RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI
25 GIUGNO 2021
A cura di Manlio Lo Presti
Esergo
Felicità e orologio si escludono
GIANNI CHIOSTRI, Ingannare il Tempo, Ancora,2002, pag. 56
https://www.facebook.com/dettiescritti
https://www.instagram.com/dettiescritti/
Le opinioni degli autori citati possono non coincidere con la posizione del curatore della presente Rassegna.
I numeri degli anni precedenti della Rassegna sono disponibili sul sito www.dettiescritti.com
Precisazioni legali
www.dettiescritti.com è un blog intestato a Manlio Lo Presti, e-mail: redazionedettiescritti@gmail.com
Il blog non effettua alcun controllo preventivo in relazione al contenuto, alla natura, alla veridicità e alla correttezza di materiali, dati e informazioni pubblicati, né delle opinioni che in essi vengono espresse. Nulla su questo blog è pensato e pubblicato per essere creduto acriticamente o essere accettato senza farsi domande e fare valutazioni personali.
Le immagini e le foto presenti nel Notiziario, pubblicati con cadenza pressoché giornaliera, sono raccolte dalla rete internet e quindi di pubblico dominio. Le persone interessate o gli autori che dovessero avere qualcosa in contrario alla pubblicazione delle immagini e delle foto, possono segnalarlo alla redazione scrivendo alla e-mail redazionedettiescritti@gmail.com
La redazione provvederà doverosamente ed immediatamente alla loro rimozione dal blog.
°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°
SOMMARIO
CRISANTI CONFESSA: ABBIAMO USATO GLI ITALIANI COME CAVIA
Cosa rivela l’incidente del Mar Nero
Marra: il “patto di sistema” che ci uccide
Maschere, divinità, controllo sociale e resistenza
MA COSA SIGNIFICA LA SIGLA LGBTQIA?
La (vera) partita in Europa. Cosa c’è in ballo per l’Italia
LE AVIATRICI RUSSE DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE
“La personalità riaffiora dalla spersonalizzazione del nulla”
Il tutto è falso
Dati cancellati e segreti di Stato: i nuovi gialli sull’origine del Covid
Biglino: la menzogna al potere, con Davos o con Viganò
Mazzucco smonta le balle della Gabanelli
Resistenza: promemoria ottimista per tempi pessimi
Arabi: Hamas e l’Iran hanno trasformato Gaza in un cimitero di bambini
Notizie dal crepuscolo
La disoccupazione è necessaria al capitalismo
Mascherine cinesi. Arcuri indagato adesso rischia 10 anni di carcere
Il falso mito della liberazione di Brusca
Il dispositivo di inclusione
Aborti e commercio di feti, vescovi Usa accusano Biden
Dilaga la nuova ideologia ufficiale. Imposta dalla UE
Maschere, divinità, controllo sociale e resistenza
Somalia italiana.
24 giugno 1922, le vere radici del nazismo
IN EVIDENZA
CRISANTI CONFESSA: ABBIAMO USATO GLI ITALIANI COME CAVIA… MILIONI DI PERSONE SONO IN PERICOLO?
CRISANTI CONFESSA: ABBIAMO USATO GLI ITALIANI COME CAVIA… MILIONI DI PERSONE SONO ORA IN PERICOLO?
Andrea Crisanti, professore ordinario di microbiologia all’Universita di Padova, alterna momenti in cui pare schierato dalla parte del regime sanitario a momenti in cui sembra una sorta di pentito del sistema, facendo affermazioni che, per quanto scontate, hanno un certo peso proprio perché arrivano dalla sua bocca. L’ultima è arrivata ieri.
Ospite al programma Tagadà su La7, Crisanti ha ammesso che i vaccini sono sperimentali, che ai cittadini non è stata detta la verità sui rischi e che quindi, ognuno di essi è stato usato come cavia. In sostanza, fa capire il microbiologo, che un intero popolo è stato convinto a vaccinarsi con sieri spacciati per sicuri quando non potevano esistere certezze in questo senso.
Infine l’affondo da vero pentito del regime sanitario: hanno vaccinato decine di milioni di persone con sieri di cui non potevano conoscere gli effetti.
VIDEO QUI: https://youtu.be/2jfuAiga0vc
E ora che cosa accadrà? Se un 20-30% dei 45 milioni di italiani vaccinati dovesse accusare reazioni avverse….
IL RESTO QUI
FONTE: https://www.maurizioblondet.it/crisanti-confessa-abbiamo-usato-gli-italiani-come-cavia-milioni-di-persone-sono-in-pericolo/
Cosa rivela l’incidente del Mar Nero
L’incidente del Mar Nero avvenuto a largo della Crimea segna un nuovo livello dello scontro tra Regno Unito e Russia. I media e poi il governo russo hanno fornito la loro versione dei fatti: un cacciatorpediniere britannico, la Hms Defender, è passato a circa 10 miglia nautiche dalla coste di Sebastopoli, violando le acque territoriali della Crimea, quindi della Federazione Russa. A quel punto, le motovedette della guardia di confine russa hanno iniziato a tallonare la nave britannica, fino a che non sono decollati di caccia Su-24 che avrebbero “ronzato” intorno alla nave fino a lanciare almeno quattro missili vicino alla rotta del Defender. Colpi di avvertimento preliminari, aggiungono da Mosca. Diversa – in parte – la versione britannica. Londra ha prima completamente smentito le notizie trapelate dalla Russia, poi ha deciso invece di smorzare le affermazioni di Mosca parlando di una tranquilla e pacifica navigazione nelle acque internazionali vicino a un territorio appartenente all’Ucraina.
Il governo inglese ha poi categoricamente escluso che vi siano stati dei veri colpi di avvertimento, riferendo invece di una fantomatica “esercitazione” di artiglieria nel Mar Nero da parte di Mosca. “Non è corretto affermare che il cacciatorpediniere è stato preso di mira da colpi di avvertimento o che la nave si trovava in acque russe. Hms Defender si trovava sulla rotta più diretta e riconosciuta a livello internazionale tra l’Ucraina e la Georgia per delle esercitazioni di tiro vicino”, ha detto un portavoce del governo. “Come sapete, il Regno Unito non riconosce la pretesa territoriale russa sulla Crimea e continuiamo ad aderire al diritto internazionale secondo cui l’annessione della Crimea è illegale”, ha concluso.
Nel mezzo, le dichiarazioni di un giornalista della Bbc imbarcato proprio sul Defender, Jonathan Beale, che ha riferito che la nave si fosse avvicinata al limite delle 12 miglia nautiche dalla costa della Crimea e e che due imbarcazioni della guardia costiera russa hanno cercato di costringerla a cambiare rotta, fino ad avvicinarsi a una distanza di cento metri. Una volta che i russi hanno minacciato di aprire il fuoco, si sono uditi spari in lontananza ma molto lontani dalla rotta del cacciatorpediniere. A quel punto, conclude Beale, circa 20 aerei russi hanno iniziato a volare intorno al Defender prima che questo si allontanasse definitivamente dalla costa di Capo Fiolent proseguendo nella sua rotta.
Le due versioni e i due messaggi
La differenza tra le due versioni è sottile ma fondamentale. Innanzitutto perché si tratta, anche in questo caso, di un tipico episodio di “information warfare”. L’evento c’è, ma è l’interpretazione a essere del tutto o in parte diversa a seconda delle esigenze di propaganda. La Russia ovviamente ha tutto l’interesse a mostrare la propria capacità di proteggere la Crimea, specialmente in attesa delle imponenti esercitazioni Sea Breeze 21 nel Mar Nero coadiuvate dalla Sesta Flotta americana. Cinquemila uomini e navi da 32 Paesi che fanno giochi di guerra in quello specchio d’acqua vitale per Mosca non passano certo inosservati. Dall’altra parte, il governo britannico, che sembra abbia subito voluto smorzare la tensione, ha voluto fare intendere di non essere rimasto intimidito dagli avvertimenti russi, derubricando il tutto a “esercitazioni nel Mar Nero” e ribadendo che quella è una rotta libera vicino a un territorio ucraino e che quel passaggio indica che si deve proteggere la libertà di navigazione. Messaggio recapitato alla Russia perché la Cina intenda.
In ogni caso, l’episodio aiuta sia Londra che Mosca, che da questo confronto ad alta intensità nel Mar Nero ne escono con alcuni messaggi molto chiari. Il Regno Unito – sempre che la rotta sia stata quella segnalata dai radar, già denunciati nei giorni scorsi, e soprattutto sempre che non vi siano stati problemi al GPS dovuti alla bolla difensiva russa in Crimea – sapeva di poter provocare una reazione del Cremlino. Ma è stata una reazione ponderata di una potenza che non vuole una guerra per un episodio simile.
Londra ha fatto capire di avere a cuore la libertà di navigazione anche nel Mar Nero e ha soprattutto lanciato un segnale all’Ucraina nel momento in cui, proprio a bordo del Defender, sono stati conclusi importanti accordi in ambito navale. Mosca, dal canto suo, ha probabilmente esagerato nel parlare di caccia Sukhoi che hanno bombardato la rotta della nave britannica: le immagini satellitari e i video rilasciati dal ministero della Difesa russo confermano il momento di tensione, la rincorsa al Defender e il volo dei Su-24 intorno alla nave, ma di bombe lanciate in prossimità della nave non vi è traccia, se non forse qualcuna molto in lontananza che non fa credere a un momento di reale pericolo per l’imbarcazione inglese. Ad ogni modo, l’aver smentito il ministero britannico, che aveva negato all’inizio l’episodio, è un segnale di come l’informazione sia servita (eccome) per propagandare un messaggio politico nei confronti di Londra e della Nato.
La “nuova normalità”
Messaggio politico, ma anche strategico. Come riporta anche l’inviato di Repubblica Antonello Guerrera, l’episodio avvenuto davanti Capo Fiolent conferma l’esistenza di una “new normal” strategica. Essa consisterebbe in una “nuova normalità” in cui appare sempre più evidente e costante lo scontro tra Paesi che difendono la libertà di navigazione a qualunque costo e Paesi che invece tendono a “territorializzare” il mare. È dunque il mare il vero palcoscenico, insieme ad altri domini, delle nuove conflittualità tra potenze.
Il tema è particolarmente sentito tra Occidente e Oriente e riguarda non tanto il Mar Nero, quanto il Mar Cinese Meridionale. Da tempo gli Stati Uniti (tra poco si unità anche la Gran Bretagna e altre potenze europee) contestano il fatto che Pechino estenda la propria sovranità su tratti di mare del Pacifico. La Marina americana opera con regolarità nell’Indo-Pacifico in quelle che definisce “Fonop”, ovvero “freedom of navigation operation”. E questo nuovo tipo di scontro è sicuramente replicabile anche nel Mar Nero e nel Mediterraneo orientale, dove le forze Nato chiedono che si rispetti al diritto alla libertà di navigazione anche come grimaldello legale per avvicinarsi alla flotta russa e alle sue basi più importanti, ovvero Sebastopoli e Tartus. Avvicinamenti che per Mosca sono esclusivamente provocazioni, ma che rientrano in un tipico meccanismo di confronto tra Russia e blocco Nato. Le stesse forze russe spesso si avvicinano alle aree sotto il controllo della Marina e dell’Aeronautica britannica per testare le capacità di reazione di Londra. E questo accade costantemente anche nel Mar Nero su fronti opposti. Un gioco pericoloso ma che ormai da decenni caratterizza quel fronte di guerra. Diverso il caso del Mar Cinese Meridionale, dove Pechino non è ancora abituata a un confronto così serrato e in cui i canali di dialogo appaiono molto meno decodificati.
FONTE: https://it.insideover.com/guerra/cosa-rivela-lincidente-del-mar-nero.html
Marra: il “patto di sistema” che ci uccide
FONTE: https://www.youtube.com/watch?v=RriNiEVBcu8
ATTUALITÀ SOCIETÀ COSTUME
Maschere, divinità, controllo sociale e resistenza
di Anselmo Cioffi
La percezione che il panopticon di Bentham e di Orwell (l’occhio che controlla tutto, che sai che c’è, ma non sai dov’è e quando c’è) sarebbe stato ridimensionato e lentamente sostituito, con il progredire delle innovazioni tecnologiche, dall’auto sorveglianza (servitù volontaria), decretando di fatto la quasi obsolescenza del controllo centralizzato e diretto dall’alto, è stata smentita da quindici mesi di stato d’eccezione a livello globale.
Potremmo dire, anzi, che la sorveglianza dall’alto plurale, poliedrica e multilivello (non un solo occhio, ma tanti), si è oggi integrata perfettamente con l’auto sorveglianza, in quanto l’illusione di “libertà di scelta”, indotta dalle tecniche sempre più pervasive del consumismo, non è bastata: il “sovrano” ha dovuto agire con più forza, di nuovo d’autorità, senza però rinunciare alla sorveglianza orizzontale, anzi adattandola alle nuove esigenze del totalitarismo globale.
Sarebbe, però, più opportuno parlare di “sovrani”, data la pluralità di soggetti, interconnessi, a più livelli, ma spesso anche in conflitto tra loro, posti orizzontalmente al vertice della piramide; i quali condividono, collaborano e si adattano alle basi della narrazione tecno-scientifica, attraverso dinamiche, la cui complessità sfugge a catalogazioni e schemi tradizionali ben definiti, con alleanze che si compongono, si sfaldano e si ricompongono, in un turbinio continuo e inafferrabile. Anche il “sovrano” è diventato, quindi, fluido.
Sebbene la torsione autoritaria sia in atto, in Occidente (e in particolare nel nostro Paese), già da decenni al fine di svuotare le costituzioni democratiche, questa torsione trova oggi, un primo straordinario compimento con l’istituzione dello stato d’eccezione, mascherato da emergenza.
Il treno è in corsa e il “pilota automatico” non si fermerà tanto facilmente.
Tale salto in avanti ha accentuato ancor più quella che Bauman chiamava tendenza all’“adiaforizzazione”, “vale a dire a dispensare una buona parte di azioni umane dal giudizio morale e, addirittura, dal significato morale”, sostituendo l’etica, con un astratto bene comune, perché ciò che importa non è il sentimento umano, che può e deve essere calpestato, ma il risultato conseguito, quello prestabilito dal sovrano e che è indiscutibile: può essere messo in discussione solo dal sovrano stesso.
Il capovolgimento del senso di responsabilità ha quindi completato il quadro: non siamo più responsabili delle nostre azioni davanti alla nostra coscienza e ai nostri simili, ma lo siamo e lo sono gli altri di fronte a “regole”, non importa se assurde, pesantemente coercitive e astratte.
Quindi diventa necessario privare gli esseri umani di ogni tendenza e sentimento che possa portare a violarle, persino la relazione umana paritaria con l’altro.
Il distanziamento diventa il primo necessario passo verso la “cura”: l’assoggettamento catartico per la costruzione di una “nuova normalità”, il consegnarsi di nuovo completamente mani e piedi al dominus.
Ma non solo, l’interagire dei due piani di sorveglianza, ne crea un altro: quello della sorveglianza verso il prossimo.
Ca-pi-ta-li-smo del-la sor-ve-glian-za
-
- Un nuovo ordine economico che sfrutta l’esperienza umana come materia prima per pratiche commerciali segrete di estrazione, previsione e vendita;
- Una logica economica parassitaria nella quale la produzione di beni e servizi è subordinata a una nuova architettura globale per il cambiamento dei comportamenti;
- Una mutazione pirata del capitalismo caratterizzata da concentrazioni di ricchezza, conoscenza e potere senza precedenti nella storia dell’umanità;
- Lo scenario alla base dell’economia della sorveglianza;
- Un’importante minaccia per la natura umana nel Ventunesimo secolo, proprio come il capitalismo industriale lo era per la natura nei secoli Diciannovesimo e Ventesimo;
- L’origine di un nuovo potere strumentalizzante che impone il proprio dominio sulla società e sfida la democrazia dei mercati;
- Un movimento che cerca di imporre un nuovo ordine collettivo basato sulla sicurezza assoluta;
- Un’espropriazione dei diritti umani fondamentali che proviene dall’alto: la sovversione della sovranità del popolo.
Shoshana Zuboff
Siamo chiamati a collaborare, e questo non aggiunge nulla ai vecchi totalitarismi, la novità sta semmai nella “libera creatività”, o in quella che percepiamo come tale: “fuori dagli schemi”, aiutati in questo dalla sofisticata mistificazione della realtà attraverso una cosmesi colorata e “open”.
Il totalitarismo, per come l’abbiamo conosciuto finora, puntava tutto sull’oppressione, sul terrore e sull’odio nei confronti dell’escluso e del nemico.
Il sistema ideologico era imposto con la forza del regime poliziesco, non coinvolgeva attivamente nell’elaborazione teorica, riservata alle élites, così come era riservata alle élites la componente esoterica. La propaganda serviva a irreggimentare, terrorizzare, fomentare l’odio, giustificare l’esclusione, e, alla fine, a conformarsi.
Tutto questo senza avere la necessità di mascherare, mistificare e occultare la vera natura dispotica, che anzi veniva rivendicata come salvifica.
Ciò che contava, ad esempio, nella mistica nazista era persuadere della natura divina del Fuhrer e della sacralità dell’Ordine del Sangue, rifacendosi però direttamente, nell’uso del linguaggio e nella manifestazione estetica del culto, alla trascendenza cristiana. Un misto di terrore divino, magnificenza e sacralità, che ammaliava le masse, proprio grazie all’uso di categorie vetero e neo testamentarie.
Il pensiero unico scientista attuale prevede invece un atto di fede “spontaneo e senza costrizioni”, ma in realtà tende a invadere tutti gli aspetti dell’esistenza umana, anche quel campo che in passato era esclusivo dominio della teologia dello spirito, annullandolo, in nome di un nuovo sentimento religioso, che promette esclusivamente salvezza e redenzione fisiche; ma attraverso la mortificazione e il disprezzo per il corpo, concepito sempre come qualcosa di malato, e la lenta ma inesorabile distruzione delle relazioni fisiche tra umani.
Quindi, l’adesione formale a una religione tradizionale diventa fattore secondario, così come diventa secondaria l’adesione a posizioni ideologiche otto-novecentesche ridotte a pura e vuota testimonianza.
Religioni e ideologie tradizionali vengono messe sullo stesso piano dell’uso di droghe, dello scegliersi l’identità sessuale che si preferisce, oppure del tifo per la squadra del cuore.
Le affinità e le divergenze con il passato vanno ben oltre il concetto di “potere strumentalizzante”, coniato da Shoshana Zuboff: siamo già in presenza di una nuova forma di vero e proprio totalitarismo.
Nel “dibattito” pubblico, amplificato tempestivamente dai media, ottengono legittimità addirittura proposte aberranti tipo la geolocalizzazione dei cittadini come forma di sorveglianza poliziesca: cos’altro rivela la sbandierata esigenza di controllare ogni individuo, se non la malcelata intenzione di voler trasformare la società in un immenso carcere?
Il Capitale è maschio e femmina insieme, e non è né l’uno, né l’altro, è appagamento attraverso la mercificazione, l’ottundimento dei sensi, la fine del desiderio, l’onanismo fisico e mentale, l’inazione e la pavidità. La postmodernità è finalmente davvero liquida.
La graduale svalutazione dei valori fondanti legati ai sistemi religiosi, ideologici e filosofici tradizionali, ha consentito allo scientismo neo-capitalista, dalle “magnifiche sorti e progressive”, di insinuarsi negli spazi lasciati liberi, per cercare di manipolare e dare una nuova direzione al senso di solitudine spirituale delle persone, sempre più ridotte a monadi senza identità e senza radici.
