RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI
29 APRILE 2021
A cura di Manlio Lo Presti
Esergo
Trovate il colpevole e che sia giustiziato, vivo o morto!
TOTO’, Mal comune mezzo gaudio, Rizzoli, 2017, pag. 197
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SOMMARIO
Giravolte della politica italiana
Una storia americana
Il leader del Terrore: interessi comuni con l’America
“Ombre rosse” da Parigi
Fdi, Figliomeni: consiglio straordinario su mancanza fondi per Roma
I golpisti in Bielorussia si dichiarano colpevoli. Perché l’occidente tace?
Ecco cosa si nasconde dietro la tensione fra Washington e Ankara
Acrobazie è un oggetto raffinato.
Giovanni Gentile, filosofo cancellato. Una storia paradigmatica.
LA VACCINATA
Web e controllo delle menti. Una guerra senza limiti…
Assalto al Campidoglio: crollano le Fake news sulla morte di Sicknick
Vaccini, numeri da capogiro: ecco quanto guadagnano le Big Pharma
Big Pharma e Bill Gates contro la liberalizzazione dei vaccini
Le trappole sulla strada del Recovery
“CONNESSIONI” di Francesca Sifola
Il valore strategico delle banche per attuare il Recovery italiano
Conto corrente cointestato? Via un nome, senza chiuderlo
“Palamara dice la verità e siamo solo all’inizio…”
Lavrov: “La Russia presenterà presto la lista dei ‘paesi ostili’. I criteri sono chiari”
La Francia toccata dal terrorismo archivia la dottrina Mitterrand
Sarebbe un errore imperdonabile candidare Draghi al Quirinale
Solo incompetenza? Tutte le follie del “pass sanitario”
I vaccini COVID potrebbero “decimare la popolazione mondiale,” avverte il Dr. Bhakdi
Dr. Harvey RISCH e studio del governo UK: il 60-70% dei nuovi casi e decessi C0VID proviene da soggetti già vaccinati
Il tesoro delle SS è nascosto in una casa di “piacere”
EDITORIALE
(1)
IN EVIDENZA
Pubblichiamo volentieri questo intervento di Nicola Walter Palmieri, che riflette una sua idea personale, per dare voce a Tutte le menti libere.
I giudici della Corte suprema americana, nominati a vita, sono tradizionalmente nove. Quando vi sono posti vacanti, i presidenti propongono nuovi giudici di loro scelta. Dopo la morte della giudice liberale Ruth Bader Ginsburg, il 18 settembre 2020, il rappresentante di maggioranza repubblicana al Senato, Mitch McConnell si dette da fare per riempire il posto vacante prima delle elezioni del 3 novembre 2020. Il comportamento di McConnell fu scorretto e in mala fede. Nel 2016, si era rifiutato di tenere udienze di conferma per Merrick Garland, candidato presentato da Barack Obama come successore di Antonin Scalia, morto il 13 febbraio 2016. McConnell usò ogni trucco, e le udienze non ebbero mai luogo. Argomento principale di McConnell era che, secondo il lodo dell’allora Senatore Joe Biden (cd. Biden Rule, enunciato nel 1992), durante l’anno di votazione generale del presidente nessun nuovo giudice della Corte suprema dovrebbe essere nominato. McConnell volle a ogni costo politicizzare la Corte suprema, evitare che un candidato di Obama venisse nominato, mantenere aperta la posizione per il prossimo presidente. Il repubblicano Trump venne eletto, e dieci giorni dopo il suo insediamento, il 31 gennaio 2017, nominò Neil Gorsuch suo giudice alla Corte suprema. Gorsuch venne subito approvato, e divenne operativo il 10 aprile 2017.
Quattro anni dopo si ripeté la situazione. Presidente del Senato era sempre ancora McConnell. A mo’ di girandola, McConnell capovolse la sua regola del 2016 e scorrettamente ignorò, con sfrontatezza, il fatto che si era nell’anno di elezioni generali (e pochi mesi distanti dal responso delle urne), cestinò il Biden Rule, e sostenne che la nomina del nuovo giudice spettava al presidente uscente Trump, il quale annunciò, il 26 settembre 2020, l’intenzione di nominare la sua candidata, Amy Barrett, cosa che fece tre giorni dopo. McConnell sottopose velocissimo a udienza di conferma, e il mese successivo la nuova giudice fu approvata e confermata dal Senato con voto favorevole di tutti i Senatori repubblicani (meno quello di Susan Collins). Il 27 ottobre, una settimana prima delle elezioni, la Barrett venne insediata alla Corte (senza la usuale presenza del Chief Justice e la piena rappresentanza della Corte).1 Trump si era assicurato la maggioranza repubblicana di sei giudici su nove, lo riteneva una garanzia per i suoi probabili imminenti ricorsi contro paventate irregolarità che, secondo lui, avrebbero obnubilato, anzi reso illegali, le incombenti elezioni.2
Il partito democratico esprime ora (2021) la politica americana, controlla presidenza ed entrambe le Camere. Ciononostante, una corte infiltrata da nomine repubblicane può dare molto fastidio al nuovo Presidente. A comportamento scorretto e irrispettoso si risponde pan per focaccia. Biden può, e dovrebbe velocemente e senza esitazione, riportare l’equilibrio nella scorretta composizione della Corte, forzata da Trump. Modo semplice per farlo è aumentare il numero dei giudici della Corte. La Costituzione americana non determina il numero dei giudici, Biden deve solo presentare una proposta di legge e farla approvare (con semplice maggioranza) da ciascuna delle Camere.
Il 12 gennaio 2021 si sono visti i primi risultati di una Corte suprema dominata da giudici conservatori. Grazie anche alla nuova giudice sfegatata anti-abortista a bordo, la Corte pronunciò una sentenza che vieta l’accesso con telemedicina al farmaco Mifepristone (Mifeprex, anche RU-486).3 È “un onere non necessario, irrazionale e ingiustificabile contro le donne che cercano di affermare il diritto alla propria scelta”, disse la giudice dissenziente Sonia Sotomayor.4 La liberalizzazione dell’aborto è conquista di civiltà. L’opinione pubblica americana è generalmente favorevole all’aborto. Ciononostante, i tentativi di soffocare lo slancio liberatorio, erodere e cancellare i diritti della donna, continuano. Roe v. Wade, la storica sentenza di civiltà, insidiata fin dai primi giorni dagli anti-abortisti, rischia di essere revocata. Se ciò si verificasse, sarebbe grave perdita per l’America, di riflesso per l’Europa dall’animo imitativo e servile, e per l’umanità.5 I giuristi continueranno ad azzuffarsi nello scontro di principi e teorie, perdendo di vista l’obiettivo fondamentale, la correttezza nei riguardi della donna e della sua volontà di creare o meno nuova vita.
Il mondo scientifico guarda a Biden/Harris, spera che riportino la Corte suprema a composizione equilibrata.6
Nicola Walter Palmieri
1 “La Barrett renderà complicato l’obiettivo di John Roberts di mantenere la Corte suprema fuori dalla politica”, notò Joan Biskupic, “Amy Coney Barrett joins the Supreme Court in unprecedented times”, CNNpolitics, 27 ottobre 2020.
2 Dopo avere perso alle elezioni, Trump disse: “No, no, no, we’re going to try to get this election overturned, Supreme Court will do it”, v. video: U.S. Supreme Court may not have final say in presidential election, despite Trump threat (Reuters), John Verhovek, John Santucci, Katherine Faulders and Matthew Mosk, “Biden says ‘we’re going to win’ as Trump falls behind in key states”, ABCNews, 7 novembre 2020.
3 In Italia, il percorso della pillola per l’aborto non chirurgico è stato travagliato, con la ingiustificata imposizione (data l’innocuità del farmaco) di giorni in ospedale. La procedura venne criticata dal Professore Umberto Veronesi secondo il quale la pillola era la “scelta migliore [fra i mali] perché la meno dolorosa per la donna”.
4 Supreme Court Abortion Pill Ruling, January 12, 2021. V. Elizabeth Gulino, “The Supreme Court Just Reinstated An Abortion Pill Restriction”, Refinery 29, del 13 gennaio 2021.
5 V. David G. Savage, “Supreme Court joins with Trump on restricting abortion pills, despite coronavirus”, Los Angeles Times, 12 gennaio 2021; “Supreme Court Revives Abortion-Pill Restriction”, The New York Times del 12gennaio 2021. Il GOP Presidential del 13 gennaio 2021, titolò “Supreme Court Hands Trump Last-Minute Win” (vittoria dell’ultimo minuto per Trump).
6 V. Dr. Reagan McDonald-Mosley, in Kells McPhillips, “The Supreme Court’s Latest Abortion Pill Ruling Poses a Dangerous Threat to Reproductive Health”, well+good, January 13, 2021 (“Rather than placing further barriers between abortion services and those who need care most we should focus on expanding access so all people can have the power to decide if, when and under what circumstances to get pregnant and have child. It is also important to recognize that restrictions on abortion access do not stop people from getting abortions or serve as the primary factor in reducing the abortion rate”).
FONTE: https://www.civica.one/una-storia-americana/
Il leader del Terrore: interessi comuni con l’America
“Nella sua prima intervista con un giornalista americano, al Golani ha detto al corrispondente di Frontline Martin Smith che il suo ruolo nella lotta contro Assad e l’Isis, e nel gestire un’area abitata da milioni di siriani sfollati che potrebbero potenzialmente diventare rifugiati, rifletteva gli interessi comuni con gli Stati Uniti e l’Occidente“.
In questo modo il sito Frontline sintetizza la prima intervista di un giornalista americano a Abu Mohammad al-Golani, il leader di al Nusra, leggi al Qaeda, che controlla la regione siriana di Idlib, sottratta al controllo del governo di Damasco.
Poco da aggiungere, se non che la lunga carriera criminale del macellaio al Golani è nota. La raccontiamo riprendendo un articolo di Timesofisrael.
Nato in Siria, si trasferisce in Iraq, dove lavora presso l’allegra Macelleria guidata da Abu Mus’ab al-Zarqawi, il successore di Osama bin Laden alla guida di al Qaeda, quella delle Torri Gemelle.
