidare dagli -ismi, dai sistemi di pensiero, dalle etichette, dagli idoli buoni o cattivi, dai «veri» significati delle parole e della storia, dai modelli scientifici, dall’economia, dal valore di scambio applicato all’uso e alla misura del creato, dai simboli che diventano cosa e delle tessere che diventano tutto, questa tendenza può anche spiegare l’avvento odierno di un potere che va diretto alla radice fisica dei suoi soggetti senza quasi incontrare resistenze. Che usa i corpi, li scruta e li denuncia per ghermirli ed estendervi il suo dominio oltrepassando le stazioni intermedie della sussistenza economica, del patrimonio e della qualità della vita, per puntare alla vita tout court.
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Torniamo alle cronache. Alla fine di marzo ha suscitato polemiche il passaggio di un’intervista rilasciata dal direttore esecutivo del Programma emergenze sanitarie dell’OMS dove si suggeriva la necessità di «andare a guardare nelle famiglie per trovare le persone che possono essere malate, rimuoverle e isolarle in un maniera sicura e dignitosa» (corsivo mio). Trascorso un mese da quelle dichiarazioni, il presidente della Provincia di Trento Maurizio Fugatti annunciava di avere sottoposto al ministro della Salute il problema della scarsa adesione dei «positivi ai quali chiediamo di uscire dalla propria famiglia» per trascorrere la quarantena in una struttura di ricovero e, quindi, di valutare l’introduzione di uno strumento normativo che li obbligasse a farlo. Pochi giorni più tardi anche il presidente della Toscana Enrico Rossi avrebbe auspicato «un intervento del governo» per superare il rischio di incostituzionalità di un’ordinanza «che stabilisca un quasi-obbligo [?] di isolamento in albergo sanitario» per i contagiati lievi o asintomatici. Ancora, una settimana dopo il conduttore di una nota trasmissione televisiva chiedeva a Stefano Bonaccini (Emilia Romagna) se intendesse assumere «tracciatori che vadano a vedere i contatti dei positivi e [se avesse] dei luoghi dove tenere in quarantena contagiati». Risposta: «noi andiamo a scovarli casa per casa… abbiamo più di 70 unità mobili specializzate che girano in tutta la regione, provincia per provincia, per andare a cercare chi magari, in quella condizione abitativa, non è in grado di tutelare i propri familiari o i conviventi». Casa per casa.
Nel frattempo a Roma si raddoppiavano i «detective del virus» con il compito di rintracciare i sospetti positivi e i loro contatti, anche con sopralluoghi nelle case e interrogatori senza testimoni («la prima regola che dico ai miei collaboratori»), per metterli in quarantena in attesa della diagnosi. Non sorprendentemente, cresceva e continua a crescere in Italia il numero di coloro che si rifiutano di sottoporsi ai test per non finire nel limbo di una detenzione senza garanzie. Lo stesso copione si ripeteva all’estero. In Inghilterra, ad esempio, «alle persone venute a contatto [con un positivo] verrà… imposta una quarantena di due settimane, anche se non hanno sintomi e anche se si è già contratto e superato il Coronavirus» (corsivo mio), con una semplice telefonata delle autorità e anche su segnalazione anonima.
È naturale l’inquietudine di una popolazione che in queste dinamiche ritrova intero il repertorio proprio della giustizia penale: dai sospetti alle indagini, dagli interrogatori all’arresto, fino alla detenzione in carcere o ai domiciliari. Senza però capire quale sia il reato e chi il giudice, né come si possano quindi applicare le garanzie dell’habeas corpus. Per interpretare questo salto di dominio non basta riconoscervi il risultato di un’applicazione particolarmente severa della quarantena sanitaria ma occorre chiedersi il perché di quell’estensione e se, nel suo produrre i frutti tipici di un metodo di governo delle persone più che delle malattie, non stia sconfinando in ambiti molto più cardinali e profondi di quello sanitario.
Nella «medicina penale» si è tutti colpevoli fino a prova contraria, e anche al di là di ogni di prova contraria. Sul nodo così centrale ma scientificamente controverso dei portatori sani si è eretto il postulato di un’umanità naturaliter malata e perciò sempre candidabile al sospetto, alla repressione e alla custodia cautelare. Giacché il pericolo si annida negli uomini in quanto uomini, allora solo un intervento extraumano, che provenga cioè da processi estranei ai loro corpi condannati, lo può disinnescare. La vaccinazione invocata, per quanto ugualmente controversa nella realtà scientifica, diventa nella proiezione simbolica l’unica liberazione possibile, la «soluzione definitiva» (così il nostro ministro della Salute), «il sacramento medico corrispondente al battesimo» (Samuel Butler) da somministrare preferibilmente alla nascita per aggiustare la creazione e mondare il vizio originale dell’essere fatti di carne, cioè uomini. È così ribaltato il riferimento biblico in cui il corpo ad similitudinem Dei factum diventa per gli abitatori dell’Eden un oggetto di vergogna solo dopo avere commesso la colpa originale. Non perché peccato, ma a causa del peccato (Gen 2,25; 3,7).