Le uniche indubitabili verità sono quelle tecno-scientifiche che sono alla base del recinto mentale in cui si è rinchiusi.
Qui la libera scelta cessa di esistere. Puoi solo aderirvi senza porti troppi dubbi, molto più che nell’epoca dei vecchi totalitarismi, quando esisteva anche un fuori, costituito da altri sistemi filosofico-ideologici e di governo. Ma è comunque ben accetta una collaborazione creativa, che ti faccia sentire parte di qualcosa, e allo stesso tempo dispensatore originale di idee.
Finché il pensiero è libero, dunque vitale, nulla è compromesso. Quando cessa di essere tale, tutte le oppressioni sono possibili, e già effettive, poco importa quale azione sia colpevole: l’intero senso della vita è minacciato.
Gilles Deleuze
Il paradigma medico-sanitario è indiscutibile e globale. Se lo metti in discussione sei tu ad auto escluderti: non vieni discriminato, ti poni ‘da solo’ fuori dalla realtà.
Sei peggio di un folle. Sei un asociale, pure se rivendichi maggiore socialità, in quanto interrompi l’unico contratto sociale che conta: quello con il Leviatano. Sei un nemico della “civiltà” e una minaccia per la salute, perché metti in discussione il Bene collettivo.
Questi nuovi nemici ricevono lo stigma di “negazionista”, “complottista”, “novax”, sono i nuovi eretici da criminalizzare e da condannare alla gogna.
Sono quelli che si oppongono strenuamente al sistema di sorveglianza, sia verticale sia orizzontale. Sono coloro i quali cercano di demolire il dominio superstizioso dello scientismo, ed è per questo che diventano pericolosi. Vorrebbero uccidere l’“utopia” di un’umanità perfetta, senza difetti e senza malattie.
Vengono quindi privati anche del diritto di essere riconosciuti come dissidenti e iscritti di autorità nelle suddette disprezzate categorie.
Ma, tutto ciò non basta, viene allora richiamato per intero il vecchio intervento autoritario mediante i provvedimenti arbitrari e restrittivi, e la propaganda. Si torna al terrore poliziesco, alla delazione e alla paura per il nemico interno ed esterno (meglio ancora se invisibile). Ma c’è una cosa che, però, il totalitarismo odierno condivide con quello del passato: un’enorme dose di fanatismo.
Un fanatismo alimentato anche dalla lobotomia e dalla distrazione di massa dell’onnipervasiva società dello spettacolo: financo dagli spot pubblicitari delle grandi multinazionali o dalle esternazioni di personaggi pubblici mediocri eletti a influencer.
La colonizzazione dell’immaginario nelle arti svolge in tutto ciò un ruolo determinante. Viene spacciata per pluralità di voci, di storie e di opere, ciò che è una visione unica del mondo. Salvo rarissime eccezioni, lo spirito critico e rivoluzionario dell’arte si è dissolto in una melma indistinta dalla qualità infima.
Ha vinto il conformismo del politically correct ed è deprimente constatare che persone presunte intelligenti e di cultura ci caschino.
I poteri dominanti, d’altronde, hanno raggiunto tecniche talmente sofisticate di manipolazione, finalizzate proprio alla “cattura cognitiva” degli strati più “consapevoli” della popolazione.
In sostanza, un intervento mirato sugli “intelligenti” e su chi ha un’alta percezione di sé, porta a risultati ben più efficaci di una semplice e generica manipolazione di massa: garantisce un collaborazionismo di “alto” profilo. Tutto si fonda sul fatto che anche un “senso critico”, intrappolato però nelle gabbie dell’ideologia e dello scientismo, può essere facilmente manipolato.
Questa è la grande novità rispetto al passato: l’illusione di possedere libertà individuali, accompagnata da una “dolce” persuasione e da tecniche di ingegneria sociale sempre più complesse, ma tutte esplicite ed evidenti, solo per chi sa vedere.
Molto spesso la morale (contrariamente agli insegnamenti di quasi tutti i filosofi etici moderni) non consiste nel conformarsi a norme vincolanti e universalmente accettate e obbedite, ma nel resistervi ostinatamente e con enormi costi personali.
Zygmunt Bauman
FONTE: https://sinistrainrete.info/articoli-brevi/20645-anselmo-cioffi-maschere-divinita-controllo-sociale-e-resistenza.html
MA COSA SIGNIFICA LA SIGLA LGBTQIA?
• di Sara Negrosini • RILETTURA
La terminologia utilizzata quando ci si riferisce alle questioni legate ai diritti omosessuali (nell’accezione più generica), è progredita variamente nel corso dei tempi, acquisendo sempre nuove sfumature e nuove “categorie”. Spesso si è sentito parlare di “Comunità LGBT”, una sigla che, nella nuova avanguardia, vuole una più ampia sigla più inclusiva: LGBTQIA.
Ormai potremmo dire che ci sono probabilmente più identità nella comunità che colori dell’arcobaleno. Ogni lettera rappresenta, infatti, un’identità sessuale differente. Ma cosa significa di preciso? A chi ci riferiamo?
L
Lesbica – Una donna che è attratta romanticamente, fisicamente o emotivamente da un’altra persona di sesso femminile.
G
Gay – Un uomo che è attratto romanticamente, fisicamente o emotivamente da un’altra persona di sesso maschile.
B
Bisessuale – Una persona che è attratta romanticamente, fisicamente o emotivamente sia da uomini che da donne.
T
Transgender – quando l’identità di genere o l’espressione di genere differisce dal sesso biologico/genetico. Persone che hanno iniziato un percorso di transizione (o non vogliono terminare completamente l’iter medico/legale) verso il sesso opposto rispetto a quello di nascita. Se tale percorso è dal maschile al femminile, l’individuo sarà MtF (male to female). In caso contrario, FtM (female to male).
E’ importante tener conto anche di altre terminologie utilizzate attorno alla lettera T che risultano spesso confuse o poche chiare:
Transessuale – così come il transgender, l’identità di genere o l’espressione di genere differisce dal sesso biologico/genetico ma, il transessuale, è colui che già ha compiuto tutto il processo di trasformazione sia medico/chirurgico che legale.
Drag Queen – sono artiste, indossano costumi, trucchi, parrucche e accessori molto appariscenti per intrattenere il loro pubblico.
Travestito – una persona che prova piacere (non per forza strettamente sessuale) nell’indossare abiti tipici del sesso opposto.
Q
Queer – Un termine generico che abbraccia una varietà di preferenze sessuali, orientamenti e abitudini di coloro che non aderiscono alla maggioranza eterosessuale. In precedenza questo termine veniva utilizzato in modo dispregiativo, tuttavia, attualmente è stato recuperato e ridefinito all’interno della comunità LGBTQIA.
Queer, si basa sull’idea che qualunque etichetta (lesbiche, gay, bisessuali, transgender ecc..) non è in grado di spiegare in modo esauriente l’identità di una persona. Un termine prima politico e poi culturale per coloro che non si riconoscono nelle categorizzazioni classiche sull’identità di genere, indipendentemente dai rapporti sentimentali instaurati.
Oggi questa parola è utilizzata come sinonimo onnicomprensivo dell’intera comunità LGBTQIA.
I
Intersessuale – persona i cui cromosomi sessuali, i genitali e/o i caratteri sessuali secondari non sono definibili come esclusivamente maschili o femminili. Un individuo intersessuale può presentare caratteristiche anatomo-fisiologiche sia maschili che femminili. Le cause di tali caratteristiche possono essere varie, sia congenite che acquisite (come nel caso di alcuni disturbi ormonali).
A
Asessuale: persona che non sperimenta l’attrazione sessuale per gli altri e/o l’interesse o il desiderio sessuale.
Alcuni propongono anche un secondo significato per la lettera A: Alleato – una persona che non si identifica come LGBTQIA, ma sostiene i diritti e la sicurezza di questa comunità.
Per info, chiarimenti o consulenze: saranegrosini@associazionemind.it – 3297315339
FONTE: https://associazionemind.it/ma-cosa-significa-lgbtqia/
BELPAESE DA SALVARE
La (vera) partita in Europa. Cosa c’è in ballo per l’Italia
La partita del Consiglio europeo è fondamentale e per l’Europa si tratta di un momento estremamente delicato. In questa fase si intrecciano leadership sempre più deboli, un asse franco-tedesco alla ricerca di nuova linfa vitale, i rapporti difficili con la Russia, la nuova presidenza americana, la sfida sistemica alla Cina, le relazioni complicate ma necessarie con la Turchia e il caso che affligge il Sahel e la Libia. Se a questo si aggiunge una crisi economica e sociale che ha avuto il colpo di grazia con la pandemia da coronavirus, si comprende perché questo Consiglio europeo rappresenti un giro di boa importantissimo nella gestione del Vecchio continente.
L’Europa deve rispondere a delle domande su cui per molto tempo ha evitato di dare certezze. E non è detto che da questo vertice arrivino le conferme che molti governi si aspettano. L’Ue non è più unita rispetto a prima né molti Paesi sembrano disposti a scelte di compromesso che ledano alcuni dei loro diritti. E quello che scaturisce dagli incontri più recenti è che tutti siano molto legati al cronoprogramma delle elezioni nazionali. In particolare Francia e Germania, con Emmanuel Macron che guarda con terrore alle presidenziali soprattutto dopo il flop alle ammnistrative, e Angela Merkel che appare leggermente più tranquilla dopo quanto avvenuto in Sassonia ma che comunque si avvia verso l’ultima stagione sul trono di Berlino.
L’asse franco-tedesco, indebolito a livello di guide politiche, si è però dimostrato compatto forse proprio in virtù della fragilità dimostrata in questi mesi. Nonostante la presenza rassicurante di Mario Draghi a Palazzo Chigi, che ha evitato visioni centrifughe nel governo italiano, Berlino e Parigi continuano a dettare la politica interna ed esterna dell’Europa. E lo conferma quanto avvenuto sul fronte russo, con Francia e Germania che hanno aperto al dialogo con il Cremlino provando ad aprire una nuova stagione nei rapporti euro-russi su cui l’Italia ha dato il suo placet. Una mossa che conferma che Macron e Merkel vogliono riaprire canali diretti con Vladimir Putin, specialmente per dimostrare autonomia strategica rispetto agli Stati Uniti, ma che dimostra anche come sia sempre difficile dare per morto l’asse franco-tedesco, spesso ravvivato durante questi vertici europei. E questo è un segnale anche per quanto riguarda Mario Draghi, che riconosciuto come personalità di spicco in Europa, deve anche fare i conti con i colpi di coda di un’alleanza personale oltre che politica tra i due leader dell’Ue degli ultimi quattro anni.
La partita italiana, per quanto riguarda il Consiglio europeo, è soprattutto legata al nodo immigrazione. In questi giorni, nonostante le dure prese di posizione nei confronti di Recep Tayyip Erdogan, da Bruxelles è arrivata la conferma del nuovo sblocco di soldi diretti verso le casse di Ankara. La Turchia continua a essere un partner privilegiato dall’Ue sul tema immigrazione e il metodo, cioè pagare per esternalizzare oltre le frontiere Ue il controllo e la gestione dei flussi, vuole essere replicato anche in Africa. Con rischi che non vanno sottovalutati soprattutto per quanto riguarda il caos libico. La Turchia non può che accogliere con favore la proposta contenuta nel documento europeo sullo “sviluppo di una relazione cooperativa e reciprocamente vantaggiosa”. E il fatto che sia arrivato anche un nuovo input all’unione doganale non può che essere una vittoria per un Paese con un’economia così difficile come quella turca.
Legato alla Turchia, come dicevamo, c’è la questione migratoria in Africa. Il Consiglio europeo si trova a dove ribattere su due punti fondamentali. Da una parte gestire le partenze e i flussi in Africa prima che arrivino alle frontiere dell’Unione (per esempio in Italia). Dall’altra parte, l’Europa deve anche dare risposte per quanto concerne la distribuzione dei migranti che riescono ad approdare nei Paesi Ue e la cui gestione ricade inevitabilmente sulle nazioni di primo approdo. Il Consiglio però non sembra avere affermato grandi verità sul punto né annunciare rivoluzioni. Di Dublino e redistribuzione non se ne parla: almeno in questa fase. Mentre il Consiglio, per quanto riguarda l’immediato, ha affermato che “saranno intensificati i partenariati e la cooperazione reciprocamente vantaggiosi con i Paesi di origine e di transito, come parte integrante dell’azione esterna dell’Unione europea”, ribadendo l’approccio “pragmatico e flessibile”. Parole che appaiono fumose e che non sono in grado di garantire nulla in un’estate che si annuncia bollente anche sotto questo profilo.
Per l’Italia, il problema è duplice, perché se da un lato il Consiglio Ue non sembra capace di partorire idee concrete sulla questione migranti, dall’altra parte la Conferenza di Berlino sulla Libia non ha mostrato certezze sul tema delle rotte migratorie. Il vertice nella capitale tedesca ha confermato l’impegno sul ritiro dei mercenari e sul tenere le elezioni il 24 dicembre. Ma se il ritiro dei mercenari deve essere sostanzialmente concordato tra Russia e Turchia, altrettanto rischia di essere in mano ad Ankara il dossier migranti. Molti parlano di un modello turco per quanto riguarda Tripoli e la gestione dei flussi: ma è evidente che la Libia non è la Turchia e che questo rischia di creare non pochi problemi in un Paese in mano a diverse fazioni, clan e tribù che non riconoscono – se non in parte – l’autorità dello Stato. Se dalla Libia e dal Consiglio Ue non arriveranno rassicurazioni, per il governo italiano rischia di essere un’estate più che rovente.
FONTE: https://it.insideover.com/politica/la-vera-partita-in-europa-cosa-ce-in-ballo-per-litalia.html
CULTURA
LE AVIATRICI RUSSE DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE
Un esempio di eroismo delle donne può avere come esempio eloquente quello delle due aviatrici russe che si arruolarono per contrastare l’invasione improvvisa delle armate tedesche sul suolo russo infrangendo il patto Molotov-Ribbentrop. L’impatto degli eserciti germanici è devastante e lascia Stalin del tutto sorpreso perché non aveva creduto fino alla fine al voltafaccia di Adolf Hitler. Nel momento di grande difficoltà, la Russia sovietica reagisce colpita dalla Luftwaffe germanica che ha la netta preponderanza dei cieli e dalla Wehrmacht sul suolo. Decide di creare un reparto aereo con equipaggi interamente femminili. Grazie alla sua popolarità, l’esperta pilota Marina Mikhailovna Raskova ottiene dagli alti comandi russi di formare una squadra di aviatrici. Stalin approva subito la richiesta. La Raskova seleziona mille donne che raggruppa nel 122esimo Stormo. Il numero consente la suddivisione in tre unità minori create tre mesi dopo l’inizio dell’operazione Barbarossa iniziata il 22 giugno 1941. Crea tre reggimenti aerei totalmente femminili: il 586, il 587 e il 588.
Le Aviatrici
Abilissima aviatrice, Marina Mikhailovna Raskova nasce a Mosca, suona il pianoforte e conosce varie lingue, fra cui l’italiano. Segue con profitto studi di Chimica. Per contribuire al magro bilancio familiare si fa assumere come operaia in una fabbrica di colori. Sposa l’ingegnere Sergej Raskov. Nel 1937, insieme a Valentina Grizodubova, ai comandi di un biposto Yakovlev Air-12, stabilisce il record mondiale femminile di volo senza scalo (1.445 chilometri) che porta a 1.749 chilometri con un idrovolante civile, portandosi oltre con una trasvolata di 2.241 chilometri. Il capitano tedesco Johannes Steinhoff le chiama “Nachthexen”, streghe della notte. Lo scrive nel rapporto del 1942: “I piloti sovietici che ci danno più problemi sono donne. Non temono nulla, vengono di notte a tormentarci con i loro obsoleti biplani e non ci fanno chiudere occhio per molte notti”.
La tattica era impavida: la Raskova e le sue compagne facevano volo radente a pochi metri dal suolo per non essere avvistate dagli Stukas tedeschi. Altra tattica era quella di lanciarsi in picchiata da alta quota col motore al minimo per non farsi sentire. Altro piano era quello di andare in missione cin soli tre velivoli dei quali due distoglievano l’attenzione della contraerea e il terzo si abbassava e colpiva. Marina Raskova aveva il comando del 587esimo Reggimento votato a missioni in picchiata. Muore a soli 30 anni a causa di una tempesta di neve che fa infrangere il suo aereo contro una scogliera del Volga.
Grazie al suo forte carisma personale, l’aviatrice Evdokija Davidovna Beršanskaja comanda con abilità e determinazione il 588esimo reggimento. Rinominato il 46esimo, sarà conosciuto come “le Streghe della notte”. Il gruppo era composto da ventitré aviatrici decorate Eroi dell’Unione Sovietica per l’efficacia distruttiva dei bombardamenti contro le forze dell’Asse. La vita di Evdokija è un percorso molto duro. Nasce a Stavropol il 6 febbraio 1913. I genitori vengono uccisi durante la Guerra civile. Viene educata da uno zio. Appena ottenuto il diploma si iscrive alla Scuola piloti dove addestra altri aviatori. È nominata comandante del 218esimo Squadrone aeronautico per Operazioni speciali. Diventa deputata del Consiglio comunale di Krasnodar. Prima dell’invasione nazista nell’Unione Sovietica sposa Pëtr Beršanskij con il quale ha un figlio, ma il loro matrimonio ha vita breve.
Il 588esimo reggimento ha in dotazione biplani Polikarpov-Po-2. Si tratta di velivoli che si incendiano con molta facilità e per questo chiamati Kerosinka, da cherosene. Si trattava di un apparecchio di scarse prestazioni di volo. Era inizialmente utilizzato come strumento di addestramento, per irrorazione dei campi. Non avendo la possibilità di caricare pesi notevoli, le piloti lanciavano canestri di esplosivi dopo aver planato a motore spento nella notte per poi accelerare in ascensione: per questa caratteristica erano chiamate Streghe della notte.
Per la sua capacità di coordinamento e di comando, Evdokija Davidovna Beršanskaja viene insignita della massima onorificenza dell’Ordine della bandiera rossa. Finita la guerra, si sposa con un comandante di aerei militari da cui ha tre figlie. Si ritira a Mosca dove muore d’infarto nel 1982. Due esempi di eroismo, tenacia, coraggio e profonda intelligenza.
FONTE: http://www.opinione.it/cultura/2021/06/23/manlio-lo-presti_aviatrici-russe-seconda-guerra-mondiale/
Guy Debord, l’autore da (ri)scoprire
È triste vedere l’ecologia ridotta a “green economy” alla moda
di Raffaele Alberto Ventura
In questi saggi, scritti da Debord fra il 1955 e il 1988, ritroviamo a più di trent’anni di distanza un’altra delle sue geniali intuizioni, ossia la prefigurazione di una società in cui la pur necessaria lotta contro l’inquinamento avrebbe presto assunto un carattere statuale e regolamentare buono solo a creare nuove specializzazioni, nuovi dicasteri, nuove burocrazie… Così, sullo sfondo della celebre critica situazionista alla società dello spettacolo, se ne delinea un’altra altrettanto implacabile: quella a un certo ecologismo mistificatorio, molto alla moda, che non a caso si è con il tempo trasformato nell’immancabile complice della green economy. Per contrastare un simile appiattimento dell’ambiente e il conseguente addomesticamento comportamentale dei suoi abitanti, bisogna piuttosto ripartire dagli spazi della vita quotidiana, da quella pratica psicogeografica che consente di sperimentare un uso ludico del territorio e dunque realizzare possibilità inedite, persino fantascientifiche. E sta qui il senso che attraversa gli scritti di Debord: in una situazione come quella in cui ci troviamo a vivere, non ci resta che «considerare il peggio e combattere per il meglio».
