RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI 27 AGOSTO 2021

https://comedonchisciotte.org/il-covidismo-ha-vinto-abbasso-il-covidismo/

RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI

27 AGOSTO 2021

A cura di Manlio Lo Presti

Esergo

Noi siamo tutti mendicanti sulla soglia del tempio e ciascuno di noi riceve la sua quota della ricchezza del Re quando entra nel tempio e quando ne esce.

Ma siamo invidiosi l’uno dell’altro che è un altro modo per sminuire il Re.

KHALIL GIBRAN, Aforismi, Barbera, 2008, pag. 29

 

 

http://www.dettiescritti.com/

https://www.facebook.com/dettiescritti

https://www.instagram.com/dettiescritti/

 

Le opinioni degli autori citati possono non coincidere con la posizione del curatore della presente Rassegna. 

I numeri degli anni precedenti della Rassegna sono disponibili sul sito www.dettiescritti.com

 

 Precisazioni legali 

 www.dettiescritti.com è un blog intestato a Manlio Lo Presti, e-mail: redazionedettiescritti@gmail.com 

Il blog non effettua alcun controllo preventivo in relazione al contenuto, alla natura, alla veridicità e alla correttezza di materiali, dati e informazioni pubblicati, né delle opinioni che in essi vengono espresse. Nulla su questo blog è pensato e pubblicato per essere creduto acriticamente o essere accettato senza farsi domande e fare valutazioni personali. 

Le immagini e le foto presenti nel Notiziario, pubblicati con cadenza pressoché giornaliera, sono raccolte dalla rete internet e quindi di pubblico dominio. Le persone interessate o gli autori che dovessero avere qualcosa in contrario alla pubblicazione delle immagini e delle foto, possono segnalarlo alla redazione scrivendo alla e-mail redazionedettiescritti@gmail.com 

La redazione provvederà doverosamente ed immediatamente alla loro rimozione dal blog.

 

°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°

SOMMARIO

Il covidismo ha vinto. Abbasso il covidismo!
La logica dei pro vax
Allora, generale Figliuolo, cosa farà?
“Une erreur stratégique qui impacte l’avenir de l’humanité” : appel du Pr Luc Montagnier
Leonardo da Vinci. The complete paintings in detail di Alessandro Vezzosi
LETTERA AL PRESIDENTE MATTARELLA DEL SINDACATO DELL’ESERCITO
La Cia chiede aiuto a mullah Baradar
Giappone e Regno Unito conducono esercitazioni militari a Okinawa
Parliamo del labirinto
Il potere della morte. La lezione teologica da trarre leggendo “L’Idiota” di Dostoevskij
AGAMBEN: LA MANIPOLAZIONE DI UNA EPIDEMIA
Quando il meme diventa mezzo di disinformazione e manipolazione
ERAVAMO BAMBINI: VIAGGIO NELL’ABISSO DELLE SCUOLE RESIDENZIALI CANADESI
DOVE E COME DIFENDERE LA SOVRANITA’ ECONOMICA POSSIBILE
MIGRANTI/ Quando il “piano Minniti” teneva i profughi nella Libia “talebana”
Afghanistan: il direttore della CIA incontra il leader dei talebani
Indonesia: la popolazione di Papua rifiuta i vaccini
Quanto costano davvero i politici italiani?
Dall’ecofanatismo all’ecorealismo
Mark Zuckerberg vuole trasformare Facebook in una “azienda del metaverso” Cosa significa?
Legami USA con la Germania Nazista…
Spengler, il tramonto dell’Occidente.

 

 

IN EVIDENZA

Il covidismo ha vinto. Abbasso il covidismo!

I peggiori anni della nostra vita

Di Moravagine per Comedonchisciotte.org

 

Il covidismo ha vinto: è il caso di prenderne atto. A quanti rigettano tale assunto, drogati dall’ottimismo della volontà mentre annaspano alla ricerca di qualcosa – qualsiasi cosa! – per esorcizzare l’avvento della Bestia, propongo una serie di argomentazioni: i Dieci Dimostramenti.

1) Allo stato attuale delle cose, circa 40 milioni di italiani si sono sottoposti al principale rito  della liturgia covidista: l’inoculazione del siero della Nuova Normalità. 40 milioni di nostri connazionali hanno firmato un patto a perdere con la chimica del diavolo.Come capita in questi casi, non hanno manco letto il contratto: hanno firmato con fede, foga e furore.   Una volta si stipulavano tali accordi dal retrogusto sulfureo per raggiungere le vette della Conoscenza o, al limite, per diventare chitarristi che spaccano tutto; oggi si porge il braccio (e l’anima) per andare al McDonald’s. Chi ha avuto noie dopo la prima siringa, è corso a prenotarsi la seconda con maggiore ardore, celando ai medici i propri malesseri nel timore di non essere reinoculato. Chi ha visto qualcuno morire, se n’è fatta una ragione che non c’è correlazione. 40 milioni di “cristiani” si sono fatti contaminare da un intruglio sui cui effetti a medio e lungo termine si possono solo fare ipotesi sinistre. Ora, se pure questa farsesca impostura dovesse finire domani per l’intervento di qualche Provvidenza, che fine farebbero questi milioni di punturati? Non sarebbe come  un dopoguerra col suo strascico di invalidi e mutilati, né come uno di quei tramonti di regime che anticipano albe di libertà. Il veleno inoculato è reale, non metaforico: difficile ipotizzare la scoperta di una panacea. Ci troveremmo così padroni di una  landa desolata abitata da zombi malaticci e farmacodipendenti. Il paradosso dei paradossi è che si profilerebbe all’orizzonte una “dittatura sanitaria” a parti invertite e tutto ciò, ne converrete, è spaventoso. Insomma, chi si prenderebbe sul groppone  questi 40 milioni di postumanizzati? E poi, chi glielo direbbe che il Green Pass non serve più?

2) L’egemonia del covidismo è tale che alligna anche nei ranghi di chi vi si oppone. Da quando ha conquistato l’immaginario,  il covidismo ha modellato tutto a sua immagine e siringanza. Per dimostrare d’esser uomini dabbene, è opportuno iniziare le proprie timide invettive col freno a mano tirato, specificando cose come “Io non sono no vax”, oppure “Io non nego il virus, attenzione!”. Si finisce con l’entrare nel merito di bizantine dispute pseudoscientifiche fra medicastri che parlano col sorcio ancora in bocca, con la testarda convinzione che basti adoperare i rudimenti della logica per espugnare il castello dell’impostura, per profanare il tempio della menzogna. Così, ambigui figuri lanciano campagne di tamponamento di massa, spiegando che in questo modo i non punturati potranno sbattere la loro sanità in faccia ai punturati, i quali sono invece  contagiosissimi, come hanno detto questo e quell’altro. V’è stato pure chi ha provato a “stanare” il governo proponendo l’obbligatorietà del siero, in modo da “costringere” la classe dirigente (per conto terzi) a prendersene la responsabilità politica, dando il via libera a fantomatici “risarcimenti”. Costoro stanno per essere accontentati: crederanno forse di fare la fine di Socrate. Per sottrarre al covidismo l’egemonia che s’è conquistato, non andrebbero rifiutati singoli elementi della storia: andrebbe respinta in blocco tutta la saga.

3) Del covidismo sono entrate sottopelle la struttura e la sovrastruttura. Oggi vanno le siringhe, ma gli altri feticci sono stati già assimilati dagli stomaci pelosi. Il nuovo galateo impone di salutarsi coi gomiti e tenere le distanze a norma di legge. Nelle borsette di signore e signorine non mancano mai i flaconcini per avvelenarsi le mani. Il senso comune si è completato con una nuova, definitiva consapevolezza: le mascherine fanno bene. Fanno bene sempre, fanno bene comunque, fanno bene anche se un po’ fanno male. Forse neanche Sara Cunial si azzarda a chiederne la fine dell’obbligatorietà nei perigliosissimi “locali chiusi”. E’ dura riconoscerlo, ma anche fra i partecipanti alle manifestazioni di questi giorni contro il Green Pass si trovano decine e decine di mascherinati. Siamo in un osceno carnevale che minaccia di non finire più.

4) La sicumera con la quale i teleciarlatani, le “presstitute”, i camici neri e i predoni incravattati stanno in questi giorni lanciando anatemi contro i “no vax” non è certo un buon segno. Tirati su a caramelle al gusto di culo, costoro fiutano sempre l’odore del padrone, e da quella parte si volgono. Fra chi invoca nuovi obblighi e verità, chi propone rastrellamenti dei carabinieri e chi direttamente i campi di concentramento, è una gara a chi la spara più grossa, sbraitando per farsi notare da chi di dovere. E’ estremamente probabile che siano state loro promesse le fiale “pulite” del vaccino “VIP”. C’è chi sostiene che sia tutto un immenso bluff e che questi qui si stiano giocando tutto prima di abbandonare il tavolo. Avrebbero almeno quello straccio di dignità proprio degli onesti giocatori d’azzardo. Questi marpioni, invece, giocano solo mani truccate.

5) La muraglia dei renitenti e dei resistenti si va sgretolando, ora dopo ora, in uno stillicidio di disfatte. Hai voglia a dire che i centri vaccinali sono vuoti e che il governo spara numeri farlocchi. La pressione è insostenibile: familiare, sociale, politica, economica, culturale e militare (fra poco). Il covidismo è un mostro che nidifica nei recessi nell’animo umano, lancia un’OPA ostile e conquista il 51% della coscienza in men che non si dica. Il vero contagio non è quello del covid, ma quello del covidismo.

6) Fra coloro che ancora non hanno ceduto al siringamento, vi è una cospicua quota di ipocondriaci “veri” e coerenti: gente che ha sì il terrore del virus intubatore, ma conserva un’atavica diffidenza verso aghi e pozioni magiche. La loro posizione può essere così riassunta: No Green Pass, Sì Mask, Ni Vax.

7) Partecipare alle manifestazioni contro il Green Pass fa bene allo spirito, ma l’effetto politico è pressoché nullo. Le televisioni additano i “no vax”  come pazzi, criminali, assassini, in un crescendo propagandastico dal sapore novecentesco, ma  non ci si sorprende: dopotutto, vengono inondate di soldoni. Ciò che fa specie è piuttosto il campionario di reazioni del popolo covidista: imprecazioni, maledizioni, minacce, richieste di intervento muscolare della forza pubblica, condivisione di filmati in cui si guarda ai manifestanti come a fenomeni da baraccone, ad animali esotici e pericolosi. I covidisti son rimasti attaccati alla loro fede come mistici ignoranti, come martiri ragazzini: non se n’è convertito uno.
Davanti ad una barbarie di tale portata, i palazzi avrebbero già da tempo dovuto subire l’assalto delle proverbiali folle oceaniche, ma così non è stato. Duole riconoscerlo, ma è ed è stato troppo poco e troppo tardi. Presto voleranno le manganellate. Ci saranno arresti, condanne, TSO. Difficile immaginare una resistenza: siamo un popolo vecchio e infiacchito. Piuttosto che prendere la Bastiglia, sarà la Bastiglia a prendere noi.

8)   S’è capito da un pezzo che stiamo andando a sbattere. Eppure, anche fra i più consapevoli prevale uno stato di torpida rassegnazione che rasenta il puro fatalismo. I peggiori anni della nostra vita si consumano fra processi di autoinganno, attendismo catenacciaro, iosperiamochemelacavo. Sul che fare, uno avrebbe dovuto pensarci prima: ora può solo improvvisare una commedia che non fa ridere. L’obbligo vaccinale incombe, ma è meglio non pensarci, in effetti.

9) Tutte le forze politiche rappresentate in Parlamento sposano, con diverse sfumature, il dogma covidista. I rappresentanti del popolo italiano eccetera eccetera hanno approvato compatti l’instaurazione della dittatura. L’opposizione della melonessa salva le apparenze agli occhi del popolo bue e cornuto, mentre Salvini, Speranza e Draghi giocano ad il Buono, il Brutto e il Cattivo. “La classe politica è ormai delegittimata! Il Parlamento non rappresenta il Paese!” urlerà qualcuno. A ottobre ci saranno le elezioni comunali: il covidismo, diviso in due o tre fazioni perché se no non c’è gusto, prenderà fra il 95 ed il 99% dei voti.

10) L’opposizione organizzata, che pure esiste, appare lacerata da sofismi, personalismi, bassezze varie ed assortite. Tutto questo in un contesto in cui il sabotaggio messo in atto dal Nemico si mostra in tutta la sua raffinatezza, fra gatekeeper professionisti, triplogiochisti, fascisti a libro paga della Questura. Inoltre, sono le forze “moderate” a detenere l’egemonia fra i movimenti anti-covidisti. Costoro redigono comunicati  misurati che si aprono tutti con la medesima formula: la pandemia esiste e il virus è terribile, ma il governo è brutto e cattivo. Il covidismo, insomma, prevale anche fra i movimenti anti-covidisti.

Lo scenario descritto è chiaramente calibrato sulla realtà italiana, ad oggi la più covidizzata dell’Occidente (assieme a Francia, Australia ed Israele). Se pur si dovessero produrre le condizioni per un cambiamento su scala globale, queste maturerebbero altrove: ancora una volta, saranno altri a decidere le nostre sorti. Non è neppure da escludere che il covidismo possa sopravvivere, giocoforza, solo nei paesi in cui l’inoculazione ha avuto maggior successo. I regimi di Franco e Salazar sopravvissero al crollo dei loro protettori, e quelli erano dei dilettanti.

Detto questo, sia chiara una cosa: c’è uno zoccolo durissimo che non si arrenderà mai alla follia covidista. Sia detta pure un’altra cosa: se è vero che il covidismo ha dato un senso alle vite di centinaia di milioni di alieni ed alienati, la lotta contro il covidismo ha dato un senso, ulteriore, alla nostra. Se non sarà possibile salvare i nostri corpi, vorrà dire che ci salveremo le anime.

Distruggono il mondo in pezzi

Distruggono il mondo
In pezzi
Distruggono il mondo
A colpi di martello
Ma non m’importa
Non m’importa davvero
Ne rimane abbastanza per me
Ne rimane abbastanza
Basta che io ami
Una piuma azzurra
Un sentiero di sabbia
Un uccellino pauroso
Basta che io ami
Un filo d’erba sottile
Una goccia di rugiada
Un grillo di bosco
Possono distruggere il mondo
In pezzettini
Ne rimane abbastanza per me
Ne rimane abbastanza
Avrò sempre un po’ d’aria
Un filino di vita
Un barlume di luce nell’occhio
E il vento tra le ortiche
E ancora, e ancora
Se mi sbattono in prigione
Ne resta abbastanza per me
Ne resta abbastanza
Basta che io ami
Questa pietra corrosa
Questi ganci di ferro
Dove spiccia un filo di sangue
Io l’amo, io l’amo
La superficie consumata del mio letto
Il pagliericcio e lo scaldino
La polvere del sole
Amo lo spioncino che s’apre
Gli uomini che sono entrati
Che avanzano, che mi portano via
Ritrovare la via del mondo
E ritrovare il colore
Amo questi due lunghi travi
Questa lama triangolare
Questi signori vestiti di nero
E’ la mia festa e io sono orgoglioso
L’amo, l’amo
Questo paniere riempito di suoni
Dove poserò la mia testa
Oh, l’amo per davvero
Basta che io ami
Un piccolo stelo d’erba azzurra
Una goccia di rugiada
Un amore d’uccellino pauroso
Distruggono il mondo
Con i loro martelli pesanti
Ne rimane abbastanza per me
Ne rimane abbastanza, cuore mio.

Boris Vian

FONTE: https://comedonchisciotte.org/il-covidismo-ha-vinto-abbasso-il-covidismo/

La logica dei pro vax

E’ la scienza, bellezza…


Premessa.

Lo ammetto. Essendo un complottista, appena annunciarono il primo lockdown, la prima cosa che pensai è che volevano distruggere l’economia, e che il virus era una scusa. Ma essendo un complottista positivo, mi dicevo che non sarebbero arrivati ad imporre un vaccino a tutta l’umanità, come prevedeva Steiner 100 anni fa, né a imporre lockdown e misure restrittive a vita, come aveva previsto David Icke, il re dei complottisti. Come avrebbero fatto, mi dicevo a marzo dell’anno scorso, ad imporre un vaccino di cui sarebbero stati sconosciuti gli effetti a lungo termine? La gente non ci sarebbe cascata. E invece si sono avverate le peggiori previsioni. Il vaccino lo stanno imponendo a tutti; incuranti dello sfascio economico provocato da queste misure, i vari governi del mondo si preparano a nuovi lockdown, e nuove restrizioni che dureranno ancora anni, a colpi di varianti e di accuse ai non vaccinati di essere i nuovi untori di questa epoca.

Insomma, per me la presa per il culo globale in cui stiamo vivendo è un’ovvietà. Non a caso le persone che stimo da anni, quelle con cui condivido idee, esperienze, percorsi, la pensano tutti come me.

Il mistero della logica dei pro vax

Per me rimane invece un mistero la logica del pro vax. Non parlo del pro vax medio. Parlo del pro vax colto, quello che cita statistiche, contro statistiche e studi.

Il pro vax medio infatti ha una logica abbastanza semplice; come esempio prenderò mia madre, laureata, con un’ottima apertura di mente da capire che i governi non pensano certo al bene della gente. Non lo hanno mai fatto, non si capisce perché dovrebbero farlo ora. Questo il dialogo avvenuto qualche mese fa:

Mamma senti, ma al figlio di Gianni (un amico di famiglia) in quale momento hanno fatto la diagnosi di autismo? Dopo il vaccino, fa lei tranquilla, e aggiunge: Eh si, pensa che il dottor Pastorelli (un amico di famiglia degli anni 60) già a quell’epoca diceva che le case farmaceutiche ben conoscono i danni dei vaccini, ma i governi preferiscono risarcire i danni da vaccino, piuttosto che rinunciare ai profitti immensi dovuti dalla vendita del vaccino stesso.

Con queste premesse avrei trovato logico che non si vaccinasse. Invece lo ha fatto. Il motivo? per far stare tranquilli gli altri (a seconda della persona cambia la motivazione, ma le conclusioni sono sempre le stesse: sono contrarie al vaccino, ma lo fanno per gli altri, per andare al ristorante, perché devono portare i figli al parco acquatico, perchè altrimenti si sentono diversi, o per “essere di nuovo liberi”). Insomma, motivazioni deboli, tipiche della massa.

Quello che mi incuriosiva invece era la logica del pro vax colto, quello che in genere ragiona un po’ fuori dal sistema, che si informa anche da fonti non televisive e giornalistiche, abituato a mettere insieme i dati.

Metto di seguito insieme le domande con le relative risposte che ho annotato in questi mesi.

Prima domanda.

Una prima osservazione che io trovo decisiva, e addirittura dirimente, nel senso che basterebbe questo per far capire che siamo di fronte ad un immenso complotto globale è il fatto che la cura per il Covid ci sarebbe, eccome. Attualmente, alcuni scienziati inascoltati, dicono che è sufficiente vitamina D3, vitamina C, vitamina k2, Lattoferrina, quercetina, ma anche farmaci come Ivermectina e Idrossiclorochina, per curare senza problemi questo virus, a casa, senza affollare gli ospedali. Queste cure, a bassissimo costo, e di efficacia dimostrata, se diffuse, renderebbero questo virus più innocuo di una normale influenza. Non è sufficiente questo dato, per concludere che i vari governi non hanno nessuna intenzione di combattere davvero il virus? Questo a me non sembra un discorso complottista, ma proprio un discorso medico. Scientifico.

Le risposte sono varie. Alcuni ammettono candidamente che non ne ne avevano mai sentito parlare. Altri ti dicono che la scienza ufficiale (che dipende dalle case farmaceutiche, che finanziano le ricerche) non ha ancora accettato l’ivermectina (ma è falso, per approfondire leggi qui: https://liberopensare.com/il-criminale-divieto-dellivermectina/).

E se gli fai notare che i 200 medici di Ippocrateorg.org (è solo una delle associazioni che hanno proposto le cure domiciliari) sono, appunto medici, e ricercatori (molti medici che fanno parte dell’associazione, e si adoperano per la diffusione di questa terapia, sono ricercatori molto apprezzati anche all’estero per i loro studi) ti rispondono che queste terapie non sono validate dalla “scienza” (in realtà è falso, perché in altri paesi tali cure sono riconosciute come valide; l’India ad es. vende in farmacia un Covid Kit a base di Zinco, Doxycilina, Ivermectina). Inoltre è ovvio che nessuno abba testato a livello ufficiale la validità della vitamina C e D3, dato che sono prodotti che esistono da sempre; ma decine di migliaia di casi curati in Italia con questo metodo saranno pur un risultato scientifico. O no? No. Per chi rifiuta le terapie domiciliari, questo discorso non attacca.

A questo punto cerco di capire cosa si intende per “scienziato”. Siccome si sono pronunciati contro l’utilità di questo vaccino diversi premi nobel e ricercatori di fama internazionale (Rault, Tarro, Montagner, Massimo Citro, ecc.) la risposta è abbastanza sorprendente. Montagner si è rincoglionito per l’età; Citro non ha vinto manco un premio nobel; Tarro ha ricevuto non so quali denunce, e via discorrendo con attacchi alla persona, non alle teorie che divulgano.

Ora quali sono questi scienziati di fama internazionale che promuovono il vaccino, francamente non sono riuscito a capirlo, a meno di non considerare tali Burioni, Fauci e persone famose solo per le comparse in televisioni. E devo dire la verità, non sono proprio riuscito a capire il concetto di “scienza” cui fa riferimento il pro vax.

Seconda domanda.

Un’osservazione che io trovo decisiva per capire come la situazione attuale nasconda ben altri fini, sono i dati che ho letto rispetto alla situazione in India. Pare che, ad oggi, siano morti di Covid dai 400.000 (secondo le statistiche ufficiali) ai 5 milioni di indiani (secondo statistiche non ufficiali). Tuttavia, col primo lockdown, i morti per fame tra i minori di 5 anni sono schizzati dal 2000 morti al giorno agli 8000, perché molti indiani vivono di mendicità o di turismo, attività entrambe distrutte dalla situazione di restrizione (quindi circa 300.000 morti per fame in un anno solo tra i minori; se prendiamo in considerazione anche gli adulti la cifra ammonta a diversi milioni). Da notare che le statistiche non ufficiali, individuano la cifra di 5 milioni di morti, lo fanno annotando l’anomalia di morti in eccesso rispetto agli anni precedenti; il che non significa che questi 5 milioni siano morti davvero di Covid, in quanto nel numero vanno ricompresi tutti coloro che sono morti per malnutrizione, a causa dell’impossibilità di lavorare o mendicare. Insomma, le misure relative al Covid hanno prodotto un numero di morti per denutrizioni pari a quelli del Covid stesso o addirittura superiori. Dietro ai provvedimenti restrittivi, quindi, non c’è alcune ragione di salute degli Indiani, e mi pare evidente. Come è evidente a tutti che non esiste nessuna ragione sanitaria per il green pass che vige da noi. Ma pare evidente anche al pro vax?

Le risposte qui sono due: 1) il governo dell’India ha preferito tutelare i ricchi rispetto ai poveri; 2) non posso giudicare la realtà dell’India, di cui non sappiamo nulla.

Terza domanda.

Per quale motivo imporre il vaccino a tutti, e perchè questo accanimento verso chi non vuole vaccinarsi? Perché solo se si vaccinano tutti, il virus sarà sconfitto, è la risposta. A quel punto fai notare che in Israele dove erano tutti vaccinati e in Islanda, dove la percentuale dei vaccinati era il 100 per cento, ci sono stati altri focolai, il che è la prova che il vaccino non funziona come metodo di prevenzione.

Qui le risposte sono molto sofisticate, e sono di due tipi: 1) In realtà il problema è che la copertura del vaccino va da 4 ai 6 mesi e i governi dovrebbero imporre la cosiddetta terza dose dopo 4 mesi. Il fallimento della politica vaccinale quindi dipende dal fatto che le dosi dovrebbero essere somministrate con minor intervallo temporale. 2) Ad ogni modo, anche se il virus circola lo stesso, la gente si ammala meno e, se si muore, i morti sono molti meno.

Quarta domanda.

E gli effetti collaterali del vaccino? Soprattutto quelli a lungo termine, di cui non sappiamo nulla. Perché, se quelli a breve termine sono già evidenti, e in alcuni casi gravi molto gravi, figuriamoci quelli sul lungo periodo.

A questo punto ti citano statistiche secondo cui gli effetti sarebbero molto pochi, solo 154 eventi avversi su 100.000 dosi, 7 morti in totali su 50 milioni, secondo i dati della farmacovigilanza (mi è capitato di leggere un articolo di giornale in cui si diceva che i vaccini provocano “solo” un morto ogni 1000 bambini. E che sarà mai un morto ogni 1000?). Se fai notare loro che quegli effetti sono solo quelli delle statistiche ufficiali, ti rispondono che non hai alcuna prova per correlare altre morti o malori al vaccino. A quel punto faccio notare che le persone morte inspiegabilmente dopo il vaccino sono molte più di 7; ne ho contate almeno una quindicina, leggendo i vari giornali locali. La risposta è che se conti i morti dopo aver mangiato un gelato, sono molti di più, ma mica è detto che sia stato il gelato la causa.

Lasciando perdere i morti, che sono comunque sempre pochi sul totale della popolazione vaccinata, ma rimanendo agli effetti collaterali, faccio l’esempio di mia madre, che ha avuto tre settimane di vertigini proprio a partire dal giorno successivo al vaccino, ma non rientra tra le statistiche; mi rispondono che non posso certo essere sicuro che queste vertigini siano correlate al vaccino. E il fidanzato di una delle mie migliori amiche, che non aveva mai fatto un giorno di assenza dal lavoro, e dal giorno dopo il vaccino è stato a letto per due settimane? Se la scienza non ha correlato questo suo malessere al vaccino, mica posso farlo io, che non sono uno scienziato. Quello che contano sono i dati della farmacovigilanza, mica il mio spirito di osservazione, che tra decine di parenti, nipoti, amici vaccinati, una mia personale statistica me la sono fatta, e ho potuto constatare che, è vero, la maggioranza non ha avuto effetti collaterali. Ma una percentuale preoccupante si. Con sintomi in alcuni casi abbastanza gravi. A quel punto non ci vuole uno scienziato per farsi una semplice domanda: ma se questi sono gli effetti immediati, cosa ne è degli effetti a lungo termine? La risposta è, in questo caso, univoca: bisogna fidarsi della scienza, perché i vaccini sono stati testati e sono sicuri, e le nuove metodologie sono molto più avanzate di quelle dei decenni scorsi, che richiedevano sperimentazioni più lunghe.

A questo punto, se fai notare che questi test sono quelli delle case farmaceutiche stesse che hanno prodotti i vaccini, e io non mi fiderei dei dati di aziende che, con questa operazione, guadagneranno cifre a decine di zeri (la Pfizer prevede guadagni nel 2021 per 80 miliardi di dollari; Johnson e Johnson in un trimestre ha fatturato più di 12 miliardi di dollari; senza contare tutti i guadagni che vengono dalla vendita dei tamponi che sono addirittura superiori a quelli dei vaccini) sono un terrapiattista, che crede al complotto di Big pharma e ai rettiliani.

Inutile poi far riflettere un pro vax sullo strano caso dei pazienti che guariscono da malattie incurabili, come Sla, Alzeimer, sclerosi multipla, come se fosse un miracolo. Perché non sono proprio preparati a una cosa del genere e il massimo che mi sono sentito rispondere è “li hai visti tu?” E in effetti no, non li ho visti, solo sentito i racconti, ma alcuni di questi vengono da persone per me più che affidabili, come Silvia Pepe, naturopata ed esoterista che lavora in Inghilterra. E sarebbe un dato su cui sarebbe opportuno riflettere, studiarlo (con metodi scientifici, su questo concordo con la logica scientista dei pro vax). Ma questo è troppo per la logica del pro vax, che andrebbe in tilt, e quindi è un percorso che, credo, nessuno intraprenderà mai veramente, se non nell’ambiente dei naturopati o degli operatori olistici.

Domanda cinque (questa è una domanda da complottista)

In questa situazione internazionale, i principali governi del mondo sono allineati sul fronte vaccinista e pro lockdown; ora, considerato che non mi risulta che i singoli governi abbiamo mai pensato veramente al bene della popolazione, non trovi sospetto che per la prima volta nella storia dell’umanità tutti i governanti siano d’accordo per imporre le stesse misure? E che alcuni di quelli non allineati siano morti (come il Presidente di Haiti, ucciso addirittura da un commando nella sua abitazione, insieme alla moglie?)

Le risposte sono le seguenti: Il mio è un modo di ragionare tipico da complottista prevenuto. Alla mia amica Solange (un tempo straordinaria studiosa di poteri occulti, ma che oggi è perfettamente allineata al pensiero mainstream) le si scalda addirittura il cuore a sentire i discorsi di Mattarella che invita alla vaccinazione come dovere civico e morale. Qualcuno sostiene che per la prima volta nella storia dell’umanità i vari governi pensano al bene dell’umanità perché siamo nell’era dell’acquario, l’era della solidarietà. Il presidente di Haiti è stato ucciso per altri motivi, e il mio modo di ragionare è delirante, non si può parlare della politica di Haiti, che non conosciamo. E poi… se io fossi al loro posto cosa farei? Non è facile trovarsi a capo di un governo e dover prendere decisioni così delicate.

 

La questione centrale. La scienza.

Ma al centro di tutto il dibattito, al di là delle statistiche con cui si può dimostrare tutto e il contrario di tutto, c’è la scienza. E’ la scienza che ci dice che il vaccino funziona. Ed è la scienza che dice che i metodi restrittivi, come il lockdown, servono a prevenire il contagio. E chi siamo noi per contraddire la scienza? Inutile ricordare a chi osanna la scienza, che la scienza ai tempi del nazismo spiegava con teorie di illustri scienziati la superiorità della razza ariana, ed è grazie alla scienza che si è perpetrato lo sterminio degli ebrei; che ai tempi dello schiavismo, molti scienziati dimostravano, teorie alla mano, che i neri erano inferiori ai bianchi ed erano nati per lavorare sodo, ed è grazie alla scienza che abbiamo massacrato milioni di africani che morivano durante i viaggi, ammassati nelle stive delle navi, e quelli che sopravvivevano venivano venduti, frustati, umiiati. Inutile ricordare che spesso la scienza ha dichiarato innocui farmaci rivelatisi dannosi se non addirittura mortali (ricordate il caso del Talidomide, tanto per citarne uno? Farmaco dichiarato sicuro, ma che poi, si riuscì a dimostrare, provocava aborti o la nascita di bambini malformati).

Anche personaggi noti, nonostante la loro cultura, sostengono che il problema al centro del dibattito è la scienza. Il virus è il problema, e il vaccino la soluzione, scrive Beppe Servegnini in un recente articolo sulla logica del no vax. Mentre Samantha Cristoforetti dichiara beatamente che “lei e la sua famiglia si sono vaccinate non perchè ha acquisito informazioni che tutt’ora non ho, ma perchè si fida delle istituzioni”. Il reale problema, secondo lei è “recuperare la fiducia nelle istituzioni”. Mica si è informata su quello che gli iniettano in corpo. Lei si fida.

La situazione mi ricorda quella ai tempi di Nostradamus e Paracelso; imperversava spesso la peste a quei tempi, ed entrambi sostenevano un cosa assai banale, ma derisa dal mondo scientifico di allora: che bastava lavarsi di più e curare la propria igiene personale e del luogo in cui si viveva per non ammalarsi di peste. Ma siccome la scienza non l’aveva ancora accertato ufficialmente, le loro teorie rivoluzionarie (cioè curare l’igiene) rimasero nel vuoto ancora per molto tempo.

In conclusione. La logica del no vax è che il virus non sarebbe un problema (perchè le cure ci sono) e il vaccino non è la soluzione.

Anche a me sembra logico affidarmi alla scienza. E infatti, non avendo elementi per capire efficacia e componenti di un vaccino, mi affido a scienziati di cui mi fido, oltre che al mio spirito di osservazione.

Quello che trovo senza logica è il ragionamento di molti pro vax; non capisco di quale scienza parlano. Non capisco perchè hanno paura di un virus e preferiscano veder distruggere l’economia e rischiare gli effetti collaterali di un vaccino sconosciuto, piuttosto che prendere in considerazione altre cure. Non ho proprio capito il criterio alla base dei loro ragionamenti e non credo che lo capirò mai (dò la mia spiegazione nell’articolo dedicato alle eggregore, le entità e la pandemia: https://petalidiloto.com/2021/08/eggregore-entita-e-pandemia/ ).

E la mia amica Solange Manfredi, esperta di guerre psicologiche, che sostiene che siamo di fronte alla più grande operazione di guerra psicologica di tutti i tempi? Come si concilia questo con il suo postare continuamente i discorsi di Mattarella sul dovere civico e morale di vaccinarsi? Nulla. Impossibile – almeno per me – capire il suo pensiero, al di fuori dei suoi appelli a vaccinarsi e a rispettare il lockdown. Perché lei è un’esperta, insegna al master di intelligence, e – come consiglia un professore americano da lei citato – non parla con le menti deboli come le mie. Insomma, è la scienza a consigliarle di non parlare con gli idioti come me. E se lo dice la scienza, chi sono io per contraddirla?

FONTE: https://petalidiloto.com/2021/08/la-logica-dei-pro-vax/

 

 

 

 

Allora, generale Figliuolo, cosa farà?

25 08 2021 Vincenzo Mannello 

 È sempre più evidente, dalle anticipazioni di esponenti del governo e dalle intemerate televisive degli scienziati della dittatura sanitaria, il prossimo obiettivo che Draghi ed i suoi satrapi liberalcomunistardi si sono prefissati : obbligo vaccinale per tutti !!

Così, “urbi et orbi” (bambini e neonati compresi) dovremo essere inoculati uno per uno, fino alla fine .. se non fisica, numerica dei 60 milioni circa di cittadini italiani. 
Tolgo dal computo i nuovi arrivati profughi afghani, perché non si sa mai .. le Nazioni Unite potrebbero trovare il trattamento “forzoso e contrario al rispetto dei diritti umani”. 
Postulati e trattati che l’Italia ci tiene a rispettare,  ma solo con clandestini, profughi e migranti vari, non certo con noi autoctoni. 
Personalmente, in vista di questa prossima tappa, non mi frega niente della giustificazione addotta per impormela. Ritengo una truffa sanitaria obbligare solo gli italiani a vaccinarsi quando tale precetto non esiste quasi in nessuna parte del mondo ed, anzi, un intero continente (l’Africa) neppure sa cosa siano green pass, lockdown, mascherine ed amenità simili. Senza per questo aver avuto per strada milioni di cadaveri di morti per Covid. 
Un provvedimento suggerito da magliari (gli scienziati ed i medici a libro paga del governo e delle case farmaceutiche), che permette ai politici di assumere “in emergenza” pieni poteri alla faccia della costituzione…
Quindi, premesso quanto sopra, cosa farà il “braccio militare” di Draghi, il pluridecorato generale Figliuolo ? 
Come “obbligherà i renitenti” a farsi inoculare il vaccino  ? 
Li rastrellerà casa per casa, paese per paese, quartiere per quartiere come è parso anticipare in qualche occasione ? Li “bucherà” sul posto o, in attesa, li ammasserà in qualche gulag di stampo stalinista per estorcere persino il “consenso informato” ? 
Userà i paracadutisti tornati (di corsa) dallo Afghanistan o gli alpini pure sulle coste siciliane ? 
Magari, in caso di improbabile “resistenza” chiederà l’intervento della NATO ..
Temo che, in estremo, possa rivolgersi (via Draghi) direttamente a Biden per risolvere il problema. 
In fin dei conti, in Italia, siamo pieni di marines .. Chi, meglio di loro, può dare una mano nel violare trattati e norme del diritto internazionale ?
Grazie per l’attenzione
FONTE: https://accademiadellaliberta.blogspot.com/2021/08/allora-generale-figliuolo-cosa-fara.html

 

 

“Une erreur stratégique qui impacte l’avenir de l’humanité” : appel du Pr Luc Montagnier

 Publié le 07/08/2021 à 10:00 – Mise à jour à 10:15
Une erreur stratégique qui impacte l’avenir de l’humanité. Appel du Pr Luc Montagnier

F. Froger / D6
Auteur(s): FranceSoir
A+A

Depuis le début de la pandémie, le professeur Luc Montagnier, prix Nobel de médecine, a fait plusieurs déclarations qui ont défrayé la chronique. L’un d’elles est sur l’origine « fabriquée » du virus et de ses insertions identifiées au travers de modèles mathématiques permettant d’identifier les ruptures d’harmonie attendue. Cette révélation a été confirmée dans une étude, revue par les pairs, écrite avec le mathématicien Jean-Claude Perez, puis sur le plateau de FranceSoir, ainsi que par de nombreux experts internationaux jusqu’à devenir une des hypothèses les plus probables et non plus une thèse complotiste comme nombre de médias mainstream l’ont représentée.