Tra i sottoprodotti più tossici di queste applicazioni normative e coattive del movente sanitario preoccupa l’inversione del ruolo dell’arte medica nella società, e quindi il suo destino. Accanto alla concezione storica e naturale di una medicina ricercata dagli uomini per conservarsi e migliorare le proprie condizioni di vita, si fa strada l’idea che i suoi rimedi e le sue nozioni debbano invece essere imposte al popolo recalcitrante. L’inversione implicata non è di tipo tecnico, ma antropologico, perché sottende una visione dell’essere umano distruttiva e autodistruttiva, innaturale e grottesca se non demenziale come può esserlo l’idea che una persona con la febbre alta voglia mettersi in costume da bagno per prendere il sole in spiaggia, e la si debba quindi intercettare con i termoscanner. È una visione che gronda disprezzo dell’essere umano, lo squalifica al rango di una bestia incapace di discernere il proprio bene, pericolosa per sé e per gli altri e perciò sempre bisognosa di un padrone severo che la mortifichi fin nelle pulsioni più elementari, dalla socialità agli affetti, dalla mobilità agli svaghi. Se il dèmos non può sopravvivere senza catene, se non è neanche in grado di prendersi cura della propria singolarità anatomica, allora qualsiasi ipotesi di democrazia è negata alla radice. E se il rapporto medico-paziente si conflittualizza sovrapponendosi al dominio a sé estraneo della coercizione legale, la naturale alleanza terapeutica si spezza e la medicina smette di essere una risorsa desiderabile per diventare una minaccia a cui sottrarsi, come ci si sottrae oggi ai test sierologici. Il risultato di questa perdita di fiducia è un allontanamento progressivo della popolazione dai rimedi della scienza medica almeno nelle sue forme autorizzate e ufficiali, come sta già in parte avvenendo, con conseguenze sulla salute incalcolabilmente più gravi di quelle che si dice di voler scongiurare.
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Sul piano politico giova riferirsi al più ampio concetto di biopotere teorizzato da Michel Foucault, che imprime la sua forza normativa sulle vite dei cittadini facendo leva proprio sui cardini della salute collettiva (médecine sociale) e dei dispositivi di controllo e confinamento dei corpi (Surveiller et punir, 1975). Nei fatti odierni si assiste alla convergenza o quasi-sovrapposizione dei corpi biologici con il corpo sociale affinché la patologizzazione indiscriminata e indefinita dei primi renda normale la prassi di immobilizzare il secondo e di sottoporlo allo scrutinio perpetuo del panopticon. L’emergenza non è più emergenza: diventa omeostasi e le libertà sono deroghe da rilasciare per grazia («noi autorizziamo»). Utilizzando i termini di una famosa dialettica husserliana, i Leiber dei cittadini, le loro identità fisiche e intellettuali (Eigenheiten) e le loro esperienze del mondo si comprimono e tendono ad annullarsi in un sottostante Körper biologico indistintamente cagionevole e dunque sempre minaccioso per il bene sociale.
In appendice alle riflessioni del filosofo francese, Nikolas Rose ha osservato come la «molecolarizzazione» della vita (The Politics of Life Itself, 2007) abbia spostato nel nostro secolo l’oggetto della governamentalità biopolitica nelle cellule e negli atomi dei corpi e, così facendo, li abbia insieme trascesi per la trasmissibilità propria dei microorganismi e dei corredi genetici. Lo ha reso cioè invisibile, o ancora meglio lo ha astratto in un sistema di modelli descrittivi e previsionali. Nel nostro caso è ancora una volta la «positività asintomatica» il punto scientifico-retorico che sottrae del tutto la norma dal controllo e dalla verifica dei soggetti. Diversamente dalle altre condizioni socialmente escludenti — povertà, devianza, crimine, appartenenza a etnie discriminate, malattie conclamate ecc. — quella che giustifica oggi la repressione generale può marchiare i suoi soggetti senza lasciare alcun marchio. Può manifestarsi nella chimica ma non nella clinica, sul display del termociclatore ma non nell’esperienza dei corpi, nel sotto-mondo molecolare ma non in quello dei sensi, nascondersi e andare «in sonno» da una stagione all’altra come le cellule dei terroristi. La sede del suo pieno rivelarsi non possono quindi essere le corsie ospedaliere ma piuttosto il numero dei bollettini, delle previsioni e delle simulazioni. Liberato dai requisiti della percezione sensibile si diffonde più duttile nei grandi dati e nella loro selezione e rappresentazione che, come tutte le sintesi statistiche, non sono né neutre né accessibili al riscontro della massa.