(dal risvolto di copertina di: “Ecologia e psicogeografia“, di Guy Debord, a cura di Gianfranco Marelli. Elèuthera, 17€)
Celebre per la sua “Società dello spettacolo“, libro inverosimilmente ostico, il francese Guy Debord è uno degli autori più fraintesi della seconda metà del Novecento – cosa che non gli ha impedito di diventare un simbolo delle occupazioni del Sessantotto e un libro di culto. Chi volesse capire perché il suo pensiero è oggi più attuale che mai farà meglio a entrare dalle porte secondarie o magari dalle finestre: una recente antologia di saggi editi e inediti ne fornisce in abbondanza. Curato da Gianfranco Marelli, già autore di due libri sull’Internazionale Situazionista fondata da Debord, questo “Ecologia e Psicogeografia” spazia da contributi giovanili ancora legati alla sensibilità delle avanguardie artistiche e a commenti più inattesi sull’attualità politica. A dare coerenza alla raccolta è il tema dell’ecologia, che potrebbe sembrare anacronistico ma anzi mostra sia la coerenza del percorso intellettuale dell’autore francese che la sua dimensione precorritrice.
Se l’ecologia politica per come la conosciamo oggi nasce davvero negli anni 1970 anche grazie al primo allarmante rapporto del Club di Roma sui limiti dello sviluppo, trai suoi numerosi affluenti c’è la critica della società dei consumi che occupa gli intellettuali a partire dal Dopoguerra. Tra questi un giovane artista impegnato in un progetto di «superamento dell’arte» attraverso il lettrismo, il cinema sperimentale, la psicogeografia e la costruzione di situazioni. Poiché la cultura di massa non era in grado di offrire altro che spettacoli da contemplare passivamente nei cinema e nei musei, Guy Debord immaginava un’arte rivoluzionaria che fosse in grado di riappropriarsi della vita stessa. La psicogeografia, per esempio, consisteva nel trasformare lo stesso rapporto con lo spazio urbano in un’esperienza estetica, esplorando la città seguendo la propria ispirazione e disegnando mappe immaginifiche. Nelle parole dei situazionisti, si tratta dello «studio delle leggi esatte e degli effetti precisi dell’ambiente geografico, coscientemente strutturato o meno, che agisce direttamente sul comportamento affettivo degli individui». Questo è già di per sé un approccio «ecologico», nel senso originario di studio del rapporto tra i soggetti e il loro ambiente. Non a caso, nella sua Teoria della deriva del 1956 Debord cita vari sociologi interessati alla dimensione simbolica, e non soltanto funzionale, della città tra cui un teorico della scuola dell’ecologia sociale urbana di Chicago. Il gioco situazionista era indissolubile dalla denuncia della condizione anti-ecologica, e quindi anti-umana, del moderno parco immobiliare nel quale venivano stipate le classi operaie.
Tra la sua fondazione nel 1957 e la sua dissoluzione ne 1972, l’Internazionale Situazionista sviluppa in maniera sempre più esplicita la sua dimensione politica rivoluzionaria, in parallelo all’evoluzione del pensiero di Debord dalla polis alla politica in senso pieno. Così alle derive psicogeografiche faranno seguito l’urbanismo unitario, progetto di «composizione integrale dell’ambiente», e naturalmente le situazioni, come rivoluzione permanente e apocalisse di ogni attimo. Negli anni Sessanta, compiuti i trent’anni, lo psicogeografo muoverà verso riflessioni più teoriche che culmineranno nella Società dello spettacolo, un oracolare trattato di filosofia politica che denuncia le contraddizioni della modernità, prima tra tutte la separazione istituita dalla divisione del lavoro; separazioni dei soggetti dal prodotto del loro lavoro, come per primo aveva denunciato Hegel; separazione dei soggetti dall’esperienza della propria esistenza oramai mediata dal consumismo; separazione dei soggetti tra loro.
Come sottolinea la densa prefazione di Marelli, il giovane psicogeografo si era avvicinato all’ultrasinistra del gruppo Socialisme ou Barbarie, che criticava l’Unione Sovietica tanto quanto il capitalismo occidentale, sviluppando una critica della società moderna sul piano morale, quello dell’alienazione. In aperta opposizione con la società borghese ma anche con la vulgata marxista, Debord rifiuta una visione della società centrata sulla sola razionalizzazione economica per sviluppare una vera e propria ecologia sociale capace di tenere assieme la totalità dell’esperienza umana.
Contrariamente agli intellettuali comunisti, Debord non credeva che il capitalismo fosse afflitto da una contraddizione di tipo economico. Al contrario, su quel piano esso aveva definitivamente trionfato. I punto debole del sistema era semmai il malessere che continua a produrre quella vita scissa: ad esempio il malessere dei neri americani, che pur materialmente sempre più ricchi continuavano a stare in basso alla gerarchia sociale, perciò costretti a vivere nella luce riflessa dei consumi della popolazione bianca. Sono dunque gli effetti collaterali che devono essere presi in considerazione, in un’ottica che sottomette l’economi a una più ampia ecologia sociale. Quanto all’ecologia vera e propria, essa fa la sua apparizione roboante in un testo qui pubblicato, a lungo inedito e considerato di culto: Il pianeta malato, del 1971. Qui Debord nega, forse rivolto al sé stesso di quindici anni prima, che il problema della società dello spettacolo sia semplicemente estetico: si pone ormai la questione della «possibilità materiale dell’esistenza» del mondo. Inquinamento dell’aria e dell’acqua, prodotti chimici, radioattività, plastica ma anche il boom demografico, il rumore, la malattia mentale, i rischi di guerra atomica e batteriologica.
Conseguenze del consumismo sfrenato con cui la società dello spettacolo era riuscita a comprare il consenso delle popolazioni, risolvendo le contraddizioni del sottoconsumo per ritrovarsi in casa un nuovo e più drammatico ordine di contraddizioni. Le soluzioni della sinistra erano, per Debord, parte del problema, a partire dalla lotta burocratica contro l’inquinamento, concepita soltanto per creare nuovi posti di lavoro e nuovi rapporti di potere. Unica alternativa al collasso annunciato del capitalismo, la riappropriazione da parte dei lavoratori della propria vita, oltre lo spettacolo. Una speranza rivoluzionaria che il filosofo francese non avrebbe mai abbandonato, ma che oggi sembra essere più lontana.
FONTE: https://sinistrainrete.info/articoli-brevi/20616-raffaele-alberto-ventura-guy-debord-l-autore-da-ri-scoprire.html
“La personalità riaffiora dalla spersonalizzazione del nulla”
Framncesco F. Marotta – 19 06 2021
“[…] La personalità vive giorni difficili nel dedalo accentratore della spersonalizzazione del dialogo tra l’Io ed il Sé. La spersonalizzazione è una caratteristica principale della dottrina dell’universalismo egualitario e del neo- liberalismo. Tutti ci poniamo una domanda: che cosa è andato storto? È evidente che l’Io corporeo, psichico, relazionale, sociale e spirituale, sia stato completamente riscritto ad uso e consumo. L’elemento fisico e corporeo è diventato l’elemento distintivo di una dispercezione corporea, una vera e propria patologia ossessiva che corrisponde al nome di vigoressia. La psiche invece, è alle prese con le dipendenze e le nuove patologie, quali sono la dipendenza da internet, l’utilizzo patologico della rete, la dipendenza dal telefonino, lo shopping compulsivo, la dipendenza dalla televisione, dai videogiochi, la sindrome da affaticamento cronico, la già citata vigoressia, l’anoressia, etc. Una lista interminabile quanto sconcertante. Le relazioni sociali sono ostaggio del monopolio delle strutture sociali, intrise della «sociopatia manageriale» che ha alterato i rapporti interpersonali con la regola invalsa del mordi e fuggi, del puro interesse materiale e privato. La sfera spirituale è diventata il connettore con la New Age del III Millennio e del supermarket esotico delle pratiche e tecniche corporali, dell’oggettistica, della psicoterapia, dei simboli e feticci che neppure si conoscono ma è meglio farli propri, perché vanno di «moda». In parole povere, più che la ricerca di un benessere pare una fuga da sé stessi. Tutto questo accade, quando l’Io Persona viene sovraccaricato delle scelte che riguardano l’uomo, dalle responsabilità e dalle decisioni, quando viene interrotto il dialogo con il Sé che ha un’importanza fondamentale: il Sé raffigura l’interlocutore con cui l’Io deve dialogare continuamente, in modo conscio o inconscio, permettendoci di prendere le nostre decisioni. Perciò, Il Soggetto Radicale si trova oggi nella posizione migliore per capovolgere il modello dominante, ristabilendo l’equilibrio tra le due parti costitutive dell’essere umano. Molti di noi si chiederanno che cosa sia il Sé. A venirci in soccorso è ancora Carl Gustav Jung: «Il Sé non è soltanto il centro, ma anche l’intero perimetro che abbraccia coscienza e inconscio insieme; è il centro di questa totalità, così come l’Io è il centro della mente cosciente».
I greci lo identificavano con l’ultimo daimon dell’uomo, per i romani era il genius innato, nell’induismo il Sé è la realtà fondamentale dell’essere umano, che coincide con Brahman e l’Assoluto: «L’equazione âtma Brahaman, il Sé = Assoluto è l’insegnamento supremo non solo dei Vedanta ma anche dello Zen e del Wahdat-al-wudjudsufi». Sempre secondo Jung, è un archetipo. Anzi, «l’archetipo di tutti gli archetipi». Lo descrive come «il volume complessivo di tutti i fenomeni psichici nell’uomo», per la ragione che «esso rappresenta l’unità e la totalità della personalità considerata nel suo insieme» ma è anche dell’avviso che «esso abbraccia ciò che è oggetto d’esperienza e ciò che non lo è, ossia ciò che ancora non è rientrato nell’ambito dell’esperienza». Possiamo ben capire che il Sé è il punto focale della personalità, l’ago della meridiana dell’uomo. Se l’Io è la «mente cosciente» il Sé rappresenta una complexio oppositorum, la sintesi degli opposti. Prendendo ad esempio il Tao, la forza dello yang e la forza dello yin, notiamo che possono assumere le sembianze dell’eroe e del suo antagonista. Questo è ciò che pensava C.G. Jung, definendo il Sé un «tutto organico e quindi come un’unità nella quale gli opposti trovano la loro sintesi», in quanto «empiricamente il Sé appare nei sogni, nei miti e nelle favole, in una immagine di “personalità di grado superiore”», alla stessa stregua di un re e di un eroe; «poiché un concetto del genere si sottrae a ogni rappresentazione — tertium non datur: esso è anche, per questa stessa ragione, trascendente». Ma è giusto non dimenticarsi che il Sé è allo stesso tempo iscritto al destino, tracciando le coordinate esistenziali da una prospettiva fenomenica. Pertanto, Il Soggetto Radicale può benissimo osservare ma anche agire, facendo sua la celebre frase di Anassimandro: «Ciò da cui proviene la generazione delle cose che sono, peraltro, è ciò verso cui si sviluppa anche la rovina, secondo necessità: le cose che sono, infatti, pagano l’una all’altra la pena e l’espiazione dell’ingiustizia, secondo l’ordine del tempo».
Dunque, non è sbagliato dire che il Sé può indubbiamente aiutarci a comprendere il senso del limite e quello dell’idiosincrasia scaturita dal non limite. A tal riguardo, troviamo molto calzante la giusta interpretazione del pensiero di Anassimandro, analizzato da Giorgio Colli: «Le cose da cui è il nascimento alle cose che sono». Nella società postmoderna, come aveva giustamente fatto notare Jean Baudrillard, «molte cose sono oscene perché hanno troppo senso, perché occupano troppo spazio», guardandoci bene dal comprendere che «esse raggiungono così una rappresentazione esorbitante della verità, e cioè l’apogeo del simulacro» senza intuire che ciò non può durare in eterno. L’invito è quello di tornare a decidere il nostro destino. Abbiamo già atteso sin troppo… […]”.
(Trattasi di uno stralcio di una delle due Postfazioni di “Soggetto Radicale. Teoria e fenomenologia” di Aleksandr Gel’evič Dugin, dal titolo “Elementi del Soggetto Radicale nel paradigma postmoderno”).
FONTE: https://www.facebook.com/groups/177261482473617/posts/1670940369772380/
Il tutto è falso
Giorgio Gaber
Io non mi sento italiano, 2003
Questo mondo corre come un aeroplano e mi appare più sfumato e più lontano. Per fermarlo tiro un sasso controvento ma è già qui che mi rimbalza, pochi metri accanto.
Questo è un mondo che ti logora di dentro, ma non vedo come fare ad essere contro. Non mi arrendo ma, per essere sincero, io non trovo proprio niente che assomigli al vero.
Il tutto è falso, il falso è tutto.
E allora siamo un po’ preoccupati per i nostri figli, ci spaventano i loro silenzi, i nostri sbagli. L’importante è insegnare quei valori che sembrano perduti, con il rischio di creare nuovi disperati.
Il tutto è falso, il falso è tutto.
Non a caso la nostra coscienza ci sembra inadeguata. Quest’assalto di tecnologia ci ha sconvolto la vita. Forse un uomo che allena la mente sarebbe già pronto ma a guardarlo di dentro è rimasto all’ottocento.
Il tutto è falso, il falso è tutto.
Io che non riesco più a giudicare, non so neanche che cosa dire, della mia solitudine. Guardo con il mio telecomando e mi trovo in mezzo al mondo e alla sua ambiguità.
C’è qualcuno che pensa di affrontare qualsiasi male con la forza innovatrice di uno Stato liberale. Che il mercato risolva da solo tutte le miserie e che le multinazionali siano necessarie.
Il tutto è falso, il falso è tutto.
Ma noi siamo talmente toccati da chi sta soffrendo, ci fa orrore la fame, la guerra, le ingiustizie del mondo. Com’è bello occuparsi dei dolori di tanta, tanta gente, dal momento che in fondo non ce ne frega niente.
Il tutto è falso, il falso è tutto.
Io che non riesco più a ritrovare qualche cosa per farmi uscire dalla mia solitudine. Cerco di afferrare un po’ il presente, ma se tolgo ciò che è falso non resta più niente.
Il tutto è falso, il falso è tutto.
Il tutto è falso, il falso è tutto quello che si sente, quello che si dice. Il falso è un’illusione che ci piace. Il falso è quello che credono tutti, è il racconto mascherato dei fatti. Il falso è misterioso, e assai più oscuro se è mescolato insieme a un po’ di vero. Il falso è un trucco, un trucco stupendo, per non farci capire questo nostro mondo. Questo strano mondo. Questo assurdo mondo in cui tutto è falso. Il falso è tutto.
Il tutto è falso, il falso è tutto.
VIDEO QUI: https://www.youtube.com/watch?v=USZIj0AWnhE
FONTE: https://comedonchisciotte.org/il-tutto-e-falso/
CYBERWAR SPIONAGGIO INFORMAZIONE DISINFORMAZIONE
Dati cancellati e segreti di Stato: i nuovi gialli sull’origine del Covid
Le sequenze del Sars-CoV-2 rinvenute nei campioni prelevati nel mercato ittico di Huanan, a Wuhan, da dove in un primo momento si pensava potesse essersi diffuso il virus, non sono rappresentative del patogeno che circolava in città all’inizio dell’epidemia. Piccolo problema: le sequenze in questione sono tuttavia al centro del rapporto congiunto realizzato dall’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) e dalla Cina. In altre parole, i dati virali risalenti all’inizio dell’emergenza sanitaria scoppiata alla fine del 2019 oltre la Muraglia sono stati cancellati dall’archivio di lettura della sequenza dei National Institutes of Health.
È quanto sostiene lo scienziato Jesse D. Bloom del Fred Hutchinson Cancer Research Center, Howard Hughes Medical Institute di Seattle, all’interno di uno studio subito finito sotto la luce dei riflettori. La ricerca di Bloom – da verificare – getta quindi nuove ombre su quanto accaduto agli albori della pandemia di Covid-19 e, in particolare, sulle informazioni condivise dalla Cina con il resto del mondo. Nel suo rapporto, intitolato Recovery of deleted deep sequencing data sheds more light on the early Wuhan SARS-CoV-2 epidemic, e disponibile in versione pre-print (non ancora sottoposto a revisione tra pari), il ricercatore ha presentato i risultati di un’attività di indagine partita in seguito a un’anomalia da lui riscontrata. Vediamoli nel dettaglio.
Il mistero dei dati cancellati
Bloom si è accorge che un set di dati riguardanti la prima “versione” del Sars-CoV-2 è letteralmente sparito nel nulla. Inizia così la ricerca delle sequenze perdute. Una ricerca che porterà l’esperto a recuperare i file cancellati (da Google Cloud) e a “ricostruire sequenze parziali di 13” dei primi campioni del virus. Il fatto misterioso, come è stato definito dallo stesso Bloom, è il seguente: “L’analisi filogenetica di queste sequenze” cancellate “nel contesto di dati esistenti accuratamente annotati suggerisce che le sequenze del mercato dei frutti di mare di Huanan che sono al centro del rapporto congiunto Oms-Cina non sono pienamente rappresentative del virus che circolava a Wuhan all’inizio dell’epidemia”.
“Invece, il progenitore delle sequenze conosciute di Sars-CoV-2 conteneva probabilmente tre mutazioni relative al virus del mercato, che lo rendevano più simile ai parenti coronavirus del pipistrello”, si legge ancora. Usando termini meno tecnici, significa che i primi virus studiati dall’Oms non sarebbero completamente rappresentativi di tutti i ceppi virali che stavano circolando in quei primi mesi. È qui che lo scienziato cerca di ricostruire la complessa vicenda, nel tentativo di trovare una spiegazione ai file mancanti.
Sequenze oscurate?
La conclusione ipotetica, ovviamente da confermare, a cui arriva Bloom potrebbe essere clamorosa: “Non c’è una ragione scientifica plausibile per la cancellazione: le sequenze sono perfettamente concordanti con i campioni descritti dagli autori di uno studio del 2020 (Wang e altri) e non ci sono correzioni al documento, nel quale si afferma peraltro che è stata ottenuta l’approvazione dei soggetti e che il sequenziamento non mostra prove di contaminazione da campione a campione. Sembra quindi probabile che le sequenze siano state cancellate per oscurarne l’esistenza“.
Ma perché i primi campioni del virus sono fondamentali? Semplice: la loro analisi potrebbe aiutare la comunità scientifica a capire meglio le origini del Sars-CoV-2, oltre che a capire il momento esatto in cui questo virus misterioso ha iniziato a diffondersi tra gli esseri umani. Già, perché capire che cosa è realmente accaduto a Wuhan è fondamentale per tracciare la diffusione del virus, compresa l’identificazione degli eventi che hanno portato all’infezione del paziente zero.
Ma c’è un altro aspetto sul quale è doveroso porre l’attenzione. Le prime sequenze riportate di Wuhan non sono le sequenze più simili al correlato coronavirus del pipistrelli. E qui scatta un nuovo giallo, visto che era plausibile attendersi che le prime sequenze del virus riportate fossero le più simili a questi coronavirus di pipistrello. Eppure, si legge nel paper di Bloom, “le prime sequenze di Sars-CoV-2 sono state raccolte a Wuhan a dicembre, ma queste sono più distanti” dal gruppo dei coronavirus del pipistrello correlati “rispetto alle sequenze raccolte a gennaio da altre località della Cina o anche da altri Paesi”. Nel frattempo il Washington Post ha rivelato che all’interno dell’Istituto di virologia di Wuhan sono stati condotti una serie di progetti e di dibattiti coperti dal segreto di Stato cinese. Un tale livello di segretezza può contribuire a spiegare come mai le indagini sull’origine del Covid-19 abbiano fatto così poca strada.