“Dopo l’uccisione di al-Zarqawi, vittima di un attacco aereo statunitense nel 2006, al-Golani lascia l’Iraq, trasferendosi per poco tempo in Libano, dove offre supporto logistico al gruppo militante Jund al-Sham”, altro ramo di al Qaeda, specifica il giornale israeliano.
“Torna poi in Iraq per continuare a combattere, ma viene arrestato dalle forze armate statunitensi e detenuto a Camp Bucca”. La stessa prigione di al Baghdadi, il capo dell’Isis, una vera e propria fucina del Terrore internazionale questo carcere… (sul punto rimandiamo alla nota precedente sui rapporti tra l’attuale capo dell’Isis e l’Us Army).
“Dopo il suo rilascio dalla prigione nel 2008 [anno in cui è rilasciato da Camp Bucca anche al Baghdadi ndr.], al-Golani riprende la militanza, questa volta al fianco di Abu Bakr al-Baghdadi, il capo di al-Qaeda in Iraq – noto anche come Stato islamico dell’Iraq [cioè l’Isis ndr]. Ed è presto nominato capo delle operazioni di al-Qaeda nella provincia di Mosul”.
Quando inizia la guerra siriana, nel 2011 torna in patria, dove, “fortemente sostenuto da al-Baghdadi, crea il Fronte Nusra, annunciato per la prima volta nel gennaio 2012”.
“[…] Il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, che ha inserito al Nusra nella lista delle organizzazioni terroristiche nel dicembre 2012, ha affermato che il gruppo ha rivendicato quasi 600 attacchi, tra i quali anche attacchi suicidi, operazioni con armi leggere e attentati nelle più importanti città” siriane.
Ai distratti, va ricordato il sangue sparso dall’Isis di al Baghdadi, quando ancora al Golani era al suo fianco, dall’Europa all’America, con stragi compiute con bombe, mitra, camion mandati a schiacciare innocenti. Che poi sono tecniche usate anche negli attentati contro i civili siriani, la più eclatante, per stare solo alle più recenti, nel dicembre scorso, con un’autobomba che ha ucciso decine di civili.
Di un’altra strage recente firmata dalla stessa Agenzia del Terrore dà notizia l’Onu nel gennaio scorso: “Secondo i media, domenica un’autobomba è esplosa nella città di Azaz, uccidendo quattro persone e ferendone almeno 22. Tra le vittime una ragazzina di 12 anni. L’attacco arriva appena un giorno dopo un altro attacco ad Afrin, sempre nella regione di Aleppo, anche qui un attentato con un’autobomba, che avrebbe ucciso sei civili, tre dei quali erano bambini” (l’intervista a Frontline arriva a pochi mesi da tali massacri… tant’è).
Senza contare poi che da Idlib, il cuore di tenebra del Terrore, continuano a piovere missili su Aleppo a intervalli regolari, su scuole, quartieri residenziali, ospedali e tanto altro.
Ma sono uomini, donne e bambini siriani a morire, non contano nulla. Anzi, sono anche sottoposti alle sanzioni emesse dall’Europa e dagli Usa per “punire” il reprobo Assad.
Sanzioni che non permettono alla popolazione civile di accedere alle medicine (cosa ancor più odiosa in tempo di Covid-19), la riducono alla fame e portano al collasso le infrastrutture vitali del Paese, oltre a produrre tante altre ristrettezze (se gli ospedali sono al collasso da noi si può immaginare là, che non possono ottenere neanche i pezzi di ricambio dei macchinari salvavita). Si tratta di bombe più silenziose, ma fanno stragi anche queste.
Ma per tornare ad al Golani, va ricordato che, al di là delle narrazioni mediatiche su una presunta rottura tra la Macelleria di al Nusra e quella l’Isis (ci torneremo), tra queste restano profonde convergenze operative: difficile rompere un patto col diavolo quando lo si è fatto.
Sul punto si ricordi la strage di Nizza del 2016, quando un agente del Terrore travolse e schiacciò sotto le ruote di un camion 87 persone: benché rivendicato dall’Isis, pronta a mettere il suo cappello su tutte le efferatezze del mondo, il killer risultò essere un militante di al Nusra, come provavano in maniera inequivocabile i contatti della sua agenda personale (anche allora al Nusra era guidata da al Golani).
Di al Golani, e della sua al Nusra, si può ricordare anche la bella pensata di mettere i civili siriani in grandi gabbie poste su dei camion messi in circolo per le vie di quel quartiere di Damasco perché fungessero da scudi umani..
Questo il bel personaggio che intervista Frontline e che parla di interessi comuni con l’America. Per l’intervista ha anche dismesso gli usuali panni da stratega del Terrore, optando per una mise più sobria, più adatta all’occasione…
FONTE: https://piccolenote.ilgiornale.it/50580/il-leader-del-terrore-interessi-comuni-con-lamerica
Da Parigi ieri è arrivata la notizia bomba:“Arrestati 7 latitanti su 10”. Il Corriere della Sera on line mercoledì 28 aprile titola:“Pietrostefani, Cappelli, Manenti: chi sono i terroristi arrestati” sottotitolo “Tutti conducevano una vita normale in Francia. Il leader di Lotta continua era su Twitter, Manenti si proponeva come tuttofare su Facebook. Petrella fu salvata da Sarkozy”. L’Ansa riporta che la questione degli ex terroristi italiani rifugiati Oltralpe si è sbloccata con l’incontro a distanza l’8 aprile scorso tra i ministri della Giustizia dei due Paesi. “Quella degli Anni di Piombo è una ferita ancora aperta, l’Italia non può più aspettare”, aveva dichiarato la ministra Marta Cartabia, sottolineando l’urgenza di dare subito seguito alla richiesta di assicurare alla giustizia i latitanti, prima che per alcuni scattasse la prescrizione.
Ombre rosse
Questo è il nome dato all’operazione dalle autorità francesi e italiane al dossier riguardante i condannati terroristi italiani in Francia. L’Eliseo, in merito all’arresto, ha precisato che la decisione del presidente Emmanuel Macron “si colloca strettamente nella logica della dottrina Mitterrand di accordare l’asilo ai terroristi e brigatisti, eccetto ai responsabili di reati di sangue”. La compilazione della lista dei 10 nomi è il frutto “di un importante lavoro preparatorio bilaterale, durato diversi mesi – sottolinea l’Eliseo – che ha portato a prendere in considerazione i reati più gravi“. Il nome più gettonato sui media è quello di Giorgio Pietrostefani (a sinistra nella foto in evidenza), cofondatore e ex responsabile del servizio d’ordine di Lotta Continua a Milano, condannato in via definitiva come mandante insieme con Adriano Sofri dell’omicidio del commissario Calabresi. Pietrostefani non era un operaio, era figlio di un importante prefetto in carica ad Arezzo, la città di Fanfani. Su di lui in Italia i commenti sono diversificati. C’è chi ritiene che giustizia sia fatta dopo tanti anni di latitanza. “Oggi è stato ristabilito un principio fondamentale: non devono esistere zone franche per chi ha ucciso. La giustizia è stata finalmente rispettata. Ma non riesco a provare soddisfazione nel vedere una persona vecchia e malata in carcere dopo così tanto tempo #annidipiombo“. Così in un tweet Mario Calabresi, figlio del commissario Luigi Calabresi.
Fiorello Cortiana, già senatore dell’Ulivo e dei Verdi, non la pensa così, essendo stato in gioventù un militante di Lotta Continua. In una chat pubblica il suo parere: “Giorgio Pietrostefani è un esule condannato innocente con una sentenza poi smentita. È stato un dirigente di Lotta Continua non è mai stato un terrorista, con Lotta Continua si è battuto contro le stragi reazionarie pilotate dai servizi deviati così contro la deriva terrorista che ha coinvolto molte energie degli anni ’70”. Sugli altri arrestati, quasi tutti brigatisti, il dibattito è meno acceso. Abbiamo chiesto a Luciano Garibaldi, che ha scritto molto sull’omicidio Calabresi (a fianco la copertina del libro di Luciano Garibaldi «Gli Anni Spezzati. Il Commissario», pubblicato da ARES e dal quale fu tratta una delle fiction televisive apparse su RAI 1 nel 2014 dedicate alla ricostruzione degli “anni di piombo”) una ricostruzione della vicenda e dell’ambiente di quel tempo, che ha vissuto in presa diretta come caporedattore di un giornale.
Un ripensamento di portata storica. Omicidio Calabresi: dopo 49 anni l’incredibile resa dei conti
di Luciano Garibaldi
Il 28 aprile è stato arrestato Giorgio Pietrostefani, mandante dell’omicidio del commissario di polizia Luigi Calabresi, assassinato a Milano il 17 maggio 1972. Pietrostefani deve scontare una pena di 14 anni, 2 mesi e 11 giorni. Inizialmente era stato condannato a 22 anni, ma la pena era stata poi ridotta. Esattamente come al leader di Lotta Continua Adriano Sofri, che però ha interamente saldato il suo conto con la giustizia. L’evento è dovuto ad un “ripensamento” di portata storica del presidente francese Emmanuel Macron, il quale ha precisato di avere applicato la «dottrina Mitterrand»: accordare asilo ai ricercati per ragioni politiche “purché non responsabili di reati di sangue”. Curioso che ai francesi ci siano voluti 49 anni (tanti quanti sono trascorsi dall’assassinio Calabresi) per rendersene conto. Il “Corriere della Sera” il 21 novembre scorso pubblicò in prima pagina un articolo di Ernesto Galli della Loggia dal significativo titolo: «Terrorismo e anni di piombo: le ragioni di una rimozione». Vi si poteva leggere: «Da molto tempo ci troviamo, in mezzo a noi, capi e sottocapi dei gruppi extraparlamentari i quali a suo tempo si fecero banditori di violenza o in vario modo non si tirarono indietro neppure davanti al terrorismo. Non solo indisturbati e magari con ruoli importanti in questo o quel settore (di preferenza giornalistico), ma magari anche pronti a farci lezioni di moralità e di civismo, a spiegarci le regole della democrazia. Naturalmente senza essere stati mai costretti a ricordare nulla, senza aver mai ammesso nulla, senza aver mai chiesto scusa di nulla».