Chiunque può avere commesso il reato virale senza saperlo e soprattutto senza poterlo sapere, se non al costo di avvilupparsi nelle spire di una «giustizia» sanitaria kafkiana che centralizza e centellina gli strumenti diagnostici, li rende inaccessibili ai cittadini privati, li concede o li nega senza razionalità apparente, ne ritarda l’esecuzione, non scioglie i dubbi sulla loro affidabilità, autorizza al commercio test di cui poi non riconosce la validità, crea insomma una cortina fumogena attorno alle prove con cui incarcera gli imputati senza processo, né difesa, né appello. E chiunque può commettere quel reato inavvertitamente, in qualsiasi momento e in modi altrettanto incerti perché annunciati, ritrattati, aggiornati e smentiti di continuo dalla comunità degli esperti, quasi su ogni tema: dalla sopravvivenza del virus extra corpore alle distanze raccomandate, dalla contagiosità di chi non ha sintomi all’utilità dei dispositivi di protezione, dall’effettivo sussistere del pericolo alle probabilità del suo ritorno. Il reato invisibile sottende la norma invisibile per proteggersi da un nemico invisibile che, se non è materialmente accessibile ai sensi, va nel novero delle rappresentazioni spirituali (qui anche nell’etimo, trasmettendosi con lo spiritus). È un tentatore scaltro che inganna le coscienze e le perverte con la promessa di piaceri effimeri — la «movida», una stretta di mano, un amplesso, una grigliata tra amici — e va perciò ricacciato negli inferi con l’arsenale ascetico dell’astinenza, della clausura, della rinuncia agli averi, del rispetto delle liturgie (distanziamento, abluzioni, paramenti igienici), del disciplinamento di sé e degli altri.
Che un sistema del genere crei le condizioni dell’arbitrio non è né un’illazione né una previsione di chi scrive, ma risulta dai fatti. Tra le maglie larghe delle sue contraddizioni può starci il divieto di correre e di celebrare un funerale ma non quello di assembrarsi per commemorare la Liberazione. Si può vietare la distribuzione del pane azzimo in chiesa ma non di quello arabo al banco del supermercato (cfr. Mt 4,4). Si possono riaprire le discoteche ma non le università, distribuire tamponi ai VIP ma non ai medici, puntare il dito contro i contanti (che non contaminano), mettere in gabbia i bambini (che non si ammalano), gabellare un vaccino contro l’influenza per diagnosi differenziale. Nell’incertezza galoppano le inclinazioni ideologiche e l’agenda cara a chi tiene le briglie, con il vantaggio aggiunto di segregare tutto ciò che vi si oppone.
FONTE:http://ilpedante.org/post/la-norma-invisibile
IMMIGRAZIONI
Il messaggio che porta questa foto è devastante
Mauro Spampinato – 12 05 2020
e ci dice che :
1) Gli italiani in giro per il mondo sono merce preziosa. Denaro sonante.
Approfittatene tutti. Con buona pace di quei poveri italiani, che nei paesi a rischio ci devono andare, non per scelta, a fare i turisti o i cooperanti, ma perché , ci devono andare a lavorare. Magari con l’Eni per assicurare a tutti noi le fonti. energetiche.
2) Gli italiani sono merce facile.
Rapirli non comporta molti rischi. Di solito la cosa si risolve che pagano senza grossi problemi. Chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato.. . Rapire americani, francesi o inglesi e’ molto più complicato. Arrivano di solito a cercarti elicotteri, e marines. Ti danno la caccia finché non ti trovano. O ti da il buongiorno un missile o ti accoppa un drone. Non è che noi italiani non abbiano soldati. I nostri corpi speciali sono tra i migliori. Semplicemente non li vogliamo usare. Pare brutto. Meglio far pagare pantalone.
3) Ti rapisco, ti sottometto, ti converto.
Caro infedele, io Islam, ho dimostrato al mondo intero che sono più forte di te. E di te mi prendo gioco, non solo perché ti ho fregato un sacco di soldi che userò per farti ancor più del male. Ma perché l’immagine di questa tua giovane donna, conquistata, islamizzata, forse anche ingravidata, vale più di una battaglia vinta.
vuol dire che ti conquisterò anche con l numero. Perché noi islamici facciamo più figli di voi. Magari poi le infabuliamo le bambine, ma questi sono dettagli.
I tuoi giovani sono vuoti, il relativismo ha annullato identità e tradizioni. Una parte della tua chiesa ha smesso da tempo di essere tale. E di convertire. Alcuni alti prelati si sono perfino congratulata con Silvia, pardon con Aisha. Nemmeno una parola contro la sua conversione. Io no, io sono una religione di conquista. E appena posso, te lo ricordo.
4) Qualcuno al governo ha cercato di approfittare di questa vicenda.
Non per dimostrare che lo stato c’è. Ma per dimostrare quanto sono bravi loro. E potersi fare la loro bella foto con l’ostaggio sorridente, finalmente a casa. Gli ha detto male. Intanto ci siamo dovuti rivolgere ai servizi turchi che dopo la Libia stanno provando a buttarci fuori anche dalla Somalia. Certo, lo stato italiano aveva il dovere di andarsi a riprendere un suo cittadino rapito. Allo stesso modo un cittadino italiano ha il dovere di non mettersi nei pasticci, anche se animato da buone intenzioni , specialmente quando tutti, anche la tua ONG, ti avevano detto a gran voce che dove vuoi andare e’ pericoloso. Quindi belli miei urge una legge. Che scoraggia con argomenti seri chi desidera andare in una paese a rischio. E il prezzo lo fa pagare a lui.. Spiegandogli che con tutti quei soldi andati ai terroristi sai quanti pozzi, scuole, missioni si sarebbero potute fare in Africa?
5) Senza scomodare ben altri governi del passato, immaginatevi un Craxi presidente del consiglio, Andreotti alla difesa, De michelis agli esteri. Non si sarebbero fatti prendere in giro.