FONTE: https://it.insideover.com/scienza/dati-cancellati-e-segreti-di-stato-i-nuovi-gialli-sullorigine-del-covid.html
Biglino: la menzogna al potere, con Davos o con Viganò
L’arcivescovo Carlo Maria Viganò condanna il Grande Reset che è in corso in questo momento. Dice cose assolutamente condivisibili: sono anche cose che, normalmente, vengono dette dai complottisti. Da un lato, però, possiamo (e dobbiamo) dire: ma che bravo, questo alto prelato della Chiesa, che ha il coraggio di denunciare una serie di eventi, situazioni, decisioni e programmi che stanno condizionando il presente e si preparano a condizionare la nostra vita, ancora di più, per il futuro. E quindi: bravissimo. Il problema qual è? Questo: si coglie la lotta tra due poteri, che si contendono il controllo del mondo. Perché monsignor Viganò, in realtà, è il sostenitore della restaurazione dell’antico potere della Chiesa. Alla base c’è un concetto biblico che, ancora una volta, condiziona le nostre vite: ed è per questo che è importante, sapere ciò che la Bibbia dice. Secondo Viganò, alla base di quanto sta accadendo oggi c’è «una grande menzogna, annunciata già dalle Sacre Scritture». E perlando del diavolo, che lui dà per vero e vivente, si domanda: «Cosa possiamo aspettarci, dal padre della menzogna?».
Dice Viganò: «E’ nostro dovere svelare l’inganno di questo Grande Reset, perché dietro a tutto questo c’è il piano diabolico che distrugge l’opera della creazione e vuole vanificare la redenzione». Ora, noi abbiamo già visto più volte come la creazione, nella Bibbia, non ci sia (non c’è proprio: non c’è neppure il termine che la identifichi). Vanificare la redenzione? Ma “redenzione” da che cosa, visto che il peccato originale nella Bibbia non c’è, e quindi noi non dobbiamo essere redenti da nulla? Non nasciamo macchiati dal peccato originale, dunque possiamo vivere assolutamente tranquilli: non abbiamo bisogno di nessuna redenzione di questo tipo. «Alla base di questo modus operandi – insiste Viganò – c’è sempre e comunque una menzogna». E questo modus operandi «vuole distruggere ciò che la civiltà ha faticosamente costruito, nel corso dei millenni, sotto l’ispirazione della grazia divina». Cioè: per lui, la civiltà e la costruzione storica sono ispirate dal Dio della Bibbia: Dio che, nella Bibbia (lo abbiamo già visto moltissime volte) non c’è.
Quindi, lui parla di menzogna – da parte di coloro che gestiscono il Grande Reset – proprio indicando la necessità di attuare cambiamenti radicali attraverso un falso pretesto. Dimentica però che la stessa costruzione del Cristianesimo romano ha alla base la madre di tutte le menzogne: cioè l’esistenza di un Dio nell’Antico Testamento e la definizione di Gesù Cristo come figlio di quel Dio. Ed è in questo che sta la lotta tra questi due grandi poteri: da un lato c’è un potere laico, che sta indubbiamente cercando di condizionare la vita del pianeta, e dall’altro c’è questo potere religioso, che vede la disgregazione al suo interno (ormai sotto gli occhi di tutti) e vorrebbe restaurare il suo antico potere. E allora identifica il nemico in questo potere laico, che probabilmente sostituirà il potere della Chiesa: potere che la Chiesa ha esercitato per duemila anni.
Quando cita il comunismo, Viganò ne parla come di un grande male, e giustamente (quando parla dello stalinismo, dello sterminio dei kulaki – 30 milioni di persone in due anni). Poi fa anche un cenno al nazismo: dice che è stato prima finanziato e poi combattuto, col pretesto di disgregare l’Europa, ma non fa neanche un cenno alle vittime del nazismo. Questo mi ricorda un altro grande inganno, un’altra grande falsità: quella delle profezie di Fatima. Per quanto riguarda il XX Secolo, infatti, la cosiddetta Madonna di Fatima ha parlato del “grande male” che sarebbe stato il comunismo, ma non ha fatto un solo cenno – non una sola parola – nei confronti del nazismo. E qui, nelle parole di Viganò, ritroviamo lo stesso concetto reazionario della Chiesa: grande attenzione al male comunista, e scarsissima attenzione al male nazista.
Quindi, attenzione: se è vero che alla base del Grande Reset ci sono menzogne (che non hanno origini “diaboliche”, ma nascono dalla mentalità degli uomini che vogliono garantirsi il potere e costruire il dominio dei pochi sui molti), alla base dell’altra grande struttura di potere, quella che vuole combattere contro il Grande Reset, c’è la volontà (il tentativo, il desiderio) di restaurare un potere che per duemila anni ha condizionato e programmato la vita delle persone, uccidendone decine di milioni. Mi fa un po’ sorridere, monsignor Viganò, quando dice che uno dei modi in cui il Grande Reset si è realizzato, nel corso degli ultimi decenni, è stata l’industrializzazione, e quindi il convincere i contadini a lasciare il lavoro dei campi per passare all’impiego sicuro nelle fabbriche. Quelli che hanno la mia età ricordano molto bene il lavoro capillare dei parroci di campagna, che convincevano i contadini ad andare a lavorare nelle fonderie, nelle industrie, nelle raffinerie di petrolio.
Ce li ricordiamo tutti, quei sacerdoti che partecipavano a quello che, adesso, l’alto prelato del Vaticano condanna come un comportamento funzionale al “grande inganno” del Grande Reset. Quindi, come sempre: teniamo le menti aperte. Perché se da un lato prendiamo atto che tutta una serie di denunce fatte da Viganò sono vere, dobbiamo però ricordarci che sono fatte nel nome di un potere che avrebbe tanta voglia di restaurare se stesso, di riprendere il controllo totale delle coscienze degli uomini, sulla base di una menzogna che sta alla base di tutte le menzogne. Quindi, quando condanna le menzogne degli altri, questo potere dovrebbe pensare alle sue menzogne, che hanno procurato decine di milioni di morti. Sofferenze inutili, che ancora stanno procurando le lotte tra le religioni nel nome di un Dio. Quindi, ascoltiamo bene Viganò. Ma stiamo attenti a non distinguere tra un bene e un male, perché in realtà la volontà di potere si incrocia, e si sta combattendo. Ed è per questo che è importante conoscere sia l’uno che l’altro potere. Per parte mia, io cerco di diffondere un po’ di conoscenza biblica.
(Mauro Biglino, dal video “Da quale pulpito…“, pubblicato sul canale YouTube “Il vero Mauro Biglino il 20 giugno 2021).
Mazzucco smonta le balle della Gabanelli
In una puntata di Dataroom, “Fake news sul Covid: milioni di visite, i siti italiani, i danni che provocano, chi ci guadagna“, Milena Gabanelli fa una serie di affermazioni false (che per un format che si chiama Dataroom è anche più grave di quanto già non sarebbe di suo), partendo da un report di Newsguard, di cui ci eravamo già occupati nel servizio “FACT CHECKING: UNA RELIGIONE BASATA SUL CONFLITTO DI INTERESSE“.
Sulle affermazioni della Gabanelli ci sarebbero molte cose da dire e molti documenti da mostrare, a cominciare dal titolo diffamatorio che suggerisce che ci sia qualcuno che specula ai danni dei cittadini e della verità. Un modo di fare giornalismo strumentale e disonorevole, per una professionista che avrebbe la pretesa di insegnare agli altri come basarsi sui fatti (purché questi fatti siano utili all’establishment).
Basti a risponderle il breve video che ha confezionato Massimo Mazzucco di Contro.Tv, che potete vedere in cima a questo post. Se la Gabanalli lo ritiene, può sempre chiedere scusa.
FONTE: https://www.byoblu.com/2021/06/24/mazzucco-gabanelli/
DIRITTI UMANI
Resistenza: promemoria ottimista per tempi pessimi
C’è un dato di fatto con cui bisogna iniziare a fare i conti. Anzi, con cui deve iniziare a fare i conti chiunque si accorga di pensarla quasi sempre in modo diverso, divergente, oppositivo rispetto alla filosofia delle “regole”, delle “restrizioni”, degli “obblighi” oggi dilagante. E anche rispetto all’agenda del futuro, e al programma del presente, sponsorizzato da tutte le istituzioni pubbliche transfrontaliere e da tutte le aziende private multinazionali. Parliamo quindi di una minoranza assai ristretta della popolazione: i riottosi, i renitenti, i resistenti. In una parola, tutti quelli boicottati dal sistema ed etichettati dalla Matrice a vario titolo, e a seconda della bisogna, ieri come “populisti” o “sovranisti”, oggi come “negazionisti”, “no-vax” eccetera eccetera. Gente che non nega un bel niente, che dice sì alla libertà più che no ai vaccini, e ha memoria di come le parole “popolo” e “sovranità” campeggino in bella mostra nell’articolo 1 della Costituzione.
Gente che magari usa semplicemente il cervello a un voltaggio un po’ più elevato di quello rasoterra dei format televisivi alla moda o di quello da scuola materna dei telegiornali dell’ora di cena, o di quello ebete e emotivamente isterico dei divi della musica pop. Ecco, tutti costoro sono spesso lodevolmente animati dalle migliori intenzioni di poter “cambiare il mondo”, di sovvertire “il corso degli eventi”, di “rivoluzionare” le cose. È un istinto caparbio tipico delle anime (più) evolute e delle coscienze (più) critiche. Molte delle svolte “miracolose” della storia furono innescate, o assecondate, da personaggi di tal fatta, impastati della stessa tempra. E tuttavia, c’è un dato di fatto – per tornare al punto da cui siamo partiti – con cui tutti i “dispersi” (il nuovo vocabolo con cui il mainstream ha deciso di battezzare chi non si fa “battezzare” dal vaccino) devono fare i conti.
Ed è questo: lì fuori c’è una massa sterminata di persone – una maggioranza non solo silenziosa, ma soprattutto non pensante – alla quale va bene tutto così com’è. E per la quale la verità è quella raccontata dai tigì di punta, non esistono mai secondi fini e progetti occulti, l’autorità fa solo il bene del popolo, obbedire è sempre meglio che riflettere e sopravvivere molto meno scomodo che vivere. Questa constatazione è dolorosa ma necessaria. Implica il fare pace con traguardi grandiosi, lodevoli ma (almeno temporaneamente) impossibili. Un proverbio soltanto è in grado di sintetizzare la situazione: non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. E non c’è miglior vittima di chi non vuol essere salvato. A tutti i (pochissimi) altri spetta comunque un compito costruttivo, e positivo, su cui concentrarsi: non già (e non solo) tentare di cambiare tutto il mondo, quanto piuttosto sforzarsi di costruirne uno di nuovo per quanto piccolo: fatto di relazioni con chi ci sta, di complicità con chi ha capito, di connivenze con chi ha ancora l’uso della ragione.
Non è un atteggiamento disfattista, ma realista. Si può ancora, si deve sempre, lavorare per la costruzione di micro-comunità di “svegli”. I quali andranno a caccia di “risvegliati” o di “risvegliandi” con la stessa tenacia con cui i plotoni alpini di Figliuolo, a partire dall’autunno prossimo venturo, andranno a caccia dei “dispersi”. In un mondo diretto a precipizio verso l’abisso, piccoli obbiettivi di “rivoluzione” personale e collettiva possono compensare la frustrante sensazione (la pericolosa tentazione) di arrendersi perché non c’è più nulla da fare. Anche se è vero, merita comunque di combattere affinché non sia mai vero per tutti. Al resto penserà la manzoniana provvidenza. Che, credeteci, esiste.
(Francesco Carraro, “Promemoria ottimista per tempi pessimi”, da “Scenari Economici” del 5 giugno 2021).
Arabi: Hamas e l’Iran hanno trasformato Gaza in un cimitero di bambini
- È (…) confortante vedere quanti arabi sono consapevoli dei pericoli del coinvolgimento dell’Iran con i gruppi terroristici palestinesi che vogliono innanzitutto l’eliminazione di Israele e poi la loro.
- “Le milizie di Hamas nella Striscia di Gaza appartengono all’Iran (…) Teheran vuole usare la questione palestinese come carta vincente ai negoziati di Vienna (…) per costringere gli Stati Uniti a revocare le sanzioni contro l’Iran in cambio della fine dell’escalation dei problemi di sicurezza che minacciano Israele (…) le armi iraniane sono armi di distruzione e non di costruzione.” – Amjad Taha, noto giornalista arabo, Twitter, 27 maggio 2021.
- “Quanto più sono le uccisioni e la distruzione, tanto più aumenta il reddito di Hamas mentre i palestinesi continuano a soffrire di assedio e povertà.” – Saeed Al-Kahel, scrittore e analista politico marocchino, Assahifa, 29 maggio 2021.
- “L’Iran ha sfruttato Hamas e la Jihad Islamica solo a proprio vantaggio e, se avesse voluto l’interesse dei palestinesi, avrebbe contribuito alla ricostruzione della Striscia di Gaza. (…) Teheran non ha contribuito né ha fatto donazioni per scopi umanitari o progetti di ricostruzione a Gaza…” – Samir Ghattas, ex parlamentare egiziano e direttore dell’Egyptian Middle East Forum for Strategic Studies, Al-Arabiya.net, 26 maggio 2021.
- L’esperto egiziano [Muhammad Mujahid Al-Zayyat, consulente dell’Egyptian Center for Thought and Strategic Studies] (…) si unisce ad altri arabi nel mettere in guardia l’amministrazione Biden e le potenze occidentali contro la possibilità di consentire all’Iran di essere ricompensato per la guerra al terrorismo di Hamas contro Israele.
- Resta ora da vedere se l’amministrazione Biden e le potenze occidentali daranno ascolto a questo monito o continueranno a nascondere la testa sotto la sabbia, facendo credere che i mullah iraniani, in cambio di enormi tangenti da parte degli Stati Uniti, cambieranno magicamente la loro mentalità crudele. L’ultima volta non l’hanno fatto; cosa accadrà alla regione se non lo faranno di nuovo?
L’affermazione di Hamas di aver “vinto” l’ultima guerra con Israele è diventata oggetto di scherno e derisione da parte di molti arabi, i quali sono consapevoli che l’unico interesse di Hamas è quello di rabbonire i mullah in Iran per ottenere più denaro e armi. Nella foto: la “Guida Suprema” iraniana, l’Ayatollah Ali Khamenei (a destra) saluta il leader di Hamas Ismail Haniyeh, a Teheran, il 12 febbraio 2012. (Fonte dell’immagine: khamenei.ir/AFP via Getty Images) |
L’affermazione di Hamas di aver “vinto” l’ultima guerra con Israele è diventata oggetto di scherno e derisione da parte di molti arabi, i quali non hanno paura di criticare pubblicamente il gruppo terroristico appoggiato dall’Iran per aver mentito ai palestinesi e al resto del mondo.
Gli arabi non temono nemmeno di ritenere Hamas responsabile della distruzione massiccia e della morte di israeliani e palestinesi innocenti al fine di servire gli interessi dei suoi padroni in Iran.
Le scene dei palestinesi che celebrano la “vittoria” di Hamas hanno suscitato un’ondata di condanne nel mondo arabo, soprattutto nei Paesi del Golfo. Le reazioni degli arabi all’autoproclamata vittoria di Hamas mostrano che molti nel mondo arabo non si lasciano ingannare dalla macchina di propaganda del gruppo terroristico. Gli arabi sono consapevoli che l’unico interesse di Hamas è quello di rabbonire i mullah di Teheran allo scopo di ottenere da loro più denaro e armi. Gli arabi capiscono che questa è solo un’altra farsa di Hamas, e in particolare dell’Iran.
Il noto giornalista arabo Amjad Taha, esperto di affari internazionali e popolare commentatore nei media e sui social network nel Golfo, è scoppiato a ridere quando gli è stato chiesto durante un’intervista televisiva se pensava che Hamas avesse ottenuto una “vittoria” contro Israele.
“Nella guerra nella Striscia di Gaza, nessuno ha vinto”, ha detto Taha. “I bambini e le donne di entrambe le parti hanno perso. La vittoria significa l’utilizzo di donne e bambini come scudi umani? La vittoria significa la morte di 269 palestinesi e il ferimento di altri 8.900, nella Striscia di Gaza?”
Taha ha rilevato che alcuni dei palestinesi uccisi durante la guerra di 11 giorni sono stati vittime dei razzi di Hamas: “Su 3.700 razzi lanciati da Hamas [contro Israele], 400 razzi sono caduti su aree residenziali della Striscia di Gaza e hanno ucciso donne e bambini”.
“Che strano! Viviamo in un’epoca in cui la sconfitta è diventata vittoria. Buon appetito a Ismail Haniyeh [il leader di Hamas che vive in Qatar] per l’auto Mercedes, per l’orologio Rolex e per l’abito Armani. Buon appetito a Hamas per il traffico di sangue di palestinesi innocenti. Come al solito, Haniyeh ha vinto e il popolo ha perso.”
Facendo eco alla diffusa convinzione nel mondo arabo che l’Iran stia usando i suoi delegati palestinesi, Hamas e la Jihad Islamica Palestinese, per ottenere concessioni dagli Stati Uniti e da altre potenze mondiali ai negoziati di Vienna per rilanciare l’accordo sul nucleare iraniano del 2015, Taha ha aggiunto:
“Le milizie di Hamas nella Striscia di Gaza appartengono all’Iran. Ciò che queste milizie hanno fatto di recente è stato servire il Corpo dei Guardiani della Rivoluzione iraniana. Teheran vuole usare la questione palestinese come carta vincente ai negoziati di Vienna. Teheran vuole usare la questione palestinese per costringere gli Stati Uniti a revocare le sanzioni contro l’Iran in cambio della fine dell’escalation dei problemi di sicurezza che minacciano Israele. Il terrorista Ismail Haniyeh, che vive in Qatar, ha dichiarato: ‘Ringraziamo l’Iran per averci fornito denaro e armi”. Il denaro dell’Iran è destinato ad aiutare i mercenari a continuare a trafficare con la questione palestinese. Le armi iraniane sono armi di distruzione e non di costruzione”.
I negoziati tra l’Iran e le potenze mondiali per l’accordo sul nucleare firmato nel 2015 sono ripresi la scorsa settimana a Vienna con l’obiettivo di riportare gli Stati Uniti nell’accordo.
Il giornalista e scrittore degli Emirati Arabi Mohamed Taqi è stato ancora più schietto nelle sue critiche alla presunta vittoria di Hamas e alla sua alleanza con l’Iran.
“La maledizione di Dio su tutti coloro che hanno sfruttato la Moschea di al-Aqsa, la questione palestinese e il popolo palestinese in cambio di gloria personale e denaro”, Taqi ha detto in un video da lui postato su Twitter. “La maledizione di Dio sui traditori che hanno venduto la questione palestinese per offrirla su un piatto d’argento ai mullah iraniani”.
Come molti arabi, Taqi ha denunciato i leader di Hamas per vivere nel lusso in Qatar e in Turchia, sacrificando la propria gente nella Striscia di Gaza per rabbonire Teheran.
“Di quale ‘resistenza’ parli, Haniyeh, quando tu e i tuoi figli soggiornate negli hotel del Qatar e della Turchia?”, ha chiesto Taqi, rivolgendosi al leader di Hamas che vive in Qatar, il quale è stato visto viaggiare su una nuova Mercedes a Doha durante i combattimenti tra Israele e Hamas.