Il giorno in cui fu ucciso il commissario Calabresi, vivevo a Genova ed ero caporedattore del Corriere Mercantile, quotidiano della sera del capoluogo ligure. Appena appresa la notizia dell’assassinio di Calabresi, scrissi un articolo di fondo nel quale indicavo i responsabili (im)morali del delitto: tutti quei giornalisti che, dopo la morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, avevano crocifisso Calabresi, indicandolo come responsabile della sua morte e accusandolo di averlo fatto scaraventare da una finestra del suo ufficio, al quarto piano della Questura. Da quel momento, iniziò una serie di insinuazioni di stampa che culminò in una vera e propria campagna diffamatoria e si allargò sulle piazze ad opera di movimenti di estrema sinistra come Lotta Continua. Obiettivo: Luigi Calabresi, indicato come l’assassino di Pinelli. In quel mio articolo, pubblicato sul Corriere Mercantile il giorno dell’omicidio Calabresi, feci nomi e cognomi e intitolai il pezzo “I mandanti morali”, cioè tutti quei giornalisti che avevano sbeffeggiato Calabresi, chiamandolo “il commissario Cavalcioni”. Fui forse il primo a parlare durissimamente di quella campagna mediatica che era stata la vera matrice del delitto Calabresi. Per anni Gemma Capra, la vedova del commissario, non rilasciò interviste. Lo fece con me nel 1980, quando ero redattore capo del settimanale “Gente”. Fui il primo a convincerla a parlare. Mi disse che suo marito sospettava che, per quanto riguardava la strage di piazza Fontana, i manovali fossero “di sinistra”, ma i cervelli “di destra”, i quali avevano insomma tutto l’interesse ad impressionare l’opinione pubblica, per togliere così voti al PCI. Questa strategia i comunisti la capirono in ritardo, poi Berlinguer intervenne e diede praticamente carta bianca al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. E la “pulizia” incominciò quando i carabinieri sgominarono, in un conflitto a fuoco in via Fracchia a Genova nel 1979, la colonna genovese, con il brigatista Riccardo Dura ed altri. Ma, per tornare alla campagna di stampa che si trasformò in un autentico calvario per Calabresi, ricorderò che – valutazione fatta da Indro Montanelli – il 90 per cento della stampa italiana era schierato per la colpevolezza del commissario. E non solo la stampa. Libri di grande successo, come «Una finestra sulla strage», di Camilla Cederna, e opere teatrali che facevano il pieno, come «Morte accidentale di un anarchico», di Dario Fo, continuavano a gettare fango sul giovane funzionario di polizia, che invano chiedeva ai suoi superiori l’autorizzazione a querelare non soltanto «Lotta Continua» (che lo chiamava sistematicamente “assassino” e gli augurava apertamente la morte), ma anche – come scrissi in quell’articolo poche ore dopo il suo omicidio – «coloro che, subdolamente e con più veleno, lo indicavano quale assassino di Pinelli con abili giri di parole. Giornalisti e scrittori ultrasinistri che, anziché essere perseguiti dalla giustizia per la gravissima opera di sobillazione morale che andavano compiendo, ricevevano l’insperata pubblicità di eleganti e leziose presentazioni, in una nauseante atmosfera di salottiera civetteria e di parrucchini settecenteschi, tra dame con ventagli e tirabaci, e volterriani scrittori dalla toscana arguzia sempre pronta sul labbro nobilmente increspato da un sussiegoso sorriso di superiorità».
Quando la vedova di Pinelli, Licia, denunciò per omicidio del marito tutta la dirigenza dell’Ufficio politico della Questura milanese, la grande maggioranza della stampa presentò l’iniziativa con un tale rilievo (titoli a nove colonne in prima pagina) da orientare l’opinione pubblica in senso decisamente colpevolista. Ai cronisti politici, agli editorialisti, agli elzeviristi, si aggiunsero le incessanti iniziative del «Movimento nazionale giornalisti democratici», sorto in seguito ai fatti di piazza Fontana, e del «Comitato dei giornalisti per la libertà di stampa e la lotta contro la repressione», che divenne editore del «BDID» (Bollettino di informazione democratica), fonte inesauribile, in quei mesi, di autentica disinformazione, come dimostra questa sua fantasiosa versione della morte di Pinelli, sbrigativamente quanto anonimamente attribuita a «uno dei presenti»: «Pinelli intuisce che qualcuno, infiltratosi fra gli anarchici, ha fornito nomi, fatti e date a chi lo sta interrogando. Invece di tacere, parla, s’indigna, chiede che tutto quanto si sta dicendo sia verbalizzato. Fra i poliziotti interroganti, chi doveva capire la stessa cosa che Pinelli aveva capito, la capì. Poi partì un colpo (di karaté, come hanno scritto l’ “Avanti!” e “Vie Nuove”, oppure d’altra natura) che fece stramazzare Pinelli sulla sedia, provocandogli la lesione bulbare. Fu affacciato alla finestra forse per fargli prendere aria. Probabilmente il corpo fu appoggiato, dato che non si reggeva da solo. E così scivolò giù».
«Ero convinto», scriverà Leonardo Marino nel suo libro «La verità di piombo», edito da Ares nel 1992, «che l’anarchico Pinelli fosse stato ucciso nella questura di Milano da Calabresi o comunque per ordine di Calabresi. Quanto all’attentato del 12 dicembre 1969, ero certo che non potevano averlo fatto gli anarchici. La campagna di stampa, poi, era tambureggiante e convincente, almeno per noi. Ora so che Calabresi era solo un poliziotto che faceva il suo mestiere. Ma allora, per noi, il poliziotto “buono” non esisteva. Tanto più Calabresi, che ci avevano insegnato a odiare non solo come l’assassino di Pinelli, ma anche come il persecutore dei compagni, l’organizzatore della repressione poliziesca contro la sinistra extraparlamentare di Milano, l’agente della Cia. Fondamentale e determinante, nel creare in noi questa convinzione, questo odio, fu l’atteggiamento dei grandi nomi della cultura e della stampa del tempo. Non passava settimana che “L’Espresso” non pubblicasse pagine intere su Calabresi, contro Calabresi. Lo attaccavano a fondo “l’Unità”, “Vie Nuove”, l’ “Avanti!”. Leggevamo quegli articoli, e non era come leggere “Lotta Continua”, di cui sapevamo che era un foglio di propaganda e che, per fare propaganda, poteva anche esagerare un po’. Ma il vedere le stesse cose scritte sui giornali borghesi, sui grandi quotidiani, ci faceva dire: “Ma allora è tutto vero!”». «In sede, leggevamo le cronache del processo di Milano che Calabresi aveva intentato per diffamazione contro il direttore responsabile di “Lotta Continua”. L’impressione che si ricavava leggendo quelle cronache era di trovarsi di fronte non certo a un innocente, ma a un mascalzone in trappola. Quando poi uscì su “L’Espresso”, giornale che in sede leggevamo tutti, l’ “appello degli Ottocento”, firmato da grandi pensatori come il professor Norberto Bobbio, grandi registi come Federico Fellini, scrittori e poeti come Pier Paolo Pasolini, uomini politici e grandi combattenti antifascisti come Umberto Terracini, leggere quei nomi sotto un appello che chiedeva l’allontanamento di Calabresi dalla polizia (e dei giudici che lo avevano assolto in istruttoria dalla magistratura) e lo definiva apertamente “commissario torturatore” e “responsabile della morte di Pinelli”, ebbe per noi tutti un’importanza enorme. Nomi di quel calibro scendevano in piazza contro Calabresi? Era dunque lui l’obiettivo principale. Come se, togliendo di mezzo lui, si fosse fatta la massima operazione possibile di giustizia».
Ecco perché Leonardo Marino accettò di mettersi al volante della vettura che avrebbe condotto sul posto, ossia davanti all’abitazione di Calabresi, il killer Ovidio Bompressi su mandato di Giorgio Pietrostefani e “nihil obstat” di Adriano Sofri.
FONTE: https://www.civica.one/ombre-rosse-da-parigi/
BELPAESE DA SALVARE
Fdi, Figliomeni: consiglio straordinario su mancanza fondi per Roma
Roma – “Alla luce del risultato disastroso ottenuto da Roma Capitale per quanto riguarda i fondi del Recovery Fund, una Caporetto dovuta alla inesistente capacita’ progettuale dell’Amministrazione Raggi, e’ giunto il momento che, chi e’ stato profumatamente pagato per fare cio’, sia chiamato a risponderne dal punto di vista politico dinanzi ai cittadini in Aula Giulio Cesare.”
“Abbiamo chiesto la convocazione di un Consiglio straordinario per avere chiarimenti sui metodi e l’iter seguito nella interlocuzione governativa sul Recovery Fund per il Piano di Sviluppo resiliente, sostenibile e inclusivo di Roma Capitale.”
“Come accaduto per la Cabina di Regia sul Centro Carni, dove le riunioni dei vertici 5 Stelle non hanno portato a nulla se non a manifestazioni di ilarita’ contribuendo a svalutare la struttura, anche sul Recovery non c’e’ stato alcun confronto istituzionale nelle commissioni su opere che avrebbero potuto cambiare il volto della nostra citta’.”
“È necessario fare chiarezza sulle opportunita’ perse nella capitale d’Italia visto che altre citta’ italiane e capitali europee molto meno importanti di Roma, che invece hanno presentato progetti qualificati, otterranno finanziamenti per miliardi di euro che contribuiranno a riqualificare, innovare e rendere moderni i loro territori”. Lo dichiara Francesco Figliomeni consigliere capitolino di Fratelli d’Italia e vice presidente dell’Assemblea Capitolina.
FONTE: https://www.romadailynews.it/politica/fdi-figliomeni-consiglio-straordinario-su-mancanza-fondi-per-roma-0568831/
CONFLITTI GEOPOLITICI
I golpisti in Bielorussia si dichiarano colpevoli. Perché l’occidente tace?
In Bielorussia era stato pianificato un golpe che prevedeva l’assassinio del presidente Lukashenko e dei suoi figli. Mentre la capitale Minsk sarebbe stata paralizzata da un assalto hacker con i golpisti pronti ad occupare i punti strategici per la presa del potere.