Perché proprio in virtù del messaggio devastante di questa foto, la comunicazione, sarebbe stata diversa. “Ragazza cara, ti abbiamo liberata pagando fior di soldi degli italiani ,e sarà l’ultima volta, perché chi andrà in una zona a rischio non avrà più lo stato pronto a pagare. Lo farà a suo rischio e pericolo. Ora, però non ti permettiamo di fare uno spot ai tuoi carcerieri. Tu sei libera di fare come vuoi, di tornare in Somalia, di sottometterti all Islam, che alle donne riserva, notoriamente un gran bel ruolo. Ma ora, davanti alle telecamere, ti togli questo straccio. Perché questo sacco verde e’ la divisa dei terroristi somali. Di quelli che vanno in giro per l’ Africa a fare stragi di cristiani . E gli spot a questi criminali non li permettiamo a nessuno. Adesso, generale, andiamo lì a cercarli, e a prenderli questi gaglioffi. Perché il mondo sappia, che nessuno può impunemente toccare un italiano. “
FONTE:https://www.facebook.com/Mauro-Spampinato-238732816483724/
LA LINGUA SALVATA
Sineddoche
Le figure retoriche sono una bomba
si-nèd-do-che
SIGNIFICATO Figura retorica che consiste nello scambio di nome tra due entità tra le quali vi è un rapporto quantitativo
ETIMOLOGIA dal latino synècdoche, mutuato dal greco synekdokhé, derivante dal verbo synekdékhomai ‘supplire alla mancanza di una parola o un pensiero con parole o pensieri a essi connessi’.
La sineddoche non è altro che la cara sorella della metonimia. Se mi è concesso un giudizio di qualità, poi, è a volte anche più semplice. «Tutto a posto allora, nessun problema!», direte voi. E invece no, il problema c’è eccome, perché sineddoche e metonimia sono sorelle quasi gemelle: a volte indistinguibili.
Se nel caso della metonimia abbiamo la contiguità dei sensi, quindi un rapporto di tipo qualitativo, nel caso della sineddoche questo rapporto è invece di tipo quantitativo. Ma nella pratica?
Si pensi, in termini geografici, all’Oceania. La maggior parte delle terre emerse di questo continente appartengono all’Australia, e di conseguenza la nazione si trova spesso sulle spalle il dovere di designare l’intero continente: il rapporto è quantitativo perché una parte (l’Australia) finisce per definire il tutto (l’Oceania). Processo contrario e ben più comune si ha quando l’americano è spesso inteso come statunitense (il tutto per la parte) – per quanto potrebbe essere tranquillamente un canadese, un argentino, un boliviano. E la sineddoche è, in questo caso, al quadrato: ho usato il singolare (l’americano) per indicare la pluralità (gli americani).
A volte però i confini tra sineddoche e metonimia si fanno più sottili: può accadere che una metonimia diventi, a sua volta, sineddoche. Ad esempio, parlando del Quartetto per archi n. 16 di Beethoven, capita che per denominarne l’ultimo movimento si usi una frase in esso contenuta: Es muß sein! (‘Deve essere!’), anche se sarebbe titolato diversamente: questa è una metonimia. Ma qualcuno va oltre e usa quella stessa frase in riferimento non solo all’ultimo movimento, bensì a tutto il quartetto – e così la metonimia diventa sineddoche.
Alcuni di voi conosceranno il Calepino, dizionario di latino. Il termine è metonimia quando usato per fare riferimento a quello specifico dizionario (autore, Ambrogio dei conti di Calepio, per l’opera), ma sineddoche quando usato invece in riferimento a un qualsiasi dizionario (uso dello specifico per il generale).
Se in questo momento avete la fronte corrucciata e cercate di vedere la minutissima linea che separa sineddoche e metonimia, non sforzatevi troppo. È diafana, e io per primo lo dico: a volte non se ne cava piede. I rapporti di qualità e quantità spesso si sovrappongono, e strano sarebbe il contrario: come abbiamo potuto constatare, parliamo così tanto per sineddochi, metonimie e metafore che una schematizzazione assoluta è ardua impresa.
Ma il parlare retorico, consapevole o no, è bello così come son belli i gioielli: con le loro catenine preziose che si intrecciano e fanno brillare splendidamente pietre e parole.
Parola pubblicata il 01 Dicembre 2017
FONTE:https://unaparolaalgiorno.it/significato/sineddoche
LAVORO PENSIONI DIRITTI SOCIALI
Rileggiamo lo Statuto dei Lavoratori, attualizzandolo e aggiornandolo
È diventato legge il 20 maggio del 1970. Un’altra epoca storica e, si potrebbe aggiungere, un’altra era geologica. Si chiamava Statuto dei Lavoratori. Il Ministro del Lavoro che lo portò al varo definitivo si chiamava Carlo Donat-Cattin. In queste poche note di cronaca si racchiude una delle leggi più importanti e significative della storia democratica del nostro paese.
Certo, una legge storica a cui hanno contribuito in tanti, a cominciare dal Ministro del Lavoro che precedette Donat-Cattin, il socialista Giacomo Brodolini che morì prematuramente e a cui va il merito di aver iniziato l’iter legislativo dello Statuto. Come non si può dimenticare l’apporto fondamentale del professor Gino Giugni, già collaboratore di Brodolini e poi del leader della sinistra sociale della Dc di Forze Nuove al Ministero e “padre giuridico” dello Statuto dei Lavoratori.
