RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI
25 MAGGIO 2020
A cura di Manlio Lo Presti
Esergo
Il povero intelligente è un osservatore assai più sottile
che non il ricco intelligente.
KNUT HAMSUN, Fame, Cap. III
In: Tra virgolette. Dizionario di citazioni, Zanichelli, 1995, pag. 340
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SOMMARIO
I 60.000 della Gestapo de’ noantri
IL POTERE ITALIANO NEL MIRINO DELL’FBI. TREMA IL SISTEMA ITALIA E IL NUOVO ORDINE MONDIALE
App Immuni: arriva tra 15 giorni
MASCHERINA BIRICHINA
L’inferno: microchip obbligatorio e vaccini imposti col Tso
Bando per 60 mila assistenti civici in arrivo: chi sono e quali saranno le loro funzioni
ASSISTENTI CIVICI, OVVERO GUARDIE PAGATE PER PUNIRE I “PERICOLOSI” KILLER DELL’APERICENA
NOI, CON LA STELLA GIALLA
Quando Ciampi ammetteva la cessione di sovranità davanti a milioni di italiani
MESSAGGIO DI FINE ANNO DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA CARLO AZEGLIO CIAMPI AGLI ITALIANI
Rimborso Canone Rai per coronavirus, ma è una truffa: attenzione a questa email
Mi chiedo…
Sanità lombarda
La Germania rompe con i Fratelli Mussulmani
Turchia: “I resti della spada” di Erdoğan
La resa dei conti tra Occidente e Cina all’assemblea dell’OMS
sitrà-ahra
Gli scacchi e il Corano: come sfuggire al vuoto della prigionia
Reazione popolare di Napoli contro la polizia
IL GOVERNO PUNTI SULLE IMPRESE CONTRO LA CRISI
LA GERMANIA MUNGE L’UE
Economia sana?
Limite pagamento contanti dal 1° luglio 2020: importo, sanzioni e novità
IL REGALO DEL GOVERNO ALLE BANCHE CON LE NORME EMERGENZIALI SUL PROCESSO CIVILE
Il responsabile inesistente
Settario
IL DIVIETO DI LICENZIAMENTI AL TEMPO DEL “CORONAVIRUS”
ARRIVA LA SECONDA ONDATA: OSPEDALE CHIUSO IN CINA
Oms mandò Gates
QUESTA GESTIONE ECONOMICA DELLO STATO CI PORTERÀ AL CONFLITTO SOCIALE
LA DERIVA AUTORITARIA DELLO STATO CON LA SCUSA DEL VIRUS, L’APP IMMUNI E TANTO ALTRO
Mascherine inutili
Effetti collaterali del lockdown: i “sepolti vivi”
LUCIFERASI: VACCINI IN MASSA PER I BAMBINI
L’affascinante vita di Amedeo Guillet, l’ufficiale italiano che si prese gioco degli inglesi
EDITORIALE
I 60.000 della Gestapo de’ noantri
Manlio Lo Presti – 25 maggio 2020
Mentre la ex-italia va in fiamme abbiamo:
- disordini sociali che stanno aumentando,
- la crisi economica che sta sfaldando il tessuto connettivo socioeconomico del Paese,
- i disoccupati in vertiginoso aumento per la crisi e per le carte scoperte del lavoro da casa,
- l’isolamento incostituzionale di massa che sta facendo emergere una ondata di disturbati mentali, fobici, paranoici, ipocondriaci. Un costo ancora da stimare, ma sarà ingente,
- una produzione regolamentare ipertrofica e inapplicata (oltre 250 “provvedimenti amministrativi” senza forza di legge emessi dal governo fantoccio Badoglio 2.o)
- l’avatar del colle totalmente assente,
- la magistratura in frantumi a causa delle lotte intestine dei capibastone che vogliono dividersi le spoglie della ex-italia,
- un parlamento paralizzato i cui componenti sono stati al 95% cooptati perché ricattabili frontalmente, individualmente, direttamente,
- il 30% dei ridetti parlamentari hanno avuto onorificenze, posti prestigiosi, soldi e cattedre dalla République Française (chissà perché una simile “generosità”),
- saccheggio dei marchi industriali prestigiosi da parte di stranieri, al punto tale da interessare i servizi segreti italiani per interesse nazionale;
- il sistema scolastico collassato da decenni: la scuola non deve insegnare nulla, né deve insegnare a pensare
- le otto mafie che agiscono indisturbate e, anzi, sono in debito con lo Stato per la scarcerazione di oltre 300 esponenti eccellenti che si sdebiteranno con la riedizione di una nuova stagione delle bombe ancora più sanguinaria della precedente per evitare che la popolazione possa votare con la scusa dello stato d’emergenza e con immediata sospensione dei diritti civili e costituzionali,
- dopo la morte di migliaia di donne e bambini sotto le bombe delle otto mafie per ordine degli apparati endogeni ed esogeni alla repubblica morente, viene nominato il centosessantacinquesimo capo di governo-non-eletto per completare lo sterminio della ex-italia.
TUTTO CIÒ PREMESSO
Quanto sopra abissalmente, totalmente, vigliaccamente ignorato, l’attuale governo Badoglio 2.0 ha ben diverse priorità:
- continuare a terrorizzare la popolazione italiana, per farla ritornare nei recinti,
- punizione esemplare e minatoria di tutti coloro che girano senza mascherina perché elementi ribelli da internare con T.S.O.,
- diffondere in massa la app di tracciamento,
- promuovere vaccinazioni di massa
- montaggio obbligatorio sottopelle di microchip.
P.Q.M.
I registi OMS-OBAMA-CLINTON-SOROS-ZUCKERBERG-BEZOS-KISSINGER-PELOSI hanno ordinato esecutivamente al Badoglio 2.0 di assumere 60.000 assistenti civici con urgenza!!!(1)
Continuano le operazioni su vasta scala di umiliazione e repressione della popolazione italiana che deve essere portata al punto di non poter reagire alla assunzione del vaccino che produrrà oltre 25.000.000.000 di euro di ricavi alle solite 4/5 farmaceutiche mondiali!
La pressione concentrica di tutte queste intimidazioni sta facendo della ex-italia il primo terreno
- di sperimentazione dei vaccini,
- delle app di tracciamento,
- dei braccialetti elettronici,
- dei microchip sottocutanei,
- degli elicotteri assordanti intimidatori e irritanti,
- delle mascherine indosso per poter accedere a supermercati, aeroporti, stazioni ferroviarie, negozi,
- di migliaia di droni che pattugliano le città,
- delle spiagge presidiate dai pretoriani-nuove-SA,
Se i piani alti avessero usato un decimo di questi strumenti di controllo socio-elettronico per il controllo delle risorse-INPS, ci sarebbero state meno violenze e pochissimi spacciatori/geometri.
Italiani sterminati negli ospedali alle 2.30 di notte, istupiditi da 76 ore al giorno di bombardamento autorazzistico- mediatico di terra, di mare e di aria, i posti di lavoro scientificamente eliminati, incertezza del futuro, paura, disordini crescenti.
TUTTO QUESTO PER PRENDERE LA EX-ITALIA PER FAME E FARE ACCETTARE ALLA POPOLAZIONE I 35 MILIARDI DELLA TROJKA INVECE DELLA EMISSIONE DI TITOLI DI STATO DA FAR SOTTOSCRIVERE AGLI ITALIANI DEMMERDA SPRECONI CHE PERÒ HANNO LA SFACCIATAGGINE DI AVERE UN AMMONTARE DI RISPARMI NAZIONALE PARI AL DOPPIO DI QUELLO ESISTENTE IN TUTTI I 26 PAESI EUROPEI MESSI INSIEME!!!!!!!!
Le premesse per l’inizio di una guerra civile sono sempre più numerose.
Purtroppo, dovremo attendere che la rana sia completamente bollita …
NOTE:
IN EVIDENZA
IL POTERE ITALIANO NEL MIRINO DELL’FBI. TREMA IL SISTEMA ITALIA E IL NUOVO ORDINE MONDIALE
Trump sta per colpire Soros, Gates, Obama, Clinton e loro compagni italia
di Ruggiero Capone – 23 05 2020
Quando nel 2017 saltava agli onori delle cronache la vicenda dei fratelli Occhionero per accesso abusivo a sistemi informatici, l’opinione pubblica non dava peso alla notizia o reputava la storia troppo lontana dagli interessi dell’Italia. Giulio Occhionero avrebbe, secondo l’accusa, spiato i computer di Camera, Senato, ministeri, Pd, Finmeccanica e Bankitalia.
Francesca Maria Occhionero è stata anche lei condannata in primo grado, e perché avrebbe ficcato il naso nelle caselle di posta elettronica (protette da password di accesso) di “professionisti del settore giuridico-economico” riconducibili ad enti pubblici e politici eletti.
Una vicenda che ora inizierebbe a prendere corpo, e perché l’Italia è da tempo inveterato un po’ come la Turchia prima di Ataturk (terra di bivacco per barbe e baffi finti) ed un po’ come il “ponte delle spie” in piena guerra fredda (lì si scambiavano informazioni e prigionieri).
Per farla breve, i servizi segreti Usa con molta probabilità usavano gli Occhionero per verificare i movimenti del Pd italiano come di certi grillini: gente troppo legata a George Soros, Bill Gates, Barack Obama, Joe Biden, affaristi cinesi e vari orditori di “Russiagate”.
Del resto la telefonata di Bill Gates a Giuseppe Conte ha un illustre precedente nell’incontro tra George Soros e Paolo Gentiloni.
Sia Conte che Gentiloni, entrambi nel ruolo di premier, hanno trattato con i grandi gestori dei fondi finanziari del Partito Democratico degli Usa.
Ovvero i fondi che, oltre a pagare le campagne elettorali e “filantropiche” di Hilary Clinton, finanziano i vari “Russia gate” per infangare i nemici, la disinformazione ed i “golpisti democratici”.
Non dimentichiamo che Bill Gates ha ottenuto nel governo italiano un gran bel cavallo di Troia, ovvero Vittorio Colao che, oltre a gestire a Londra il fondo Atlantic, è il consulente finanziario di Microsoft per il 5G cinese.
Quando gli Occhionero venivano indagati, Soros incontrava l’attuale commissario europeo Paolo Gentiloni durante il suo mandato da premier italiano: un speculatore finanziario veniva ricevuto a Palazzo Chigi con onori degni di un capo di Stato?
Non è certo un caso che la cena tra spioni italiani e professor Joseph Mifsud (docente al Link Campus ora sotto indagine) si sia svolta nel Palazzo marchigiano dei Gentiloni.
I servizi segreti vicini a Donald Trump certamente non dormivano in piedi, avranno pure drizzato le antenne: oggi presentano il conto. Infatti, starebbero per piovere mandati di cattura, da parte della magistratura americana, sugli autori del complotto internazionale teso a distruggere la presidenza Trump.
Sarebbero nel mirino dell’Fbi nomi eccellenti dell’ingegneria finanziaria che svolgono consulenze per il fondi di Hilary Clinton, George Soros, Bill Gates, Barack Obama, Joe Biden.
Nel mirino della magistratura americana anche alcuni deputati del Pd italiano, imprenditori e speculatori. Ed anche magistrati.
I nomi che potrebbero finire sotto il mirino dell’Fbi sono Renzi, Carrai ed il Pm Albamonte, già sotto inchiesta a Perugia.
Una folta rete che avrebbe fatto sponda con gli interessi del leader cinese Xi Jinping.
Negli Stati Uniti l’alto tradimento è una cosa seria, qui da noi è uno sport che paga soprattutto in politica (vedasi caduta della Prima Repubblica).
I politici italiani potrebbero sfangarla con lo scudo Mattarella, che potrebbe evitare loro una rogatoria internazionale. Ma il mese di giugno sarà determinante per il sistema Italia, mai così in crisi e a rischio crollo.
Così come il potere e le ricchezze di Hilary Clinton, George Soros, Bill Gates, Barack Obama e Joe Biden non basteranno per deviare l’inchiesta. Trump sta riservando loro un bel piattino, ben più amaro di quello che Joseph McCarthy serviva nel 1955 ai filosovietici.
E se Trump la spuntasse sarebbe la fine di “nuovo ordine mondiale” e globalisti di “finanza&farmaco”.
L’inferno: microchip obbligatorio e vaccini imposti col Tso
Il vaccino è soltanto un passaggio intermedio. L’obiettivo finale non è il vaccino: perché, per quanti soldi si possano fare vaccinando 60 milioni di italiani, non è questo l’obiettivo finale. Certo i vaccini sono una cosa bellissima, per Big Pharma, perché non c’è niente di meglio che curare i sani, nella storia della medicina. Curare a pagamento dei sani è il meglio di qualsiasi business legato alla medicina post-ippocratica. Ma il vero problema è che il vaccino è soltanto una tappa intermedia, verso il pieno controllo bio-tecnologico e bio-politico dell’umanità, con tecnologie che mettano insieme la biologia e la biochimica con l’elettronica. Questo è l’orizzonte di senso a cui personaggi come Bill Gates e le sue aziende lavorano, ormai da molti anni. L’arricchimento della grande élite è secondario, è quasi un effetto collaterale. Il problema fondamentale è il controllo del sistema. Noi dobbiamo fare attenzione, per non cadere nella trappola e non apparire dei dietrologi, dei paranoici deliranti; dobbiamo vedere le cose, ognuna, “iuxta propria principia”. Quando gli Achei salpano per distruggere e conquistare Troia, sono mossi – come ci spiega bene Omero – da una gamma di desideri diversi.
Agamennone vuole affermare la sua supremazia su tutti i regni della Grecia. Menelao vuole vendicare il tradimento della moglie, Elena, e recuperarla. Aiace vuole far vedere che è il più forte. Ulisse si piega, pure alla partenza, dovendo realizzare un suo progetto, che non si si risolverà neanche nell’Odissea. E Achille deve riaffermare la sua natura divina-umana. Cioè: sono tutti mossi da finalità diverse, come in fondo ci spiega questa grande epopea psicologica che è l’Iliade; ma tutti convergono su un obiettivo, che è la conquista e la distruzione di Troia. Anche nel nostro caso, evidentemente, ci sono molti interessi, diversi ma convergenti. L’interesse su cui convergono è il fatto di mettere l’umanità sotto controllo. Le ragioni per cui diversi soggetti debbano mettere l’umanità sotto controllo sono svariate, ovviamente. Qualcuno dovrà vendere i microchip per metterli sotto la pelle di tutti, qualcuno dovrà vaccinare tutti, qualcuno dovrà avere un sistema monetario che non risenta di capricci come quelli dei titoli-spazzatura e del problema della monetazione delle monete sovrane. Qualcuno dovrà distruggere ogni principio di sovranità nazionale, alla luce di un diabolico governo globale.
Questi interessi convergono: così come nel caso dell’Iliade la distruzione di Troia, in questo caso l’interesse convergente è la distruzione di tutte quelle libertà (costituzionali, civili, giuridiche, individuali e collettive) su cui è nata la grande epopea sorta con la Pace di Westfalia, attraversando poi la Rivoluzione Inglese (quella delle Teste Rotonde), la Rivoluzione Americana di Washington, Franklin e Madison, la Rivoluzione Francese con i suoi esiti, arrivando fino ai Risorgimenti nazionali dell’800, per creare invece un ecumene tecnologico iper-controllato, governato da un’élite platenaria in cui si entra per cooptazione. E’ un disegno luciferino, che sembra marciare con un’agenda implacabile. Anche perché, su questo, convergono molti interessi inconfessabili. Quando oggi si dice, per esempio, che l’unico principio ispiratore, l’unico attrattore strano del caso, l’unico principio organizzatore generale di una società con 9 miliardi di uomini non può che essere la scienza, si perde di vista il fatto che non solo non esiste, una scienza con la S maisucola, neutrale, e non solo gli scienziati non sono gli efori, i sacerdoti della verità metafisica; ma ci sono mille interessi che convergono: quelli delle Big Pharma, di chi vuole mettere sotto controllo il mercato della salute, in tutte le sue implicazioni (il mercato della vita e della morte).
E quindi è chiaro che, in questa situazione, non è del tutto scontato che non si possa prendere atto che il dottor Fauci, denunciato anche da sue collaboratrici, non sia guidato soprattutto dal tema dei brevetti dei vaccini o dalle case farmaceutiche, piuttosto che dagli interessi comuni della popolazione degli Stati Uniti d’America. Però, questo blocco storico (uso un termine gramsciano) è saldato in modo talmente forte, che queste idee – che possono sembrare un po’ dietrologiche e paranoiche – in realtà si saldano con un processo storico che è molto forte e molto chiaro. Nel piano della globalizzazione, del mondo senza frontiere, della finanza globalizzata dei Rothschild, dei Rockefeller, dei Soros e dei Bill Gates, è stata già stabilita una divisione internazionale del lavoro. All’estremo Oriente, alla Cina deve andare tutta la manifattura, che con la sua plusvalenza accumulata deve comprarsi il debito americano e la potenza anche militare degli Stati Uniti. L’Europa dev’essere ridotta a qualcosa che è una via di mezzo tra quel po’ di industria che rimane in Germania e un gerontocomio (o una pizzeria) come l’Italia; e comunque, essendo un continente invecchiato, l’Europa deve essere destinata all’afro-islamizzazione demografica, come già aveva preconizzato Oriana Fallaci una trentina d’anni fa.
E in questo quadro, chiunque rappresenti un ostacolo dev’essere spazzato via come una formica, e spiaccicato. Non esiste più nessuna libera informazione: c’è un mainstream implacabile. Siamo arrivati al ricorso al Tso, per chi contesta il lockdown? Del trattamento sanitario coatto è sempre stato fatto un uso dovizioso in tutti i regimi, a partire da quello staliniano: se si rifiuta una società “perfetta”, o si è criminali o si è matti, perché si rifiuta il proprio bene. Quella del Tso “per il bene comune” è l’idea che sta alla base di questa filosofia del diritto. In Italia ci sono due modi per costringere qualcuno a subire il trattamento sanitario coatto: uno è psichiatrico e l’altro – guardacaso – è epidemiologico, infettivologico. L’isolamento e la quarantena obbligatoria per chi rischia di propagare una malattia è un intervento coatto, esattamente come il Tso psichiatrico, che viene applicato in modo arbitrario. Il Tso psichiatrico viene prescritto da un medico psichiatra, dipendente pubblico, e confermato da un secondo collega che ne recepisce la diagnosi. Poi deve essere ratificato entro 24 ore dal sindaco, quindi dal giudice tutelare.
E’ chiaro che tutto questo implica qualsiasi arbitrio possibile: le ragioni per cui un soggetto possa essere considerato pericoloso a sé e agli altri sono infinite. Potrebbe essere qualcuno che brandisce un’ascia e vorrebbe fare a pezzi la nonna, ma potrebbe essere qualcuno che vuole suicidarsi gettandosi dalla finestra. O qualcuno che non vuole sottoporsi a una terapia, che a quel punto gli viene imposta con la forza. A Testimoni di Geova sono state imposte trasfusioni, col pretesto di salvare una vita. Se lo psichiatra arriva perché il paziente non vuole ricevere quello che è “buono, santo e giusto” per lui, siamo entrati in questa fattispecie. Ed è quella che, credo, verrà usata in modo sistematico: nel nome del pietismo, della filantropia, del benessere individuale e collettivo, e del bene supremo della salvezza della vita – che diventa qualcosa di assoluto, ipostatizzato e mitizzato, anche al di fuori di qualsiasi valutazione razionale. Cioè: se noi abbiamo un vaccino con cui ti puoi salvare da una malattia incombente e tu non te lo vuoi fare, tu non stai facendo il tuo bene; e quindi noi saremo costretti a ricoverarti in ospedale, foss’anche per 48 ore, praticarti il vaccino e poi dimetterti.
Ho fatto il primario di psichiatra per tanti anni, e ho visto imporre trattamenti coatti a schizofrenici cronici: rifiutavano la terapia farmacologica, non gliela si poteva praticare in casa, e allora lo psichiatra del territorio (con la copertura dello psichiatra direttore del dipartimento ospedaliero di salute mentale) confermava il Tso anche con un ricovero tipo day hospital, lì veniva praticata l’iniezione – che ha una durata d’efficacia di tre settimane – e dopodiché il paziente veniva dimesso. Ecco: questo è il futuro che si prepara, per noi. Quindi, anche dentro la psichiatria, occorrerà una battaglia serrata. Ma purtroppo ho un’opinione veramente bassa dei miei colleghi, ormai per lo più ridotti a propagandisti di case farmaceutiche, pronti a vendersi anche la nonna per farsi una settimana di vacanza alle Maldive; pur di non perdere il primariato e i premi che ricevono da Big Pharma, saranno pronti a dire: «Ma come, non vuole fare il vaccino? Lei forse non sta bene, è depresso, ha un disturbo ossessivo-compulsivo; noi la ricoveriamo (anche soltanto per 48 ore), le facciamo il vaccino e poi la dimettiamo». Vedrete che finirà così.
Conoscendo i miei mediocri colleghi, il Tso sarà uno strumento fortissimo. Su questo, bisognerà organizzare una linea di difesa anche giuridica, da subito, cominciando a castigare i primi che si prestano a fare i “bravi”, i poliziotti di questo sistema. Io mi candido a fare il perito d’accusa della parte civile. Sono a disposizione, gratuitamente, per colpire il primario di quel reparto, cercare di farlo destituire e mettere in galera, se possibile. Sul caso di Agrigento, facciamo subito un esposto in Procura e alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. O sinceriamoci che lo stiano già facendo: bisogna attaccare preventivamente, perché questi personaggi, che si mettono a disposizione del propagandista delle case farmaceutiche, non è che siano dei cuor di leone. Io li conosco bene, è gente che tiene famiglia: se capisce che il potere è da una parte, si schiera; ma se capisce che dall’altra parte c’è un contropotere, si defila. Perché sono “minuta gente” manzoniana: è un “popol disperso” che non ha pace, non ha dignità. Basta fargli un “bau”, a volte, per spaventarli.
Il problema però non è nemmeno il vaccino, in questo caso. Ci verrà inoculata una qualche sostanza nel momento in cui il Covid non farà più paura neanche a un gatto, perché avrà esaurito la sua funzione e la sua dimensione patogenetica. A un certo punto, per non andare in galera, non finire in manicomio o per non perdere il nostro lavoro, potremmo anche accettare di metterci nel corpo un po’ di acqua sporca, sperando che non ci faccia troppo male. Ma non è questo, l’obiettivo finale, credetemi: fosse tutto qui, sarebbe ancora poca cosa. L’obiettivo finale è la moneta unica platenaria, veicolata da un microchip, collegata alle nostre condizioni di salute. Microchip che tutti dovranno mettersi, come il segno dell’Apocalisse: l’elettrodo sulla fronte, o sotto la pelle della mano, senza il quale nessuno potrà né comprare né vendere (il Segno della Bestia, il 666). Non voglio apparire un mistico pazzo, ma credetemi: quello che si sta delineando è proprio questo. Moneta unica, sistema giuridico unico, salute unica. Tutto questo, per una società filantropica governata da quello che Soloviev definisce l’Anticristo: pacifico filantropo macrobiotico, vegetariano, ecologista, con Greta Thunberg come consulente.
E’ un potere pervasivo, perfetto: che non ha bisogno dei nostri soldi, perché li stampa. Il problema è che, perché un sistema di controllo funzioni, di fronte a un capitalismo tradizionale, servono nuove soluzioni: intanto deve ridurre la popolazione mondiale, e poi ha bisogno di una società divisa in caste, come nel “Nuovo mondo” di Huxley, dove c’è un’élite di Alfa che non si vedono neppure. Serve una castizzazione della società che metta gli uomini in condizioni giuridiche, psicologiche e antropologiche diverse. Sotto gli Alfa invisibili ci sono i Beta che si vedono (i Soros, gli Zuckerberg, i Bill Gates), poi ci sono i Gamma, che sono gli esecutori politici (tipo il povero professor Conte, avvocato dello studio Alpa), e poi sotto ci sono i carabinieri, i lavoratori, gli impiegati dell’Agenzia delle Entrate, gli operai. E ancora più sotto ci sono gli Epsilon, che devono vivere con 600 euro al mese prendendosi solo il Soma, che è la droga dell’inebetimento.
Questo, credetemi, è il disegno complessivo. Ed è un disegno ben pensato, perché tiene conto dell’ingovernabilità della complessità. L’unica forza che abbiamo non è l’opposizione consapevole, perché in questo siamo sicuramente perdenti. Dobbiamo sperare nelle leggi universali del caos. Il grande imperatore Carlo V, sul cui impero non tramontava mai il sole, dal Messico ai Balcani, dopo aver lasciato le colonie d’America e la Spagna al figlio Filippo II e l’impero asburgico a Ferdinando, si ritirò in un convento benedettino in Germania, dove la sua passione era far funzionare una trentina di orologi meccanici. E passò gli ultimi giorni della sua vita dicendo: «Quanto sono stato pazzo, a pensare di controllare tutti i popoli del mondo, quando non sono riuscito a far marciare insieme nemmeno 30 orologi». E’ su questo, che i luciferini del controllo potrebbero cascare. Una cellula impazzita è Trump, un’altra è Putin, altre ancora siamo noi che facciamo questi discorsi, facendoci passare per pazzi, contro i nostri interessi materiali, accademici, categoriali. Siamo noi stessi delle schegge impazzite: siamo sfide nella complessità. Mattoidi, quasi pronti per il Tso.
(Alessandro Meluzzi, dichiarazioni rilasciate il 16 marzo 2020 nel dibattito “Alla ricerca della verità”, in diretta web-streaming sulla pagina Facebook di Leonardo Leone, con la partecipazione di Ugo Mattei e Massimo Mazzucco; il video è ora disponibile anche su YouTube. Notissimo psichiatra, nonché criminologo, saggista e accademico, Meluzzi – di formazione comunista – è stato poi deputato e quindi senatore eletto con Forza Italia nel 1994 e nel 1996. Massone, ha fatto parte del Grande Oriente d’Italia. Approdato al cristianesimo, è stato diacono cattolico di rito greco-melchita e poi presbitero della Chiesa ortodossa italiana autocefala, divenendone primate).