Aujourd’hui, le professeur Montagnier lance un appel à la lumière de ses analyses et nombreuses conversations avec des experts de par le monde entier.

“Ceci est un appel aux dirigeants qui font la promotion dans leur pays et au niveau international d’une vaccination massive pour la prévention de la diffusion du coronavirus Covid-19.

Sur la base de données encore expérimentales, ils ont permis et encouragé des campagnes d’inoculation massive de nouveaux types de vaccins.

Ces vaccins portent une partie de l’ARN du virus codant pour sa protéine de surface permettant sa fixation sur des cellules-cibles. Les fabricants de ces vaccins ont naïvement cru et fait croire que les organismes injectés allaient monter une forte réponse en anticorps neutralisant cette protéine de surface et ainsi empêcher la transmission du virus. 

Or les faits contredisent cet espoir : les vaccins Pfizer , Moderna, Astra Zeneca n’empêchent pas la transmission du virus de personne à personne et les vaccinés sont aussi transmetteurs que les non-vaccinés .

Par conséquent l’espoir d’une “immunité collective” par une augmentation du nombre de vaccinés est totalement vain.

L’explication de cet échec est simple : la haute capacité de mutation du virus liée à sa haute transmissibilité permettent la sélection de variants résistant aux vaccins.

C’est une course où le virus aura toujours une longueur d’avance. 
Il faut l’abandonner, et refuser la vaccination obligatoire, notamment des personnels médicaux déjà bien informés des effets secondaires des vaccins actuels.

Je propose aux autorités des solutions salvatrices :

1. Une vaccination par un vaccin générant une forte immunité cellulaire de type T tel le BCG (les pays pratiquant cette vaccination ont une faible incidence de Covid19),

2. Le traitement précoce de l’infection par ivermectine et antibiotique bactérien car il existe un cofacteur bactérien amplifiant les effets du virus.”
 

Le professeur Montagnier a donc pesé chacun de ses mots en lançant cet appel qui est reçu favorablement par la communauté des soignants, dont certains sont dévastés par la décision du Conseil constitutionnel de rendre la vaccination obligatoire.

Un médecin réagit : “merci au professeur Montagnier, nous espérons que de nombreux scientifiques comme lui viendront se joindre à cet appel afin que le gouvernement puisse enfin ouvrir le débat”.

Aujourd’hui, de nombreuses manifestations contre le passe sanitaire et la vaccination obligatoire du personnel médical vont se tenir dans plus de 180 villes de France.  

FONTE: https://www.francesoir.fr/societe-sante/une-erreur-strategique-qui-impacte-lavenir-de-lhumanite-appel-du-pr-luc-montagnier

 

 

 

 

ARTE MUSICA TEATRO CINEMA

Leonardo da Vinci. The complete paintings in detail di Alessandro Vezzosi
Lunedì, 21 Giugno 2021 Scritto da Vito Lentini dimensione font riduci dimensione font aumenta la dimensione del font Stampa Email
Leonardo da Vinci. The complete paintings in detail di Alessandro VezzosiAlessandro Vezzosi
LEONARDO DA VINCI. THE COMPLETE PAINTINGS IN DETAIL
PRESTEL, pag. 320 – £. 65,00
(ARTE – Vito Lentini)

Leonardo da Vinci. The complete paintings in detail: il lavoro dell’artista in dettaglio

Uscito nell’anno che ha universalmente segnato il cinquecentesimo anniversario della morte del genio di Vinci il volume edito da Prestel – editore indipendente di monografie, tomi e coffee table books sulla storia dell’arte, sull’architettura, il design, la fotografia, la moda e i libri per i bambini – reca il titolo Leonardo da Vinci. The complete paintings in detail. Un titolo, questo, che svela la prospettiva adottata dall’autore Alessandro Vezzosi – Direttore del Museo Ideale Leonardo da Vinci nonché Professore onorario presso l’Accademia della Arti del Disegno di Firenze – volta ad esaminare il lavoro dell’artista in dettaglio utilizzando la tecnologia recente e le ultime ricerche condotte in seno alla storia dell’arte. “Progressi che hanno permesso – come esplicitamente segnalato nell’introduzione del volume – anche di esaminare le impronte digitali e il materiale biologico trovato sulla superficie delle opere e che possono essere riconducibili allo stesso Leonardo”. Un esempio che oggi consente di giovare di ricerche ed indagini accurate sui capolavori e sulla genialità del grande protagonista del Rinascimento presentate tra le pagine di questo volume.
Nelle quattro sezioni iniziali si ripercorrono gli sviluppi relativi alle origini, all’apprendistato, alle dispute, ai manoscritti, agli studi condotti sul corpo umano e sull’anatomia al servizio della pittura, agli utensili, alle invenzioni, ai capolavori che recano i sorrisi quali tratti distintivi. Il profilo teorico del genio di Vinci guadagna spazio ulteriore con l’interessante approfondimento sulla natura della bellezza svelandone la modernità e la complessa unicità: “la sua bellezza doveva essere utile a rispondere a esigenze psicologiche, funzionali ed espressive – chiarisce l’autore -. È morale e spirituale, interiore ed esteriore; si esprime come sintesi di arte e scienza, dell’esperienza della natura e dell’estremo artificio”.
Seguono i focus sulle opere offrendo numerosi esempi comparativi con documenti d’archivio, studi preparatori e dipinti contemporanei. Da segnalare, in particolare, gli studi relativi ai seguenti capolavori: Annunciazione, Madonna Litta, Ritratto di Ginevra de’ Benci, Adorazione dei Magi, Vergine delle Rocce, Ultima cena, Gioconda, San Giovanni Battista e Sant’Anna, la Vergine e il Bambino con l’agnellino.
Le immagini, i particolari, i toccanti dettagli sui panorami, sugli arredi, sull’abbigliamento, sulle posture e suoi gesti degli arti pennellati da Leonardo contribuiscono a rendere il libro una pubblicazione pregevole, certamente da annoverare nelle librerie dei fervidi estimatori dell’artista italiano.

FONTE: https://www.sipario.it/recensionilibriteatro/item/13757-leonardo-da-vinci-the-complete-paintings-in-detail-di-alessandro-vezzosi.html

 

 

 

ATTUALITÀ SOCIETÀ COSTUME

LETTERA AL PRESIDENTE MATTARELLA DEL SINDACATO DELL’ESERCITO

Anche il “sindacato’ dell’Esercito Italiano scende in campo esprimendo la sua contrarietà contro la discriminazione da Green Pass, definita “una nuova variante ancor più pericolosa e contagiosa”. Il segretario nazionale della Federazione Lavoratori Militari (FML) dell’Esercito Italiano, Piero Angelo De Ruvo, con cui Gospa News si onora di iniziare una collaborazione, ha infatti inviato ieri, venerdì 20 agosto, tramite posta elettronica certificata una vibrante lettera di protesta al Presidente della Repubblica Italiana Sergio Mattarella che è anche Capo delle Forze Armate in qualità di presidente del Consiglio Supremo di Difesa, spedita per conoscenza anche al rappresentante dello Stato Maggiore dell’Esercito.

Vista la delicatezza della posizione di chi ha firmato la lettera e dei suoi contenuti crediamo sia opportuno pubblicarla integralmente anziché elaborare un articolo in cui potremmo omettere passaggi fondamentali distorcendo il senso di alcune frasi. Buona Lettura.

Ecco la lettera di Piero Angelo De Ruvo

Egregio Sig. Presidente della Repubblica Italiana,

alla luce di tutto quanto accade, appare oltremodo necessario ribadire in maniera inequivocabile, che questa Segreteria Nazionale, “è favorevole ai vaccini”, e siamo consapevoli della loro valenza scientifica ed utilità sociale, giacché essi hanno salvato milioni di vite ed hanno contribuito alla scomparsa di malattie mortali fin dal loro primordiale utilizzo. È tuttavia necessario altresì ribadire la propria contrarietà ad obblighi anche indotti da fasi emergenziali, se tali scelte sono sprovviste di adeguate garanzie del rispetto costituzionale previsto dai Padri Costituenti, con la conseguente scelta alla libertà di sottoporsi ad alcuna terapia laddove non contrasti un innegabile ragione scientifica, giuridica, sociale.

La dichiarata emergenza sanitaria dura ormai da ben 18 mesi ed è stata accompagnata da una massiccia campagna informativa di tutti i canali comunicativi, oltre che da reiterati provvedimenti governativi, creando così una confusione legislativa abnorme di difficile interpretazione anche per gli esperti di diritto, di dubbia efficacia, ma soprattutto di ardua applicazione da parte degli operatori/agenti preposti, senza peraltro considerare le numerose sentenze amministrative, civili e penali intervenute nel mentre. Il frontespizio della lettera

Tutto ciò premesso, malgrado il neo decreto legge relativo all’introduzione del c.d. “green pass”, somma nuove e più difficili interpretazioni al quadro normativo “speciale” prodotto, passando dai virus dei (D.P.C.M), atti di indirizzo amministrativo, (alcuni dei quali resi illegittimi dai TAR), che hanno introdotto indirettamente una discriminazione sociale tra cittadini aventi medesimi diritti/doveri, alla variante “Decreto Legge”, col risultato assai prevedibile di demarcare la popolazione ovvero di accenderne possibili conflittualità endogene. Una nuova variante, ancora più pericolosa e contagiosa, chiamata discriminazione, si è ormai diffusa nel vivere quotidiano e in ogni contesto, e nessun ambiente lavorativo ne è immune. Tanto da indurre la popolazione alla somministrazione d’un siero sperimentale, attraverso coercizione psicologica e con il consenso informato che, presentando solo i vantaggi, omette d’informare anche dei pericoli presenti e futuri post inoculazione, scaricandone la totale responsabilità sul cittadino.

In questo ingarbugliato “mRNA” normativo, sono stati concretamente compressi i diritti e le libertà dei cittadini, costituzionalmente garantiti, vieppiù, tutelati anche da normative europee e sovranazionali (Oviedo, Cod. Norimberga, ecc.).

A questa Segreteria Nazionale Esercito, di cui mi pregio di essere il Segretario Nazionale, sono giunte doglianze da parte degli iscritti alla Federazione Lavoratori Militari-Esercito, in quanto del tutto ignorata è stata la peculiare posizione dei cittadini in armi che, nonostante immani difficoltà, hanno garantito un silente servizio teso ad onorare il proprio mandato ed il giuramento di fedeltà alla Repubblica democraticamente costituita. Molto spesso viene dimenticato che dentro la divisa c’è una donna ed un uomo, con una vita sociale, una mamma ed un papà, responsabili della salute, della crescita e della tutela dei loro figli.

Il DL_23 luglio 2021_n_105, ha reso obbligatorio, dal 6 agosto, il green pass per accedere in alcuni luoghi pubblici, mentre il DL_ 6 agosto_ 2021_ n_111, detta le norme per riprendere le attività scolastiche, luoghi dove viene forgiata la cultura, patrimonio delle giovani generazioni future. In pratica, i due DL, hanno instaurato un lascia passare per ritornare alla normalità, una patente per riacquistare quella libertà di movimento e aggregazione limitata sino ad oggi. Un “pass” ottenuto immediatamente subito dopo aver ricevuto uno dei tanti vaccini anti COVID-19. Ma attenzione, è giusto ricordare e rimarcare che, la vaccinazione non è obbligatoria, tuttavia se non la si effettua, non si ottiene il “pass”, dunque Signor Presidente, ne conviene che si tratta di una sorta di circolo vizioso.

Detto “pass”, è stato esteso, senza alcuna norma ma esclusivamente per “interpretazione” anche alle mense aziendali e di servizio, tra cui anche le mense militari. Il tutto per “spingere i cittadini alla vaccinazione”, come bellamente dichiarato da noti “scienziati” in trasmissioni televisive. Eppure esso confligge con la legislazione europea, oltre che col buon senso, di cui Lei nei suoi interventi ha sempre richiamato. I cittadini che liberamente scelgono di non sottoporsi a terapia sperimentale lo fanno in forza di legge, mentre proprio l’OMS e l’U.E. hanno ribadito la “volontarietà” della vaccinazione e il divieto di discriminazione.

Il c.d. “green pass” viene chiesto anche in molti luoghi di lavoro, ed intere categorie di lavoratori sono così costretti a farsi inoculare questo siero, pena l’interdizione ad alcuni beni e servizi, stabilita dalla concertazione/contrattazione, oppure il congelamento senza stipendio, del posto di lavoro, o peggio il licenziamento. Anche se il datore di lavoro non può acquisire, neanche con il consenso del dipendente o tramite il medico competente, i nominativi del personale vaccinato o la copia delle certificazioni vaccinali, utilizza questo pseudo-potere legittimato da norme irrispettose dei principi costituzionali cardini fra cui la libertà, ottenuta con il sangue dei Padri nel secolo scorso.

I militari sono al servizio del popolo sovrano e garanti della Costituzione, quindi neutrali e senza alcuna ideologia e/o corrente politica. Purtroppo ultimamente sui social vi sono degli spot pubblicitari, effettuati con personale in divisa, che promuovono la campagna vaccinale, venendo meno a quel principio di neutralità politica dettati dalla costituzione.

Inoltre, non si spiega, il motivo per cui nei comandi di vertice vi sia una raccolta dati, alquanto preoccupante, riguardante il personale vaccinato, con prima e/o seconda dose, e non vaccinato. Perché tanto interesse? Che vi sia in atto un programma di sensibilizzazione coercitiva per costringere il personale a vaccinarsi? Eppure la campagna vaccinale, anche se, fortemente raccomandata dai vertici, nel rispetto delle regole, NON E’OBBLIGATORIA.

Auspichiamo che tutto ciò sia solo un eccesso di zelo dei nostri Vertici che hanno a cuore la salute dei militari. Comunque in questi casi sono sempre in auge le parole del Senatore ANDREOTTI “a pensar male si fa peccato, ma spesso (ed io aggiungo molto spesso), ci si AZZECCA.”

Altra profonda preoccupazione, psicologicamente devastante, che affligge i “genitori militari” iscritti alla FLM, sono le immunizzazioni con sieri “rMNA”, la cui obbligatorietà la si estendere, in maniera coercitiva, anche ai bambini, mettendo ancora una volta, in crisi il tessuto familiare, attesa l’impossibilità di frequenza della scuola, con la conseguenza di imporre una scelta tra l’obbligo di istruzione della prole ovvero la salvaguardia dagli effetti avversi della terapia genica, con le conseguenze anche pratiche che siffatta e irrazionale situazione comporta (è necessario quiricordare le raccomandazioni dell’OMS e delle stesse case farmaceutiche, indicate nei bugiardini, che sconsigliano la somministrazione sotto i 12 anni).

Questo vincolo, inoltre, può innescare e scatenare in maniera esponenziale ed imprevedibile quel fenomeno tanto combattuto nelle scuole, e nella società, “il bullismo”. Se il bimbo non è vaccinato, verrà escluso dai giochi, dall’aggregazione sociale, verrà “EMARGINATO” e nella letteratura pediatrica, si possono trovare le risposte del danno psicologico che un bambino/adolescente, può subire da questi eventi-traumi. La scuola è aggregazione e culla della socializzazione umana, non divisione.

In un suo intervento Lei disse: “…..La scuola è un’istituzione cardine dello Stato democratico, ma è anche una comunità educante, che muove dalla vita, dai problemi di ogni giorno, per formare persone libere. La scuola è l’oggi che prepara il domani. Delle vostre conoscenze, ragazzi, della vostra cultura, anche delle vostre amicizie. Anche per questo lo studio è un diritto fondamentale della persona, di ogni persona. Assicurare l’istruzione è un dovere inderogabile della Repubblica. Organizzare, e garantire, un sistema formativo adeguato ai tempi è una assoluta priorità politica e istituzionale. Ogni attenzione, ogni risorsa destinata alla scuola e alla ricerca ritorna con gli interessi alla società…….” (Intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella in occasione della cerimonia di inaugurazione dell’anno scolastico 2018/2019).

Dunque, siffatta incredibile situazione divide le persone in categorie, divide gli animi e la coesione umana, con conseguenze drammatiche per la vita democratica; lede profondamente i cardini della struttura militare, improntata allo “spirito di corpo” come alla fedeltà alla Costituzione, la quale, da sola, indica la via maestra da seguire per l’esatta corrispondenza tra le necessità e gli strumenti atti ad affrontarle. Non manca la fiducia nella scienza, manca la fiducia in questo caos di proposte, ordini e minacce (seppur velate e travestite).

Per combattere la pandemia, occorrono responsabilità collettive e individuali, ma anche soluzioni che non dividono le persone in categorie, non dividono gli animi e la coesione umana, con conseguenze drammatiche per la vita democratica. Ci auguriamo che questa situazione non diventi uno scontro collettivo, non vi siano, dentro le caserme, nella vita sociale e nella scuola, divisioni impregnate di odio, ma solo buon senso e rispetto delle regole, affinché insieme, con il dialogo ed il confronto, si possa superare l’attuale fase emergenziale virtualmente procrastinata e l’immediato ripristino delle garanzie Costituzionali previste al fine di scongiurare ogni possibile ed ulteriore sciagura.

Con spirito di collaborazione, questa Segreteria Nazionale, resta a disposizione delle S.A. per trovare insieme soluzioni che ridiano dignità umana ai militari.

Piero Angelo de Ruvo

Segretario Nazionale Esercito FEDERAZIONE LAVORATORI MILITARI – FLM

FONTE: https://www.themilaner.it/2021/08/23/protesta-dei-militari-contro-la-discriminazione-green-pass/

 

 

 

 

CONFLITTI GEOPOLITICI

La Cia chiede aiuto a mullah Baradar

La Cia, che per anni è andata a caccia di Talebani e che nel 2010 ha aiutato il Pakistan a catturare mullah Baradar, oggi deve chiederne la benevolenza

26 ago , 2021 

La Cia chiede aiuto a mullah BaradarGli stranieri sono liberi di andarsene, ma devono farlo entro il 31 agosto. Nessuna deroga. Quanto agli afghani, il fatto che lascino il Paese non ci piace. Non gli permetteremo più di raggiungere l’aeroporto. Così ieri il portavoce dei Talebani, Zabihullah Mujahid, nel corso della seconda conferenza stampa dalla presa del potere. Durante la quale non ha negato – dunque confermandolo – un incontro storico. Quello tra direttore della Cia William Burns e mullah Abdul Ghani Baradar, il capo dell’Ufficio politico dei Talebani e numero due del movimento.

Tenuto segreto ma rivelato dal Washington Post, l’incontro segna la fine e conclama il fallimento della guerra americana in Afghanistan, perfino più del ritiro degli ultimi soldati, nei prossimi giorni. La Cia, che per anni è andata a caccia di Talebani con operazioni paramilitari che spesso hanno provocato vittime civili, e che nel 2010 ha aiutato i servizi segreti del Pakistan a catturare mullah Baradar che per Islamabad era troppo in anticipo sul negoziato, oggi deve chiederne la benevolenza per poter strappare qualche concessione in più per l’evacuazione. Che è ancora in corso, ma per pochi giorni, insiste Zabihullah Mujahid. Fino al 31 agosto c’è tempo a sufficienza per fare tutto, sostiene il portavoce. Dopo, la sicurezza dell’aeroporto passerà nelle mani dei turbanti neri. I quali non accettano neanche i soldati turchi, nonostante quelli che definisce buoni rapporti con Ankara.

Mujahid ha anche detto che i Talebani non permetteranno più agli afghani di lasciare il Paese. “La strada di accesso all’aeroporto verrà controllata. Sarà aperta per gli stranieri, chiusa per gli afghani, ai quali verrà detto di tornare nelle loro case”. Il caos all’aeroporto, ha dichiarato ieri un altro “numero due” del movimento, mullah Yaqub, è colpa di Washington, mentre gli Stati Uniti, ha aggiunto Mujahid, dovrebbero evitare di spingere le persone istruite a lasciare il Paese: “abbiamo bisogno di dottori, ingegneri, di tutti quelli che sono istruiti”, ha ammesso il portavoce dei Talebani. Che torna anche sulla questione dell’amnistia.

Serve a convincere e cooptare tutti quei tecnici e quadri intermedi di cui ha bisogno il nuovo governo a guida talebana. E a mandare un messaggio rassicurante, ribadito ieri. Le rappresaglie? La caccia all’uomo di cui si parla su tutti i media stranieri? “Non c’è alcuna lista. Non stiamo perseguitando nessuno. Ci siamo dimenticati tutto il passato. Stiamo cercando di portare la pace”. Eppure proprio ieri, nel corso di una sessione speciale del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite Michelle Bachelet, l’Alta commissaria dell’Onu per i Diritti Umani, ha detto che le Nazioni Unite hanno raccolto testimonianze credibili di “esecuzioni sommarie” e di restrizioni significative per le donne nelle aree sotto il controllo dei Talebani, pur senza specificare l’arco temporale di riferimento.

Per i Talebani, infatti, sono spiacevoli incidenti del passato: prima della conquista del potere. Mentre per Chen Xu, ambasciatore cinese all’Onu, bisognerebbe chiamare i soldati statunitensi, australiani, britannici a dare conto delle presunte violazioni compiute in Afghanistan. Il suo intervento, che ha preceduto di poco l’incontro ia Kabul tra l’ambasciatore cinese Wang Yu e alcuni pezzi da novanta della leadership talebana, ci ricordano che nel corso del lungo conflitto afghano tutti gli attori hanno condotto abusi gravissimi. Ma dimostra anche le divisioni dell’Onu. Che ha adottato una risoluzione debole, favorita dal Pakistan, senza riuscire a trovare il consenso su nuovi meccanismi di monitoraggio. Per Agnès Callamard, segretaria generale di Amnesty International, si tratta di un “fallimento vergognoso”.

I Talebani, intanto, si mostrano concilianti. Le donne? Per ora è meglio che stiano a casa, ha dichiarato Mujahid. È per la loro sicurezza. Ma si tratta di una soluzione temporanea. Una volta predisposte le misure giuste, una volta che la sicurezza sarà del tutto stabilita, potranno tornare al lavoro, anche nelle istituzioni. Intanto “continuano a ricevere il salario”. Dopo la difesa, la rivendicazione: il lavoro del nuovo governo, anche se non ancora formalmente annunciato, è già iniziato. Sono attivi il ministero della Salute, quello dell’Istruzione. Mentre sui profili social del Comune di Kabul si mostrano i lavori per smantellare l’elemento più caratteristico di questi anni: i blocchi di cemento armato. “Ora siamo in pace, non ce n’è più bisogno”.

Si lavora per il bene dell’Afghanistan, questo il senso del discorso di Mujahid e dell’intera macchina della comunicazione dei Talebani. Che dopo aver escluso la presenza di combattenti stranieri, tanto meno pachistani, nei ranghi dei Talebani, ha affrontato uno dei tasti dolenti. I soldi e gli aiuti di cui il Paese ha bisogno. Si tratta di uno dei dilemmi della comunità internazionale: da una parte la necessità di tenere aperti canali di dialogo con i Talebani, per fronteggiare una gravissima crisi umanitaria che colpisce metà della popolazione. Dall’altra il tentativo di non riconoscere un governo che ha conquistato il potere con la forza.

In poche parole: come e se fornire aiuti umanitari al Paese, una questione di cui chi predica il no al dialogo con i Talebani sembra non tener conto. “Non accetteremo condizioni agli aiuti che danneggino la nostra indipendenza”, ha detto Mujahid. Che prova a tenere il punto, pur sapendo quanto il Paese abbia bisogno di sponde esterne. E quanto siano preoccupati i cittadini. Così, dopo aver annunciato la nomina del nuovo governatore a interim della Banca centrale, ieri i Talebani hanno anche nominato alcuni ministri, tra cui quello delle Finanze, Gul Agha. Per poi promettere che oggi le banche verranno riaperte.

Tutto il resto verrà con il tempo. Con il completamento della formazione del governo. Si rafforza l’idea, ancora da confermare, che i Talebani possano istituire una sorta di comitato di indirizzo, con un forte potere esecutivo, che includa alcuni pezzi da novanta del movimento. Tra cui il capo dell’Ufficio politico, Abdul Ghani Baradar, il figlio del fondatore dei Talebani e capo della Commissione militare mullah Yacub, e Khalil ur-Rahman Haqqani, membro della famiglia Haqqani, sulle liste dei terroristi dell’Onu e degli Stati Uniti, in questi giorni particolarmente attivo negli incontri politici, spesso solo di facciata, tra Kabul e Kandahar. Quanto al leader supremo, l’Amir al-Mumineen, il comandante dei fedeli Haibatullah Akhundzada, il portavoce assicura: “presto tornerà a farsi vivo, se Dio vuole”.

Questo articolo è uscito sul manifesto del 25 agosto

FONTE: https://www.lettera22.it/la-cia-chiede-aiuto-a-mullah-baradar/

Giappone e Regno Unito conducono esercitazioni militari a Okinawa

PUBBLICATO IL 26 AGOSTO 2021

La task force della Royal Navy di Londra guidata dalla portaerei HMS Queen Elizabeth ha condotto la sua prima esercitazione congiunta con la Forza marittima di autodifesa del Giappone (JMSDF) di fronte all’isola giapponese di Okinawa, il 24 agosto.

L’esercitazione ha coinvolto mezzi inglesi, olandesi, statunitensi e giapponesi. In particolare, il Regno Unito ha schierato la portaerei Queen Elizabeth, il cacciatorpediniere HMS Defender e l’incrociatore pesante HMS Kent. Tali imbarcazioni sono state poi accompagnate dalla fregata olandese HNLMS Evertsen, dal cacciatorpediniere statunitense USS The Sullivans, dall’incrociatore pesante degli USA USS New Orleans e dal cacciatorpediniere lanciamissili Asahi del Giappone. Dal punto di vista aereo, invece, all’esercitazione hanno partecipato caccia stealth britannici e statunitensi F-35 in decollo dal ponte della portaerei da 64.000 tonnellate e sono state svolte operazioni di addestramento cross-deck utilizzando elicotteri britannici e aerei da trasporto Osprey statunitensi.

Il retroammiraglio giapponese, Yasushige Konno, ha affermato che per il Giappone è “particolarmente significativo” partecipare ad un’esercitazione congiunta con le Nazioni che hanno già schierato i caccia F-35. Gli Stati Uniti e il Regno Unito sono gli unici Paesi che stanno utilizzando tale velivolo, sebbene il Giappone abbia acquistato un certo numero di caccia all’avanguardia e abbia intenzione di operare quarantadue F-35B.  Konno ha poi sottolineato l’importanza di rafforzare la cooperazione con Paesi che “condividono valori universali indipendentemente dalla distanza geografica”.

Secondo un professore di relazioni internazionali della Waseda University, Toshimitsu Shigemura, il luogo scelto per le esercitazioni sarebbe particolarmente significativo. Le acque selezionate per le operazioni si trovano tra il Giappone e Taiwan, a poca distanza dalle isole contese tra Tokyo e Pechino nel Mar Cinese Orientale, chiamate dalla prima Senkaku e dalla seconda Diaoyu. Tali territori, rivendicati anche da Taiwan, sono attualmente amministrati da Tokyo ma nelle acque ad essi circostanti sta crescendo la presenza militare di Giappone e Cina. Per Shigemura, l’esercitazione del 24 agosto avrebbe alto valore simbolico e fungerebbe da messaggio alla Cina rispetto alle intenzioni giapponesi di costruire alleanze di sicurezza sia con i Paesi della regione, sia con altri più distanti.

Londra sta cercando di unirsi agli USA e ai loro alleati per avere un ruolo di maggior rilievo nella sicurezza dell’Indo-Pacifico. Il Paese ha inviato il gruppo da battaglia della portaerei Queen Elizabeth in viaggio verso il Pacifico il 24 maggio scorso, quando le navi hanno lasciato Portsmouth per partecipare ad esercitazioni con partner della NATO nell’Oceano Atlantico e nel Mar Mediterraneo. A inizio luglio, la flotta ha attraversato l’oceano indiano dove ha condotto esercitazioni con la marina indiana, per poi passare per Singapore ed entrare nel Mar Cinese Meridionale per condurre esercitazioni di libertà di navigazione con navi da guerra statunitensi. Prima di arrivare in Giappone, la flotta inglese ha fatto sosta a Guam e a conclusione delle operazioni con le forze giapponesi, parteciperà all’esercitazione Bersa Lima 21 con navi di Australia, Nuova Zelanda, Malesia e Singapore e ad operazioni separate con la Corea del Sud dal 30 agosto al 2 settembre prossimi. In totale il gruppo da battaglia della portaerei Queen Elizabeth condurrà sette mesi di operazioni.

Lo scorso 22 marzo, il primo ministro inglese, Boris Johnson, aveva presentato la strategia geopolitica del suo governo dopo la Brexit, detta Global Britain, che delinea quello che sarà il ruolo del Regno Unito nel mondo nei prossimi 10 anni. Nel documento, particolare attenzione è stata rivolta alla regione dell’Indo-Pacifico e anche alle sfide poste dalla Cina, i cui crescenti potere e fermezza a livello internazionale saranno il principale fattore geopolitico negli anni Venti del secolo in corso, secondo Londra. La Cina è stata poi indicata come la principale minaccia di natura statale alla sicurezza economica del Regno Unito.

Dalla repressione delle proteste pro-democrazia del 2019 e dall’attuazione della legge sulla scurezza nazionale di Hong Kong il 30 giugno 2020, i rapporti tra Londra e Pechino sono peggiorati, in quanto la prima sostiene che il governo cinese stia ridimensionando le autonomie e le libertà dell’isola, un’ex-colonia inglese la cui sovranità era stata restituita alla Cina il primo luglio 1997, in ottemperanza alla Dichiarazione congiunta sino-inglese del 19 dicembre 1984. In tale contesto, il 14 luglio 2020, il governo di Johnson aveva deciso di bandire Huawei dalle proprie reti 5G, ordinando alle società di telecomunicazioni di rimuovere le proprie apparecchiature entro il 2027,

Rispetto alle operazioni tra Giappone e Regno Unito, il 25 agosto, il portavoce del Ministero degli Esteri della Cina, Wang Wenbin, ha dichiarato che il parere della Cina è che la cooperazione militare tra Paesi non dovrebbe danneggiare pace e stabilità regionali, così come gli interessi di Paesi terzi. Secondo un professore della Temple University, James Brown, è probabile che i sottomarini della Cina tracceranno i movimenti della flotta inglese.