Comunque sia, una legge importante e cruciale per il mondo del lavoro, per il riconoscimento dei diritti dei lavoratori e per la stessa organizzazione del lavoro, della produzione e del processo del lavoro. Al punto che Donat-Cattin racchiuse il significato di quella legge in una celebre intervista di alcuni anni dopo con una definizione diventata celebre: “La Costituzione entra nelle fabbriche”. Parole di grande impatto e straordinariamente efficaci che spiegavano la portata quasi rivoluzionaria di quel provvedimento. Legge che passò con la dura opposizione della destra politica ed economica del tempo, anche con non pochi mugugni nell’area conservatrice e di destra della Dc, il partito di Donat-Cattin, e con la singolare e curiosa astensione dei comunisti.
Si trattò di una battaglia lunga e complessa iniziata con l’autunno caldo e il protagonismo sociale, politico e democratico del sindacalismo italiano e proseguita con un duro conflitto sociale e senza precedenti nella storia italiana del secondo dopoguerra. Si trattò di una battaglia per affermare un nuovo ruolo dei lavoratori nella società: protagonisti, e non più sudditi; cittadini che partecipano alla costruzione della Repubblica, che la Costituzione fonda per l’appunto sul lavoro. Certo, Donat-Cattin riconobbe anche che, come legge, lo Statuto dei Lavoratori aveva dei limiti e che era stato pensato in funzione delle esperienze e delle richieste specifiche del tempo. Infatti auspicò fin da subito dei miglioramenti.
In generale, allo Statuto dei Lavoratori si riconosceva la volontà di andare incontro alle esigenze dei lavoratori nell’interesse della ricerca della pace sociale. Ma c’è un elemento politico e culturale decisivo e cruciale che fa da sfondo al varo dello Statuto dei Lavoratori e che è legato strettamente al profilo politico del “Ministro dei lavoratori”, cioè Carlo Donat-Cattin.
In effetti, la preoccupazione costante di Donat-Cattin di porre la “questione sociale” al centro di ogni indirizzo politico non si risolveva solo nello sforzo di condizionare le scelte di politica economica e salariale ponendosi dal punto dei vista dei ceti subalterni: scelte che ebbero conseguenze incalcolabili nel determinare lo sviluppo complessivo della società italiana per le enormi potenzialità di lavoro, di intelligenza, di imprenditorialità diffusa che le classi popolari italiane seppero sprigionare in un paese come l’Italia, privo di materie prime e di capitali e ricche solo di braccia e di intelligenza pratica. La sua ambizione era più grande: Donat-Cattin, cioè, voleva che nell’architettura amministrativa dello Stato democratico quei ceti e quelle istanze non avessero più un ruolo residuale nè meramente aggiuntivo.
Quando arrivò alla guida del Ministero del Lavoro non tardò, infatti, a rendersi conto che – sono parole sue – “nell’organizzazione attuale del Governo non esiste un vero e proprio centro di politica sociale: si è costituito nel tempo un Ministero del Lavoro perchè con i sindacati bisognava trattare; vi si è aggiunta la competenza della previdenza sociale perchè le lotte dei lavoratori avevano ottenuto alcune norme per la sicurezza della vita e così via. Ma è tutto strumentale da parte delle classi dirigenti verso il lavoro subordinato”.
Era, infatti, sua ferma convinzione che il dato politico nuovo “doveva consistere nel dare alla politica sociale complessiva un ruolo non più subalterno, ma primario per la vita dello Stato, anche nella sua espressione politico/amministrativa”. Insomma, per Donat-Cattin l’istanza sociale doveva “farsi Stato”. E cioè, trovare piena ed irreversibile cittadinanza ad ogni livello dell’organizzazione amministrativa e della gestione della cosa pubblica.
E il suo radicamento nel sociale si saldava così con le esigenze più mature e moderne dello Stato di diritto: saldatura che riscontriamo non solo nella battaglia per lo Statuto dei Lavoratori ma anche nella strenua difesa della legge elettorale proporzionale che, per Donat-Cattin come già per Luigi Sturzo, rappresentava l’unico strumento di emancipazione politica per i ceti popolari, cioè per consentire ad essi di avere, ad ogni livello e senza mediazioni gerarchiche, i loro diretti rappresentanti.
Questa è la cornice politica, culturale e sociale che ha fatto maturare, e votare in Parlamento, lo Statuto dei Lavoratori. Una legge che conserva, tutt’oggi, una bruciante attualità e modernità. Perchè il riconoscimento e la tutela dei diritti dei lavoratori non sono mode che passano e non hanno tempi determinati. Sono e restano principi democratici che non possono essere sacrificati sull’altare di qualsiasi falsa e maldestra modernità. Per questo va ricordato e riletto anche se va, come ovvio, attualizzato e aggiornato.
FONTE:https://www.huffingtonpost.it/entry/rileggiamo-lo-statuto-dei-lavoratori-attualizzandolo-e-aggiornandolo_it_5ec28ff9c5b637e3d2d335cc
PANORAMA INTERNAZIONALE
ORO: LA CINA FA SHOPPING DI MINIERE NEL MONDO
Verso un gold standard per lo yuan?