Bando per 60 mila assistenti civici in arrivo: chi sono e quali saranno le loro funzioni
24 Maggio 2020
Via libera al reclutamento tra i disoccupati di 60 mila assistenti civici: bando atteso la prossima settimana, ecco a cosa serviranno.
In arrivo un nuovo bando per il reclutamento di oltre 60 mila persone a cui affidarsi per la gestione nei controlli nella fase due: si chiameranno assistenti civici e saranno reclutati su base volontaria. Per loro, quindi, non sarà previsto uno stipendio.
Si tratterà comunque di una figura molto importante per la fase due, visto che gli assistenti civici saranno dei veri e propri collaboratori delle istituzioni e daranno alla Protezione Civile – dove questi saranno impiegati – il supporto di cui necessita.
Il bando per il reclutamento di 60 mila assistenti civici verrà pubblicato la prossima settimana, come annunciato dal Ministro per gli Affari regionali, Francesco Boccia, e dal presidente dell’ANCI – nonché sindaco di Bari – Antonio Decaro. Con il bando saranno più chiari i dettagli a riguardo, ma nel frattempo è già chiaro quale sarà il supporto che questi saranno chiamati a dare.
Assistenti civici a supporto delle istituzioni nella fase due
È in programma il reclutamento di 60.000 assistenti civici impiegati presso le Protezione Civile per dare supporto ai Comuni per le attività sociali, come ad esempio per garantire il rispetto del distanziamento sociale o anche per dare un sostegno alla parte più debole della popolazione.
Come spiegato dal Ministro Boccia, adesso è il momento di reclutare tra tutti “quei cittadini che hanno voglia di dare una mano al Paese, dando una dimostrazione di grande senso civico”.
Il bando sarà rivolto esclusivamente a inoccupati e persone che non hanno vincoli lavorativi. Anche i percettori del reddito di cittadinanza, o anche chi fruisce di altri ammortizzatori sociali, potranno fare domanda.
Il reclutamento avverrà su base volontaria e saranno coordinati dalla Protezione Civile, la quale poi dovrà indicare alle Regioni la disponibilità su tutto il territorio nazionale.
Di cosa si occupano gli assistenti civici?
Saranno tutti volontari, che offriranno agli enti locali la possibilità di potenziare i controlli nelle strade e aumentare l’assistenza alle categorie più fragili, dagli anziani ai bambini.
Questa figura, quindi, sarà di fondamentale importanza nella fase due, quella del ritorno della “nuova normalità”, quando per i Comuni sarà necessario avere a disposizione abbastanza personale per far rispettare tutte quelle misure messe in atto per contrastare il diffondersi del virus. Si pensi ad esempio ai controlli che serviranno all’entrata e all’uscita dalle scuole, dove l’ipotesi è quella di prevedere ingressi per piccoli gruppi; o anche al supporto delle fasce deboli della popolazione, come gli anziani, che anche in questo periodo dovranno limitare il più possibile gli spostamenti e i contatti sociali.
D’altronde già durante la fase uno, quella del lockdown, sono stati proprio i volontari a dare il proprio aiuto ai Comuni, anche per le operazioni di vigilanza. Adesso è il momento di riconoscere il loro supporto istituendo una figura ad hoc, quale appunto quella dell’assistente civico, a cui verrà “affidata la comunità in questa nuova e complessa fase”, ossia quella in cui dovremo convivere con il virus nel rispetto dei divieti, collaborando ognuno per la sua parte e con un grande senso di responsabilità.
FONTE:https://www.money.it/bando-60-mila-assistenti-civici
ASSISTENTI CIVICI, OVVERO GUARDIE PAGATE PER PUNIRE I “PERICOLOSI” KILLER DELL’APERICENA
– Fusaro
NOI, CON LA STELLA GIALLA
(MB – Fulminante riflessione dell’amico Galoppini. Titolo originale:
IL COVID-19 E IL “PARADIGMA DELLA VITTIMA”
di Enrico Galoppini
Chi mi conosce sa, perché l’ha sentita dal vivo, di persona o al telefono, di una mia disamina fatta già a marzo, quando per non sembrare troppo “irriverente” o “esagerato” mi riservai di metterla per iscritto solo in seguito.
Oggi, però, dopo aver letto dell’assunzione di sessantamila addetti alla gestione della “fase 2” che qualcuno ha già definito “i nuovi kapò”, non credo sia più il caso di tacere.
Ma prima di svolgere questa riflessione è necessaria una premessa d’ordine psicologico. Esistono esperti che sanno perfettamente come funziona la psiche umana, così quando da qualche tempo hanno deciso di proporre al pubblico in maniera ossessiva “l’olocausto ebraico” con una miriade di iniziative rivolte alle scuole e non solo, la maggior parte della persone, compresa buona parte degli organizzatori in buona fede di tali iniziative, si sono convinte che ciò serva affinché simili orrori “non si ripetano mai più”.
La realtà, invece, ha smentito puntualmente in tutti questi anni tale postulato: mezzo mondo è stato massacrato da guerre, distruzioni, deportazioni e massacri, mentre la “Giornata della memoria” non pareva servire a porre alcun ostacolo a ciò che non si doveva ripetere.
Nel frattempo, però, si è diffuso un sentimento radicato tra coloro che sono stati sempre più coinvolti in questo tipo di operazioni e manifestazioni a sfondo commemorativo e rieducativo: l’identificazione con le “vittime dell’Olocausto”. Pian piano è passato un sentimento profondo di letterale sim-patia per coloro che subiscono quel che la narrativa olocaustica veicola, al punto che oggigiorno è più diffuso il modello della vittima sacrificale di quello dell’eroe che invece aveva tenuto banco nell’antichità.
Questo paradigma della vittima si è così sedimentato nel profondo, ed è ciò che conta davvero per chi pianifica certe operazioni mirate a ridisegnare l’intera società. Le persone, insomma, rieducate da decenni di pedagogia olocaustica, si sono adeguate allo schema della vittima, a finire conciate come quella, senza rendersene conto, anche perché dall’altra parte è stato posto il Male assoluto contro il quale non ci si può non posizionare, tanto è repellente e disumano.
Tutto, pertanto, è stato predisposto adeguatamente con un’operazione di condizionamento capace di agire nel profondo della psiche, individuale e collettiva.
Ed ecco che col “virus” è scattata l’operazione in grado di far precipitare le masse nel ruolo predisposto. Che cos’altro è, questa nuova società del “distanziamento sociale”, se non una riedizione del paradigma olocaustico?
Si esce di casa solo per lavorare o fare la spesa, insomma solo per l’essenziale, espletato il quale si rientra nella baracca, anche perché se non lo fai ci sono i delatori.
Si viene continuamente sanificati (cosa vi ricorda?) e alcuni dei costretti al lavoro coatto, e riconoscenti perché finalmente hanno un “lavoro”, sono elevati al rango di controllori degli altri ‘ebrei’ per conto del sistema concentrazionario.
Alcuni vengono sottoposti agli esperimenti dello “scienziato pazzo”, che nell’edizione aggiornata dello schema è lo sperimentatore di vaccini su gente sana.
Poi c’è pure un signore, il capo dei ‘nazisti’, che punta ad imprimere a tutti un tatuaggio, ma a fin di bene…
E nei momenti di maggior scoramento, sù con la vita, suona l’orchestrina di Ausch… pardon si ha il permesso di cantare dal balcone della baracca.
Manca qualcosa? Mi son dimenticato qualche particolare? Pazienza, ma l’impianto generale è quello che ho descritto.
Tra l’altro è in corso pure un’enorme operazione di selezione, tra chi si sottomette e chi no (perché di questo si trattò).
Ora, so benissimo che ci sarà qualcuno che non capirà o fingerà di non capire, ma non importa, perché a me oramai importano solo la libertà e la verità, il che non può passare dallo sfruttamento e dall’umiliazione di chicchessia.
Sono altresì cosciente delle differenze tra le due situazioni che ho posto in relazione, quindi occhio alle facili “moraline” che non intendo ricevere.
Quello che qui ora conta è capire il processo di fondo, che è il medesimo, per cui, prima ci si rende conto che siamo finiti tutti col ‘pigiama a righe’ (la mascherina?) e la stella gialla (il tracciamento con l’app?) e meglio sarà per tutti.
FONTE:https://www.maurizioblondet.it/noi-con-la-stella-gialla/
Quando Ciampi ammetteva la cessione di sovranità davanti a milioni di italiani
In un precedente articolo avevo trattato le confessioni dei padri dell’euro, parlando di Padoa-Schioppa, Amato, Prodi e D’Alema, ma in questa speciale lista mancava Ciampi.
Ricordiamo che Ciampi fu fra i protagonisti del divorzio Banca d’Italia-Tesoro, dell’inutile difesa della lira del 1992, delle privatizzazioni e del processo che ci ha portato nell’euro.
Fra i ruoli istituzionali che ha ricoperto Ciampi ricordiamo quello di governatore Banca d’Italia (1979-93), di Presidente del Consiglio (1993-94) e ministro del Tesoro dei governi Prodi I e D’Alema I (1996-99).
È stato presidente della Repubblica dal maggio 1999 al 2006, terminato il mandato diverrà senatore a vita fino alla sua morte nel settembre 2016. Ma è sulla carica di PdR che sarà incentrato questo articolo.
IL MESSAGGIO DI FINE ANNO DEL 31 DICEMBRE 1999
Come da tradizione, il presidente della Repubblica a fine anno fa il suo discorso alla nazione a reti unificate, ascoltato da milioni di italiani.
Ecco un piccolo estratto del primo discorso tenuto da Ciampi il 31 dicembre 1999, sul sito del Quirinale potete trovare la trascrizione integrale e il video.
« Con la creazione dell’Euro, la cessione da parte di undici Stati della sovranità di batter moneta a un’istituzione comune, sovranazionale, ha dato una forte accelerazione e una chiara, inarrestabile, spinta al processo di integrazione.
Fra due anni, 290 milioni di cittadini di undici Stati useranno le stesse monete, gli stessi biglietti di banca. Ci sentiremo tutti più europei. »
Un presidente della repubblica – colui che dovrebbe essere il garante della Costituzione – che parla esplicitamente di “cessione di sovranità” fa venire i brividi, ma non è finita qui.
IL MESSAGGIO DI FINE ANNO DEL 31 DICEMBRE 2001
Ora facciamo un salto avanti di due anni, per ascoltare alcuni passaggi del discorso di fine 2001.
Anche in questo caso, il testo integrale è consultabile sul sito del Quirinale ed è disponibile anche il video.
« Quando ho cominciato a pensare a ciò che volevo dirvi, mi sono subito venuti alla mente due eventi, di natura e di significato opposti.
Uno sta per compiersi: fra poche ore, in dodici Paesi dell’Unione Europea, comincerà a circolare la stessa e unica moneta, l’euro.
Stiamo per dire addio alla lira, con nostalgia, nel ricordo soprattutto di quanto ha significato per l’unità d’Italia dalla sua nascita nel 1862, allorché sostituì le diverse monete che circolavano negli stati italiani pre-unitari. Fu uno strumento, un vincolo dell’unità d’Italia.
Ora nasce l’euro. È la prima volta nella storia che, per libera scelta, non per imposizione a seguito di conquiste territoriali o di eventi straordinari, un così numeroso gruppo di Paesi, nei quali vivono oltre 300 milioni di persone, si dà una moneta unica.
Al di là di ogni considerazione economica, è un grande segno di pace; è la prova concreta, definitiva, dell’impegno solenne assunto dai popoli europei di vivere insieme (…)
Coloro che ebbero la fortuna di sopravvivere – e non dimenticheremo mai i volti dei compagni caduti nella giovinezza – fecero nei loro cuori un giuramento: mai più guerre tra noi.
Nei nostri animi si accese una passione che non si è più spenta. È la passione che ha generato l’Unione Europea.
Alla base del suo successo sta il principio che ispirò la prima creazione comunitaria, la Comunità del Carbone e dell’Acciaio: mettere in comune, anziché spartire.
Allora furono messi in comune il carbone e l’acciaio: ora, con l’euro, la moneta. Si rinuncia a parti di sovranità nazionale, per acquisire insieme una nuova sovranità, la capacità di governare insieme il nostro destino comune.
Fatto l’euro, l’integrazione europea andrà avanti. Integrazione, a qual fine? Per contare di più. Le vicende che viviamo ci dicono che nel mondo c’è più bisogno d’Europa.
L’Europa unita è già oggi, ma deve diventare ancor più in avvenire, una grande forza di pace, per sé e per tutti i popoli.
Per esserlo, l’Unione Europea deve trasformarsi in un soggetto politico unitario. Deve poter parlare con una sola voce sui grandi problemi. Deve operare per la crescita di un sistema di istituzioni di governo mondiale. »
Queste parole ci fanno capire di come, prima della diffusione di massa di internet, i politici fossero molto diretti.
Qui Ciampi non solo ammette che abbiamo rinunciato a parti di sovranità nazionale ma che bisognava trasformare l’UE in un “soggetto politico unitario”, ovvero gli Stati Uniti d’Europa.
Su “governo mondiale” avete letto/ascoltato bene, chissà cosa intendeva…
Usando la retorica della pace, che poi è quello che magari colpiva di più il cittadino medio, Ciampi vendeva i peggiori atti eversivi contro la Costituzione.
Ma gli italiani all’epoca erano totalmente rincoglioniti (scusate il francesismo) dalla propaganda unionista, da non sospettare assolutamente nulla.
COS’È CAMBIATO OGGI?
A differenza di allora, oggi il motivo di esistenza dell’UE non è più, ipocritamente, “la pace” ma il fatto di voler competere con la Cina, ovvero andare verso una guerra commerciale.
Per fortuna oggi sempre più persone stanno prendendo coscenza della truffe di euro e unione europea, ma riascoltare questi discorsi ci fa capire come tutti abbiamo dormito almeno fino al 2011-2012.
A proposito di quel periodio, lo stesso Ciampi il 29 ottobre 2011, intervistato dal sole 24 ore, ribadiva:
Non molti ricordano oggi che battere moneta «è un atto fondamentale nella sovranità dello Stato». Avervi rinunciato in favore di un’istituzione federale «è stata una decisione difficilissima».
Il 9 dicembre 2020 ci sarà il centenario della nascita di Ciampi, chissà se qualcuno ricorderà le dichiarazioni eversive fatte durante i discorsi di fine anno 1999 e 2001.
Noi ci portiamo avanti
FONTE:https://canalesovranista.altervista.org/presidente-ciampi-cessione-di-sovranita/
MESSAGGIO DI FINE ANNO DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA CARLO AZEGLIO CIAMPI AGLI ITALIANI
Palazzo del Quirinale, 31 dicembre 1999
Italiane, Italiani,
tra poco come ogni sera nelle nostre case suonerà la mezzanotte. Quei rintocchi segneranno l’inizio dell’anno 2000. Tramonta il secolo XX; sta per spuntare l’alba di un nuovo millennio. Non vi meraviglierete se uno come me, che ha vissuto quattro quinti del secolo che sta per terminare, si rivolge soprattutto ai giovani. A coloro che vivranno una gran parte del secolo che sta per nascere.
Ho in mente il tema scolastico di una quattordicenne, che mi è capitato di leggere: “Si concludono – scrive – i cento anni più lunghi della storia dell’umanità”, e poi spiega: i più lunghi, per la straordinaria densità e drammaticità degli eventi, per l’accelerazione sorprendente del progresso della scienza e della tecnologia.
Il Novecento è un secolo diviso nettamente in due parti. Una prima segnata da due terribili guerre, scoppiate in Europa e che hanno coinvolto e sconvolto l’intero mondo. Una seconda parte che ha visto quegli stessi paesi, che si erano aspramente combattuti, superare gli odi e i rancori di quelle guerre, lasciarsi alle spalle i nazionalismi esasperati e unirsi in una realtà sovranazionale, l’Unione Europea.
Proprio verso la metà del secolo, nel 1948, l’Italia, riconquistate le sue libertà e la sua dignità, seppe stipulare un patto nuovo fra tutti i suoi figli, la Costituzione repubblicana. In quel patto è confluita tutta la nostra storia, con le sue lotte per la democrazia, per la giustizia, per l’unità della Patria. A testimonianza ed eredità del passato, a guida dello slancio verso il futuro.
E’ una Costituzione che nel tempo si dimostra telaio valido sul quale operare le modifiche necessarie in un mondo che cambia, senza disperderne i princìpi e i valori fondamentali. Sulle solide fondamenta della Carta Costituzionale, l’Italia ha fatto grandi progressi, sì da entrare a far parte del gruppo dei sette maggiori paesi industriali del mondo.
Sono queste, cari giovani, l’Europa e l’Italia che la mia generazione consegna alla vostra, con l’orgoglio delle speranze realizzate, con la responsabilità dei problemi non risolti.
Certo i conflitti ancora avvengono; nella stessa Europa, come ci insegna il dramma nei Balcani. Ma è questa una vicenda che ci conferma nel cammino intrapreso. Un’Europa che fosse stata ancora divisa al suo interno avrebbe corso il rischio di una nuova grande guerra. Non avrebbe certo potuto svolgere l’azione che ha svolto per contribuire a spegnere quei conflitti; non potrebbe oggi operare, come opera, per superarne le cause e far prevalere la pace.
Ma, bisogna andare oltre, in Europa e in Italia, per affermare la pace. In Europa occorre che nuove istituzioni e nuove procedure vengano introdotte; che l’Unione divenga più coesa, che crescano il suo prestigio e la sua autorevolezza.
Siamo sulla strada giusta. Con la creazione dell’Euro, la cessione da parte di undici Stati della sovranità di batter moneta a un’istituzione comune, sovranazionale, ha dato una forte accelerazione e una chiara, inarrestabile, spinta al processo di integrazione. Fra due anni, 290 milioni di cittadini di undici Stati useranno le stesse monete, gli stessi biglietti di banca. Ci sentiremo tutti più europei. Agli Stati che hanno dato vita all’Euro fanno carico ora responsabilità specifiche, a cominciare dal governo coordinato delle economie.
Si sta configurando una politica comune della Difesa e della Sicurezza, in cui si integreranno le nostre Forze Armate, che già operano come prezioso strumento per il mantenimento della pace nelle più diverse parti del mondo. Stiamo scrivendo insieme con gli altri Parlamenti nazionali e con il Parlamento Europeo la Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione. Stiamo, insomma, creando l’Europa dei cittadini e delle istituzioni, dopo quella dei mercati.
Di quest’Europa l’Italia ha voluto e saputo essere parte. L’Italia non è mai mancata a nessuno dei momenti fondamentali del processo di integrazione europea. Non è mancata all’appuntamento dell’Euro.
La cultura della stabilità: l’abbiamo acquisita nel duro cammino verso il risanamento finanziario, ormai consolidato, come confermano i dati di questo fine anno. Abbiamo mantenuto, stiamo mantenendo gli impegni presi con noi stessi, con gli altri Stati dell’Unione Europea. Dobbiamo ora estendere quella stabilità a tutti gli aspetti della nostra convivenza civile. E in primo luogo alla stabilità politica e di governo.
Per contare, per competere nell’arena internazionale, dobbiamo dare ai governi la possibilità, i tempi, per operare; sotto il pungolo delle opposizioni, ma senza l’affanno della precarietà. Già siamo riusciti a realizzare forme di governo più solide e responsabili nei Comuni e nelle Province. Stiamo per realizzarle nelle Regioni. E’ indispensabile, deve essere impegno di tutte le forze parlamentari, irrobustire la saldezza della istituzione “governo” anche a livello nazionale. Prenderà così corpo e sostanza quella stabilità, che con la possibilità dell’alternanza, rende feconda la democrazia.
La nostra Repubblica diventerà più forte, dando maggiore respiro all’Italia delle Regioni, all’Italia delle cento città, colmando quella distanza fra il cittadino e lo Stato che è un nostro male antico. L’unità dell’Italia sarà, così, quella che sognarono i padri del Risorgimento: fondata non sul centralismo, ma sulla pluralità delle patrie regionali e comunali.
L’autorità, il prestigio delle istituzioni, di tutte le istituzioni – politiche, giudiziarie, amministrative – risiedono nella fiducia dei cittadini. Istituzioni rinnovate, efficienti sono condizione necessaria per assicurare una giustizia tempestiva, per mantenere competitività al sistema Italia, per favorire una crescita maggiore, per creare nuovi posti di lavoro, per garantire più diffuso benessere.
L’occupazione: questo è l’obiettivo vero verso il quale debbono tendere tutti i nostri sforzi riformatori. Della disoccupazione, delle disuguaglianze di sviluppo soffrite innanzitutto voi giovani. Ne soffre soprattutto il Mezzogiorno. La mia generazione, la generazione dei vostri padri, avverte il disagio, sente la responsabilità di questi perduranti squilibri.
L’articolo primo della Costituzione recita: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. Da troppi anni il numero dei senza lavoro supera l’11 per cento di coloro che vogliono lavorare. Ancor più doloroso, il 30 per cento dei giovani che cercano lavoro non lo trovano. Ci danno speranza i segni recenti di aumento dell’occupazione.
Sappiamo che il lavoro durevole si crea innovando, stando al passo di un mondo che muta ed avanza con tempi sempre più rapidi. Sta agli imprenditori, alla loro capacità progettuale di esprimere e attuare nuove iniziative. Ma lo Stato deve assicurare le condizioni, in primo luogo quelle della sicurezza, affinché gli imprenditori possano operare con fiducia.
Lo sviluppo economico è sempre più fondato sulla conoscenza. Il capitale principale è quello umano. Voi giovani ne siete l’essenza. E’ nell’interesse di tutti accrescere la vostra professionalità. Ma quel capitale è capitale vero, quanto più sia ricco di energie ideali, che si esprimano non solo in iniziative economiche ma anche in progetti generosi e alti: l’impegno per il rispetto dei diritti umani, la lotta per un ambiente migliore, la lotta contro il razzismo e l’esclusione sociale, l’opera di volontariato dentro e fuori i nostri confini.
Il secolo che ci lasciamo alle spalle ha visto crescere l’Italia in benessere, in solidarietà, in spirito civile. Cento anni fa quattro militari di leva su dieci non conoscevano l’alfabeto; oggi milioni di giovani dialogano attraverso gli strumenti informatici e il loro numero cresce rapidamente. Cinquant’anni fa le donne erano escluse dal diritto di voto; oggi partecipano in misura crescente alla vita politica, sociale, economica, arricchendone la qualità. Dobbiamo essere consapevoli non soltanto delle insufficienze, dei ritardi della nostra società, ma anche dei successi. Affronteremo così con maggiore sicurezza le sfide del nuovo secolo.
Ci attendono i grandi problemi del mondo. La scienza è giunta alle frontiere della vita, animale e vegetale. Oltre, vi sono la seduzione e i pericoli di manipolazioni aberranti. La mondializzazione dei mercati economici e finanziari produce nuovo benessere, ma rischia di mortificare vocazioni produttive, mestieri, culture di popoli, di acuire disuguaglianze. La globalizzazione dei mezzi di comunicazione di massa crea spazi di informazione per tutti i popoli, ma rischia di provocare dipendenza da scelte altrui, pericolosa soprattutto per la formazione delle nuove generazioni.
Grandi possibilità di progresso e gravi pericoli sono strettamente congiunti. L’esito dipende dalla nostra capacità di governare fenomeni aperti verso il bene ma anche verso il male; di riuscire a fecondare l’avanzamento delle tecniche con un senso forte di umanità e di solidarietà. Domina, su ogni altra sfida del nuovo secolo, il mantenimento della pace. Nell’età nucleare impedire nuove guerre è indispensabile per la nostra stessa sopravvivenza. Occorre rafforzare le istituzioni sovranazionali, ancora inadeguate ad assicurare il successo in questo fondamentale compito.
L’Italia è parte del ristretto numero di grandi Nazioni sulle quali ricadono, in tutti questi campi, le maggiori responsabilità. A una responsabilità più diretta ci chiama la nostra posizione mediterranea nel confronto tra l’Europa da un lato e l’Africa e il Medio Oriente dall’altro: uno dei maggiori temi del secolo che sta per cominciare. Diversità forti di carattere demografico ed economico si innestano sulle diversità di religione e di cultura: rendono il confronto particolarmente complesso. Soltanto il dialogo può renderlo costruttivo per tutti.
E’ un confronto già in atto. Lo vediamo nelle nostre città e nelle nostre campagne. Migliaia di immigrati chiedono lavoro. Sui banchi delle nostre scuole siedono, in numero crescente, ragazze e ragazzi venuti da paesi poveri, con le loro famiglie che cercano da noi un’occasione di vita. Milioni, come loro, ci chiedono soprattutto di aiutarli a far crescere i loro Paesi. Al loro appello dobbiamo saper rispondere, attenti ai bisogni degli altri, sicuri dei nostri valori.
Umanesimo e Cristianesimo: sono le due grandi forze ispiratrici della nostra civiltà, della civiltà dell’intero mondo occidentale. Su questi valori si basano la nostra società e il suo nucleo fondamentale, la famiglia, nella quale si avverte sempre di più l’esigenza di tutela per l’infanzia, di partecipazione e di assistenza per gli anziani, di guida e di orientamento per i giovani. Soltanto un popolo consapevole e orgoglioso delle proprie radici, della propria identità, può progettare e costruire con fiducia il suo futuro. Di queste radici cristiane e umanistiche Roma è simbolo. Roma, città nella quale convivono due Stati, realtà unica al mondo.
Il mio pensiero, il mio augurio, il mio ringraziamento vanno oltre Tevere, a Sua Santità Giovanni Paolo II, che prega e opera per la pace in San Pietro, la cui grande cupola svetta sul panorama a tutto campo che spesso ammiro dal Quirinale.
Il Quirinale, la casa di tutti gli italiani, la casa che voglio sentiate vostra. Vi è una piena di sentimenti nel mio animo, mentre vi sto parlando. Dobbiamo aver fiducia in noi stessi: ne esistono le condizioni. Sta in noi realizzarle.