FONTE: https://sicurezzainternazionale.luiss.it/2021/08/26/giappone-regno-unito-conducono-esercitazioni-militari-okinawa/

 

 

 

CULTURA

Parliamo del labirinto

24 06 2012

 

Quando sentiamo o leggiamo la parola “labirinto” automaticamente siamo portati a pensare a qualcosa (edificio o altro elemento grafico/architettonico similare) dalla topografia estremamente complessa. Ad una struttura dalla quale è molto difficile uscire: ma su questo tornerò più tardi.
COSÈ UN LABIRINTO?
Nei nostri studi siamo stati abituati a collegare la parola alla denominazione che i greci attribuirono ai complessi di edifici che caratterizzarono l’epoca palazziale della civiltà minoica. Come vedremo tra poco essi la attribuirono al mitico architetto Dedalo: era nato così il mito del Minotauro. Inutile dire che qualcuno ha ritenuto il “Minotauro” una figura reale e, assimilandola ai centauri, alle sirene ed agli altri esseri antropozoomorfi in genere, ha voluto farli nascere da dubbi esperimenti di ingegneria genetica addirittura pre-diluviana. Ritengo che sia impossibile pronunciarsi su ipotesi del genere al di fuori di una letteratura di tipo fantascientifico . Indubbiamente c’è da dire che qualcosa dovette aver eccitato la fantasia di diversi popoli e non solo nella preistoria: anche Dante, ma a fini simbolici, ha parlato del Minotauro collocandolo come guardiano del girone dei violenti (Inferno XII) dove viene descritto come una bestia, ridicola nella sua rabbia impotente, che sfoga su se stesso, mordendosi.
Dante sembra non conoscere la bestia mitologica descritta da Ovidio (in Ars Amatoria), per il quale è un essere per metà toro e per metà uomo. D’altra parte sembra che neppure avesse avuto modo di vedere raffigurazioni su vasi o altre opere d’arte della classicità. L’ipotesi più probabile che emerge dalla lettura del XII canto dell’Inferno dantesco è che il Poeta lo immaginasse con il corpo taurino sormontato da una testa (o un busto) umana. Alla bestialità irrazionale propria dell’episodio dantesco è in genere contrapposta la saggezza e l’ubbidienza dell’altra figura dantesca: quella dei Centauri (altri esseri misti di animalità ed umanità della mitologia). Ma, indipendentemente da come li vedesse Dante e cosa simbolizzassero per il sommo Poeta, resta il problema di comprendere che cosa significasse il Labirinto per l’uomo antico.
È stato osservato che, dal punto di vista grafico, il labirinto potrebbe essere un’evoluzione della spirale e del cerchio. Entrambi ben noti fin dai primordi dell’umanità che in essi vedevano la rappresentazione del cosmo, il simbolo della vita ma anche la potenza, il sole, la galassia .
Ma cominciamo, come al solito, con una notazione di carattere semantico.
Da dove deriva la parola labirinto?
Sembra abbastanza pacifico che il termine derivi dalla parola greca la/brij. Con quella parola i minoici indicavano il loro simbolo sacro per eccellenza: la bipenne o ascia a doppio taglio . Inutile dire che non tutti sono d’accordo con questa tesi: molti collegano la parola “labirinto” al verbo “errare” (nel senso di “muoversi”, “andare” o anche “vagabondare”, senza escludere il significato di “sbagliare”). In tal caso gli esegeti partono dall’idea base del viaggio non lineare, pieno di insidie (quello di Ulisse tanto per intenderci che è, al tempo stesso un peregrinare simbolico ma anche spirituale).
A. Economo sottolinea che il peregrinare di Ulisse richiama il movimento degli astri. Si evince anche dal fatto che l’eroe resta lontano da Itaca per ben 19 anni dalla partenza della spedizione troiana, il tempo necessario affinché anno solare e mese lunare tornino a coincidere. È Ulisse stesso a narrare il suo viaggio sulla scia dei ricordi, mentre l’azione narrata dal poema riguarda solo gli ultimi 29 giorni di viaggio (mese lunare) più i 6 ad Itaca.
Il simbolismo del percorso si riaffaccia nella struttura numerica dei “luoghi” da Troia ad Itaca, che sono 15. Non a caso quello centrale, l’ottavo, è l’Ade: ancora una volta un mortale scende negli Inferi, vivo di una nuova vita, rinato dopo un’esperienza concessa a pochi, come a Gilgamesh, l’eroe babilonese che combatte contro Khubaba, mostruoso gigante con la testa di toro, il cui volto è formato da viscere. Esse sono senza dubbio collegate al labirinto: nelle tecniche divinatorie, infatti, il responso favorevole o meno dipendeva dai rigiri delle budella. Gli altri 14 punti disegnano, a due a due, sette cerchi concentrici, i pianeti. La danza degli astri è qui rappresentata dagli allontanamenti ed avvicinamenti alla patria, e dai movimenti verso oriente e verso occidente. Il viaggio di Ulisse rappresenta il movimento della Terra e dei 7 pianeti nel cosmo.
Questo è lo schema proposto da Gioachino Chiarini nel suo libro “Kosmos. Itinerari nell’epica classica”.
È, tutto sommato, quello che sostiene – e non solo dal punto di vista linguistico – il Berlitz il quale ci ripropone il tema in termini di universalità del simbolo .
Non mancano altre letture, come quella del mio amico Lello Moscia per il quale la parola deriverebbe da la/biroj (= fossa, cavità) .
Stando a queste interpretazioni, in senso stretto la parola “labirinto” indicherebbe, pertanto, una grotta, naturale o artificiale, scavata nella pietra, adibita ad abitazione o al culto; comprendente diversi locali, in modo da realizzare un disegno estremamente complesso e tale che risultasse più e meno difficile trovare l’uscita.
Questo è il significato che praticamente deriva dall’aspetto architettonico o strutturale (si pensi agli edifici dell’Egitto e di Creta, o ai Mounds nordamericani o alle cittadelle della antica Cina, o alle piste di Nazca). A questa notazione si contrappone il senso esoterico-iniziatico.
Non è un caso che l’origine del labirinto venga fatta risalire a circa 30.000 anni fa e che, fin da allora, aveva assunto il significato di un percorso comunque ricco di connotati esoterici. Qui “labirinto” corrisponde al significato di “percorso iniziatico” dove la difficoltà sta nell’entrare e nel seguire il giusto percorso (si pensi ai labirinti sotterranei: a quello egiziano di Dah Shur o Hawara ed a quello anatolico di Pergamon: l’attuale Bergama).
Il passaggio attraverso il labirinto è definito dagli esoteristi “spirale della vita”, e simboleggia il passaggio dalle tenebre alla luce .
Ed è proprio all’interno dei labirinti che gli antichi collocavano quei santuari ove si svolgevano le cerimonie di iniziazione.
IL LABIRINTO COME SEGNO GRAFICO
Quale segno grafico il labirinto si perde nella notte dei tempi.
Le prime raffigurazioni sono quelle dei petroglifi ed appartengono all’uomo preistorico. Questi viveva in un habitat naturale: la sua abitazione era una caverna, molto spesso dalla topografia intricata, dove era più facile sfuggire all’attenzione di animali feroci o altri ominidi che lo inseguissero.
Sulle pareti di quelle grotte l’Uomo di Crô-Magnon ci ha lasciato le immagini della sua vena artistica: disegni che seguivano un percorso verso il fondo della grotta o, magari per un’altra strada, di nuovo all’esterno. Ma anche sulle pietre tracciò i segni delle proprie osservazioni: spirali e disegni intricati che sono stati, appunto, definiti “Labirinti”.
Passarono secoli e millenni: l’uomo imparò a modificare l’ambiente naturale. Costruì le proprie case, i propri villaggi, la proprie città. E proprio in questa fase l’uomo dette vita al primo labirinto artificiale.
Quello del lago di Deride nel Fayyum.
Purtroppo oggi non esiste più. Erodoto – che lo aveva visitato – ci assicura che nei pressi del Fayyum gli architetti del faraone Amenemhet III, intorno al 2000 a.C., avevano edificato il più grande labirinto esistente nel mondo antico.
Lo storico greco ce lo descrive come la costruzione che era costata più fatica e denaro “…di tutte le opere greche messe insieme” … “aveva dodici cortili coperti, sei a nord e sei a sud, comunicanti e circondati da una muraglia” .
Ed il naturalista latino Plinio il vecchio ci dice che il labirinto del Fayyum aveva 3000 stanze (sia sotterranee che al livello del suolo) che ospitavano tombe di re e coccodrilli sacri. Il tutto era immerso in un’oscurità quasi totale.
Il biblista Flavio Barbiero esprime l’avviso che proprio in quel labirinto Mosè avesse partecipato alla sua cerimonia di iniziazione.
Segue, in ordine di tempo, il cosiddetto labirinto cretese di Knosso.
Questo labirinto è legato ai miti di Minosse e Pasifae, di Icaro, del Minotauro, di Teseo ed Arianna (in effetti oggi non ne troviamo tracce archeologiche: quelle che possiamo visitare a Creta sono le rovine del Palazzo reale di Cnosso, Kno/ssoj.
Tuttavia, con il tempo, la parola “labirinto” è rimasta – da punto di vista semantico – ad indicare, nella comune accezione, il Palazzo di Cnosso ed alla leggenda del Minotauro. Ne troviamo una traccia letteraria nel labirinto di Porsenna a Chiusi (in territorio Etrusco) del quale non resta alcunché: lo stesso Plinio, che ne ha dato notizia, ammetteva di non averlo mai visto.
Dobbiamo allora precisare che il Labirinto non è una tradizione esclusiva dell’area mediterranea: la diffusione del segno grafico in tutto il mondo sottolinea il fatto che sia esistita una vera e propria costante (non solo grafica).
Allargando il nostro angolo visuale possiamo osservare che sulla costa settentrionale del Perù sorgono i resti di un’antica città appartenuta ai Chanchan (della omonima cultura preincaica) che risale al III secolo a.C. Visti dall’alto, i resti della città formano il disegno del classico labirinto a pianta quadrata compresa la celletta centrale. Anche il labirinto dei Chanchan sembra che fosse destinato a cerimonie di iniziazione anche se non esistono prove né in questo senso, né in altro. Saltando al Medioevo, osserviamo che in numerosissime chiese d’Europa (e praticamente in tutte le cattedrali gotiche) si trova, sulle pareti o sul pavimento, l’immagine (magica?) del labirinto .
IL LABIRINTO COME MITO
Le pur brevi considerazioni già esposte individuano, con sufficiente chiarezza, una serie di argomenti intorno ai quali ruotano i misteri che avviluppano il labirinto. Abbia detto del labirinto come segno grafico. Ma dobbiamo subito aggiungere che questo aspetto non è sufficiente a delinearne il mistero. E, per l’esattezza, dobbiamo subito aggiungere che il labirinto appartiene al mondo del mito. Sarà bene specificare immediatamente che, a scanso di delusioni, non dobbiamo aspettarci di trovarne i resti. Sia a Creta che in Egitto, sia a Nazca che a Chanchan, sia in Cina che a Stonehenge o a Carnac, i resti che ammiriamo sono superstiti di qualcosa che potrebbe non aver mai avuto a che vedere con un labirinto. Gli unici labirinti dell’antichità sopravvissuti sono quelli riportati su vasi etruschi, su pietre preistoriche. O quelli composti con allineamenti di pietre. Indipendentemente da tali difficoltà, se concentriamo la nostra attenzione sul mito, sarà difficile pensare a qualcosa di diverso dal labirinto per eccellenza: quello di Creta .
Ma cosa ci dice il mito? E poi, era solo mito?
Nella realtà al Labirinto sono collegati tre cicli mitologici: quello di Minosse, Pasifae e del Minotauro; quello dello scontro tra Teseo ed il Minotauro che segue l’incontro con Arianna; quello dell’incontro di Bacco con Arianna.
I primi due gruppi sono ambientati essenzialmente a Creta (e parzialmente ad Atene); l’isola di Nasso fa da sfondo al terzo.
E lo scenario non è né secondario, né accidentale: è proprio lo scenario che ci introduce ad una modificazione sostanziale delle realtà storiche tradotte poi in mito. La prima scenografia (Atene-Creta-Atene) rispecchia alcuni eventi storici di assoluta rilevanza. Agli inizi del IV millennio Creta instaurò, nelle Cicladi nell’Egeo e nel Mediterraneo orientale, la propria supremazia. Iniziò l’epoca che gli storici definiscono della “talassocrazia cretese” . Essa durò, più o meno, tra il IV ed il III millennio a.C. (vale a dire che si evolse in piena età del bronzo). Della talassocrazia conservarono memoria gli egiziani che conobbero i Cretesi col nome di “Keftiù” (i famosi “popoli del mare”). Creata alla fine del IV, la talassocrazia fu perfezionata nel corso de III millennio a.C. Verso l’inizio del 1000 a.C. la potenza Cretese ebbe un improvvisa quanto rovinosa battuta di arresto. Due ne furono le cause: da un lato un rovinoso terremoto (probabilmente l’esplosione di Santorini) che distrusse i “Palazzi”; dall’altro la calata dei dori invasori (che avevano già distrutto, tra l’altro, la civiltà micenea) ). Ciò premesso, vediamo come il mito trattò questi avvenimenti storici, travasandoli nella narrazione mitica.
Narra la mitologia che Zeus, fu colpito dalla bellezza della ninfa Europa. Decise di farla sua e per ottenere il suo scopo assunse le sembianze di un bellissimo e candido toro bianco e, in questa veste, si presentò dinanzi ad Europa.
Questa fu incantata dalla visione e senza sospetto, si sedette sul suo dorso ed il toro non ebbe certo difficoltà a rapirla conducendola, attraverso il mare, fino a Creta, dove la possedette. A Creta Europa partorì Minosse.
Minosse, con Radamanto e Sarpedonte , era dunque un semidio, figlio di Europa e di Zeus. All’atto del ratto di Europa, re di Creta era un certo Asterio, che accettò di sposare Europa sedotta da Zeus e poi abbandonata. Fin qui l’antefatto. Ad un certo punto, Asterio morì e Minosse pose la propria candidatura al trono dell’isola chiedendo l’aiuto di Posidone (al quale, per inciso, dedicò un altare). In quell’occasione chiese al dio del mare che facesse emergere dalle acque un toro che gli avrebbe sacrificato. Il dio marino acconsentì e mandò a Minosse il toro richiesto. Ma era destino che le cose non sarebbero andate tanto lisce: al re il toro piacque in modo particolare e decise di tenerlo per sé sacrificandone un altro in sua vece (. La vendetta di Poseidone fu immediata ed atroce. Egli fece sì che Pasifae, moglie di Minosse, s’invaghisse del toro: Pasifae confessò la sua passione a Dedalo, e l’ateniese che viveva in esilio a Knosso (ove deliziava la corte con le sue bambole animate) costruì per Pasifae una vacca di legno e quella la utilizzò per accoppiarsi al toro . L’unione ebbe luogo a Gòrtina dove il toro pascolava tra le vacche di Minosse.
Pasife ed il Minotauro
Da questa mostruosità sessuale ebbe origine il Minotauro, essere per metà (la testa?) e per metà uomo (il corpo?).
Minosse, affranto per l’evento che aveva causato, cercò di riparare e commissionò a Dedalo, la costruzione di un labirinto nel quale rinchiuse l’artefice, il figlio di lui ed il Minotauro. Ma il Minotauro aveva un fratello: Androgeo (Uomo dell’Egeo). Ora accadde che Androgeo si recasse ad Atene per misurarsi con i locali giovani nelle tauromachie. Qui venne ucciso dal toro di Maratona. Minosse, pazzo di dolore, accusò gli ateniesi dell’omicidio di Androgeo e pretese un orribile tributo di espiazione: ogni nove anni dovevano essere mandati a Creta quattordici fanciulli ateniesi, sette maschi e sette femmine, da sacrificare al Minotauro nel labirinto. Teseo, figlio di Egeo, re di Atene, si offrì volontario tra i sacrificandi e si recò a Creta dove fece innamorare di sé Arianna, altra figlia di Minosse. Grazie all’amore di Arianna, Teseo ottenne il famoso filo, da srotolare per poi ritrovare l’uscita, e uccise il mostro.
Teseo uccide il Minotauro
Analisi del Mito
Tanto per incominciare, il mito spiega una evidente commistione: la religione cretese più antica che era fondata – come è naturale – sul culto della “Dea madre” (vale a dire la “fertilità”) che era una divinità propria di provenienza anatolica (“Ku-ba-ba”, poi “Ku-be-le” e infine Cibele).
Cibele, la dea turrita
In secondo luogo la società della civiltà del bronzo era di tipo matriarcale.
Su questi due aspetti di tipo femminile si innesta la comparsa di una divinità maschile che è piuttosto tarda e si configura come forza “fecondatrice”: l’animale sacro che la simbolizza è il toro. La divinità maschile si originò a metà strada tra “zoolatria” (con il divino rappresentato in forma animale) ed “antropomorfismo” (con il divino rappresentato in forma umana), assumendo la forma mostruosa del “Minotauro” (la mescolanza): la tradizione ne collocò la dimora nel labirinto di Creta . Ma la transizione dal matriarcato al patriarcato aveva segnato anche la conquista della supremazia cretese nell’Egeo: ce lo dice la guerra che seguì alla morte di Androgeo. Era cominciata quella che gli storici del XX secolo chiameranno “talassocrazia cretese” alla quale soggiacque la stessa Atene.
Analizzando sempre più in dettaglio il mito di Minosse e del Minotauro, ci rendiamo conto di trovarci in presenza di più narrazioni mitiche: c’è il mito di Minosse, cui segue il mito di Teseo ed a questo si aggiunge, attraverso Arianna, quello di Dioniso . A margine di questi c’è il mito di Dedalo ed Icaro: tutti sono dal mito del Minotauro che funge da collante.
Orbene, tutto questo complesso mitologico – affidato a scrittore e mitografi del calibro di Omero, Diodoro Siculo, Apollonio Rodio, Euripide, Strabone, Plutarco, Apollodoro, Pausania (l’elenco non è esaustivo) per la parte greca; ad Ovidio, Plinio, Servio, Virgilio (per la parte latina) – si basa, come abbiamo visto su fatti leggendari e su elementi storici: La presenza, come del resto storicamente documentabile, di una società di tipo matriarcale nella Creta dell’età neolitica ed eneolitica (Pasifae ne è l’incarnazione tipica); unico residuo superstite di tale epoca è quello dell’uccisione del Minotauro, ricordo del sacrificio del paredro; L’evoluzione in senso patriarcale nella Creta dell’età del bronzo (Minosse ne è il rappresentante: da paredro diviene re);
Agli albori della protostoria, la società patriarcale cretese conquista la signoria dell’Egeo: si apre l’epoca della cosiddetta “Talassocrazia” cretese che domina non solo sul mare ma anche sulla civiltà acheo-micenea (Dedalo e Teseo entrambi ritenuti Ateniesi) ne sono i rappresentanti .
Il Labirinto era, dunque, il luogo, ove era celato il mostro, difficile da trovare e dal quale era ancor più difficile uscire .
Per quanto poi riguarda l’intervento nella scena di altri personaggi (come Egeo, Arianna e Dioniso) mi sembra il caso di ricordare che taluni mitografi affermassero che fosse stata Medea a convincere Egeo a mandarlo a Creta .
Va da sé che in questo quadro di rinnovamento religioso -sintomo del tramonto del matriarcato e del passaggio alla protostoria – e di nuova impostazione dei rapporti interellenici gli ateniesi avrebbero deciso di modificare in maniera sostanziale la propria soggezione ai Cretesi. Del resto stava per arrivare l’invasione dei dori, Atene si avviava a prendere una nuova coscienza della proprie possibilità sull’Egeo; la talassocrazia cretese si avviava al tramonto.
Il linguaggio del mito divenne l’unico adatto a spiegare ed a ricordare queste vicende. Teseo ed il Minotauro ne divennero personaggi emblematici .
Qui Teseo è, in ogni caso, accompagnato dal favore di Afrodite, la cui presenza serve a giustificare l’episodio dell’innamoramento di Arianna e del filo che consente a Teseo di uscire dal Labirinto.
Con l’aiuto di Arianna, come è noto, Teseo entra nel labirinto, trova il Minotauro e lo uccide: si allontana quindi da Creta portando con sé Arianna ed i giovanetti ateniesi salvi. Purtroppo la storia non un ha un lieto fine, perché Teseo abbandona Arianna sull’isola di Dia (le motivazioni non sono molto chiare: alcuni dicono per timore di uno scandalo al suo ritorno in Atene , altri per ordine di Dioniso a sua volta invaghito di Arianna).
Del resto l’intrusione di Dioniso spiega l’introduzione della cultura del vino nell’Attica e ad Atene.
 
Pubblicato su Opus minimum
 
Stelio Calabresi
 
1 Tuttavia certi elementi inducono a riflettere come certi disegni incisi su pietre in Honduras, a Carnac (Francia), a Stonehenge ed Avebury (Gran Bretagna) e nell’isola di Aram oltre a quelli degli Indiani Hopi.
2 Si pensi alle varie rappresentazioni pittografiche che provengono dalla preistoria: dai petroglifi camuni alle rappresentazione dei Tassili sahariani.
3 Che è una delle più accreditate etimologie del termine labirinto.
4 Nella stessa America si riscontrano motivi archeologici di somiglianza sia con l’Europa (ad esempio labirinti ) che con l’Asia (fregi ): Si pensi alle cattedrali gotiche, ai Templari, ed al possibile collegamento con il movimento spiraliforme della earth force (Leys).
5 Secondo lui questa parola, a sua volta, dovrebbe essere collegata al coptico “la” (particella intensiva) e al radicale “br” (= “scavare” che corrisponde all’albanese “barr”, “borr”, vale a dire “fossa”); ma anche al coptico “bari” (= scafo, nave); e ancora al coptico “bir” (= cobra). Tutte seguite dal radicale i/nqoj (= terminazione); oppure da “la” (particella intensiva) (Corrispondente a quella coptica) o bu/rion (=casa, abitazione) (si veda il Persiano “vareh”, irlandese “forus”; islandico “byli”, tutti nel senso di “abitazione”; l’islandico “byr” = città) e i/nqoj (=terminazione).
6 Ben a ragione gli Egiziani avevano visto questo percorso in quello della Barca solare che rappresentava il lungo e difficile viaggio alla ricerca della conoscenza.
7 Cit. ne “Il dizionario dei Misteri”, vol. 9°.
8 I più celebri dell’Italia si trovano nella cattedrale di Lucca, nella Chiesa di S, Vitale a Ravenna, di Santa Maria a Trastevere (Roma), a San Michele Maggiore (Pavia). Esemplari di labirinti caratterizzano molte ville europee del settecento (ad esempio quello della Villa Nazionale di Stra, presso Venezia).
9 Si badi che, in effetti, non sappiamo se i resti archeologici di Knossos corrispondano a quelli del labirinto dedalico (checché ne avesse pensato Evans). C’è comunque da dire – e la complessità della pianta lo conferma – che tende a confondere le idee del visitatore: chiunque abbia visitato il sito archeologico non può fare a meno di pensare che quel palazzo sia di una tale complessità da evocare immediatamente la struttura dal fatto che siano tutt’altro. E questa impressione si rafforza quando dal sito archeologico si passa al museo di Iraklio: qui dipinti vascolari, reperti fittili, oggetti restati misteriosi (come il disco di Festo), bipenni e grandi seghe di bronzo continuano a parlarci di un modo magnifico ma fuori dalla nostra realtà! Del resto, all’equivoco probabilmente soggiacque anche l’archeologo Evans, lo scopritore di Knosso: non potette fare a meno di definirlo “labirinto” perché anch’egli fu colpito da una sua struttura dallo sviluppo, sia orizzontale che verticale, smisurata: più a misura di dei che di uomini. Era già accaduto a Schlieman, quando trovò quell’oro che non esitò a definire “Tesoro” di Priamo o quando, a Micene, definì Maschera di Agamennone una maschera mortuaria di oro dopo averla trovata nel Circolo B. Oserei dire che l’assimilazione, l’errore, era freudiano
10 Ce li riferiscono Omero, Apollodoro, Pausania, Plutarco, Diodoro Siculo, Filocoro, Simonide, Aristotele, Peonio (tra i mitografi di lingua greca) ma anche Servio, Virgilio, Catullo (tra i mitografi di lingua latina).
11 Durante l’invasione dorica fuggiaschi Cretesi si rifugiarono in Egitto come invasori; ma vennero fermati da Ramses III nella battaglia di Magadil (in quella occasione gli egiziani li conobbero come “Pulasati” o “Khretim”).
12 Secondo alcuni sarebbe rimasto a Creta dopo la presa del trono da parte di Minosse; secondo altri si sarebbe recato in Asia Minore.
13 Che, invece, sarebbe stato cacciato da Creta da Minosse.
14 Questo fatto non impedì che Minosse fosse annoverato tra i sette saggi dell’antichità.
15 È evidente che, fino a questo punto ci troviamo in piena società matriarcale dove Pasifae conosce il divino paredro al quale si accoppia.
16 Sembra di particolare importanza dell’associazione labirinto-toro una simbologia che potrebbe ben esprimere il concetto della forza creatrice dell’universo.
17 Il prevalere della potenza attica su quella cretese, il riecheggiare nei giochi della Taurocatapsia (in cui dei giovani volteggiavano sulla groppa dei tori) del mito dei giovani divorati dal Minotauro, il riconoscere nel labirinto la reggia di Cnosso con i suoi infiniti corridoi e meandri, sono chiavi di lettura storiche, che non esauriscono però l’interpretazione del valore simbolico del labirinto, o dedalo, la cui valenza è certamente più oscura e complessa.
18 Quella che io definisco Paleocreta.
19 . Del resto la correlazione storica con i rapporti Atene-Creta sono dimostrati non solo della vicende del mito del Minotauro, ma anche da quelle relative al mito di Scilla che, secondo il Graves, ci parlerebbe delle controversie tra l’isola e la città attica in periodo anteriore al 1400 a.C., vale a dire prima del sacco di Cnosso (Si veda anche Strabone e Ovidio nelle “Metamomorfosi”). In altre parole i sette fanciulli che gli Ateniesi inviavano a Creta per il Minotauro dovevano corrispondere ai sostituti del Re di Cnosso (Il paredro) nell’ultima fase della società matriarcale. Il sacrificio di stranieri era cioè preferibile al sacrificio di giovani Cretesi. Del resto sembra acquisita la cittadinanza Ateniese di Dedalo (il padre del “labirinto”) che discendeva da Eretteo ed apparteneva alla famiglia reale Ateniese, esule a Creta dopo la condanna per l’omicidio di Talo.Teseo era figlio di Egeo e di Etra e discendeva da Cecrope
(mitico re di Atene: apparteneva, quindi, alla stessa discendenza di Dedalo). Si era accoppiato a Medea dopo l’impresa del vello d’oro e aveva compiuto altre favolose fatiche.
20 Tant’è che Dedalo per venirne fuori, decise di ricorrere al proprio ingegno: costruì, per sé e per il figlio, delle ali di cera allontanandosi in volo dal luogo di imprigionamento. È noto cosa accadde alla coppia di fuggiaschi quando Icaro decise di non seguire i consigli ai Dedalo: il volo finì in un mezzo disastro come ci hanno chiaramente indicato i mitografi ed i poeti come Apollodoro, Diodoro Siculo, Virgilio e Ovidio.
21 Ricordiamo: l’uccisione dei banditi che infestavano la strada tra Trezene ed Atene; uccisione di Periferte lo zoppo, che ad Epidauro assaliva i viandanti con la sua enorme mazza; uccisione di Sini detto “piziocante” (piegatore di pini) sull’istmo di Corinto; uccisione della mostruosa scrofa di Crommio, che faceva strage della gente del luogo; uccisione del bandito Scirone, che getta in mare i passanti facendoli divorare da una gigantesca testuggine (a Corinto o a Megara secondo le versioni); uccisione dell’arcade Cercione (sulla strada per Atene), solito stritolare i malcapitati che accettassero di lottare con lui; uccisione di Polipemone (padre di Sini: in Attica), che straziava i visitatori della sua casa.
22 Ce li riferiscono Omero, Apollodoro, Pausania, Plutarco, Diodoro Siculo, Filocoro, Simonide, Aristotele, Peonio (tra i mitografi di lingua greca) ma anche Servio, Virgilio, Catullo (tra i mitografi di lingua latina).
23 Secondo alcuni autori era ancora sposato con Medea.
Pubblicato da Nicola Ferraro 
FONTE: http://esoterismografico.blogspot.com/2012/06/parliamo-del-labirinto.html

 

 

 

Il potere della morte. La lezione teologica da trarre leggendo “L’Idiota” di Dostoevskij

Lo scrittore russo cita nel suo celebre romanzo il dipinto del Cristo morto nel sepolcro come spunto di riflessione per rappresentare la natura come una potente «macchina mortale» inarrestabile. Ma è giustificato mettere in dubbio il ruolo di salvatore che avrebbe il protagonista del libro, il principe Mýškin, come spiega Stephan Lipke in un articolo che apparirà sul nuovo numero della “Civiltà Cattolica”

Pubblichiamo in anteprima un estratto dell’articolo Fëdor Michajlovič Dostoevskij. Una teologia che parte dall’esperienza di frontiera del gesuita Stephan Lipke, che comparirà il 19 giugno sul prossimo quaderno della rivista La Civiltà cattolica.

Per quelli che credono o che sono alla ricerca è sempre utile riandare a L’idiota. Non per nulla, nella sua Lettera pastorale alla vigilia del nuovo millennio il cardinale Carlo Maria Martini ne riprende la famosa domanda: «Quale bellezza salverà il mondo?». E non a caso l’enciclica Lumen fidei (LF) cita le parole pronunciate dal principe Mýškin alla vista del dipinto del Cristo morto nel sepolcro, opera di Hans Holbein il Giovane: «Quel quadro potrebbe anche far perdere la fede a qualcuno» (LF 16). 

Dopo le due Guerre mondiali, i genocidi del XX secolo, ma soprattutto dopo l’Olocausto, possiamo forse comprendere molto meglio i sentimenti provati dal principe Mýškin e in particolare dal giovane Ippolit, malato di tubercolosi, mentre guardano il quadro che rappresenta il Cristo torturato a morte. Ippolit si esprime così: «Quando si guarda quel quadro, la natura ci appare come un mostro gigantesco, implacabile e muto, o per dir meglio […] ci appare sotto l’aspetto di una enorme macchina di recentissima costruzione che abbia assurdamente afferrato, maciullato e inghiottito, sorda e insensibile, un Essere sublime e inestimabile, un Essere che, da solo, valeva più di tutta la natura con tutte le sue leggi, anzi di tutta la Terra, la quale forse è stata creata unicamente al fine dell’apparizione di quell’Essere unico». 

La natura qui è rappresentata come una potente «macchina» mortale, che ha distrutto persino Cristo, l’«Essere inestimabile», sebbene qui si debba parlare della natura umana piuttosto che della natura in quanto tale, perché Cristo non è stato vittima di una perfida malattia, bensì della violenza dei suoi simili, come sottolinea lo stesso Ippolit.

Il potere della morte si manifesta, nel romanzo, soprattutto con Nastàs’ja Filìppovna Baràškova. Solo al vederne il ritratto fotografico – e questa è un’ulteriore indicazione di quanto Dostoevskij fosse al passo con i suoi tempi – il principe Mýškin rimane folgorato dalla sua bellezza. Ma anche dai suoi occhi il principe si rende conto che quella donna deve aver «sofferto terribilmente», ed esprime per lei non soltanto preoccupazione, ma anche speranza, perché quello che vede è «un volto orgoglioso, terribilmente orgoglioso. Ma sarà buona? Ecco quello che non so dire. Ah, se fosse buona! In tal caso, tutto sarebbe salvato».

Si scopre però che Nastàs’ja Filìppovna non è «buona» in senso morale, e proprio per questo fa una brutta fine. Ella abbandona più volte il principe che vorrebbe salvarla, preferendo a lui il passionale Rogòžin: l’ultima volta mentre il principe la sta già aspettando davanti all’altare per sposarla. Non lo sposa nonostante sappia che con Rogòžin «l’aspetta sicuramente il coltello», con il quale alla fine egli la ucciderà, ma proprio perché lo sa. Così si compie ciò che il principe aveva forse già temuto quando ancora sperava di salvarla: Nastàs’ja Filìppovna era, in fondo, condannata a morte fin dal principio. E non è certamente un caso che l’abitazione in cui viene uccisa si trovi nelle immediate vicinanze di piazza Semënovskij, dove un tempo Dostoevskij avrebbe dovuto essere giustiziato. 

Il motivo dello smarrimento interiore di Nastàs’ja Filìppovna si trova nell’abuso sessuale che ha subìto da ragazza. Dopo l’impoverimento e la morte prematura dei suoi genitori, la ragazza viene affidata a un certo Tòckij, un ricco vicino di trent’anni più anziano di lei. Dopo averla trasferita in una tenuta di campagna, questi ne scopre la bellezza quando lei ha 12 anni. Le fa ricevere un’educazione eccellente, e quattro anni dopo instaura con lei una relazione sessuale. Adesso i rapporti sessuali sono terminati da un po’ di tempo e Tòckij vuol far sì che Nastàs’ja Filìppovna si sposi, provvedendola di una dote considerevole, in modo che il ricordo della relazione sessuale con lei non danneggi la sua reputazione e quindi i suoi progetti matrimoniali. 

Nastàs’ja Filìppovna è abbastanza forte da opporsi a tale progetto, ma non riesce a lasciarsi alle spalle le conseguenze della violenza sessuale subita, perché continua a sentirsi in colpa. Perciò lascia il principe, coetaneo, ma inesperto della vita, perché – a differenza di Tòckij – non vuole «rovinare un bambino come lui». La sua morte poi è preceduta da umiliazioni dai connotati sessuali, perché, mentre sta andando in chiesa, sente alcuni curiosi gridare che lei «non è la prima e non sarà l’ultima» a sposarsi senza essere vergine, e viene paragonata a Cleopatra, che nelle parole di una ballata di Pùškin viene descritta come una seduttrice mangiauomini.

Sono proprio queste grida che la inducono a non recarsi più in chiesa da Mýškin, ma ad andare da Rogòžin, colui che presto la ucciderà. Persino lo stesso omicidio fa pensare a un abuso sessuale, perché la ferita inferta da Rogòžin a Nastàs’ja Filìppovna è profonda: il coltello arriva direttamente al cuore, ma la ferita è quasi invisibile perché ne esce poco sangue. Ed è proprio quello che a volte avviene dopo un abuso sessuale: la ferita è profonda, ma (quasi) nessuno la nota. È così che, come la macchina mortale ha annientato il Cristo di Holbein, la morte distrugge anche Nastàs’ja Filìppovna, non da ultimo con il potere della violenza sessuale. 

Neanche il principe Mýškin, con tutta la sua buona volontà, riesce a salvarla, perché ben presto non è più il povero e ingenuo «idiota» che era dovuto tornare dalla Svizzera, interrompendo la sua cura per mancanza di soldi, e del quale Nastàs’ja Filìppovna si era fidata ciecamente. Infatti, il principe eredita una fortuna, entrando così a far parte in un certo senso della classe dirigente, mentre a Nastàs’ja Filìppovna le sue parole consolatorie appaiono vuote, come «nei romanzi». Pertanto è giustificato mettere in dubbio – come fa Michael Holquist – il ruolo di salvatore che avrebbe il principe Mýškin, individuando nel romanzo alcune «lacune nella cristologia».

FONTE: https://www.linkiesta.it/2021/06/stephan-lipke-dostoevskij/

 

 

 

AGAMBEN: LA MANIPOLAZIONE DI UNA EPIDEMIA

3.456 visualizzazioni
29 nov 2020
La gestione e manipolazione politica e mediatica della pandemia porta a un nuovo paradigma di potere, il paradigma della biosicurezza fondato sul distanziamento sociale, ossia sulla soppressione dello spazio pubblico, sulla riduzione dell’esistenza alla “nuda vita”, sopravvivenza biologica spogliata delle libertà fondamentali, delle relazioni sociali, degli affetti, delle convinzioni politiche e religiose..
VIDEO QUI: https://www.youtube.com/watch?v=JNsJMN21buI
FONTE: https://youtu.be/JNsJMN21buI

 

 

 

CYBERWAR SPIONAGGIO INFORMAZIONE DISINFORMAZIONE

Quando il meme diventa mezzo di disinformazione e manipolazione

  

 

di emigrazione e di matrimoni

Quando il meme diventa mezzo di Disinformazione e Manipolazione

Ormai tutti i nostri lettori conosceranno i meme, i disegni/vignette, ecc. con messaggi più o meno politici che spesso iniziano discorsi online molto accesi sui contenuti. Purtroppo, i temi dei discorsi non sono sempre semplici e non possono essere espressi in pochi righe o parole.

Infatti, proprio per questi motivi questi meme sono diventati il tormentone dei social e ultimamente abbiamo visto il meme  che dimostra in modo inequivocabile come fin troppo spesso possono essere mezzi di disinformazione e manipolazione degli utenti.

Senza dubbio chi l’ha condiviso ha visto solo la seconda parte del messaggio, cioè “nati PER DISTRUGGERLA”. Bisogna anche notare che le ultime due parole sono in maiuscolo per enfatizzare il messaggio. Ma c’è un grande problema che fa capire che l’intenzione del meme è di manipolare e non di presentare un caso chiaro e logico e quindi smentisce del tutto il meme.

I soldati “MORTI per fare l’Italia” (questa volta è la prima parola in maiuscola) non sono soldati italiani, difatti dai caschi e le divise si vede chiaramente che i soldati sono britannici della Prima Guerra Mondiale. Quindi, che senso ha il messaggio se il suo ideatore che ama il suo paese, almeno in teoria, non ha capito questo fatto?

Prima di continuare dobbiamo fare una precisazione fondamentale. Non giudichiamo, sia nel bene che nel male, il comportamento dei politici nella seconda foto che sono il vero bersaglio del meme. In fondo, il giudizio del loro operato lo fanno i cittadini italiani quando esprimono il loro voto nella segretezza dell’urna elettorale e non utenti da tutto il mondo che si dilettano a prendere in giro personaggi pubblici a partire da politici che sono sempre stati il bersaglio del pubblico di ogni epoca della Storia dell’Uomo.

Perciò, per via di questa leggerezza con i fatti, questo meme non lascia dubbi che l’intenzione dell’ideatore era di manipolare i sentimenti degli utenti verso certi politici. Come succede anche con altri politici e personaggi pubblici che vediamo più volte ogni giorno sui social.

Gli ideatori dei meme utilizzano didascalie viandanti (come in questo caso), fotografie taroccate per rendere ridicoli personaggi, citazioni false oppure fuori contesto di personaggi celebri per osannare o criticare il comportamento del bersaglio di turno, oppure, come nel caso dell’emergenza sanitaria, spargere statistiche inventate o parziali per criticare regolamenti di sanità pubblica in un periodo che ha visto milioni di persone morire in giro per il mondo di una malattia sconosciuta fino a meno di due anni fa.