“Di quale ‘resistenza’ parli quando sacrifichi la tua gente mentre tu e i tuoi figli fate la bella vita? E poi chiedi agli arabi, che hai accusato di tradimento, di ricostruire la Striscia di Gaza mentre presenti la tua ‘vittoria’ all’Iran?”
Lo scrittore e analista politico marocchino Saeed Al-Kahel ha accusato Hamas di trasformare la questione palestinese in una “risorsa commerciale”.
Hamas, ha scritto Al-Kahel, “non vuole che il conflitto israelo-palestinese finisca perché desidera ottenere profitti politici e finanziari. Hamas ha trasformato la questione palestinese in una risorsa commerciale che genera fondi da varie fonti e assicura prosperità e ricchezza per i suoi leader”.
Anche Al-Kahel condivide l’opinione che l’Iran stia usando la campagna terroristica dei suoi alleati palestinesi contro Israele per convincere gli Stati Uniti a revocare le sanzioni contro l’Iran. “Hamas ha trasformato la ‘resistenza’ in una carta di pressione nelle mani dell’Iran, che la sta sfruttando nel suo conflitto con l’Occidente per revocare le sanzioni sul suo programma nucleare”, ha scritto Al-Kahel.
“Pertanto, qualunque sia l’esito dello scontro armato con Israele, Hamas non dichiarerà la sua sconfitta. Piuttosto, ne farà una vittoria, anche se la celebra tra le rovine e le bare. Quanto più sono le uccisioni e la distruzione, tanto più aumenta il reddito di Hamas mentre i palestinesi continuano a soffrire di assedio e povertà. Ma quel che è peggio è che le organizzazioni politiche islamiche sono orgogliose della vittoria illusoria ottenuta da Hamas. Nessuna di queste organizzazioni si è interrogata sulla natura di questa vittoria e sui suoi guadagni a beneficio dei palestinesi e della loro causa: quanta terra è stata liberata, quanti prigionieri sono stati rilasciati e quanti rifugiati [palestinesi] sono tornati? Niente di tutto questo è stato ottenuto e non lo sarà finché Hamas controllerà il processo decisionale palestinese. Il sangue palestinese è diventato economico per Hamas, così come per il Movimento Islamico [in Marocco], i cui leader si sono affrettati a congratularsi con la leadership di Hamas per una ‘chiara vittoria’”.
Anche Samir Ghattas, ex parlamentare egiziano e direttore dell’Egyptian Middle East Forum for Strategic Studies, ha messo in guardia contro il tentativo dell’Iran di utilizzare Hamas per ottenere guadagni dagli Stati Uniti e da altre potenze mondiali durante i negoziati di Vienna.
Ghattas ha osservato che l’Iran ha cercato dal primo giorno dei combattimenti tra Israele e Hamas di affermare la propria presenza sul campo di battaglia rilasciando dichiarazioni a sostegno dei gruppi terroristici palestinesi nella Striscia di Gaza. Tra le dichiarazioni, egli ha detto, c’era anche una lettera inviata dal generale maggiore Esmail Qaani, comandante della Forza Quds iraniana, all’arci-terrorista di Hamas Mohammed Deif, in cui si prometteva pieno sostegno alla guerra palestinese contro Israele.
“L’Iran vuole ottenere qualitativi e notevoli progressi nei negoziati di Vienna e sta giocando la carta delle fazioni e delle milizie che gli sono fedeli nella regione, Hezbollah in Libano, gli Houthi in Yemen, Hamas e la Jihad Islamica in Palestina, allo scopo di confermare la sua forza e il suo peso regionale”, ha dichiarato Ghattas in un chiaro avvertimento all’amministrazione statunitense e alle potenze mondiali che negoziano con Teheran. “L’Iran ha sfruttato Hamas e la Jihad Islamica solo a proprio vantaggio e, se avesse voluto l’interesse dei palestinesi, avrebbe contribuito alla ricostruzione della Striscia di Gaza”, ha aggiunto.
“Teheran non ha contribuito né ha fatto donazioni per scopi umanitari o progetti di ricostruzione a Gaza, ma ha piuttosto contribuito a finanziare l’acquisto di armi e altro per trasformare Gaza in un deposito di armi che minaccia la sicurezza della regione. La recente guerra di Gaza e le guerre simili che l’hanno preceduta nel 2008, nel 2012 e nel 2014 sono state delle mere opportunità che l’Iran ha sfruttato politicamente e militarmente solo per i propri interessi, e non per l’interesse del popolo palestinese e di Gaza, ma al prezzo del loro sangue”.
Muhammad Mujahid Al-Zayyat, un consulente dell’Egyptian Center for Thought and Strategic Studies, ha affermato che l’appoggio offerto dall’Iran a Hamas durante la guerra con Israele mirava a inviare un messaggio all’Occidente che i gruppi terroristici palestinesi sono diventati una merce di scambio per Teheran nei suoi rapporti con i Paesi occidentali.
La recente guerra di Gaza, ha argomentato Al-Zayyat, è un altro tentativo di mostrare la forza da parte di Teheran e fare capire che andrà ai negoziati di Vienna con una “vittoria” di Hamas nelle sue mani per revocare le sanzioni contro il Paese e raggiungere ciò che vuole dall’accordo sul nucleare iraniano.
In altre parole, l’esperto egiziano si unisce ad altri arabi nel mettere in guardia l’amministrazione Biden e le potenze occidentali contro la possibilità di consentire all’Iran di essere ricompensato per la guerra al terrorismo di Hamas contro Israele.
Anche l’analista politico saudita Abdul Rahman Altrairi si è fatto beffe dell’affermazione di Hamas di aver vinto la guerra. Ha rilevato che la milizia terroristica libanese di Hezbollah aveva precedentemente dichiarato la vittoria su Israele dopo aver causato una massiccia distruzione delle infrastrutture libanesi durante la guerra del 2006 con Israele.
Altrairi ha rammentato a quegli occidentali che stanno lavorando sodo per rabbonire Teheran che gli iraniani sono responsabili di “distruzione e corruzione” in Iraq, in Libano, in Siria e in Yemen.
Altrairi ha avvertito l’Occidente che uno degli obiettivi dell’Iran durante la guerra di Gaza era quello di distruggere i trattati di pace tra Israele e alcuni Paesi arabi e “riposizionare Israele come nemico degli arabi”.
Anche il predicatore degli Emirati Arabi, Waseem Yousef, ha condannato Hamas per la sua ipocrisia nel trattare con gli arabi:
“Hamas ha lanciato razzi dalle case della gente, e quando è arrivata la risposta [israeliana], Hamas ha pianto e gridato: ‘Dove sono gli arabi, dove sono i musulmani’. Hamas ha trasformato Gaza in un cimitero di persone e bambini innocenti. Hamas ha bruciato le bandiere della maggior parte dei Paesi arabi, ha offeso tutti i Paesi arabi e non ha rispettato nessuno”.
È confortante vedere voci del mondo arabo che ridicolizzano Hamas per aver dichiarato vittoria contro Israele mentre portava alla rovina i palestinesi nella Striscia di Gaza. È altresì confortante vedere quanti arabi sono consapevoli dei pericoli del coinvolgimento dell’Iran con i gruppi terroristici palestinesi che vogliono innanzitutto l’eliminazione di Israele e poi la loro.
Il messaggio più importante che arriva da molti arabi, tuttavia, è quello che si rivolge all’amministrazione Biden e alle potenze occidentali, avvertendole del fatto che l’Iran sta cercando di approfittare della recente guerra nella Striscia di Gaza per intimidirle e indurle a fare ulteriori concessioni a Teheran. Resta ora da vedere se l’amministrazione Biden e le potenze occidentali daranno ascolto a questo monito o continueranno a nascondere la testa sotto la sabbia, facendo credere che i mullah iraniani, in cambio di enormi tangenti da parte degli Stati Uniti, cambieranno magicamente la loro mentalità crudele. L’ultima volta non l’hanno fatto; cosa accadrà alla regione se non lo faranno di nuovo?
Khaled Abu Toameh è un pluripremiato giornalista che vive a Gerusalemme. È Shillman Journalism Fellow al Gatestone Institute.
FONTE: https://it.gatestoneinstitute.org/17480/hamas-gaza-cimitero-bambini
Notizie dal crepuscolo
L’avevo visto più volte, a San Frediano.
Seduto su qualche stretto marciapiede, barba e aria nordica, con cartelli stampati – stile titoloni strillati di quotidiani popolari – in lingua inglese, dove si dichiara un pensatore perseguitato in esilio che sta organizzando un crowdfunding.
Oggi mi sono presentato.
Mi stringe la mano e mi parla in inglese.
“Io sono Matthew, cioè Matthias, sono fuggito dalla Svezia”.
Tira fuori dalla tasca una piccola mappa, dove si vede che ha disegnato un percorso che lo porta dalla Svezia in Francia,poi in Spagna e infine in Italia.
Provo a seguire il flusso un po’ confuso, ma nemmeno troppo, dei suoi discorsi. Ha una voce calma e un’espressione molto seria.
“Avevo un’impresa di elettronica, mi sono sempre occupato di comunicazione e di media.
Con quattro dipendenti, di cui dovevo farmi totalmente carico, perché in Svezia è così: erano tutti sulle mie spalle, e a un certo punto non ce l’ho fatta più, ma in Svezia nessuno ti sa rispondere quando poni certe domande.
Ho denunciato su Internet il sistema economico svedese, che si basa tutto sull’inflazione… che bello, dicono, l’inflazione sta aumentando! Mentre ci vorrebbe invece la deflazione, come ho provato a spiegare…”
“Mi hanno ricoverato gli psichiatri, erano ricoveri forzati, mi obbligavano a subire iniezioni. E sono diventato uno zombie, mi hanno distrutto la mente.
Ho conosciuto l’inferno, ho toccato la morte, e non potevo sfuggire, perché erano ricoveri coatti.
Alla fine mi hanno rilasciato, ma hanno continuato a impormi i trattamenti fin dentro casa, l’ultima volta per farmi le iniezioni, la polizia ha sfondato la porta, ed è rimasta rotta per mesi.
E’ allora che ho deciso di andarmene dalla Svezia.
Io mi sento profondamente svedese, ma non accetto il governo del mio paese”.
Gli chiedo dove dorme.
“Ho una piccola tenda, l’ho piazzata lungo le rive dell’Arno.
Io sono cresciuto con l’idea di Firenze come città d’arte, ma ho trovato qui un’altra arte! Non riesco a capire abbastanza l’italiano, ma ho visto che ci sono davvero le statue di Michelangelo.”
Gli chiedo se scrive qualcosa.
Mi fa,
Tu hai già visto la mia pubblicazione?
Tira fuori dalla tasca un fogliettino stampato, intitolato:
“Twilight News
FREEDOM FIGHTER IN EXILE!”
Notizie dal crepuscolo.
Contiene una serie di brevi testi e di aforismi. Mi colpisce questo:
“PARS PRO TOTO” VUOL DIRE PRENDERE UN FRAMMENTO DI QUALCOSA – FALSANDO COSI LA VERITA’ CHE E’ UN TUTTO – LA SCIENZA SPEZZA LE COSE PER SCOPRIRE COSA SONO.”
Gli chiedo posso darti un piccolo contributo?
Mi ringrazia con molta dignità, informandomi – senza lamentarsene – che non capita spesso.
Sull’opuscolo, trovo un indirizzo:
Twitter @the_eng_circle
Vado a vedere:
“Ecco un’altra canzone che ho riscritto per tutti voi lì fuori – nell’etere, o questo “vuoto” nero come la pece dove io ho, in una tasca, tutto ciò che è mio”
I testi che scrive sono assai più confusi dei suoi discorsi dal vivo, ma mettendo insieme le due cose, ci ritrovo un senso.
C’è comunque la sua foto:
e quella della sua piccola casa lungo le sponde dell’Arno:
In quel momento immagino uno sterminato esercito di uomini dotati di libri e mandati e siringhe e contratti e manette e manualetti con tante figurine con i sorrisini inclusivi, che in tutto il pianeta danno la caccia ai Bedlam Boys, che tre secoli fa Thomas D’Urfey aveva cantato:
“Still I sing bonnie boys, bonnie mad boys
Bedlam boys are bonnie,
For they all go bare and they live by the air
And they want no drink nor money”Canto ancora, bravi ragazzi, bravi ragazzi folli
i ragazzi di Bedlam sono bravi
perché vanno tutti scalzi e vivono d’aria
non vogliono né liquore né denaro
FONTE: http://kelebeklerblog.com/2019/12/09/notizie-dal-crepuscolo/
ECONOMIA
La disoccupazione è necessaria al capitalismo
Francesco Erspamer 16 06 2021
La disoccupazione è la condizione necessaria e sufficiente dello sfruttamento e del capitalismo; provoca guerre fra poveri e competizione fra i lavoratori in modo da indebolire la solidarietà di classe e da abbassare il costo del lavoro. Così i ricchi e i loro cani da guardia (oggi i giornalisti, gli intellettuali da talk show, gli economisti) si arricchiscono. Naturalmente fanno finta di considerare la disoccupazione un problema ma stando bene attenti a evitare che diminuisca o scompaia; da qui, per secoli, la trasformazione di un augurio biblico, crescete e moltiplicatevi e riempite la Terra, in un comandamento, vigente anche dopo che la Terra è stata riempita e sta strabordando; e se in alcuni paesi sovrappopolati, come l’Italia, la gente ha finalmente smesso di far troppi figli, ecco che a reti unificate viene agitato lo spauracchio della decrescita economica, a giustificare l’importazione non programmata e spesso illegale di schiavi dall’esterno (in questo periodo dall’est Europa e dall’Africa) per mantenere artificialmente un eccesso di offerta di lavoro. Come auspicato, fra i tanti, da Enrico Letta, democristiano per vocazione e terzomondista per consentire al neocapitalismo di raschiare il fondo del barile e dominare ancora per un po’.
Certo, a livello di piccola e media impresa c’è la reale concorrenza delle multinazionali a costringere gli imprenditori ad abbassare i prezzi (altrimenti gli italiani, in particolare quelli che si riempiono la bocca di orgoglio nazionale, comprano su Amazon per risparmiare qualche euro, e non importa se nel medio termine significa impoverire il paese e sé stessi; e non parlo solo dei bisognosi ma anche dei benestanti). Peccato che la soluzione sia sempre quella di tagliare i salari e pretendere ritmi di lavoro ottocenteschi. Per il bene dell’Italia, dice Salvini, ma intende il bene dei ricchi o aspiranti tali.
Mentre la soluzione ovvia non viene neanche presa in considerazione: massacrare di tasse le megaimprese straniere per salvare le imprese italiane. Come mai? Perché Amazon e la Apple hanno lobby molto più persuasive dei sindacati, pagano avvocati abili e senza scrupoli, controllano direttamente o indirettamente televisioni, giornali, opinionisti, parecchi parlamentari e ministri; per cui i nuovi patrioti della destra e della finta sinistra preferiscono non pestargli i piedi – è così più facile spremere un po’ di più i lavoratori e impoverire i miserabili, che tanto ci sono abituati a offrire l’altra guancia e quando si ribellano lo fanno contro chi ha poco più di loro, mica contro i miliardari, spesso ammirati, o le idolatrate celebrity.
Se non si rompe questo circolo vizioso non ci sarà mai un riscatto e in realtà, alla lunga, neppure salvezza. Bisogna consumare meno, produrre meno, smettere di crescere in maniera dissennata; e in cambio distribuire meglio gli enormi profitti generati dell’automazione e dell’innovazione tecnologica. Ma non sarà facile: il partito degli edonisti, interessati solo al soddisfacimento delle loro pulsioni immediate, è vasto, potente e in espansione. Per contrastarlo è indispensabile che tutti coloro che si sentono parte di qualcosa che li trascende (una Storia, una tradizione, una comunità, una civiltà) si organizzino in una nuova Resistenza culturale e politica contro il liberismo e il suo appiattimento sul presente, il suo culto del successo e del denaro, la sua globalizzazione, il suo individualismo.
Recovery Fund strumento per la nuova austerità
Coniare Rivolta – 04 Giugno 2021
C’è una parola, un concetto che meglio di ogni altro descrive il funzionamento del cosiddetto Recovery Fund: la condizionalità. È un termine che è sempre stato al centro delle nostre analisi, un principio che torna e riemerge ad ogni occasione, e che ci permette di contrastare la favola di un’Europa solidale, pronta a riversare fiumi di milioni sul nostro Paese. Condizionalità vuol dire che ogni euro concesso è subordinato all’adempimento di una serie di obblighi, all’attuazione di riforme stabilite dalle istituzioni europee e all’adesione al progetto politico dell’austerità, in maniera tale che a fronte dell’euro ricevuto oggi si paghi un prezzo, politico ed economico, ben più caro nei prossimi anni in termini di ulteriore austerità.
Nelle prime occasioni in cui si è parlato di Recovery Fund, sulla scia del mito dell’Europa del progresso, la condizionalità poteva apparire un concetto astratto, difficile da mettere a fuoco. Ma oggi, il Governo Draghi ha iniziato a dargli forma e sostanza con il Decreto-legge 31 maggio 2021, n. 77, noto anche come Decreto Semplificazioni. Nelle settimane che hanno preceduto l’approvazione, avvenuta la sera del 28 maggio, a fronte di partiti della coalizione di Governo che cercavano di mettere bocca e avanzare obiezioni o proposte di modifiche, la risposta immutabile di Draghi è stata sempre la stessa: abbiamo un impegno esplicito con l’Europa ad approvare, entro la fine di maggio, interventi di semplificazione legislativa e delle procedure per i lavori pubblici, oltre che a definire la ‘governance’ legata al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNNR). O lo facciamo in fretta, o non riceveremo la prima tranche di aiuti del Recovery Plan.
Come dicevamo, il Decreto Semplificazioni si occupa di due aspetti distinti.
- Il primo riguarda una feroce deregolamentazione, che nella neolingua in voga nel Governo viene presentata eufemisticamente come una semplificazione, delle procedure di conferimento e assegnazione degli appalti per lavori pubblici. L’impronta ideologica è esplicita nella sua sfacciataggine. Vengono prorogate fino al 30 giugno 2023 una serie di deroghe al Codice degli Appalti che erano state approvate nei mesi della pandemia con lo scopo, almeno quello dichiarato, di poter intervenire con rapidità e urgenza nel pieno dell’emergenza: in particolare viene alzato l’importo massimo sotto al quale si possono assegnare lavori pubblici senza fare nessuna gara, ma procedendo con un’assegnazione diretta o con una snella ‘procedura negoziata’, condotta in privato tra la centrale pubblica appaltante e una cerchia ristretta di ditte; oltre a questo, si prolunga anche la validità delle deroghe che mettono al riparo il padrone vincitore di un appalto da accuse di danno erariale ed abuso d’ufficio. Nonostante la tanto sbandierata rivoluzione verde e sostenibile, i tempi concessi alle autorità preposte per effettuare una Valutazione di Impatto Ambientale, prerequisito necessario per valutare se una determinata opera pubblica devasta la natura circostante o meno, vengono dimezzati con l’accetta; inoltre, si predispone un binario blindatissimo e di fatto al di sopra di ogni controllo per otto grandi opere, tra cui linee di alta velocità e interventi sulle infrastrutture portuali. Ciliegina sulla torta, si liberalizza, di fatto incentivandolo, il ricorso al sub-appalto. Con tale nome si intende la procedura per la quale l’azienda X, che risulta vincitrice di un appalto per un lavoro pubblico, affida una parte delle proprie incombenze e dei lavori da svolgere all’azienda Y, scelta dall’azienda X in sostanziale libertà. Il sub-appalto – una pratica che storicamente ha permesso ad aziende dalla trasparenza discutibile e spesso con connessioni con il mondo criminale di mettere le mani su porzioni sostanziose di finanziamenti pubblici – è anche uno strumento grazie al quale le imprese risparmiano sui costi, attraverso peggiori condizioni per i lavoratori coinvolti e una minore qualità nei lavori realizzati. La percentuale massima di lavoro che può essere sub-appaltata aumenterà gradualmente fino al 1° novembre, quando cesserà di esistere del tutto. Ciò implica che non esisterà più alcun vincolo per le imprese a ricorrere all’opaca pratica del sub-appalto.