Voi soprattutto, cari giovani, dovete avere fiducia. I problemi che vi ho esposto sono problemi di cui voi siete e dovete sentirvi protagonisti.
L’Italia sarà quella che voi saprete essere. Sta a voi far diventare questa nostra Patria più forte e più bella, quella Patria per la quale tanti dei miei compagni di gioventù hanno dato la vita.
Guardate in alto. Nutrite speranze e progetti. Date libera espressione a quanto di nobile, di generoso, anima le vostre menti, i vostri cuori. Soprattutto, abbiate sempre dignità di voi stessi.
Cari italiani tutti,
vi sento, vi vedo nelle vostre case, così come voi fisicamente mi vedete; vi vedo con le vostre gioie, con le vostre speranze, con le vostre sofferenze. Penso anche a voi Italiani che per scelta o per necessità vi trovate fuori dei confini della Patria, alla quale vi so strettamente legati, custodi gelosi di tradizioni, di memorie, della stessa lingua d’origine.
E a tutti Voi, con tutto il cuore, faccio gli auguri più belli.
Buon Anno 2000!
FONTE:http://presidenti.quirinale.it/Ciampi/dinamico/continuaciampi.aspx?tipo=discorso&key=9729
ATTUALITÀ SOCIETÀ COSTUME
Rimborso Canone Rai per coronavirus, ma è una truffa: attenzione a questa email
25 Maggio 2020
Si può chiedere il rimborso canone Rai per coronavirus? No, il messaggio che arriva tramite email o SMS è una truffa. Ecco come difendersi dai tentativi di phishing.
La Rai rimborsa il canone per il coronavirus? In tempi di bonus, aiuti e sconti a favore dei cittadini, il rimborso dell’importo del canone Rai potrebbe essere un’ipotesi verosimile, e invece è una truffa che torna periodicamente alla ribalta.
Gli hacker in questa occasione si sono spacciati per la Rai inviando una comunicazione agli utenti in cui li informano della possibilità di ottenere il rimborso del canone Rai seguendo una procedura online. Chi cade nella trappola, però, rischia di cedere ai malintenzionati dati personali e del conto corrente. Ecco a cosa fare attenzione.
Rimborso Canone Rai: a chi spetta
Il rimborso canone Rai spetta alle persone che si vedono addebitare il canone in bolletta pur avendo fatto la dichiarazione di non detenzione possesso o di sussistenza di altra utenza elettrica, o sono over 75 con reddito inferiore o pari a 6.713,98€, o ancora agli eredi che hanno ricevuto l’addebito del canone in bolletta intestata a una persona deceduta.
Quando si riceve un’email inviata da un indirizzo che fa riferimento a un ente istituzionale o alla propria banca bisogna fare molta attenzione, perché dietro le comunicazioni di accrediti o grossi debiti si celano tentativi di phishing. Come nel caso delle email truffa su un fantomatico rimborso Rai da parte di una presunta Rai o Agenzia delle Entrate.
Messaggio rimborso canone Rai, ma è una truffa
In questo caso la truffa avviene con la ricezione di un’email proveniente da una falsa Rai o Agenzia delle Entrate che notifica un rimborso del canone Rai. Nel corpo dell’email il destinatario potrebbe leggere il seguente testo:
“Gentile contribuente, con la presente desideriamo informarla che le è stato riconosciuto il diritto parziale al rimborso del canone Rai, per un ammontare di tot euro. A causa di un errore nel calcolo automatico, Lei ha versato una cifra in eccesso rispetto al dovuto e ha quindi diritto al rimborso della somma. Una volta inviata la richiesta l’importo accreditato sarà visualizzato sul suo estratto conto secondo i tempi previsti dalla sua banca.”
Per ottenere il credito l’utente viene invitato a cliccare su un link che indirizza a un sito fraudolento. Oggetto e importo del presunto rimborso possono variare, ma in ogni caso le mail in questione non provengono da un indirizzo ufficiale dell’Agenzia delle Entrate, e nascondono un evidente tentativo di truffa, ha spiegato il Fisco.
Falso rimborso canone Rai: cosa fare se si riceve l’email
I diritti ai rimborsi non vengono comunicati via email. L’Agenzia delle Entrate ribadisce che la corretta procedura da seguire per ricevere un rimborso fiscale è consultabile nella sezione “Pagamenti e Rimborsi” del sito ufficiale.
Se si riceve un’email simile si raccomanda di non fornire dati e di cestinare immediatamente il messaggio. È essenziale non cliccare su link sospetti e non immettere i dati della propria carta di credito, se richiesti.
FONTE:https://www.money.it/rimborso-canone-Rai-per-coronavirus-truffa-email
BELPAESE DA SALVARE
Sanità lombarda
Francesco Erspamer 21 05 2020
CONFLITTI GEOPOLITICI
La Germania rompe con i Fratelli Mussulmani
(Ormai non occorre più obbedire a Obama..)
Ufficio Federale per la Protezione della Costituzione (Bundesamt für Verfassungsschutz, BfV), agenzia che in Germania si occupa della lotta ai gruppi estremisti, conduce da anni una campagna di sensibilizzazione dei parlamentari tedeschi sui pericoli rappresentati dalla Confraternita dei Fratelli Mussulmani.
In un rapporto del 2 febbraio 2019, il BfV afferma che la Confraternita, nonostante una parvenza di conformità alla Costituzione, persegue obiettivi segreti che contrastano con la democrazia e lo Stato di diritto. Asserisce altresì che a lungo termine la Confraternita rappresenterà per la Germania un pericolo maggiore di Al Qaeda e Daesh.
Al termine di un’opera di sensibilizzazione durata un anno, il BvV constata che la Confraternita non è più in condizione d’influenzare i mussulmani di Germania.
Il BfV dipende dal ministero dell’Interno. La sua campagna collideva con le attività del ministero degli Esteri, che trattava con la Confraternita sin dall’inizio delle primavere arabe e aveva istituito un apposito Ufficio.
La Confraternita è stata patrocinata dal 1945 dall’MI6, nonché, dal 1953, dalla CIA. Durante la guerra fredda gli anglosassoni sollecitarono gli alleati francesi e tedeschi ad accogliere i dirigenti della Confraternita, utilizzati dalla NATO contro l’Unione Sovietica. In questo contesto si colloca la creazione del Centro Islamico di Monaco da parte dell’egiziano Saïd Ramadan, che tenne anche una trasmissione su Radio Liberty/Radio Free Europe, finanziata dal Congresso USA, destinata all’URSS [1]. Negli anni Ottanta la Germania, dopo il fallito tentativo di rovesciamento della Repubblica Araba Siriana, concesse asilo politico ai dirigenti del ramo siriano della Confraternita. Nel 2011, mentre gli anglosassoni tentavano d’imporre al potere, in tutto il Medio Oriente, la Confraternita, la Germania fece ricorso ai Fratelli Mussulmani cui dava asilo. Il direttore del think tank tedesco per la politica estera (SWP), Volker Perthes, fu autorizzato a preparare, per conto del numero due dell’ONU, l’ambasciatore USA Jeffrey Feltman, un piano di capitolazione totale e incondizionata della Siria [2]. Ma nel 2017 il presidente Donald Trump vietò all’amministrazione USA di continuare a sostenere Daesh, mentre a fine 2018 il nuovo ministro degli Esteri tedesco, Heiko Maas, decise di cambiare politica. Da questo capovolgimento ha avuto origine il rapporto del BfV.
Diversamente da quanto suggerisce la denominazione, la Confraternita dei Fratelli Mussulmani non è un’organizzazione religiosa, ma una struttura politica segreta. È organizzata sul modello della massoneria inglese e si prodiga con grande impegno per negare l’appartenenza dei propri membri all’organizzazione. Quasi tutti i capi jihadisti, da Osama bin Laden al califfo Abu Bakr al-Baghdadi, provengono dai suoi ranghi.
Traduzione
Rachele Marmetti
Giornale di bordo
FONTE:https://www.maurizioblondet.it/la-germania-rompe-con-i-fratelli-mussulmani/
Turchia: “I resti della spada” di Erdoğan
- Pertanto, l’uso dell’espressione “i resti della spada” non rappresenta una negazione dei massacri o dei genocidi. Al contrario, dichiara l’orgoglio dei perpetratori. Significa: “Sì, abbiamo massacrato i cristiani e altri non musulmani perché se lo meritavano!”
L’uso pubblico dell’insulto “i resti della spada” da parte del presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, nel riferirsi ai sopravvissuti dei massacri dei cristiani nel suo Paese è allarmante sotto molti punti di vista. L’espressione non solo insulta le vittime e i sopravvissuti dei massacri, ma mette anche a repentaglio la sicurezza della comunità cristiana in calo in Turchia, spesso esposta a pressioni che includono aggressioni fisiche. (Foto di Chris McGrath/Getty Images) |
Il 4 maggio scorso, durante un briefing sul coronavirus, il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha usato l’espressione molto sprezzante “i resti della spada”.
“Non permettiamo ai resti della spada nel nostro Paese”, egli ha dichiarato, “di tentare di svolgere attività [terroristiche]. Il loro numero è diminuito, ma molti esistono ancora”.
L’espressione “i resti della spada” ((kılıç artığı in turco) è un insulto comunemente usato in Turchia che spesso si riferisce ai sopravvissuti ai massacri dei cristiani – che ebbero come obiettivo soprattutto armeni, greci e assiri – compiuti dall’Impero ottomano e poi perpetrati dal suo successore, la Turchia.
Essendo Erdoğan un capo di Stato, il fatto di usare pubblicamente l’insulto è allarmante sotto molti punti di vista. L’espressione non solo insulta le vittime e i sopravvissuti dei massacri, ma mette anche a repentaglio la sicurezza della comunità cristiana in calo in Turchia, spesso esposta a pressioni che includono aggressioni fisiche.
Per protesta, Garo Paylan, un deputato armeno del Parlamento turco, ha scritto su Facebook:
“Nel suo discorso d’incitamento all’odio di ieri sera, Erdoğan ha usato ancora una volta l’espressione ‘i resti della spada’.
“L’espressione ‘i resti della spada’ è stata inventata per riferirsi agli orfani come mia nonna che è sopravvissuta al genocidio armeno [del 1915]. Ogni volta che sentiamo quell’espressione, ci fa sanguinare le ferite”.
Altri attivisti e scrittori armeni hanno criticato Erdoğan sui social media. La giornalista Alin Ozinian ha scritto:
“Per coloro che non lo sanno, l’espressione “i resti terroristi della spada’ significa ‘i terroristi’ armeni che sono sopravvissuti al genocidio e non potevano essere massacrati con la spada. Cosa significa ‘terrorista’? Beh, il significato cambia quotidianamente: potrebbe essere un giornalista, un rappresentante della società civile, uno scrittore, un medico o una madre di un bellissimo bambino”.
“Non vogliono coloro che impugnano le spade”, ha continuato la Ozinian, “ma vogliono vergognarsi dei discendenti dei sopravvissuti di un popolo e di una cultura che sono stati massacrati con la spada”.
L’editorialista Ohannes Kılıçdağı ha scritto:
“Si pensi a un Paese che usa attivamente un’espressione come ‘i resti della spada’ nella cultura politica e nel linguaggio. È usata dalle massime autorità. Ma quelle stesse autorità dello stesso Paese affermano che ‘non c’è stato alcun massacro nella nostra storia’. Se non c’è stato, allora da dove viene questa espressione? A chi si riferisce?”
I crimini che Ankara cerca di nascondere incolpando le vittime sono in realtà fatti storici ben documentati. Nel 2019, ad esempio, gli storici Benny Morris e Dror Ze’evi hanno pubblicato il libro The Thirty-Year Genocide: Turkey’s Destruction of Its Christian Minorities, 1894–1924, che documenta i “massacri di massa perpetrati dall’Impero ottomano e in seguito dalla Repubblica turca contro le minoranze cristiane”. Secondo la loro ricerca:
“Tra il 1894 e il 1924, tre ondate di violenza travolsero l’Anatolia, colpendo le minoranze cristiane della regione, che in precedenza avevano rappresentato il 20 per cento della popolazione. Nel 1924, gli armeni, gli assiri e i greci erano stati ridotti al 2 per cento”.
Durante il genocidio, le politiche di annientamento dei perpetratori prevedevano “stragi premeditate, deportazioni omicide, conversioni forzate, stupri di massa e rapimenti brutali. E un’altra cosa era costante: il grido di battaglia del jihad”.
Come i cristiani, anche la comunità alevita è presa di mira in Turchia per essere “i resti della spada”. L’alleato di Erdoğan, Devlet Bahçeli, a capo del Partito del movimento nazionalista (MHP), ad esempio, nel 2017, definì il giornalista Abdülkadir Selvi “un resto della spada” per riferirsi alle sue presunte origini alevite. Il giornalista filogovernativo Ahmet Taşgetiren ha poi spiegato l’espressione come segue:
“Distruggete un’entità (una società, una comunità religiosa, un esercito) che vedete come ‘il nemico’. Ciò che rimane è un gruppo di persone che sono sopravvissute alla spada e si sono arrese a voi. Quelli sono i resti della spada”.
Selvi ha poi cercato di spiegare il motivo per cui lui non è un “resto della spada”:
“Vorrei ricordare Bahçeli: mio nonno, Osman, era un figlio della patria che correva da un fronte all’altro e venne fatto prigioniero nella guerra ottomana-russa. Io sono un discendente dei turchi oghuz; i miei antenati Hasan e Hüseyin, divennero martiri in Yemen. Quest’onore mi basta”.
La spiegazione di Selvi dimostra ancora una volta che avere radici cristiane, alevite o qualsiasi altra radice non musulmana viene visto come un insulto o come un’offesa vergognosa da molti in Turchia. Invece di spiegare perché chiamare qualcuno “un resto della spada” sia inaccettabile, Selvi ha cercato di dimostrare le sue origini “purosangue” turche e la fede musulmana sunnita.
“Oggi, meno del mezzo percento della popolazione turca è cristiana – il risultato di una storia durante la quale i turchi hanno perseguitato i cristiani autoctoni della regione”, ha scritto lo storico Vasileios Meichanetsidis.
“Molti turchi condividono con orgoglio questa storia, senza tentare di affrontarla onestamente o garantire il rispetto per le vittime. Infatti, etichettano erroneamente le vittime come perpetratori, elogiano i criminali e insultano la memoria delle vittime e dei loro discendenti”.
Pertanto, l’uso dell’espressione “i resti della spada” non rappresenta una negazione dei massacri o dei genocidi. Al contrario, dichiara l’orgoglio dei perpetratori. Significa: “Sì, abbiamo massacrato i cristiani e altri non musulmani perché se lo meritavano!”
Uzay Bulut, una giornalista turca, è Distinguished Senior Fellow presso il Gatestone Institute.
FONTE:https://it.gatestoneinstitute.org/16040/turchia-resti-della-spad
La resa dei conti tra Occidente e Cina all’assemblea dell’OMS
(Luca Della Torre) Si è rivelata una vera e propria resa dei conti di politica internazionale la 73esima Assemblea generale dell’Organizzazione Mondiale della sanità – il massimo organismo delle Nazioni Unite, responsabile della tutela della salute dei cittadini degli Stati membri – tenutasi in questi giorni a Ginevra in forma di videoconferenza tra i ministri della sanità dei Paesi aderenti, in piena pandemia da Covid-19. Si fa infatti sempre più pressante la necessità di aprire un’inchiesta internazionale sui profili di responsabilità politica internazionale del regime comunista del dittatore Xi Jinping che governa con pugno di ferro la Cina
Le circostanziate accuse dell’amministrazione Trump, che da mesi individua gravi violazioni da parte del governo di Pechino dei protocolli internazionali in caso di crisi sanitarie epidemiche e pandemiche, erano state in un primo tempo liquidate – con superficialità o cinico opportunismo, da parecchie diplomazie, tra cui purtroppo anche italiana – come manovre temerarie di una nuova “guerra fredda” tra le due più grandi potenze economiche nazionali del pianeta. Queste manovre evidenziano invece ora i lati più drammatici della disinvolta e aggressiva politica estera adottata dal governo di Pechino per conquistare ruoli di egemonia in seno alle organizzazioni politiche internazionali. Una strategia che si è manifestata in tutta la sua evidenza nel caso del ruolo assunto dall’OMS nella prima fase di gestione in prima linea della guerra al Coronavirus.
Sembra che la pandemia da Covid-19 stia iniziando ad attenuarsi in Europa, dopo aver provocato il contagio nel pianeta di circa 4,7 milioni di persone, con 315.000 vittime ufficiali, anche se i dati in oggetto sono in realtà di gran lunga inferiori al numero delle vittime effettive, a causa delle enormi complicanze patologiche legate al Covid-19. Il Coronavirus però non è affatto sconfitto, ed è ragionevole prevedere nuove ondate di pandemia, anche in aree che sono già state devastate dal virus, con incalcolabili danni “collaterali” in termini di economia, stabilità politica, benessere sociale, stress delle comunità civili.
Si consideri che proprio in questi giorni la Repubblica popolare cinese ha posto di nuovo in lockdown l’intera città di Shulan, in Cina settentrionale, di un milione di abitanti: tutti gli edifici residenziali sono stati isolati, solo una persona per ogni famiglia può uscire due ore ogni due giorni per acquistare beni necessari. Ingressi ed uscite dal territorio sono proibiti; si consideri che ancora ad oggi la Cina non ha mai ammesso l’accesso di scienziati, medici, ricercatori stranieri ai propri laboratori, secondo la logica più consolidata della brutale politica estera dei regimi totalitari che ignorano i protocolli di cooperazione sottoscritti.
Le domandi cruciali che l’Assemblea dell’OMS non ha dunque più potuto ignorare a causa della pressione sempre più intransigente di molti Paesi membri sono circostanziate: quali sono le precise origini del Coronavirus sviluppatosi in Cina? La Cina ha insabbiato sul proprio territorio la prima fase aggressiva dell’epidemia? La Cina ha volutamente taciuto agli altri Stati le informazioni cruciali sull’aggressività del virus che i protocolli normativi dell’OMS impongono ad ogni membro? E ancora: la Cina ha fatto pressioni politiche sull’Organizzazione Mondiale della Sanità per ritardare o addirittura minimizzare i drammatici effetti a livello mondiale? Il virus naturale è sfuggito al controllo della sanità cinese o è stato deliberatamente lasciato sviluppare oltrefrontiera?
Si consideri che tutti questi pesanti capi d’indagine saranno alla base dell’evoluzione, della stagnazione o addirittura del crollo dei floridi rapporti commerciali pendenti a favore del Dragone asiatico nei confronti con l’Occidente: la mobilitazione dei più prestigiosi autorevoli studi legali di diritto internazionale, le law firms anglosassoni, della potenti lobbies di tutela degli interessi dei consumatori, in alcuni casi sostenute dai governi stessi, nella richiesta di indennizzi e class action ai danni di Pechino ne sono prova provata. Si fa sempre più pressante, insomma, la richiesta di aprire una inchiesta internazionale sul Coronavirus, che vede sul banco degli imputati la condotta ambigua del governo cinese e quella altrettanto superficiale se non compiacente a favore di Pechino dei vertici dell’OMS.
Alla riunione dell’Oms a Ginevra l’Unione europea ha preso inaspettatamente coraggio e consapevolezza delle proprie responsabilità del proprio ruolo di seconda potenza politica economica mondiale dopo gli USA, presentando una risoluzione per un’inchiesta indipendente volta a scoprire le cause della pandemia da Civid-19. L’aspetto più dirompente di questa iniziativa è dato da due fattori: in primis la proposta è stata appoggiata da oltre 100 paesi, oltre ai 27 membri della Ue, agli Stati legati all’Alleanza Atlantica (NATO) come USA, Giappone, Regno Unito, Canada ed Australia, sono scesi in campo anche Paesi tradizionalmente contrapposti come competitors in politica internazionale all’Occidente. La Russia del Presidente Putin, l’India nazionalista del Premier nazionalista induista Chandra Modhi, vero principale antagonista politico militare della Cina in Asia, la ricca islamica Indonesia, i Paesi membri del cosiddetto BRICS, il gruppo degli Stati economicamente rilevanti nel pianeta in posizione antagonista all’Occidente hanno “scaricato” il potentissimo partner di Pechino aderendo alla risoluzione di inchiesta internazionale.
Il secondo fattore altrettanto rilevante di questa risoluzione è che la stessa crea “de facto” una commissione d’indagine indipendente dall’ONU, composta da Stati nazionali, che pone in discussione e sotto giudizio l’operato di un organismo giuridico delle Nazioni Unite, l’OMS, confermando così la profonda crisi in cui versa il modello utopistico della globalizzazione politica degli Stati sotto l’egida dell’ONU. L’OMS risulta sostanzialmente delegittimata da parte degli stessi Stati membri, aprendosi così un varco giuridico molto aspro nella autorità riconosciuta ai poteri sovranazionali delle Nazioni Unite.
In realtà ciò che ha spinto i tremebondi Stati membri dell’OMS a riconoscere la necessità di una risposta così energica ai dubbi sulle responsabilità della Cina e dell’OMS stessa nella gestione della crisi pandemica è stata una serie di prese di posizione molto granitiche, mai tentennanti, a tambur battente dell’Amministrazione Trump: in una lettera del Presidente USA al Direttore generale dell’OMS Ghebresyus, pubblicata ufficialmente, Trump elenca in modo preciso le gravi lacune e negligenze dell’operato dell’OMS, deplora una “prossimità” al governo di Pechino di dubbia opportunità politica, e, dopo aver già sospeso i finanziamenti USA all’OMS, conferma la decisione di ritirare l’adesione degli Stati Uniti all’Agenzia ONU se non si raggiungeranno radicali miglioramenti entro 30 giorni.
La miopia diplomatica dei principali Paesi occidentali nei confronti delle gravissime responsabilità del Dragone cinese purtroppo si evidenzia da tanto, troppo tempo: la puerile tattica di breve periodo di tanti governi occidentali, mirata a privilegiare gli introiti economici dalla cooperazione con il regime comunista di Xi Jinping, ignorando del tutto il background politico culturale del modello geopolitico cinese, si è scontrata alla fine con la brutale logica degli interessi strategici di Pechino, che, secondo la logica consolidata dei regimi totalitari del XX secolo, ha sempre de facto ignorato il rispetto dei trattati ed accordi internazionali, laddove gli stessi divenissero ostacolo ai propri illeciti interessi, in questo caso il totale blackout informativo e collaborativo sulla crisi sanitaria, economica e politica determinata dalla pandemia Covid-19.
FONTE:https://www.corrispondenzaromana.it/la-resa-dei-conti-tra-occidente-e-cina-allassemblea-delloms/
CULTURA
sitrà-ahra
Gli scacchi e il Corano: come sfuggire al vuoto della prigionia
16 maggio 2020 – Massimiliano Vino
Se c’è una cosa che la vicenda Silvia Romano ci ha insegnato, questa è certamente una diffusa e sentita mancanza di empatia da parte di un numero consistente di persone, i quali si sono resi colpevoli di aver scatenato una campagna d’odio nei confronti dell’attivista e volontaria milanese. A lasciare molti sorpresi ed “indignati” sono specialmente le immagini dello sbarco della giovane, non più vestita alla “occidentale” e dichiaratamente convertita all’Islam.
Avevo bisogno di credere in qualcosa, di conoscere le ragioni di quanto mi stava accadendo. Ho espresso la volontà di diventare musulmana. Nessuno mi ha obbligata, è stata una mia scelta. E in quel momento ho scelto di chiamarmi Aisha.
Aisha, così come i suoi familiari, sono ora alla ricerca di una tranquillità che mancava loro da 18 mesi. Certamente il clima infuocato, che ha visto prendere posizioni anche molto gravi da parte di alcuni esponenti di partito, non aiuta a ristabilire un clima di serenità. Il problema è che nessuno, più o meno esperto, può mettersi nei panni di una prigioniera di Al Shaabab.
Eppure, quasi ottant’anni fa, qualcuno sembra aver compreso più di mille analisti e psicologi, l’essenza della prigionia e della conversione in prigionia, prima dei social, prima del talk show, prima di qualsiasi lettura fuorviante operata dall’imperante società dello spettacolo e dei mass media attuale. Il 22 febbraio del 1942 moriva suicida a Petròpolis, in Brasile, il grande scrittore e umanista Stefan Zweig, ebreo austriaco costretto a fuggire dalla sua amata Austria dopo che la stessa era stata annessa dalla Germania nazista. Esponente di spicco della grande letteratura dell’ex impero asburgico, Zweig aveva dato alle stampe il giorno prima tre dattiloscritti costituenti un racconto: la Schach-novelle, ovvero La novella degli scacchi:
Preferisco dunque concludere a tempo debito e a testa alta una vita che ha sempre identificato nel lavoro intellettuale la gioia più pura e nella libertà personale il bene più prezioso della terra. Saluto tutti i miei amici! Possano rivedere l’aurora, dopo la lunga notte! Io, troppo impaziente, li precedo.
Scrisse così Zweig, in un’ultima lettera, la sua dichiarazione di stoico congedo dalla vita e dal mondo. Eppure la Schach-novelle, piccolo capolavoro dallo stile lucido, avvolgente e nostalgico, proclama più delle sue ultime lettere, il canto del cigno dell’uomo dinanzi alla barbarie. Uno specchio lucido di resistenza alla prigionia e all’oppressione. Protagonista di questa vicenda è il misterioso Dr. B., imbarcatosi per Buenos Aires e lasciatosi coinvolgere, suo malgrado, in una partita a scacchi niente meno che contro il grande campione Czentovic. Il Dr. B., interviene in una partita in corso tra Czentovic e un altro passeggero della nave, ribaltando completamente la partita e conseguendo una clamorosa vittoria. Tutti restano interdetti dinanzi a questo insperato successo ed è evidente l’iniziale imbarazzo del Dr. B. in proposito:
“Perché non so davvero” aggiunse con un sorriso trasognato “se sono in grado di giocare correttamente una partita secondo ogni regola. La prego di credermi, non era assolutamente falsa modestia quando dicevo di non aver toccato un pezzo degli scacchi dai tempi del liceo, e dunque da più di vent’anni. E, anche allora, non ero considerato un giocatore particolarmente dotato”.