Tutto questo con la complicità degli utenti che automaticamente condividono i meme che confermano le loro idee e ancora più spesso i loro pregiudizi.

Il computer, il tablet ed il cellulare hanno reso semplicissimo condividere questi messaggi di disinformazione e manipolazione, basta un click ed è fatto. Ma quanti utenti pensano di controllare i meme prima di condividerli? Quasi nessuno purtroppo.

La stessa tecnologia che rende facile condividere permetterebbe a chiunque di controllare citazioni, foto e statistiche. In moltissimi casi ci vuole meno di un minuto per controllare fonti oppure, peggio ancora, la mancanza di fonti attendibili, dei contenuti dei meme. Eppure quasi nessuno lo fa.

Il risultato di questo è che i meme sono diventati la fonte di “informazioni” degli utenti. La loro semplicità e la bravura dei loro ideatori li rende irresistibili ed è proprio questo il pericolo rappresentato da questi mezzi.

Se poi chiedi a chi condivide i meme perché lo fa la risposta è spesso, “non mi fido dei mezzi giornalistici”. Sembra una risposta veritiera, ma bisogna chiederci perché questi stessi utenti poi si fidano di messaggi misteriosi di cui non si sanno le fonti e le cui informazioni sono, come minimo, vaghe.

Questo aspetto certamente rivela un problema nel mondo giornalistico che nessuno può negare, un problema che deve essere affrontato nel modo più aperto possibile a partire dalle grandi testate, ma la risposta non si trova nemmeno nei meme perché sono proprio l’incarnazione degli stessi problemi che gli utenti attribuiscono alla stampa tradizionale, in tutte le sue forme moderne.

Difatti, la risposta deve venire sia dalla stampa, sia, ancora di più, dagli utenti che dovrebbero analizzare e controllare i meme prima di condividerli. Potrebbe sembrare un’assurdità da parte di alcuni lettori, ma il motivo è allo stesso tempo semplice e profondo.

Ci vantiamo di vivere in Democrazia, ma per funzionare bene la Democrazia ha bisogno di dibattito vero e pubblico e questo dibattito non può esistere se le fonti di informazione sono insicure, come lo sono a volte nei casi dei meme. Infatti, questo è il motivo per cui i dibattiti online diventano così accesi, perché troppi utenti “si fidano” di fonti insicure semplicemente perché confermano le loro idee e altrettanto automaticamente smentiscono qualsiasi fonte che dimostra che non siano vere.

E questo discorso vale anche per i politici che, quando presentano i loro casi, non utilizzano tutte le informazioni a disposizione perché non conformi ai programmi che vogliono presentare ai loro elettori. E questa selettività di informazione da parte loro è soltanto un altro mezzo di disinformazione e manipolazione e merita di essere giudicato per quel che è.

Allora, quando vediamo un meme, prendiamo il tempo per controllare quel che mostra e dice, assicuriamoci che il messaggio sia vero e verificabile e se non è così meglio non condividerlo. In quel modo avremo fatto un passo importante per promuovere un aspetto essenziale della nostra vita, il dibattito leale e aperto che è la base fondamentale della nostra Democrazia.

FONTE: https://thedailycases.com/quando-il-meme-diventa-mezzo-di-disinformazione-e-manipolazione-when-memes-become-means-of-disinformation-and-manipulation/

 

 

 

DIRITTI UMANI

ERAVAMO BAMBINI: VIAGGIO NELL’ABISSO DELLE SCUOLE RESIDENZIALI CANADESI

Sono 215 i corpi rinvenuti a Kamloops, 182 a Cranbrook, nelle pertinenze di strutture gestite dai missionari oblati di Maria immacolata, nonché ben 751 a Marieval, nel terreno della casa gestita dalle suore di San Giuseppe di Saint Hyacinthe….

We were children” eravamo bambini.
Questa scritta è apparsa qualche giorno fa insieme a piccole impronte di mani di pittura rossa, sulla porta della cattedrale di St. Paul a Saskatoon, la città più popolosa della provincia occidentale del Saskatchewan in Canada. La frase richiama il titolo di un documentario – denuncia presentato nel 2012 al festival internazionale del cinema di Vancouver, che ripercorre le drammatiche esperienze di due donne indiane, Lyna Hart e Glen Anaquod, sopravvissute alle rispettive scuole residenziali per bambini indigeni. Le ultime notizie che provengono in queste ore dal Canada, ci parlano di altre scritte anonime e atti vandalici contro chiese cattoliche, almeno otto delle quali sono state bruciate e rase al suolo in varie località del nord ovest.
Cosa sta succedendo esattamente in questa parte del mondo occidentale? La polizia nazionale canadese ritiene che gli attentati potrebbero essere collegati con i recenti ritrovamenti dei resti di oltre un migliaio di bambini nativi, seppelliti in fosse anonime rispettivamente nelle pertinenze di tre ex scuole residenziali cattoliche, attive fino alla fine degli anni ’70 del secolo scorso. Sono 215 i corpi rinvenuti a Kamloops, 182 a Cranbrook, nelle pertinenze di strutture gestite dai missionari oblati di Maria immacolata, nonché ben 751 a Marieval, nel terreno della casa gestita dalle suore di San Giuseppe di Saint Hyacinthe.

Quel che è peggio, i macabri ritrovamenti potrebbero essere solo la punta di un iceberg, una vera e propria fabbrica degli orrori voluta e organizzata fino a qualche anno fa dal governo canadese con la complicità delle chiese cristiane, soprattutto quella cattolica romana. Un genocidio per troppo tempo taciuto.
Ma andiamo per ordine: secondo le politiche di assimilazione forzata che Canada e Stati Uniti hanno imposto alle tribù di nativi americani dalla fine dell’800 fino più o meno agli anni ’70 del secolo scorso (anche se l’ultima scuola, la Gordon’s indian residential school di Punnichy in Saskatchewan, ha chiuso i battenti solo nel 1996) i bambini indigeni potevano venire strappati alle rispettive famiglie per essere inseriti forzatamente nel sistema di scuole cristiane (cattoliche per il 70%) denominate “boarding school”, con l’intento di ricondizionarli e crescerli nella cultura dominante. L’idea venne nel 1879 al veterano della guerra di secessione ten. col. Richard Henry Pratt, il quale istituì il primo collegio residenziale a Carlisle (Pennsylvania). Pratt era un militare appartenente a quella scuola di pensiero eurocentrista che riteneva l’assimilazione alla cultura europea l’unica possibilità di sopravvivenza per gli indiani americani; fu lui a coniare il motto “uccidi l’indiano e salva l’uomo”, mutuato pienamente anche dal confinante governo canadese. In realtà le scuole si rivelarono in molti casi veri e propri lager, dove ai bambini deportati veniva spesso negato il contatto con i familiari, cambiato il nome, tagliati i capelli, vietato di parlare la propria lingua ancestrale, oltre ad essere sottoposti a metodi coercitivi di ogni tipo, finalizzati a fiaccarne le resistenze, annientarne la cultura di appartenenza e sottometterne ogni aspetto istintivo e affettivo. La punizione corporale, infatti, era spesso giustificata dai metodi di insegnamento religioso, nella convinzione che fosse l’unico modo per salvare le anime e scoraggiare i fuggiaschi.

Già agli inizi del secolo scorso, per la verità, vi furono segnali ben precisi che nei territori del Canada, in particolare, fosse in atto qualcosa di grave, con abusi fisici e psicologici nei confronti di molti bambini delle prime nazioni, metis ed inuit avviati in tali strutture. Nel 1907 la testata quotidiana “Montreal Star” riportava che il 42% dei bambini che frequentavano le scuole residenziali moriva prima dei 16 anni chiamando la situazione una “vergogna nazionale”. Risale però al 1918 la prima denuncia circostanziata, inoltrata dal dottor. Peter Bryce – già funzionario del dipartimento della salute dell’Ontario – al Ministero per gli Affari Indiani (riportata dettagliatamente in un libro pubblicato nel 1922, The Story of a National Crime: Being a Record of the Health Conditions of the Indians of Canada from 1904 to 1921) nella quale si fornivano prove dell’altissima mortalità per tubercolosi tra i bambini nativi delle boarding school, dovuta per lo più a sovraffollamento, scarsa igiene e mancanza di cure mediche. Il governo insabbiò l’inchiesta e, per voce del vice sovrintendente D.C. Scott, per tutta risposta vietò esplicitamente di combattere la malattia nelle scuole residenziali, affermando che la frequenza delle epidemie e la conseguente mortalità “non giustificano un cambiamento nella politica di questo Dipartimento, che è orientato verso una soluzione finale del nostro problema indiano“.

Purtroppo per molti anni nessuno si occupò ufficialmente del disperato grido di aiuto che proveniva dalle nazioni indiane, anche perché alcune leggi statali e regionali, ben lontane dal garantire i diritti dei nativi di qualsiasi età, tendevano addirittura a facilitarne la sottomissione, l’annichilimento culturale e identitario, nonché l’esproprio della terra con la complicità delle congregazioni cristiane impegnate nei progetti scolastici. Nonostante le numerose proteste scoppiate a cavallo degli anni ’70, bisognerà attendere fino al 2008 perché il governo decida di costituire un’apposita “Commissione per la verità e la riconciliazione sulle scuole residenziali indiane”, deputata a verificare l’attendibilità delle gravi accuse. L’organismo governativo, presieduto da C.M.
Sinclair già membro del Senato, dall’inizio dell’attività fino al 2015 ha vagliato oltre 7.000 testimonianze, ricostruendo un quadro criminale di una portata sconcertante.

Dei circa 150.000 bambini avviati al sistema scolastico residenziale, 70.000 sono risultati ancora in vita nel 2008, dei quali quasi la metà risulta avere subito abusi sessuali in tenera età. La commissione ha accertato che nei 100 anni di attività del progetto siano deceduti per malattia, fame, stenti e abusi 3.200 bambini nativi. Secondo altre fonti le morti in tenera età sono molte di più, probabilmente 6.000, ma alcune stime indipendenti ipotizzano fino a 50.000 morti e oltre. Nonostante la commissione abbia terminato la propria indagine da circa 6 anni, pervenendo all’agghiacciante responso di “genocidio culturale”, nessuna iniziativa giudiziaria concreta risulta sia stata intrapresa nei confronti di prelati, medici e funzionari vari ancora in vita.

Nonostante ciò, le ricerche delle organizzazioni umanitarie non sono mai cessate – il ritrovamento dei resti umani di questi giorni ne è la prova – ed il vaso di pandora sembra ormai scoperchiato: numerosi episodi criminali a carico di ecclesiastici, suore e preti, personale sanitario, militari, grandi corporazioni, giudici. Nomi e cognomi di vittime e di carnefici. L’elenco dei crimini contro i piccoli indiani, dai primi anni di vita fino all’età puberale, è lungo e comprende abusi efferati come percosse, scosse elettriche, sterilizzazione forzata, fame, stupro, fino all’omicidio. Nell’indagine figurano prove che gli studenti sono stati inclusi in diversi esperimenti di ricerca scientifica a insaputa loro e dei genitori: malnutrizione intenzionale, prove sui vaccini, studi sulla percezione extrasensoriale, integratori alimentari di vitamina D, amebicidi, isoniazide, emoglobina, enuresi notturna e dermatoglifici.
Le testimonianze narrano di neonati soppressi perchè partoriti da suore o da ragazze stuprate dagli insegnanti. Emergono casi come quello di Maisie Shaw, la ragazzina uccisa la notte di natale del 1946 dal reverendo Caldwell, preside pedofilo della Alberni indian school della chiesa unita canadese, oppure come quello di Elaine Dik di anni 5, picchiata a morte nel 1966 da suor Pierre (Ethel Lynn) nella “Catholic day school di North Vancouver. Secondo Ethel Wilson di Bella Bella in British Columbia, un certo George Darby, medico missionario della chiesa unitaria, fra il 1928 ed il 1962 sterilizzò intenzionalmente un grande numero di indiani non cristiani presso l’R.W. Large Memorial Hospital. Un lungo elenco di orrori che mette i brividi.
A questo punto è lecito chiedersi come sia possibile tutto ciò, ai giorni nostri, in uno degli Stati occidentali ritenuti più attenti e all’avanguardia. Ma soprattutto ci si interroga se siamo di fronte ad un’eccezione, ad un caso isolato di becero rigurgito colonialistico. Purtroppo pare che non sia così.

Nel 2008 il governo australiano, in una apposita seduta del parlamento di Canberra, ha chiesto pubblicamente scusa di fronte ad una delegazione composta da un migliaio di aborigeni provenienti da varie parti del Paese. Tra il 1930 ed il 1970 oltre 500.000 bambini nativi – insieme a circa 30.000 bambini europei orfani, provenienti dall’Inghilterra e da Malta – furono strappati alle proprie famiglie e deportati in istituti di correzione e ricondizionamento, venendo sottoposti ad abusi di ogni genere.

Nei territori del nord, in particolare, quando furono create “riserve” sul modello americano per contenere le tribù aborigene, i bambini di etnia mista – frutto dello sfruttamento sessuale delle giovani donne aborigene da parte degli europei – vennero strappati alle famiglie e affidati a missioni gestite dalla Chiesa, nella convinzione che solo i meticci, con fattezze semi europee, sarebbero sopravvissuti nel breve termine, poiché di lì a poco le tribù native sarebbero state eliminate. Anche in Nuova Zelanda, secondo i risultati di una commissione recentemente costituita (Royal Commission into Abuse in Care) dei 655.000 bambini assistiti per vari motivi negli istituti statali e religiosi tra il 1950 ed il 2019, si stima che il 40% abbia subito abusi, con un picco di 48.000 vittime solamente negli anni ’70 del secolo scorso. L’81% dei bambini abusati risultano essere di etnia Maori.
E come spesso succede, sull’onda dello shock che ha colpito in questi giorni l’opinione pubblica mondiale, emergono altre infamie, passate in secondo piano in momenti diversi, come la scoperta nel 2014 di numerosi resti umani in una vasca di liquami in disuso della ex casa di accoglienza “Bon Secours Mother and Baby Home” di Tuam, nella contea di Galway in Irlanda, gestita dalle suore cattoliche del buon aiuto. I corpi appartenevano probabilmente a 800 bambini orfani, oppure partoriti dalle ragazze incinte indigenti ospitate nella casa di accoglienza, la cui sepoltura non fu mai registrata.
La testata britannica “BBC news” ha raccolto indizi che a Lanarkshire, nel sud della Scozia, siano stati seppelliti almeno 400 bambini nella fossa comune di una vecchia sezione del cimitero della casa di accoglienza religiosa per orfani di St. Mary, a Smyllum park, gestita dalle suore figlie della carità di san Vincenzo de’ Paoli.

I dibattiti ed i forum di questi giorni circa le morti taciute e occultate di tutti questi minori, riemersi prepotentemente grazie alla sovraesposizione mediatica del caso canadese, si concentrano ora non solo sulle modalità indegne in cui i bambini sono stati fatti sparire, ma anche sul presunto severo regime punitivo attuato dalle diverse scuole religiose – non solo cristiane – finalizzato a convertire forzatamente più che a insegnare. Ecco che emergono casi di abusi sistematici dall’India, da Papua occidentale, dal Messico e dal Sudamerica. I governi si indignano e le Chiese si scusano, invitando gli ecclesiastici locali a collaborare. Papa Francesco ha finalmente rotto gli indugi accettando di ricevere in vaticano, dal 17 al 20 dicembre 2021, una delegazione delle prime nazioni, metis e inuit canadesi. Certo, l’imbarazzo delle autorità coinvolte è palpabile, il rischio di umiliazioni pubbliche e di pesanti azioni legali è concreto, ma da più parti ormai si segnala la necessità che i vertici delle istituzioni responsabili interrompano il silenzio su fatti così vergognosi, su un torbido passato fin troppo recente. Sulle moltitudini di bambini innocenti che pretendono giustizia. Ed è ormai tempo che l’educazione dei popoli indigeni e tribali sia gestita da loro stessi, rimanendo radicata nella terra che appartiene loro, nella lingua e nella cultura che li contraddistingue, trasmettendo ai bambini l’orgoglio e la consapevolezza della propria identità.

FONTE: https://www.viaggiatoriignoranti.it/2021/07/eravamo-bambini-viaggio-nellabisso-delle-scuole-residenziali-canadesi.html

 

 

 

 

ECONOMIA

DOVE E COME DIFENDERE LA SOVRANITA’ ECONOMICA POSSIBILE

Può apparire sorprendente ma chi scrive ritiene che la sovranità economica nazionale debba oggi essere articolata e difesa a due distinti livelli: quello nazionale e quello europeo. Non c’è bisogno di ricordarci che l’Europa in cui viviamo non è l’Europa che vogliamo, che sogniamo e per la quale ci battiamo. E’ a tutti noi chiaro che una mera unione economica, basata sulla moneta comune, sulla dominazione burocratica centralizzata a Bruxelles, penalizza quelle nazioni meno virtuose e più ignave, come il nostro Paese. Noi che aspiriamo ad una Europa dei popoli, che difenda strenuamente le sue millenarie tradizioni, le sue differenze e le sue peculiarità, sogniamo un fascio di popoli avvinti da un principio federatore superiore, imperiale, di potenza e di pace. Tutto questo oggi non c’è, ma ciò non ci esime dal lavorare e batterci nel reale, per la realizzazione di un’unione migliore e più audace dell’attuale. Senza rifugiarsi né in miti incapacitanti (“non ci si arriverà mai”, perché agire sul reale quantunque non ottimale si può) né in astratti complottismi che a nulla servono (“l’Europa vuole spartirsi e depredare le ricchezze italiane”, perchè le nostre ricchezze le depredano al 99% gli italiani), né a ridicole semplificazioni da bar (“la Germania decide tutto per i suoi fini nazionali “ , perché se lo fa , fa benissimo, ma noi qui auspichiamo maggiore, non minore leadership tedesca nell’Unione, visto che è , nei fatti, non solo l’unica esistente, ma anche la migliore possibile). 

Come occorre dunque declinare il legittimo interesse nazionale italiano agendo nel reale e non nel mondo febbricitante ed inutile dell’autoassoluzione dalle nostre gravissime mancanze nazionali? Occorre, a nostro parere, distinguere due piani differenti. Il primo è quello della difesa dei valori economici nazionali esistenti, per evitarne lo svuotamento dall’interno, attraverso la cessione all’estero e il trasferimento dei centri decisionali altrove. In questo ambito lo Stato deve avere la competenza (tema non banale di una classe dirigente educata bene dal punto di vista economico -finanziario e non burocratico-legale- amministrativo) e la forza economica di favorire il mantenimento in Italia dei settori, non tanto e non solo ritenuti strategici , ma che sostanzialmente si occupano di manifattura, nel senso più ampio , cioè l’ industria: piccola media, grande, mini, micro, artigianato, agricolture, distribuzione, pesca, esercizi commerciali, ecc. In una parola quasi tutto il settore primario e secondario. Qui lo scopo deve essere l’aumento della competitività delle imprese (incluse ovviamente in primis quelle a partecipazione statale) per mantenere in Italia i posti di lavoro, che in grandissima parte questo settore fornisce all’economia. Dall’acciaio all’energia, dalle infrastrutture come porti, autostrade e ferrovie alla meccanica, fino alle micro imprese, tutto ciò che è manifattura e servizi di base deve essere coltivato, incrementato e, ove necessario, protetto. Gli strumenti legislativi già esistono dai dazi temporanei (la Francia li ha sempre usati) alla golden share (da utilizzare ad es. con Tim o con Iveco). 

Il secondo piano è quello della difesa degli interessi nazionali ad uno stadio di efficacia necessariamente comunitario. Ci sono settori dell’economia che non hanno confini e che sono ovviamente il traino dello sviluppo futuro della nazione e del continente. In questi settori lo sviluppo di consorzi comunitari, di conglomerati economici europei, di iniziative congiunte (ad es. esercito comune, marina militare comune), vanno favoriti e soprattutto PRESIDIATI inviando in tali consessi gli uomini migliori, non sistematicamente i peggiori, che siano politici o burocrati o in-prenditori. I mercati finanziari non conoscono confini, lo stesso dicasi della Ricerca e sviluppo, dell’innovazione, dell’intelligenza artificiale, della quantistica, delle telecomunicazioni, dei satelliti, ecc. Le prime prove di congiunzione fra imprese italiane ed imprese europee dimostrano, finora, una palese volontà dei gruppi di controllo italiano di cedere il comando. Si può citare qualche esempio facendo riferimento alle partnerships con la Francia: FCA-Peugeot, Borsaitaliana- Euronext, Luxottica-Essilor, BNNP- BNL, solo per dare un’idea. Anche laddove le eccellenze sono italiane, anche quando si tratti di aggregazioni fra privati, la subalternità strategica italiana emerge palese, e questo non può non avere conseguenze negative sull’occupazione e sulla direzione strategica. Per cui è necessario difendere l’interesse nazionale italiano in Europa presidiando con qualità e volontà gli sviluppi futuri, 

perché la strada è segnata ed il futuro è europeo , nel reale. Sta a noi renderlo protagonista e meno subalterno, per congenita esterofilia o per guardarsi l’ombelico. 

Vittorio de Pedys

FONTE: https://www.kulturaeuropa.eu/2021/08/19/dove-e-come-difendere-la-sovranita-economica-possibile/

 

 

 

IMMIGRAZIONI

MIGRANTI/ Quando il “piano Minniti” teneva i profughi nella Libia “talebana”

 – Nicola Berti

Due “nation building” falliti, quello libico e quello afghano, e il dramma dei profughi. Nel 17, Minniti concluse una trattativa con i signori della guerra libica

immigrazione migranti porto sbarco 5 lapresse1280 640x300
Sbarchi a Lampedusa (LaPresse)

A inizio 2019, l’economista Francesco Daveri scese in campo su lavoce.info per rintuzzare i commenti a suo avviso troppo enfatici riguardo l’“effetto Salvini” sui flussi di migranti dal Nordafrica verso l’Italia. Dati Unhcr alla mano per Daveri era poco corretto mettere a confronto il crollo degli sbarchi anno su anno nel periodo gennaio–maggio 2018 con il Pd Marco Minniti ancora al Viminale (13.430 contro i 60.228 del 2017) con quello del periodo giugno–dicembre (9.941 contro 59.141) con Matteo Salvini vicepremier all’Interno. Era invece più significativo osservare come gli sbarchi “tagliati” nel biennio 2017–2018 (158.058) fossero per oltre due terzi funzione dell’“effetto Minniti” e per meno di un terzo dell’“effetto Salvini”.

L’intento del commentatore bocconiano era evidentemente quello di contrapporre l’efficacia del cosiddetto “piano Minniti” implementato dal governo Gentiloni (peraltro sconfitto alle urne) rispetto alla politica dei “porti chiusi” decisa dal leader leghista nel governo gialloverde vincitore nel marzo 2018. I contenuti operativi del piano Minniti, tuttavia, nell’articolo venivano omessi in un inciso sfuggente: le considerazioni statistiche a favore dello score di Minniti venivano presentate “indipendentemente da come si valutino le politiche messe in atto dai due ministri”. E questo non risparmiò a Daveri una raffica di commenti problematici, come subito il primo: “Trovo aberrante che in questa analisi non si trovi il tempo di ricordare le persone morte nei lager libici”.

Il piano Minniti, al nocciolo, è stato infatti una trattativa di successo – condotta principalmente dai servizi di intelligence italiani – con i “signori della guerra” in Libia, perché frenassero in campi di concentramento le ondate di profughi provenienti dal continente profondo. Un negoziato di “diplomazia reale”, peraltro non troppo diverso da quello istituzionale più volte riscritto dalla Ue con la Turchia di Erdogan. Un dialogo “distensivo” fra un esecutivo appoggiato anche da Laura Boldrini e un coacervo di tribù e milizie in parte considerevole di matrice islamica, che si sono spartite la Libia dopo la “liberazione” dal regime di Gheddafi avvenuta nel 2011. Questo in seguito a una guerra condotta da Usa, Gran Bretagna e Francia sotto l’egida della Nato. Su uno scacchiere divenuto poi terreno di “guerra semicalda” fra potenze regionali o globali (fra queste la stessa Turchia e la Russia, sotto l’occhio di Egitto e Israele).

Le similitudini di scenario con l’Afghanistan dell’agosto di dieci anni dopo sono troppe per non essere inquietanti: anzitutto per l’Italia, che proprio in seguito alla crisi libica entrò in una spirale di crescente instabilità politico-economica. Evidentemente non ancora risolta se – fra spread, recessione, tensioni europee e pressioni geopolitiche prima e durante la pandemia – dal governo Monti del 2011 il Paese è giunto al governo Draghi del 2021.

Poco sembra contare, alla fine, che il nation building a Tripoli non sia neppure iniziato – lasciando subito a se stesso un Paese sbriciolato – mentre a Kabul è fallito in pochi giorni dopo vent’anni di occupazione Nato. Gli ingredienti paiono gli stessi: le difficoltà dell’export ideologico (“politically correct”) della democrazia, gli opportunismi bellicisti delle potenze (dagli Usa di Obama & Biden alla Francia di Sarkozy), lo scontro di civiltà fra Occidente e islam con Russia e Cina “convitati di pietra”; la strumentalizzazione degli “ultimi”, siano migranti in fuga dall’Africa o dall’Afghanistan.

Sembra invece cambiato (o forse no…) l’atteggiamento di politici e intellettuali “democratici”. Chissà se oggi Daveri difenderebbe ancora la logica e l’efficacia del piano Minniti quando il Pd è in prima fila nell’invocare “porte aperte” a tutti i profughi afghani, braccati dai talebani. Proprio il Pd è stato del resto il primo beneficiario del blitz Nato in Libia: Silvio Berlusconi – nettamente vincitore del voto 2008 contro Walter Veltroni – è stato abbattuto con Gheddafi. E da allora i dem si sono aggiudicati due volte il Quirinale, tre volte Palazzo Chigi e quasi costantemente importanti poltrone di governo nonostante non si siano mai imposti in un’elezione politica. 

Minniti – dimessosi infine da deputato Pd – ancora un anno fa non aveva d’altronde timore di rilasciare fra virgolette affermazioni come queste: “È illusorio pensare che il problema dell’immigrazione si risolva con la redistribuzione dei profughi all’interno della Ue. La partita si gioca in Africa, è lì che vanno governati i flussi, più che mai adesso, in epoca di coronavirus”; oppure: “La Libia è storicamente una potenziale piattaforma di attacco. Fino a pochi anni anni fa Sirte era in mano all’Isis. Oggi in Tripolitania, portati insieme con l’esercito turco, ci sono 2.500 combattenti turco-siriani di formazione jihadista. Senza considerare che il giornale inglese The Telegraph ha scritto che Erdogan avrebbe dato il passaporto turco a guerriglieri di Hamas. Fatto gravissimo, se vero, pensando anche che Ankara è nella Nato”.

FONTE: https://www.ilsussidiario.net/news/migranti-quando-il-piano-minniti-teneva-i-profughi-nella-libia-talebana/2213059/

 

 

 

 

PANORAMA INTERNAZIONALE

Afghanistan: il direttore della CIA incontra il leader dei talebani

PUBBLICATO IL 24 AGOSTO 2021

Il direttore della Central Intelligence Agency, CIA, William J. Burns, ha incontrato segretamente il principale leader dei talebani a Kabul, Abdul Ghani Baradar. 

La notizia è stata riferita il 24 agosto dal Washington Post, che cita due funzionari anonimi. Il colloquio, secondo le fonti, sarebbe avvenuto il giorno precedente, il 23 agosto. L’amministrazione Biden è stata regolarmente in contatto con i funzionari talebani durante il processo di evacuazione, sia con i militanti sul campo in Afghanistan, sia con i rappresentanti del gruppo a Doha, in Qatar. Tuttavia, l’incontro segreto del 23 agosto tra Burns e il co-fondatore e vice leader dei talebani, Abdul Ghani Baradar, equivale allo scambio di opinioni diretto di più alto livello da quando il gruppo militante ha preso il controllo della capitale afghana, il 15 agosto. 

Secondo la CNN, che cita un altro funzionario statunitense anonimo, è chiaro che l’amministrazione guidata da Joe Biden ha bisogno di una comprensione più chiara della posizione dei talebani su diverse questioni, mentre il tempo stringe verso la scadenza del 31 agosto per il ritiro completo delle truppe dal Paese. Un’altra fonte ha definito l’incontro “uno scambio di opinioni su ciò che dovrà accadere” entro il 31 agosto. Per il momento, la CIA ha rifiutato di commentare tali dichiarazioni. Intanto, gli USA continuano ad operare nei pressi dell’aeroporto di Kabul, per evacuare gli individui che possano essere a rischio nel prossimo regime talebano. 

Il presidente degli Stati Uniti rimane fiducioso sul completamento della missione entro la data stabilita. Tuttavia, il 22 agosto, ha rivelato che sono in corso discussioni sulla possibile estensione della scadenza. Da parte loro, i talebani hanno evidenziato la loro contrarietà a tale possibilità. Questi hanno definito il 31 agosto come una “linea rossa” e hanno minacciato “conseguenze” se la Casa Bianca si fosse mossa per posticipare il ritiro degli Stati Uniti. Sul fronte opposto, alcuni leader europei, tra cui Francia e Gran Bretagna, potrebbero fare pressioni al riguardo nell’incontro del G7 del 24 agosto.

A tale proposito, è necessario sottolineare che l’amministrazione Biden ha fatto affidamento sulla collaborazione dei talebani per garantire la sicurezza delle evacuazioni e la possibilità di corridoi dalle città all’aeroporto. Il consigliere per la sicurezza nazionale degli USA, Jake Sullivan, ha affermato che gli Stati Uniti sono in trattative con i talebani “su base giornaliera” attraverso i canali politici e di sicurezza. 

Dopo due decenni di presenza sul campo, il ritiro delle truppe straniere dall’Afghanistan è stato concordato dall’amministrazione dell’ex presidente degli USA, Donald Trump, e dai talebani con lo “storico” accordo di pace firmato a Doha, in Qatar, il 29 febbraio 2020. Secondo quanto stabilito da tale intesa, gli USA si erano impegnati a ritirare tutti i propri soldati presenti in Afghanistan entro quattordici mesi dalla firma dell’accordo, a maggio 2021, quindi oltre la scadenza del mandato dell’amministrazione Trump. 

Dall’altra parte, i talebani, dopo aver richiesto uno scambio di prigionieri al governo di Kabul, avevano accettato di partecipare ai negoziati di pace intra-afghani, iniziati il successivo 12 settembre, e avevano fornito garanzie di sicurezza agli USA, quali, ad esempio, la fine delle offensive contro le grandi città, l’assicurazione di non attaccare i soldati stranieri e l’interruzione dei rapporti con gruppi terroristici, quali Al-Qaeda. L’intesa è stata violata da entrambe le parti e gli scontri sul campo non hanno fatto che aumentare nei mesi. 

Appena entrato in carica, il 29 gennaio, il nuove presidente Biden aveva affermato di voler riesaminare l’accordo con i talebani. Tuttavia, il 14 aprile, Washington aveva confermato il ritiro delle truppe statunitensi dall’Afghanistan entro il primo settembre, tre mesi più tardi rispetto alla scadenza concordata dall’amministrazione Trump. I talebani hanno risposto dichiarando che non avrebbero partecipato ad iniziative diplomatiche fino al ritiro completo e hanno continuato con una massiccia offensiva su tutto il territorio, nonostante questa rappresentasse una violazione dell’accordo. La campagna militare è culminata con la caduta di Kabul, il 15 agosto.

FONTE: https://sicurezzainternazionale.luiss.it/2021/08/24/afghanistan-direttore-della-cia-incontra-leader-talebani/

 

 

 

Indonesia: la popolazione di Papua rifiuta i vaccini

PUBBLICATO IL 26 AGOSTO 2021

Gli abitanti delle province indonesiane di Papua e Papua Occidentale, situate sull’isola di Nuova Guinea e conosciute insieme come Papua, si stanno rifiutando di partecipare al programma di vaccinazione nazionale indonesiano, mossi dalla mancanza di fiducia nelle autorità di Jakarta.

Papua, situata al confine con la Papua Nuova Guinea, fa parte ufficialmente dell’Indonesia dal 2 agosto 1969, quando 1.025 abitanti locali hanno scelto di far rientrare il territorio sotto il controllo indonesiano con un voto, noto come Atto di libera scelta e che era stato supervisionato dalle Nazioni Unite.  Da allora, però, le autorità indonesiane hanno combattuto la popolazione indigena malese, che conta circa 2,5 milioni di persone e che vuole l’indipendenza. Secondo varie fonti, negli anni, durante la lotta contro i separatisti, le forze di sicurezza indonesiane avrebbero violato i diritti della minoranza malese locale con atti quali uccisioni extragiudiziarie degli attivisti e dei manifestanti pacifici.

Ad oggi, tali circostanze storiche connotate da conflitti, casi di razzismo e abusi dei diritti umani, starebbero alimentando le teorie complottiste tra la popolazione locale in materia di vaccini. Un cittadino locale, ad esempio, ha rivelato a South China Morning Post che si sta rifiutando di ricevere il vaccino contro il coronavirus poiché crede che l’Esercito indonesiano utilizzerà il programma di inoculazione nazionale per avvelenare ed eliminare la popolazione di Papua. Il cittadino in questione ha spiegato che sarebbe disposto a ricevere qualsiasi vaccino a patto che la dose sia somministrata direttamente dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). Diversamente, la popolazione locale non avrebbe fiducia nelle dosi arrivate a Papua tramite l’Indonesia, credendo che queste contendano sostanze dannose in grado di uccidere la popolazione locale.

South China Morning Post ha dichiarato che non vi sono prove di piani di natura genocida da parte dell’Indonesia. Tuttavia, il Paese ha finora coinvolto i militari nella campagna di vaccinazione nazionale compresa Papua, dove i soldati non sono visti di buon occhio, per le atrocità di cui sono stati accusati negli anni dei combattimenti tra le parti. Al contempo, l’Indonesia sta però affrontando gravi difficoltà nella lotta alla pandemia per ragioni legate sia a forniture di vaccini limitate, sia all’esitazione della popolazione a causa di una disinformazione diffusa online sull’argomento.

Al momento, i vaccinati di Papua sono circa 30.000, pari a meno dell’1% della popolazione locale. Secondo le autorità indonesiane, il basso tasso di vaccinazione a Papua dipenderebbe sia dalle notizie false diffuse sui social media, sia dai leader ecclesiastici locali che avrebbero messo in dubbio la serietà della pandemia e avrebbero organizzato manifestazioni in cui venivano bruciate le mascherine.

Così come a Papua, il fenomeno della diffusione di notizie false sui vaccini si sta verificando anche in Papua Nuove Guinea, dove circolano informazioni che dichiarano falsamente che i cittadini locali siano costretti a vaccinarsi in test medici di massa.