- Il secondo pilastro del Decreto Semplificazioni riguarda la gestione e l’attuazione del PNNR, con la definizione esplicita di chi dovrà fare cosa. L’elemento cardine è l’accentramento dei poteri decisionali presso la Presidenza del Consiglio, che avrà la facoltà di sostituirsi e commissariare le amministrazioni che ritardano nell’applicazione delle misure previste dal PNRR o che si rifiutano per ragioni di dissenso sui contenuti. Si prevede inoltre la creazione di una Segreteria Tecnica, con funzioni di supporto alla cabina di regia deputata all’attuazione del PNRR, che rimarrà in carica anche dopo la fine della legislatura, fino al 2026. In altri termini, questo organo vigilerà sui prossimi governi per evitare che l’esecutivo di turno faccia scelte diverse da quelle intraprese dall’attuale governo.
Il legame evidente e rivendicato tra il Decreto ‘semplificazioni’ e il Recovery Fund mostra in maniera evidente quali siano i veri scopi degli ‘aiuti’ europei. Si parte ora con le semplificazioni, si continuerà domani con la riforma delle pensioni e del mercato del lavoro, come abbiamo più volte mostrato. Infatti, a fronte di un ammontare di risorse assolutamente insufficiente per la ripresa economica, il Recovery Fund rappresenta un fortissimo strumento di pressione e di ricatto, una clava che viene usata per dare l’assalto ai residui di protezione sociale e regolamentazione del mercato presenti in Italia.
Il Governo Draghi, in questo scenario, svolge in maniera estremamente efficiente e competente il ruolo che gli è stato ritagliato addosso fin dal momento del suo insediamento. Imbevuto di una visione economica fortemente liberista, in virtù della quale l’intervento pubblico si deve limitare a rimuovere tutti i vincoli all’operato delle fantomatiche forze di mercato, l’esecutivo continua metodicamente, un provvedimento dopo l’altro, a curare meticolosamente gli interessi di una piccola minoranza di privilegiati, mentre i molti soccombono, tra pandemia e crisi economica.
GIUSTIZIA E NORME
Mascherine cinesi. Arcuri indagato adesso rischia 10 anni di carcere
12 Aprile 2021
L’ex commissario straordinario accusato di peculato per il pasticcio dei dispositivi importati per un miliardo e 250 milioni di euro. Lui si dice ignaro ma pronto a collaborare
Che alla fine nel mirino dell’indagine dovesse finirci anche lui era considerato inevitabile. Perché nei mesi convulsi della prima ondata Covid era lui, Domenico Arcuri, il boiardo di Stato catapultato dal governo Conte in prima fila nella lotta al virus, a tirare le fila di tutto quanto. E ipotizzare che avesse assistito ignaro di tutto al gigantesco pasticcio delle 800 milioni di mascherine importate dalla Cina a un prezzo folle (un miliardo e 250 milioni di euro), arricchendo una linea di faccendieri, sarebbe stato fare un torto alla sua intelligenza. Così, mese dopo mese, l’inchiesta della Procura di Roma sulle maschere made in China si è avvicinata sempre di più al ruolo dell’ormai ex commissario straordinario, rimpiazzato – come primo atto del governo Draghi – con il generale alpino Figliuolo. E ieri arriva la botta, con la notizia – anticipata dalla Verità – che Arcuri è indagato per peculato, pena da quattro anni di carcere a dieci e mezzo. Insieme a lui, Antonio Fabbrocini, suo braccio destro, responsabile unico della commessa passata per l’intermediazione dell’ex giornalista Rai Mario Benotti e dei suoi complici. Una cordata che si è messa in tasca, nel 2020, una provvigione da oltre sessanta milioni.
Le avvisaglie per Arcuri c’erano già state l’anno scorso, quando sempre insieme a Fabbrocini era stato indagato per corruzione: ma l’accusa si era sgonfiata in fretta, perché di soldi arrivati al commissario straordinario i pm romani – per quanto si siano impegnati – non ne hanno trovata traccia. Richiesta di archiviazione, attualmente all’esame del tribunale. Ma i pm intanto hanno continuato a scavare. E nella rogatoria inviata a San Marino, dove si perde una delle tracce dell’indagine, hanno parlato apertamente del reato di peculato. Vuol dire che si ipotizza che una parte dei soldi stanziati per l’emergenza siano stati utilizzati dai vertici per fini estranei alla lotta al Covid, favorendo se stessi o i propri amici. È un reato più insidioso della corruzione, perché non ha bisogno della prova del passaggio di una tangente. È sufficiente dimostrare che gli intermediari si siano arricchiti illecitamente, e che lo abbiano fatto grazie ai rapporti privilegiati con i pubblici ufficiali. Arcuri, appunto.
E sull’esistenza dei rapporti di ferro ormai non ci sono più dubbi, perché sono stati messi nero su bianco dalla Procura che parla di una «attività di interposizione svolta da Benotti fondata sul rapporto personale con il Commissario straordinario», ovvero Arcuri. E «l’accesso preferenziale al gradimento di un funzionario pubblico vulnera la sua imparzialità», scrivono i pm. Nell’arco di cinque mesi, i contatti tra Arcuri e Benotti assommano d’altronde a 1.280. Quasi dieci volte al giorno.
I contatti si interrompono bruscamente a maggio del 2020, e qui le cose sono rese più delicate dalla svolta di ieri. Benotti, infatti, ha dichiarato a Quarta Repubblica che Arcuri lo avvisò di una indagine in corso sulla fornitura, citando fonti di Palazzo Chigi. Che una indagine di Bankitalia fosse già in corso è sicuro, tanto che due mesi dopo dall’istituto partì la prima segnalazione. Ma chi avvisò Arcuri dalla sede della presidenza del Consiglio? Se Arcuri era complice del reato in corso, la soffiata fu a tutti gli effetti un favoreggiamento.
L’ex commissario straordinario, che è rimasto alla guida di Invitalia, ieri reagisce alle notizie di stampa dichiarandosi totalmente all’oscuro degli sviluppi. «Il dottor Arcuri, nonché la struttura già preposta alla gestione dell’emergenza – fa sapere il suo ufficio con una nota – continueranno, come da inizio indagine, a collaborare con le autorità inquirenti nonché a fornire loro ogni informazione utile allo svolgimento delle indagini».
FONTE: https://www.ilgiornale.it/news/politica/mascherine-cinesi-arcuri-indagato-adesso-rischia-10-anni-1938016.html
Il falso mito della liberazione di Brusca
Perché un parlamento, sonnolento se non colluso, approvasse queste leggi è sempre stato necessario l’estremo sacrificio di un servitore dello stato cui è seguita la reazione di un popolo davvero infuriato
E’ lo stato ad essere in possesso della vita del pentito, senza lo stato il pentito è un uomo morto.
Brusca è stato scarcerato, non liberato, in quanto dovrà scontare altri quattro anni di libertà vigilata. (L’AntiDiplomatico)
Se ne è parlato anche su altri giornali
Insomma, «l’ipotesi del limite di quattro persone non è stata proposta ufficialmente alle Regioni e non trova riscontro». Insomma: «Speranza va cacciato» (ilGiornale.it)
Dei suoi 150 delitti Giovanni Brusca ne ha commessi molti nel territorio della mia diocesi”, dice mons. Pennisi. Un messaggio del vescovo al super pentito di mafia scarcerato nei giorni scorsi, Giovanni Brusca. (Aleteia IT)
«Chiedo scusa, perdono, a tutti i familiari delle vittime a cui ho provocato tanto dolore e tanto dispiacere». Tra quelle testimonianze spicca quella di Giovanni Brusca, registrato per alcune ore in una sala colloqui del carcere romano di Rebibbia, dove l’esecutore materiale della strage di Capaci si presentò bardato per non essere riconoscibile, ma con la sua voce inconfondibile già tante volte ascoltata nei processi di mafia (infodifesa.it)
Già dall’anno 2000 l’Italia ha iniziato a pagare a Brusca un piccolo stipendio, in modo che la sua famiglia potesse tirare avanti. iltempo.it. Inizia una nuova vita da uomo libero per Giovanni Brusca, l’ex killer della Mafia autore della strage di Capaci che costò la vita al giudice Giovanni Falcone. (Come Don Chisciotte)
(LaPresse) – L’annuncio era arrivato una settimana fa, oggi è uscita ‘We are the people’, inno ufficiale degli Europei di calcio al via l’11 giugno in dodici città del Vecchio Continente, firmato da Martin Garrix insieme a Bono e The Edge degli U2. (La7)
Il vero colpo alla mafia viene dato al suo interno da quegli uomini della mafia, compresi i grandi capi della mafia di cui la cronaca ci ha già raccontato che una volta giunti in galera hanno deciso di collaborare. (Tp24)
FONTE: https_www.informazione.it/?url=https%3A%2F%2Fwww.informazione.it%2Fa%2F69E86AF4-DE9A-44D7-A5CB-6921EDC30D28%2FIl-falso-mito-della-liberazione-di-Brusca
IMMIGRAZIONI
Il dispositivo di inclusione
di Salvatore Bravo
Diversity Management
Il dispositivo di inclusione agisce ad ogni livello, proliferano figure professionali che operano capillarmente nella pancia del sistema. Il controllo è mascherato con la menzogna conosciuta, si invoca l’inclusione, si applaude all’assimilazione per neutralizzare la possibilità di percorsi alternativi. L’inclusione riporta ogni gruppo umano all’interno del sistema per normalizzarlo ed evirarlo del potenziale rivoluzionario ed emancipativo. Si invoca la democrazia, in realtà si organizzano pratiche di gerarchizzazione verticistica. Il diversity management (gestore delle differenze) è la nuova figura professionale addetta all’inclusione; le aziende private possono usufruire del manager delle differenze al fine di aumentare la produttività. Il gestore delle differenze nelle aziende ha il compito di favorire l’integrazione, è il manager-tutor, la cui presenza denuncia un pregiudizio atavico, ovvero i diversi non hanno capacità decisionali e relazionali autonome, ma da figli di un dio minore devono essere accompagnati nell’integrazione aziendale.
Il manager deve agire allo scopo di includere per curvare la creatività dei diversi verso la produzione. I “creativi-diversi” devono avere nel manager un punto di riferimento che interviene per evitare conflitti e contradizioni che possano minacciare la capacità competitiva dell’azienda. Il fine è la governance dell’azienda, la produzione rallenta qualora vi siano ostilità striscianti e non, invece puntando sulla valorizzazione inclusiva si incentiva la capacità di competere dell’azienda e il suo successo sul mercato. I diversi sono “notoriamente dei creativi”, anche questo è un pregiudizio, non li si riconosce come “persone”, ma come “creature speciali e divergenti” a usare all’occorenza.
La frontiera dello sfruttamento ha trovato una nuova miniera da cui attingere risorse a basso costo. Soggetti fragili e disponibili alla gratitudine verso coloro che “li accettano e accolgono” facilmente si lasciano usare dal sistema, in quanto non discernono nell’abbaglio di una normalità agognata e mai conosciuta l’uso strumentale che, ancora una volta, si fa di essi. La trappola è palese: usare le differenze per farne la pattuglia di difesa dell’azienda, e spingere l’incluso a dipendere dalla famiglia-azienda fino a richiedere che lavori creativamente, spontaneamente e volontariamente al massimo delle sue possibilità. Il dispositivo di inclusione sterilizza la prospettiva critica di coloro che spinti ai margini con maggiore chiarezza possono elaborare percorsi emancipativi di uscita dal sistema.
Collaborazione produttiva
La relazione comunitaria nella quale i soggetti si confrontano e affrontano per creare il mondo con il logos e con la potenza della parola è sostituita con collaborazione produttiva. Le differenze si trascendono nel comune obiettivo della squadra aziendale: vincere e competere. Sono private della forza plastica creativa per essere orientate verso l’utile. L’inclusione diviene un meccanismo di depauperamento della dialettica dell’esodo dal sistema, al suo posto vige l’azienda con il diversity management che omogeneizza i comportamenti e gli obiettivi, in tal modo elimina le differenze, le rende secondarie: alla fine della rieducazione i lavoratori sono posti sulla stessa linea di intenzioni e valori, alla conclusione del percorso non deve restare che l’asservimento al mercato. Le donne, le persone omosessuali, i disabili sono, ancora una volta, umiliati e offesi perché usati dal sistema che ne negava le identità, e che ora, con una torsione ideologica li utilizza come alfieri nella difesa del mercato che li accoglie, ma chiede loro di rinunciare alle loro identità, di assottigliarle fino a farle vaporare. Le differenze divengono flatus vocis, propaganda neoliberale alla ricerca di consensi e di servi fedeli dinanzi alle sempre più palesi contraddizioni del sistema capitale. Sono oggetto di una gestione psicologica e burocratica, in tale gestione dall’alto l’autonomia è ceduta all’azienda che con il suo apparato stabilisce strategie, linguaggi e tattiche mediante le quali trasformare i creativi in un’occasione di espansione e consolidamento nel mercato. La valorizzazione delle competenze e delle abilità porta al potenziamento dell’organizzazione, la quale gradualmente diventa un corpo unico in posizione d’attacco. Il diversity management deve valorizzare e agire su una serie di differenze classificate in diversità primarie e secondarie, le prime sono:
- cultural diversity
- gender diversity
- ageing diversity
- disability diversity
Anche le diversità secondarie devono essere valorizzate: il background educativo, l’età, l’esperienza lavorativa, la situazione famigliare. La diversità secondaria è acquisita con l’esperienza esistenziale. Il diversity management è in realtà un supervisore che deve trasformare ogni potenzialità in investimento che produce plusvalore per l’azienda.
Integralismo aziendale
L’integralismo aziendale ha il volto del diversity management il quale ha il compito di sfruttare tutte le componenti dell’azienda e di rappresentare la strategia come “inclusiva” e “positiva”. Deve pubblicizzare la politica di accoglienza aziendale in modo da ottenere consenso sul mercato e vendere il prodotto inclusione come qualsiasi merce, lo scopo è aumentare la produttività del 20 % o 30%. Le persone dal sistema azienda non sono valutate per il loro valore irrepetibile, ma per il successo lavorativo, pertanto possiamo facilmente dedurre che nel caso i creativi non producano secondo le aspettative saranno ricondotti alla loro marginalità. Le aziende, inoltre, con l’inclusione manipolano l’opinione pubblica, si autorappresentano come i trombettieri delle differenze con il sostegno dei media che creano un frame della libertà e dell’inclusione finalizzato a consolidare il neoliberismo e a rimuovere le critiche e le verità che mettono in dubbio la gabbia d’acciaio dell’aziendalismo. Le aziende per acquisire consensi sul mercato pubblicizzano l’integrazione che diviene pubblicità a buon mercato. La precarietà, i morti sul lavoro, l’ineguaglianza sociale e i diritti sociali sono rimossi dall’orizzonte cognitivo della collettività che si limita a ripetere le formule verbali del sistema. L’azienda si fa artefice del rispetto verso i diversi e nel contempo è complice dello sfruttamento delle nazioni in perenne sviluppo economico costretti all’emigrazione. Gli emigrati rientrano nell’operazione di inclusione del diversity management, per cui il mercato neoliberale costruisce una cornice positiva di se stesso da vendere e ciò gli consente di sfruttare e saccheggiare le nazioni che accettano gli investimenti e di precarizzare in patria ogni componente lavorativa. Le differenze sono in questo contesto “risorse umane”, materia prima da convertire in artiglieria nella competizione per l’assalto al mercato. Le diversità vengono annichilite nel loro valore identitario per essere addomesticate nel sistema della produzione e del consumo infinito. Il capitalismo vincerà sempre sin quando il frame di sistema non sarà oggetto di critica e prassi. Per rompere la cornice della propaganda sono indispensabili le domande e la problematizzazione delle parole, il diversity management è il gestore delle differenze e ciò presuppone un concetto di normalità quale paradigma con cui valutare e definire le alterità, in questo caso la normalità è la forma mentis aziendale, per cui si mette in atto un nuovo tipo di internamento celato da inclusione. Le forme dell’internamento variano nel tempo, ma hanno sempre il compito di dominare per consolidare il presente. Le differenze producono saperi divergenti che vengono assoggettati e normalizzati con l’inclusione. Il dispositivo di normalizzazione mette in atto nuove strategie di internamento difficili da riconoscere, agisce sul linguaggio in modo che le parole non corrispondono all’azione. È necessario che tra le parole e l’esperienza vi sia l’attività di mediazione del logos con il quale smascherare l’inganno del politicamente corretto. Il primo gesto-parola di un resistente è riaprire la catena dei perché con la quale riportare le parole nella concretezza materiale dei processi produttivi e di dominio:
“Bisogna dunque riprovare a riaprire la catena dei perché. Questa volta, però, bisogna riaprire questa catena con un altro approccio e con altri destinatari. L’approccio dev’essere molto più radicale, e i destinatari non possono più essere i cosiddetti “militanti”, il “popolo di sinistra”, eccetera. I destinatari sono tutti coloro che vogliono riflettere e comprendere, del tutto indipendentemente da come si collocano (o non si collocano) topologicamente nel teatrino politico. Per chi scrive l’appartenenza è nulla, e la comprensione tutto. Cerchiamo allora di riaprire la catena dei perché partendo da un anello della catena che ci permetta di stringere con sicurezza qualcosa di solido1”.
Il primo “perché” da riattivare è il domandarsi il motivo per il quale “i diversi” e “i normali” non possono liberamente ed autonomamente riconfigurare le loro relazioni, ma devono subire la gestione di una figura esterna che deve stabilire i confini e le finalità dell’integrazione. Il potere nella forma dl dominio deve neutralizzare ogni spazio di libertà per riportarlo all’interno della cornice della produttività. L’autonomia può disegnare scenari alternativi, e specialmente, può svelare che “i normali” come “i diversi” sono nel giogo del potere, e quindi per rompere potenziali solidarietà si interviene con figure professionali che posseggono le parole, sono i padroni di saperi aziendali con cui tacitare ogni processo comunitario di consapevolezza. Il secondo “perché” è l’uso della lingua inglese per indicare la professione di “gestore delle differenze”, la lingua non è uno strumento neutro, l’uso della lingua anglosassone è un atto di vassallaggio verso il capitalismo americano, un atto di sudditanza e resa senza condizioni che non ha eguali nella storia. La catena dei “perché” potrebbe proseguire assieme alle contraddizioni di un sistema “sensibile verso i diversi”, ma che ha abbassato il livello di sicurezza nell’attività lavorativa in modo speculare alle retribuzioni: la morte sul lavoro è entrata tra le banalità del quotidiano. Si svela con il diversity management la verità che si nasconde dietro il palcoscenico della “sensibilità” verso le differenze: una realtà razzista, classista e cinica che usa ogni mezzo per produrre plusvalore. La gestione delle differenze non è inclusione, ma funzionalizzazione delle stesse, una nuova forma di razzismo, in cui se non si produce secondo gli obbiettivi della dirigenza si è fuori del sistema, e ciò riguarda tutti. In assenza di dialettica ogni “inserimento” è incorporamento coatto imbellettato da lotta contro le disuguaglianze e le discriminazioni. La libertà è l’emancipazione dall’utile iscritto nel recinto dell’aziendalizzazione, è autonomia identitaria nella comunità liberata dai postulati del plusvalore, bisogna alzare gli scudi del concetto e della prassi contro i processi di normalizzazione in atto.