E allora come spiegare l’esattezza delle sue mosse? La straordinaria capacità di ricordarsi ogni singola combinazione? In effetti non mentiva il Dr. B.: di scacchiere non ne toccava veramente dai tempi del liceo. Nel frattempo però era incorso dell’altro: la storia – così tragicamente simile a quella di Stefan Zweig – aveva spezzato bruscamente la quotidiana e silenziosa attività da avvocato e amministratore patrimoniale del tranquillo Dr. B. Arrestato dalla Gestapo il Dr. B. era stato destinato, anziché ai campi di concentramento, ad una particolare forma di prigionia: una camera privata di un albergo. Molto spesso la prigionia viene, giocoforza, associata ad un complesso di stenti, di fame, di sete, di condizioni igienico sanitarie precarie. Invece la prigionia del Dr. B., così apparentemente comoda nelle sue apparenze nasconde il lato più duro di una simile forma di isolamento:
Non ci fecero nulla: si limitarono a collocarci nel nulla più assoluto, poiché, com’è noto, non v’è cosa al mondo che eserciti sull’animo umano una pressione pari a quella del nulla. Rinchiudendoci singolarmente in un vuoto totale, in una stanza isolata ermeticamente dal mondo, quella pressione che alla fine ci doveva disserrare le labbra non sarebbe nata dall’esterno, con freddo e percosse, ma dall’interno.
La stanza è priva di ogni riferimento e di ogni seppure minimo legame con la realtà umana. Né un orologio per contare il tempo, né una matita per scrivere, né un coltello per tagliarsi le vene. Persino le sigarette sono negate. Alle guardie viene dato l’ordine di non parlare e di non rispondere alla domande del prigioniero:
Camminavi su e giù e, insieme a te, andavano su e giù i tuoi pensieri, avanti e indietro, senza posa. Ma, per quanto ci appaiano privi di sostanza, anche i pensieri hanno bisogno di un punto d’appoggio, altrimenti iniziano a ruotare e a turbinare in modo assurdo su se stessi. Neanche i pensieri sopportano il nulla.
Per quattro mesi, l’unica boccata d’aria è rappresentata dall’interrogatorio, grazie al quale il Dr. B. può osservare oggetti e colori differenti e può sperare nello sguardo e nel confronto con un’altra persona. Sull’orlo della pazzia, ormai prossimo a confessare la sua strenua difesa dei beni dell’ex Corona asburgica dagli espropri operati dal Reich, il Dr. B. trova però, quasi miracolosamente, un’ancora di salvezza: dentro uno dei cappotti che si trovavano appesi all’interno della stanza per l’interrogatorio, si scorgeva la forma indistinguibile di un libro e il Dr. B. decide quasi d’impulso di rubarlo. Tuttavia, una volta in camera, rimane profondamente amareggiato e colpito al tempo stesso:
A prima vista fui deluso, e provai persino una specie di amara irritazione: quel libro, guadagnato con enorme rischio e tenuto in serbo con fervide aspettative, non era altro che un manuale di scacchi, una raccolta di centocinquanta partite di campioni.
Che farne allora? Un libro del genere presuppone un compagno contro il quale giocare e una scacchiera con dei pezzi. Il Dr. B. però ha ormai quell’unico testo, unica e immensa boccata di ossigeno fatta di diagrammi di partite, di lettere indicanti le colonne e di numeri indicanti le traverse. Servendosi del suo lenzuolo già miracolosamente quadrettato e di molliche di pane modellate a costituire i pezzi, elabora così, clamorosamente, la sua risposta al vuoto della prigionia. Convogliando energie fisiche e mentali in quell’unica attività e in quell’unico libro, assorbendone dettagli, regole e schemi, il Dr. B. si confronta in maniera quasi religiosa con quel gioco, il quale risulta anche efficace in termini di difesa logico-mentale contro le domande degli uomini della Gestapo:
Una distrazione infinita animava quotidianamente il silenzio della cella, e proprio la regolarità degli esercizi restituiva alle mie facoltà mentali la sicurezza ormai scossa: sentivo il cervello rinfrescato e persino, per così dire, affilato dalla costante disciplina mentale […]. Mi ero perfezionato nella difesa contro finte minacce e celati stratagemmi: da allora in poi alle udienze non mostrai più alcun punto debole, mi parve persino che gli uomini della Gestapo a poco a poco iniziassero a trattarmi con un certo rispetto.
Stefan Zweig
Un libro dunque, per quanto astratto e complesso, restituisce il Dr. B. alla sua umanità. Quelle fondamenta così scosse e sovvertite dalla innaturale regolarità e monotonia di una stanza priva di qualsiasi riferimento, rappresentazione materiale del Nulla e del Vuoto più totale, vengono ricostruite un pezzo di scacchi per volta, sulla superficie bianca e nera di una scacchiera prima materiale e poi mentale. Il passatempo diviene scelta di vita, diviene l’unico riferimento, l’unico conforto in un mondo divenuto insensato e fuori da ogni regola. Ritornando a Silvia Romano, vale pertanto la pena di ricordare le sue parole, citate in apertura: «avevo bisogno di credere in qualcosa». Credere in qualcosa è un bisogno essenziale e radicato in uomini e donne di ogni epoca. Che sia un manuale di scacchi o un Corano, un libro in prigionia rappresenta spesso una via d’uscita, l’unica, dal vuoto di una prigione. Le parole di Silvia Romano, riportate sul Corriere della Sera, rappresentano forse un calco, tragicamente più reale, della vicenda del Dr. B.:
Stavo sempre in una stanza da sola, dormivo per terra su alcuni teli. Non mi hanno picchiata e non ho mai subito violenza.
Mentre lo dice Silvia non sa che fuori dalla caserma c’è chi dice che l’abbiano fatta sposare con uno dei carcerieri, addirittura che sia incinta. Non lo sa ma le sue parole bastano:
«Non sono stata costretta a fare nulla. Mi davano da mangiare e quando entravano nella stanza i sequestratori avevano sempre il viso coperto. Parlavano in una lingua che non conosco, credo in dialetto.
Lei chiede di poter leggere.
Uno di loro, solo uno, parlava un po’ di inglese. Gli ho chiesto dei libri e poi ho chiesto di avere anche il Corano.
È in questo momento che inizia, probabilmente, il suo percorso di conversione.
Sono sempre stata chiusa nelle stanze. Leggevo e scrivevo. Ero certamente nei villaggi, più volte al giorno sentivo il muezzin che richiamava i fedeli per la preghiera.
Non giudichiamo, allora, tutte quelle scelte che vanno al di là delle nostre comode percezioni e del nostro modo prettamente materialista di intendere la vita e le decisioni umane. Forse, disabituati a doverci aggrappare con tutti noi stessi ad una piccola speranza quando il Nulla regna sovrano, abbiamo disimparato la profonda connessione tra l’adesione ad una qualsiasi forma di religiosità e il sentirsi, realmente e disperatamente, umani.
FONTE:https://www.lintellettualedissidente.it/controcultura/letteratura-2/novella-deghli-scacchi-stefan-zweig-silvia-romano/
DIRITTI UMANI
Reazione popolare di Napoli contro la polizia
Lisa Stanton – 24 05 2020
La polizia credeva di poter riproporre alla manifestazione di Napoli quel che ha fatto impunemente l’altra settimana a Roma. Ne è seguita una reazione popolare denunciata dal capo della polizia Gabrielli sul MSM, ma il comunicato degli organizzatori spiega cosa accaduto.
Per i disordini a Napoli, con 3 poliziotti feriti, gli organizzatori accusano le FFOO di aver di fatto tentato il blocco del corteo, impedendo loro ogni spostamento, e precisano che la manifestazione era autorizzata.
È bene che i vertici delle FFOO ricordino che il diritto di manifestare contro il governo è riconosciuto e garantito dalla Costituzione, specie se il potere ha utilizzato una false flag per comprimere i diritti, impoverire la popolazione, aumentare il numero dei disoccupati, chiudere migliaia di PMI, favorire i suicidi, commettere ogni altra ignominia nel nome de Lascenza.
È tempo che gli stessi vertici scelgano da che parte stare, in ogni paese europeo – sebbene altrove le coercizioni non siano paragonabili a quelle subite in Italia – si protesta per riaffermare le proprie libertà fondamentali
++++ ECCO LA VERITÀ ++++
Una doverosa risposta alle calunnie a mezzo stampa del capo della polizia Gabrielli.
Come realtà promotrici della manifestazione a Piazza Dante di sabato 23 maggio, riteniamo opportuno stigmatizzare e smentire categoricamente le dichiarazioni del capo della polizia Franco Gabrielli in merito agli incidenti avvenuti all’angolo di via Roma.
La manifestazione a piazza Dante infatti, come riconosce lo stesso Gabrielli, era stata regolarmente autorizzata dalla Questura. Come organizzatori ci siamo fatti carico di seguire scrupolosamente la procedura burocratica, e di nostra iniziativa ci siamo finanche recati mercoledì scorso in Questura per far presente che, dato il silenzio delle istituzioni sulle vertenze da noi rappresentate, ritenevamo necessario concordare una modalità per permettere ai manifestanti di spostarsi verso piazza Municipio, dichiarandoci disponibili a muoverci alla “spicciolata” attraverso i marciapiedi e nel pieno rispetto delle distanze di sicurezza.
In quell’occasione, i vertici della Digos, nel precisare che il DPCM Rilancio confermava il divieto di indire cortei, dichiaravano che non vi era alcun problema a consentire lo spostamento di persone attraverso marciapiedi e zone pedonali, precisando altresì che “nessuna autorità può ledere il diritto individuale a spostarsi liberamente”.
Durante il presidio abbiamo invece constatato che la Questura aveva completamente sigillato il varco d’accesso a via Toledo, ivi compresi i marciapiedi, al fine di impedirci ogni spostamento verso i palazzi istituzionali, con un’aperta violazione sia dei patti intercorsi, sia soprattutto del diritto fondamentale di ogni cittadino a muoversi e spostarsi liberamente per le vie cittadine.
Solo a quel punto, spinti dalla comprensibile indignazione e rabbia diffusasi tra i manifestanti a seguito di questa vera e propria provocazione, ci siamo visti costretti a muoverci alla spicciolata per i vicoli interni di Montecalvario.
Ciò tuttavia non è bastato a far abbassare la tensione nelle forze dell’ordine, le quali nei minuti successivi hanno iniziato a passare al setaccio ossessivamente ogni angolo di accesso a via Roma con l’intento di sequestrare i manifestanti dentro i vicoli di Montecalvario. È in quegli istanti che, in risposta alla ferma determinazione dei manifestanti a raggiungere piazza Matteotti (dove peraltro nel frattempo era già stato concordato un incontro tra una nostra delegazione e il vicesindaco Panini) un ampio schieramento di polizia in assetto antisommossa ha incredibilmente caricato e manganellato alla cieca, ferendo almeno cinque tra lavoratori e disoccupati.
Che il CoVid-19 non fosse altro che un pretesto per instaurare nel nostro paese uno stato di Polizia, lo avevamo compreso già nei mesi scorsi, laddove il diritto di sciopero e di assemblea è stato messo fuorilegge nel mentre i padroni erano lasciati liberi di ammassare e di ammazzare migliaia di lavoratori in fabbriche e magazzini trasformati in enormi focolai pandemici, o allorquando la Questura di Napoli non si è fatta scrupoli nel rifilare multe di 400 euro a disoccupati già ridotti alla fame e colpevoli di aver aperto uno striscione fuori alla Prefettura o al Comune dopo anni di prese in giro da parte delle Istituzioni…
Ma che ora il capo delle forze dell’ordine voglia presentare i suoi uomini alla stampa come dei miti agnellini vittime delle violenze di lavoratori e disoccupati scesi in piazza solo per reclamare il diritto al salario e il rispetto delle norme e dei CCNL varati e disattesi dal loro stato e dal loro governo, questo ci sembra davvero assurdo, ed è un offesa all’intelligenza di chi a via Roma ha potuto vedere coi propri occhi l’accanimento che ci è stato riservato dagli uomini della Questura e del reparto mobile di Napoli.
Auspichiamo che la stampa cittadina, che ha dato ampio risalto alle dichiarazioni strumentali di Gabrielli e continua impropriamente ad etichettarci come “centri sociali”, sia altrettanto disponibile a garantirci il diritto di replica.
SI Cobas Napoli e Caserta
SI Cobas Manutenzione Stradale- Banchi Nuovi
Movimento Disoccupati 7 novembre
Laboratorio Politico Iskra
FONTE:https://www.facebook.com/lisa.stanton111/posts/3230216366996617
ECONOMIA
IL GOVERNO PUNTI SULLE IMPRESE CONTRO LA CRISI
Puntando sulle imprese è possibile rilanciare la ripresa e la crescita. Il Covid-19 si è rivelato il dramma del nostro tempo con le inevitabili ripercussioni anche nel mondo del lavoro, relegando lavoratori autonomi e imprenditori nel ruolo di vittime passive, mentre i giovani, in cerca di una occupazione, ai margini della società. Il non poter far essere o continuare ad essere, questi ultimi, inseriti nel sistema produttivo di un Paese, soprattutto quando questo è sancito costituzionalmente, rappresenta soprattutto per loro, che guardano al futuro, una gravità mostruosa. Possiamo definire, senza ombra di smentita, questo lungo periodo un’inattività forzata che, con il protrarsi del tempo, si è tramutata in una vera e propria paralisi anche delle proprie legittime speranze, ecco perché poi assistiamo all’affievolirsi dei sogni e degli ideali, circostanza di cui soprattutto i giovani sono spesso, ingiustamente, accusati.
Ma per poter guardare con fiducia al futuro e realizzare le proprie aspirazioni e i propri progetti, non bastano impegno e ambizioni, serve una base concreta, un punto d’appoggio su cui costruirli. Questo punto d’appoggio è rappresentato proprio dal lavoro, senza il quale risultano impensabili progetti a lungo termine. È storia dei nostri giorni, sotto gli occhi di tutti e con sempre maggiore evidenza, che questa pandemia ha portato ad una crisi profonda con delle devastazioni psicologiche e morali che ne sono conseguite, inducendo alcune persone, sopraffatte dalla disperazione, ha compiere degli atti estremi come il non poter riaprire la propria attività, senza quegli aiuti tanto sbandierati dal governo, ma mai giunti ai diretti interessati, e nei peggiori dei casi taluni a compiere gesti estremi come il decidere di togliersi la vita.
Una situazione preoccupante che reclama severe riflessioni e urgenti risposte concrete, non televisive da talk-show, non di annunci di decreti che per la loro applicabilità poi necessitano, a loro volta, di centinaia norme attuative che portano a dei tempi biblici la loro funzionalità. La risposta alla crisi, alla quale abbiamo assistito, che ha investito inesorabilmente sia i lavoratori che gli imprenditori, infatti, affrontata in tale modo ha portato ad una maggiore paralisi in entrambi le categorie. Tutto questo rappresenta ovviamente un male e quando questo male arriva ad assumere tali dimensioni, allora vuol dire che esso sta per divenire una calamità, con il rischio che possa trasformarsi, a breve tempo, in una piaga. Le piaghe, si sa, compaiono in quei malati i cui organismi sono deboli e, nello stesso modo, quando una società come la nostra, debole, viene a trovarsi in queste stesse condizioni, allora si ha il diritto – dovere di interrogarsi sul proprio stato di salute. E il primo a farlo deve essere l’attuale esecutivo. Il governo deve essenzialmente comprendere cosa davvero sia necessario fare per risollevare le sorti del Paese, deve fare qualcosa in modo celere, senza più annunci, ma fatti sui conti correnti degli imprenditori e dei cittadini, mettere in atto decisioni concrete che permettano agli stessi imprenditori di essere nuovamente produttivi, ascoltandoli, sono loro la migliore task force che si possa avere, così da poter mettere, a loro volta, in moto l’economia italiana.
Solo con vere misure incisive, volte a favorire la crescita del Paese sarà possibile innescare questo circolo virtuoso indispensabile per far ripartire l’Italia e favorire la ripresa. Il lavoro è un diritto, nonché un dovere, ma la sua mancanza rappresenta per un individuo e conseguenzialmente per una famiglia una vera e propria condanna: si comprende questo o no! L’appello che, da più parti della Società civile, è rivolto al premier Giuseppe Conte, altro non è che fare in modo che i cittadini possano soddisfare questo dovere ed esercitare questo diritto. Puntare sulle imprese, in questo momento storico, significa puntare sullo sviluppo. Può essere che non si riesca a trovare un modo veloce con cui attuare leggi speciali che possano sbloccare questa situazione?
FONTE:http://www.opinione.it/politica/2020/05/25/alessandro-cicero_covid-19-conte-occupazione-paese-fiducia-paralisi-governo-malati-societ%C3%A0-civile-decreti-economia-italiana/
LA GERMANIA MUNGE L’UE
Gianfranco Razzetti 25 05 2020
Economia sana?
Francesco Erspamer 22 05 2020
FINANZA BANCHE ASSICURAZIONI
Limite pagamento contanti dal 1° luglio 2020: importo, sanzioni e novità
25 Maggio 2020
Il nuovo limite per il pagamento in contanti scatterà dal 1° luglio 2020: la nuova soglia massima è di 2.000 euro. Da gennaio 2022 il limite scende ancora, arrivando a 1.000 euro. Ecco tutte le novità e le sanzioni previste.
Limite pagamento contanti 2020: dal 1° luglio la nuova soglia sarà 2.000 euro, superato tale importo si rischia di incorrere nell’applicazione delle sanzioni.
Dal 1° gennaio 2022 il limite scenderà ancora, abbassandosi a 1.000 euro, come stabilito dal decreto Fiscale.
Qualora si superassero le suddette soglie, scatterebbero sanzioni salate: fino a 50.000 euro per operazione.
Il nuovo limite per il pagamento in contanti era dunque già stato stabilito dal decreto n. 124/2019 collegato alla Legge di Bilancio, come ulteriore strumento nelle mani del Governo per la lotta all’evasione fiscale.
Inoltre, l’emergenza sanitaria ha dato una spinta non indifferente ai pagamenti tracciabili: complice la chiusura forzata di moltissime attività, in tanti hanno puntato alla vendita online.
Anche per disposizioni governative -ovvero per limitare il più possibile i contatti non necessari e per mantenere la distanza di sicurezza– i pagamenti con bancomat sono stati caldamenti raccomandati. Questo spiega anche il successo di molte applicazioni per il mobile payment (cioè pagare attraverso il cellulare).
La norma del decreto Fiscale si inserisce in un ampio quadro di misure antievasione che il Governo Conte ha messo tra le priorità del proprio operato basandosi su due grandi pilastri: da un lato la lotta al contante e dall’altro l’incentivo per i pagamenti tracciabili.
Lo scopo è di far emergere l’economia sommersa in ottica di lotta all’evasione, ma anche di stimolo alla modernizzazione della società e dell’economia.
Si colloca all’interno di questa strategia anche la lotteria degli scontrini, la cui entrata in vigore è stata prorogata al 1° gennaio 2021 a causa della pandemia.
Vediamo dunque come cambia il limite dei pagamenti in contante e quali sono le sanzioni in cui si incorre quando non si rispettano gli importi stabiliti.
Limite pagamento contanti dal 1° luglio 2020: importo, sanzioni e novità
Il limite all’uso dei contanti a partire dal 1° luglio 2020 è pari a 2.000 euro, salvo per il money transfer, per i quali la soglia massima resta fissata a 1.000 euro.
Tale limite comporta che:
- fino a 1.999 euro è possibile dare soldi in contanti ad un’altra persona/azienda;
- da 2.000 euro in su è necessario l’utilizzo di strumenti tracciabili (bonifico bancario, carta di credito, ecc.) per poter trasferire risorse da un soggetto ad un altro.
Le sanzioni in caso di violazione del limite all’utilizzo dei contanti sono state recentemente riformate dal D.Lgs. 90/2017. Anche sull’importo previsto nel caso di pagamenti superiori al nuovo limite sono da segnalare alcune novità introdotte dal Decreto Fiscale 2020:
Soglia limite pagamento contanti 2020 | Sanzioni parti contraenti | Sanzioni professionisti obbligati alle segnalazioni |
---|---|---|
Fino a 250.000 euro | Da 2.000 a 50.000 euro | Da 3.000 a 15.000 euro |
Oltre 250.000 euro | Da 15.000 a 250.000 euro | Da 3.000 a 15.000 euro |
Le sanzioni vengono commisurate all’effettivo importo della violazione commessa.
La normativa attualmente vigente prevede quindi il divieto di pagare ad uno stesso soggetto e nella stessa giornata, importi in contanti pari o superiori a euro 2.000.
Tuttavia, la stessa normativa consente il pagamento rateizzato in contanti di operazioni economiche che – fisiologicamente – si prestino a tale situazione: si pensi, per esempio, alle cure mediche dal dentista.
Limite pagamenti in contanti: dal 2022 l’importo massimo sarà 1.000 euro
Fino allo scorso anno il limite all’uso dei contanti era fissato a 3.000 euro. Come sopra anticipato, la riduzione è una delle novità introdotte dal Decreto Legge n. 124/2019, provvedimento in ambito fiscale collegato alla Legge di Bilancio 2020.
Nel 2022 si tornerà quindi al limite ai pagamenti in contante stabilito dal Governo Monti, ma il passaggio sarà graduale:
- fino al 30 giugno 2020 si potrà pagare in contanti fino a 3.000 euro;
- dal 1° luglio scatterà la nuova soglia, fissata a 2.000 euro;
- un’ulteriore stretta è prevista dal 2022, quando il limite sarà dimezzato e passerà a 1.000 euro.
La progressività della stretta all’uso del contante da parte del Governo Conte è il frutto di compromessi e trattazioni tra il Movimento 5 Stelle e Italia Viva, i quali non si trovano d’accordo col limite del denaro liquido.
Sulla “liberalizzazione” o limitazione all’uso dei contanti si gioca da sempre una vera e propria battaglia politica e, con il Governo Lega-M5S, era stata paventata l’ipotesi di un’abolizione totale di qualsiasi tipologia di limite ai pagamenti con denaro cash.
Il cambio di Governo ha stravolto le carte in tavola, e uno dei punti che tiene insieme M5S e PD è la volontà di combattere l’evasione, fenomeno per il quale è ritenuto indicativo l’elevato uso del contante.
Partendo quindi dal presupposto che, almeno per il momento, sembra davvero difficile che accada, quali sarebbero i pro e i contro di un’abolizione del limite per il pagamento in contanti?
Limite contanti: i pro e i contro di un’eventuale abolizione con l’esempio europeo
Non è facile dare una risposta univoca considerando la complessità del tema trattato, ma dati alla mano proveremo a rispondere.
In Europa ci sono Paesi come Germania e Austria che non hanno alcun limite all’uso dei contanti, oppure che ce l’hanno ma a livelli abbastanza alti. L’assenza del limite ai pagamenti in contanti però non comporta un alto tasso di evasione fiscale, o comunque il livello non è paragonabile a quello monstre in Italia.
Una prima considerazione è necessaria: la ratio legis delle normative che comportano il limite all’uso dei contanti per i pagamenti è proprio quella di ridurre il rischio di evasione fiscale, oltre che di riciclaggio di denaro proveniente da attività illecite.
Dall’altro lato, ci sono molti studi empirici che evidenziano come i Paesi con un limite anche non eccessivamente basso all’uso dei contanti riescono a contrastare meglio le associazioni criminali dedite al riciclaggio.
Circa due anni fa, per esempio, l’ex ministro Pier Carlo Padoan (economista che ha lavorato all’Ocse e al FMI) disse che il limite ai contanti accompagnato da incentivi all’uso di pagamenti tracciabili ha prevedibili effetti positivi sui consumi.
La stessa Agenzia delle Entrate, nonché la dottrina giuridico-tributaria prevalente affermano da sempre che:
“l’uso eccessivo del contante rende possibile una buona parte dell’evasione e che le organizzazioni mondiali dedite a criminalità organizzata, riciclaggio e corruzione hanno la vita più facile grazie all’assenza di limiti all’uso dei contanti”.
Le opinioni in merito sono divergenti, e molti contribuenti e professionisti si schierano per l’eliminazione di qualsiasi vincolo all’uso del contante.
C’è però da dire che l’Italia è un Paese strozzato dall’evasione, dove è ancora oggi elevatissimo il fenomeno del lavoro nero (vedremo quale sarà l’effetto della doppia sanatoria prevista dal decreto Rilancio, che però è prevista solo per braccianti e lavoratori domestici).
Per ora dunque siamo molto lontani da ogni ipotesi di eliminazione di vincoli, limiti e segnalazioni nel caso di uso o movimentazione sospetta di denaro liquido.
FONTE:https://www.money.it/limite-pagamento-uso-contanti-2020-importo-sanzioni-novita
IL REGALO DEL GOVERNO ALLE BANCHE CON LE NORME EMERGENZIALI SUL PROCESSO CIVILE
Non ne ha parlato nessuno, tranne io e Paolo Becchi nel nostro ultimo libro.
Dall’8 marzo c’è l’obbligo per gli avvocati di pagare il contributo unificato e i diritti esclusivamente con STRUMENTI INFORMATICI (sostanzialmente con la carta di credito): un regalo alle banche che prima non c’era, poco meno di 2 € ad ogni transazione.
Fino al 7 marzo, infatti, se l’avvocato decideva di iscrivere la causa a ruolo (civile) con strumenti telematici, poteva scansionare il contributo unificato e la marca per diritti (i tagliandini della Lottomatica) con ZERO commissioni. Alla prima udienza, o appena passava in cancelleria, consegnava gli originali dei tagliandini della Lottomatica.
Dall’8 marzo non è più possibile perché non solo è prevista l’obbligatorietà dell’iscrizione a ruolo per via telematica (fino al 7 marzo vigeva il più che giusto doppio-binario cartaceo/telematico), ma anche il pagamento con STRUMENTI INFORMATICI del contributo unificato e dei diritti, con un regalo alle banche dal quale nessun avvocato può sfuggire trattandosi di un obbligo.