Però Pechino e le sue aziende non si accontentano più soltanto dell’oro prodotti internamente, ma , negli ultimi esi, hanno iniziato un vero e proprio shopping mondiale di miniere e società estrattive nel settore del metallo prezioso.
Facciamo alcuni esempi:
- il Zijin Mining Group Co ha acquistato Continental Gold Inc, per 1,3 miliardi di dollari. Il suo principale asset è il progetto Buriticá, è l’operazione di estrazione dell’oro sotterraneo più avanzata in Colombia. Il Buriticá è uno dei più grandi progetti mondiali di oro di alta qualità, la cui produzione dovrebbe iniziare nel 2020. Si stima che le riserve minerali siano 3,7 milioni di once d’oro con 8,4 g / t di oro (13,7 milioni di tonnellate).
- All’inizio di maggio TMAC Resources ha siglato un accordo con uno dei maggiori produttori cinesi di oro, Shandong Gold Mining, che prevede un’opzione di vendita della propria azienda per 230 milioni di dollari canadesi. La TMAC ha proprietà nei migliori distretti, canadesi con 5,17 milioni di once d’oro a un grado medio di 7,4 g / t Au e risorse minerali differite per un totale di circa 2,13 milioni di once di oro a un grado medio di 6,1 g / t Au. Il governo canadese sta però rivedendo l’accordo perchè Shandong è una società statale;
- Zijin Mining Group ha acquisito Guyana Goldfields società canadese con risorse minerarie in sud america. L’offerta è stata del 35% superiore ad quella di un concorrente diretto canadese;
- Shandong Gold Mining ha acquistato Cardinal Resources per 300 milioni di dollari australiani. In questo caso le risorse aurifere sono soprattutto nel continente australe.
Perchè questo shopping da parte di scoietà statali cinesi in tutto il mondo? Recentemente ci sono stati avvisi non amichevoli dell possibilità che gli USA vogliano escludere la Cina dal sistema de dollaro. Ora Guo Shuqing, direttore del China Banking and Insurance Regulatory Commission ha parlato di questa mossa come una delle possibilità che il sistema finanziario cinese si tieen aperto nel caso di rottura con il dollaro o di prosecuzione a lungo termine del covid-19 quindi con successive ondate di politica monetaria espansiva. Una valuta basata sull’oro può avere dei vantaggi nel brevissimo, ma nel medio lungo viene a comportare una progressiva rivalutazione della valuta che comporta una perdita di competitività del sistema manifatturiero. Sono pochi i casi in cui sia stato possibile mantenere un surplus commerciale basato sulla manifattura e , nello stesso tempo, una valuta forte, e gli esempi sono quelli di economie molto più piccole rispetto a quella cinese. La scelta aurea può tagliare le gambe al sistema industriale, tranne che non sia accompagnato da un profondo cambiamento economico.
FONTE:https://scenarieconomici.it/oro-la-cina-fa-shopping-di-miniere-nel-mondo-verso-un-gold-standard-per-lo-yuan/
POLITICA
Prima di tutto vennero a prendere le statue.
Il totalitarismo del neo-progressismo, cane da guardia del capitalismo
Thomas Fazi – 11 06 2020
«La neolingua del politicamente corretto rappresenta il più evidente punto di convergenza fra cultura liberale, cultura socialdemocratica e cultura delle sinistre radicali. Al tempo stesso, rappresenta il più clamoroso sintomo dell’egemonia culturale – del soft power – che gli Stati Uniti esercitano sull’intero mondo occidentale. Si tratta infatti di un fenomeno nato nell’ambiente accademico statunitense, nei dipartimenti umanistici che si occupano di teorie postcoloniali, gender theory, linguistica e affini e nei confronti del quale le élite mediatiche (americane prima ed europee poi) hanno svolto il ruolo di cassa di risonanza. Il politicamente corretto trova legittimazione scientifica nella svolta linguistica delle scienze sociali, alimentando la credenza secondo cui l’atto del denotare – le narrazioni – non rispecchia ma letteralmente crea la realtà. Questa tesi può anche essere definita come una distorta interpretazione del concetto gramsciano di egemonia, ma coglie un nodo reale: il potere performativo del linguaggio, se non crea né modifica le relazioni sociali, certamente ne influenza la percezione, ma soprattutto rende difficile la contestazione delle idee politicamente corrette, mettendo in atto un dispositivo che alcuni hanno definito spirale del silenzio: si esita a criticare i “regimi di verità” egemoni per paura di essere sanzionati socialmente e di essere categorizzati come fascisti, razzisti, sessisti, nazionalisti, populisti, conservatori ecc. La gender theory esprime la propria vocazione “ibridista” e il proprio orrore nei confronti di tutte le forme di appartenenza identitaria (nazionale, etnica, di genere ecc.) bollando come sessisti e razzisti tutti coloro che le accettano. … Chi si oppone al liberalismo, nella misura in cui tale ideologia si proclama contraria a qualsiasi limitazione della libertà individuale da parte di comunità sociali e istituzioni politiche, è per definizione reazionario. Lo stesso capita a chi rivendica la sovranità nazionale del proprio paese: le élite politiche ed economiche che governano la società capitalista globalizzata rivendicano la superiorità delle idee cosmopolite e multiculturaliste nei confronti del rozzo localismo delle classi subalterne. I proletari che votano per Trump, per la Brexit, per la Lega e il M5S, e in generale per le forze politiche “sovraniste”, non sono lavoratori ma feccia reazionaria, “sdentati” (Hollande), “popolo demente” (Bifo). Vengono presentati come classi pericolose pronte a sostenere forze politiche neofasciste. Attraverso la neolingua politicamente corretta imposta dal liberalismo cosmopolita e autoritario si intravede l’immagine d’un futuro “liberato” dalle identità nazionali come da quelle di classe, genere ed etnia, un futuro postnazionale e postdemocratico che Antonio Negri e Michael Hardt rappresentano ed esaltano in Impero». ― Carlo Formenti, “Il socialismo è morto, viva il socialismo!”