Papua è al momento luogo di tensioni tra governo e popolazione locale non solo per il coronavirus. Il 15 luglio scorso, l’Indonesia ha approvato una legge sull’autonomia di Papua per incentivarne lo sviluppo. Secondo il Fronte unito per la liberazione di Papua Occidentale, però, si sarebbe trattato di un’estensione di una “legge coloniale e razzista”. Prima ancora, il 25 aprile scorso, il generale a capo dell’intelligence indonesiana regionale di Papua, Gusti Putu Danny Karya Nugraha, era stato ucciso in un’imboscata dei separatisti del gruppo armato Free Papua Organisation (OPM). In seguito a tale evento, il presidente indonesiano, Joko Widodo, aveva chiesto alla polizia e all’Esercito di inseguire e arrestare tutti i membri dei gruppi ribelli presenti a Papua. Il governo aveva poi designato formalmente i separatisti e i gruppi armati criminali della provincia di Papua “terroristi”, lo scorso 29 aprile. Successivamente, il 6 maggio, Jakarta aveva inviato 400 militari in tali territori per accerchiare e reprimere i gruppi armati locali.

I separatisti considerano legittima la propria ribellione in quanto i Paesi Bassi, l’ex potenza coloniale che dominava l’isola, aveva promesso l’indipendenza alla provincia di Papua prima che venisse annessa all’Indonesia nel 1963. Per i separatisti il voto del 2 agosto 1969 non rispecchierebbe la volontà della popolazione locale. 

Il territorio della provincia indonesiana di Papua è ricco di risorse naturali ma è una tra le aree più povere del Paese. Negli ultimi vent’anni il governo di Jakarta vi ha riversato 7,4 miliardi di dollari in finanziamenti, ciò nonostante non è riuscito a migliorare le condizioni della popolazione locale.

FONTE: https://sicurezzainternazionale.luiss.it/2021/08/26/indonesia-la-popolazione-papua-rifiuta-vaccini/

 

 

 

POLITICA

Quanto costano davvero i politici italiani?

Quanto costano i politici italiani

Ridurre i costi dei politici italiani potrebbe liberare risorse pubbliche? Vediamo come stanno le cose…

di Alessandro Leozappa – 26 Settembre 2018 – 3′

Pensate che solo la Camera dei deputati ci costa ogni anno circa un miliardo di euro“.

Erano le parole di Luigi di Maio dette lo scorso 29 marzo durante video-messaggio postato su Facebook.

Ma quanto sborsa ogni anno lo Stato per mantenere i politici italiani?

Passiamo alla verifica dei fatti.

Per farlo, abbiamo consultato il Bilancio triennale della Camera dei Deputati e il Bilancio di previsione per il triennio 2017-2019 del Senato della Repubblica. Dai bilanci delle due Camere del parlamento italiano si evince che:

  • Nel 2017, la dotazione annuale (cioè le entrate derivanti da trasferimenti dello Stato) della Camera dei Deputati è stata di 943.160.000 euro. A questa cifra si sommano altre spese, come le entrate integrative e le entrate previdenziali, per un totale complessivo di 1.298.391.988 euro. 
  • Il totale delle spese per il Senato della Repubblica nel 2017 è stato di 539.500.000 euro.

Quanto pesano gli stipendi dei politici sulla spesa pubblica?

Nel 2017, l’esborso dello Stato per mantenere le due Camere del parlamento è stato di 1.837.891.988 euro.

È poco? È tanto? Dipende…

Gran parte dell’opinione pubblica ritiene che abolendo i vitalizi ed eliminando gli sprechi del parlamento, lo stato italiano potrebbe risparmiare un bel po’ di soldi.

In realtà, il costo dei parlamentari, se rapportato alla spesa pubblica italiana, circa 850 miliardi di euro, può sembrare irrisorio. Il costo dei 945 parlamentari italiani pesa soltanto lo 0,21% della spesa pubblica annuale.

Inoltre, se si considerano solo i vitalizi e gli sprechi si avrebbe una percentuale di risparmio ancora più bassa.

Tuttavia, l’esigenza di ridurre i costi della politica ha più valenza sul piano etico che su quello pratico.

Il confronto del costo della politica italiana con l’estero

In media ogni cittadino italiano spende 24,71 euro all’anno per mantenere il parlamento, una spesa che è enormemente più alta rispetto all’estero.

In Gran Bretagna, l’House of Commons, costa ogni anno 245 milioni di sterline, con una spesa pro-capite di 3,74 sterline. Il Congresso americano costa 1,2 miliardi di dollari, ma un americano spende solo 3,88 dollari all’anno. In Francia, l’Assemblé Nationale costa 517 milioni di euro, con un esborso pro-capite di 7,74 euro. Infine, la Spagna dove il Congreso de Los Deputados costa soltanto 85 milioni di euro, con un costo pro-capite di 1,8 euro.

E io pago!

FONTE: https://www.risparmiamocelo.it/quanto-costano-davvero-i-politici-italiani/

Dall’ecofanatismo all’ecorealismo

Calo Pelanda – La Verità 25/7/2021

Qualcuno deve iniziare a proporre un pensiero critico, e alternativo, in materia di ecopolitica perché quella in atto nell’Ue appare illusoria, inefficace e controproducente. 

Se è vero che l’anidride carbonica (CO2) è la principale responsabile del riscaldamento del pianeta, allora la cosa più realistica e razionale da fare è puntare tutte le risorse sia per catturarla in depositi nel sottosuolo (esperimenti in atto) sia, soprattutto, per trasformarla via catalisi, o altri metodi, in carbonio solido, che è un materiale eccezionale per costruire sia superbatterie sia (nano)strutture e infrastrutture non metalliche. Così quello che è un problema diverrebbe una risorsa (miliardi di tonnellate) rendendo produttivo l’investimento in decarbonizzazione dell’atmosfera. Ma la ricerca per realizzare questa opzione è rallentata per la prevalenza, nell’Ue, di linguaggi ecolimitativi che puntano, invece, ad eliminare le emissioni di CO2. Ciò è irrazionale perché ha un’alta probabilità sia di fallire sul piano globale sia di produrre shock industriali e occupazionali nell’Ue, qualora l’ecopolitica fantasiosa proposta dalla Commissione fosse confermata. La probabilità che venga corretta in sede di Consiglio e Parlamento europei è elevata, ma la modifica non è certa. La Germania vuole l’abolizione dei motori endotermici entro il 2030 perché è in vantaggio sulle auto elettriche (Audi e Mercedes stanno investendo decine di miliardi che altri produttori, a parte la Volvo con proprietà cinese, non hanno). Inoltre si è instaurato un ecofanatismo che può dirsi una variazione in senso anti-industriale della teoria dei limiti allo sviluppo. Mentre sul primo tema si può trovare un compromesso, sul secondo pesa l’ondata di consenso a favore dell’ambientalismo irrazionale.

Per decenni ho insegnato alla University of Georgia, vicino ad Atlanta, dove negli anni ’30 dello scorso secolo è nata l’ecologia moderna. Questa università richiedeva ai docenti di tutte le discipline di inserire nei loro insegnamenti una “Environmental Literacy” (educazione ambientale). Io insegnavo “scenari globali” – continuo a farlo all’Università Marconi – e ciò attirava gli studenti più ecosensibili. Mi sono trovato a rispondere agli “ecolimitisti” – tra salvare un bosco e una fabbrica scegli il primo – alle “ecofemministe” (la natura è un unicum, Gaia, ed è femmina sfruttata dal tecnocapitalismo a cui bisogna ribellarsi anche con violenza – agli “ecoconservatori” che, in sostanza, predicavano la riduzione della biomassa antropica per rendere il residuo armonizzabile con la natura. Tra questi, alcuni erano dialoganti, per esempio gli aderenti a Green Peace, altri alla ricerca di come ridurre gli esseri umani, alcuni prevedendo anche soluzioni di sterminio selettivo, pochi, ma a contatto con le scienze bioingegneristiche emergenti (il corso era interdipartimentale). Mi accorsi che tutti questi avevano una certa propensione alla irrazionalità e rigidità. Tentai di farli ragionare e misurai il tentativo somministrando un questionario all’inizio e alla fine del corso: ebbi la sensazione di aver avuto un certo successo. Temi, per esempio il “Full Cost Principle”: l’economia standard non considera i costi dello sfruttamento della natura e quindi non vede il punto dove sarà distrutta dall’esaurimento delle risorse naturali. Vero. Cosa fare? La mia proposta fu quella di modificare l’ambiente via nuove tecnologie per fargli sostenere più stress antropico: l’ecologia artificiale. In sintesi, nel conflitto tra ambiente e sviluppo modificare il primo per non compromettere il secondo. Nel questionario detto, alla fine, diversamente da quello iniziale, la maggioranza della classe si diceva d’accordo con l’ecorealismo, restando in minoranza gli ecofondamentalisti, ma questi confessando che la loro scelta era di tipo religioso. L’ambientalismo estremo, infatti, è una religione-ideologia. Sia input per gli specialisti in psicologia sociale.  

Tornando alla miglior ecopolitica, mi sento di insistere sulla conversione dell’anidride carbonica in carbonio solido: se il mondo non potrà decarbonizzare in fretta, lo faccia chi ha più soldi e tecnologia, europei ed americani, prendendo un vantaggio sui nuovi materiali a base di carbonio. Così eviteremo problemi geopolitici e shock industriali interni.

Ma c’è un ecotema che mi cruccia. Il cambiamento climatico ad alto potenziale catastrofico, bombe d’acqua e siccità, è in atto. Ciò imporrebbe un ecoadattamento per ridurre la vulnerabilità oggi e non a fine secolo: il tema ecoadattivo è visto come marginale, tutta l’ecosicurezza affidata solo al mito di sostituire presto il petrolio. Invece bisognerebbe oggi spendere per sistemi di allarme anticipato, infrastrutture di contenimento, ecc. Per le siccità, programma straordinario di desalinizzatori. Inoltre, per le temperature serve tantissima energia: solo il nucleare potrà dare tutta l’energia necessaria a basso costo. E l’agricoltura? Già oggi molta di questa richiederebbe ingegneria genetica per fare resistere i vegetali allo stress climatico. In sintesi, la soluzione agli ecoproblemi è la tecnologia e quella al riguardo del consenso implica una grande chiarimento culturale e politico: dobbiamo cambiare l’ambiente per renderlo sostenibile agli umani e non cambiare gli umani per salvare l’ambiente stesso. Ambizione antropica eccessiva? Se fai figli devi averla. Propongo di mettere in discussione l’ecoconformismo ideologico e acritico: confrontiamoci, tutti noi, con l’ecorealismo.

FONTE: https://www.carlopelanda.com/articolo/3263

 

 

 

SCIENZE TECNOLOGIE

Mark Zuckerberg vuole trasformare Facebook in una “azienda del metaverso” Cosa significa?

Daniel Broby

theconversation.com

Mark Zuckerberg vuole reinventare Facebook. Continua a dire agli analisti e ai giornalisti di volere che l’azienda faccia da pioniere verso un Internet completamente diverso. Ha affermato:

“Nei prossimi anni, mi aspetto che la gente passerà dal considerarci principalmente come una società di social media a considerarci come un’azienda del metaverso … Per molti aspetti il metaverso è la massima espressione della tecnologia sociale.”

Allora, cosa intende l’amministratore delegato di Facebook con “azienda del metaverso”? E come sarà l’azienda se e quando arriverà a ciò?

Le origini

Il termine “metaverso” viene usato per descrivere la visione di un internet trasformato in un mondo virtuale. L’idea era stata concettualizzata per la prima volta nel 1992 dallo scrittore americano Neal Stephenson nel suo classico di fantascienza, Snow Crash. Prevedeva internet come uno spazio vitale virtuale in 3D, dove gli individui entrano ed escono, interagendo tra loro in tempo reale.

Sono in molti nella Silicon Valley a considerare il metaverso come il futuro. Per esempio, Google è attivamente impegnato nella realtà aumentata (AR), ovvero utilizzare la tecnologia per guardare un mondo reale a cui però vengono sovrapposti oggetti digitali in 3D. E si dice che Apple stia costruendo un tipo di occhiali per sperimentare spazi virtuali.

Ma Facebook sembra il più impegnato di tutti in questa nuova idea. Nel suo sforzo di trasformare Facebook in un’azienda del metaverso, Zuckerberg sta cercando di costruire un sistema in cui le persone si muoveranno tra la realtà virtuale (VR), la realtà aumentata e anche dispositivi 2D, utilizzando all’occorrenza avatar realistici di sé stessi. In questo ambiente [le persone] lavoreranno, socializzeranno, condivideranno cose e faranno altre esperienze, mentre, forse, useranno ancora internet per alcuni compiti tradizionali, come, per esempio, effettuare ricerche

Benvenuti nel 2030

Il possedere non solo la piattaforma Facebook, ma anche WhatsApp, Instagram e il produttore di cuffie VR Oculus dà a Zuckerberg un grande vantaggio nel trasformare tutto questo in realtà. Collettivamente, questi brand danno a Facebook un numero insuperabile di potenziali clienti e tutto ciò che di importante c’è da sapere per creare un mondo virtuale e desiderabile: come le persone si comportano online, le loro personalità, gusti e antipatie, il portamento, il movimento degli occhi e persino gli stati emotivi.

Per aiutare a costruire il metaverso, gli ingegneri di Facebook dovranno trasformare in un successo [popolare] il realismo coinvolgente [dei videogame]. Immaginate un gioco per computer con 2,9 miliardi di avatar e l’intelligenza artificiale che raccoglie tutte le informazioni possibili su di essi. L’azienda ha creato una divisione chiamata Reality Labs, in cui i ricercatori stanno lavorando alla creazione della caratteristica che dovrà definire il metaverso, cioè la “presenza,” la sensazione di essere in uno spazio insieme agli altri. Non sorprende che questo team sia composto in gran parte da persone con esperienza nel campo dei videogiochi.

Facebook sta finanziando la ricerca su software che consentano attività come il “teletrasporto” in un altro luogo, come un ufficio, in modo che sembri veramente di essere lì, e anche la realizzazione di oggetti fisici veri e propri, come occhiali AR e cuffie VR allo stato dell’arte.

Le necessità del metaverso

Zuckerberg ha detto di sperare che Facebook potrà operare questa transizione entro i prossimi cinque anni, e che i dispositivi come le cuffie e gli occhiali AR saranno pronti per un uso mainstream quotidiano entro la fine del decennio.

Per avere successo, Facebook dovrà rendere la sua offerta di realtà virtuale interoperabile con i sistemi del metaverso creati da altre aziende online. Dovrà anche essere modulare, in modo che possa far fronte senza problemi al fatto che sempre più persone ne facciano parte. Queste sono proposte dispendiose, ma integrare le varie tecnologie ha un senso.

Facebook è già stato oggetto di una causa antitrust per pratiche anticoncorrenziali. L’azione legale è fallita, ma gli Stati Uniti stanno ancora lavorando su regolamenti che potrebbero costringere Facebook e gli altri giganti della tecnologia a ridimensionarsi. Chiaramente, l’azienda ha molti nemici e non hanno di certo giovato lo scandalo Cambridge Analytica, dove i dati degli utenti erano stati raccolti senza il loro consenso, e la fama di Facebook per quanto riguarda la gestione della privacy.

Creare un prodotto per il metaverso che sia completamente interoperabile con il resto del metaverso [prodotto da altre aziende] non solo potrebbe rassicurare sulle intenzioni di Facebook, ma renderebbe anche più difficile cercare di sabotarlo in futuro. Una volta diventato operativo, i concorrenti troveranno estremamente costoso creare sistemi rivali. Il sistema metaverso di Facebook diventerà sempre più apprezzato man mano che le persone entreranno a far parte della rete. Questo è l’effetto network, che ha trasformato Facebook e gli altri giganti digitali americani in aziende da mille miliardi di dollari.

Cambiare il modello di business non è una decisione facile. Con molti dei suoi clienti segregati in casa per più di un anno a causa della COVID, Facebook è andato a gonfie vele. Ha appena riportato un aumento del 57% nella vendita di pubblicità nel secondo trimestre, un aumento del 7% degli utenti attivi mensili (che sono 170 milioni in più), e un quasi raddoppio del reddito netto, arrivato a 10,4 miliardi di dollari (7,4 miliardi di sterline). Alla fine di giugno, l’azienda segnava un attivo di 64 miliardi di dollari.

Like=Guadagno

Al momento, la pubblicità domina il modello di business del social-networking di Facebook, ma la transizione ad azienda del metaverso rende valida l’ipotesi di nuove fonti di entrate. Attualmente gli utenti condividono pensieri, foto, post, attività, eventi e interessi in modo bidimensionale e senza pagare (almeno non nel senso tradizionale).

Ma gli utenti potrebbero essere disposti a pagare per la maggiore interattività che sarà disponibile nel metaverso, forse per entrare in certe aree private o per fare certe cose, come teletrasportarsi per più di pochi minuti alla volta o altro. Zuckerberg ha detto di credere che Facebook farà soldi dalla vendita di certi beni ed esperienze virtuali. In futuro pagheremo per i vestiti più eleganti dell’avatar, per esempio? O per vedere l’ultimo film in un cinema virtuale?

In questo nuovo mondo probabilmente interagiremo a vicenda ancora di più di quanto già facciamo. Questo fa capire che ci saranno ancora più opportunità di guadagno per i gatekeeper.

In sintesi, creare un mondo virtuale in modo che gli utenti possano interagire con i loro amici e familiari non è solo un’idea fantasiosa, è una necessità commerciale. Mark Zuckerberg ha creato la prima piattaforma di social media che è diventata uno standard globale. Ora sta cercando di ripetere lo stesso giochetto nella realtà virtuale.

Daniel Broby

Fonte: https://theconversation.com/
Link:
https://theconversation.com/mark-zuckerberg-wants-to-turn-facebook-into-a-metaverse-company-what-does-that-mean-165404
30.07.2021
Tradotto da NICKAL88 per comedonchisciotte.org

FONTE: https://comedonchisciotte.org/108708-2/

 

 

 

STORIA

Legami USA con la Germania Nazista…

8 09 2014

Questo articolo è stato pubblicato da Global Research l’8 giugno 2004. Mentre l’America conduce la guerra in Medio Oriente, questo articolo incisivo è frutto di ricerche accurate da parte di Jacques Pauwels fornisce una comprensione storica delle relazioni fra guerra e profitto.

Negli Stati Uniti, la Seconda Guerra Mondiale è considerata generalmente come “la buona guerra”.

In contrasto con molte delle guerre dell’America, per ammissione generale ritenute perniciose, come le Guerre Indiane, quasi dei genocidi, e come il feroce conflitto nel Vietnam, la Seconda Guerra Mondiale è largamente celebrata come una “crociata”, nella quale gli USA hanno combattuto incondizionatamente dalla parte della democrazia, della libertà e della giustizia, contro le dittature.
Non fa meraviglia che il Presidente George W. Bush ami paragonare l’attuale “guerra contro il terrorismo” con la Seconda Guerra Mondiale, insinuando che l’America ancora una volta si colloca dalla parte giusta in un conflitto apocalittico tra il Bene e il Male.
Comunque, le guerre mai hanno presentato un lato scuro e l’altro completamente candido, come Mr. Bush vorrebbe farci credere, e questo può applicarsi anche alla Seconda Guerra Mondiale. L’America certamente merita credito per il suo contributo importante alla vittoria, dopo strenua lotta, che alla fine ha arriso agli Alleati. Ma il ruolo delle imprese Americane giocato nella guerra è seccamente sintetizzato dalla dichiarazione del Presidente Roosevelt, per cui gli USA erano un “arsenale democratico”. Quando gli Americani sbarcarono in Normandia nel giugno 1944 e catturarono i primi autocarri, scoprirono che questi veicoli erano forniti di motori prodotti da industrie Americane, come la Ford e la General Motors. (1)
Quindi, era accaduto che il sistema industriale e finanziario Americano era stato utilizzato come arsenale del Nazismo.

I Fans del Führer

Fin dal momento del suo arrivo al potere, Mussolini aveva espresso una grandissima ammirazione verso il sistema delle imprese Americane in una società che aveva definito dal punto di vista statuale come “una bella e giovane rivoluzione”. (2) D’altro canto, Hitler inviava segnali eterogenei. Come le loro controparti Germaniche, gli uomini di affari Americani da molto tempo erano preoccupati per le intenzioni e i metodi di questi parvenus plebei, la cui ideologia veniva definita Nazional-Socialismo, il cui partito, esso stesso, si identificava come un partito dei lavoratori, e che parlava sinistramente di essere portatore di cambiamenti rivoluzionari. (3) Però, alcuni dei leaders di più alto profilo nel sistema d’impresa Americano, come Henry Ford, vedevano con favore e ammiravano il Führer fin dalle prime fasi. (4)
Altri ammiratori di Hitler della prima ora erano il barone della stampa Randolph Hearst e Irénée Du Pont, a capo del trust Du Pont, che secondo Charles Higham, avevano “appassionatamente seguito la carriera del futuro Führer già dagli anni Venti” e lo avevano sostenuto finanziariamente. (5)

Col passare del tempo, molti dei capitani di industria Americani impararono ad amare il Führer. Si è spesso accennato che l’attrattiva per Hitler era una questione di personalità, materia di psicologia. Si presume che le personalità autoritarie non potevano fare a meno di avere simpatia ed ammirazione per un uomo che predicava le virtù del “principio di supremazia” e metteva in pratica quello che predicava, prima nel suo partito e poi per l’intera Germania.
Sebbene citi anche altri fattori, essenzialmente è in questi termini che Edwin Black, autore del libro eccellente sotto vari aspetti “IBM e l’Olocausto”, spiega il caso del presidente dell’IBM, Thomas J. Watson, che aveva incontrato Hitler in parecchie occasioni negli anni Trenta ed era rimasto affascinato dal nuovo regime autoritario della Germania.
Ma è nel dominio della politica economica, non della psicologia, che possiamo più proficuamente capire perché il sistema economico ed industriale Americano abbia abbracciato Hitler.

Nel corso degli anni Venti, molte corporations Americane particolarmente importanti avevano goduto di considerevoli investimenti in Germania. Prima della Prima Guerra Mondiale, la IBM aveva insediato in Germania una sua filiale, la Dehomag; negli anni Venti, la General Motors aveva preso il controllo del più grosso produttore industriale di auto della Germania, la Adam Opel AG; e Ford aveva gettato le basi di un impianto succursale, più tardi noto come la Ford-Werke, a Colonia. Altre compagnie USA contraevano società strategiche con compagnie Tedesche. La Standard Oil del New Jersey — oggi Exxon — sviluppava collegamenti strettissimi con il trust Germanico IG Farben.

Dall’inizio degli anni Trenta, una élite di circa venti fra le più grandi corporations Americane, fra cui Du Pont, Union Carbide, Westinghouse, General Electric, Gillette, Goodrich, Singer, Eastman Kodak, Coca-Cola, IBM, e ITT aveva rapporti con la Germania.
Per ultimo, molti studi legali Americani, compagnie di assicurazioni e finanziarie, e banche venivano profondamente coinvolte in un’offensiva finanziaria Statunitense in Germania; fra questi, il famoso studio legale di Wall Street, Sullivan & Cromwell, e le banche J. P. Morgan e Dillon, Read and Company, così come la Union Bank di New York, di proprietà di Brown Brothers & Harriman.

La Union Bank era intimamente collegata con l’impero finanziario ed industriale del magnate Tedesco dell’acciaio Thyssen, il cui apporto finanziario aveva permesso ad Hitler di arrivare al potere. Questa banca era gestita da Prescott Bush, nonno di George W. Bush. Si suppone che anche Prescott Bush fosse un supporter entusiasta di Hitler, visto che a costui Bush travasava denaro via Thyssen, e in cambio realizzava considerevoli profitti col fare affari con la Germania Nazista; con questi profitti aveva lanciato suo figlio, più tardi divenuto Presidente degli USA, negli affari del petrolio. (6)
Le avventure Americane d’oltremare ebbero scarso successo agli inizi degli anni Trenta, visto che la Grande Depressione aveva colpito duramente, in particolare la Germania. La produzione e i profitti erano precipitati in modo pesante, la situazione politica era estremamente instabile, vi erano continuamente scioperi e scontri per le strade fra Nazisti e Comunisti, e molti temevano che il paese fosse maturo per una rivoluzione “rossa”, dello stesso stampo di quella che aveva portato al potere i Bolscevichi nella Russia del 1917.
Comunque, sostenuto dalla potenza e dal denaro degli industriali e dei banchieri Tedeschi, come Thyssen, Krupp, e Schacht, Hitler arrivava al potere nel gennaio 1933, e non solo la politica ma anche la situazione socio-economica mutava drasticamente.
Improvvisamente, le filiali Tedesche delle corporations Americane cominciarono a mietere profitti. Perché? Dopo la presa del potere da parte di Hitler, i leaders affaristici con attività in Germania trovarono a loro immensa soddisfazione che la cosiddetta rivoluzione Nazista conservava lo “status quo socio-economico”. La stigmate del fascismo Teutonico del Führer, come di ogni altra varietà di fascismo, era reazionaria di natura ed estremamente vantaggiosa per gli scopi dei capitalisti. Portato al potere dagli uomini di affari e dai banchieri Tedeschi, Hitler serviva agli interessi di questi “deleganti”. La sua principale iniziativa era stata di sciogliere i sindacati dei lavoratori e di schiacciare i Comunisti e i tanti attivisti Socialisti, sbattendoli in prigione e nei primi campi di concentramento, che erano stati appositamente impiantati per accogliere la sovrabbondanza di prigionieri politici di sinistra.
Queste spietate misure non solo rimossero il timore di un cambiamento rivoluzionario — incarnato dai Comunisti Tedeschi — ma anche castrarono la classe lavoratrice della Germania e la trasformarono in una impotente “massa di seguaci” (Gefolgschaft), per usare la terminologia Nazista, che veniva incondizionatamente messa a disposizione dei datori di lavoro, i Thyssen e i Krupp. Inoltre, le imprese Tedesche, comprese le succursali Americane, anche se non tutte, approfittarono di questa situazione e tagliarono di netto i costi del lavoro. Ad esempio, la Ford-Werke, riduceva i costi del lavoro, dal 15% del volume di affari nel 1933 a solo l’11% nel 1938. (Research Findings, 135–6)
L’impianto di imbottigliamento della Coca-Cola ad Essen accresceva in modo considerevole la sua redditività poiché, sotto il regime di Hitler, i lavoratori “erano poco più che servi ai quali era proibito non solo scioperare, ma anche cambiare lavoro, costretti a lavorare più duramente e più velocemente, mentre i loro salari erano deliberatamente tenuti ai livelli minimi.” (7)
Infatti, nella Germania Nazista, i salari effettivi si erano abbassati rapidamente, mentre i profitti in corrispondenza erano accresciuti, e non era possibile far parola alcuna di problematiche del lavoro, tanto meno cercare di organizzare uno sciopero, senza che immediatamente si scatenasse una risposta armata da parte della Gestapo, con il risultato di arresti e licenziamenti. Questo è stato il caso della fabbrica Opel della GM a Rüsselsheim, nel giugno 1936. (Billstein et al., 25) Come ha scritto dopo la guerra il professore e membro della Resistenza anti-fascista della Turingia, Otto Jenssen, i dirigenti delle imprese della Germania erano felici “che il terrore per il campo di concentramento rendesse i lavoratori Tedeschi docili e mansueti come cagnolini.” (8)
I proprietari e i managers delle corporations Americane con investimenti in Germania erano non meno incantati, e se apertamente esprimevano la loro ammirazione per Hitler — come erano usi fare il Presidente della General Motors, William Knudsen, e il boss della ITT Sosthenes Behn — questo avveniva senza alcun dubbio perché Hitler aveva risolto i problemi sociali della Germania in modo tale da creare giovamento ai loro interessi. (9)

Depressione? Quale Depressione?

Hitler si era accattivato il sistema delle corporations Americane per un’altra ragione veramente importante: aveva fatto apparire, come per magia, la soluzione al problema immenso della Grande Depressione. Il suo rimedio forniva una sorta di stratagemma Keynesiano, tramite commesse statuali per stimolare la domanda, per rimettere in moto la produzione e fare il possibile in favore delle imprese in Germania — comprese anche le imprese di proprietà straniera — per incrementare in modo assoluto i loro livelli di produzione ed acquisire un livello di redditività senza precedenti.
Però, quello che lo stato Nazista ordinava all’industria Tedesca era materiale bellico ed era piuttosto chiaro che la politica di riarmo di Hitler avrebbe portato inesorabilmente alla guerra, dato che solo il bottino risultante da una guerra vittoriosa avrebbe permesso al regime di pagare i conti enormi presentati dai fornitori.
Già di per sé, il programma di riarmo Nazista si rivelava come una meravigliosa vetrina di opportunità per le imprese fornitrici Statunitensi.
Ford pretende che la sua Ford-Werke abbia subito delle discriminazioni da parte del regime Nazista, per il fatto che la proprietà era straniera, ma ammette che per tutta la seconda metà degli anni Trenta la sua filiale di Colonia era stata “formalmente legalizzata dalle autorità Naziste…essendo la sua origine Tedesca” e quindi “con i requisiti per ricevere contratti governativi.”
Ford trasse profitto da questa opportunità, anche se le commesse del governo erano quasi esclusivamente per forniture militari. La filiale Tedesca di Ford, la Ford-Werke , che nei primi anni Trenta aveva incassato pesanti perdite, grazie ai contratti lucrativi con il governo, derivati dalla spinta Hitleriana al riarmo, vedeva un aumento spettacolare dei propri profitti annuali, dai 63.000 marchi (RM-Reichsmarks) nel 1935 a 1.287.800 RM nel 1939. (Research Findings, 21)

La fabbrica Opel della GM a Rüsselsheim, nei pressi di Mainz, mieteva un successo ancora migliore. La sua quota di mercato Tedesco dell’automobile balzava dal 35% nel 1933 a più del 50% nel 1935, e la succursale GM, che aveva perso denaro all’inizio degli anni Trenta, divenne estremamente redditizia grazie al boom economico prodotto dal programma di riarmo di Hitler.
Nel 1938 venivano registrati profitti per 35 milioni di marchi RM — quasi 14 milioni di dollari (USA). (Research Findings, 135–6; e Billstein et al., 24) (10) Nel 1939, alla vigilia della guerra, il Presidente della GM, Alfred P. Sloan, pubblicamente motivava il fatto di fare affari nella Germania di Hitler, sottolineando la natura altamente vantaggiosa delle operazioni della GM sotto il Terzo Reich. (11)

Ancora un’altra corporation Americana che aveva trovato un filone d’oro nel Terzo Reich di Hitler è stata la IBM. La sua filiale Tedesca, la Dehomag, ha fornito ai Nazisti l’apparecchiatura a schede perforate — antesignana del computer — necessaria ad automatizzare la produzione del paese, e con questo la IBM-Germany realizzava un sacco di soldi. Nel 1933, l’anno della presa del potere da parte di Hitler, la Dehomag realizzava profitti per un milione di dollari, e durante i primi anni del regime di Hitler versava alla IBM negli USA qualcosa come 4.5 milioni di dollari di dividendi.
“Nel 1938, ancora in piena Depressione, i profitti annuali si aggiravano sui 2.3 milioni di marchi RM; nel 1939 i profitti della Dehomag aumentavano in modo spettacolare a circa 4.0 milioni di marchi RM”, scrive Edwin Black. (Black, 76–7, 86–7, 98, 119, 120–1, 164, 198, and 222)

Le imprese Americane con succursali in Germania non erano le uniche a guadagnare fortune inaspettate dalle spinte di Hitler al riarmo. La Germania, in preparazione della guerra, stava immagazzinando petrolio e molto di questo petrolio veniva fornito da imprese Americane. La Texaco realizzava grandi profitti dalle vendite alla Germania Nazista, e non fa sorpresa che il suo Presidente Torkild Rieber, fosse diventato un altro dei potenti imprenditori Americani che ammiravano Hitler. Un membro dei servizi segreti Tedeschi riportava che costui era “assolutamente filo Tedesco” e “un sincero ammiratore del Führer”. Sta di fatto che Rieber era divenuto amico personale di Göring, lo czar economico di Hitler. (12)
Questo valeva anche per Ford, la cui impresa non solo produceva per i Nazisti nella stessa Germania, ma anche esportava autocarri parzialmente assemblati direttamente dagli USA in Germania. Questi veicoli venivano poi completamente assemblati nella Ford-Werke a Colonia ed erano pronti ad essere usati al momento giusto nella primavera del 1939, quando Hitler occupava la parte della Cecoslovacchia che non gli era stata ceduta nell’infame Patto di Monaco dell’anno precedente. Per giunta, negli ultimi anni Trenta, Ford aveva inviato in Germania materie prime strategiche, a volte tramite sue società consociate in paesi terzi; solo all’inizio del 1937, queste spedizioni comprendevano quasi 2 milioni di libbre di gomma e 130.000 libbre di rame. (Research Findings, 24, e 28)

Le corporations Americane facevano il pieno di denaro nella Germania Hitleriana; questa è la ragione, e non il presunto carisma del Führer, per cui i proprietari e i managers di queste imprese lo adoravano! Per contro, Hitler e i suoi compagnoni si compiacevano di molto per le performances del capitale Americano nello stato Nazista. Infatti, la produzione di materiale bellico da parte delle consociate Americane onorava e addirittura superava le aspettative della dirigenza Nazista.
Berlino pagava pronta cassa ed Hitler in persona mostrava il suo apprezzamento, assegnando prestigiose decorazioni a gente come Henry Ford, Thomas Watson della IBM, e James D. Mooney, direttore delle esportazioni della GM. Lo stock di investimenti Americani in Germania era accresciuto enormemente dopo la conquista del potere da parte di Hitler nel 1933. La motivazione principale di tutto questo era che il regime Nazista non consentiva ai profitti realizzati da imprese straniere di rientrare nelle nazioni di origine, almeno in teoria. In realtà, i centri operativi delle corporations potevano eludere questo embargo tramite stratagemmi, e così alle filiali Tedesche venivano pagate le fatture in “royalties” e con ogni sorta di “parcelle”. Ancora, le restrizioni comportavano che i profitti venivano largamente reinvestiti all’interno del paese delle grandi opportunità, che a quel tempo la Germania dimostrava di essere, per esempio nella modernizzazione di impianti esistenti, nella costruzione o nell’acquisizione di nuove fabbriche e nell’acquisto di obbligazioni del Reich e di beni immobili.
Così, la IBM reinvestiva i suoi considerevoli guadagni in una nuova fabbrica a Berlino-Lichterfelde, in un allargamento delle sue strutture a Sindelfingen, vicino Stoccarda, in numerosi uffici succursali in tutto il Reich, e nell’acquisto di appartamenti a Berlino, di altre proprietà immobiliari e di strutture per attività materiali. (Black, 60, 99, 116, e 122–3)
Conseguentemente a queste circostanze, il valore del capitale di IBM in Germania era aumentato in modo considerevole, e alla fine del 1938 il valore netto della Dehomag era raddoppiato, dai 7.7 milioni di marchi RM del 1934 ad oltre i 14 milioni di marchi RM. (Black, 76–7, 86–7, 98, 119–21, 164, 198, and 222)
Negli anni Trenta, il valore delle proprietà complessive della Ford-Werke cresceva come i funghi, dai 25.8 milioni di marchi RM del 1933 ai 60.4 milioni di marchi RM del 1939. (Research Findings, 133)
Sotto Hitler, gli investimenti Americani in Germania continuarono ad espandersi, e al tempo di Pearl Harbor ammontavano a circa 475 milioni di dollari. (Research Findings, 6) (13)

Meglio Hitler di “Rosenfeld”

Per tutti i “tempestosi anni Trenta” i profitti delle imprese negli USA si erano mantenuti sul depresso; le società come la GM e Ford potevano solo sognarsi di realizzare in patria il genere di ricchezze che le loro affiliate in Germania stavano realizzando grazie a Hitler. Inoltre, in casa, il sistema imprenditoriale Americano stava vivendo problemi con attivisti sindacali, Comunisti, e altri radicali. Cosa pensavano i nervosi detentori di questi marchi di fabbrica della personalità e del regime del Führer? I leaders delle imprese Americane subivano per questo qualche turbamento? All’apparenza non molto, se non proprio affatto. Ad esempio, l’odio razziale profuso da Hitler non offendeva eccessivamente la loro sensibilità. Dopo tutto, il razzismo contro i non-Bianchi rimaneva sistemico in tutti gli Stati Uniti e l’anti-Semitismo era comune nella classe imprenditoriale. Nei clubs esclusivi e negli hotels di gran classe patrocinati dai capitani di industria, gli Ebrei vi erano raramente ammessi; e molti alti dirigenti delle imprese Americane si dichiaravano apertamente anti-Semiti. (14)

Agli inizi degli anni Venti, Henry Ford fece pubblicare un libro virulentemente anti-Semita, “L’Internazionale Giudea”, che veniva tradotto in molte lingue; Hitler ne lesse la versione Tedesca e in seguito ammise che il testo gli aveva fornito ispirazione ed incoraggiamento. Un altro magnate Americano, notoriamente anti-Semita, era Irénée Du Pont, anche se la famiglia Du Pont aveva avuto antenati Ebrei. (15) L’anti-Semitismo del sistema imprenditoriale Americano assomigliava fortemente a quello di Hitler, il cui punto di vista sull’Ebraismo era interconnesso intimamente con il suo giudizio sul Marxismo, come Arno J. Mayer ha argomentato in modo convincente nel suo libro “Why Did the Heavens not Darken – Perché il Cielo non si è oscurato?” (16)

Hitler dichiarava di essere un socialista, ma era sottinteso che il suo era un socialismo “nazionale”, un socialismo solo per i Tedeschi di razza pura. Quanto all’autentico socialismo, che predicava la solidarietà internazionale fra le classi lavoratrici e trovava la sua ispirazione nell’opera di Karl Marx, questo veniva disprezzato da Hitler come un’ideologia Giudaica che si proponeva di rendere schiavi o addirittura annullare i Tedeschi e gli altri “Ariani”. Hitler detestava come “Giudaiche” tutte le forme di Marxismo, ma nessuna più del Comunismo (o “Bolscevismo”) e denunciava l’Unione Sovietica come patria del socialismo “Giudaico” internazionale.
Negli anni Trenta, con le stesse modalità, l’anti-Semitismo del sistema imprenditoriale Americano si manifestava come l’altra faccia della medaglia dell’anti-socialismo, anti-Marxismo, e del disprezzo dei rossi. Molti uomini d’affari Americani condannavano pubblicamente il New Deal di Roosevelt come un’interferenza “socialistica” in economia. Gli anti-Semiti del sistema imprenditoriale Americano consideravano Roosevelt come un cripto-Comunista ed un agente degli interessi degli Ebrei, se non addirittura di essere lui stesso un “Giudeo”; di routine si faceva riferimento a lui come “Rosenfeld”, e il suo New Deal veniva storpiato con “Jew (Giudeo) Deal”. (17)

Nel suo libro“ The Flivver King”, Upton Sinclair ha descritto l’anti-Semita dichiarato Henry Ford come sognante un movimento fascista Americano, che “si impegnava nel paese ad abbattere i Rossi e a preservare gli interessi padronali; ad estromettere il Bolscevico [Roosevelt] dalla Casa Bianca e tutti i suoi professori progressisti dalle cariche di governo… [e] a considerare un illecito penale degno della fucilazione il parlare di comunismo o la proclamazione di uno sciopero.” (18)
Anche altri magnati Americani desideravano ardentemente un Salvatore fascista che potesse sbarazzare l’America dai “Rossi” e quindi ridonarle prosperità e redditività. Du Pont forniva generosi contributi finanziari per sostenere le organizzazioni fasciste presenti negli Stati Uniti, come la famigerata “Black Legion – la Legione Nera”, ed era anche coinvolto nei piani di un colpo di stato fascista a Washington. (Hofer and Reginbogin, 585–6)(19)

Perché preoccuparsi per la Guerra Incombente?