Note
1 Costanzo Preve, Marx e Nietzsche, Petite Plaisance Pistoia, 2004, pag. 6.
FONTE: https://sinistrainrete.info/articoli-brevi/20615-salvatore-bravo-il-dispositivo-di-inclusione.html
PANORAMA INTERNAZIONALE
Aborti e commercio di feti, vescovi Usa accusano Biden
«Il Vaticano difende Joe Biden contro le proteste avanzate dall’arcivescovo di San Francisco, Salvator Cordileone, e dall’arcivescovo del Kansas, Joseph Neumann, in relazione alle posizioni pro-aborto della coppia Biden-Harris». A incendiare la polemica non è solo il tema etico (pro o contro l’interruzione di gravidanza), ma il vero e proprio «traffico di feti, smembrati mentre sono ancora vivi», che rappresenterebbe una pagina oscura dietro al business farmaceutico: pagina che il Texas ha appena deciso di chiudere per sempre. Ne parla Roberto Mazzoni in un ampio video-reportage sulla controversia che sta dividendo i cattolici americani, turbati dalla “disinvoltura abortista” di Biden, formalmente cattolico, e della sua vice Kamala Harris, protetta da Barack Obama. Secondo Mazzoni, giornalista stanziato in Florida e autore di ottimi servizi dagli Usa durante le presidenziali 2020, molti vescovi americani si starebbero rendendo conto del fatto che non sia stata felice la scelta di puntare su Biden, secondo presidente cattolico nella storia statunitense dopo John Fitzgerald Kennedy.
Per essendo stato appoggiato dal Vaticano, e indirettamente anche dai vescovi Usa con una lettera inviata a tutti gli elettori, «Biden sta dando seguito a una serie di politiche che renderanno obbligatorio l’aborto finanziato dallo Stato anche in strutture gestite da cattolici». Ad aprire le danze, ricorda Mazzoni, è stato il 20 gennaio il cardinale di Los Angeles, José Horacio Gomez, presidente della Cei statunitense: «Il nostro nuovo presidente ha promesso di sostenere certe politiche che favorirebbero la diffusione di malignità morali e che minacciano la vita a la dignità umana, in modo più grave nell’area dell’aborto, della contraccezione, del matrimonio e del gender», aggiungendo: «E’ una grande preoccupazione per la libertà della Chiesa e per la libertà dei fedeli di vivere secondo la propria coscienza». Una dichiarazione all’acqua di rose, dice Mazzoni, rispetto a quella del commentatore cattolico Rodney Pelletier: «Joe Biden e Kamala Harris hanno dimostrato un impegno senza sosta verso l’infanticidio e verso la distruzione della famiglia, costringendo le persone a tradire le proprie coscienze per sostenere la cosiddetta ideologia transgender».
L’arcivescovo di Chicago, cardinale Blase Cupich, aveva già censurato il commento di Gomez classificandolo come «mal concepito» e pubblicato «senza una consultazione collegiale interna, che è la prassi consueta per dichiarazioni che rappresentano i vescovi». Roberto Mazzoni osserva che il cardinale Cupich «si è autonominato portavoce negli Usa per il Papa». Il polemico antiabortista Gomez aveva ventilato l’idea che i vescovi scrivessero a Biden per invitarlo ad astenersi dal ricevere la comunione, aggiunge Mazzoni, ma l’iniziativa è stata bloccata dal cardinale Luis Francisco Ladaria, “prefetto” dei gesuiti. «Sarebbe fuorviante – ha scritto Ladaria – se una tale dichiarazione desse l’impressione che l’aborto e l’eutanasia costituiscano da soli le uniche questioni gravi dell’insegnamento morale e sociale cattolico che richiedono l’intervento della Chiesa», precisando: «Ogni affermazione della conferenza episcopale relativa ai leader politici cattolici dovrebbe essere contestualizzata nella più ampia cornice della dignità di ricevere la comunione da parte di tutti i fedeli, anziché da parte della sola categoria dei politici».
Chiaro: non ci sarà nessuna “scomunica”. E i vescovi disposti ad accettare le posizioni “cattolicamente incompatibili” di Biden – scrive Mazzoni – sono pronti a usare tutta la loro autorità per prendere di mira i sacerdoti anti-abortisti. «Nessuna tempesta è insidiosa quanto una calma perfetta, e nessun nemico è pericoloso quanto la totale assenza di nemici», disse Sant’Ignazio di Loyola, ex militare spagnolo e fondatore della Compagnia di Gesù, che Mazzoni – tra il serio e il faceto – propone come ideale “maestro” dello stesso Biden, ricordando che Papa Clemente XIV disse di aver “firmato la sua condanna” nel 1773 dopo aver decretato lo scioglimento dei geusiti. «Nove mesi dopo era morto: e da allora non c’è più stato un solo Papa che si sia chiamato Clemente». Me se sulla Compagnia di Gesù si abbattono spessissimo gli strali più grossolani del complottismo, secondo Mazzoni «Joe Biden e la sua amministrazione hanno fatto tesoro dell’insegnamento gesuita», nel senso che «stanno facendo di tutto per creare nemici anche immaginari nella società americana, come ad esempio la discriminazione contro i gender e il razzismo fasullo».
In materia di aborto, segnala lo stesso Mazzoni, la questione negli Usa «tocca un enorme business, che gira intorno al mondo della sanità e delle case farmaceutiche». Il progetto federale degli aborti statunitensi, promosso da Joe Biden e dal suo partito, finanzia la società Planned Parenthood. «Si tratta di un’organizzazione privata che è stata coinvolta in numerosi scandali che coinvolgono pratiche disumane sui feti e la vendita di parti del feto per ricerca medica». Il padre di Bill Gates, William Gates senior, è stato parte del Cda di Planned Parenthood, nonché il creatore della illustre Bill e Melinda Gates Foundation (che nel solo 1999 ha donato 1,73 miliardi proprio a Planned Parenthood, la quale li ha utilizzanti in Sud America per combattere la violenza basata sui gender»). La stessa Melinda Gates si è particolarmente dedicata all’eguaglianza “gender”, e ha anche ricevuto la Medaglia della Libertà da Barack Obama nel 2016, mentre l’anno seguente il governo francese le ha tributato la Legion d’Onore.
Che non tutto sia impeccabile, nella storia degli aborti “farmaceutici”, lo dimostrerebbe un video esibito da Mazzoni, girato in incognito da un giornalista investigativo che – parlando con due dirigenti della Planned Parenthood – ha finto di essere interessato all’acquisto di porzioni di feto. Il video è introdotto da uno spezzone di intervista, in cui Tucker Carlson (di “Fox News”) chiede alla dottoressa Dawn Laguens, vicepresidente esecutivo di Planned Parenthood, che cosa senta, quando si accorge che sta ancora battendo, il cuore del feto che sta per essere soppresso. Lei risponde con sicurezza: prende seriamente il lavoro medico, che viene svolto in modo compassionevole. Nel servizio compaiono altri due sanitari della rete abortista: DeShawn Taylor (Arizona) e Deborah Nucatola, direttore senior dei servizi medici di Planned Parenthood Federation of America, la struttura che coordina le varie cliniche affiliate. Il video “clandestino”, sottolinea Mazzoni, «mostra chiaramente come il feto venga smembrato di proposito e come venga spesso ucciso con una sostanza chimica, la digossina, affinché non opponga resistenza all’estrazione».
Nel caso venisse estratto ancora vivo, ricorda Mazzoni, per la legge dell’Arizona dovrebbe essere trasportato all’ospedale, ma – in quelle immagini “rubate” – DeShawn «dice che basta fare attenzione a chi c’è nella stanza, lasciando intendere che preferisce non portarcelo e uccidere il feto fuori dall’utero contravvenendo alla legge». Greg Abbott, governatore repubblicano e cattolico del Texas, ha appena firmato la nuova legge che proibisce l’aborto, nello Stato, dopo che il battito del feto diventa distinguibile: questo, precisa Mazzoni, vorrebbe dire in alcuni casi impedire l’aborto dopo la sesta settimana. «La sede texana di Planned Parenthood ha dichiarato che questa legge è una delle più estreme nella nazione». Il senatore texano Bryan Huges, che ha partecipato alla preparazione della legge, dichiara: «Il Texas Heartbeat Act è la più potente legge pro-life nella storia del Texas, e sarà un modello per tutta la nazione». Per Chelsey Youman, della Human Coalition Action, è un passo storico: «Grazie a questa legge, l’anno prossimo verranno salvate circa 50.000 vite umane nel solo Stato del Texas».
FONTE: https://www.libreidee.org/2021/05/aborti-e-commercio-di-feti-vescovi-usa-accusano-biden/
POLITICA
Dilaga la nuova ideologia ufficiale. Imposta dalla UE
Prima relegata ad ambienti universitari marginali, arriva dall’America – e quindi da noi – la nuova virulenta infezione ideologica: la “teoria critica delle razze”. Che bisogna rigettare l’idea stessa che esistano razze in natura: sono un”costrutto” portato dalla cultura, e precisamente dalla cultura dell’oppressione instaurata dai bianchi contro i negri.
E’ l’estensione della teoria del “gender” . Avere un sesso, essere nati maschi e femmine, è qualcosa che ti inchioda ad un destino, che non ti sei scelto tu; limita la tua libertà in modo decisivo, ti porta ad ammettere che non ti sei fatto tu, che Qualcun altro ha deciso per te. Perciò la parola “sesso” è sostituita dal “genere”: termine grammaticale. Articoli e nomi hanno infatti un “genere”, maschile, femminile e neutro. Così, per diffondere e imporre questa teoria, i transessuali non sono più malati che hanno bisogno di aiuto (ti denunciano se lo dici) ma avanguardie ideologiche della nuova libertà di darsi il”gender” che si preferisce; hanno il compito esaltante di insegnare ai bambini nelle scuoole cattoliche, che anche loro possono essere trans: l’ultima liberazione.
La teoria critica delle razze sta attualmente devastamdo l’America come una tempesta ideologica:
L’idea centrale infatti essendo che “il razzismo è un costrutto sociale e che non è semplicemente il prodotto di prevenzioni o pregiudizi individuali, ma anche qualcosa di incorporato nei sistemi legali e nelle politiche”, si sta procedendo a smantellare le leggi, anzi tutte le istituzioni che – a giudizio insindacabile di negri e femministe militanti – incorporano il pregiudizio anti-negro. Da qui il rigetto delle opere d’arte classiche: incorporano il costrutto che i bianchi sono migliori dei negri, più intelligenti e più collti; di qui la lettura della storia intera in termini di “razzzismo oppressivo”.
“La teoria critica della razza”, riporta la conservatrice Heritage Foundation, “fa della razza il prisma attraverso il quale i suoi sostenitori analizzano tutti gli aspetti della vita americana, classificando gli individui in gruppi di oppressori e vittime. È una filosofia che sta infettando tutto, dalla politica all’istruzione, al posto di lavoro e all’esercito”.
Christopher F. Rufo sul New York Post nel luglio 2020 e nel maggio scorso) elenca alcuni fatti: 1) il Dipartmento di Homeland Security dice ai dipendenti bianchi che commettono “microiniquità” e che si sono stabilmente “socializzati” nel ruolo di “oppressori”; 2) il Dipartimento del Tesoro tiene una sessione di formazione in cui dice ai membri dello staff che “praticamente tutti i bianchi contribuiscono al razzismo” e che devono convertire tutti, nel governo federale, all’ideologia dell’antirazzismo; 3) i Sandia National Laboratories, che progettano l’arsenale nucleare americano, inviano i dirigenti maschi bianchi in un campo di rieducazione di tre giorni dove si dice loro che la “cultura maschile bianca” è analoga al KKK, ai suprematisti bianchi e, udite udite, alle uccisioni di massa (i dirigenti sono pertanto costretti a rinunciare al loro “privilegio maschile bianco” e a scrivere lettere di scuse a donne fittizie e persone di colore); 4) A Cupertino, in California, una scuola elementare ha costretto i bambini di prima elementare a decostruire le loro identità razziali e sessuali e a classificarsi in base al loro “potere e privilegio”; 5) a Springfield, Montana, una scuola media ha pensato bene di costringere gli insegnanti a collocarsi in una “matrice di oppressione” basata sull’idea che i maschi etero, bianchi, cristiani e di lingua inglese, sono membri della classe degli oppressori e devono espiare”.
L’infezione sta già venendo imposta dal potere europeista. Lo dimostra la reazione della Ursula alla legge ungherese che riconosce l’istituzione di “matrimonio” solo a quello fra un uomo e una donna (subito ribattezzata dai media “Legge anti-LGBTQ”) . “La legge ungherese è una vergogna, discrimina persone sulla base dell’orientamento sessuale e va contro i valori fondamentali della Ue. Noi non faremo compromessi su questi principi”, e David Sassoli ordina di colorare arcobaleno la sede dell’europarlamento. Lo suggerisce l’ordine di Enrico Letta ai calciatori: “Inginocchiatevi tutti”, che significa: “Chiedete perdono di avere il privilegio di essere bianchi, che non è un fatto naturale ma il portato di una cultura di oppressione razziale di cui voi godete gli indebiti frutti”. E’ solo l’inizio, e già dilaga. Sul piano italiano, è facile vederne l’applicazione: solo gli immigrati di colore hanno diritti , noi nati in Italia dobbiamo solo chiedere perdono ed espiare. Cedendo a loro case, soldi e cibo…. Fra poco qualche giudice comincerà ad applicare questo principio, anzi già lo applicano alcuni. Si veda la sentenza per cui il negro che spaccia non può essere punito perché non ha mezzi di sussistenza.
Inutile sottolineare che questa teoria è la più radicalmente anticristiana che sia apparsa nella storia: il rifiuto di riconoscere che siamo nati con caratteri fissi, è il rifiuto di sapoersi come “creature”; che un Altro ha fissato-deciso per noi (maschi-femmine, bianchi-negri, ma anche italiani e “immigrati”) e queste sono “condizioni” inamovibili, che determinano il nostro destino personale; che la “liberazione” da questi condizionamenti può avvenire sì, ma dall’alto – per esempio trascendendo la sessualità e il suo destino accettando la castità, e lottando per conseguirla.
FONTE: https://www.maurizioblondet.it/dilaga-la-nuova-ideologia-ufficiale-imposta-dalla-ue/
SCIENZE TECNOLOGIE
Maschere, divinità, controllo sociale e resistenza
di Anselmo Cioffi
La percezione che il panopticon di Bentham e di Orwell (l’occhio che controlla tutto, che sai che c’è, ma non sai dov’è e quando c’è) sarebbe stato ridimensionato e lentamente sostituito, con il progredire delle innovazioni tecnologiche, dall’auto sorveglianza (servitù volontaria), decretando di fatto la quasi obsolescenza del controllo centralizzato e diretto dall’alto, è stata smentita da quindici mesi di stato d’eccezione a livello globale.
Potremmo dire, anzi, che la sorveglianza dall’alto plurale, poliedrica e multilivello (non un solo occhio, ma tanti), si è oggi integrata perfettamente con l’auto sorveglianza, in quanto l’illusione di “libertà di scelta”, indotta dalle tecniche sempre più pervasive del consumismo, non è bastata: il “sovrano” ha dovuto agire con più forza, di nuovo d’autorità, senza però rinunciare alla sorveglianza orizzontale, anzi adattandola alle nuove esigenze del totalitarismo globale.
Sarebbe, però, più opportuno parlare di “sovrani”, data la pluralità di soggetti, interconnessi, a più livelli, ma spesso anche in conflitto tra loro, posti orizzontalmente al vertice della piramide; i quali condividono, collaborano e si adattano alle basi della narrazione tecno-scientifica, attraverso dinamiche, la cui complessità sfugge a catalogazioni e schemi tradizionali ben definiti, con alleanze che si compongono, si sfaldano e si ricompongono, in un turbinio continuo e inafferrabile. Anche il “sovrano” è diventato, quindi, fluido.
Sebbene la torsione autoritaria sia in atto, in Occidente (e in particolare nel nostro Paese), già da decenni al fine di svuotare le costituzioni democratiche, questa torsione trova oggi, un primo straordinario compimento con l’istituzione dello stato d’eccezione, mascherato da emergenza.
Il treno è in corsa e il “pilota automatico” non si fermerà tanto facilmente.
Tale salto in avanti ha accentuato ancor più quella che Bauman chiamava tendenza all’“adiaforizzazione”, “vale a dire a dispensare una buona parte di azioni umane dal giudizio morale e, addirittura, dal significato morale”, sostituendo l’etica, con un astratto bene comune, perché ciò che importa non è il sentimento umano, che può e deve essere calpestato, ma il risultato conseguito, quello prestabilito dal sovrano e che è indiscutibile: può essere messo in discussione solo dal sovrano stesso.
Il capovolgimento del senso di responsabilità ha quindi completato il quadro: non siamo più responsabili delle nostre azioni davanti alla nostra coscienza e ai nostri simili, ma lo siamo e lo sono gli altri di fronte a “regole”, non importa se assurde, pesantemente coercitive e astratte.
Quindi diventa necessario privare gli esseri umani di ogni tendenza e sentimento che possa portare a violarle, persino la relazione umana paritaria con l’altro.
Il distanziamento diventa il primo necessario passo verso la “cura”: l’assoggettamento catartico per la costruzione di una “nuova normalità”, il consegnarsi di nuovo completamente mani e piedi al dominus.
Ma non solo, l’interagire dei due piani di sorveglianza, ne crea un altro: quello della sorveglianza verso il prossimo.
Ca-pi-ta-li-smo del-la sor-ve-glian-za
-
- Un nuovo ordine economico che sfrutta l’esperienza umana come materia prima per pratiche commerciali segrete di estrazione, previsione e vendita;
- Una logica economica parassitaria nella quale la produzione di beni e servizi è subordinata a una nuova architettura globale per il cambiamento dei comportamenti;
- Una mutazione pirata del capitalismo caratterizzata da concentrazioni di ricchezza, conoscenza e potere senza precedenti nella storia dell’umanità;
- Lo scenario alla base dell’economia della sorveglianza;
- Un’importante minaccia per la natura umana nel Ventunesimo secolo, proprio come il capitalismo industriale lo era per la natura nei secoli Diciannovesimo e Ventesimo;
- L’origine di un nuovo potere strumentalizzante che impone il proprio dominio sulla società e sfida la democrazia dei mercati;
- Un movimento che cerca di imporre un nuovo ordine collettivo basato sulla sicurezza assoluta;
- Un’espropriazione dei diritti umani fondamentali che proviene dall’alto: la sovversione della sovranità del popolo.
Shoshana Zuboff
Siamo chiamati a collaborare, e questo non aggiunge nulla ai vecchi totalitarismi, la novità sta semmai nella “libera creatività”, o in quella che percepiamo come tale: “fuori dagli schemi”, aiutati in questo dalla sofisticata mistificazione della realtà attraverso una cosmesi colorata e “open”.
Il totalitarismo, per come l’abbiamo conosciuto finora, puntava tutto sull’oppressione, sul terrore e sull’odio nei confronti dell’escluso e del nemico.
Il sistema ideologico era imposto con la forza del regime poliziesco, non coinvolgeva attivamente nell’elaborazione teorica, riservata alle élites, così come era riservata alle élites la componente esoterica. La propaganda serviva a irreggimentare, terrorizzare, fomentare l’odio, giustificare l’esclusione, e, alla fine, a conformarsi.