FONTE:https://www.facebook.com/thomasfazi?__tn__=%2CdC-R-R&eid=ARByCqk9CkuE6GCjfFVQ5yRq7RAj0nC2O9GzTkQ7JR_RndwvdQWoFXlb8g4STyTCfOzRAt7bdS0iMHBb&hc_ref=ARTChlLVNVu-jY27i5aBerlLxVp3mkJ2bofQ8bg6QPxY8ula000jD2B3GemE0iXB7Q8&fref=nf
SCIENZE TECNOLOGIE
Malainformazione e antivaccinismo
ARTICOLO AGGIORNATO
Ho ricevuto da Cristian Atzori, menzionato poco sotto, una mail che ritengo sia corretto riportare anche qui, non cambia il senso di quanto riportato nell’articolo che c’è dopo il meme d’ordinanza, ma è giusto che Atzori riporti la sua versione del post di cui parliamo:
mi chiamo Cristian Atzori e di recente mi e’ stato fatto notare che sono citato in un suo recente articolo:
https://www.butac.it/malainformazione-e-antivaccinismo/
Vorrei limitarmi a darle alcune precisazioni, augurandomi che ne apprezzi utilità per gli scopi del suo blog (“Un blog fatto con passione, la passione per l’informazione corretta, la passione per la verità”):
– il testo del messaggio che trovo citato e’ frutto di una divulgazione, senza mio consenso, avvenuta in una conversazione privata su Whatsapp, il 13 marzo del 2020.
– L’associazione Auret compare citata a sproposito, perche’ il divulgante ha inviato i messaggi lasciando visibile il contatto con cui mi aveva registrato in rubrica “Cristian Atzori Auret”, ma gli argomenti nella discussione riguardavano un lavoro di indagine condotto spontaneamente da me, senza aver coinvolto direttamente l’associazione Auret, per la quale opero come volontario dal 2017.
Il messaggi originali sono stati piu’ volte manipolati, le evidenziero’ le parti aggiunte o modificate nelle innumerevoli condivisione di cui e’ stato oggetto.
Questo e’ il messaggio presente sul vostro articolo su Butac:
“TUTTI I CEPPI dell’ANTINFLUENZALE di QUEST’ANNO (2019-2020) CONTENGONO il COVID.
SU 60 PAZIENTI ANALIZZATI, 58 AVEVANO FATTO il VACCINO”
(questa frase in maiuscolo, messa come titolo da qualcuno, non e’ mai stata scritta, pronunciata e nemmeno pensata da me)
By: Cristian Atzori Auret: E’ una verifica che stiamo conducendo su scala nazionale Monica. Collaborano medici negli ospedali e nel 118.
“Da 60 verifiche che ho condotto ricavando i dati di pazienti in t.i.r., grazie all’aiuto di chi ci appoggia nella libera scelta, 58 avevano ricevuto i vaccini antinfluenzali. Gli intubati giovani avevano usato VaxiGrip Tetra, che si propina anche ai bambini.
Tutti i ceppi contenuti degli antinfluenzali di questo anno vennero indicati dall’OMS ad inizio 2019, e contengono 2 ceppi di coronavirus (definito inattivato).
(nei miei messaggi originali non ho mai scritto questo, ma invece “e contengono 2 nuovi ceppi di virus influenzale (definito inattivato), chiamati Brisbane e Kansas.”)
Non è una questione secondaria….
I vaccini sotto osservazione sono: Fluad 2019-2020, Influvac S Tetra, Influvac S, Vaxigrip Tetra
E’ da novembre 2019 che raccolgo notizie di persone ricoverate, con polmoniti, pochi giorni dopo i vaccini. Quando nemmeno si leggeva un solo articolo in italiano riguardo il covid”.
Da questo punto in poi ogni successiva aggiunta di articoli, considerazioni, fonti, link, deduzioni, correlazioni e ipotesi non proviene da me.
In alcune condivisioni piu’ recenti mi e’ addirittura stata attribuita la qualifica di “medico lombardo”, cosa assolutamente infondata.
Mi preme sottolineare che in merito alla vicenda della divulgazione di questi messaggi l’associazione Auret non ha alcun coinvolgimento e risulta dunque ingiusto costruire delle accuse a loro rivolte su questo presupposto.