Il processo civile italiano, dal 30 giugno 2014, è uno dei più DIGITALIZZATI d’Europa: esiste infatti da sei anni a questa parte l’obbligo del DEPOSITO TELEMATICO di tutti gli atti endoprocessuali (in buona sostanza 7 atti su 8, dove per l’ottavo – l’iscrizione a ruolo – esisteva fino al 7 marzo il doppio-binario).
Che bisogno c’era di prevedere ulteriori obblighi in tal senso profittando della scusa dell’emergenza, stante tra l’altro la condivisibile sospensione dei termini processuali dal 9 marzo all’11 maggio?
Trattandosi di norme emergenziali, che per legge esauriscono la loro efficacia il 30 giugno, mi auguro che non vengano in alcun caso prorogate e che il governo non le tramuti in norme valevoli anche dopo il periodo d’emergenza. Sarebbe inaccettabile!
Non ne ha parlato nessuno, tranne io e Paolo Becchi nel nostro ultimo libro “DEMOCRAZIA IN QUARANTENA. Come un virus ha travolto il Paese“, Historica edizioni.
Giuseppe PALMA
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Qui un mio VIDEO sull’argomento (su facebook):
CORONAVIRUS E GIUSTIZIA: LA FINE DEL DIRITTO DI DIFESA La giustizia è stata completamente abbandonata. Gli avvocati sono stati messi nelle condizioni peggiori. Eppure, tanto per non dimenticare, il processo penale è a garanzia dell’imputato: esiste solo a sua difesa, non di certo per il giudice o il PM. Sono Beccaria e Filangieri ad essere calpestati.La giustizia civile è messa ancora peggio, con norme assurde e senza senso (l’obbligo del pagamento del contributo unificato esclusivamente con strumenti informatici è un palese regalo alle banche).Tutto questo è condito da innumerevoli protocolli, talvolta incomprensibili, che mutano da tribunale a tribunale.Il peso del #coronavirus nell’ambito della #giustizia è stato scaricato esclusivamente sugli avvocati, i quali – nell’esercizio del diritto di difesa – sono indispensabili. Senza avvocati e senza difesa non può esistere il processo, tant’è che l’art. 24 della Costituzione definisce il diritto di difesa come INVIOLABILE. Giuseppe PALMA
Gepostet von La Costituzione – Pagina dell’avv. Giuseppe Palma am Sonntag, 24. Mai 2020
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Consigli letterari:
di Paolo Becchi e Giuseppe Palma, “DEMOCRAZIA IN QUARANTENA. Come un virus ha travolto il Paese“, Historica edizioni.
Qui i link per l’acquisto:
http://www.historicaedizioni.com/libri/democrazia-in-quarantena/
https://www.libreriauniversitaria.it/democrazia-quarantena-virus-ha-travolto/libro/9788833371535
FONTE:https://scenarieconomici.it/il-regalo-del-governo-alle-banche-con-le-norme-emergenziali-sul-processo-civile-di-giuseppe-palma/
GIUSTIZIA E NORME
Il responsabile inesistente
Ecco gli errori più comuni che si riscontrano nelle procedure di nomina dei responsabili del trattamento dati
Il Responsabile Inesistente non è un tentativo di riedizione di un’opera di Calvino, ma il precipitato logico e normativo di alcune procedure di “nomina” (o, per meglio dire: di identificazione e di regolazione dei rapporti) del responsabile del trattamento.
Ecco i tre errori più comunemente riscontrati nel corso delle attività di verifica documentale.
C’è chi qualifica come responsabile del trattamento qualsiasi destinatario dei dati. Insomma: diventa la notte delle vacche nere di hegeliana memoria: se chiunque riceve i dati da parte del titolare del trattamento è responsabile, allora si confondono i ruoli di responsabile e destinatario dei dati, arrivando al paradosso di chi intende regolare i rapporti persino con enti pubblici (es. INPS o Agenzia delle Entrate) ai sensi dell’art. 28 GDPR, o con il provider di telefonia. Occorre ricordare che destinatario dei dati è, ai sensi della definizione fornita dall’art. 4.1 n. 9) GDPR, chiunque “riceve comunicazione di dati personali, che si tratti o meno di terzi” e dunque vero è che tutti i responsabili del trattamento sono destinatari dei dati, ma non tutti i destinatari dei dati sono necessariamente responsabili del trattamento
Pratica maggiormente comune, invece, è l’indicazione di uno o più soggetti facenti parte dell’organizzazione, come responsabili interni. Spesso tali soggetti hanno funzioni direzionali ed un margine di autonomia decisionale, ma sono comunque parte dell’assetto organizzativo del titolare e per l’effetto non possono trattare dati “per conto”, bensì svolgono operazioni di trattamento “sotto l’autorità”. Non c’è quel distacco richiesto per lo svolgimento dell’attività in outsourcing con una distinzione di responsabilità, ma si tratta di un’assegnazione di compiti e funzioni che è una misura organizzativa predisposta dal titolare del trattamento designando taluni soggetti ai sensi dell’art. 2-quaterdecies Cod. Privacy. A differenza dell’attività di trattamento svolta da un responsabile, in questo caso il titolare del trattamento resta comunque responsabile sia ai fini risarcitori nei confronti degli interessati che nell’ambito sanzionatorio qualora dall’agire del soggetto designato siano generate delle violazioni del GDPR.
Una menzione particolare merita invece l’artificiosa figura del responsabile del trattamento non autorizzato all’accesso ai dati, spesso assegnata al personale esterno che si occupa della pulizia degli ambienti aziendali. Prevale l’impiego del “non”: non è autorizzato ad accedere ad alcun dato, non è autorizzato a svolgere operazioni sui dati, non è autorizzato a trasferirli a soggetti terzi o diffonderli, non è autorizzato a trasferirli al di fuori dello SEE, et cetera. Il picco del paradosso viene raggiunto nel momento in cui si impone a tale soggetto la tenuta del registro del responsabile, la cui redazione e compilazione può senza dubbio sfociare in un’opera dada.
Il parere n. 1/2010 dell’art. 29WP sui concetti di titolare e responsabile del trattamento rimane tutt’ora la principale chiave interpretativa di tali ruoli in quanto compatibile con il GDPR, come confermato dall’adozione da parte dell’EDPS delle Linee Guida sui concetti di titolare, responsabile e contitolarità sotto il Reg. (UE) 2018/1725 che regola la disciplina in materia di protezione dei dati personali negli ambiti di trattamento svolti da parte di istituzioni, organi e organismi dell’Unione.
Insomma: la norma esiste ed è chiara a riguardo tanto nell’identificazione dei soggetti che nella regolazione dei rapporti intercorrenti fra gli stessi. Prima di sfociare in teorie singolari, interpretazioni suggestive ed applicazioni creative, è preferibile un approccio che prediliga studio e metodo per l’applicazione della norma al contesto operativo.
FONTE:https://www.infosec.news/2020/05/23/news/riservatezza-dei-dati/il-responsabile-inesistente/
LA LINGUA SALVATA
Settario
set-tà-rio
SIGNIFICATO Relativo a una setta; fanatico, chiuso, intransigente
ETIMOLOGIA da setta ‘modo di vivere, linea di condotta’, ma anche ‘scuola’ e quindi ‘fazione’, derivato di sequi ‘seguire’.
Usare una parola come questa, non astrusa ma dai significati sottili e forti, dà subito la sensazione di un pensiero fine e ficcante. Naturalmente per comprenderla si deve partire da che cos’è una setta — e la risposta non è scontata come sembra.
Siamo abituati a considerare la setta come un gruppo di persone, specie a carattere religioso, che si separa come una sezione scissionista da un gruppo principale. Molti infatti credono, o almeno annusano, che la setta sia legata alla sezione, al settore, e insomma al latino sectio, un derivato di secare, ‘tagliare’. Dopotutto che cosa fanno le sette cristiane se non separarsi dalla corrente dottrinale principale? Questo è vero fino a un certo punto.
Di sicuro la setta si nota a contrasto: la sua professione è scostata rispetto a quella maggioritaria. Ma i significati di separazione che porta sono incidentali: la setta è una linea di condotta, una scuola — che si fa fazione.
Il suo nome deriva da un participio passato arcaico del verbo latino sequi, ‘seguire’: la setta sarebbe letteralmente una seguita. Il senso di distinzione convinta che emerge dalla setta è la separazione di un diverso seguire, di una diversa pratica, piuttosto che una cesura, un taglio.
L’immagine è suggestiva, ma di solito non ha un’accezione positiva: quella della setta è quasi invariabilmente una corrente di pensiero e di condotta con caratteri di intransigenza e di chiusura. E in una certa misura, il prendere una strada diversa rispetto a una maggioranza ha sempre un profilo di inconciliabilità, di avanguardismo e di entusiasmo: che poi questi profili possano essere crismi di fanatismo (specie agli occhi di chi resta nella maggioranza e usa il termine ‘setta’), non è strano.
Il settario ha questa precisa dimensione. In varî gradi e con diversa aderenza critica è sostenitore oltranzista di dottrine e di posizioni ideologiche, fazioso, talvolta cospiratore. Una decisione politica può essere determinata dalla paziente pressione di un gruppo d’interesse settario, la commissione, con giudizi argomentati, si scrolla di dosso ogni sospetto d’essere settaria, e con l’amico settario è difficile parlare in serenità.
Insomma, abbiamo una parola ombrosa che attribuisce linee di condotta e di pensiero energiche, rigide e divergenti. Mica male.
Parola pubblicata il 23 Maggio 2020
Testo originale pubblicato su: https://unaparolaalgiorno.it/significato/settario
FONTE:https://unaparolaalgiorno.it/significato/settario
LAVORO PENSIONI DIRITTI SOCIALI
IL DIVIETO DI LICENZIAMENTI AL TEMPO DEL “CORONAVIRUS”
Pubblicato less then minute ago | by Avv. Luciano Romeo | in Lavoro
L’art. 46 del d.l. 18/2020 (c.d. “cura Italia”) – poi convertito in legge n. 27/2020 – ha tra l’altro introdotto per tutti i datori di lavoro, indipendentemente dal numero dei dipendenti, un divieto assoluto (ma temporaneo) di effettuare licenziamenti per giustificato motivo oggettivo (art. 3 della l. n. 604/1966).
Il divieto, inizialmente della durata di sessanta giorni decorrenti dalla data di entrata in vigore del decreto (17 marzo 2020), è stato da ultimo esteso, per complessivi “cinque mesi”, dall’art. 80 del d.l. 19 maggio 2020, n. 34 (c.d. “rilancio Italia”).
Gli iniziali dubbi sulla disposizione in commento, recentemente acuiti per effetto della suddetta proroga, offrono quindi l’occasione per approfondire – senza presunzione di completezza – le ragioni del divieto e la sua compatibilità con i principi (anche di rango costituzionale) che presiedono la disciplina del licenziamento per g.m.o.
Sommario: 1. Introduzione – 2. Emergenza e solidarietà: le ragioni del divieto ed i profili di maggior attrito con il principio d’iniziativa economica – 3. Il licenziamento per g.m.o. tra libertà di iniziativa economica e tutela dell’occupazione – 4. Considerazioni conclusive
1. Introduzione
La terminologia “giornalistica” utilizzata dal Governo per pubblicizzare gli interventi normativi di contrasto all’epidemia da COVID-19, costituisce un primo indice ermeneutico per gli operatori del settore.
Il concetto di “cura Italia” – nome affibbiato al decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18 – rievoca infatti l’idea di misure finalizzate (almeno in tesi) ad assistere i cittadini raggiunti dalle conseguenze – anche economiche – della crisi sanitaria.
Tali considerazioni risultano avvalorate dalla relazione illustrativa al decreto, la cui adozione viene ivi giustificata «per affrontare l’impatto economico di questa emergenza sui lavoratori, sulle famiglie e sulle imprese».
In questo quadro si inserisce la previsione contenuta nell’art. 46 del decreto-legge (poi nelle more convertito nella legge 24 aprile 2020, n. 27), secondo cui: «1. A decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto l’avvio delle procedure di cui agli articoli 4, 5 e 24, della legge 23 luglio 1991, n. 223 è precluso per 60 giorni e nel medesimo periodo sono sospese le procedure pendenti avviate successivamente alla data del 23 febbraio 2020, fatte salve le ipotesi in cui il personale interessato dal recesso, già impiegato nell’appalto, sia riassunto a seguito di subentro di nuovo appaltatore in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro o di clausola del contratto d’appalto. Sino alla scadenza del suddetto termine, il datore di lavoro, indipendentemente dal numero dei dipendenti, non può recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’articolo 3, della legge 15 luglio 1966, n. 604».
La disposizione in esame, quindi, inibisce l’avvio – a far data dal 17 marzo 2020 (giorno della sua entrata in vigore) – dei licenziamenti “a carattere economico” e, ove già avviati alla data del 23 febbraio 2020, ne sospende la prosecuzione (e quindi l’efficacia espulsiva). Il tutto, per un periodo di sessanta giorni: e quindi con scadenza al 16 maggio 2020.
Sin dalla sua entrata in vigore, l’art. 46 ha destato alcune perplessità in considerazione della forte limitazione che il “blocco” imporrebbe sulle scelte di politica economica delle imprese, nel cui novero rientrano anche quelle di gestione (in uscita) dei rapporti di lavoro.
Tali scelte, del resto, rappresentano la manifestazione del principio di libertà di impresa (art. 41 comma 1 Cost.) e, in definitiva, costituiscono il presupposto stesso dell’attuazione del diritto al lavoro[1].
È pur vero, che in una situazione emergenziale come quella in corso, non sarebbe stato difficile “giustificare” l’adozione di provvedimenti espulsivi adducendo ragioni di natura squisitamente economica, intuitivamente legate agli effetti negativi dell’epidemia.
E tuttavia, si fa fatica a comprendere l’assorbimento, entro l’ambito applicativo della norma – sia pure sotto il profilo della “sola” sospensione – anche di quelle procedure già avviate prima che l’agente patogeno facesse il suo ingresso in Italia (o, quantomeno, prima che i suoi effetti si manifestassero in maniera così virulenta), le quali, probabilmente, poco o nulla avevano a che vedere con la situazione epidemiologica.
Come a più riprese indicato dalla Corte costituzionale[2], infatti, l’ordinamento giuridico è coerente se viene assicurato «trattamento eguale di condizioni eguali e trattamento diseguale di condizioni diseguali» (arg. art. 3 Cost.).
I dubbi sono quindi aumentati con l’avvento dell’art. 80 comma 1 lett. a) del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34 (c.d. “decreto rilancio”) che, nel novellare l’art. 46, ha prorogato il periodo di operatività del blocco, passato, dagli iniziali sessanta giorni, agli attuali “cinque mesi” (quindi con scadenza al 17 agosto 2020).
2. Emergenza e solidarietà: le ragioni del blocco ed i profili di maggior attrito con il principio d’iniziativa economica
V’è da dire, in proposito, che è in generale diffusa la tesi secondo cui, in ipotesi di cessazione totale dell’impresa[3], un divieto assoluto di licenziamento dovrebbe ritenersi incompatibile con il dettato costituzionale[4], in quanto non potrebbe costringersi taluno a proseguire l’attività d’impresa, in situazioni di perdita economica[5].
Occorre domandarsi, allora, quali siano le ragioni sottese all’introduzione del blocco.
Una prima considerazione da cui muovere (che rievoca ancestrali dibattiti giuslavoristici), è quella di considerare la normativa emergenziale come declinazione, di fonte legale, dei principi costituzionali di cui agli artt. 4 comma 1 e 41 comma 2 Cost.
La prima, norma di natura programmatica[6], imporrebbe infatti al Legislatore di «promuovere» le condizioni per rendere effettivo il diritto al lavoro e, in una situazione emergenziale come quella in corso, potrebbe in effetti legittimare l’attuazione di un blocco dei licenziamenti.
Ponendo la questione in questi termini, però, è forte il rischio di incorrere in una “forzatura ermeneutica” della norma, che, come anche rilevato dalla Corte costituzionale, «non garantisce a ciascun cittadino il diritto al conseguimento di un’occupazione (il che é reso evidente dal ricordato indirizzo politico imposto allo Stato, giustificato dall’esistenza di una situazione economica insufficiente al lavoro per tutti, e perciò da modificare), così [come] non garantisce il diritto alla conservazione del lavoro, che nel primo dovrebbe trovare il suo logico e necessario presupposto»[7].
Relativamente, poi, al secondo comma dell’art. 41 Cost., se ne potrebbe sostenere l’attuazione riconoscendo al blocco una funzione di “utilità sociale”, in quanto argine alla probabile “escalation” del tasso di disoccupazione correlata alle limitazioni imposte alle attività produttive.
Sul punto, pare invero attualissimo il pensiero di MAZZIOTTI: «stante l’impossibilità di definire il concetto di utilità sociale, questa disposizione costituisce una norma in bianco, che dà al legislatore il potere d’intervenire per vietare lo svolgimento delle iniziative che reputi in contrasto con quella che egli ritiene essere, in un dato momento, l’utilità del gruppo. Diciamo al legislatore, perché, sebbene la norma costituzionale non contenga un’espressa riserva di legge, il concetto stesso dell’utilità sociale postula una definizione univoca (anche se mutevole nel tempo) di essa, che non può essere formulata se non da chi esprime la volontà collettiva»[8].
Una simile ricostruzione, tuttavia, mostra evidenti limiti proprio in ragione della problematica ed incerta interpretazione giuridica del concetto di “utile” e della sua «irriducibile poliedricità»[9].
Più robusto sembra, invece, l’argomento della temporaneità del divieto.
Come insegnano diverse esperienze giuridiche del passato[10], non è fatto nuovo che situazioni eccezionali e transitorie giustifichino lo scostamento (entro certi limiti) dal dettato costituzionale.
Un doveroso richiamo in tal senso – seppur antidiluviano – è a quegli interventi normativi che disposero il blocco dei licenziamenti nell’immediato secondo dopoguerra[11], allora giustificati dalla necessità di mantenere i livelli occupazionali in un contesto economico piuttosto drammatico[12].
L’argomento della temporaneità del divieto sembra tuttavia risentire dell’apparente cessazione di quello stato di “eccezionalità” che, almeno inizialmente, poteva in effetti giustificarne l’adozione.
Si è già detto, infatti, che con l’entrata in vigore del c.d. “decreto rilancio” (d.l. n. 34/2020) il termine di cui all’art. 46 è stato prorogato ed è attualmente pari a cinque mesi.
In disparte le incerte conseguenze giuridiche che scaturiscono dal “vuoto” di tutela venutosi a creare tra lo spirare del primo periodo (16 maggio 2020) e l’esecutività della proroga (20 maggio 2020)[13], ciò che preme evidenziare è l’apparente precarietà dei presupposti “fattuali” che legittimano una operazione normativa di questo tipo.
Se, in una prima fase emergenziale segnata dal blocco (quasi) totale delle attività produttive, poteva sicuramente apprezzarsi la scelta del Governo di salvaguardare i livelli occupazionali a fronte di probabili fenomeni di licenziamento “di massa”[14], una scelta di questo tipo appare però meno aderente alle finalità proprie di una successiva fase, pubblicizzata come quella del rilancio economico, in cui viene generalmente permesso – adottate le opportune precauzioni[15] – esercitare attività d’impresa.
Il che, rappresenta inevitabilmente un confine tra l’emergenza “assoluta” e l’emergenza “relativa”.
Ai superiori rilievi fa eco, la questione del peso economico che l’impresa sarebbe costretta a sopportare per mantenere i rapporti lavorativi “salvati” dal blocco.
A questo proposito, non può sottacersi che l’azione di Governo sia stata sin da subito orientata nel senso di traslare, sulle casse erariali, le conseguenze economiche della crisi, agevolando alle imprese l’accesso agli ammortizzatori sociali (Cigo, Cigd)[16], ampliandone la platea dei beneficiari[17].
Il disegno del Legislatore è stato dunque abbastanza chiaro: prevedere una “valvola di sfogo”, facendo coincidere – pressoché totalmente – il periodo di vigenza del blocco (60 giorni) ed il periodo potenzialmente “coperto” dagli ammortizzatori sociali (9 settimane: ergo 63 giorni)[18].
In questo senso, infatti, va letto il comma 1-bis dell’art. 46 – recentemente introdotto dalla lettera b) del prima comma dell’art. 80 del “decreto rilancio” (34/2020) – secondo cui «Il datore di lavoro che, indipendentemente dal numero dei dipendenti, nel periodo dal 23 febbraio 2020 al 17 marzo 2020 abbia proceduto al recesso del contratto di lavoro per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’articolo 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604, può, in deroga alle previsioni di cui all’articolo 18, comma 10, della legge 20 maggio 1970, n. 300, revocare in ogni tempo il recesso purché contestualmente faccia richiesta del trattamento di cassa integrazione salariale, di cui agli articoli da 19 a 22, a partire dalla data in cui ha efficacia il licenziamento. In tal caso, il rapporto di lavoro si intende ripristinato senza soluzione di continuità, senza oneri né sanzioni per il datore di lavoro».
L’iniziale armonia del sistema è però venuta a mancare quando i suddetti periodi sono stati prorogati, in misura sensibilmente diversa tra loro.
Ed infatti, per effetto del “decreto rilancio”, l’arco temporale di efficacia del blocco è stato esteso a cinque mesi, mentre l’accesso agevolato agli ammortizzatori sociali è stato invece prolungato di ulteriori cinque settimane, usufruibili fino al 31 agosto 2020, per quelle aziende che abbiano interamente usufruito delle iniziali nove settimane previste[19].
La durata delle misure assistenziali è stata dunque portata, complessivamente, a 14 settimane (pari a circa tre mesi e mezzo), di talché, si registra una evidente discrasia temporale tra le due misure.
La mancanza di un contrappeso di natura economica, produce inevitabilmente un notevole sbilanciamento che, in ultima analisi, potrebbe tradursi in una ingiustificata (o quantomeno eccessiva) compressione della libertà d’impresa.
A questo dato, di per sé sintomatico dell’ingerenza dei pubblici poteri nell’attività imprenditoriale, si aggiungono le ulteriori condivisibili considerazioni in tema di violazione del divieto.
È stato fatto notare[20], infatti, come il Legislatore non si sia preoccupato di inserire nell’ art. 46 una specifica norma sulle conseguenze sanzionatorie per il mancato rispetto dei blocco.
Lacuna che non è di poco conto, se si considera l’oggettiva difficoltà nell’applicare le regole generali in materia di accertamento giudiziale della legittimità del licenziamento per g.m.o., che implica una verifica dei seguenti presupposti (come anche elaborati a più riprese dalla giurisprudenza[21]): i) il venir meno della posizione lavorativa per effetto della soppressione del settore lavorativo o del reparto o del posto cui il dipendente era stato addetto; ii) il nesso causale tra la soppressione del posto e le scelte datoriali dirette a incidere sulla struttura e sulla organizzazione dell’impresa, ovvero sui suoi processi produttivi nei suoi aspetti tecnico-organizzativi; iii) l’impossibilità di una diversa collocazione del lavoratore all’interno dell’impresa ristrutturata o rimodulata.
Una siffatta indagine, invero, sarebbe del tutto superflua nell’ipotesi di violazione dell’articolo 46, considerato che il licenziamento è (sic et simpliciter) vietato, prescindendosi dunque – qui la peculiarità – da qualsiasi indagine sulla sussistenza di tali presupposti.
Da ciò, il necessario ricorso ai principi generali in materia contrattuale e la possibile applicazione dell’art. 1418 c.c., qualificando la previsione contenuta nell’art. 46 come un’ipotesi di nullità del licenziamento, con il conseguente diritto del lavoratore alla reintegrazione nel posto di lavoro[22] (in netta antitesi con la tutela generalmente applicabile, in cui è invece precluso il ripristino del rapporto lavorativo cessato[23]).
La tutela “rafforzata” di cui potrebbe beneficiare il lavoratore illegittimamente licenziato – ordinariamente correlata alla salvaguardia di interessi generali di rango primario – è quindi indicativa del “peso specifico” che riveste il blocco nel disegno del Legislatore.
Peso che, come visto, non è di poco conto, considerando il rischio delle pretese economiche connesse alle retribuzioni mancate, oltre che al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali[24].
3. Il licenziamento per g.m.o. tra libertà di iniziativa economica e tutela dell’occupazione
Le incertezze sull’art. 46 sono anche alimentate da alcune riflessioni sull’istituto del licenziamento per g.m.o. che, ove legittimo, realizza “ex se” un’attenta ponderazione degli opposti interessi in gioco.
Come è noto, l’obbligatorietà della giustificazione dello scioglimento negoziale, introdotta con la legge 15 luglio 1966, n. 604 come condizione di validità dello stesso[25], pone un divieto per il legislatore di introdurre (rectius ripristinare) un generale regime di libera recedibilità[26] nei rapporti di lavoro.
Tra le ipotesi “giustificate” rientra anche la cessazione del rapporto lavorativo dettata da ragioni inerenti «all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa»: fattispecie che integra, giustappunto, il licenziamento per g.m.o.[27]
Sebbene tale espressione descrittiva configuri – secondo la tesi maggioritaria[28] – una norma “a fattispecie aperta” o “generale”, la giurisprudenza solo recentemente è approdata alla soluzione interpretativa secondo la quale, tra le ragioni ivi indicate, rientrerebbero anche le “mere” decisioni organizzative dettate dal conseguimento di un maggior profitto[29], dovendosi invece escludere la necessaria ricorrenza di situazioni di crisi aziendale.
Un’interpretazione di tal specie, si è detto, non assimilerebbe il licenziamento al recesso “ad nutum”, in quanto la decisione imprenditoriale resterebbe comunque motivata da ragioni organizzative che sarà necessario attuare in concreto, con la conseguenza che, ove il licenziamento «sia stato motivato richiamando l’esigenza di fare fronte a situazioni economiche sfavorevoli ovvero a spese notevoli di carattere straordinario ed in giudizio si accerti che la ragione indicata non sussiste, il recesso risulta ingiustificato per una valutazione in concreto sulla mancanza di veridicità e sulla pretestuosità della causale addotta dall’imprenditore»[30].