Questo tentativo di golpe è stato sventato dall’azione congiunta di KGB (Bielorussia) e FSB (Russia). I sospetti hanno adesso ammesso le loro colpe e quindi il coinvolgimento nell’azione golpista. Le ammissioni sono arrivate nel documentario intitolato “Uccidere il presidente”, andato in onda mercoledì sulla TV bielorussa, come riporta l’agenzia TASS.
“Avevamo tre obiettivi da raggiungere. Il primo era l’eliminazione della leadership diretta del Paese, mediante internamento o eliminazione fisica. Il secondo obiettivo era il blocco delle unità che potevano opporre resistenza. Il terzo obiettivo era occupare i luoghi simbolici della città” dice l’avvocato Yury Zenkovich, uno dei sospettati.
“Mi dichiaro colpevole di essere stato effettivamente utilizzato come organizzatore tecnico”, ha detto. Il leader del partito politico BNF (destra conservatrice) Grigory Kostusev si è dichiarato colpevole di “aver permesso a queste persone di trascinarlo in questo tipo di discorso”.
“Era già un crimine per me essere stato coinvolto in questo discorso (golpista)“, ha affermato Kostusev.
Il ricercatore politico Alexander Feduta ha rivelato che la questione dell’occupazione di un certo numero di strutture statali è stata effettivamente discussa.
“Prima di tutto, i media, alcuni nodi di comunicazione e, possibilmente, un blocco temporaneo di Internet. Mi dichiaro colpevole di aver preso parte alla cospirazione”, ha detto Feduta.
Intanto continua la consegna del silenzio da parte dei media mainstream occidentali che preferiscono tacere. La domanda è perché? Forse temono l’emergere di taluni collegamenti o sostegni?
Il presidente bielorusso Lukashenko ha accusato i servizi di intelligence e la leadership statunitense partecipato alla pianificazione del tentativo golpista. Secondo gli investigatori bielorussi, il tentativo di colpo di Stato è stato finanziato dall’estero e i cospiratori sono rimasti in stretto contatto con i gruppi terroristici. I golpisti avevano elaborato non meno di tre diversi piani per prendere il potere. Il Comitato per la sicurezza dello Stato bielorusso (KGB) ha accusato quattro persone di cospirazione per prendere il potere in modo incostituzionale. Il Comitato ha rivelato che tutti i sospettati testimoniano e collaborano alle indagini. Finora il KGB non ha rivelato il nome del quarto sospetto.
FONTE: https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-i_golpisti_in_bielorussia_si_dichiarano_colpevoli_perch_loccidente_tace/8_41002/
Ecco cosa si nasconde dietro la tensione fra Washington e Ankara
“Non fu genocidio”. Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan commenta a muso duro il riconoscimento da parte del presidente americano Joe Biden del genocidio armeno che ha provocato una crisi diplomatica fra i due alleati della Nato. Erdogan ha infatti definito “senza fondamento” il riconoscimento da parte del presidente americano Joe Biden del genocidio armeno del 1915. “In un messaggio pubblicato il 24 aprile, il presidente degli Stati Uniti d’America Joe Biden ha utilizzato delle parole senza fondamento, ingiuste e contrarie alla realtà riguardanti gli eventi dolorosi avvenuti nella nostra regione più di un secolo fa”, ha affermato Erdogan in un intervento pubblico, come riporta Aska News, mettendo in guardia dall’effetto “distruttore” che il riconoscimento da parte di Washington del genocidio armeno potrebbe avere sulle relazioni già tese turco-americane.
Lo scorso 23 aprile i due leader hanno avuto un colloquio telefonico: secondo la nota ufficiale, Biden ha “espresso il suo interesse per un costruttivo rapporto bilaterale con aree di cooperazione allargate e una gestione efficace dei disaccordi”. Biden ed Erdogan hanno concordato di incontrarsi a margine del vertice Nato in programma per il mese di giugno con l’obiettivo di intavolare una conversazione più ampia sulle relazioni tra Usa e Turchia.
Genocidio armeno, sale la tensione fra Washington e Ankara
Il riconoscimento del genocidio armeno peserà sulle relazioni bilaterali fra Washington e Ankara come ha affermato Erdogan? Fino a un certo punto. Come ci racconta spiega Valeria Giannotta, analista e docente presso l’Università dell’Aeronautica di Ankara, “partiamo dal presupposto che la Turchia è un Paese con cui gli Usa dovranno sempre fare i conti, quantomeno per la sua posizione geografica, oltre che per i legami istituzionali in seno alla Nato. Sono due Paesi, comunque, ‘condannati’ a relazionarsi e cooperare. Joe Biden ha fatto una cosa che nessun altro Presidente americano ha mai fatto, o meglio: la questione del genocidio è stata spesso dibattuta e approvata in seno al Congresso, ma tutti i presidenti Usa, alla fine, non l’hanno mai approvata. Questo perché è una questione dibattuta e a livello di Nazioni Unite e di diritto internazionale, e non vi è alcune documento che si riferisca alla parola genocidio” spiega.
La svolta di Joe Biden dettata dalle pressioni interne
Come sottolinea Giannotta, la decisione di Biden rappresenta un sostanziale punto di rottura rispetto al passato. “La carta armena è stata usata da Biden in campagna elettorale, con la quale si è accaparrato voti negli Stati chiave oltre che in California. È stata una promessa che ha dovuto mantenere e nel suo partito ci sono figure importanti molto sensibili alla questione armena”. Inoltre, osserva Valeria Giannotta, “Biden si è reso promotore e sostenitore di regimi democratici e liberali, da qui l’accusa verso la gestione di Erdogan e l’imbarazzante silenzio dopo le elezioni”.
C’è un però. “Erdogan c’entra poco in realtà – spiega la docente -. Perché la questione armena è una questione di interesse nazionale, e il 95% dei turchi nega che vi sia stato un genocidio. Ribadiscono anzi che gli archivi ottomani sono aperti ma che gli armeni non hanno mai voluto aprire i loro. Indi per cui una mossa del genere non fa che nutrire la retorica nazionalista di Erdogan, che è in alleanza con il partito nazionalista, e ricompattare l’elettorato su questioni di orgoglio nazionale”. Per quanto concerne i rapporti bilaterali fra i due Paesi, “ci sono già mille criticità. La Turchia è stata sanzionata per l’acquisto del sistema S-400; è stata espulsa dal programma F-35; e dall’altra parte Ankara condanna Washington per il sostegno accordato alle milizie curde e per negare l’estradizione di Gülen”. Ma le dichiarazioni del presidente turco, osserva l’esperta, “si fermano qui. Non credo abbia ampi margini di manovra per qualsiasi tipo di ritorsione contro Washington”.
L’ex ambasciatore Carlo Marsilli: “Escluso che la Turchia possa uscire dalla Nato”
Dello stesso parere Carlo Marsilli, dal 2004 al 2010 Ambasciatore dell’Italia in Turchia. “Fino ad oggi, la mozione sul riconoscimento del genocidio armeno veniva approvata dal Congresso Usa ma poi mai ratificata dal Presidente. Che Joe Biden avrebbe però assunto un atteggiamento diverso verso la Turchia lo si era capita da tempo. Biden, infatti – spiega l’ambasciatore – è sensibile alle pressioni di illustri esponenti del Partito democratico a favore del riconoscimento del genocidio armeno, fra i quali la vicepresidente Kamala Harris, eletta in California, e Nancy Pelosi. Peraltro Biden si era impegnato in campagna elettorale in tal senso”.
In generale, osserva Marsilli, “non è un momento favorevole per le relazioni fra Stati Uniti e Turchia, a cominciare dall’acquisto del sistema missilistico S-400 da parte di Ankara, passando alla questione siriana e libica, fino a Gülen”. Per quanto concerne il genocidio armeno, osserva l’ambasciatore, “io ritengo che non stia alla politica decidere se si sia trattato di genocidio o meno. Ci sono storici, come Bernard Lewis o in Italia Sergio Romano, che ritengono non si sia trattato di genocidio. Altri, invece, sostengono il contrario. D’altra parte va detto che la Turchia ha proposto l’istituzione di una commissione fatta di storici sotto l’egida delle Nazioni Unite avente accesso agli archivi ma da parte armena non c’è mai stata condivisione di tale proposta”.
Da escludere che un deterioramento dei rapporti fra Washington e Ankara possa portare la Turchia fuori dall’Alleanza Atlantica. “Escluso che la Turchia possa uscire dalla Nato – osserva Carlo Marsilli -. La Nato rappresenta l’ultima ancora occidentale per la Turchia, mentre gli Usa hanno bisogno di Ankara perché la posizione geografica della Turchia rimane unica”.
FONTE: https://it.insideover.com/politica/ecco-cosa-si-nasconde-dietro-la-tensione-fra-washington-e-ankara.html
CULTURA
Acrobazie è un oggetto raffinato.
Manlio Lo Presti – 29 aprile 2021
Acrobazie è un oggetto raffinato. Impreziosito da disegni dell’Autore, il libro di racconti si snoda in ottanta pagine. Alla fine del testo narrativo troviamo utilissime “note” dove sono riportate le occasioni che hanno fatto nascere le narrazioni. Segue un indice accurato di tutti i racconti e tre pagine finali di spazi quadrettati oblunghi in campo grigio per le annotazioni del lettore: un accessorio grafico molto raro e ben gradito. Segno, questo, che l’Autore ritiene a giusto merito, che la grafica sia parte integrante della architettura narrativa. Le immagini scandiscono i testi in filoni diversi che costituiscono un unico cammino. La parte iniziale del libro conduce i lettori nel labirinto delle letterature europee e dei suoi autori che ha ritenuto di maggiore rilievo. Questi riferimenti sono una parte dei ricordi che sono chiave interpretativa del presente che viene vissuto e non immaginato.
La sua scrittura scorre pulita, attenta, con uno stile che ricorda narratori di rango come Pirandello e Tomasi di Lampedusa. Sono gradevoli e minuziose le descrizioni degli oggetti che circondano l’esistenza di ciascuno di noi. Borges ne fece una accurata elencazione in una sua memorabile poesia.