Era del tutto ovvio che Hitler, riarmando la Germania fino ai denti, prima o dopo avrebbe scatenato un grave conflitto. Potessero avere avuto i capitani di industria Americani qualche timore a riguardo, presto le loro apprensioni venivano fugate, visto che negli anni Trenta gli esperti di diplomazia internazionale e di economia, senza eccezioni, si aspettavano che Hitler avrebbe risparmiato i paesi occidentali, e avrebbe attaccato e distrutto l’Unione Sovietica, come promesso nel “Mein Kampf”. Ad incoraggiarlo e a sostenerlo in questa impresa, che egli considerava la grande missione della sua vita, (20) veniva il segreto obiettivo dell’infame politica di acquiescenza perseguita da Londra e Parigi, e tacitamente approvata da Washington. (21)

I leaders del sistema imprenditoriale in tutti i paesi occidentali, più nettamente negli USA, detestavano l’Unione Sovietica, poiché questo stato era la culla dell’ “antisistema” comunista in contrapposizione all’ordine capitalista internazionale e una fonte di ispirazione per gli stessi “rossi” Americani. Inoltre, trovavano particolarmente offensivo che la patria del comunismo non fosse caduta preda della Grande Depressione, ma sperimentasse una rivoluzione industriale, che in seguito è stata favorevolmente paragonata dallo storico Americano John H. Backer al tanto decantato “miracolo economico” della Germania Ovest dopo la Seconda Guerra Mondiale. (22)

La politica di pacificazione e di acquiescenza era un progetto ambiguo, i cui reali obiettivi dovevano essere celati all’opinione pubblica della Gran Bretagna e della Francia. In modo spettacolare si ottenne un effetto contrario, dato che i contorcimenti di questa politica alla fine resero Hitler diffidente verso le effettive intenzioni di Londra e Parigi, e lo indussero a sottoscrivere un accordo con Stalin, e lo portarono a scatenare la guerra della Germania contro la Francia e la Gran Bretagna, piuttosto che contro l’Unione Sovietica.
Tuttavia, il sogno di una crociata Tedesca contro l’Unione Sovietica comunista nell’interesse dell’Occidente capitalistico non rinunciò a morire. Londra e Parigi scatenarono semplicemente una “Guerra Fasulla” contro la Germania, sperando che Hitler alla fine si sarebbe rivolto contro l’Unione Sovietica. Questa era anche l’idea che informava le missioni quasi-ufficiali a Londra e a Berlino intraprese da James D. Mooney della GM, che cercava insistentemente — come aveva fatto l’ambasciatore USA a Londra, Joseph Kennedy, padre di John F. Kennedy — di convincere i dirigenti della Germania e della Gran Bretagna ad appianare i loro inopportuni conflitti, in modo che Hitler potesse dedicare la sua completa attenzione al suo grande “Progetto Orientale”.
In un incontro con Hitler nel marzo 1940, Mooney lanciava un appello di pace per l’Europa Occidentale, dichiarando che “gli Americani erano comprensivi del punto di vista Tedesco rispetto alla questione dello spazio vitale” — in altre parole, che loro non avevano nulla in contrario rispetto alle pretese territoriali Tedesche nei riguardi dell’Est Europeo. (Billstein et al., 37–44) (23)
Queste iniziative Americane, comunque, non avrebbero prodotto i risultati sperati. Senza ombra di dubbio, i proprietari e i managers delle corporations Statunitensi con filiali in Germania si rammaricarono che la guerra scatenata da Hitler nel 1939 fosse una guerra contro l’Occidente, ma in ultima analisi questo rammarico si palesava non più che tanto. Quello che era di sicura importanza consisteva in questo: aiutare Hitler a preparare la guerra significava fare buoni affari e la guerra stessa apriva, ancor di più, prospettive inimmaginabili di fare affari e realizzare profitti.

Imporre il Blitz alla Guerra Lampo

I successi militari della Germania del 1939 e del 1940 si fondavano su una nuova ed estremamente mobile forma di muovere guerra, la Blitzkrieg, la Guerra Lampo, che consisteva di attacchi estremamente rapidi e altamente sincronizzati dall’aria e per terra.
Per intraprendere la Guerra Lampo, Hitler necessitava di macchine belliche, carri armati, autocarri, aeroplani, carburanti ed oli per motori, benzina, gomma e sistemi di comunicazione sofisticati per assicurare agli Stukas di colpire in tandem con i Panzers. Molto di questo equipaggiamento veniva fornito da imprese Americane, soprattutto dalle affiliate Tedesche delle grandi corporations Americane, ma molto veniva anche importato dagli Stati Uniti, sebbene solitamente attraverso paesi terzi. Senza questo tipo di supporto Americano, nel 1939 e nel 1940 il Führer poteva solo sognarsi di “guerre lampo”, seguite da “vittorie lampo”. La maggior parte dei mezzi da trasporto e degli aeroplani di Hitler venivano prodotti dalle filiali Tedesche della GM e della Ford. Alla fine degli anni Trenta queste imprese avevano gradualmente rimosso la produzione civile per impegnarsi esclusivamente sullo sviluppo di apparecchiature militari per l’esercito e per l’aviazione militare della Germania.
Questo mutamento, richiesto— se non ordinato — dalle autorità Naziste, non solo era stato approvato, ma anche attivamente incoraggiato dai centri direzionali delle imprese negli USA. La Ford-Werke a Colonia procedeva non solo a fabbricare senza limiti mezzi di trasporto per materiali ed uomini, ma anche macchinari bellici e parti di ricambio per la Wehrmacht. La nuova fabbrica Opel della GM nel Brandenburgo avviava la produzione degli autocarri “Blitz” per la Wehrmacht, mentre la fabbrica principale a Rüsselsheim produceva principalmente per la Luftwaffe, assemblando aeroplani come lo JU-88, il cavallo di battaglia della flotta di bombardieri della Germania. Ad un certo punto, la GM e Ford insieme si aggiudicavano non meno della metà dell’intera produzione Tedesca di carri armati. (Billstein et al., 25,) (24)
Intanto la ITT aveva acquisito la quarta parte dei titoli azionari della fabbrica di aeroplani Focke-Wulf, e così contribuiva alla costruzione di aerei da combattimento. (25) Forse i Tedeschi avrebbero potuto assemblare veicoli ed aerei senza l’assistenza Americana. Ma la Germania necessitava disperatamente di materie prime strategiche, come gomme e petrolio, che erano indispensabili a combattere una guerra che si basava sulla mobilità e la velocità. Le corporations Statunitensi andarono in soccorso.
Come abbiamo fatto menzione in precedenza, la Texaco aiutava i Nazisti ad immagazzinare carburanti. Per giunta, quando in Europa la guerra era sul punto di scoppiare, grandi quantità di gasolio, oli lubrificanti, e altri prodotti petroliferi venivano spedite via mare in Germania non solo dalla Texaco ma anche dalla Standard Oil, specialmente attraverso i porti della Spagna. (Fra l’altro, la Flotta Tedesca veniva rifornita di carburante dal petroliere Texano William Rhodes Davis.) (26) Negli anni Trenta, la Standard Oil aveva assistito la IG Farben nello sviluppo di carburanti sintetici come alternativa al petrolio naturale, di cui la Germania doveva importare anche una singola goccia. (Hofer and Reginbogin, 588–9)
Albert Speer, l’architetto di Hitler e Ministro degli Armamenti per il tempo di guerra, dopo il conflitto dichiarava che senza certi tipi di carburante sintetico realizzati con l’aiuto delle industrie Americane, Hitler “non avrebbe mai preso in considerazione l’invasione della Polonia”. (27) Questo valeva per i Focke-Wulfs e per altri aerei veloci da combattimento Tedeschi, che non avrebbero potuto acquisire la loro implacabile velocità senza un additivo nel loro carburante, il piombo tetraetile di sintesi; i Tedeschi stessi, in seguito, ammisero che senza il piombo tetraetile il concetto globale di Blitzkrieg sarebbe risultato inconcepibile.
Questo magico ingrediente era stato sintetizzato da una impresa, la Ethyl GmbH, una affiliata del trio formato da Standard Oil, da IG Farben, partner Tedesca della Standard, e da GM. (Hofer and Reginbogin, 589) (28)
La guerra lampo, la “Blitzkrieg”, prevedeva attacchi da terra e dall’aria perfettamente sincronizzati, e questo richiedeva un sistema di strutture per le comunicazioni altamente sofisticato. La filiale Tedesca della ITT forniva la maggior parte della strumentazione, mentre l’altro stato-dell’-arte tecnologica essenziale agli scopi della Guerra Lampo faceva l’onore della IBM, attraverso la sua filiale Tedesca, la Dehomag. Secondo Edwin Black, il know-how della IBM permetteva alla macchina bellica Nazista di “acquisire dimensioni, velocità ed efficienza”; e concludeva che “la IBM aveva apportato il “lampo” alla guerra della Germania Nazista.” (Black, 208)
Secondo le prospettive del sistema delle imprese Americane non era una catastrofe che la Germania dall’estate del 1940 avesse stabilito la sua supremazia sul continente Europeo.
Molte affiliate Tedesche delle imprese Americane — ad esempio la Ford-Werke e l’impianto di imbottigliamento della Coca-Cola ad Essen — andavano espandendosi nei paesi occupati, approfittando delle vittorie della Wehrmacht. Il Presidente della IBM, Thomas Watson, era sicuro che la sua associata Tedesca avrebbe conseguito vantaggi dai trionfi Hitleriani.
Black scrive: “Come molti uomini di affari Statunitensi, Watson confidava che la Germania sarebbe rimasta egemone in Europa, e che la IBM avrebbe beneficiato di questo, con il predominio sui centri di calcolo e di elaborazione dei dati, fornendo alla Germania gli strumenti tecnologici per un controllo globale.” (Black, 212)
Il 26 giugno 1940, una delegazione commerciale Tedesca organizzava una colazione di lavoro al Waldorf-Astoria Hotel di New York per applaudire alle vittorie dell’Esercito Tedesco nell’Europa Occidentale. Molti importanti industriali presenziarono, compreso James D. Mooney, direttore responsabile delle operazioni Tedesche della GM. Cinque giorni più tardi, sempre a New York, venivano nuovamente celebrate le vittorie Tedesche, questa volta ad un party offerto dal filo-fascista Rieber, boss della Texaco. Fra i leaders delle imprese Americane erano presenti James D. Mooney e il figlio di Henry Ford, Edsel. (29)

Che guerra meravigliosa!

Il Millenovecentoquaranta costituì un anno particolarmente vantaggioso per le imprese Americane. Le filiali in Germania non solo partecipavano al bottino dei trionfi di Hitler, ma il conflitto Europeo stava generando altre meravigliose opportunità. La stessa America stava preparandosi ora per una possibile guerra, e da Washington cominciavano a scorrere commesse per automezzi, carri armati, aeroplani e navi. Inoltre, inizialmente su rigide basi di “cash-and-carry” (vendite con pagamento in contanti) e poi attraverso “Lend-Lease”, (contratti di leasing coperti da prestito obbligazionario), il Presidente Roosevelt permetteva all’industria Statunitense di rifornire la Gran Bretagna di strutture militari e di altre attrezzature, consentendo così alla coraggiosa piccola Albione di continuare indefinitamente la guerra contro Hitler.
Alla fine del 1940, tutte le nazioni belligeranti, come pure quelle neutrali, ma armate, come gli USA stessi, si stavano imbottendo di armamenti messi in campo dalle industrie del sistema imprenditoriale Americano, qualunque fosse l’area del loro insediamento, in Gran Bretagna (dove Ford et al., avevano anche loro affiliate) o nella Germania. In verità si trattava di una guerra meravigliosa, e più a lungo durava meglio era — dal punto di vista del sistema delle imprese Americano!
Questo sistema non desiderava che Hitler perdesse questa guerra, ma nemmeno che la vincesse; infatti desiderava solo che la guerra durasse più a lungo possibile. Inizialmente, Henry Ford si era rifiutato di produrre armamenti per la Gran Bretagna, ma ora aveva cambiato musica. Secondo il suo biografo, David Lanier Lewis, egli “esprimeva la speranza che ne’ gli Alleati ne’ l’Asse risultassero vincitori”, e proponeva che gli USA dovessero rifornire sia gli Alleati che le potenze dell’Asse con “armamenti che consentissero di combattere fino al collasso di entrambe le parti”. (30)

Il 22 giugno1941 la Wehrmacht attraversò a valanga il confine Sovietico, forte dell’equipaggiamento e delle attrezzature della Ford e della GM, dotata di armamenti prodotti in Germania dal capitale e dal know-how Americano.
Mentre molti leaders delle imprese Americane speravano che i Nazisti e i Sovietici rimanessero avvinghiati quanto più a lungo possibile in una guerra che avrebbe dovuto debilitarli entrambi, (31) e quindi il prolungarsi della guerra in Europa avrebbe procurato solo profitti, gli esperti a Washington e a Londra prevedevano che i Sovietici sarebbero stati schiacciati, “come un uovo”, dalla Wehrmacht. (32) L’USSR, comunque, divenne il primo paese a contrastare la Guerra Lampo, fino ad arrestarla.
E il 5 dicembre 1941, l’Armata Rossa addirittura lanciava una controffensiva. (33) Da allora in poi risultava evidente che i Tedeschi avrebbero dovuto preoccuparsi in modo notevole sul Fronte Orientale, cosa che avrebbe permesso anche agli Inglesi di continuare l’impegno bellico, e agli affari redditizi Lend-Lease di continuare senza limiti di tempo. La situazione divenne ancora di più vantaggiosa per il sistema delle imprese Americano, quando apparve che gli affari potevano da quel momento essere fatti anche con i Sovietici. Infatti, nel novembre 1941, quando era già chiaro che l’Unione Sovietica non sarebbe arrivata al crollo, Washington si accordò per estendere il credito a Mosca, e concluse un accordo Lend-Lease con l’USSR, fornendo così alle grandi imprese Americane un ulteriore mercato per i loro prodotti.

Aiuti Americani ai Sovietici…e ai Nazisti

Dopo la guerra, sarebbe divenuto di uso comune in Occidente affermare che il successo inaspettato dei Sovietici contro la Germania Nazista era stato possibile grazie all’assistenza massiccia degli Americani, fornita nei termini di un accordo Lend-Lease tra Washington e Mosca, e che senza questo aiuto l’Unione Sovietica non sarebbe sopravvissuta all’aggressione Nazista. Questa affermazione è poco attendibile!
Primo, l’assistenza materiale Americana, prima del 1942, era quasi completamente insignificante, cioè, ben dopo che i Sovietici senza l’aiuto di nessuno avevano posto fine all’avanzata della Wehrmacht e avevano scatenato la loro prima controffensiva.
Secondo, l’aiuto Americano non andò mai oltre al quattro o cinque per cento della produzione totale Sovietica del tempo di guerra, sebbene si debba ammettere che anche questo magro contributo poteva in qualche modo risultare cruciale in una situazione critica.
Terzo, gli stessi Sovietici dettero l’avvio alla produzione di tutti gli armamenti leggeri e pesanti di alta qualità — come il carro armato T-34, probabilmente il miglior tank della Seconda Guerra Mondiale — che avevano consentito il loro successo contro la Wehrmacht, data per vincente. (34) Per ultimo, il tanto pubblicizzato aiuto Lend-Lease fornito all’USSR veniva in larga misura neutralizzato — e possiamo dire vanificato — dall’assistenza non ufficiale, discreta, ma veramente importante fornita ai Tedeschi, nemici dei Sovietici, dalle fonti delle imprese Americane. Nel 1940 e 1941, le compagnie petrolifere Americane avevano aumentato le loro esportazioni di petrolio verso la Germania, quantità rilevanti venivano inviate alla Germania Nazista attraverso stati neutrali, realizzando forti profitti.

La percentuale Americana delle importazioni Tedesche di olio per la lubrificazione dei macchinari (Motorenöl), assolutamente indispensabile, aumentò rapidamente, dal 44% del luglio 1941 al 94% nel settembre 1941. Secondo lo storico Tedesco Tobias Jersak, un’autorità nel campo dei “carburanti per il Führer” Americani, senza il carburante fornito dagli USA l’aggressione Tedesca contro l’Unione Sovietica non sarebbe stata possibile. (35)
Hitler stava ancora rimuginando sulle notizie catastrofiche della controffensiva Sovietica e sulla disfatta della Guerra Lampo nell’Europa Orientale, quando veniva a sapere che i Giapponesi, a sorpresa, avevano lanciato un attacco su Pearl Harbor, il 7 dicembre 1941. Gli USA ora entravano in guerra contro il Giappone, ma Washington non aveva alcuna intenzione di dichiarare guerra alla Germania.
Hitler non aveva nessun obbligo di correre in aiuto dei suoi amici Giapponesi, ma l’11 dicembre 1941 dichiarava guerra agli Stati Uniti, probabilmente aspettandosi — vanamente, visto quello che avvenne — che il Giappone a sua volta dichiarasse guerra all’Unione Sovietica. La non necessaria dichiarazione di guerra di Hitler, accompagnata da una risibile dichiarazione di guerra Italiana, trasformarono gli USA in un partecipante attivo alla guerra in Europa.
Questo, come influenzò le attività Tedesche delle grandi corporations Americane? (36)

Affari, come sempre!

Le affiliate Tedesche delle corporations Americane non venivano assolutamente confiscate dai Nazisti e non veniva rimosso il completo controllo di queste imprese sussidiarie da parte delle case madri, fino alla disfatta della Germania nel 1945, al di là di come le società capogruppo avrebbero affermato dopo la guerra. Ad esempio, rispetto alle strutture della Ford e della GM, l’esperto Tedesco Hans Helms dichiara, “neppure una volta, durante il loro regime di terrore, i Nazisti si sono impegnati in un tentativo anche il più insignificante di variare la situazione proprietaria della Ford, cioè della Ford-Werke, o della Opel” . (37) Neppure dopo Pearl Harbor, a Ford veniva requisito il 52% delle azioni della Ford-Werke a Colonia, e la GM rimaneva l’unica proprietaria della Opel. (Billstein et al., 74, e 141)
In più, i proprietari e i dirigenti Americani conservarono una dimensione di controllo a volte considerevole sulle loro affiliate Tedesche, anche dopo la dichiarazione di guerra della Germania contro gli USA. Esistono risultanze che le centrali delle imprese negli USA e le loro filiali in Germania rimasero in contatto le une con le altre, o indirettamente via filiali nella Svizzera neutrale, o direttamente tramite la rete mondiale dei sistemi moderni di comunicazioni. Quest’ultima veniva fornita dalla ITT in collaborazione con Transradio, una joint venture fra la stessa ITT con la RCA (un’altra corporation Americana) e le imprese Tedesche Siemens e Telefunken. (38)

In un recente documento sulle sue attività nella Germania Nazista, Ford dichiara che, dopo Pearl Harbor, la sua centrale direzionale a Dearborn non teneva più contatti diretti con la sua affiliata Tedesca. Per quel che concerne la possibilità di comunicazioni via società consociate presenti in paesi neutrali, il documento afferma che “non esistono indicazioni di comunicazioni fra le centrali USA e le filiali in Germania tramite loro consociate nei paesi neutrali”. (Research Findings, 88)
Comunque, la mancanza di tali “indicazioni” significa semplicemente che ogni prova di contatti può essere stata smarrita o distrutta prima che gli autori del documento permettessero l’accesso agli specifici archivi; dopo tutto, l’accesso a questi archivi è stato concesso solamente più di 50 anni dopo gli accadimenti. Inoltre, lo stesso documento mette in evidenza un elemento contraddittorio, che un alto dirigente della Ford-Werke aveva fatto un viaggio nel 1943 a Lisbona per una visita alla filiale Portoghese della Ford, ed è estremamente improbabile che a Dearborn non fossero al corrente di questo. Questo vale anche per la IBM: Edwin Black scrive che durante la guerra il general manager della IBM per l’Europa, l’Olandese Jurriaan W. Schotte, veniva insediato nella centrale operativa a New York, dove egli “continuava a mantenere regolarmente rapporti diretti con le filiali della IBM in territorio Nazista, come nella sua patria di origine, l’Olanda, e in Belgio”. Quindi, la IBM poteva “tenere sotto controllo gli eventi ed esercitare la sua autorità in Europa attraverso le filiali situate nelle nazioni neutrali,” e in modo particolare attraverso le sue diramazioni Svizzere a Ginevra, il cui direttore, di nazionalità Svizzera,“viaggiava liberamente in, e dalla, Germania, nei territori occupati e nei paesi neutrali”.
Infine, come per molte altre grandi imprese USA, la IBM poteva anche affidarsi ai diplomatici Americani presenti nei paesi occupati e neutrali per inviare messaggi tramite valigia diplomatica. (Black, 339, 376, and 392–5)
I Nazisti, non solo permettevano ai proprietari Americani di conservare le loro strutture e le loro filiali in Germania e di esercitarne anche in una certa misura il controllo amministrativo, ma la loro influenza, ad esempio nella conduzione della Opel e della Ford-Werke, rimaneva minima.
Dopo la dichiarazione di guerra della Germania contro gli USA, i membri della dirigenza Americana certamente si ritirarono dalle scene, ma i managers presenti in Germania — che riscuotevano la fiducia dei capi negli Stati Uniti — in genere conservarono le loro posizioni autorevoli e continuarono a condurre gli affari, perciò tenendo sempre presenti gli interessi delle case madri delle imprese e degli azionisti Americani.

Per quel che riguarda la Opel, il quartier generale della GM negli USA aveva mantenuto l’effettivo controllo totale sui dirigenti a Rüsselsheim; questo scrive lo storico Americano Bradford Snell, che negli anni Settanta ha dedicato la sua attenzione a questo tema, ma i cui riscontri sono stati contestati da GM. Un recente studio della ricercatrice Tedesca Anita Kugler conferma il resoconto di Snell, fornendo maggiori dettagli e maggiori sfumature al quadro presentato. Dopo la dichiarazione di guerra della Germania contro gli USA, la Kluger scrive che i Nazisti assolutamente non crearono difficoltà alla dirigenza della Opel. Solo il 25 novembre 1942 Berlino nominava un “servizio di controllo alle strutture produttive del nemico”, ma il significato di questa procedura risultò essere puramente simbolico. I Nazisti semplicemente desideravano assegnare un’immagine Tedesca ad un’impresa che sarà posseduta al 100% dalla GM per tutto il corso della guerra. (Billstein et al., 61)
Presso la Ford-Werke, Robert Schmidt, certamente un fervente Nazista, durante la guerra operava come general manager, e le sue prestazioni erano tanto soddisfacenti sia per le autorità di Berlino che per i dirigenti della Ford in America. Messaggi di approvazione e congratulazioni, recanti la firma di Edsel Ford, gli venivano regolarmente recapitati dalla casa madre della Ford a Dearborn.
I Nazisti erano veramente deliziati dal lavoro di Schmidt; in opportuna occasione lo avevano gratificato del titolo di “leader nel campo dell’economia militare”. Perfino quando, mesi dopo Pearl Harbor, erano stati imposti controlli a sovrintendere gli impianti della Ford a Colonia, Schmidt aveva conservato le sue prerogative e la sua libertà di azione. (39) Allo stesso modo, l’esperienza in tempo di guerra per la IBM sotto controllo dell’Asse in Germania, Francia, Belgio, e in altri paesi risultava ben lontana dall’essere traumatica.
I Nazisti erano molto meno interessati alla nazionalità dei proprietari o all’identità dei managers che alla produzione, visto che, dopo il fallimento della loro strategia di Guerra Lampo nell’Unione Sovietica, stavano sperimentando la necessità sempre crescente di una produzione massiccia di aerei e di mezzi da trasporto.

Dal momento in cui Henry Ford aveva aperto la strada all’impiego della catena di montaggio e ad altre tecniche “Fordiste”, le imprese Americane erano divenute leaders nel campo della produzione industriale di massa, e le affiliate Statunitensi in Germania, inclusa la sussidiaria Opel della GM, non facevano eccezione a questa regola generale. I pianificatori Nazisti, come Göring e Speer, avevano ben compreso che radicali cambiamenti nel management della Opel potevano ostacolare la produzione nel Brandenburgo e a Rüsselsheim. Per mantenere il rendimento della Opel ad alti livelli, ai managers in carica veniva concesso di andare avanti, dato che avevano familiarità con i metodi di produzione Americani particolarmente efficienti. Anita Kugler conclude che l’Opel, “aveva messo a disposizione dei Nazisti la sua produzione totale e quindi — obiettivamente parlando — aveva contribuito ad accrescere le loro possibilità di condurre la guerra per un lungo periodo di tempo”. (Billstein et al., 81) (40)

Esperti ritengono che le migliori innovazioni tecnologiche della GM e della Ford per scopi bellici principalmente siano andate a tutto vantaggio delle loro filiali nella Germania Nazista.
Ad esempio, citano gli autocarri della Opel con tutte le ruote motrici, che si erano rivelati particolarmente utili ai Tedeschi nel fango del Fronte Orientale e nei deserti del Nord Africa, così come i motori per il nuovo ME-262, il primo caccia a reazione, che veniva assemblato sempre dalla Opel a Rüsselsheim. (41)
Lo stesso vale per la Ford-Werke: nel 1939 questa industria aveva sviluppato un autocarro all’avanguardia — il Maultier (“mulo”) — che aveva ruote cingolate sulla parte frontale e un rimorchio nella parte posteriore. Inoltre la Ford-Werke aveva creato una “società di copertura”, la Arendt GmbH, per produrre equipaggiamento bellico, oltre a veicoli, e, nello specifico, parti lavorate per aeroplani. Ma Ford afferma che questo era stato fatto senza che a Dearborn si fosse a conoscenza o lo si approvasse.
Verso la fine della guerra, questa fabbrica veniva coinvolta nello sviluppo top-secret di turbine per gli scellerati missili V-2 che avevano procurato devastazioni su Londra e Anversa. (Research Findings, 41–2)
La ITT continuava a fornire alla Germania sistemi avanzati per le comunicazioni anche dopo Pearl Harbor, a detrimento degli stessi Americani, il cui codice cifrato diplomatico era stato decifrato dai Nazisti tramite questa strumentazione. (42) Fino alla fine totale della guerra, le strutture produttive della ITT in Germania, come pure in paesi neutrali come la Svezia,la Svizzera e la Spagna, fornivano alle forze armate Tedesche congegni bellici di avanguardia.
Charles Higham entra nei particolari: dopo Pearl Harbor, l’esercito, la marina e l’aviazione Tedesca hanno stipulato contratti con la ITT per la fabbricazione di centraline telefoniche, telefoni, suonerie d’allarme, gavitelli, dispositivi d’allarme di attacchi aerei, strumentazione radar, trentamila spolette al mese per proiettili d’artiglieria…, che arrivavano a cinquantamila al mese nel 1944. Per giunta, la ITT forniva componenti per le bombe-razzo che cadevano su Londra, celle al selenio per raddrizzatori a secco, strumentazione radio ad alta frequenza, e apparecchi per le comunicazioni e per il rafforzamento di campo. Senza queste forniture di materiali cruciali sarebbe stato impossibile per l’aviazione Tedesca eliminare truppe Americane e Britanniche, per l’esercito Tedesco combattere contro gli Alleati, per l’Inghilterra venire bombardata, o per le navi degli Alleati venire attaccate sul mare. (43)

Allora, non sorprende che le sussidiarie Tedesche delle imprese Americane fossero considerate come “pionieri dello sviluppo tecnologico” da parte dei pianificatori nei Ministeri Economici del Reich della Germania e di altre autorità Naziste coinvolte nello sforzo bellico. (44)
Inoltre, Edwin Black afferma che la tecnologia avanzata della IBM, relativa alla perforazione delle schede, che ha preceduto il computer, ha permesso ai Nazisti di automatizzare la persecuzione. La IBM, presumibilmente, aveva consentito la valutazione degli inimmaginabili numeri dell’Olocausto, perché aveva fornito al regime di Hitler di macchine calcolatrici e di altri strumenti che venivano utilizzati per “generare le liste degli Ebrei e delle altre vittime, che venivano designate alla deportazione” e “per registrare i detenuti dei campi di concentramento e di seguire il lavoro schiavile”. (Black, xx) Comunque, i critici della ricerca di Black sostengono che i Nazisti avrebbero potuto acquisire la loro efficienza di sterminio senza l’apporto della tecnologia IBM.
In ogni modo, il caso della IBM fornisce ancora un altro esempio di come le corporations USA abbiano procurato ai Nazisti tecnologia avanzata e chiaramente non si sono curate troppo a quali scopi malvagi questa tecnologia sarebbe stata applicata.

Il profitto über Alles; il profitto innanzitutto!

I proprietari e i managers delle imprese case madri negli USA si preoccupavano poco di quali prodotti venivano sviluppati e prodotti dalle catene di montaggio Tedesche. Quello che contava per loro e per i detentori delle loro azioni era solamente il profitto. Le affiliate delle corporations Americane in Germania realizzavano considerevoli guadagni durante il conflitto, e questo denaro non veniva intascato dai Nazisti. Per quel che concerne la Ford-Werke, sono disponibili dati precisi.
I profitti della filiale Tedesca di Dearborn aumentavano da 1.2 milioni di Marchi Tedeschi (RM) nel 1939 a 1.7 milioni di RM nel 1940, a 1.8 milioni di RM nel 1941, a 2.0 milioni di RM nel 1942, e a 2.1 milioni di RM in 1943. (Research Findings, 136). (45)
Anche le filiali della Ford nella Francia occupata, in Olanda e nel Belgio, dove il gigantesco sistema delle imprese Americane forniva un contributo industriale allo sforzo bellico Nazista, vedevano ugualmente realizzarsi successi straordinari. Ad esempio, la Ford-France, — che prima della guerra non era una struttura troppo fiorente —, divenne veramente redditizia dopo il 1940, grazie alla sua collaborazione incondizionata con i Tedeschi; nel 1941 registrava profitti per 58 milioni di Franchi, un livello di rendimento per cui riceveva le calde congratulazioni da parte di Edsel Ford. (Billstein et al, 106; e Research Findings, 73–5) (46)
Relativamente alla Opel, i profitti industriali erano saliti alle stelle al punto tale che il Ministero dell’Economia Nazista aveva vietato la loro pubblicazione per impedire un bagno di sangue da parte della popolazione Tedesca, alla quale si chiedeva in maniera sempre più pressante di stringere collettivamente la cinghia.(Billstein et al, 73) (47)
La IBM non solo realizzava profitti alle stelle tramite la sua filiale Tedesca, ma, come la Ford, vedeva innalzarsi i suoi guadagni anche nella Francia occupata, soprattutto per merito degli affari generati tramite la zelante collaborazione con le autorità di occupazione Tedesche. Era stato perfino necessario costruire nuove fabbriche. Comunque, su tutto, la IBM prosperava in Germania e nei paesi occupati grazie alle vendite ai Nazisti di strumenti tecnologici richiesti per identificare, deportare, ghettizzare, schiavizzare e, alla fine del percorso, sterminare milioni di Ebrei Europei, in altre parole, per organizzare l’Olocausto. (Black, 212, 253, and 297–9)

È ben lontano dall’essere chiarito cosa sia successo ai profitti realizzati in Germania durante la guerra dalle filiali Americane, ma qualche allettante notizia succosa di informazioni è nonostante tutto emersa. Negli anni Trenta le imprese Americane avevano sviluppato diverse strategie per eludere l’embargo Nazista al rimpatrio dei profitti. L’ufficio della dirigenza della IBM a New York, per esempio, regolarmente fatturava la Dehomag per royalties dovute alla casa madre, per rimborso di prestiti inventati, e per altre competenze e spese; queste pratiche ed altri bizantinismi di transazioni inter-societarie minimizzavano i profitti realizzati in Germania e quindi nel contempo funzionavano come un realistico piano di evasione fiscale. Inoltre, esistevano altri modi di operare per evitare l’embargo sul rientro dei profitti alla casa madre, come il loro reinvestimento all’interno della Germania, ma dopo il 1939 questa opzione non veniva permessa più a lungo, almeno in teoria.
In pratica, le sussidiarie Americane intrapresero questo percorso, di aumentare in modo assolutamente considerevole le loro strutture. L’Opel, ad esempio, nel 1942 assumeva il controllo di una fonderia a Lipsia. (48) Rimaneva anche possibile utilizzare i profitti per migliorare e modernizzare le infrastrutture stesse delle affiliate, cosa che era avvenuta spesso nel caso della Opel.