Dalle superiori considerazioni, dunque, ben può comprendersi come l’art. 3 della legge n. 604/66 – nel prescrivere da un lato la necessaria giustificazione del licenziamento e, dall’altro lato, nel ritenere “a priori” che tale presupposto sia integrato dal (legittimo) esercizio del potere datoriale di organizzazione – realizzi un adeguato bilanciamento tra le opposte esigenze (rectius tra opposti principi costituzionali) della conservazione del rapporto di lavoro (art. 4 Cost.) e della libertà d’impresa (art. 41 Cost.).
Devono leggersi in tal senso, infatti, i limiti dell’accertamento giudiziale di legittimità del licenziamento per g.m.o., in cui si esclude un sindacato “di merito” su congruità ed opportunità della scelta espulsiva[31].
Se, dunque, il Legislatore si era già preoccupato di ponderare gli interessi in gioco, sorge spontaneamente la domanda sulla compatibilità, nell’attuale assetto normativo, di un divieto assoluto di licenziamento, come tale, insensibile all’accertamento di tali ragioni organizzative.
4. Considerazioni conclusive
S’impongono, infine, alcune considerazioni di carattere generale.
L’emergenza epidemiologica ha evidentemente colto di sorpresa il mondo economico: è questa la chiave di lettura del tentativo di salvaguardare i livelli occupazionali con un’azione, il blocco, sicuramente pregevole nei fini.
Con il passaggio alla fase della auspicabile ripresa economica (in tesi oggetto di maggiore riflessione) pare, tuttavia, che si sia perso il senso della misura, poiché le imprese si ritrovano in un certo qual modo “intrappolate” in una rete normativa che, con molti dubbi, non pare offrire adeguate misure di sostegno sul versante della gestione dei rapporti di lavoro.
Occorre infatti considerare che, per poter operare, la maggior parte delle aziende necessiti di consistenti modifiche organizzative che, ove fosse stato possibile, avrebbero probabilmente dato luogo anche ad importanti riduzioni di personale.
E tuttavia, costringere le imprese a mantenere i rapporti lavorativi in essere senza prevedere idonee misure che annullino gli effetti (soprattutto economici) di tale limitazione, non pare in linea con il delineato quadro costituzionale.
Un buon compromesso si ravvisa invece nella previsione di cui al citato comma 1-bis dell’art. 46 che, lasciando alle imprese la valutazione sulla conferma del licenziamento o sulla sua revoca, con contestuale obbligatoria richiesta di accesso al trattamento di integrazione salariale, pare offrire una adeguata alternativa “a costo zero”.
In definitiva, poi, il temporaneo impedimento a cui sono sottoposte le imprese non muta i termini della questione: laddove le aziende, trascorso il periodo di efficacia del blocco, riterranno un soprannumero di risorse umane, si procederà inevitabilmente alla cessazione dei rapporti.
L’intervento, dunque, si riduce ad una mera aspettativa occupazionale che, per il vero, rischia di risolversi più in un “palliativo” che in una “cura”.
NOTE
[1] Cfr. D. GAROFALO, Formazione e lavoro tra diritto e contratto – L’occupabilità, Cacucci, Bari, 2004, 46.
[2] Cfr. Corte costituzionale, sentenze nn. 3/1957; 56/1958; 15/1960
[3] Si pensi alle previsioni contenute negli artt. 54, comma 3, lett. b), d.lgs. 26 marzo 2001, n. 151; 35, comma 5, lett. b), d.lgs. 11 aprile 2006, n. 198; 24, comma 2, legge n. 223/1991.
[4] La garanzia assoluta della continuità del rapporto di lavoro non è infatti compatibile con il “mantenimento dell’impresa sul mercato” (M. NAPOLI, Elogio della stabilità, in Quad. dir. lav. e rel. ind., n. 26, 2002, 10; cfr. anche G. PERA, La rilevanza dell’interesse dell’impresa nella motivazione dei licenziamenti collettivi, in Scritti di Giuseppe Pera – I – Diritto del lavoro, Giuffrè, Milano, 2007, 363).
[5] Cfr. Corte cost. 30 dicembre 1958, n. 78 che, chiamata pronunciarsi sull’imponibile di manodopera di cui al d.lgs. C.p.S. 16 settembre 1947, n. 929 – che consentiva ai prefetti di imporre con decreto ai conduttori di aziende agrarie o boschive un carico obbligatorio di giornate lavorative – ne ha dichiarato l’incompatibilità con l’art. 41, comma 1, Cost., poiché «il decreto viene a gravemente interferire e incidere sulla personale iniziativa dell’operatore agricolo; la libera valutazione e conseguente autodeterminazione in ordine a quelli che, a suo giudizio, possono essere gli adeguati elementi per dimensionare l’azienda e provvedere alla sua interna organizzazione sono notevolmente turbate o sostituite da immissione, nel complesso equilibrio dell’azienda, di elementi non richiesti, spesso non ritenuti idonei». Di avviso contrario M. D’ANTONA, Il diritto al lavoro nella Costituzione e nell’ordinamento comunitario, in ID., Lavoro, diritti, democrazia – In difesa della Costituzione, Ediesse, Roma, 2010, 115.
[6] Cfr. G.F. MANCINI, Commento sub art. 4, in G. BRANCA (a cura di), Commentario della Costituzione, Zanichelli-Il Foro Italiano, Bologna-Roma, 1975, 199 ss.
[7] Sentenza 9 giugno 1965, n. 45. Cfr. anche le sentenze n. 3 del 1957, n. 30 del 1958, n. 2 del 1960, n. 105 del 1963, e l’ordinanza n. 3 del 1961.
[8] M. MAZZIOTTI, Il diritto al lavoro, Giuffrè, Milano, 1956, 153 ss. Tuttavia, lo stesso autore (cfr. F. MAZZIOTTI, Contenuto ed effetti del contratto di lavoro, Jovene, Napoli, 1974, 24-25) ha anche distinto, nell’ambito del comma 2, tra valori assoluti invalicabili dalla libertà d’impresa (la libertà, sicurezza e dignità dei lavoratori) e l’utilità sociale, quale limite relativo da contemperare invece con detta libertà. Secondo M.V. BALLESTRERO, I licenziamenti, Franco Angeli, Milano, 1975, 373, «per leggere in corretta chiave costituzionale l’art. 3 legge n. 604, occorre anzitutto negare l’esistenza di un «campo trincerato» di libertà assoluta o, se si vuole, di arbitrio dell’imprenditore; occorre cioè ricordare che, al di là delle molte polemiche sul significato del 2° comma dell’art. 41 cost. un’interpretazione ormai consolidata attribuisce all’utilità sociale la preminenza nella scala dei valori espressi da quella norma».
[9] Cfr. A. Baldassarre, voce Iniziativa economica privata, in Enc. Dir., voI. XII, Milano, 1971, pp. 582-609
[10] Si pensi, ad esempio, ai «caratteri della transitorietà e dell’eccezionalità» che consentirono alla Corte costituzionale, nella sentenza n. 106/1962, di dichiarare insussistente la pretesa violazione del precetto costituzionale (art. 39 Cost.) in relazione alla c.d. Legge Vigorelli (n. 741/1959), ma non la successiva legge di proroga (l. 1027/1960).
[11] Il d.lgs. lgt. 21 agosto 1945, n. 523, “Provvedimenti a favore dei lavoratori dell’Alta Italia”, il d.lgs. lgt. 9 novembre 1945, n. 788, “Istituzione della Cassa per l’integrazione dei guadagni degli operai dell’industria e disposizioni transitorie a favore dei lavoratori dell’industria dell’Alta Italia” e il d.lgs. lgt. 8 febbraio 1946, n. 50, “Disposizioni per i lavoratori dell’industria dell’Alta Italia”.
[12] Trattasi, tuttavia, di disposizioni normative sorte in epoca addirittura antecedente all’entrata in vigore della Costituzione e, pertanto, di dubbia valenza in chiave comparativa. Anzi, a ben vedere, la previsione di un blocco al licenziamento appare sicuramente in linea con un sistema normativo in cui vigeva la regola – rinvenibile nella disciplina dettata dal codice civile (artt. 2118 e 2119 c.c.) – della “a-causalità” del recesso dal rapporto di lavoro.
[13] L’unica previsione al riguardo pare essere la semplice “sospensione” delle procedure ex art. 7 l. n. 604/66 in corso (cfr. art. 80 comma 1 lett. a d.l. 34/2020), mentre per i datori di lavoro esclusi dall’ambito di applicazione della procedura (sotto i quindici dipendenti), dovrebbero invece confermarsi gli effetti dei licenziamenti eventualmente nelle more disposti.
[14] Ove non collettivi, sarebbe meglio dire plurimi.
[15] Cfr., da ultimo, art. 1 commi 14 e 15 decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33; d.P.C.M. 17 maggio 2020 e Protocolli condivisi ivi allegati.
[16] Cfr. artt. 19 e ss. del d.l. 18/2020.
[17] Sono rimasti esclusi i lavoratori domestici (art. 22 comma 2 d.l. 28/2020).
[18] Questo, ovviamente, l’intento programmatico: sappiamo bene come la storia sia andata diversamente a causa dei numerosi ritardi nell’erogazione delle prestazioni assistenziali: paradossalmente, infatti, la salvezza del rapporto lavorativo non è stata accompagnata dalla tempestiva percezione del connesso trattamento economico.
[19] Cfr. artt. 68 e ss. d.l. 34/2020. Un ulteriore periodo di quattro settimane, al di là dell’operatività del blocco, è riconosciuto per i periodi decorrenti tra il 1° settembre ed il 31 ottobre 2020.
[20] M. VERZARO, “Il divieto di licenziamento nel decreto “cura italia”, in “Giustiziacivile.com”, 5/2020.
[21] Cfr. ex multis Cassazione civile, sez. lav., 14 febbraio 2020, n. 3819.
[22] Dovendo trovare applicazione, per i lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015, la tutela di cui all’art. 18, comma 1, della legge n. 300/1970 e, per i lavoratori assunti successivamente a tale data, la tutela di cui all’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 23/2015.
[23] Salve le ipotesi eccezionali in cui sia manifesta l’insussistenza del fatto posto alla base ovvero di non ricorrenza degli estremi del licenziamento, cioè l’art. 18, comma 7, l. n. 300/1970 e l’art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23/2015. Cfr. Cassazione civile, sez. lavoro, 2 maggio 2018, n. 10435: «Il concetto di ‘manifesta insussistenza’ dimostra che il legislatore ha voluto limitare ad ipotesi residuali il diritto ad una tutela reintegratoria; non potendosi che far riferimento al piano probatorio sul quale il datore di lavoro, ai sensi della L. n. 604 del 1966, art. 5, deve cimentarsi, esso va riferito ad una evidente e facilmente verificabile assenza dei presupposti giustificativi del licenziamento che consenta di apprezzare la chiara pretestuosità del recesso, accertamento di merito demandato al giudice ed incensurabile, in quanto tale, in sede di legittimità».
[24] Cfr. art. 18 comma 1 legge n. 300/1970 ed art. 2 comma 2 D.lgs. n. 23/2015.
[25] Limiti costituzionali sono rinvenibili all’art. 41 commi 1 e 2 ed all’art. 4 comma 1 Cost., oltre che, per il tramite dell’art. 117, comma 1, Cost., in disposizioni di diritto sovranazionale, come l’art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea; l’art. 24 della Carta sociale europea; l’art. 4 della Convenzione O.I.L. sui licenziamenti.
[26] Cfr. M.V. BALLESTRERO, La stabilità nel diritto vivente – Saggi su licenziamenti e dintorni (2007-2009), Giappichelli, Torino, 2009, 10.
[27] Art. 3 legge n. 604/1966.
[28] V., ad esempio, S. BELLOMO, Autonomia collettiva e clausole generali, in Giorn. dir. lav. e rel. ind., 2015, 72-73; M.T. CARINCI, Il giustificato motivo oggettivo nel rapporto di lavoro subordinato, in F. GALGANO (diretto da), Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, Cedam, Padova, 2005, 104.
[29] Cassazione civile, sez. lavoro, 7 dicembre 2016, n. 25201. V. anche Cassazione civile, sez. lavoro, 15 febbraio 2017, n. 4015.
[30] Cass. n. 25201/2016 cit.
[31] Lettura confermata anche dalla previsione contenuta nel comma 1 dell’art. 30 della legge n. 183/2010 e ss.mm.ii., secondo cui: «In tutti i casi nei quali le disposizioni di legge nelle materie di cui all’articolo 409 del codice di procedura civile e all’articolo 63, comma 1, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, contengano clausole generali, ivi comprese le norme in tema di instaurazione di un rapporto di lavoro, esercizio dei poteri datoriali, trasferimento di azienda e recesso, il controllo giudiziale è limitato esclusivamente, in conformità ai princìpi generali dell’ordinamento, all’accertamento del presupposto di legittimità e non può essere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro o al committente. L’inosservanza delle disposizioni di cui al precedente periodo, in materia di limiti al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro, costituisce motivo di impugnazione per violazione di norme di diritto».
FONTE:http://www.salvisjuribus.it/il-divieto-di-licenziamenti-al-tempo-del-coronavirus/
PANORAMA INTERNAZIONALE
ARRIVA LA SECONDA ONDATA: OSPEDALE CHIUSO IN CINA
Maggio 25, 2020 posted by Guido da Landriano
Pare che la seconda ondata sia in partenza in Cina, e con caratteristiche leggermente diverse rispetto alla prima ondata. C’erano già state notizie di contagi nelle regioni nord occidentali, ma questa volta siamo un po’ oltre, pare, ad alcuni focolai isolati, almeno come riportato da Express.
Un ospedale a Shenyang, la capitale della provincia di Liaoning, è stato chiuso e sigillato con il divieto assoluto per chiunque di entrare o uscire, che fossero pazienti, medici, infermieri o altre persone all’interno. La polizia ha circondato il 463 People’s Liberation Army Hospital e questo è stato confermato anche da un video di un abitante locale che ha ripreso la scena e l’ha diffusa nei social media cinesi. accompagnandolo con l’affermazione che centinaia di persone sarebbero venute in contatto con il portatore del virus nell’ospedale.
La notizia arriva dopo che l’amministrazione di Shenyang, la capitale della provincia di Liaoning, aveva ordinato la quarantena per chiunque provenisse dalla vicina città di Jilin, luogo di un nuovo focolaio Covid-19. Evidentemente la misura non è stata sufficiente. Oltre a Jilin, attualmente in stretta quarantena, pare che l’infezione abbia colpito anche la vicina Shulan.
Le province di Heilongjiang e Liaoning nella Cina nord-orientale sembrano essere il nuovo epicentro del Virus. Qui due immagini per spiegarvi dove siano.
Questo è lo Heilongjiang
Questo il Liaoiang
Nonostante le evidenze le autorità centrali negano che si tratti di una seconda ondata e prosegue la narrazione ufficiale che vede Xi Jinping come il salvatore della patria contro le gestioni liberali. Il
Comunque a Jilin si è provveduto al tracciamento di quasi 700 contatti di persone colpiti dal coronavirus, mentre i funzionari della provincia di Liaoning hanno seguito 1000 infetti e 6500 contatti. Ora tutti questi saranno sottoposte a test e /o quarantena.
La nuova ondata presenta anche alcune differenze rispetto alla prima: i sintomi sono solo polmonari, senza i cedimenti multiorgano della prima ondata, ma non si sa se questo sia dovuto ad una mutazione del virus o a diagnosi più precoci.
FONTE:https://scenarieconomici.it/arriva-la-seconda-ondata-ospedale-chiuso-in-cina/
Oms mandò Gates
Lisa Stanton 21 05 2020
POLITICA
QUESTA GESTIONE ECONOMICA DELLO STATO CI PORTERÀ AL CONFLITTO SOCIALE
È venuta l’ora di sfatare l’antica credenza popolare che vedrebbe tasse e tributi di commercianti, artigiani e Partite Iva varie utili per pagare gli stipendi ai pubblici dipendenti. Era così sino a più di trent’anni fa. Ma, il nostro legarci sempre più ai meccanismi finanziari europei, ha fatto sì che oggi solo in piccolissima parte le nostre tasse servano a pagare gli stipendi pubblici. Così solo i dipendenti di strutture consortili, nate per parcheggiarvi chi assunto dalle ex Province come negli ex Consorzi di bonifica (l’elenco degli enti è lunghetto) vengono pagati con quanto in cassa (presso le banche a tesoreria) nel consorzio, e con soldi racimolati dalle ex tasse provinciali su bolli auto e passaggi di proprietà (nonché competenze varie su collaudi, ricorsi in materia agraria…) e dal pagamento del “contributo obbligatorio di bonifica”, che dagli enti provinciali è passato alle Regioni in quasi tutto lo Stivale.
Per tutti i restanti dipendenti pubblici lo stipendio viene pagato con danaro creato elettronicamente dalla Banca centrale europea, perché s’è rafforzata negli anni una camera di compensazione perequativa che permette non manchi mai ossigeno per chi lavora nel pubblico impiego di tutta l’Unione europea. I funzionari ministeriali lo sanno bene, per questo non sono affatto preoccupati dalla chiusura di negozi o di botteghe artigiane, come della morte generalizzata delle libere professioni: c’è solo un po’ di legame affettivo al vecchio negozietto o all’artigiano amico.
Ma il dipendente pubblico è consapevole che a livello europeo l’unico commercio a norma Ue è quello esercitato dalla grande distribuzione, e nei centri commerciali. Così 17 milioni di disoccupati in più non turbano affatto i sonni di chi ha vinto un concorso o amministra lo Stato. L’unica preoccupazione d’ordine sociale (anzi di ordine pubblico) investe il Viminale, e perché molto difficilmente 17 milioni di italiani potranno accettare di morire d’inedia. Di rassegnarsi a quell’esclusione sociale che dovrebbe (secondo i Cinque Stelle) essere puntellata da un reddito di cittadinanza più ampio: il famoso “reddito d’emergenza” come primo pilastro di una “povertà sostenibile”. E allora perché si continua a parlare di tasse e di evasione fiscale? Questo accade perché le tasse in parte (e, sottolineo, in parte) integrano i cosiddetti fondi infrastrutturali europei, sia a livello locale che centrale: fondi gestiti malissimo, ecco perché gli amministratori fanno affidamento per tappare i vari buchi su Imu, Tasi, Tari, Cosap, Tosap… Irpef. E qui andrebbe aperto il capitolo del signoraggio, ma ce lo riserviamo per il prossimo articolo, e per spiegare come i cittadini paghino un prezzo eccessivo per usare il denaro.
Dopo questa premesse, corre obbligo sottolineare che allo Stato preme soprattutto che l’uomo di strada adempia ai versamenti previdenziali (Inail, Inps…), e perché rappresentano la copertura a pensioni ed infortuni. Il resto del denaro utile al fabbisogno pubblico viene creato. E chi governa l’Italia sa benissimo che il nostro non è più un Paese che crea economia. Sia il Pil che la bilancia del pagamenti sono i migliori esempi di “fake news”. Perché l’Italia da circa un trentennio ha gradualmente dismesso quasi il 70 per cento della sua funzione manifatturiera e primaria (produzione agricola). E Giuseppe Conte conosce questi dati, ecco perché cerca di svendere l’Italia a chi potrebbe rimettere a reddito aziende e territori. Va detto che questo è il miglior periodo per svendere l’Italia, perché la classe dirigente (a parte Conte e qualche suo sodale) poco o nulla sa di come si controlla la contabilità dello Stato.
Nell’ambito della finanza pubblica, la contabilità di Stato è quel complesso di norme che disciplinano la gestione economica dei pubblici poteri: comprendente l’organizzazione finanziario-contabile, la gestione patrimoniale, l’attività contrattuale, la gestione del bilancio pubblico, il sistema dei controlli e le responsabilità dei pubblici amministratori. Lo Stato è l’ente pubblico per definizione: è il soggetto principale della spesa pubblica, dirige e coordina l’intera attività delle strutture pubbliche per la soddisfazione delle esigenze di ogni singolo cittadino come dell’intera nazionale. La fonte primaria della contabilità dello Stato (come di tutti gli enti pubblici) è la Costituzione. Ma come potremmo mai coniugare le attuali metodiche di creazione della moneta elettronica con quanto codificato settantacinque anni fa? La stessa Corte dei conti ha più volte sottolineato come la dottrina, a causa dei vari interventi legislativi (adeguamento a norme Ue), abbia finito per disegnare un sistema contabile fortemente disomogeneo, caratterizzato da una pluralità di filosofie e principi ispiratori, a discapito di quel coordinamento finanziario ben scritto all’articolo 119 della Costituzione, in cui si parla dell’effettività dei controlli comparativi fra i diversi livelli di gestione dello Stato.
Poi s’è perso il controllo della macchina pubblica, e con stipendi a ruota libera e non parametrati a mansioni e responsabilità. Soprattutto queste metodiche hanno creato una profonda frattura tra chi comunque e sempre si vedrà accreditato uno stipendio (tutta moneta elettronica) e quella parte del Paese che stenta a fatturare, a fare cassa, a mantenere nella marginalità l’impresa. Il coronavirus ha dimostrato che la creazione di moneta elettronica nel pubblico impiego prescinde da qualsivoglia crisi. Il rovescio della medaglia è il prezzo di fuga dal mercato per più del 50 per cento del settore privato. Eppure i padri costituenti avevano previsto lo Stato tutelasse la libertà d’impresa, ma erano altri tempi e c’erano uomini con ben altra coscienza e principi.
FONTE:http://opinione.it/economia/2020/05/22/ruggiero-capone_stipendi-pubblici-tasse-stato-governo-bce-evasione-macchina-pubblica-moneta-elettronica/
LA DERIVA AUTORITARIA DELLO STATO CON LA SCUSA DEL VIRUS, L’APP IMMUNI E TANTO ALTRO
VIDEO QUI: https://youtu.be/bh5qcNQk4nE
FONTE:https://www.facebook.com/EnricaPerucchiettiOfficial/posts/1759178174235369
SCIENZE TECNOLOGIE
Mascherine inutili
La lezione di Montanari sulle capacità di filtraggio e sulle bufale che i media ci propinano
“Io non ho nessun problema a mettere una mascherina mezz’ora se devo andare a far la spesa. Anche se non serve a niente (o meglio serve tanto quanto starnutire nella manica o nel fazzoletto, che preferirei usare) perché i virus sono più piccoli della trama, se siete più felici la metto. Male per mezzora non mi fa.
Ma se mi venite a dire che i miei figli devono tenerla per tutte le ore che andranno a SCUOLA, quando qualunque cardiologo vi dirà che rischiano L’INFARTO, qualunque dermatologo che rischiano micosi e dermatiti, qualunque immunologo che sotto la mascherina i germi si moltiplicheranno e che senza contatti sociali il sistema immunitario si indebolirà, allora NO, non ci sto più.
Accendete il lume della ragione e spegnete la paura, non possiamo ubbidire a ogni ordine assurdo di task force di gente in conflitto di interessi. Leggete cosa ne pensa un esperto VERO:
“Qualche anno fa, pochi anni fa, io insieme con mia moglie e insieme al CNR di Bologna, ho studiato un filtro per la respirazione…
Questo filtro per la respirazione era stato studiato perché c’era stato chiesto al ministero della difesa, quindi lavoravamo per il ministero…mia moglie, io e il CNR di Bologna…
La parte CNR era diretta da Franco Prodi, (fratello di Romano Prodi) che è un ottimo fisico, è andato in pensione da poco, ma è un bravissimo fisico…
Abbiamo lavorato proprio su un problema, che è lo stesso problema di oggi, cioè impedire che qualcosa di estremamente piccolo possa entrare nel nostro organismo.
Quel qualcosa di piccolo allora erano le nano polveri causate dalle esplosioni, ma le dimensioni sono quelle dei virus.
Il coronavirus è grande 120 nanometri, più o meno come le polveri di cui noi ci occupavamo.
Per un filtro, che sia un virus o che sia un’altra cosa, non importa. Il filtro è, semplificando molto, uno scolapasta: blocca quella determinata dimensione…
Noi, per poter studiare quel filtro, ci abbiamo impiegato un anno e mezzo…abbiamo lavorato su delle apparecchiature, con un gruppo di fisici, abbiamo fatto degli esperimenti, tanti esperimenti…abbiamo fatto dei prototipi di filtro, abbiamo lavorato con Finceramica per produrre questi prototipi, e alla fine ce l’abbiamo fatta.
Vi assicuro, è tutt’altro che facile fare un filtro di quel genere…non tanto per il fatto della dimensione di quello che devi bloccare, ma il problema grosso era il fatto che chi le portava doveva respirare…perché se io ti metto una mascherina di cemento armato è chiaro che fermo tutto, ma dopo due minuti tu muori! Quindi devo rendere compatibile la mascherina con la tua vita…
Noi lavoravamo per il ministero della difesa, quindi per qualcosa che doveva andare ai soldati, ai militari…e il soldato deve scappare, deve inseguire, deve portare dei pesi, deve fare degli sforzi quindi deve respirare bene…assicuro che è difficilissimo…
Allora chi è che può pensare che tutti i nostri sforzi siano stati ridicolizzati da una mascherina di carta o di stoffa…
Cioè noi, un gruppo di scienziati, con apparecchiature costose, tempo, viaggi, non c’eravamo accorti che bastava una mascherina di carta per fare esattamente la stessa cosa…
Purtroppo …la mascherina di carta è una truffa!
Voi vi mettete questa mascherina, e non importa se è di tipo 1,2,3,4,5,27…voi ve la mettete e respirate, dovete respirare, altrimenti morite 🙃
Quando voi respirate emettete del vapore…bagnate la mascherina…e quando la mascherina è bagnata prende i virus, i batteri, i funghi, i parassiti e li concentra lì, e voi vi portate per delle ore funghi, batteri, virus, parassiti ad un millimetro dal naso e ve li tenete lì.