I racconti sono resoconti esplorativi e benevoli. Ogni riflessione è equilibrata e attenta a rispettare i tempi e gli spazi degli ambienti. Non ci sono rancori né esitazioni, né riflessioni troncate da rimandi mai compiuti. Tutto scorre e può essere vissuto da lettori avvezzi alla riflessione e alla concentrazione. Il contenuto del primo racconto suddiviso in dieci parti è scritto con un linguaggio che fa pensare ad un realismo inframmezzato da ricordi di infanzia analizzati con metodo, con la calma del navigatore esperto che sa orizzontarsi nella marea di conoscenze profuse nel testo. Lo stile rimanda a De Maistre nelle parti dove il protagonista si muove in solitudine e a Ionesco per i tempi calmi e l’attenzione ai particolari. Interessante la narrazione di un cappotto che contiene tutto il percepibile. Le sue tasche non hanno fondo, contengono tracce di ricordi di viaggi che sono itinerari dello spirito.
Seguono racconti brevissimi ma altrettanto coinvolgenti. Alcuni sono momenti sospesi come accade nella meditazione Zen. Ci sono diversi momenti di ironia a piccole dosi. Ogni racconto è una meditazione di istanti, di respiri profondi. L’Autore mostra di conoscere i tempi della narrazione orientale evidenziati dalla prosa raffinata e destinata a lettori amanti della parola-suono e del testo-orchestra.
Gli accadimenti del mondo circostante vanno affrontati con occhi diversi perché vanno osservati “attraverso” e non solo davanti, alla superficie. Si tratta di attimi, di sensazioni e di stati d’animo. Come negli haiku giapponesi, il presente è descritto con l’intensità che solo una coscienza vigile e presente a sé stessa consente.
Il testo è un bonsai e un capolavoro di brevità che contiene trentaquattro trame.
Si tratta di una alternativa al libro-fiume, al tomo che può intimorire. Fa pensare ad uno scrigno d’avorio dentro il quale ci sono i colori di pietre preziose conservate per l’eternità. Un libro che si legge in viaggio comodamente seduti in treno, in aereo, davanti ad una gradevole colazione in un bar accogliente.
Il viaggio è una cornice perfetta per questa gradevolissima ghirlanda di racconti.
Alessandro Trasciatti, Acrobazie, Il ramo e la foglia edizioni, 2021, Pag. 87
Giovanni Gentile, filosofo cancellato. Una storia paradigmatica.
Il 15 aprile 1944 a Firenze fu assassinato Giovanni Gentile ad opera di un gruppo partigiano aderente ai GAP, comandato da Bruno Fanciullacci, che fu anche autore dell’esecuzione in prima persona. Forse in questi nostri giorni sempre più refrattari alle sfumature è di qualche utilità ricordare che l’azione non fu unanimemente approvata nell’ambito del CLN toscano: Gentile era abbastanza anziano, da tempo fuori della vita politica in senso stretto, anche se la sua adesione alla Repubblica Sociale Italiana e l’accettazione della carica di Presidente dell’Accademia d’Italia, la cui sede era stata spostata a Firenze, gli aveva attirato varie chiamate in correo e qualche minaccia di morte. Ma era detestato anche negli ambienti più radicali del fascismo repubblicano e su di lui gravava da tempo un vecchio sospetto di terzietà o comunque di tiepidezza. Che poi potesse essere “complice” delle efferatezze del maggiore Mario Carità forse non arrivavano a pensarlo neppure i suoi sicari, benché lo affermassero. Ma questa è la fine.
Prima c’è il Gentile esponente di primo piano dell’idealismo italiano, riformatore della Scuola, organizzatore dell’Enciclopedia Italiana, maestro di generazioni di studiosi protetti e aiutati indipendentemente dal loro credo politico e, da un certo punto in avanti, anche della loro appartenenza razziale. Certo, c’è pure il Gentile che scrive a quattro mani con Mussolini la voce “Fascismo” per l’Enciclopedia Italiana, il Gentile estensore e capofila del Manifesto degli intellettuali fascisti, che vede nel fascismo il compimento del Risorgimento, c’è il Gentile studioso epocale di Marx e del marxismo (aspetti su cui tanto si è soffermato Augusto Del Noce): insomma un personaggio complesso e talvolta contraddittorio, a tutto riconducibile fuorché alla banalizzazione faziosa, l’uomo che – come ebbe a dire una volta se non sbaglio Massimo Cacciari con la vis polemica e sarcastica che lo contraddistingue – se fosse nato a Heidelberg in Germania e non a Castelvetrano in Sicilia sarebbe considerato uno dei più grandi filosofi europei del Novecento, se non il maggiore.
E però da un certo punto in avanti, dopo la sua esperienza di Ministro, Gentile fu soprattutto un accademico e un maestro, sostanzialmente un uomo di università. Da qui il suo legame fortissimo con Pisa, della cui Università fu Rettore e della cui Scuola Normale Direttore. In questa veste gli è unanimemente riconosciuto il merito della trasformazione della Scuola Normale da mero collegio per coadiuvare gli studenti meritevoli negli studi universitari in centro di eccellenza e vivaio per le migliori intelligenze dell’Italia futura, sempre nella prospettiva del fascismo come compimento del Risorgimento, elemento costitutivo del suo orizzonte politico-culturale: un modello che egli immaginava di estendere come affiancamento ad altri atenei italiani, per la coltivazione di competenze e di eccellenze diffuse, non certo come “parassitazione” dell’istituzione pisana, come purtroppo è stato qualche volta inteso negli ultimi anni. A Pisa comunque egli operò con larghezza di vedute, favorendo notoriamente anche studiosi in difficoltà per il loro antifascismo o per la loro appartenenza alla razza ebraica: basti ricordare il caso del tedesco Kristeller, tenuto il più possibile nella Scuola onde evitargli il rientro in Germania. A Pisa ebbe discepoli e prosecutori più o meno critici del suo pensiero, anche dopo la sua morte. Molti di loro confluirono nel robusto filone di intellettuali che si andava posizionando attorno al PC togliattiano, altri, come Carlini, alimentarono una ripresa del pensiero cattolico rivisitato attraverso l’idealismo. Ma il suo nome fu silenziato, rimosso dai pubblici ricordi, e l’interdizione, vigente per moltissimi anni, possiamo dire che oggi conserva ancora intatto tutto il suo potere.
Mentre gli studiosi andavano riscoprendo criticamente lo spessore del pensatore e dell’organizzatore culturale, in pieni anni Ottanta il suo nome, per un pesante intervento di “vigilanza antifascista” fu cancellato da una lapide che in modo del tutto avalutativo riportava l’elenco dei docenti, membri del personale tecnico e studenti morti a causa degli eventi bellici. Neppure il nome… un’operazione che sembra ambientata più nella Mosca anni Trenta che non nella Pisa del 1984. Né sorte migliore incontra nel 1999 il tentativo di porre rimedio all’abrasione barbarica mediante un’epigrafe ad personam. La decisione, per la quale a un Rettore equanime sembrano maturi i tempi (“E’ maturo il tempo per superare un comprensibile atteggiamento emotivo nei confronti di Gentile, ben consapevoli delle difficoltà dell’operazione che tocca dolorosamente la memoria sociale’, sostiene il Rettore Modica) viene approvata dal Senato Accademico. Ma immediatamente si alza un gran polverone con dure prese di posizione di ambienti di sinistra, a cui il Rettore replica: “Nonostante le colpe storiche Gentile ha avuto un ruolo strategico nell’organizzazione delle istituzioni scolastiche ed educative del Novecento, creando in particolare un ambiente scientifico liberale, fino al punto di aiutare docenti ebrei, proprio nel momento in cui venivano emanate le leggi razziali, da lui stesso pubblicamente approvate”. Iniziano tentativi di trovare una quadra sul testo da incidere: di modifica in modifica, di proposta conciliativa in proposta conciliativa, si giunge a configurare un ircocervo che pretende di mettere insieme il ricordo del grande filosofo con l’accusa (adombrata ma non troppo) di essere stato complice attivo delle persecuzioni razziali.
Insomma un tentativo di mediazione francamente insostenibile, che diventa immediatamente un caso nazionale: intervengono Montanelli, Cappelletti, e Canfora, e da ultimo il nipote Giovanni Gentile, editore, minaccia di denunciare l’università nel caso che la formulazione definitiva rimanga quella. Il Senato accademico, preso tra due fuochi, “con rammarico” delibera di rinunciare all’apposizione della lapide. E così ancora oggi né una strada cittadina, né un’epigrafe, né un’aula e diciamo neppure un banco ne ricorda l’operato.
Chissà che alla fine non sia un bene, in questi tempi così propensi ad abbattere le statue e ad imbrattare le lapidi? In fondo al visitatore non distratto, se percorre il cortile della storica Sapienza pisana è ancora riservata una scoperta sorprendente: nella grande epigrafe che ricorda i morti per gli eventi bellici il nome di Giovanni Gentile, abraso, emerge tenacemente sotto il nome che lo ha rimpiazzato, come un fantasma innominabile e scomodo.
FONTE: https://loccidentale.it/giovanni-gentile-filosofo-cancellato-una-storia-paradigmatica/
LA VACCINATA
È necessario fare uno sforzo abnorme per ancorarsi alla lucidità e planare nello spazio sicuro che spinge al ragionamento. Il fantastico trio di esperti la traghetta a oltranza verso altro, è una lotta impari. Il modo di parlare e soprattutto il tono lascia spazio a un’unica certezza: quella di una comunicazione dissociata, poco rassicurante, robotica, anche se non è in grado di affermare se l’errore sia più involontario o criminale.
22 04 2021
Un vuoto pneumatico avvolge il circuito cognitivo alla vana ricerca di un segno sintattico noto da poter processare.
È necessario fare uno sforzo abnorme per ancorarsi alla lucidità e planare nello spazio sicuro che spinge al ragionamento.