Inoltre, esistevano possibilità di espansione nei paesi occupati dell’Europa. Nel 1941, la sussidiaria della Ford in Francia utilizzava i suoi profitti per costruire un’industria di carri armati ad Orano, Algeria; con tutta probabilità, questo impianto aveva fornito all’Africa Corps di Rommel le strutture necessarie all’avanzata diretta verso El Alamein in Egitto. Nel 1943, anche la Ford-Werke insediava una fonderia non lontano da Colonia, proprio attraverso il confine con il Belgio, vicino a Liegi, per produrre parti di ricambio. (Research Findings, 133)
Per di più, è probabile che una parte del profitto ammassato nel Terzo Reich veniva trasferita in qualche modo direttamente negli USA, ad esempio, attraverso la Svizzera neutrale. Molte corporations USA mantenevano in Svizzera uffici che funzionavano da intermediari fra le case madri e le loro filiali nei paesi nemici od occupati, e quindi erano coinvolti nel “riciclaggio dei profitti”, come scrive Edwin Black a proposito della filiale Svizzera della IBM. (Black, 73) (49)

Allora, allo scopo del ritorno dei profitti alle case madri, le corporations potevano far conto sui servizi sperimentati delle filiali Parigine di alcune banche Americane, come la Chase Manhattan e J.P. Morgan, e di un certo numero di banche Svizzere. La Chase Manhattan faceva parte dell’impero di Rockefeller, così come la Standard Oil, partner Americana della IG Farben; la sua filiale nella Parigi sotto occupazione Tedesca rimaneva aperta per tutto il corso della guerra e realizzava guadagni in modo considerevole grazie alla stretta collaborazione con le autorità Tedesche. Inoltre, da parte Svizzera, si dava il caso che alcune istituzioni finanziarie si impegnavano — senza porsi imbarazzanti domande — a prendersi cura dell’oro sottratto dai Nazisti alle loro vittime Ebree. A questo riguardo, giocava un importante ruolo la banca dei Regolamenti Internazionali (BIS) di Basilea, una Banca internazionale che era stata fondata nel 1930 all’interno della struttura del Progetto Giovani, con l’obiettivo di agevolare i pagamenti delle riparazioni di guerra da parte Tedesca dopo la Prima Guerra Mondiale.
I banchieri Americani e Tedeschi (come Schacht) dominavano la BIS fin dall’inizio e collaboravano con tutta comodità in tutte le sue speculazioni finanziarie. Durante la guerra, era un Tedesco, che era membro del Partito Nazista, Paul Hechler, ad occupare la funzione di direttore della BIS, mentre un Americano, Thomas H. McKittrick, ne era presidente. McKittrick era un buon amico dell’ambasciatore Americano a Berna e di un agente in Svizzera del servizio segreto Americano [l’OSS, antesignano della CIA], Allen Dulles. Prima della guerra, Allen Dulles e suo fratello John Foster Dulles erano stati partners nell’ufficio legale di New York Sullivan & Cromwell, ed erano specializzati nell’affare veramente redditizio di gestione di investimenti Americani nella Germania. Avevano eccellenti rapporti con i proprietari e dirigenti al vertice di imprese Americane, e in Germania con banchieri, uomini di affari e funzionari governativi, compresi alti papaveri Nazisti. Dopo lo scoppio della guerra, John Foster divenne il legale societario per la BIS a New York, mentre Allen veniva arruolato nell’OSS e prendeva servizio in Svizzera, dove si dimostrava amico di McKittrick. È ampiamente conosciuto che durante il conflitto la BIS maneggiava quantità enormi di denaro e di oro provenienti dalla Germania Nazista. (50) Non è irragionevole sospettare che tali trasferimenti potevano riguardare i proventi delle associate Americane destinati agli USA, in altre parole, denaro accumulato da clienti ed associati degli onnipresenti fratelli Dulles!

Procurare il lavoro di schiavi!

Prima della guerra, le imprese Tedesche si erano entusiasticamente avvantaggiate del grande favore loro concesso dai Nazisti, vale a dire dell’eliminazione dei sindacati dei lavoratori e della trasformazione risultante della classe lavoratrice Tedesca, nel passato militante e consapevole, in una mansueta “massa di servitori”. Quindi, non è sorprendente che nella Germania Nazista i salari reali diminuivano rapidamente, mentre i profitti in corrispondenza si incrementavano. Durante la guerra, i prezzi continuavano a salire, mentre gli stipendi venivano gradualmente erosi e l’orario di lavoro veniva aumentato. (51) Questa era anche l’esperienza che dovevano subire le forze del lavoro delle sussidiarie Americane. Per contrastare la deficienza di lavoratori nelle industrie, i Nazisti facevano assegnamento in modo crescente su lavoratori stranieri che venivano deportati a lavorare in Germania sotto condizioni molto spesso disumane.
Insieme a centinaia di migliaia di Sovietici e di altri prigionieri di guerra e di reclusi nei campi di concentramento, questi lavoratori stranieri (lavoratori forzati) costituivano una gigantesca massa di lavoratori che potevano essere sfruttati a volontà da chiunque li prendesse in carico, in cambio di una modesta remunerazione versata alle SS, la Schutzstaffel, la milizia di protezione nazista. Infatti, le SS mantenevano la disciplina e l’ordine d’obbligo con pugno di ferro. Allora, i costi del lavoro crollavano ad un livello tale per cui i programmatori di oggi possono solo sognare, e i profitti delle imprese aumentavano in proporzione.
Anche le filiali Tedesche delle imprese Americane avevano fatto con bramosia uso del lavoro schiavile fornito dai Nazisti, non solo attraverso lavoratori stranieri, ma anche di prigionieri di guerra e di reclusi dei campi di concentramento. Ad esempio, la Yale & Towne Manufacturing Company con sede a Velbert in Renania, da quanto viene documentato, faceva affidamento sul “concorso di lavoratori provenienti dall’Europa Orientale” per realizzare “consistenti profitti”, (52) ed anche viene sottolineato che la Coca-Cola ha avuto vantaggi dall’utilizzo di lavoratori stranieri, e di prigionieri di guerra nei suoi impianti della Fanta. (53) Comunque, gli esempi maggiormente spettacolari dell’uso di lavoro forzato da parte di filiali Americane sono sicuramente forniti dalla Ford e dalla GM, due casi che di recente hanno costituito l’oggetto di un’approfondita inchiesta.
Sulla Ford-Werke, è stato asserito che a partire dal 1942 questa fabbrica “sollecitamente, aggressivamente e con grande successo” aveva perseguito l’uso di lavoratori stranieri e di prigionieri di guerra dall’Unione Sovietica, dalla Francia e dal Belgio e da altri paesi occupati — chiaramente con la conoscenza della casa madre dell’impresa negli USA. (54) Karola Fings, una ricercatrice Tedesca che con molta attenzione ha studiato le attività in tempo di guerra della Ford-Werke, scrive: “[Ford] aveva fatto meravigliosi affari con i Nazisti, dato che l’accelerazione della produzione durante la guerra dava spazio totalmente a nuove opportunità, mantenendo basso il livello del costo del lavoro. In effetti era dal 1941 che alla Ford-Werke era in atto un generale congelamento dell’aumento dei salari. Comunque, i più alti margini di profitto potevano essere acquisiti per mezzo dell’uso dei cosiddetti Ostarbeiter [lavoratori forzati provenienti dall’Europa dell’Est]. (55)
Le migliaia di lavoratori forzati stranieri portati a lavorare nella Ford-Werke venivano costretti come schiavi ogni giorno, eccettuata la domenica, per dodici ore al giorno, e per questo non ricevevano un qualsiasi salario. Presumibilmente anche peggiore era il trattamento riservato al relativamente piccolo numero di reclusi del campo di concentramento di Buchenwald, messo a disposizione della Ford-Werke nell’estate del 1944”. (Research Findings, 45–72)
In contrasto con Ford-Werke, l’Opel non ha mai usato reclusi di campi di concentramento, almeno non nelle fabbriche principali di Rüsselsheim e nel Brandenburgo. La filiale Tedesca della GM, comunque, aveva avuto un insaziabile appetito per altri tipi di lavoratori forzati, per i prigionieri di guerra. “Tipico dell’uso schiavistico del lavoro nelle fabbriche Opel, particolarmente quando venivano utilizzati i Russi”, scrive la storica Anita Kugler, “era lo sfruttamento massimo, il trattamento peggiore possibile, e …la pena capitale anche nel caso di lievi violazioni.” La Gestapo aveva l’incarico di sorvegliare e sovrintendere ai lavoratori stranieri. (56)

Un permesso di lavoro in collaborazione con il nemico

Negli USA, le case madri delle imprese delle filiali Tedesche lavoravano veramente in modo intenso per convincere l’opinione pubblica Americana sul loro patriottismo, in modo che l’uomo della strada Americano non potesse pensare che la GM, ad esempio, che in patria finanziava manifesti anti-Tedeschi, fosse coinvolta in operazioni di banche lontane, sul Reno, in attività che erano equivalenti al tradimento. (57)
Washington era molto meglio informata di “John Doe”, ma il governo Americano osservava la regola non scritta convenuta che “quello che va bene per la General Motors va bene per l’America”, ed evitava di prendere in considerazione il fatto che le imprese Americane accumulavano ricchezze tramite i loro investimenti o i loro affari in un paese con cui gli Stati Uniti erano in guerra.
Questo aveva molto a che fare con il fatto che il sistema delle imprese Americano era diventato ancora più influente a Washington durante il conflitto di quanto lo era stato dapprima; infatti, dopo Pearl Harbor i rappresentanti dei “grandi affari” si erano accalcati nella capitale in modo da prendere il controllo su molti uffici governativi importanti.
Stando alle apparenze, costoro erano motivati da un genuino patriottismo e offrivano il loro servizi per una elemosina, diventando noti per questo come “gli uomini un-dollaro-per-un-anno”. In verità, molti occupavano quei posti per garantire le loro strutture in Germania. L’ex presidente della GM, William S. Knudsen, un esplicito ammiratore di Hitler dal 1933 e amico di Göring, divenne direttore dell’Ufficio Gestionale della Produzione. Un altro direttore esecutivo della GM, Edward Stettinius Jr., divenne Segretario di Stato, e Charles E. Wilson, presidente della General Electric, divenne “il potentissimo numero due del Ministero della Produzione Bellica” (58)
Sotto queste circostanze, desta ancora meraviglia che il governo Americano abbia preferito guardare da un’altra parte, mentre le grandi imprese del paese operavano come falchi da preda nella terra del nemico Tedesco? Nei fatti, Washington effettivamente legittimava queste attività. Appena una settimana dopo l’attacco Giapponese su Pearl Harbor, il 13 dicembre 1941, lo stesso Presidente Roosevelt in via riservata emanava un decreto che consentiva alle imprese Americane di fare affari con le nazioni nemiche — o con paesi neutrali che erano in buone relazioni con i paesi nemici — per mezzo di una speciale autorizzazione. (59)
Questa disposizione chiaramente contravveniva alle norme, supposte estremamente vincolanti, contro tutte le forme di “commercio con il nemico”. Presumibilmente, Washington non poteva permettersi di offendere le grandi imprese del paese, i cui esperti erano indispensabili per portare la guerra al successo finale.
Come ha scritto Charles Higham, “l’amministrazione Roosevelt doveva andare a letto con le compagnie petrolifere (e con le altre grandi imprese) in modo da vincere la guerra”.
Di conseguenza, i funzionari governativi giravano la testa da un’altra parte sistematicamente, per non vedere il comportamento non patriottico dei capitalisti Americani con investimenti all’estero, ma vi sono state alcune eccezioni a questa regola generale. “In ordine di soddisfare l’opinione pubblica”, scrive Higham, nel 1942, in modo simbolico, venivano mosse azioni legali contro la più conosciuta compagnia violatrice della legislazione sui “rapporti commerciali con il nemico”, la Standard Oil. Ma la Standard faceva rilevare “che stava fornendo carburanti per un’alta percentuale all’Esercito, alla Marina e all’Aviazione, quindi rendendo possibile la vittoria della guerra all’America”.
Alla fine, l’impresa di Rockefeller concordava di pagare un’ammenda di poca importanza “per aver tradito l’America”, ma le veniva consentito di continuare il suo redditizio commercio con i nemici degli Stati Uniti. (60) Un tentativo di inchiesta relativa alle attività della IBM in territorio del nemico Nazista, che si potevano configurare come tradimento, veniva allo stesso modo bloccato, visto che gli USA avevano bisogno della tecnologia IBM, tanto quanto facevano i Nazisti.
Edwin Black scrive: “La IBM era per molti versi peggiore della guerra.” Entrambi i contendenti non avrebbero potuto procedere senza la tecnologia assolutamente essenziale della compagnia. “Hitler aveva necessità della IBM. Questo valeva anche per gli Alleati.” (Black, 333, and 348)
In breve, lo Zio Sam ammoniva con il dito la Standard Oil e la IBM, ma la maggior parte dei proprietari e dei managers delle corporations, che facevano affari con Hitler, non dovevano assolutamente preoccuparsi. Le connessioni di Sosthenes Behn della ITT con la Germania Nazista, per esempio, non erano un pubblico segreto a Washington, ma, come risultato di tutto questo, Behn non veniva sottoposto ad alcuna difficoltà.
Nel frattempo, risultava che in Germania i quartieri generali degli Alleati Occidentali facilmente avrebbero avuto la possibilità di accanirsi sulle imprese di proprietà Americana. Secondo l’esperto Tedesco Hans G. Helms, Bernard Baruch, un consigliere di alto grado del Presidente Roosevelt, aveva dato l’ordine di non bombardare certe fabbriche in Germania, o di bombardarle non in maniera pesante; è difficile sorprendersi che le affiliate delle imprese Americane cadessero in questa categoria! Ed infatti, mentre il centro storico della città di Colonia veniva raso al suolo in ripetuti raids di bombardamenti, la grande fabbrica della Ford in periferia poteva godere della reputazione di essere il posto più sicuro della città durante gli attacchi aerei, sebbene alcune bombe naturalmente cadessero occasionalmente sulle sue strutture. (Billstein et al, 98-100) (61)
Dopo la guerra, la GM e le altre imprese Americane, che avevano fatto affari in Germania, non solo non venivano penalizzate, ma anche venivano compensate per i danni subiti dalle loro sussidiarie Tedesche, come risultato dei raids dei bombardamenti Anglo-Americani. La General Motors riceveva dal governo Americano come indennizzo 33 milioni di dollari e la ITT 27 milioni di dollari. La Ford-Werke, durante la guerra, era stata danneggiata relativamente poco e aveva ricevuto più di 100.000 dollari a compensazione dallo stesso regime Nazista; anche la filiale della Ford in Francia si era azionata in modo da ricevere un indennizzo di 38 milioni di franchi dal Regime di Vichy. Nonostante ciò, la Ford si rivolgeva a Washington per ottenere un indennizzo di 7 milioni di dollari di danni, e dopo molto disputare riceveva un totale di 785,321 dollari “per la parte di perdite riconosciute accettabili sostenute dalla Ford-Werke e dalla Ford Austriaca durante la guerra” , che la compagnia aveva rese note in un suo rapporto di recente pubblicazione. (Research Findings, 109)

Il sistema delle imprese Americano e la Germania post-bellica

Quando finì la guerra in Europa, il sistema delle imprese Americano era ben posizionato a contribuire a stabilire esattamente cosa sarebbe dovuto succedere alla Germania in generale, e in particolare alle sue attività Tedesche. Ben prima che le armi tacessero, Allan Dulles dal suo osservatorio di Berna, in Svizzera, stabiliva contatti con le associate Tedesche delle imprese Americane, alle quali egli aveva in precedenza fornito prestazioni come avvocato nello studio Sullivan & Cromwell, e ,quando nella primavera del 1945 i carri armati di Patton si spinsero in profondità all’interno del Reich, il boss della ITT, Sosthenes Behn, indossata l’uniforme da ufficiale Americano, si recava nella Germania in disfatta per ispezionarvi personalmente le sue filiali.
Cosa più importante, l’amministrazione nella zona della Germania occupata dagli USA abbondava di delegati di imprese, come la GM e la ITT. (62) Naturalmente, costoro erano presenti per assicurarsi che il Sistema Imprenditoriale Americano potesse continuare ad usufruire della piena rendita dei suoi lucrosi investimenti nella Germania sconfitta ed occupata.
Uno dei loro principali obiettivi era quello di ostacolare la realizzazione del Piano Morgenthau. Henry Morgenthau era Ministro del Tesoro di Roosevelt, ed aveva proposto di smantellare il sistema industriale Tedesco, e con ciò di trasformare la Germania in uno stato ad agricoltura arretrata, povera, quindi in una nazione inoffensiva. I proprietari e i dirigenti delle corporations Americane con attività in Germania erano assolutamente consapevoli che la messa in applicazione del Piano Morgenthau significava la fine per le loro affiliate Tedesche; perciò lo contrastarono con le unghie e con i denti.
Un oppositore particolarmente esplicito del Piano era Alfred P. Sloan, l’autorevole presidente del consiglio della GM. Sloan, altri capitani di industria, e i loro delegati ed amici a Washington all’interno delle autorità di occupazione Americana in Germania, erano favorevoli ad una opzione alternativa: la ricostruzione economica della Germania, in modo che fosse loro possibile fare affari e denaro in Germania, e alla fine arrivarono ad avere quello che volevano. Dopo la morte di Roosevelt, il Piano Morgenthau venne tranquillamente accantonato e lo stesso Morgenthau, il 5 luglio 1945, fu fatto dimettere dalla sua posizione di governo di rango elevato dal Presidente Harry Truman. La Germania — o almeno la parte occidentale della Germania — doveva venire economicamente ricostruita, e le sussidiarie Statunitensi sarebbero state così le maggiori beneficiarie di questo sviluppo. (63)

Le autorità Americane di occupazione in Germania in generale, e gli agenti delle case madri Americane delle filiali Tedesche all’interno di questa amministrazione in particolare, si trovarono di fronte ad un altro problema. Dopo il crollo del Nazismo e del Fascismo, in Europa era diffuso un profondo modo di sentire — che si sarebbe conservato ancora per pochi anni — decisamente anti-fascista e nello stesso tempo più o meno anti-capitalista, dato che a quel tempo si era ampiamente capito che il fascismo era stato una manifestazione del capitalismo. Quasi dappertutto in Europa, ed in particolare in Germania, associazioni radicali a livello popolare, come i gruppi Tedeschi anti-fascisti o Antifas, sorsero spontaneamente e divennero influenti. Quindi avvenne che sindacati di lavoratori e partiti politici di sinistra apparvero sulla scena con buon esito; poterono godere di diffusi appoggi popolari a seguito delle loro denunce dei banchieri Tedeschi e degli industriali che avevano portato Hitler al potere e che avevano strettamente collaborato con il regime, e il consenso era manifesto quando venivano proposte riforme anti-capitaliste più o meno radicali, come la socializzazione di particolari compagnie e di settori industriali.
Comunque, questi piani di riforme violavano i dogmi Americani riguardanti l’inviolabilità della libertà privata e della libertà di impresa, ed ovviamente erano la più importante fonte di preoccupazione degli industriali Americani con interessi in Germania. (64) Infatti, costoro erano atterriti dall’emergere in Germania di “commissioni interne di lavoratori” democraticamente elette, che esigevano di interagire negli affari delle imprese. A peggiorare la situazione, di frequente i lavoratori eleggevano dei Comunisti a far parte di queste commissioni. Questo avveniva nelle più importanti succursali Americane, alla Ford-Werke e alla Opel.
I Comunisti giocarono un ruolo importante nella commissione interna della Opel fino al 1948, quando la GM ufficialmente ripristinò alla Opel la direzione manageriale e mise fine di colpo all’esperimento. Le autorità Americane sistematicamente si opposero agli anti-fascisti e sabotarono i loro progetti di riforme sociali ed economiche a tutti i livelli della pubblica amministrazione e degli affari privati. Ad esempio, nell’impianto della Opel a Rüsselsheim, le autorità Americane collaborarono solo con riluttanza con gli anti-fascisti, mentre cercarono di fare ogni cosa in loro potere per impedire l’instaurarsi di nuovi sindacati di lavoratori e di non riconoscere alle commissioni il diritto di intervenire nelle decisioni della direzione dell’impresa. Invece di consentire lo sbocciare delle progettate riforme democratiche “provenienti dal basso”, gli Americani procedettero ad restaurare strutture autoritarie “calate dall’alto” ogni qualvolta possibile.
Loro misero da parte gli anti-fascisti in favore di personalità della conservazione, autoritarie, di destra, compresi molti ex Nazisti. Alla Ford-Werke a Colonia, la pressione anti-fascista costrinse alle dimissioni il direttore generale, già Nazista, Robert Schmidt, ma grazie a Dearborn e alle autorità Americane di occupazione, Schmidt e tanti altri dirigenti Nazisti ritornarono ben presto saldamente in sella. (65)

Capitalismo, Democrazia, Fascismo, e Guerra

“Rispetto alle questioni su cui non si è in grado di discutere, bisogna rimanere in silenzio”, ha dichiarato il famoso filosofo Wittgenstein, e un suo collega, Max Horkheimer, lo ha parafrasato nelle considerazioni sul fenomeno del fascismo e della sua varietà Tedesca, il Nazismo, sottolineando che, se si desidera discutere di fascismo, non è possibile rimanere in silenzio sul capitalismo.
Il Terzo Reich di Hitler era un sistema mostruoso reso possibile dai leaders affaristici al vertice in Germania, e mentre questo procurava una catastrofe per milioni di persone, adempiva ad una funzione da Paradiso, come un Nirvana, per il sistema delle imprese Tedesche. Anche alle imprese di proprietà straniera veniva consentito di godere di sevizi meravigliosi.
Il regime di Hitler era stato redditizio per “das Kapital”, con la cancellazione di tutti i partiti e i sindacati dei lavoratori, attraverso un programma di riarmo, che aveva procurato ai capitalisti immensi profitti, e, mediante una guerra di conquista, aveva eliminato la concorrenza straniera e aveva fornito nuovi mercati, con l’acquisizione di materie prime a prezzi bassi, e che era stata la fonte senza limiti di lavoratori sempre più a buon mercato, dai prigionieri di guerra ai lavoratori stranieri trattati come schiavi e agli internati dei campi di concentramento.
I proprietari e i managers delle imprese guida Americane ammiravano Hitler, dato che nel Terzo Reich potevano fare profitti e dove Hitler massacrava i sindacati Tedeschi e giurava di distruggere l’Unione Sovietica, patria del comunismo internazionale.
Molte, se non tutte queste imprese, godevano pienamente dei vantaggi derivati dall’eliminazione dei sindacati dei lavoratori e dei partiti di sinistra, e l’orgia di commesse e di profitti era resa possibile dal riarmo e dalla guerra. Queste imprese tradivano il loro paese, producendo ogni sorta di equipaggiamento per la macchina da guerra di Hitler, anche dopo Pearl Harbor, e quindi obiettivamente aiutavano i Nazisti a commettere i loro crimini orrendi. Questi particolari, comunque, sembravano non sconvolgere i proprietari e le dirigenze in Germania e anche negli USA, che erano ben consapevoli di quello che stava avvenendo oltremare. Tutto quello che interessava a costoro, chiaramente, era la collaborazione incondizionata con Hitler, che consentiva loro di fare profitti come non mai; il loro motto giustamente poteva essere il seguente: “i profitti über alles”, il profitto soprattutto. Dopo la guerra, i signori del capitale e gli associati del mostro fascista prendevano le distanze, come il Dr. Frankenstein dalla loro creatura, e in modo fragoroso proclamavano la loro preferenza per le forme democratiche di governo.
Oggi, molti dei nostri leaders politici e dei nostri mezzi di comunicazione ci vogliono far credere che “libero mercato” — un linguaggio cifrato eufemistico per dire “capitalismo”— e “democrazia” sono fratelli Siamesi. Comunque, anche dopo la Seconda Guerra Mondiale, il capitalismo, ed in particolare il capitalismo Americano, ha continuato a collaborare intimamente con regimi fascisti in paesi come la Spagna, il Portogallo, la Grecia e il Cile, appoggiando movimenti di estrema destra, incluse squadroni della morte e terroristi, in America Latina, in Africa e in ogni dove.

Possiamo dire che nei piani alti delle corporations, i cui interessi collettivi si riflettono naturalmente nelle politiche governative Americane, è perdurata la nostalgia per il buon vecchio tempo del Terzo Reich Hitleriano, che aveva costituito un paradiso per le imprese della Germania, ma anche dell’America e di altri paesi stranieri: nessun partito di sinistra, niente sindacati, numero illimitato di lavoratori in condizioni da schiavi, ed uno stato autoritario che assicurava la disciplina necessaria e predisponeva un “boom degli armamenti” e alla fine una guerra che aveva prodotto “profitti illimitati”, come scrive Black, alludendo al caso della IBM.
Questi vantaggi possono essere attesi più propriamente da una dittatura fascista che da una genuina democrazia, da qui l’appoggio ai Franco, ai Suharto, e a tutti i Pinochet del mondo post bellico. Ma anche all’interno delle società democratiche il capitalismo cerca attivamente il lavoro a basso costo e senza conflitti, che il regime di Hitler gli aveva servito su un piatto d’argento, e di recente questo è avvenuto in modo non palese tramite strumenti come la globalizzazione e la riduzione dello stato sociale, piuttosto che attraverso lo strumento del fascismo, a cui il capitale Americano ed internazionale ha fatto ricorso per procurare al sistema imprenditoriale il paradiso del Nirvana, del quale la Germania di Hitler aveva offerto una stuzzicante anticipazione.

Importanti Riferimenti:

Vedi Edwin Black, “IBM and the Holocaust: The Strategic Alliance between Nazi Germany and America’s Most Powerful Corporation” – (IBM e l’Olocausto: L’alleanza strategica tra la Germania Nazista e la più potente impresa Americana.) – (London: Crown Publishers, 2001)

Walter Hofer e Herbert R. Reginbogin, „Hitler, der Westen und die Schweiz 1936–1945“ – (Hitler, l’Occidente e la Svizzera 1936-1945), (Zürich: NZZ Publishing House, 2002)

Reinhold Billstein, Karola Fings, Anita Kugler, e Nicholas Levis, “Working for the Enemy: Ford, General Motors, and Forced Labor during the Second World War” – (Lavorare per il nemico: Ford, General Motors e il lavoro forzato durante la Seconda Guerra Mondiale) – ( New York: Berghahn, 2000); Risultati di una ricerca su la Ford-Werke sotto il regime Nazista (Dearborn, MI: Ford Motor Company, 2001)

Note

1 Michael Dobbs, “US Automakers Fight Claims of Aiding Nazis- I produttori di automobili USA contrastano le affermazioni di aver aiutato i Nazisti ” The International Herald Tribune, 3 dicembre 1998.

2 David F. Schmitz, “‘A Fine Young Revolution’: The United States and the Fascist Revolution in Italy, 1919–1925, – ‘Una meravigliosa giovane rivoluzione’: gli Stati Uniti e la Rivoluzione Fascista in Italia, 1919-1925,” Radical History Review, 33 (settembre1985), 117–38; e John P. Diggins, “Mussolini and Fascism: The View from America – Mussolini e il Fascismo: Uno sguardo dall’America” (Princeton 1972).

3 Gabriel Kolko, “American Business and Germany, 1930–1941, – Affari Americani e la Germania, 1930-1941″. “The Western Political Quarterly, 25 (dicembre1962), 714”, fa riferimento allo scetticismo che si era diffuso nella stampa economica Americana nei confronti di Hitler, dato che veniva considerato “un non conformista dal punto di vista economico e politico”.

4 Neil Baldwin, “Henry Ford and the Jews: The Mass Production of Hate – Henry Ford e gli Ebrei: La produzione di massa dell’odio” (New York 2001), in modo particolare: 172–91.

5 Charles Higham, “Trading with the Enemy: An Exposé of The Nazi-American Money Plot 1933–1949 – Fare affari col nemico: un resoconto dell’intreccio di denaro fra Nazisti e Americani 1933-1949” (New York 1983), 162.

6 Webster G. Tarpley e Anton Chaitkin, “The Hitler Project, – Il piano di Hitler” capitolo 2 in “George Bush: The Unauthorized Biography – George Bush: La biografia non autorizzata” (Washington 1991). Disponibile online a www.tarpley.net/bush2.htm .

7 Mark Pendergrast, “For God, Country, and Coca-Cola: The Unauthorized History of the Great American Soft Drink and the Company that Makes It – Per Dio, Patria e Coca-Cola: La storia non autorizzata della grande bibita analcolica Americana e della Compagnia che la produce.” (New York 1993), 221.

8 Citazione da Manfred Overesch, “Machtergreifung von links: Thüringen 1945/46 – La presa del potere da sinistra: Turingia 1945/46 „ (Hildesheim Germany 1993), 64.

9 Knudsen descriveva la Germania Nazista, dopo una sua visita nel 1933, come “il miracolo del ventesimo secolo.” Higham, “Trading With the Enemy – Fare affari col nemico”, 163.

10 Stephan H. Lindner, “Das Reichskommissariat für die Behandlung feindliches Vermögens im Zweiten Weltkrieg: Eine Studie zur Verwaltungs-, Rechts- and Wirtschaftsgeschichte des nationalsozialistischen Deutschlands – Il Commissariato del Reich per la gestione del patrimonio nemico durante la Seconda Guerra Mondiale: uno studio sulle questioni di tipo amministrativo, giuridico ed economico nella Germania Nazionalsocialista“ (Stuttgart 1991), 121; Simon Reich, „The Fruits of Fascism: Postwar Prosperity in Historical Perspective – I frutti del Fascismo: prosperità postbellica in una prospettiva storica“ (Ithaca, NY and London 1990), 109, 117, 247; e Ken Silverstein, “Ford and the Führer, – Ford e il Führer ” The Nation, 24 gennaio 2000, 11–6.

11 Citazione da Michael Dobbs, “Ford and GM Scrutinized for Alleged Nazi Collaboration, – Ford e la GM sotto inchiesta per una presunta collaborazione con il Nazismo” The Washington Post, 12 dicembre 1998.

12 Tobias Jersak, “Öl für den Führer, – Petrolio per il Führer ” Frankfurter Allgemeine Zeitung, 11 febbraio 1999.

13 Higham, “Trading With the Enemy – Fare affari col nemico” xvi.

14 Gli autori di un recente libro sull’Olocausto mettono anche in evidenza che “nel 1930, l’antiSemitismo era molto più visibile e impudente negli Stati Uniti piuttosto che in Germania.” Vedi l’intervista di Suzy Hansen con Deborah Dwork e Robert Jan Van Pelt, autori di “Olocausto: una storia”, a http:/salon.com/books/int/2002/10/02/dwork/index.html.

15 Henry Ford, “The International Jew: The World’s Foremost Problem – Il Giudaismo Internazionale: il principale problema mondiale.” (Dearborn, MI n.d.); e Higham, “Trading With the Enemy – Fare affari col nemico” 162.

16 Aino J. Mayer, “Why Did the Heavens not Darken? The Final Solution in History – Perché il Cielo non si è oscurato? La soluzione finale nella Storia.” (New York 1988).

17 Neil Baldwin, “Henry Ford and the Jews: The Mass Production of Hate – Henry Ford e gli Ebrei: La produzione di massa dell’odio”, 279; e Higham, “Trading With the Enemy – Fare affari col nemico”, 161.

18 Upton Sinclair, “The Flivver King: A Story of Ford-America – Il re dei macinini: la storia di Ford-America” (Pasadena, CA 1937), 236.

19 Higham, “Trading With the Enemy – Fare affari col nemico”, 162–4.

20 Vedi Bernd Martin, “Friedensinitiativen und Machtpolitik im Zweiten Weltkrieg 1939–1942 – Iniziative di pace e politica di potere nella Seconda Guerra Mondiale 1939-1942” (Düsseldorf 1974); e Richard Overy, “Russia’s War – la Guerra di Russia” (London 1998), 34–5.

21 Vedi Clement Leibovitz e Alvin Finkel, “In Our Time: The Chamberlain-Hitler Collusion – Nella nostra epoca: la collusione Chamberlain-Hitler” (New York 1998).

22 John H. Backer, “From Morgenthau Plan to Marshall Plan – Dal Piano Morgenthau al Piano Marshall,” in Robert Wolfe, ed., “Americans as Proconsuls: United States Military Governments in Germany and Japan, 1944–1952 – Americani come proconsoli: I governi militari degli Stati Uniti in Germania e in Giappone, 1944-1952” (Carbondale and Edwardsville, IL 1984), 162.

23 Mooney viene citato in Andreas Hillgruber, “Staatsmänner und Diplomaten bei Hitler. Vertrauliche Aufzeichnungen über Unterredungen mit Vertretern des Auslandes 1939–1941- Uomini di Stato e Diplomatici di Hitler. Appunti riservati sui colloqui con i rappresentanti esteri 1939-1941“ (Frankfurt am Main 1967), 85.

24 Anita Kugler, “Das Opel-Management während des Zweiten Weltkrieges. Die Behandlung ‘feindlichen Vermögens’ und die ‘Selbstverantwortung’ der Rüstungsindustrie, – La dirigenza Opel durante la Seconda Guerra Mondiale. La gestione del „patrimonio straniero“ e la „responsabilità“ dell’industria degli armamenti” in Bernd Heyl e Andrea Neugebauer, ed., „…ohne Rücksicht auf die Verhältnisse: Opel zwischen Weltwirtschaftskrise and Wiederaufbau – …al di sopra delle situazioni: l’Opel fra crisi economica mondiale e ricostruzione,“ (Frankfurt am Main 1997), 35–68, e 40–1; “Flugzeuge für den Führer. Deutsche ‘Gefolgschaftsmitglieder’ und ausländische Zwangsarbeiter im Opel-Werk in Rüsselsheim 1940 bis 1945, – Aerei per il Führer. I „membri al seguito“ tedeschi e i lavoratori forzati stranieri alla Opel-Werk in Rüsselsheim 1940 bis 1945″ in Heyl e Neugebauer, “… ohne Rücksicht auf die Verhältnisse – …al di sopra delle situazioni,” 69–92; e Hans G. Helms, “Ford und die Nazis – Ford e i Nazisti,” in Komila Felinska, ed., „Zwangsarbeit bei Ford – Il lavoro forzato“ (Cologne 1996), 113.