Quindi vi ammalate o rischiate di ammalarvi a causa di QUEI patogeni…perché adesso la gente è convinta che esiste solo il coronavirus, ma il coronavirus è uno dei molti miliardi di virus che esistono…ma poi ci sono anche i batteri, che sono una quantità enorme, i funghi, i parassiti, le rickettsie…tutta roba che si appiccica lì e voi ve la tenete appiccicata al naso, quindi è follia pura…
E questo basterebbe per dire “abbiamo scherzato”…
Quando porti la mascherina ed espiri, cioè butti fuori quello che i tuoi polmoni hanno deciso essere lo scarto del metabolismo dei tuoi tessuti, delle tue cellule, cioè l’anidride carbonica…hai un impedimento a buttarlo fuori, quindi inevitabilmente ributti dentro al tuo organismo l’anidride carbonica…
Il tuo sangue va in ipercapnia, vuol dire che hai un eccesso di anidride carbonica, porti alle tue cellule il loro scarto…
Quando sei in ipercapnia, vai anche in acidosi, il tuo organismo diventa più acido del dovuto, il ph si abbassa…più è acido l’organismo, più hai facilità ad ospitare malattie…
La malattia più vistosa che si instaura con acidosi è il cancro!…. “
Dr. Stefano Montanari
Guarda il video del Dott.IVO PULCINI: https://youtu.be/Oy9AgRTFGkU
Ecco chi pensa che tutto ciò sia una bufala cosa dice
Come spiega tra gli altri anche l’università di Padova e la Reuters attraverso le parole di un rappresentante dei Centri statunitensi per il controllo e la prevenzione delle malattie (CDC), è vero che respirare quantità eccessive di anidride carbonica può essere pericoloso nel tempo (può provocare l’ipercapnia, condizione derivante da troppa anidride carbonica nel sangue), il livello di CO2 che si può accumulare nella mascherina è per lo più tollerabile per le persone esposte, anche se può provocare alla lunga mal di testa. Ma nessun avvelenamento.
FONTE:https://www.radical-bio.com/coronavirus/mascherine-inutili-la-lezione-di-montanari-sulle-capacita-di-filtraggio-e-sulle-bufale-che-i-media-ci-propinano/
Effetti collaterali del lockdown: i “sepolti vivi”
Le misure di confinamento adottate dal governo per il covid19 hanno causato un aggravamento sui soggetti fobici gravi
Bamboccioni o choosy: tempo fa l’ex ministro Fornero con questo termine indicava una parte di giovani scansafatiche e viziati, ignorando che a volte dietro questa apparente situazione di comodo si cela tanto dolore e sofferenza. Molte persone che si ammalano dopo la comparsa di un attacco di panico, sviluppano fobie: fobia di guidare la macchina, per i contatti sociali, di usare i mezzi pubblici, per gli spazi aperti. Queste persone lottano con questa paura irrazionale che gli impedisce addirittura di uscire di casa. Lottano principalmente contro sé stessi: il loro grave problema psichiatrico è costituito da una continua lotta interiore, tra giustificazioni che si raccontano per non uscire di casa e la presa di coscienza che il loro problema è proprio lo stare a casa in modalità permanente. Questi soggetti non sono stati presi in considerazione neanche dalla “Dittatura Sanitaria” del nostro governo che ha imposto il lockdown. Sanitaria si, ma solo per il Covid19, scordandosi di tutto il resto: soggetti che non hanno potuto avere interventi riabilitativi, chirurgia per patologie neoplastiche, l’aumentato numero di morti per infarto del miocardio etc.
Il distanziamento sociale imposto dalla Sindrome Covid ha agito come spinta all’aggravamento anche per i soggetti affetti da attacchi di panico con agorafobia in via di cronicizzazione. “Distanziamento sociale”, è una errata espressione che vuole davvero significare “distanziamenti fisico”. Per altro verso, in un certo numero di persone il “distanziamento sociale” potrebbe ben descrivere la patologia mentale di cui soffrono. Senza contare che molti invece ora soffrono della cosiddetta “sindrome della tana”: persone che finito il lockdown continuano a restare accoccolati a casa come fossero in un bozzolo, nella routine paralizzata dell’ambiente chiuso, non vogliono più ripristinare la loro precedente socialità, né occupare il loro spazio vitale ritornando ad andare in palestra, fare shopping, uscire con amici. La paura di infettarsi da questo virus si è progressivamente trasformata in un classico disturbo fobico con annesse varie forme di condotte di evitamento. Il lockdown gli ha indicato la strada.
La gran parte dei soggetti che soffre o ha sofferto di attacchi di panico tenderà a mostrare, successivamente ad esso, tre principali inibizioni nel comportamento, o meglio, tre condotte volte all’Evitamento delle situazioni fobiche: nell’Agorafobia il soggetto tenta di evitare ambienti o spazi all’aperto perchè teme possa ripetersi un attacco futuro; oppure situazioni e contesti sociali, luoghi che ora sente come impropriamente “pericolosi” (questa è la forma della Fobia Specifica); nella Fobia Sociale invece ci si sente spaventosamente inadeguati e si evita la maggior parte delle situazioni sociali, per paura di comportarsi in modo “sbagliato” e di venir mal giudicati. Così l’impotenza ad uscire diventa un rifiuto del mondo, una sfida da vincere e, del tutto recentemente, una prescrizione di legge da seguire pedissequamente, valido alibi per restare a casa per il resto della vita.
Duncan Gibb ha avuto il merito di rendere più conosciuta nel mondo questa problematica, malato non diversamente da centinaia di migliaia di persone,diventando celebre pur per poco tempo. Un 49 enne rimasto a casa da quando ne aveva 18 dopo aver subito un aggressione. Dopo quel trauma non ha più lavorato. Il nostro archeoAdolescente ha speso ore e ore su internet a chattare e a scommettere soldi (della madre), però aveva un ottimo livello intellettivo. Incurante dei rapporti sociali trascorreva le giornate anche ascoltando musica e guardando la televisione. Negli ultimi tempi, addirittura, pretendeva i pasti in camera. Nel gennaio del 2008, dopo trenta anni passati nelle quattro mura della sua abitazione, nel giorno del suo compleanno esce e scompare. Dopo molti giorni di disperata ricerca il corpo di Duncan viene ritrovato in un capanno per attrezzi agricoli a poco più di mille metri in linea d’aria da casa sua. E’ morto per assideramento.
La notizia fa subito il giro del mondo: i giornali titolano “Agoràfobia, 30 anni chiuso dentro casa esce e muore”. I commenti si focalizzano sul destino: “il primo giorno che esce dopo 30 anni, nel giorno del suo compleanno, è anche il giorno in cui muore? Che sfortuna, che mistero!”.
Ma chi era Duncan Gibb? A diciotto anni Duncan abita e vive a Montrose, una frazione di Angus nella Scozia. Viene descritto come un adolescente vivace, amante dello sport, soprattutto del football. Lavora come commesso in un negozio di mobili. Non sembrerebbe un bamboccione. Almeno non fino a quella sera dell’estate dei suoi 18 anni. Ricordano le cronache: “Duncan ha i soldi dello stipendio e li vorrebbe spendere per divertirsi. Per un litigio all’autoscontro sarà picchiato e derubato di tutti i soldi”. La madre ha dichiarato :“Aveva giurato che non sarebbe più uscito, e ha mantenuto la parola per trenta anni”. Dopo il trauma Duncan sviluppa attacchi di panico e fobia sociale. Un uomo che si è “autoesiliato” per tre lunghe decadi all’ombra di un sistema sociale.
Duncan Gibb è stato in realtà l’unico, che senza saperlo, ha fatto circolare la notizia incompresa sulla gravità e diffusione del suo problema: le conseguenze del disturbo da attacchi di panico!
Nel nostro quotidiano incontriamo tanti casi di “fobia con evitamento in negazione”: l’amica che evita di guidare, l’altra che evita gli spazi troppo aperti o troppo chiusi, il giovane che non riesce a prendere la metropolitana o scappa da luoghi affollati… E quanti di loro non lo ammettono neanche a sé stessi?
Ecco perché alcuni di loro sono scambiati per “bamboccioni”, passando la vita a nascondere di essere interdetti da vasti territori del loro legittimo spazio vitale.
Il governo che ha instituito il lockdown a loro non ha pensato…
FONTE:https://www.infosec.news/2020/05/24/speciale-coronavirus/effetti-collaterali-del-lockdown-i-sepolti-vivi/
LUCIFERASI: VACCINI IN MASSA PER I BAMBINI
Lisa Stanton – 23 05 2020
VIDEO TERRIFICANTE QUI: https://youtu.be/7r-aJFUrHxU
Antinfluenzale con luciferasi per i bambini 0-6 anni e gli ultrasessantenni, ovvero finché c’è il truffavirus c’è speranza!
Il vaccino COVID-19 in lavorazione ad Oxford non funziona: il 24 aprile i 200 macachi si sono infettati, poi hanno contagiato, poi pare che siano morti.
Oggi gli esperti hanno dichiarato che estenderanno la sperimentazione a vecchi e bambini.
Logico, no?
Ma l’alternativa sarebbe peggiore: se entro l’anno i risultati non saranno soddisfacenti, dai laboratori di ricerca “gain-of- function” (GOF) sparsi per il mondo si potrebbe diffondere qualcosa di più aggressivo. È il metodo per ammaestrarvi ad avere fiducia nella scienza!
FONTE:https://www.facebook.com/lisa.stanton111/posts/3227320623952858
STORIA
L’affascinante vita di Amedeo Guillet, l’ufficiale italiano che si prese gioco degli inglesi
Quella del tenente di cavalleria italiano Amedeo Guillet è una storia poco conosciuta. Era un uomo dai mille volti: ufficiale, agente segreto, ambasciatore, stalliere, acquaiolo, scaricatore di porto e soprattutto guerrigliero. Un uomo camaleontico, imprevedibile, temerario e sempre fedele al suo codice d’onore.
Amedeo Guillet nacque a Piacenza il 7 febbraio 1909 in una famiglia aristocratica. Suo padre, Alfredo, era un colonnello dei Reali Carabinieri e suo nonno Amedeo, era un senatore del Regno d’Italia. Il giovane Amedeo Guillet frequentò l’Accademia militare di Modena, da cui uscì con il grado di sottotenente di cavalleria del Regio Esercito Italiano nel 1931. Per il servizio di prima nomina fu assegnato al reggimento “Cavalleggeri di Monferrato”, dimostrando ben presto spiccate qualità militari e, soprattutto, di cavaliere. Per le sue eccezionali capacità equestri fu incluso tra i quattro cavalieri che avrebbero costituito la squadra italiana di equitazione per le Olimpiadi di Berlino del 1936. Ma purtroppo non ebbe l’opportunità di partecipare alle olimpiadi. Infatti, nell’inverno del 1934 gli eventi precipitarono. Mussolini annunciò al mondo le sue mire coloniali in Africa Orientale. Amedeo Guillet non era fascista e quindi non apprese con entusiasmo i proclami di Mussolini, ma il patriottismo e la fedeltà a casa Savoia ebbero in lui il sopravvento: era pronto a lasciare dietro di sé una vita comoda e agiata per un’avventura dagli esiti imprevedibili.
Nell’agosto del 1935 Amedeo Guillet arrivò nel corno d’Africa. Per il giovane tenente fu l’inizio di un’avventura che durerà otto anni. Le ostilità iniziarono il 3 ottobre 1935 quando le truppe italiane varcano il confine tra Eritrea ed Etiopia cogliendo di sorpresa le milizie del negus Hailé Selassié. Amedeo Guillet era a capo di un contingente di 200 combattenti libici, in maggioranza beduini, chiamati Spahis. Capì che per conquistarsi la fiducia degli Spahis e per comunicare con loro doveva imparare la loro lingua, e così frequento i corsi scolastici insieme ai bambini della scuola coranica. Studiò assiduamente la lingua araba per 10 anni e giunse a parlarlo correttamente, quasi come l’italiano. In breve tempo, tra Guillet e i suoi combattenti beduini si instaurò un rapporto di correttezza e stima reciproca. Quando il tenente italiano, febbricitante per la malaria dovette affrontare il suo primo combattimento, ad aiutarlo fu proprio uno dei suoi Spahis.
Dopo il battesimo del fuoco, prendere parte ai combattimenti armati divenne per Guillet un fattore all’ordine del giorno. Amedeo Guillet si distinse durante un sanguinoso combattimento corpo a corpo avvenuto nell’altopiano di Seleclaclà, tra lui ed i suoi combattenti beduini da una parte, e le truppe etiopi nel Negus dall’altra. Durante questa battaglia un proiettile lo ferì gravemente ad una mano, ma riuscì comunque a continuare a combattere e sconfiggere il nemico. Fu così che fu premiato con la sua prima medaglia.
L’avanzata dell’Esercito Italiano appariva inesorabile. Il 5 maggio 1936 le truppe di Badoglio entrarono ad Addis Abeba, quattro giorni dopo le milizie del generale Rodolfo Graziani occuparono Dire Daua. La guerra era finita, l’Etiopia era divenuta italiana.
La vittoria in Etiopia segnò il trionfo coloniale del Fascismo, ma Amedeo Guillet non era ad Addis Abeba a festeggiare l’arrivo delle truppe italiane. Da Roma infatti gli fu ordinato di raggiungere Tripoli, in Libia. Soprannominata la Cannes del Nord Africa, Tripoli era una città affascinante, con ampi viali e maestosi edifici bianchi fatti costruire dal governatore Balbo. Fu proprio Italo Balbo a chiedere ad Amedeo Guillet di organizzare la solenne cerimonia per l’arrivo in Libia di Mussolini. Amedeo provvide al reperimento e all’addestramento dei cavalli che avrebbero dovuto essere montati dal Duce e dai gerarchi al suo seguito. La cerimonia prevedeva che Mussolini, seguito da Achille Starace e dagli altri gerarchi fascisti, attraversata la città a cavallo, salisse su una collina circostante e sollevasse solennemente in aria la cosiddetta Spada dell’Islam. Amedeo Guillet si occupò di tutta l’organizzazione dell’evento, dalla selezione e l’acquisto dei cavalli, al loro addestramento affinché anche i gerarchi fascisti che non sapevano montare a cavallo, avessero potuto in quell’occasione partecipare alla grottesca cerimonia.
Dopo l’organizzazione dell’evento di Tripoli, il giovane tenente italiano ferito nella Battaglia di Seleclaclà, fu inviato urgentemente in Italia per essere operato alla mano.
In un’Italia che si dibatteva tra le sanzioni economiche e l’autarchia, Amedeo Guillet trascorse la sua convalescenza a Napoli, a casa degli zii Gandolfo e delle sue tre cugine. La più piccola, Beatrice, per tutti Bice, l’aveva conosciuta solo da bambina. Ora che aveva compiuto 18 anni, Bice era diventata una ragazza molto affascinante. In un’intervista rilasciata da Amedeo Guillet circa cinquant’anni dopo, il tenente italiano disse: “Passai un mese nella loro villa sul mare. Io e mia cugina eravamo così congeniali, non avrei mai immaginato. Bice era l’unica donna che mi ha fatto dire: «o sposo questa, o nessuno!».” Beatrice acconsentì a sposare il cugino Amedeo, un imprevisto tuttavia cambiò il loro programma. Il governo fascista promulgò la legge matrimoniale in base alla quale non permetteva la promozione di grado militare a chi non era sposato, e Amedeo Guillet non volle più sposarsi per evitare che si credesse che si sposasse per avere una promozione. A tal proposito, Guillet nella stessa intervista di cui sopra, dichiarò: “Io questo torto non lo farò mai alla donna che amo e quindi non mi sposo. Poi pensai, non hanno proibito la promozione per meriti di guerra“.
Ma l’Italia non aveva dichiarato guerra alla Spagna e per ragioni diplomatiche le unità dell’esercito italiano furono fatte passare per reparti di volontari. Questa fu l’occasione del primo di una serie di camuffamenti che segnarono la vita di Guillet. Vestito con pantaloni alla zuava e scarponi da montagna, Amedeo Guillet entrò in Spagna sotto il falso nome di Alonso Gracioso. Guidò eroicamente l’assalto di San Pedro de Romeral, permettendo la conquista di Santander. Fu il generalissimo Francisco Franco a premiare il suo valore con medaglie e decorazioni. Ma dopo 8 mesi, ferito ad una gamba, per il tenente fu il momento di tornare in Africa.
Ricoverato nell’ospedale di Tripoli, Amedeo Guillet conobbe una giovane donna libica che studiava medicina. Ma la ragazza era ebrea, dunque per le nuove leggi razziali volute da Mussolini era costretta ad abbandonare l’università. Per Guillet ciò era intollerabile e chiese l’intervento addirittura di Italo Balbo riuscendo alla fine ad aiutare la ragazza, alla quale solo per la pressione di Guillet fu concesso di continuare a studiare all’università.
Ma in Guillet si era spezzato qualcosa: iniziò a mettere in discussione i dogmi del regime fascista, in nome di una giustizia superiore, morale. Amedeo Guillet era un uomo libero, capace di opporsi alle ingiustizie e di schierarsi a favore dei più deboli, la sua indole generosa gli permise di costruire un rapporto privilegiato con le popolazioni indigene. E proprio per questo che il tenente Guillet fu scelto per una missione delicata, molto delicata.
Nel 1939, il Vice Re di Etiopia, il duca Amedeo d’Aosta, offrì al tenente Guillet il comando di un reparto indigeno, con il compito di portare ordine e legalità in una vasta area infestata da bande di guerriglieri e predoni.
Il tenente Guillet fece così ritorno in Eritrea e assunse il controllo del territorio. Un giorno, in una delle quotidiane ronde a cavallo, alcuni soldati del Gruppo Squadroni Amhara aiutarono gli abitanti di un villaggio a ritrovare alcuni capi di bestiame rubati. In segno di riconoscenza, il capo tribù accolse Guillet nella sua capanna. Vide che il tenente Guillet aveva gli stivali sporchi e così il capo tribù chiamò sua figlia per farglieli pulire. Questa ragazza di nome Kadija, aveva 16 anni ma mostrava molto più della sua età, era una ragazza molto bella e affascinante, ma anche molto intraprendente. Tutti gli uomini liberi della tribù aspiravano a sposarsi con lei, ma la ragazza ripeteva sempre che lei si sarebbe sposata solo con un capo. E così, qualche giorno dopo, incontrando il tenente Guillet gli disse che era lui il capo che avrebbe voluto sposare. Amedeo Guillet scoppiò in una fragorosa risata, lasciò la ragazza scioccata da questa reazione e si allontanò. Aveva però sottovalutato la determinazione di Kadija.
Quando qualche giorno dopo, Amedeo Guillet si congedò dal capo tribù, alcuni uomini e donne del villaggio decisero di unirsi a lui e di seguirlo, intendevano diventare suoi soldati. Anche Kadija faceva parte di questo gruppo e nelle settimane successive in più occasioni cercò di creare delle situazioni di tenerezza, ma il tenente Guillet faceva di tutto per non rimanere mai da solo con lei e la trattava pubblicamente con distacco e freddezza. Ma un giorno, la morte in battaglia di uno dei suoi più cari amici Spahis, gettò Guillet nello sconforto. Il tenente italiano rinchiuso nella sua tenda pianse tutto il giorno la morte del suo caro amico e verso sera Kadija approfittando di quello stato emotivo di Guillet, entrò nella tenda e riuscì a creare quel momento di intimità e tenerezza che attendeva da tempo. Da quella notte, iniziò una relazione sentimentale tra il tenente Guillet e la bellissima Kadija, che durò per molto tempo.
Con al suo fianco Kadija e a capo del suo esercito di indigeni, il tenente Guillet proseguì la sua missione, ma qualcosa in lui stava cambiando. Di fronte a questa guerra, che gli appariva sempre più insensata e lontana dai principi appresi in accademia, le sue convinzioni vacillarono. Guillet iniziò non riconoscersi più nell’immagine del perfetto soldato. Il giovane ufficiale italiano iniziò a prendere decisioni prima impensabili, come quando catturò un’intera pericolosa banda di predoni obbediente agli ordini di uno dei principali capi della guerriglia del Negus. Guillet aveva ricevuto ordini precisi: qualunque ribelle preso con le armi in pugno doveva essere giustiziato. Ma osservando i volti fieri di quei nemici, non solo decise di non ucciderli, ma addirittura propose loro di arruolarsi nei suoi reparti e diventare suoi soldati. Guillet fece un discorso a tutti i prigionieri riuniti di fronte a lui: “Chi non vuole seguirmi, può non venire e gli sarà comunque risparmiata la vita. Chi vuol seguirmi, si faccia avanti, ma il primo che mi tradisce lo uccido“.
Il tenente Guillet disobbedì chiaramente agli ordini ricevuti e lo fece in molte altre circostanze, ma in ciascuna di queste occasioni fu protetto dal Duca D’Aosta. Infatti il Duca d’Aosta condivise con lui l’idea di creare un intero reggimento di cavalleria indigena, un’unità speciale agile, autonoma e di grande impatto, e riteneva che solo Guillet potesse riuscire a costituirla. Fornì così al tenente tutto l’aiuto materiale e finanziario necessario, e nel giro di due mesi Guillet riuscì a costituire la nuova armata, che prese il nome di “Gruppo Bande Amhara a cavallo”. Tale unità comprendeva combattenti diversissimi per etnia, religione e tradizioni, un amalgama inconsueta che soltanto un grande conoscitore di uomini come Amedeo Guillet era in grado di governare.
Ma mentre Amedeo Guillet stava completando l’addestramento del suo reparto speciale, formato esclusivamente da truppe indigene, il mondo stava cambiando inesorabilmente. Dopo il Patto d’Acciaio stipulato con Hitler, il 10 giugno 1940 l’Italia entrò in guerra. In Africa la situazione si fece subito drammatica. Gli inglesi spezzarono rapidamente e facilmente il fronte italiano e riconquistarono Sidi El Barrani, in Libia.
All’inizio del 1941 l’avanzata dell’esercito inglese stava ormai travolgendo le truppe italiane in Africa Orientale. Amedeo Guillet per difendere il fronte italiano era pronto a tutto.
La sera del 20 gennaio 1941, il tenente Guillet rientrò al Forte di Cheru dopo una lunga attività di pattugliamento del territorio, ma gli fu ordinato di ripartire immediatamente per affrontare i britannici della Gazelle Force che minacciavano di accerchiare migliaia di soldati italiani in ritirata verso Agordat. Il compito attribuitogli era di ritardare di almeno 24 ore la manovra dell’avversario, costringendolo a fermarsi nella piana tra Aicotà e Barentù. All’alba del 21 gennaio, dopo una furtiva manovra di aggiramento, il gruppo di Guillet caricò il nemico alle spalle, creando scompiglio tra la fanteria anglo-indiana. Si trattò di uno spettacolo impressionante e, al contempo, incredibile: Guillet in sella a un cavallo bianco e i suoi cavalieri in sella ai loro cavalli, attaccarono, armati di sole spade, pistole e bombe a mano, le truppe della fanteria e le colonne di autoblindo britanniche.
Dopo essere passato illeso tra le sbalordite truppe avversarie, Guillet ed i suoi uomini tornarono sulle posizioni iniziali per caricare nuovamente. Questo diede tempo ai britannici di riorganizzarsi e di sparare ad alzo zero verso i cavalieri di nuovo all’attacco. In particolare, alcune pattuglie blindate britanniche iniziarono a dirigersi verso il fianco e alle spalle dello schieramento di Guillet, minacciando di accerchiare il manipolo di soldati a cavallo. Il tenente Renato Togni, Vicecomandante del Gruppo Bande Amhara a cavallo, effettuò allora una mortale “carica di alleggerimento” con il suo plotone di trenta indigeni, per consentire al grosso del Gruppo di sganciarsi indenne. All’ordine di “Caricat!” il plotone, con Togni in testa, si gettò su una colonna di carri “Matilda”, che aprirono il fuoco falciando mortalmente tutti gli uomini e i cavalli. Quel sacrificio permise, tuttavia, al resto delle truppe di Guillet di sganciarsi conseguendo appieno l’obiettivo: le truppe italiane in ritirata erano al sicuro dentro le fortificazioni di Agordat.
Guillet pagò un alto prezzo per questa battaglia: 800 tra morti e feriti e la perdita del suo grande amico Togni. Fu quella l’ultima carica di cavalleria nella storia militare dell’Africa. L’ufficiale britannico che subì l’assalto in seguito così descrisse l’avvenimento: “Quando la nostra batteria prese posizione, un gruppo di cavalleria indigena, guidata da un ufficiale su un cavallo bianco, la caricò dal Nord, piombando giù dalle colline. Con coraggio eccezionale questi soldati galopparono fino a trenta metri dai nostri cannoni, sparando di sella e lanciando bombe a mano, mentre i nostri cannoni, voltati a 180 gradi sparavano a zero. Le granate scivolavano sul terreno senza esplodere, mentre alcune squarciavano addirittura il petto dei cavalli. Ma prima che quella carica di pazzi potesse essere fermata, i nostri dovettero ricorrere alle mitragliatrici“.
Guillet partecipò, alla testa di quello che rimaneva del suo Gruppo Bande Amhara a cavallo, ormai però appiedato, anche alle battaglie di Cochen e Teclesan, prima della caduta di Asmara avvenuta il 1º aprile 1941.
La carica di Cheren, guidata da Amedeo Guillet sarà in seguito ricordata come una delle pagine più valorose della storia dell’esercito italiano. In Africa si diffuse il mito dell’uomo che guidò una carica di cavalleria contro i carri armati e che vinse la battaglia. Guillet divenne una leggenda, un uomo coraggioso, sprezzante del pericolo, fedele ai propri ideali e rispettoso dei suoi nemici.
Aprile 1941, Africa Orientale: mentre le truppe britanniche entrano vittorioso ad Asmara, l’esercito italiano fu costretto alla ritirata. Nel caos generale, gli indigeni disertarono e i civili fuggirono, ma il giovane ufficiale italiano Amedeo Guillet, ferito ad un piede e rimasto con poco più di cento soldati al suo seguito, senza avere più un riferimento gerarchico, decise ancora una volta di non obbedire agli ordini e non si arrese. Questa rappresentava un’enorme anomalia, in quanto il diritto internazionale di guerra non concepisce che una parte dell’esercito, anche un semplice soldato, figuriamoci un ufficiale, continui a combattere dopo la firma della resa.