FONTE: https://www.idiavoli.com/it/article/la-vaccinata
CYBERWAR SPIONAGGIO INFORMAZIONE DISINFORMAZIONE
Il mondo è completamente cambiato da quando Gagarin, lanciato nello spazio il 12 aprile ’61, è stato l’emblema della competizione nello spazio tra Usa e Urss. Ora s’è fatto multipolare con la Cina e i privati, i grandi player digitali che hanno visto crescere la propria centralità nell’economia globale. La pandemia ha mostrato quale sia la consistenza degli Stati europei e dell’Unione Europea. La politica di Bruxelles, della Commissione e del Consiglio UE è sotto gli occhi di tutti in questi giorni di ‘sofa-gate‘, il Parlamento UE era già stato piegato nel 2019 con la nomina di Ursula, a cui ha fatto seguito un nuovo governo di Anti-sovranisti in Italia, il Conte bis. Ora gli Anti-sovranisti europei e italiani sono molto preoccupati della loro sovranità, in particolare di quella digitale messa in grave pericolo dai nuovi grandi del web. Si è così aggiunta una nuova dimensione nei conflitti, le cosiddette guerre ibride, come spiega il prof. Mario Caligiuri.
La guerra nello spazio oggi come va inquadrata?
“I nuovi domini della guerra sono il cyberspazio e la colonizzazione dello spazio stellare. Già oggi metà della popolazione mondiale è collegata a internet, nel 2025 arriveremo al 75% e a fine secolo saremo quasi al completo. Questi sono gli elementi fondamentali di partenza. I conflitti oggi si combattono sul web soprattutto con le informazioni e sul terreno attraverso i droni, rendendo paradossalmente più accettabili le guerre, in quanto si ridurranno le perdite di vite umane. Ma, dopo le contese degli anni Sessanta, lo spazio continua a essere nuovamente conteso ed è sufficiente constatare il numero crescente dei satelliti in orbita, alcuni dei quali praticamente battono bandiera ombra. Restringendo il campo, ad America e Russia s’è aggiunta la Cina, che non sta a guardare neanche in questo settore sempre più strategico. Si sta, infatti, definendo una geopolitica dello spazio, alla quale occorre prestare la massima attenzione poiché inciderà potentemente negli equilibri dell’ordine mondiale. Il Grande Fratello ci osserva non solo dagli schermi ma anche dall’alto, per memorizzare ogni nostro traccia profilando i nostri comportamenti, le nostre preferenze, le nostre manie. Praticamente le nostre intimità non hanno segreti. I satelliti ricevono e trasmettono informazioni, rafforzando quello che è stato definito il ‘capitalismo della sorveglianza’ “.
Ma adesso si apre la competizione anche fra privati.
“E qui si tratta una storia molto significativa, sulle quale non si riflette abbastanza. E’ noto che Elon Musk, il patron di Tesla, e Jeff Bezos, il creatore di Amazon, hanno scelto lo spazio come ambito di espansione, di sperimentazione e di investimento. Musk sta progettando di mettere in orbita 11 mila satelliti per connettere tutto il pianeta a internet e Bezos è già stato autorizzato a inviarne 3300. Il primo punta alla conquista di Marte, il secondo al predominio sulla Luna. Lo scenario sta cambiando radicalmente con i privati che competono con gli Stati, in uno scenario sideralmente diverso dall’avventura di Gagarin. Infatti, ci stiamo avvicinando alla fusione tra lo spazio fisico e quello digitale, con l’intelligenza artificiale in competizione con quella umana e l’ibridazione inevitabile tra uomo e macchina. Joel De Rosnay già negli anni Novanta parlava di ‘cybionte’ “.
Ma qual è la posta in gioco?
“Molto alta. Ed è rappresentata dal controllo delle menti. È una battaglia in cui tutti siamo soldati inconsapevoli di una guerra senza limiti. La supremazia tecnologica vede stati e privati competere praticamente alla pari. In questo ‘grande gioco’ l’Europa è al rimorchio degli interessi di Stati Uniti e Cina, non essendo stata in grado di comprendere la grande trasformazione in atto, a differenze di piccole Nazioni, come Israele e Corea del Sud che sono diventate delle innegabili potenze digitali. L’efficienza dei sistemi di governo saranno sempre più determinanti, con la politica in Occidente orientata dai poteri economici, mentre nei Paesi autoritari, non solo la Cina, ma anche, in modi diversi, la Russia e i paesi islamici, avviene esattamente il contrario.”.
Ma la diplomazia internazionale appare inquinata dentro lo spazio web, vedi le manipolazioni che in questi anni hanno chiamato in causa la Russia nel corso delle campagne elettorali in America.
“Anche questo è un evidente segno dei tempi. Nell’era della guerra dell’informazione, che è anche guerra cognitiva e normativa, la disinformazione invade la vita dei cittadini. Utilizzando la celebre metafora di Marshall McLuhan che dice “Quello di cui i pesci non sanno assolutamente nulla è l’acqua“, noi siamo totalmente immersi nella disinformazione e non ce ne rendiamo affatto conto. Infatti, viviamo in un contesto in cui confondiamo gli annunci con la realtà, tipo i finanziamenti del Recovery Fund, e l’intelligenza artificiale con la politica, tipo i risultati dei sondaggi elettorali. E pochi si rendono conto che le dichiarazioni degli esponenti politici ed istituzionali sono pagine di pubblicità, se le leggiamo sulla stampa, o spot televisivi, se li vediamo in video. A livello mondiale, secondo alcune fonti, gli investimenti in pubbliche relazioni sono secondi solo a quelli negli armamenti. Inoltre, le azioni di manipolazione sono sempre esistite, anche a livello politico. Non deve stupire la eventuale azione di condizionamento della Russia nella campagna elettorale delle presidenziali americane. La “disinformatia” di Mosca ha una tradizione secolare, annoverando anche uno dei più clamorosi falsi storici di tutti i tempi: “I Protocolli dei Savi Anziani di Sion”, il documento antisemita confezionato agli inizi del Novecento dall’Ochrana, la polizia segreta dello Zar”.
E’ una situazione indubbiamente preoccupante, dice può effettivamente succedere di tutto. Non a caso abbiamo assistito in Italia pochi giorni fa a un clamoroso caso di spionaggio tradizionale, con le spie che incontravano all’interno di una macchina, come si tempi della guerra fredda.
“E’ la dimostrazione evidente che lo spionaggio è più vivo e attuale che mai. Si spierà sempre di più perché nel mondo globalizzato gli alleati non sono amici e gli amici non sono alleati. In questa guerra di tutti contro tutti, le informazioni pregiate diventano uno strumento di potere oggi più di ieri. Fare affidamento alle sole tecnologie espone a rischi gravi, come hanno dimostrato gli attentati dell’11 settembre, dove le informazioni erano state raccolte per tempo ma sono state interpretate e collegate solo successivamente. L’esempio migliore è quello di Israele che sta reclutando contemporaneamente hacker, per raccogliere informazioni nei recessi più reconditi della rete, e laureati in filosofia, per interpretarle. È la rivincita del “fattore umano” e non a caso l’intelligence è la forma più raffinata di intelligenza umana perché consente di vedere oltre”.
Mario Caligiuri è professore ordinario di Pedagogia della comunicazione all’Università della Calabria e ha insegnato al Master sul contrasto alla radicalizzazione e al terrorismo dell’Università di Bergamo. Con Giorgio Galli ha scritto “Il potere che sta conquistando il mondo. Le multinazionali dei paesi senza democrazia (2020). La sua ultima pubblicazione è “Andreotti e l’intelligence. La guerra fredda in Italia e nel mondo (Rubbettino, 2021).
FONTE: https://www.civica.one/spazio-e-web-una-guerra-senza-limiti/
Assalto al Campidoglio: crollano le Fake news sulla morte di Sicknick
20 aprile 2021
L’agente di polizia Brian Sicknick non fu ucciso durante l’assalto di Capitol Hill, ma è morto di morte naturale, a causa di un ictus. Questo il responso del medico legale, arrivato solo ieri, a distanza notevole da quel drammatico 6 gennaio 2021.
La notizia è passata quasi inosservata negli Stati Uniti, che stanno attendendo con ansia l’esito del processo a Derek Chauvin, il poliziotto che uccise George Floyd, assassinio che diede il via alla ribellione degli afroamericani e che tanto ha inciso sul nuovo corso mondiale.
La sentenza si annuncia storica e oscura altre notizie, pure importanti e forse più importanti, dato che l’esito del processo Chauvin è scontato, a meno di non voler incendiare nuovamente l’America, con fiamme stavolta non gestibili dalla politica come in precedenza (ché quell’assassinio fu addossato a Trump, con tutto quel che ne è seguito).
E forse aver scelto proprio questo giorno per annunciare la morte naturale di Sicknik fa parte di un copione, dato che in giorni normali l’annuncio avrebbe avuto ben altra eco.
La morte di Sicknik fu attribuita alla furia di alcuni manifestanti, che avrebbero colpito l’agente con un estintore. Anche questa morte fu quindi accreditata a Trump.
Sicknik fu dipinto come l’eroe nazionale, caduto per difendere la democrazia americana contro il suprematismo e le Fake news alimentate da Trump. A compimento di tale narrazione le esequie di Stato, la cremazione del corpo e la sepoltura nel cimitero di Arlington, con gli onori tributati a un eroe.
Il suo assassinio fu ampiamente citato nel video realizzato per il Congresso degli Stati Uniti, fatto che raccontare gli orrori dell’assalto e per accreditarli a Trump, che la nuova assemblea legislativa (quella uscita dalle ultime elezioni, che avevano dato la vittoria ai democratici) avrebbe dovuto condannare con un solenne impeachment.
Non andò così, e l’impeachment fu evitato dal voto. Nonostante tutto la narrativa è rimasta tale, anche dopo la scoperta che il corpo dell’agente di polizia non presentava alcun segno di contusione.
Nulla importando la secca smentita, i media virarono su un assassinio a scoppio ritardato: l’agente sarebbe stato intossicato dall’inalazione di un preparato al peperoncino o di un altro più potente, usato per allontanare gli orsi, che i manifestanti gli avevano spruzzato contro durante gli scontri.
Ininfluente anche quanto aveva detto la famiglia: i suoi familiari, infatti, avevano dichiarato di aver avuto un contatto telefonico con Brian, e che questi aveva detto loro di esser stato spruzzato da spray, ma di “stare in forma“. E nulla importando l’esortazione degli stessi a non fare della morte del loro congiunto una “questione politica“.