Per il resto dell’articolo rispetto il vostro diritto di opinione, apprezzo l’intento di verificare una fonte e cercare conferme o smentite poiché è quello che io stesso mi auguro di riuscire a perseguire nei miei ambiti di interesse, da volontario ed appassionato di diritti umani.
Mi avete segnalato un messaggio che sta circolando principalmente via mail o sistemi di messaggistica. Il testo del messaggio è questo:
“TUTTI I CEPPI dell’ANTINFLUENZALE di QUEST’ANNO (2019-2020) CONTENGONO il COVID.
SU 60 PAZIENTI ANALIZZATI, 58 AVEVANO FATTO il VACCINO”
By: Cristian Atzori Auret: E’ una verifica che stiamo conducendo su scala nazionale Monica. Collaborano medici negli ospedali e nel 118.
“Da 60 verifiche che ho condotto ricavando i dati di pazienti in t.i.r., grazie all’aiuto di chi ci appoggia nella libera scelta, 58 avevano ricevuto i vaccini antinfluenzali. Gli intubati giovani avevano usato VaxiGrip Tetra, che si propina anche ai bambini.
Tutti i ceppi contenuti degli antinfluenzali di questo anno vennero indicati dall’OMS ad inizio 2019, e contengono 2 ceppi di coronavirus (definito inattivato).
Non è una questione secondaria….
I vaccini sotto osservazione sono: Fluad 2019-2020, Influvac S Tetra, Influvac S, Vaxigrip Tetra
E’ da novembre 2019 che raccolgo notizie di persone ricoverate, con polmoniti, pochi giorni dopo i vaccini. Quando nemmeno si leggeva un solo articolo in italiano riguardo il covid”.
“Casualmente” esistono studi scientifici pubblicati, che sostengono come il vaccino per l’influenza ed il #CORONAVIRUS #SARS, possano indurre malattie polmonari e
“casualmente” la Cina a novembre 2019 ha cominciato i test di questo vaccino sulla popolazione e
“casualmente”, da settembre vige l’obbligo vaccinale coatto in Cina. – vedi: Controllo della Popolazione
In Inghilterra raccomandano a chi ha fatto il vaccino antinfluenzale, di stare in casa 12 settimane perché a forte rischio per il CV e di ammalarsi proprio per il Vaccino !
Ecco lo studio che conferma la correlazione tra vaccinazioni anti influenzali e aggravamento delle infezioni all’apparato respiratorio.
Nel testo originale vengono riportati anche alcuni link. Quello che ritengo però più interessante per mostrarvi come funziona il gioco della disinformazione è l’ultimo, che rimanda a un articolo del Mirror britannico.
Nella prima parte del testo ci viene raccontato che su 60 pazienti 58 avessero fatto l’antinfluenzale. Non ci viene raccontato dove siano stati raccolti questi dati, ma più che altro non viene sottolineato a sufficienza che si tratta di 60 pazienti. Su oltre 180mila casi. Non proprio numeri schiaccianti. Ci vengono dati dei link a degli studi scientifici, che però non dicono esattamente quanto si vuole sostenere. Uno dei due studi infatti ha riscontrato risultati contrastanti, l’altro è di otto anni fa e l’unica cosa che spiega è di procedere con cautela nell’applicazione di vaccini Sars-Cov nell’uomo. Ma in nessuno dei due studi viene certificato che i vaccini antinfluenzali causino ulteriori problemi respiratori.
Ma andiamo alla fine del testo, quella frase:
In Inghilterra raccomandano a chi ha fatto il vaccino antinfluenzale, di stare in casa 12 settimane perché a forte rischio per il CV e di ammalarsi proprio per il Vaccino !
Il Mirror non è una delle testate che io amo di più, ma cosa dice l’articolo che AURET ha linkato a dimostrazione della sua affermazione?
Jonathan Van-Tam, deputy chief medical officer for England, told BBC Breakfast this morning: “I don’t want to go into enormous detail into every single risk group but we are saying it is the people who are offered flu vaccines, other than children, who fit into that risk category, people for whom the advice is very strong about social distancing.”
Che tradotto:
Jonathan Van-Tam, vicedirettore medico per l’Inghilterra, ha detto stamattina alla BBC Breakfast: “Non voglio entrare in dettagli specifici su ogni singolo gruppo a rischio, ma stiamo dicendo che sono proprio quelle persone a cui vengono offerti i vaccini antinfluenzali, oltre ai bambini, a fare parte delle categorie a rischio, persone a cui si raccomanda di osservare con particolare attenzione le norme sul distanziamento sociale”.
Che non significa affatto quanto AURET sostiene. Il Mirror spiega solo che gli inglesi che hanno ricevuto l’offerta per il vaccino (che sono quelli che hanno già una condizione di salute non ottimale, per età o patologie pregresse) rientrano nelle categorie a rischio. Non perché sia il vaccino antinfluenzale a metterli in pericolo, ma perché, se hanno ricevuto l’invito a farlo da parte del Ministero della Salute, significa che lo stesso li considera soggetti più a rischio.
Io fossi in un seguace di AURET onestamente mi sentirei preso per i fondelli.
maicolengel at butac punto it
FONTE:https://www.butac.it/malainformazione-e-antivaccinismo/
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