Sulla sua testa fu posta una consistente taglia: 1.000 (mille) sterline doro a chiunque avesse fornito elementi per la cattura o l’uccisione di Amedeo Guillet, a chiunque l’avesse consegnato vivo o morto.
Dismessa l’uniforme militare italiana, il tenente Guillet indossò il turbante e una futa, tipici dell’abbigliamento indigeno. I lineamenti mediterranei e la conoscenza perfetta della lingua araba lo aiutarono a cambiare identità. Il suo nuovo nome in arabo divenne Ahmed Abdallah Al Redai. Aveva con se la sua compagna “Kadija” e un centinaio di guerrieri libici, la guerra che combatteva si trasformò in una guerriglia contro le truppe britanniche, che durerà ben 8 mesi. La guerra si trasformò in una guerra privata. Iniziò così la leggenda del “Comandante Diavolo”.
Cacciati gli italiani, il Negus tornò in Etiopia e con l’aiuto degli inglesi intendeva annettere l’Eritrea. Dall’altra parte, Amedeo Guillet cercò di attrarre alla sua causa proprio gli eritrei, facendo leva sui loro sentimenti anti etiopici e sul bisogno di arginare gli inglesi. Il reclutamento di Guillet ebbe successo, gli eritrei preferivano combattere al fianco degli italiani, che essere annessi all’Etiopia. Così, Guillet svuotò i depositi di armi ed armò tutti i suoi combattenti. i suoi soldati indigeni lo adoravano, anzi lo idolatravano come un personaggio eroico, ma anche come simbolo di molti valori e qualità che corrispondevano alla loro cultura. In nome di quegli stessi valori, coraggio, devozione e sacrificio su tutti, i suoi combattenti erano pronti a seguirlo ovunque e nessuno di loro tradirà mai il leggendario Comandante Diavolo.
Ma la trasformazione di Guillet non fu soltanto esteriore, cominciò a pregare cinque volte al giorno, come un musulmano. Credeva in Dio e gli era indifferente pregare secondo il rituale cattolico o quello islamico. Amedeo Guillet ormai non era più nulla di colui che era arrivato anni prima in Africa: non era più un italiano, non era più un ufficiale, non era più cattolico, si era spogliato della sua identità e divenne un indigeno tra gli indigeni, come un’altra figura leggendaria dei primi anni del Secolo, Lawrence d’Arabia. Ma a differenza di Lawrence Arabia, il quale aveva dietro di sé un impero che lo sosteneva e milioni di sterline d’oro con cui comprava la fedeltà a se stesso, per esempio come quella delle bande arabe con cui occupò la città di Aqaba. Amedeo Guillet non aveva un soldo, non godeva del sostegno di nessun impero e nessuna forza politica. Chi prova a paragonarli ignora tutti questi fattori, non ci poteva essere differenza maggiore tra i due, se non che in un certo momento tutti e due si vestirono da arabi.
Nascosto dietro la sua nuova identità e una perfetta conoscenza dell’arabo, Guillet guidò i suoi combattenti indigeni in una lotta senza quartiere contro gli inglesi, sabotando ferrovie, tagliando linee telegrafiche, facendo saltare ponti, saccheggiando depositi militari. Era una guerriglia che non dava tregua.
Le azioni del Gruppo di Guillet furono inizialmente considerate opera di fuorilegge locali, poi però la stampa britannica intuì che qualcosa non tornava e cominciò ad attribuirle proprio a Guillet, creando il mito del Comandante Diavolo. Subito sulle gesta di Guillet e della sua banda calò il velo della censura. Amedeo Guillet divenne oggetto di un rapporto top secret dei servizi segreti britannici.
Dal profilo che traspariva dai suoi rapporti emanati dai servizi segreti britannici, il maggiore dell’intelligence britannica Max Harari, rileggendo quei rapporti rimase affascinato dalle gesta di quell’ufficiale italiano cui sta dando la caccia.
Ecco cosa recitava la scheda iniziale del profilo emanato dai servizi segreti britannici sul tenente Amedeo Guillet: scapolo, alto 174 cm, colorito bruno, capelli e baffi castani. Segni particolari: sterno incavato per frattura toracica. Tatuaggio arabo sul petto sinistro. Cicatrici derivanti da una ferita alla mano sinistra. Pluridecorato di 6 medaglie militari al valore. Esperienze belliche in campagne d’Etiopia, Spagna e operazioni di polizia coloniale.
Verso la fine di ottobre 1941, i ranghi dei soldati fedeli a Guillet si erano troppo assottigliati e lo scopo della sua missione non era più realisticamente perseguibile. In particolare, la fortuita cattura del suo cavallo bianco Sandor da parte del maggiore Max Harari dell’intelligence britannica, responsabile delle attività di ricerca di Guillet, gli fece capire che non avrebbe potuto continuare oltre in quella sorta di guerra privata. Inoltre si ammalò di malaria ed oltre alle ferite di combattimento doveva sopportare anche le crisi di febbre malariche. Radunò quello che restava della sua banda, ringraziò i suoi fedelissimi promettendo loro che l’Italia avrebbe saputo ricompensarli adeguatamente e si diede alla macchia. Ma ormai il tenente italiano era braccato.
Inoltre, Guillet da tempo non indossava più l’uniforme militare, era vestito da arabo e quindi non era più protetto dalla legge internazionale. Se fosse stato catturato sarebbe stato fucilato e proprio per questo motivo esisteva una taglia su di lui di 1.000 (mille) sterline oro vivo o morto. C’erano migliaia di indigeni che sapevano della sua esistenza e per cui mille sterline d’oro avrebbero rappresentato un patrimonio in grado di cambiare la vita, eppure in tutti questi mesi non ci fa una sola persona che lo denunciò.
In una fattoria vicino ad Asmara, Amedeo Guillet si mimetizzò tra i braccianti, ma non si limitò a nascondersi. Sempre travestito si recò più volte al quartier generale inglese in Eritrea per denunciare l’avvistamento del tenente Guillet. Fu così abile che i servizi britannici non si accorsero mai che sotto i panni di quell’indigeno si nascondeva proprio il loro ricercato numero uno, il quale riuscì perfino di prendersi gioco dei servizi segreti britannici intascando i soldi della sua stessa taglia.
Ad un certo punto il maggiore Max Harari strinse il cerchio attorno all’italiano ribelle ed interrogò chiunque lo avesse conosciuto, raccogliendo metodicamente qualsiasi documento o pettegolezzo che lo riguardasse. A poco a poco la sua caccia si trasformò in segreta e profonda ammirazione.
Ad un certo punto, d’improvviso Guillet fu colto da inaspettata nostalgia dell’Italia e per alcuni giorni ascoltò ripetutamente un disco italiano all’interno di una fattoria nella quale si era rifugiato ed aveva trovato accoglienza e protezione. Forse fu questo gesto legato alla sua nostalgia che gli fece commettere un errore fatale. La fattoria fu improvvisamente circondata da soldati inglesi. Guillet se ne accorse, saltò da una finestra e si incamminò lentamente verso una collina, incurante delle urla degli inglesi che gli intimavano di fermarsi. Uno sparo in aria, ma nulla Guillet non si fermò, poi un sergente inglese prese la mira per colpirlo, ma la sua ora non era ancora arrivata e a salvargli la vita fu un operaio della fattoria che urlò agli inglesi che quello era solo un musulmano sordo che stava andando a pregare. Amedeo che udì le urla dell’operaio, arrivò in cima alla collina e si inginocchiò a terra prostrandosi in preghiera. Gli inglesi assistendo alla scena credettero all’operaio della fattoria e se ne andarono.
Ormai Amedeo Guillet sapeva di avere i giorni contati. La messa in scena con gli inglesi non sarebbe potuta continuare ancora molto a lungo. Guillet era un uomo braccato, costretto a spostarsi continuamente da un posto all’altro, devastato dalle ferite riportate in diverse battaglie e dalle febbri malariche. Dopo otto mesi di intensa guerriglia, furono i suoi uomini ad insistere affinché cercasse rifugio altrove e potesse curarsi, consigliandogli di fuggire in Yemen.
Fu difficile convincere Guillet, ma alla fine lui stesso si rese conto che quella suggerita era la scelta migliore. Amedeo Guillet sciolse la sua banda, il Gruppo Bande Amhara a cavallo. Fu costretto anche a separarsi da Kadija, con profondo dolore e commozione di entrambi. Guillet cinquant’anni dopo, ricordando questo momento in un’intervista, profondamente commosso disse:”Eravamo commossi entrambi. Io guardandola le dissi: «Addio Kadija!». Non ci siamo neanche abbracciati. Lei mi guardò fisso negli occhi, poi si voltò e ne se andò. Io in quel momento capii di essere rimasto totalmente solo. Feci qualche passo e mi accasciai dietro un’enorme pietra a piangere“.
Con questo doloroso addio finì la guerra privata di Amedeo Guillet. In preda a terribili febbre malariche e sofferente per le ferite riportate in tante battaglie, Guillet fu costretto alla fuga, ma per lui il destino aveva in serbo altre sorprendenti avventure.
Lasciati i suoi soldati e Kadija, solo un suo guerriero yemenita, Daifallah, lo accompagnò in questo nuovo viaggio a piedi attraverso il paese africano. Raggiunta Massaua, i due si rifugiarono in una baraccopoli. Avevano bisogno di soldi per pagarsi il viaggio verso la costa yemenita e si adattarono a fare i lavori più umili. Amedeo Guillet si improvvisò facchino al porto e guardiano notturno. Poi gli venne l’idea di vendere acqua, trasportandola con un asino prestatogli dà un vecchio acquaiolo con il quale si mise in società.
Guadagnati i soldi necessari, Guillet e Daifallah si accordarono con alcuni contrabbandieri per ottenere un passaggio per raggiungere lo Yemen. Sennonché, dopo un giorno di navigazione, temendo che quei due testimoni potessero denunciarli per una partita di fucili rubati caricati a bordo, i contrabbandieri gettarono in mare Guillet ed il suo amico Daifallah. Il Mar Rosso è infestato di squali, è fu solo per un miracolo che Amedeo Guillet e Daifallah, dopo alcuni giorni riuscirono a raggiungere a nuoto la penisola di Buri, situata sulle coste dell’Eritrea.
Giunti a riva, si addentrarono nel deserto dei Dancali, dove stanchi e assetati vicino ad un pozzo incontrarono dei pastori nomadi. Ma anche i pastori, anziché soccorrerli, li picchiarono violentemente e li lasciarono sanguinanti sotto il sole del deserto. Dopo aver camminato per le sabbie del deserto per un paio di giorni senza acqua, feriti e sanguinanti per via del pestaggio subito dai pastori nomadi, Guillet e Daifallah crollarono esausti e sfiniti sulla sabbia. Con la poca forza che avevano, stremati a terra si salutarono a voce per l’ultima volta consci che ormai erano entrambi sul punto di morire.
Il destino però fu ancora dalla parte di Amedeo Guillet. Infatti poco dopo, un mercante di nome al-Sayed Ibrahim, il quale in sella al suo cammello si stava recando in città, li trovò giacenti a terra e privi dei sensi. Li soccorse e come un buon samaritano, li dissetò, li sfamò e li accolse in casa sua. In particolar modo con Amedeo Guillet, al-Sayed Ibrahim stabilì un rapporto amichevole e gli propose di fermarsi a vivere lì per sempre, dicendogli che sarebbe stato felice di dargli in moglie sua figlia. Nell’intervista rilasciata cinquant’anni dopo, Amedeo Guillet raccontò: “Ad un certo punto, dopo il pestaggio che avevo subito, dopo il trauma dell’abbandono di Kadija, dopo le bruttezze della guerra, pensai quasi di accettare la proposta di al-Sayed Ibrahim. Mi sarei sposato con quella bella ragazza, di me avrebbero detto prima che ero disperso e poi che ero morto, non c’erano più notizie su di me e nessuno mi avrebbe cercato. In fondo non era male l’idea di trascorrere lì il resto della mia vita, di fare il pescatore e magari avere dei figli. Trascorrere una vita tranquilla e semplice, senza le complicazioni causate dalla politica“.
Ma poi, dopo qualche giorno di riflessione, Guillet capì che voleva continuare il suo viaggio. Così, dopo aver ringraziato il mercante al-Sayed Ibrahim, decise di partire. Raggiunse Massaua e spacciandosi per uno yemenita malato di mente, riuscì questa volta ad ottenere il biglietto di una nave per un viaggio regolare verso lo Yemen.
Finalmente, alla fine del dicembre del 1941 arrivò nel porto di Hodeida, in Yemen. Lì, davanti al Muftì, Amedeo Guillet recitò insieme ad altri la professione di fede islamica: “Non vi è altro Dio al di fuori di Dio, e Maometto è il suo profeta!“.
Ma Amedeo Guillet poteva camuffarsi da yemenita in Eritrea, ma non da yemenita in Yemen. Così, dopo qualche giorno il funzionario portuale si insospettì, comprese che non era yemenita, ma il fatto che avesse dei modi così raffinati e che parlasse così perfettamente l’arabo, lo indusse a ritenere che Guillet fosse una spia inglese. Per questo motivo ordinò che venisse immediatamente arrestato.
Mentre era in prigione, le autorità inglesi appresero la notizia dell’arresto del tenente Guillet e chiesero con insistenza allo Yemen di estradarlo immediatamente. A quel punto gli yemeniti si insospettirono. Perché gli inglesi erano così interessati a quel prigioniero così malridotto? Venuto a sapere di quello strano forestiero finito in prigione, il sovrano yemenita gli concesse udienza nella sua reggia.
Guillet gli raccontò esattamente tutta la sua storia, tanto che il Re yemenita rimasto affascinato, gli propose di rimanere a vivere per sempre nello Yemen. Tra Guillet ed il sovrano si instaurò un rapporto di reciproca stima e fiducia. Il Re, gli garantì tutte le cure sanitarie necessarie, gli donò una casa e lo nominò colonnello delle sua cavalleria, retribuendolo con un adeguato stipendio.
Ma dopo un anno trascorso alla corte del sovrano dello Yemen, per Guillet giunse il tempo di partire di nuovo. Gli inglesi misero una nave della Croce Rosa a disposizione di tutti i civili italiani che desideravano tornare in patria. Per lui era un’occasione da non perdere.
Con l’autorizzazione e il sostegno fornitogli dal Re dello Yemen, Guillet raggiunse Massaua. Doveva riuscire ad imbarcarsi senza essere arrestato dagli inglesi ed ancora una volta la fortuna lo assistette. I suoi vecchi colleghi del porto non lo avevano dimenticato e lo aiutarono ad introdursi furtivamente nella nave.
Prima di salpare però, il capitano della nave, un italiano, perlustrò da solo tutta l’imbarcazione per vedere se vi fossero clandestini a bordo. Durante questa attività si imbatté in Guillet vestito da mendicante arabo. Il capitano della nave gli intimò subito di scendere dalla nave, ma a quel punto Guillet gli disse: “Io sono italiano. Guardi questa è una medaglia al valore che ho guadagnato in guerra. Lei non mi può cacciare dalla nave perché io sono un ufficiale di cavalleria dell’esercito italiano. Lei può fare due cose: o mi consegna alla scorta composta dalle guardie inglesi, i quali mi fucileranno subito dopo, oppure mi aiuta a nascondermi“. Il capitano italiano decise di aiutarlo. Per tutto il viaggio Guillet avrebbe dovuto restare nascosto nel manicomio della nave e fingersi pazzo.
Dopo 40 giorni di navigazione, compiendo il periplo dell’Africa, la nave raggiunse finalmente l’Italia. Era il 2 settembre 1943. Dopo anni di guerre, di avventure, di peripezie, Amedeo Guillet fece ritorno in Italia, ma ritrovò un paese completamente diverso da quello che aveva lasciato. Come prima cosa il tenente Guillet si presentò al comando dell’esercito a Roma per prendere contatto con i suoi superiori. Ma qui scoprì che era già divenuto “maggiore”. La promozione infatti l’aveva già ottenuta da tempo, ma nessuno era riuscito a trovarlo per comunicargliela. Eppure quel grado, e quindi la carriera militare, non gli interessavano più. Guillet aveva una sola cosa in mente: mantenere la parola data ai suoi guerrieri che lo stavano aspettando in Africa. Fu per questo motivo che a malincuore tenne segreta la propria presenza in Italia, sia ai suoi genitori che a sua cugina Beatrice. Amedeo Guillet aveva scelto di seguire la via più difficile, la più illogica, la meno conveniente: continuare a combattere. Chiese di essere inviato e paracadutato in Etiopia in modo da sollevare le popolazioni che riteneva a lui personalmente fedeli e continuare così la guerra.
Il Ministero della Guerra autorizzò Amedeo Guillet ad attuare il suo piano in Etiopia. Pochi giorni dopo però si giunse all’8 settembre. L’Italia era nel caos. Da nemici, gli inglesi diventarono alleati. Al quartier generale Guillet trovò le porte sbarrate. Solo allora si convinse che il suo sogno era finito. Ma non si arrese, Guillet aveva un proprio codice di onore che era la sua bussola. Dopo tutto lui aveva giurato fedeltà al Re e dunque l’unica cosa da fare era cercare il sovrano italiano, solo lui avrebbe potuto scioglierlo dal suo impegno e restituirlo alla vita civile.
La monarchia era il faro della vita di Amedeo Guillet. Così attraversò l’Italia in guerra e giunse a Brindisi, dove nel frattempo si era trasferito il re Vittorio Emanuele III. Il Re accettò di ricevere in udienza privata Amedeo Guillet, e dopo ore di conversazione lo ringraziò per il suo impegno e lo convinse a rimanere in Italia e a rinunciare al trasferimento in Africa.
Amedeo Guillet allora si preparò ad un appuntamento troppo a lungo rimandato, quello di andare a ricercare la sua promessa sposa, sua cugina Beatrice. Ritrovata la cugina, Guillet gli raccontò tutte le sue esperienze, soffermandosi specialmente sulla sua storia d’amore avuta con Kadija.
Amedeo Guillet e Beatrice Gandolfo si sposarono a Napoli il 21 settembre 1944. Ebbero due figli: Paolo e Alfredo.
A soli 37 anni Guillet fu promosso al grado di generale. Ma intanto l’Italia era diventata una repubblica e quindi per Amedeo Guillet la carriera militare non aveva più senso. Accettò allora di collaborare con il servizio segreto militare, infatti aveva delle conoscenze, anche conoscenze linguistiche, che lo facevano un uomo naturale di intelligence.
Alla fine del 1945, durante una delle sue missioni come agente segreto, Amedeo Guillet tornò in Eritrea. Ma oltre al suo lavoro, aveva anche un altro incarico da svolgere, quello impartitogli da parte della moglie. Sempre nell’intervista già più volte menzionata in questo articolo, Guillet cinquant’anni dopo raccontò: “Mia moglie mi disse: «Guarda tu devi rivedere assolutamente Kadija». Io gli risposi che non la volevo rivedere perché rappresentava ormai il mio passato, ma lei insistette perché io la rivedessi. Mi disse: «La devi rivedere e devi dargli questo mio braccialetto d’oro e questo mio diamante. Devi dirgli che glieli mando io per ringraziarla di tutto ciò che ha fatto per te. E digli che io sono diventata tua moglie solo perché la promessa che ci siamo fatti avvenne prima di conoscere lei, altrimenti solo lei avrebbe avuto il diritto di diventare tua moglie»“.
Amedeo Guillet riuscì a rintracciare Kadija e i due si incontrano in una sala da tè. Entrambi erano coscienti che quella sarebbe stata l’ultima volta che si sarebbero visti. Si trattennero a parlare per alcune ore, tenendosi sempre mano nella mano. Alla fine del loro incontro, Kadija lo salutò così come lo aveva lasciato l’ultima volta, cioè senza baciarlo, senza dirgli nulla, voltandosi con fierezza e dignità e allontanandosi a piedi.
Con questo viaggio in Africa, la storia di Amedeo Guillet sembra conclusa, invece non fu così.
Negli anni Cinquanta Guillet decise di sfruttare l’esperienza e le conoscenze accumulate ed iniziò la carriera diplomatica. Dal 1950 al 1952 ricoprì la carica di Ambasciatore d’Italia in Egitto, dal 1952 al 1962 fu ambasciatore in Yemen, dal 1962 al 1963 in Giordania, dal 1963 al 1971 fu ambasciatore in Marocco e dal 1971 fu ambasciatore italiano in India, entrando ben presto nel ristrettissimo entourage dei confidenti del Primo ministro Indira Gandhi. Con il collocamento a riposo per limiti d’età, nel 1975 concluse la sua carriera diplomatica.
Nel frattempo, il 14 ottobre del 1964, Umberto II di Savoia, per la fedeltà dimostrata alla monarchia gli concesse il titolo di barone.
Nella risposta a un lettore dedicata all’avventurosa esistenza di Amedeo Guillet, il celebre giornalista Indro Montanelli scrisse: “Se, invece dell’Italia, Guillet avesse avuto alle spalle l’impero inglese, sarebbe diventato un secondo Lawrence. È invece soltanto un Generale, sia pure decorato di medaglia d’oro, che ora vive in Irlanda, perché lì può continuare ad allevare cavalli e (a quasi novant’anni) montarli. Quando cade e si rompe qualche altro osso (non ne ha più uno sano), mi telefona“.
Avete letto bene, in Irlanda. In pratica, negli ultimi anni della sua vita, Guillet si trasferì a vivere nella patria dei suoi ex nemici. Mentre in Italia quasi nessuno sapeva della sua storia e della sua esistenza, in Gran Bretagna ricordavano bene chi era il Comandante Diavolo. Così, recatosi a vivere in Irlanda fu invitato a Londra, presso il quartier generale dell’esercito britannico e lì, alla presenza dei più alti ufficiali britannici e dei reduci della guerra in Africa Orientale, furono attribuiti a Guillet tutti gli onori militari come si conviene fra militari che nel rispetto, e non nei crimini di guerra, si erano confrontati in schieramenti su fronti opposti. Tra gli uomini presenti al ricevimento in suo onore vi era anche il maggiore dei servizi segreti britannici Max Harari, il quale per anni gli aveva dato la caccia. Tra i due, negli ultimi anni della loro vita, si instaurò una profonda e stretta amicizia. Un altro agente segreto britannico, Vittorio Dan Segre divenne addirittura il suo biografo e scrisse il libro “La guerra privata del tenente Guillet“.
Nel 2000, seguito dallo scrittore Sebastian O’Kelly, Guillet si recò in Eritrea, nei luoghi che lo avevano visto giovane tenente alla testa delle Gruppo Bande Amhara a cavallo, e fu ricevuto ad Asmara dal presidente eritreo Isaias Afewerki, con gli onori riservati ai capi di Stato.
Amedeo Guillet prima di lasciare per sempre l’Africa voleva rivedere ancora una volta l’uomo che gli aveva salvato la vita nel 1941, il mercante al-Sayed Ibrahim. Raggiunse il villaggio dove viveva il mercante, il quale però ormai era malato e non lo riconobbe. Vedendo degli ospiti giungere nel suo villaggio, immediatamente iniziò a raccontare la storia che raccontava a chiunque lo stesse ad ascoltare ed ogni qualvolta vedeva una persona che non conosceva. Guillet si sedette ad ascoltare. Era la storia di quando salvò nel deserto due yemeniti moribondi e di come si fosse affezionato a uno di loro. Il vecchio mercante si disse sicuro che quegli uomini erano stati inviati da Allah per mettere alla prova la fede e la carità dei suoi fedeli, ponendo sul loro cammino incontri speciali e soprannaturali. Al termine del racconto, il vecchio mercante si dimostrò dispiaciuto perché a causa del crollo del muro del pozzo, non poté offrirgli da bere. Amedeo Guillet non ebbe dubbi. Uno dei due viandanti yemeniti di cui parlava il vecchio al-Sayed Ibrahim era proprio lui. Era tentato di svelargli la sua identità e di riabbracciarlo e di commuoversi insieme a lui, ma non volle distruggere il mito dei due forestieri inviati da Allah. Così, salutando il suo benefattore, Amedeo Guillet gli disse di essere convinto che i due pellegrini prima o poi riappariranno, magari per riparare il suo pozzo. Congedatosi, Amedeo Guillet pagò alcuni operai perché quella stessa notte aggiustassero il pozzo del vecchio mercante. Così all’indomani, al suo risveglio, al-Sayed Ibrahim avrebbe avuto un’altra straordinaria novella da raccontare.
Il 20 giugno 2000, a Guillet fu conferita la cittadinanza onoraria dalla città di Capua.
Il 2 novembre 2000, il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi gli conferì la Gran Croce dell’Ordine Militare d’Italia, la massima onorificenza militare italiana.
Il Comandante Diavolo è morto a Roma il 16 giugno 2010, alla veneranda età di 101 anni. Le sue ceneri riposano nel cimitero di Capua, nella tomba di famiglia al fianco della moglie Beatrice e dei suoi avi.
Fonti
Vittorio Dan Segre, La guerra privata del tenente Guillet, Corbaccio Editore, Milano 1993
Bastian Matteo Scianna, ‘Forging an Italian hero? The late commemoration of Amedeo Guillet (1909-2010), European Review of History / Revue europénne d’histoire, 26:3 (2019)
Sebastian O’Kelly, AMEDEO – Vita, avventure e amori di Amedeo Guillet, un eroe italiano in Africa Orientale, Rizzoli, Segrate 2002
Sabrina De Canio, Gli Italiani in Africa, T&M Associati Editore, Reggio Emilia 2004
FONTE:http_www.madrerussia.com/?url=http%3A%2F%2Fwww.madrerussia.com%2Flaffascinante-vita-di-amedeo-guillet-lufficiale-italiano-che-si-prese-gioco-degli-inglesi%2F
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