Peraltro, il padre aveva detto subito che il figlio era morto per un ictus, a causa di una patologia non operabile, perché un’eventuale operazione l’avrebbe ridotto a un “vegetale” (così su Nbcnews, l’11 gennaio 2021).
Nonostante tutto, i media che hanno propalato la Fake news, usata come un ariete contro Trump, non demordono: non possono accettare che il loro castello di carte crolli miserevolmente, e continuano a ripetere che, comunque, l’agente Sicknik è morto a causa degli scontri.
Così rendiamo onore all’agente Sicknik, morto dopo aver svolto egregiamente il suo lavoro al Campidoglio, e ucciso successivamente da una bieca strumentalizzazione politica, che usa di tutto per alimentare la sua propaganda.
E rendiamo onore alla sua famiglia, che, oltre al lutto, ha dovuto subire il torto di questa bieca strumentalizzazione, che aveva paventato e cercato di evitare. E che oggi giustamente si sta negando ai giornali che hanno tradito la sua espressa volontà. Non c’è pace né per i vivi né per i morti.
FONTE: https://piccolenote.ilgiornale.it/50746/assalto-al-campidoglio-crollano-le-fakenews-sulla-morte-di-sicknick
ECONOMIA
Vaccini, numeri da capogiro: ecco quanto guadagnano le Big Pharma
28 Aprile 2021
Si potrebbe andare incontro ad un aumento del 900% per ogni singola dose di Pfizer quando la pandemia diventerà epidemia: è quanto ha detto il Direttore finanziario dell’azienda, Frank D’Amelio
Incremento, fatturato, guadagno: sono queste le parole d’ordine per nulla misteriose di un’azienda come Pfizer/BioNtech che ha da poco aumentato il prezzo per ogni singola dose dei suoi vaccini ad Rna messaggero contro il Covid.
Un aumento esponenziale
Lo scorso 2 febbraio Frank D’Amelio, Direttore finanziario e vicepresidente esecutivo di Pfizer, si è lasciato andare ad alcune “confidenze” durante una riunione con gli analisti delle più importanti banche d’affari al mondo spiegando che, se adesso ci troviamo in “un momento di prezzo pandemico“, quindi scontato, appena il Covid diventerà una semplice epidemia i prezzi lieviteranno ancor di più, eccome se lieviteranno. “L’unico prezzo che abbiamo pubblicato è quello applicato agli Stati Uniti, cioè 19,50 dollari per dose – affermata D’Amelio – Ovviamente, questo non è il prezzo a cui normalmente vendiamo un vaccino, che invece è 150-175 dollari per dose“. Chi sa fare due calcoli matematici molto veloci, si accorge che se il vaccino anti Covid venisse messo sul mercato a una cifra compresa tra i 150 e i 175 dollari per dose, come ha lasciato intendere il manager, l’aumento rispetto a oggi sarebbe di circa il 900%. Un’enormità.
Chi fattura di più?
Ma Pfizer non è mica l’unica: anche le altre case farmaceutiche che stanno commercializzando i vaccini possono già fregarsi le mani. Come riporta Ilfattoquotidiano, soltanto tre Big Pharma hanno già pubblicato i dati sulle prospettive di mercato per il 2021: si tratta di Astrazeneca, Moderna e, come detto, Pfizer/Biontech. Il loro obiettivo sarà fatturare almeno 35 miliardi di dollari entro fine anno con le vendite dei rispettivi vaccini anti-Covid. Non male, considerando che le stesse imprese hanno già beneficiato di 10,9 miliardi di dollari di sussidi pubblici per la ricerca dell’antidoto. Ovviamente, i vaccini ad Rna messaggero sono quelli che costano di più sia per la piattaforma innovativa mai utilizzata in passato, sia perché finora sono quelli più utilizzati. È per questo che Pfizer/BioNtech e Moderna fattureranno circa 33,2 miliardi in due, nettamente di più di AstraZeneca: lo dicono i contratti firmati dalle tre aziende con la Commissione europea tra agosto e novembre dello scorso anno, quelli validi per le prime forniture: Astrazeneca ha venduto il suo vaccino a 2,9 euro per dose, Pfizer/Biontech a 15,5 euro, Moderna a 18,8 euro.
Il lucro dei guadagni
Eppure i prezzi dovrebbero essere ben inferiori: secondo uno studio pubblicato nel dicembre scorso da alcuni ricercatori dell’Imperial College di Londra, i costi di produzione dei vaccini a base Rna messaggero come quelli di Pfizer-Biontech e Moderna variano dai 60 centesimi ai 2 dollari a dose ma le aziende in questione li vendono più di 10 volte tanto. “Dato il notevole afflusso di denaro pubblico per la ricerca e sviluppo di questo vaccino e i costi probabilmente molto bassi per la commercializzazione – ha scritto Oxfam International in un rapporto pubblicato il 22 aprile – una stima ragionevolmente prudente è che Moderna e Pfizer beneficeranno di un margine di profitto netto del 25-30% da questo vaccino“. Stando così le cose, Moderna potrebbe registrare un utile netto di circa 5 miliardi di dollari a fine 2021, Pfizer e Biontech dovranno invece accontentarsi di spartirsi equamente 4 miliardi di dollari di profitti, motivo per il quale queste aziende rimangono restie a cedere la licenza di produzione. “Tutte le principali aziende farmaceutiche sono ferocemente contrarie alla condivisione aperta della tecnologia e alla sospensione delle tutele della proprietà intellettuale – si legge sul comunicato – Il CEO di Pfizer ha risposto alle mosse dell’OMS per mettere in comune la tecnologia dei vaccini per consentire ad altri produttori qualificati di fare vaccini dicendo che pensava che fosse ‘una sciocchezza ed … è anche pericoloso‘.
Il mondo ha bisogno dei vaccini
Queste cifre, ha scritto l’Organizzazione non governativa nel suo report, stridono con i numeri delle persone vaccinate nel mondo, ancora bassissime soprattutto nei Paesi in via di sviluppo. “Mentre un cittadino su quattro delle nazioni ricche ha avuto un vaccino, solo una persona su 500 nei paesi più poveri lo ha fatto, il che significa che il bilancio delle vittime continua a salire mentre il virus rimane fuori controllo. Gli epidemiologi prevedono che abbiamo meno di un anno prima che le mutazioni possano rendere inefficaci gli attuali vaccini“. L’accusa è che tutti i vaccini, essendo finanziati da denaro pubblico, devono essere disponibili per tutti ed è “un fallimento morale per i leader dei Paesi ricchi consentire a un piccolo gruppo di società di mantenere la tecnologia e il know-how sui vaccini sotto chiave e vendere le loro dosi limitate al miglior offerente“, ha affermato Heidi Chow, Senior Campaigns e Policy Manager di Global Justice Now.
Ma le Big Pharma sembrano pensare ad altro perché i prezzi dei vaccini sono già aumentati di due euro, da 15,50 a 17,50 a dose per Pfizer “per ogni ordine aggiuntivo effettuato e concordato“, si legge sul contratto che l’Ue ha firmato nel novembre del 2020. Quello che può sembrare un’inezia porterà ad un profitto netto del 30% ed un utile netto di quasi 9 miliardi di euro da aggiungere a quanto guadagnato fino a questo momento. Soldi chiamano soldi: le tre parole chiave di tutta questa vicenda le abbiamo scritte ad inizio articolo.
Big Pharma e Bill Gates contro la liberalizzazione dei vaccini
“L’industria farmaceutica sta riversando risorse nella crescente lotta politica sui vaccini generici contro il coronavirus. […] oltre 100 lobbisti sono stati mobilitati per contattare i membri del Congresso e dell’amministrazione Biden, per spingerli a opporsi a una proposta di rinuncia temporanea ai diritti della proprietà intellettuale da parte dell’Organizzazione mondiale del commercio che consentirebbe di produrre i vaccini generici per tutto il mondo”
Così inizia un interessante articolo di The Intercept del 23 aprile che ci ricorda che ad oggi solo l’1% dei vaccini disponibili è sato destinato ai paesi a basso reddito e che, con questo ritmo, gran parte della popolazione mondiale non potrà essere vaccinata prima di 3/4 anni.
La follia di questa situazione è evidente. Se occorrono 4 anni per vaccinare l’intero pianeta, anche le vaccinazioni nei paesi ricchi dovranno essere ripetute (moltiplicando così anche i favolosi ricavi dei produttori dei vaccini).
The Intercept tuttavia dà conto anche della nutrita pattuglia di politici delle due sponde dell’atlantico, guidati da Bernie Sanders, impegnati a sostenere la battaglia per la liberalizzazione delle licenze avviata da India e Sudafrica.
Battaglia durissima, stante la forza dell’avversario che sta mettendo in campo ogni mezzo per ribadire la propria strategia: difesa della proprietà intellettuale e Covax, come guru Bill Gates ebbe a sostenere già lo scorso anno.
Bill & Melinda Gates Foundation, la grande lobby
La Fondazione non cambia idea. Infatti, poche settimane fa sul sito dell’Istituzione che spadroneggia all’OMS, l’amministratore delegato, Mark Suzman, ha ribadito che la strategia attuale, che consiste nel lasciare il monopolio dei vaccini a Big pharma, è la migliore e l’unica possibile.
Ma è lui stesso a raccontarci, involontariamente, come fino a ora tale strategia, imposta all’OMS più di un anno fa, sia fallimentare. A quasi 9 mesi dall’annuncio del primo vaccino al mondo, lo Sputnik, e a quasi 8 dal primo vaccino occidentale “…75% delle dosi di vaccino COVID-19 è stato somministrato solo in 10 nazioni ricche, mentre alcuni paesi stanno ricevendo solo ora le prime spedizioni di vaccini. Questo è sbagliato su molti livelli. Se i vaccini per il COVID-19 saranno disponibili solo in alcuni paesi, il numero delle vittime nel mondo sarà raddoppiato e la ripresa economica sarà più lenta per tutti. E se le comunità non vengono immunizzate, il virus probabilmente continuerà a mutare”.