Tutto questo senza avere la necessità di mascherare, mistificare e occultare la vera natura dispotica, che anzi veniva rivendicata come salvifica.
Ciò che contava, ad esempio, nella mistica nazista era persuadere della natura divina del Fuhrer e della sacralità dell’Ordine del Sangue, rifacendosi però direttamente, nell’uso del linguaggio e nella manifestazione estetica del culto, alla trascendenza cristiana. Un misto di terrore divino, magnificenza e sacralità, che ammaliava le masse, proprio grazie all’uso di categorie vetero e neo testamentarie.
Il pensiero unico scientista attuale prevede invece un atto di fede “spontaneo e senza costrizioni”, ma in realtà tende a invadere tutti gli aspetti dell’esistenza umana, anche quel campo che in passato era esclusivo dominio della teologia dello spirito, annullandolo, in nome di un nuovo sentimento religioso, che promette esclusivamente salvezza e redenzione fisiche; ma attraverso la mortificazione e il disprezzo per il corpo, concepito sempre come qualcosa di malato, e la lenta ma inesorabile distruzione delle relazioni fisiche tra umani.
Quindi, l’adesione formale a una religione tradizionale diventa fattore secondario, così come diventa secondaria l’adesione a posizioni ideologiche otto-novecentesche ridotte a pura e vuota testimonianza.
Religioni e ideologie tradizionali vengono messe sullo stesso piano dell’uso di droghe, dello scegliersi l’identità sessuale che si preferisce, oppure del tifo per la squadra del cuore.
Le affinità e le divergenze con il passato vanno ben oltre il concetto di “potere strumentalizzante”, coniato da Shoshana Zuboff: siamo già in presenza di una nuova forma di vero e proprio totalitarismo.
Nel “dibattito” pubblico, amplificato tempestivamente dai media, ottengono legittimità addirittura proposte aberranti tipo la geolocalizzazione dei cittadini come forma di sorveglianza poliziesca: cos’altro rivela la sbandierata esigenza di controllare ogni individuo, se non la malcelata intenzione di voler trasformare la società in un immenso carcere?
Il Capitale è maschio e femmina insieme, e non è né l’uno, né l’altro, è appagamento attraverso la mercificazione, l’ottundimento dei sensi, la fine del desiderio, l’onanismo fisico e mentale, l’inazione e la pavidità. La postmodernità è finalmente davvero liquida.
La graduale svalutazione dei valori fondanti legati ai sistemi religiosi, ideologici e filosofici tradizionali, ha consentito allo scientismo neo-capitalista, dalle “magnifiche sorti e progressive”, di insinuarsi negli spazi lasciati liberi, per cercare di manipolare e dare una nuova direzione al senso di solitudine spirituale delle persone, sempre più ridotte a monadi senza identità e senza radici.
Le uniche indubitabili verità sono quelle tecno-scientifiche che sono alla base del recinto mentale in cui si è rinchiusi.
Qui la libera scelta cessa di esistere. Puoi solo aderirvi senza porti troppi dubbi, molto più che nell’epoca dei vecchi totalitarismi, quando esisteva anche un fuori, costituito da altri sistemi filosofico-ideologici e di governo. Ma è comunque ben accetta una collaborazione creativa, che ti faccia sentire parte di qualcosa, e allo stesso tempo dispensatore originale di idee.
Finché il pensiero è libero, dunque vitale, nulla è compromesso. Quando cessa di essere tale, tutte le oppressioni sono possibili, e già effettive, poco importa quale azione sia colpevole: l’intero senso della vita è minacciato.
Gilles Deleuze
Il paradigma medico-sanitario è indiscutibile e globale. Se lo metti in discussione sei tu ad auto escluderti: non vieni discriminato, ti poni ‘da solo’ fuori dalla realtà.
Sei peggio di un folle. Sei un asociale, pure se rivendichi maggiore socialità, in quanto interrompi l’unico contratto sociale che conta: quello con il Leviatano. Sei un nemico della “civiltà” e una minaccia per la salute, perché metti in discussione il Bene collettivo.
Questi nuovi nemici ricevono lo stigma di “negazionista”, “complottista”, “novax”, sono i nuovi eretici da criminalizzare e da condannare alla gogna.
Sono quelli che si oppongono strenuamente al sistema di sorveglianza, sia verticale sia orizzontale. Sono coloro i quali cercano di demolire il dominio superstizioso dello scientismo, ed è per questo che diventano pericolosi. Vorrebbero uccidere l’“utopia” di un’umanità perfetta, senza difetti e senza malattie.
Vengono quindi privati anche del diritto di essere riconosciuti come dissidenti e iscritti di autorità nelle suddette disprezzate categorie.
Ma, tutto ciò non basta, viene allora richiamato per intero il vecchio intervento autoritario mediante i provvedimenti arbitrari e restrittivi, e la propaganda. Si torna al terrore poliziesco, alla delazione e alla paura per il nemico interno ed esterno (meglio ancora se invisibile). Ma c’è una cosa che, però, il totalitarismo odierno condivide con quello del passato: un’enorme dose di fanatismo.
Un fanatismo alimentato anche dalla lobotomia e dalla distrazione di massa dell’onnipervasiva società dello spettacolo: financo dagli spot pubblicitari delle grandi multinazionali o dalle esternazioni di personaggi pubblici mediocri eletti a influencer.
La colonizzazione dell’immaginario nelle arti svolge in tutto ciò un ruolo determinante. Viene spacciata per pluralità di voci, di storie e di opere, ciò che è una visione unica del mondo. Salvo rarissime eccezioni, lo spirito critico e rivoluzionario dell’arte si è dissolto in una melma indistinta dalla qualità infima.
Ha vinto il conformismo del politically correct ed è deprimente constatare che persone presunte intelligenti e di cultura ci caschino.
I poteri dominanti, d’altronde, hanno raggiunto tecniche talmente sofisticate di manipolazione, finalizzate proprio alla “cattura cognitiva” degli strati più “consapevoli” della popolazione.
In sostanza, un intervento mirato sugli “intelligenti” e su chi ha un’alta percezione di sé, porta a risultati ben più efficaci di una semplice e generica manipolazione di massa: garantisce un collaborazionismo di “alto” profilo. Tutto si fonda sul fatto che anche un “senso critico”, intrappolato però nelle gabbie dell’ideologia e dello scientismo, può essere facilmente manipolato.
Questa è la grande novità rispetto al passato: l’illusione di possedere libertà individuali, accompagnata da una “dolce” persuasione e da tecniche di ingegneria sociale sempre più complesse, ma tutte esplicite ed evidenti, solo per chi sa vedere.
Molto spesso la morale (contrariamente agli insegnamenti di quasi tutti i filosofi etici moderni) non consiste nel conformarsi a norme vincolanti e universalmente accettate e obbedite, ma nel resistervi ostinatamente e con enormi costi personali.
Zygmunt Bauman
FONTE: https://sinistrainrete.info/articoli-brevi/20645-anselmo-cioffi-maschere-divinita-controllo-sociale-e-resistenza.html
STORIA
Somalia italiana.
Nei contratti di lavoro per indigeni premi di produzione e condoni per i debiti
Ho già avuto modo di chiarire qualunque dubbio sull’utilizzo della manodopera indigena in Somalia durante il fascismo. I lavoratori beneficiavano di contratti e la schiavitù non esisteva da anni, abolita dall’Italia in tutta la colonia sin dal 1893. Vi furono anche dei casi si sciopero da parte dei lavoratori.
Lavoratori somali con alle spalle i tukul (allineati) realizzati dalle aziende agricole
Nel caso specifico i due grossi comprensori agricoli della Somalia erano quello governativo di Genale e quella della SAIS “Società Agricola Italo Somala” presso il Villaggio Duca degli Abruzzi a Johar.
Qui i somali beneficiavano di due tipologie di contratto: il Contratto di lavoro per mano d’opera indigena fissa e del contratto di colonia per coltivazioni agricole, quest’ultimo sorto al Villaggio Duca degli Abruzzi e poi esteso anche a Genale con Decreto Governatoriale n. 7475 del 10 Maggio 1929, unendo i due tipi di contratto.
Nel “Contratto di colonia per coltivazioni agricole” il terreno dato al compartecipante (lavoratore indigeno) “dovrà essere in precedenza sistemato e in normale condizione di irrigazione” (art.1), inoltre “l’azienda provvederà a sue spese alla costruzione dei tukul necessari alla famiglia del compartecipante” e nel caso, in accordo tra le parti, “il colono rinunciasse ad abitare nel tukul dell’Azienda, dovrà ricevere alla fine di ogni anno agricolo un compenso di L.50” (art. 6).
Genale. La raccolta del cotone
Al momento della raccolta del cotone e “purché il cotone superi i kg. 300 di bioccoli per ettaro, sarà corrisposto al colono e versatogli settimanalmente un premio di L. 1 per ogni chilogrammo di bioccoli che venisse raccolto in più. Per le altre coltivazioni industriali, sarà corrisposto un premio equivalente al 20 per cento per quella parte di produzione eccedente il valore di L. 1000 per ettaro” (art. 10).
Il contratto di colonia aveva la durata di un anno e poteva essere rinnovato di anno in anno. L’anno terminava il 31 Marzo e si chiudevano i conti. “Se la metà del raccolto spettante al colono, sommata ai premi per le produzioni industriali ed ad altri eventuali suoi crediti, non fosse sufficiente ad estinguere il suo debito, la differenza residua dovrà essergli abbonata” (art. 11).
Con il Decreto Governatoriale n. 7486, del 15 Maggio 1929 “Disciplina del riposo settimanale dei lavoratori della Somalia italiana” si stabiliva che “tutti gli imprenditori e direttori di Aziende industriali e commerciali di qualunque genere devono concedere alle persone non appartenenti alla propria famiglia, comunque occupati nelle Aziende stesse, un periodo di riposo non inferiore ad ore ventiquattro consecutive per settimana” (art. 1).
di Alberto Alpozzi
Vuoi approfondire la storia del lavoro nelle colonie italiane? Leggi il romanzo storico “I prigionieri del sole” di Dante Saccani, concessionario agricolo di Genale negli anni Venti
“I prigionieri del sole – Vita dei concessionari di Genale” scritto da Dante Saccani venne pubblicato a puntate nel 1939 sulla rivista L’Italia d’Oltremare. Subì diverse censure e mai venne pubblicato interamente. Oggi per la prima volta questo romanzo coloniale viene editato, a cura di Alberto Alpozzi per Eclettica Edizioni, interamente con tutte le parti tagliate durante il Ventennio e con l’aggiunta di tre capitoli totalmente inediti. Una magnifica edizione illustrata di 236 pagine, con più di 60 immagini e commentata da più di 200 note. Il testo originale, mai pubblicato, è preceduto da un capitolo di analisi, dall’inquadramento storico e geografico. In chiusura l’elenco completo di tutti i concessionari agricoli italiani (150) in Somalia corredato dagli investimenti fatti, i finanziamenti ottenuti e un giudizio sul loro operato.
FONTE: https_italiacoloniale.com/?url=https%3A%2F%2Fitaliacoloniale.com%2F2021%2F04%2F13%2Fsomalia-italiana-nei-contratti-di-lavoro-per-indigeni-premi-di-produzione-e-condoni-per-i-debiti%2F
24 giugno 1922, le vere radici del nazismo
È fatto noto e acclarato che i semi della parabola fulminea e funerea di Adolf Hitler siano stati gettati inconsapevolmente a Versailles nel 1919, quando le potenze vincitrici scaricarono su una comatosa Germania l’intero (e antistorico) peso dello scoppio della Grande Guerra. Privata dell’impero coloniale, derubata di porzioni significative e strategiche del proprio territorio europeo, coartata al pagamento di riparazioni bancarottesche e sottoposta ad altri supplizi, la nazione tedesca, alcuni anni più tardi, avrebbe cercato la rivalsa cedendo alle lusinghe del nazismo e venendo rapita dal carisma travolgente del suo facondo Führer.
Eletto al cancellierato nel 1933, Hitler avrebbe fatto del Judenhass il motivo conduttore dell’esistenza propria e della nuova Germania, che, nei suoi sogni, avrebbe dovuto durare un millennio. L’epopea nazista non avrebbe superato i dodici anni, perché sepolta dalla Seconda guerra mondiale, ma quel breve tempo le sarebbe bastato per cambiare per sempre il corso della storia dei popoli e delle relazioni internazionali.
Passano gli anni, ma la domanda che tormenta gli storici rimane la stessa: la terrifica ascesa di Hitler avrebbe potuto essere predetta dai suoi contemporanei? Probabilmente sì. Perché nel 1933 i tedeschi non elessero un volto nuovo della politica, ma il regista di un tentato colpo di Stato, il celebre Putsch della birreria (Bürgerbräu-Putsch) del 1923, e l’autore di un corposo e dettagliato manifesto politico, il Mein Kampf. Ma prima ancora che il giovane Hitler si dedicasse al golpismo e alla scrittura, qualcosa di profetico accadde nella turbolenta Germania di Weimar. Un presagio funesto di ciò che sarebbe successo nella decade successiva: l’assassinio di Walther Rathenau.
Rathenau, il patriota incompreso
Walther Rathenau nacque a Berlino il 29 settembre 1867 da Emil Rathenau e Mathilde Nachmann. Il padre, Emil, era uno dei più noti imprenditori elettromeccanici dell’epoca – fondatore dell’AEG, gigante mondiale della metalmeccanica e dell’elettronica attivo fino al 1996 –, nonché uno dei più ricchi ed influenti ebrei di Germania.
Vani i tentativi di Emil di iniziare Walther agli affari di famiglia e allevarlo al culto degli antenati (l’ebraismo): terminato il ciclo di studi universitari, centrati sulle scienze e sulla fisica, e dedicati alcuni anni all’internazionalizzazione dell’ascendente marchio AEG, il giovane Rathenau si sarebbe dato alla politica, sua vera e grande passione, coerentemente con il credo laico e patriottico manifestato sin dalla giovinezza.
Entrato nelle stanze dei bottoni agli albori della grande guerra, ovvero nell’estate 1914, Rathenau avrebbe fatto il possibile per evitare la disfatta dell’impero tedesco. Sua fu, ad esempio, l’idea di istituire il KRA (acronimo di Kriegsrohstoffabteilung), un dipartimento del ministero della Guerra adibito all’immagazzinamento preventivo dei beni a rischio embargo, al reperimento nell’estero vicino di materiale utile alla produzione bellica, allo stabilimento dei prezzi dei beni-chiave per le industrie strategiche e alla supervisione della produzione di beni succedanei.
Come è noto, Berlino perse il conflitto, ma gli sforzi di Rathenau furono ricompensati dalla dirigenza della neonata Repubblica di Weimar. Dapprima avvicinato dalle alte sfere per suggerimenti in merito alla formulazione di una politica economica che potesse soddisfare simultaneamente le esigenze interne (la distruzione dell’apparato produttivo) e quelle esterne (i danni di guerra), in seguito gli sarebbe stato afffidato il fascicolo più sensibile: lo stabilimento di rapporti segreti con l’Unione Sovietica ai fini del riarmamento e dell’apertura ad Est del mercato tedesco.
Sullo sfondo del coinvolgimento negli affari di Stato, Rathenau avrebbe lavorato per conto proprio all’efficientamento della realtà imprenditoriale tedesca, da lui ritenuta poco propensa all’innovazione e debole in fatto di internazionalizzazione, fondando la Lega per l’industria nel 1919.
Patriottico, più che nazionalista, Rathenau fu tra i fondatori del Partito Democratico Tedesco (DDP, Deutsche Demokratische Partei), dal quale si sarebbe presto allontanato, e figurò nell’elenco dei “grandi preoccupati” per il destino della Germania, secondo lui diretta, causa guerra e malagestione del postguerra, verso una progressiva e deleteria estremizzazione in blocchi contrapposti.
L’assassinio
L’omicidio di Rathenau non sarebbe maturato nel contesto della tremenda crisi economico-finanziaria della Repubblica di Weimar – i cui vertici, tra l’altro, non ascoltarono i suggerimenti proposti dall’uomo in materia di ristrutturazione del mercato interno e ripensamento del modus operandi del sistema produttivo nazionale in direzione della razionalizzazione dei processi e della socializzazione dei mezzi di produzione –, ma in quello dell’albeggiante e germinale sottobosco nazista, composto da una miriade di sette fratellanze paramassoniche, società segrete e organizzazioni politiche.
Investito dal governo del prestigioso titolo di capo del ministero degli Esteri, il 16 aprile 1922, dopo un anno di trattative sottobanco, Rathenau riuscì a posare la prima pietra del patto tedesco-sovietico: il trattato di Rapallo. Vero e proprio capolavoro dell’arte diplomatica, il trattato avrebbe permesso a Berlino, in cambio della rinuncia ad ogni richiesta di indennizzo di guerra e di risarcimento per gli espropri effettuati dai comunisti, di raggiungere tre importanti obiettivi:
- L’allontanamento dalla condizione di isolamento a livello internazionale a mezzo dello stabilimento di relazioni bilaterali ufficiali con l’Unione Sovietica.
- L’appianamento, anche se superficiale e temporaneo, della crisi economica attraverso l’agganciamento del mercato tedesco a quello sovietico: complementari per natura ed egualmente bisognosi di boccate d’aria.
- L’avvio di un’ascosa rimilitarizzazione sul territorio sovietico, lontana dagli occhi indiscreti delle potenze vincitrici della Prima guerra mondiale e inclusiva della possibilità di effettuare sperimentazioni belliche e ottenere tecnologia militare.
L’ultimo punto, accuratamente eliminato dalla versione presentata al pubblico, si sarebbe rivelato determinante negli anni a venire, come dimostrato dalla rapida corsa alle armi della Germania nazista. I posteri avrebbero ringraziato Rathenau per il trattato di Rapallo, ma una parte dei contemporanei, letto il contenuto – privo del punto numero tre – e avendo a mente le origini del ministro, gli avrebbe assegnato un significato squisitamente negativo, ritenendolo l’evidenza lapalissiana di un complotto giudaico-bolscevico teso alla sottomissione del popolo tedesco al comunismo.
Il trattato di Rapallo sarebbe costato la vita a Rathenau, il patriota incompreso. Il 24 giugno, a poco più di due mesi dalla firma del documento, il ministro degli esteri tedesco fu ucciso nel corso di un agguato a colpi di mitra e granate condotto da Ernst Werner Techow, Erwin Kern e Hermann Fischer. La verità emerse rapidamente: i tre avevano ricevuto l’ordine di uccidere da un gruppo terroristico noto come Organizzazione Consul (Organisation Consul), che solo un anno prima aveva rivendicato l’omicidio del ministro delle finanze Matthias Erzberger.
Poco si sa di questa organizzazione terroristica, a parte che fosse ferocemente giudeofobica, che fosse composta principalmente da reduci di guerra e che anelasse a trascinare la nazione nel caos attraverso gli omicidi di personalità prominenti della politica. L’obiettivo dell’Organizzazione Consul, sostengono gli storici, sarebbe stato quello di gettare la Germania nella guerra civile e profittare delle violenze per consumare un colpo di Stato. Non avrebbero mai raggiunto il loro scopo, perché rapidamente sgominati all’indomani dell’omicidio di Rathenau, ma dieci anni più tardi qualcun altro avrebbe raccolto il loro scettro, utilizzando lo stesso repertorio propagandistico – dai Protocolli dei Savi di Sion al complotto giudaico-bolscevico – ed una violenza persino maggiore: Adolf Hitler.
FONTE: https://it.insideover.com/politica/24-giugno-1922-vere-radici-del-nazismo.html
°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°