25 Higham, “Trading With the Enemy – Fare affari col nemico”, 93, e 95.

26 Jersak, “Öl für den Führer – Petrolio per il Führer “; Bernd Martin, “Friedens-Planungen der multinationalen Grossindustrie (1932–1940) als politische Krisenstrategie – Progetti di pace delle grandi industrie multinazionali (1932-1940) come strategia politica per la crisi,” Geschichte und Gesellschaft, 2 (1976), 82.

27 Citato in Dobbs, “U.S. Automakers.- Produttori di auto USA”

28 Jamie Lincoln Kitman, “The Secret History of Lead – La storia segreta del piombo-tetraetile,” The Nation, 20 marzo 2002.

29 Higham, “Trading With the Enemy – Fare affari col nemico”, 97; Ed Cray, “Chrome Colossus: General Motors and its Times – Il colosso del cromo: la General Motors e la sua epoca” (New York 1980), 315; e Anthony Sampson, “The Seven Sisters: The Great Oil Companies and the World They Made – le Sette Sorelle: le grandi compagnie petrolifere e il mondo da loro costruito” (New York 1975), 82.

30 David Lanier Lewis, “The Public Image of Henry Ford: an American Folk Hero and His Company – L’immagine pubblica di Henry Ford: un eroe popolare Americano e la sua impresa” (Detroit 1976), 222, and 270.

31 Ralph B. Levering, “American Opinion and the Russian Alliance, 1939-1945 – L’opinione pubblica Americana e l’alleanza con la Russia 1939-1945” (Chapel Hill, NC 1976), 46; e Wayne S. Cole, “Roosevelt and the Isolationists, 1932–45 – Roosevelt e gli isolazionisti, 1932-1945” (Lincoln, NE 1983), 433–34.

32 La speranza per un conflitto, che si protraesse a lungo, fra Berlino e Mosca poteva essere riscontrata in molti articoli di giornale e nel commento, che vedeva una larga diffusione, espresso dal Senatore Harry S. Truman il 24 giugno 1941, solo due giorni dopo l’inizio dell’Operazione Barbarossa, l’attacco Nazista contro l’Unione Sovietica: “Se noi vediamo la Germania sul punto di vincere, noi dovremo aiutare la Russia, e se la Russia sta vincendo, dovremo aiutare la Germania, in modo tale da realizzare la distruzione di entrambi i contendenti…” Levering, American Opinion, 46–7.

33 Anche il 5 dicembre 1941, proprio due giorni prima dell’attacco Giapponese contro Pearl Harbor, una caricatura sul Hearst’s Chicago Tribune suggeriva che l’ideale per la “civilizzazione” sarebbe stato se queste “pericolose bestie”, i Nazisti e i Sovietici, “si distruggevano le une con le altre”. La caricatura sul Chicago Tribune viene riprodotta in Roy Douglas, “The World War 1939–1943: The Cartoonists’ Vision – La Guerra Mondiale 1939-1943: il punto di vista dei vignettisti” (London e New York 1990), 86.

34 Clive Ponting, “Armageddon: The Second World War – Armageddon: la Seconda Guerra Mondiale” (London 1995), 106; e Stephen E. Ambrose, “Americans at War – Americani in Guerra” (New York 1998), 76–77.

35 Jersak, “Öl für den Führer – Petrolio per il Führer”: Jersak ha usato un documento “top secret” prodotto dalla Divisione Statale della Wehrmacht per il Petrolio, ora nella sezione militare dell’archivio di Stato tedesco (Archivi Federali), File RW 19/2694. Vedi anche Higham, “Trading With the Enemy – Fare affari col nemico”, 59–61.

36 James V. Compton, “The Swastika and the Eagle – La Svastica e l’Aquila,” in Arnold A. Offner, ed., “America and the Origins of World War II, 1933–1941 – America e le origini della Seconda Guerra Mondiale 1933-1941 (New York 1971), 179–83; Melvin Small, “The ‘Lessons’ of the Past: Second Thoughts about World War II – Le “lezioni” del passato: riflessioni sulla Seconda Guerra Mondiale,” in Norman K. Risjord , ed., “Insights on American History. – Intuizioni sulla Storia Americana, Volume II” (San Diego 1988), 20; e Andreas Hillgruber, ed., “Der Zweite Weltkrieg 1939–1945: Kriegsziele und Strategie der Grossen Mächte – La Seconda Guerra Mondiale 1939-1945: obiettivi bellici e strategia dei poteri forti”, 5th ed., (Stuttgart 1989), 83–4.

37 Helms, “Ford und die Nazis – Ford e i Nazisti,” 114.

38 Helms, “Ford und die Nazis – Ford e i Nazisti,”14–5; e Higham, “Trading With the Enemy – Fare affari col nemico”, 104–5.

39 Silverstein, “Ford and the Führer – Ford e il Führer,” 15–6.

40 Kugler, “Das Opel-Management – La dirigenza della Opel,” 52, 61 e seguenti, e 67; e Kugler, “Flugzeuge- Aerei,” 85.

41 Snell, “GM and the Nazis – La GM e i Nazisti,” Ramparts, 12 (giugno1974), 14–15; Kugler, “Das Opel-Management – La dirigenza della Opel,” 53, e 67; e Kugler, “Flugzeuge- Aerei,” 89.

42 Higham, “Trading With the Enemy – Fare affari col nemico”, 112.

43 Higham, “Trading With the Enemy – Fare affari col nemico”, 99.

44 Lindner, “Das Reichskommissariet- il Commissariato di Stato”, 104.

45 Silverstein, “Ford and the Führer – Ford e il Führer,” 12, e 14; Helms, “Ford und die Nazis – Ford e i Nazisti,” 115; e Reich, “The Fruits of Fascism – I frutti del Fascismo”, 121, e123.

46 Silverstein, “Ford and the Führer – Ford e il Führer,” 15–16.

47 Kugler, “Das Opel-Management – La dirigenza della Opel,” 55, e 67; e Kugler, “Flugzeuge – Aerei,” 85.

48 Comunicazione di A. Neugebauer, dell’archivio cittadino a Rüsselsheim, all’autore, 4 febbraio 2000; e Lindner, “Das Reichskommissariet- il Commissariato di Stato”, 126–27.

49 Helms, “Ford und die Nazis – Ford e i Nazisti,” 115.

50 Gian Trepp, “Kapital über alles: Zentralbankenkooperation bei der Bank für Internationalen Zahlungsausgleich im Zweiten Weltkrieg – Il capitale soprattutto: la cooperazione delle Banche Centrali con la Banca per il Risarcimento Internazionale nella Seconda Guerra Mondiale ,” in Philipp Sarasin e Regina Wecker, eds., “Raubgold, Reduit, Flüchtlinge: Zur Geschichte der Schweiz im Zweiten Weltkrieg – Oro rapinato, imprigionati, profughi: dalla storia della Svizzera nella Seconda Guerra Mondiale” (Zürich 1998), 71–80; Higham, “Trading With the Enemy – Fare affari col nemico”, 1–19 e 175; Anthony Sampson, “The Sovereign State of ITT – Lo Stato Sovrano dell’ITT” (New York 1973), 47; “VS-Banken collaboreerden met nazi’s – Le Banche Centrali che hanno collaborato con il Nazismo,” Het Nieuwsblad, Brussels, 26 dicembre 1998; e William Clarke, “Nazi Gold: The Role of the Central Banks — Where Does the Blame Lie? – L’oro dei Nazisti: il ruolo delle Banche Centrali – Dove sta la responsabilità?,” Central Banking, 8, (estate 1997), a www.centralbanking.co.uk/cbv8n11.html.

51 Bernt Engelmann, “Einig and gegen Recht und Freiheit: Ein deutsches Anti-Geschichtsbuch – D’accordo e contro il diritto e la libertà: un libro di storia tedesco” (München 1975), 263–4; Marie-Luise Recker, “Zwischen sozialer Befriedung und materieller Ausbeutung: Lohn- und Arbeitsbedingungen im Zweiten Weltkrieg – Fra la pacificazione sociale e lo sfruttamento materiale: condizioni dei salari e del lavoro nella Seconda Guerra Mondiale ,” in Wolfgang Michalka, ed., “Der Zweite Weltkrieg. Analysen, Grundzüge, Forschungsbilanz – La Seconda Guerra Mondiale. Analisi, tratti fondamentali, bilancio di una ricerca” (Monaco e Zurigo 1989), 430–44, in particolare 436.

52 Lindner, “Das Reichkommissariat – Il Commissariato di Stato”, 118.

53 Pendergrast “For God, Country, and Coca-Cola – Per Dio, la Patria, e la Coca-Cola” 228.

54 “Ford-Konzern wegen Zwangsarbeit verklagt – Il gruppo industriale Ford citato in giudizio a causa del lavoro forzato,” Kölner Stadt-Anzeiger, 6 marzo 1998, come citato in “Antifaschistische Nachrichten – Notizie Antifasciste”, 6 (1998), awww.antifaschistischenachricten.de/1998/06/010.htm.

55 Karola Fings, “Zwangsarbeit bei den Kölner Ford-Werken – Lavoro forzato alla Ford-Werken di Colonia,” in Felinska, “Zwangsarbeit bei Ford – Lavoro forzato da Ford,” (Colonia 1996), 108. Vedi anche Silverstein, “Ford and the Führer – Ford e il Führer,” 14; e Billstein et al., 53–5, 135–56.

56 Kugler, “Das Opel-Management – La Dirigenza Opel,” 57; Kugler, “Flugzeuge – Aerei,” 72–6, citazione da 76; e Billstein et al., 53–5.

57 “GM-financed patriotic posters – I manifesti patriottici finanziati dalla GM” può essere trovato nella sezione “Still Pictures” dell’Archivio Nazionale a Washington, DC.

58 Michael S. Sherry, “In the Shadow of War: The United States Since the 1930s – All’ombra della guerra: gli Stati Uniti, a partire dagli anni Trenta(New Haven and London 1995), 172.

59 Higham, “Trading With the Enemy – Fare affari col nemico”, xv, e xxi.

60 Higham, “Trading With the Enemy – Fare affari col nemico”, 44–6.

61 Helms, “Ford und die Nazis – Ford e i Nazisti,” 115–6; Reich, “The Fruits of Fascism – I frutti del Fascismo, 124–5; e Mira Wilkins e Frank Ernest Hill, “American Business Abroad: Ford on Six Continents – Affari Americani all’estero: Ford sui sei Continenti” (Detroit 1964), 344–6.

62 Higham, “Trading With the Enemy – Fare affari col nemico”, 212–23; Carolyn Woods Eisenberg, “U.S. Policy in Post-war Germany: The Conservative Restoration, – La politica USA nella Germania post-bellica: la restaurazione della conservazione,” Science and Society, 46 (Spring 1982), 29; Carolyn Woods Eisenberg, “The Limits of Democracy: US Policy and the Rights of German Labor, 1945–1949 – I limiti della democrazia: la politica USA e i diritti del lavoro in Germania 1945-1949,” in Michael Ermarth, ed., “America and the Shaping of German Society, 1945-1955 – America e la formazione dellaa società Tedesca 1945-1955” (Providence, RI and Oxford 1993), 63–4; Billstein et al., 96–97; e Werner Link, “Deutsche und amerikanische Gewerkschaften und Geschäftsleute 1945–1975: Eine Studie über transnationale Beziehungen – Sindacati e uomini d’affari tedeschi e americani 1945-1975: uno studio sui rapporti transnazionali” (Düsseldorf 1978), 100–06, e 88.

63 Gabriel Kolko, “The Politics of War: The World and United States Foreign Policy, 1943–1945 – Le politiche di guerra: il mondo e la politica estera degli Stati Uniti 1943-1945” (New York 1968), 331, e 348–9; Wilfried Loth, “Stalins ungeliebtes Kind: Warum Moskau die DDR nicht wollte – La creatura non amata di Stalin: perché Mosca non voleva la DDR” (Berlino 1994), 18; Wolfgang Krieger, “Die American Deutschlandplanung, Hypotheken und Chancen für einen Neuanfang – Il piano Americano per la Germania, ipoteche e occasioni per un nuovo inizio,” in Hans-Erich Volkmann, ed., “Ende des Dritten Reiches — Ende des Zweiten Weltkriegs: Eine perspektivische Rückschau – Fine del Terzo Reich – Fine della Seconda Guerra Mondiale: un punto di vista retrospettivo” (Monaco e Zurigo 1995), 36, e 40–1; e Lloyd C. Gardner, “Architects of Illusion: Men and Ideas in American Foreign Policy 1941–1949 – Architetti di illusioni: uomini ed idee nella politica estera Americana 1941-1949” (Chicago 1970), 250–1.

64 Kolko, “The Politics of War – Le politiche di guerra,” 507–11; Rolf Steininger, “Deutsche Geschichte 1945–1961: Darstellung und Dokumente in zwei Bänden. Band 1 – Storia Tedesca 1945-1961: Compendio e documenti in due volumi. Volume I ” (Frankfurt am Main 1983), 117–8; Joyce e Gabriel Kolko, “The Limits of Power: The World and United States Foreign Policy, 1945–1954 – I confini del potere: Il mondo e la politica estera degli Stati Uniti, 1945–1954” (New York 1972), 125–6; Reinhard Kühnl, “Formen bürgerlicher Herrschaft: Liberalismus — Faschismus – La conformazione del dominio borghese. Liberalismo-Fascismo” (Reinbek bei Hamburg 1971), 71; Reinhard Kühnl, ed., “Geschichte und Ideologie: Kritische Analyse bundesdeutscher Geschichtsbücher, second edition – Storia e Ideologia: analisi critica dei libri di storia dello stato federale tedesco ” (Reinbek bei Hamburg 1973), 138–9; Peter Altmann, ed., “Hauptsache Frieden. Kriegsende-Befreiung-Neubeginn 1945–1949: Vom antifaschistischen Konsens zum Grundgesetz – La pace, questione fondamentale. La fine della guerra-la liberazione-un nuovo inizio1945–1949: dal consenso antifascista alla Costituzione” (Frankfurt-am-Main, 1985), 58 ff.; e Gerhard Stuby, “Die Verhinderung der antifascistisch-demokratischen Umwälzung und die Restauration in der BRD von 1945–1961, Gli ostacoli alla rivoluzione antifascista-democratica e la restaurazione nella Repubblica Federale di Germania 1945–1961” in Reinhard Kühnl, ed., “Der bürgerliche Staat der Gegenwart: Formen bürgerlicher Herrschaft II – Lo stato borghese del presente: la conformazione del dominio borghese II” (Reinbek bei Hamburg 1972), 91–101.

65 Silverstein, “Ford and the Führer,” 15–6; and Lindner, Das Reichskommissariat, 121.

Fonte: Paginerosse wordpress – Scintillarossa

FONTE: https://comitatoeuroexit.wordpress.com/2014/09/08/legami-usa-con-la-germania-nazista/?wref=tp

Spengler, il tramonto dell’Occidente.

Ciascuno di noi è influenzato da tutti i libri che ha letto. Altra cosa sono i testi – e gli autori- che ci hanno formato, le opere che diventano l’imprinting della nostra personalità e della visione del mondo alla quale aderiamo. Per chi scrive, si tratta di Dante, Tommaso d’Aquino, Cervantes, Tocqueville, Ortega y Gasset, Dostoevskij e pochi altri. Se c’è un autore che ha forgiato in profondità il nostro spirito, quello è Oswald Spengler. Tedesco della Sassonia, dunque prussiano, ma poi bavarese di residenza sino alla morte, avvenuta nel 1936 a soli 56 anni, ingegnere per studi, storico, filosofo, morfologo della storia per attitudine e scelta, fu forse la voce più potente, singolare e solitaria della Rivoluzione Conservatrice, il fenomeno culturale che attraversò la Germania nella prima parte del XX secolo, tra Weimar, la sconfitta dell’Impero guglielmino e la temperie che portò al potere il nazionalsocialismo.

Spengler ammise negli anni Venti di aver votato per Hitler, poi fu un avversario tenace del nazismo, che lo emarginò, lo mise nel mirino con attacchi feroci e la consegna del silenzio. Alla sua morte, causata da un infarto, ci fu chi ipotizzò la responsabilità del partito di Hitler, una voce mai corroborata da prove.

L’opera che ne consacrò la fama fu Il tramonto dell’Occidente, uscito nel 1918, nel momento della sconfitta tedesca, della fine degli imperi e all’alba della consapevolezza, per alcuni grandi spiriti,  che la Grande Guerra , i suoi massacri, le sue trincee insanguinate, la guerra chimica e di materiali potentemente descritta da un altro grande tedesco, Ernst Juenger , fu la tomba dell’Europa, del suo spirito e della sua civiltà, come lo era stata, per quattro lunghissimi anni, della sua gioventù. Contemporaneamente a Spengler, dall’altro lato del Reno, si levava la voce di Paul Valéry: “noi, le civiltà, ora sappiamo di essere mortali”. Analoghi concetti, analizzati prevalentemente sotto il profilo geopolitico e dal punto di vista dell’impero britannico, sarebbero stati poi espressi da Arnold Toynbee nel monumentale “Civiltà al paragone”. In Italia, Il Tramonto fu letto e apprezzato da Mussolini in lingua originale, ma pubblicato solo nel 1957 nella scintillante traduzione di Julius Evola.

In tempi ancora successivi, il tema della decadenza della civiltà europea e occidentale diventerà un filone del nichilismo, ad esempio nell’opera del franco rumeno Emil Cioran. Tuttavia, nessun intellettuale indagherà tanto a fondo le civiltà storiche, né elaborerà una teoria generale, una vera e propria morfologia delle civiltà umane, quanto l’arcigno ingegnere tedesco. In più, esprimerà in anticipo su Heidegger, sullo stesso Juenger, su Ellul e molti altri una profonda riflessione sulla tecnica come elemento centrale della civilizzazione moderna.

Spengler esercitò altresì un’influenza rilevante su numerose correnti culturali, storiche e scientifiche, oltrepassando il pur variegato recinto della Konservative Revolution e di quella “cultura del pessimismo” di cui fu appartato, ma significativo esponente. Il tramonto dell’Occidente, gigantesco affresco di filosofia della storia, fu il simbolo di una stagione caratterizzata dalla messa in discussione della tradizione liberale. Spengler era un conservatore, un elitario a tutto tondo, e certamente la sua polemica contro la repubblica di Weimar fornì un armamentario ideologico di prim’ordine a correnti e suggestioni che confluirono poi nel nazionalsocialismo.

La sua concezione, espressa nel Tramonto dell’Occidente, ma anche in Anni della Decisione, nell’ Uomo e la Tecnica e nel suo testo più “politico”, Prussianesimo e Socialismo, può essere definita naturalismo storico, una teoria che interpreta la storia come espressione di leggi biologiche. “Le civiltà sono organismi e la storia universale è la loro biografia complessiva”. Niente di più materialistico, in apparenza, ma Spengler non può essere iscritto frettolosamente al campo materialista. Per lui, ciò che distingue la storia dalla natura è il suo carattere “organico”. Natura è tutto ciò che è dominato da una necessità meccanica, storia ciò che è dominato da una necessità organica. Pertanto, le civiltà- che egli analizza in un complesso, erudito percorso in cui si intrecciano archeologia, spiritualità, filosofia, storia, antropologia, etnologia- vanno concepite e studiate come organismi che nascono, crescono e muoiono. Realtà uniche e irripetibili, radicate in un tempo, un luogo, un popolo o un gruppo di popoli.

Un passo del Tramonto illumina sulla concezione spengleriana. “Una cultura nasce nell’attimo in cui una grande anima si desta dallo stato psichico originario dell’eternità eternamente fanciulla e se ne distacca, come una forma da ciò che è privo di forma, come qualcosa di limitato e di perituro dall’illimitato e dal permanente. Essa fiorisce sulla base di un territorio delimitabile in modo preciso, al quale rimane vincolata come una pianta. Una cultura perisce quando quest’anima ha realizzato l’intera somma delle sue possibilità sotto forma di popoli, di lingue, di dottrine religiose, di arti, di stati e di scienze, ritornando quindi nel grembo della spiritualità originaria. “.

L’idea di tramonto dell’Occidente fa pensare all’esaurimento delle energie vitali ma anche all’insorgere di altre civiltà: declino di un mondo e alba di un altro. Ognuna è caratterizzata da un proprio sistema di valori che la impronta e diventa, dentro di essa, un assoluto che si relativizza se analizzato nel complesso delle distinte civiltà. La storia, dunque, non va interpretata secondo lo schema illuministico del progresso, ma come successione di grandi civiltà indipendenti l’una dell’altra, il cui movimento è circolare, similmente alle stagioni della vita: nascita, sviluppo, maturità, invecchiamento, morte.

In polemica con Kant, portò al massimo livello la contrapposizione tra Kultur e Zivilisation, presente nella cultura tedesca sin dal secolo XVIII. Kultur, per Spengler, è la civiltà, mentre Zivilisation, civilizzazione (o società) è il suo stadio ultimo, manieristico, degenerativo. Nel suo percorso organico, ogni Kultur-civiltà attraversa vari stadi. L’iniziale slancio creativo porta alla maturità, alla pienezza, ma sfocia ineluttabilmente in una sorta di irrigidimento, sintomo di vecchiaia e tramonto. La Zivilisation è caratterizzata da norme e valori meramente esteriori, convenzionali, il cui esito è lo scetticismo diffuso e poi il materialismo, ultima tappa prima del definitivo tramonto.

Se questa è la cornice, l’Occidente- Abendland – terra della sera o del tramonto nel titolo, quasi un’endiadi se abbinata a untergang, che significa tramonto, ma anche caduta – è solo l’ultima in ordine di tempo delle grandi civiltà storiche. Il suo percorso si è concluso, ha perduto forza, dinamismo: il tempo di Spengler è quello del declino, che un secolo dopo ha definitivamente compiuto il suo ciclo. Il destino è quello di diventare storia, passato, e lasciare il campo a civiltà nuove, giovani, le civiltà “di colore” di cui aveva previsto l’avvento. I sintomi della decadenza per Spengler erano evidenti nella crisi della morale e della religione, nel prevalere delle democrazie e del socialismo, nel potere crescente del denaro che si fa potere politico.

Nel contempo, si spengono i grandi stili artistici – approfondirà il tema nella generazione successiva l’austriaco Hans Sedlmayr– l’arte si riduce a moda, l’umanità si concentra in poche grandi metropoli, gli alveari disumanizzanti di cui parlerà, ad esempio, lo scrittore spagnolo Camilo José Cela. Dilaga un atteggiamento sentimentale di fondo, o meglio un’emotività immediata, priva di profondità. Per Spengler, tutto ciò condurrà al “cesarismo” – il potere di un uomo solo – e poi alla barbarie, su cui nascerà una nuova civiltà, che egli chiama “russa”, più per orrore del bolscevismo che per disprezzo verso il vicino slavo.  L’avvicinamento tra Germania e Russia fu anzi uno dei temi della Rivoluzione Conservatrice (i popoli dal “sangue giovane”), in particolare di Arthur Moeller Van Den Bruck, che infatti accolse con scetticismo l’opera di Spengler.

L’ingegnere sassone fu influenzato soprattutto da due giganti della cultura tedesca, Goethe e Nietzsche. Dal grande letterato- che egli considerava soprattutto un pensatore- trasse l’interesse per la figura archetipica di Faust, l’uomo che non vuole limiti, disposto a tutto per sapere, avanzare e penetrare i segreti della natura e dell’essere. Uomo “faustiano “è la definizione che Spengler dà dell’idealtipo occidentale, animato da una febbrile volontà di potenza che lo porta alla scoperta, alla conquista, all’amore per il rischio e l’ignoto. Ma l’universalizzazione della civiltà e del carattere faustiano, per Spengler, sono l’inizio della sua fine, poiché “una civiltà fiorisce su una terra esattamente delimitabile, alla quale resta attaccata come una pianta. “La nostra, come le altre civiltà-kultur inizia il suo declino che diventa civilizzazione, poi tramonto e infine caduta nel momento del suo apogeo. “Una volta che lo scopo è raggiunto e che l’idea è esteriormente realizzata nella pienezza di una tutte le sua interne possibilità, la civiltà d’un tratto s’irrigidisce, muore, il suo sangue scorre via, le sue forze sono spezzate, essa diviene civilizzazione.”  La Kultur perde, per così dire, la sua “forma”.

Concetti che Spengler esprimeva in piena euforia progressista, con una straordinaria capacità di anticipo sui tempi. Fu il primo a cogliere i segni di quello che nei decenni successivi diventerà il progetto cosmopolita dell’Occidente, indizi di una volontà di potenza che – paradossalmente – si rovescia in tramonto per la perdita dei caratteri originari. Si è spesso parlato di pessimismo spengleriano: il declino è fatale, non vi sono vie d’uscita alla luce del grande affresco dipinto nel Tramonto. Tuttavia, il suo è un pessimismo attivo, che invita a tenere duro, a non essere passivi, respingendo con fermezza, ad esempio, le contaminazioni. Inevitabile è il rifiuto del cosmopolitismo e di quella che oggi chiamiamo multiculturalità. L’avvertimento di Splengler è impietoso: culture radicate in tradizioni differenti non si possono mescolare. La conseguenza dell’innesto è l’accelerazione del declino dell’Occidente ad opera di popoli “giovani” che credono nella loro tradizione e identità culturale. Popoli ancora ricchi di simbolicità, non disposti a farsi “contaminare”, e che in tale determinazione esprimono la potenza ascendente di una civiltà contrapposta a quella al tramonto.

Il globalismo porta con sé la perdita di ogni riferimento simbolico, che per Spengler rappresenta invece l’energia vitale di ogni civiltà. Perdere i simboli significa tramontare, per cui la globalizzazione –occidentalizzazione malata del mondo- non è il segno di una vittoria, ma la prova irrevocabile del declino. Un tramonto che Spengler individua in modo speciale nell’umanità sradicata delle metropoli, scettica, folla solitaria, trasformata da persona in essere collettivo, nomade e monade, incapace di pensiero, un soggetto che si lascia vivere senza un domani, privo di slanci, obiettivi, bandiere.

La preferenza – o la nostalgia- di Spengler per un mondo di piccole comunità, per la vita rurale, paragonata alla meccanica impersonale dell’universo metropolitano, destò l’ammirazione del sociologo e urbanista Lewis Mumford, autore del Mito della Macchina e de La cultura delle città, analista d’eccezione dell’epoca ingegneristica che stava compiendo il passaggio da una società biologica a una meccanica. Un passaggio epocale in via di completamento che ha comportato la svendita dell’anima dell’uomo faustiano, schiavo degli apparati da egli stesso inventati dopo aver scoperto e utilizzato molti segreti fisici e aver fatto di Techne uno strumento di dominio planetario.

La storia, sulle tracce di Goethe, è per Spengler “natura vivente”, un impianto culturale che non poteva che essere inviso alla filosofia hegeliana e marxista, così come il suo radicale anti egalitarismo, esposto soprattutto in Anni della decisione. “La società si fonda sulla diseguaglianza degli uomini. Questo è un fatto naturale. Ci sono nature forti e nature deboli, caratteri inclini e caratteri inadeguati a comandare, temperamenti creativi e temperamenti privi di talento: rispettabili e disprezzabili, ambiziosi e modesti. Quanto più ha un senso e un significato, tanto più una Kultur assomiglia al processo formativo di un nobile corpo animale o vegetale, per cui tanto maggiori risultano le diversità tra gli elementi costitutivi: le diversità, non i contrasti, i quali infatti vengono introdotti soprattutto per calcolo.”

Profetica è l’analisi della civilizzazione stremata, estenuata, nella quale “il significato di maschio e femmina va perduto, e la volontà di perpetuarsi viene meno. Si vive solo per se stessi, non per l’avvenire delle generazioni. Per il contagio diffuso dalla città, la Nazione in quanto società – all’origine il plesso organico di famiglie – minaccia di dissolversi in una somma di atomi privati, ciascuno dei quali mira a trarre dalla propria vita e da quella degli altri la massima quantità di piaceri: panem et circenses.” E ancora “I popoli bianchi, fino a che punto si sono inoltrati in questo pacifismo? Il chiasso contro la guerra esprime una posa intellettuale, un atteggiamento astratto, oppure rivela la consapevole abdicazione alla storia, a prezzo della dignità, dell’onore, della libertà? Ma la vita è guerra. Il bisogno di una quiete da fellah, di un’assicurazione contro tutto ciò che disturba la piatta quotidianità, contro il Destino in ogni suo aspetto, sembra aspirare a questo esito: una sorta di mimetismo dinanzi alla storia mondiale, il fingersi morti di insetti umani di fronte al pericolo, l’happy end di un’esistenza priva di significato, segnata da una noia sulla quale musica jazz e balli negri intonano la marcia funebre della grande Kultur. Gli uomini di colore non sono pacifisti. Non sono attaccati a un vivere il cui unico valore è la lunga durata. Se noi la deporremo, saranno loro a raccogliere la spada. Una volta essi temevano l’uomo bianco, ora lo disprezzano.”

Ne L’uomo e la tecnica affronta un tema che il Terzo Millennio ha reso ulteriormente urgente: che cosa significa tecnica? Qual è il suo senso nella storia, il suo peso nella vita dell’uomo, il suo posto morale o metafisico? La risposta di Spengler è duplice, forse contraddittoria: nel Tramonto dell’occidente è la pianta malata di cui si ciba la decadenza, ne L’uomo e la tecnica, anticipando pensatori come Heidegger e Hannah Arendt e scrittori “filosofici” come Ernst Juenger (L’ Operaio), diventa motrice della storia. Oltre Kultur e Zivilisation, la tecnica è connaturata all’uomo, è parte della stessa essenza umana. In questo si avvicina ad Arnold Gehlen, l’antropologo per il quale l’uomo è l’essere che – attraverso intelligenza e razionalità tecnica, si “esonera” dai gesti materiali e supera la dimensione istintuale. La tecnica, dunque, è insieme strumento e destino della specie umana, sino all’ardito accostamento di tecnica e metafisica.

Nel Tramonto, Spengler tenta per primo un esperimento di portata tellurica, esposto chiaramente dall’autore: “in questo libro viene tentata per la prima volta una prognosi della storia. Ci si è proposti di predire il destino di una civiltà e, propriamente, dell’unica civiltà che oggi stia realizzandosi sul nostro pianeta, la civiltà euro-occidentale e americana, nei suoi stadi futuri”. La diagnosi è severa, la prognosi infausta: l’Occidente cade per consunzione, né può trovare sbocchi di sopravvivenza, giacché ha concluso il suo ciclo vitale. Spengler contesta il percorso lineare della storiografia secondo il quale gli eventi seguirebbero un andamento teso a un fantomatico progresso, riagganciandosi piuttosto a concetti come l’eterno ritorno e la nicciana volontà di potenza- oggi definitivamente risolta nel suo contrario, al di fuori del titanismo tecno scientifico – e al mito di Faust.

Essenziale, in largo anticipo sui tempi, è la consapevolezza di vivere in un’epoca di crisi, in particolare intellettuale e valoriale, l’esaurirsi delle certezze che il Novecento ereditava dall’ottimismo del secolo precedente, il cui apice fu il positivismo. Vide il progresso anche nella sua tendenza inesorabile a tagliare i ponti con il passato. “Quello che ci appare più chiaro nei suoi contorni è il tramonto dell’antichità, mentre già oggi avvertiamo chiaramente in noi e intorno a noi i primi indizi di un avvenimento ad esso del tutto analogo per corso e durata, che appartiene ai primi secoli del prossimo millennio: il tramonto dell’Occidente.”

Il percorso immaginato dall’ingegnere prussiano si è compiuto. La prognosi si è rivelata esatta; del resto Spengler non aveva prescritto alcuna terapia. Se ogni civiltà è un organismo e ha quindi una nascita, una crescita, una decadenza e una morte, come ogni organismo biologico il ciclo è ineluttabile, determinato dal corredo di possibilità di cui dispone all’inizio del suo sviluppo. In linguaggio contemporaneo, ogni civiltà ha un proprio codice genetico e una scadenza. E’ la logica organica della storia. Una specie di destino, una categoria estranea alla razionalità, un amor fati delle civiltà che non spiega la decadenza, ma ne prende atto e, in qualche maniera, la attribuisce all’inesorabile legge dell’inizio e della fine.

La civiltà occidentale seguirà il cammino di tutte quelle che l’hanno preceduta. L’anamnesi, i sintomi della decadenza sono rintracciati da Spengler nei fenomeni economici e politici del mondo a lui contemporaneo, e li scorge nell’affermazione della borghesia, nel primato dell’economia sulla politica, nella democrazia avvinta dal denaro, nella crisi dei princìpi religiosi e nella inesistente libertà di pensiero. “Non esiste una satira più tremenda della libertà di pensiero. Un tempo non si poteva osare di pensare liberamente; ora ciò è permesso, ma non è più possibile. Si può pensare soltanto ciò che si deve volere, e proprio questo viene percepito come libertà “. Riflessioni che sembrano riferirsi, con un secolo di anticipo, all’odierna “cultura della cancellazione” di provenienza americana, ma di matrice francese e francofortese.

Un altro aspetto assai interessante è il singolare relativismo spengleriano, in parte mutuato da un pensatore storicista come Wilhelm Dilthey. Ogni civiltà rappresenta un mondo a sé, elabora un proprio linguaggio formale, un simbolismo, una specifica concezione della natura e della storia. La comprensione è dunque reale solo dentro la medesima civiltà, orizzonte primario e intrascendibile. La conseguenza è l’affermazione che non può esistere una filosofia o una morale universale-assoluta, e nessun principio teorico o pratico può ambire a una validità non contingente.

Vi è dunque un dualismo natura – storia. La prima è il dominio della necessità causale espressa nelle formule e nelle leggi della scienza. La storia è il regno della vita e del divenire vitale, in cui il protagonista non è tanto l’uomo, quanto la “cultura”, un tema caro al romanticismo tedesco, da Herder sino a Burkhardt. Il destino prevede inesorabilmente il tramonto, ovvero la Zivilisation, prodromo della fine. Nessuna speranza, quindi, se non in un radicale sovvertimento di tutti gli pseudo-valori della civilizzazione che riconduca l’Occidente al rinnovamento attraverso la riscoperta delle sue origini. Lo spiraglio chiuso dallo Spengler del Tramonto è riaperto, o almeno lasciato socchiuso nella formula suggestiva di Anni della decisione, il libro della maturità e della proposta: “L’unica cosa che promette la saldezza dell’avvenire è quel retaggio dei nostri padri che abbiamo nel sangue. Idee senza parole”.

L’Occidente ha rinunciato anche a quello e muore in un deserto di idee e in un’alluvione di parole che significano il contrario di ieri e di sempre. La profezia dell’ingegnere filosofo della storia si è avverata, al tramonto segue la notte. Spengler ne fu consapevole nell’ultima parte della sua vita, in cui, isolato dal nazismo “plebeo”, raccoglieva appunti e idee che non poté mai organizzare e tanto meno pubblicare. Immaginò un titolo, drammatico ma aperto alla speranza: Sentiero nel buio. E’ quello che, faticosamente, quasi tragicamente, deve percorrere il tramontato Occidente per sperare, chissà come, dove e quando, in un nuovo ciclo di Kultur, forse l’eterno ritorno immaginato da Friedrich Nietzsche.

FONTE: https://www.qelsi.it/2021/spengler-il-tramonto-delloccidente/

 

°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°