Che il programma Covax sia riuscito ad oggi a distribuire solo 32ml di dosi di vaccino, una goccia nel mare, lo abbiamo già detto. Ma questo non ferma l’entusiasmo di Suzman che celebra il recente stanziamento di 4,3 miliardi di dollari come un grande successo.
In effetti rappresenta quasi il 50% dell’intero ammontare delle donazioni al progetto Covax. Da cui si desume che potrà probabilmente produrre un’altra goccia nel mare.
Nel frattempo i vaccini producono proventi mostre per Big pharma: “Vaccini Covid, per Big Pharma: un affare da 150 miliardi solo nel 2021” titolava solo un mese fa il Corriere della Sera. Soldi con i quali è facile pagare tutti i lobbisti tra le due sponde dell’atlantico e he fanno sembrare le donazioni al Covax una ben misera cosa.
Filantropia Vs politica
Ma la fondazione ha obiettivi ben chiari: “La filantropia – prosegue Suzman – ha il suo ruolo da svolgere nel colmare le lacune, nel riunire i partner e nel creare incentivi affinché l’industria si concentri sui più poveri”.
In realtà, tali lacune dovrebbero essere materia della politica e delle istituzioni preposte. Infatti, erano già state superate oltre un anno fa dall’OMS come abbiamo raccontato in un recente articolo.
L’OMS era riuscito a costruire un grande alleanza internazionale contro il virus che coinvolgeva anche l’industria, ma che prevedeva la liberalizzazione dei vaccini e dei farmaci, una volta individuati. Tale alleanza è stata smontata delle pressioni del lobbista Gates e di Big Pharma, che hanno inventato il bradipico Covax.
La tesi di Bill&Melinda è sostenuta anche da tutti i lobbisti all’opera su questa importante partita. The Intercept riporta le dichiarazioni di Michelle McMurry-Heath, presidente della Biotechnology Innovation Organization, il gruppo commerciale che rappresenta Moderna, Pfizer e Johnson & Johnson: “La scarsità di vaccini non è dovuta alla proprietà intellettuale, ma ai deplorevoli problemi di produzione e distribuzione”. Come se anche questo non fosse un problema ascrivibile all’industria farmaceutica e come se liberalizzando non si moltiplicasse la produzione.
Continua Michelle McMurry-Heath: “La petizione [quella di India e Sudafrica contro la proprietà intellettuale dei vaccini n.d.r.] è tra le “iniziative vane che rimettono il costo e la responsabilità sulle spalle dei paesi più bisognosi” (sic).
La soluzione migliore, conclude McMurry-Heath: è “continuare l’approccio guidato da Covax, un’organizzazione no profit sostenuta dal filantropo miliardario Bill Gates che facilita gli acquisti e le donazioni di vaccini destinati al mondo in via di sviluppo”.
Ovviamente nulla importa che la maggior parte della gente comune sia contraria ad una politica protezionistica che va tanto palesemente a scapito della lotta al virus. The Intercept riferisce l’esito di un sondaggio del Data for Progress e Progressive International, secondo il quale il 60% dei cittadini Usa sono favorevoli a liberalizzare i brevetti. Tale sondaggio, continua il sito, “chiarisce che Biden ha un mandato popolare per agire contro l’apartheid vaccinale…”.
Ancora una volta vediamo un mondo fatto di opinione pubblica e politici che tentano di opporsi a potenti élite che vogliono applicare politiche naziste al riparo di una patina di buonismo. È una partita giocata altre volte, purtroppo, con esiti scontati…
FONTE: https://piccolenote.ilgiornale.it/50888/big-pharma-e-bill-gates-contro-la-liberalizzazione-dei-vaccini
Le trappole sulla strada del Recovery
La via del Recovery Fund è lastricata di buone intenzioni, ma anche di trappole. Tante trappole che rischiano di produrre un effetto domino pericolosissimo per un’Europa che stenta a decollare dopo la devastante crisi del coronavirus.
Uno dei più inquietanti ostacoli al percorso del Recovery rimane quello della ratifica da parte dei singoli Stati membri dell’Unione europea. Una scelta che nasce dalla necessità di far passare questo piano di aiuti in una platea di Paesi con governi completamente differenti e con opinione pubbliche che si pongono su posizioni opposte. Ma questa forma di “democratizzazione” del nodo Recovery rischia di essere più l’origine di una estenuante contrattazione che l’effetto di una scelta rispetto della sovranità dei singoli Stati membri. E il pericolo che l’approvazione collettiva si trasformi in un pantano politico non è un’ipotesi così remota.
Si rischia uno stop dalla Finlandia
Il Corriere della Sera ricorda ad esempio che dopo il problema della Corte costituzionale tedesca, adesso è il turno della Finlandia, che “ha stabilito che per la ratifica è necessaria una maggioranza qualificata dei due terzi sui 200 seggi del Parlamento”. E questo rischia di diventare un problema, nel momento in cui il parlamento si ritrova a dover gestire un delicato scontro sulla legge di bilancio e con i partiti di opposizione che necessariamente dovranno approvare il piano del Recovery pur non avendo alcun desiderio di farlo. Le trattative sono andate avanti per una settimana, ma il rischio di un “Vietnam” legislativo c’è e può incrinare l’approvazione in tutto il continente. Stesso discorso vale per altri Stati come Austria, Estonia, Polonia e Irlanda, dove i parlamenti e i governi trattano a oltranza per arrivare un compromesso che non metta in pericolo il semaforo verde al Fondo Ue. E questo rischia inevitabilmente non solo di far slittare i tempi dell’approvazione, ma anche potenzialmente di farli saltare.
Il fatto che l’intero piano europeo sia appeso alla volontà dei singoli Paesi ha chiaramente una doppia lettura. C’è chi può considerarlo un trionfo della sovranità nazionale che può incidere su un piano continentale. C’è invece chi può interpretarlo come una debolezza intrinseca del progetto europeo, costretto a dover attendere istituzioni di paesi con altri problemi e altri interessi. Difficile trovare una mediazione tra queste due visioni contrapposte, ma è sicuramente un sintomo di un deficit europeo non solo nel processo decisionale, ma anche nell’idea stessa di Europa.
I rischi della “palude” europea
Dopo negoziati a oltranza e accordi conclusi dai leader riuniti a Bruxelles o nelle innumerevoli videoconferenze dello scorso anno, tutto faceva presagire che si sarebbe avuta una strada più o meno spianata nel dare il via libera a un piano che arriva già tardi e sicuramente non con tutti gli strumenti adeguati. Ma adesso quegli accordi, che di per sé già avevano avuto i placet dei singoli governi, ora dovranno essere portati al vaglio di parlamenti che non solo rispecchiano diverse esigenze, ma che si rischiano di far entrare tutto quanto nel gioco della politica interna del singolo Stato membro. Declinando in forma nazionale quello che già era visibile in sede di trattative comunitarie, quando ogni rappresentante doveva svolgere una difficilissima transazione tra interessi di partito, interessi del governo, del paese e dell’Europa.
Il problema è che questo percorso a ostacoli rischia non tanto di provocare cambiamenti negli accordi, ma soltanto pericolosi ritardi. Inutile negare che l’approvazione dei parlamenti nazionali può arrivare con enormi pressioni esterne. Possiamo credere, ingenuamente, che molti di questi partiti si muovano con una libertà di manovra totale. Ma è evidente che il potere di far saltare un accordo su cui l’Ue si gioca la sua stessa sopravvivenza avrà delle fisiologiche forme di coercizione.
Di qui dunque il problema di poter coniugare da un lato la pressione di Bruxelles per sopravvivere, dall’altro le decisioni politiche e strategiche dei vari partiti di paesi con necessità contrapposte ad altri. Se non sarà possibile far saltare l’accordo, a meno che non si voglia provocare la più grossa crisi finanziaria della storia europea, l’unica alternativa per molti parlamenti sarà portare avanti trattative segrete con governi e istituzioni europee e rallentare il più possibile l’approvazione dei vari piani. Eventualità che però può mettere a dura prova le casse di molti Paesi che ormai dipendono completamente dall’ok a questo piano da 750 miliardi. Situazione in cui si trova anche la stessa Italia: il premier Mario Draghi ieri ha parlato del destino dell’Italia e che tutto si gioca con il Recovery. L’idea che il nostro destino non sia in mano al nostro parlamento ma a quello di Helsinki o Varsavia non può che far riflettere sul complesso meccanismo di decisione per un’Italia che non pu più aspettare.
FONTE: https://it.insideover.com/politica/le-trappole-sulla-strada-recovery-italia.html
EVENTO CULTURALE
“CONNESSIONI” di Francesca Sifola
Il libro è reperibile qui:
https://www.ibs.it/connessioni-libro-francesca-sifola/e/9788855088244
https://www.kobo.com/ebook/connessioni
https://www.libreriauniversitaria.it/connessioni-sifola-francesca-europa-edizioni/libro/9788855088244
https://www.hoepli.it/libro/connessioni/9788855088244.html
FINANZA BANCHE ASSICURAZIONI
Il valore strategico delle banche per attuare il Recovery italiano
Il Piano nazionale di ripresa e resilienza presentato dal governo Draghi alle Camere prenderà presto la via di Bruxelles per l’approvazione da parte dell’Unione Europea e nei prossimi mesi inizierà a essere messo in campo sulla scia dell’attivazione delle missioni e delle linee guida dei progetti delineati dall’esecutivo.
Il presidente del Consiglio, nel suo discorso alla Camera, ha puntato fortemente sul Pnrr e sull’aggancio italiano alla struttura del Recovery Fund considerandolo una sfida epocale che il Paese deve vincere valorizzando le risorse nazionali nel migliore dei modi. Non a caso il governo ha pensato di ampliare oltre i 191,5 miliardi di euro disponibili per l’Italia nel quadro del meccanismo europeo di ripresa e resilienza il perimetro del Pnrr, arrivando a una dotazione complessiva di 248 miliardi di euro contando i programmi di React Eu e il fondo complementare. A cui vanno aggiunte le misure per l’avvio delle politiche anticicliche promosse a partire dal recente Decreto Imprese.
Un mezzo per ravvivare l’economia
Il Pnrr sarà un tramite, un mezzo; il fine è ravvivare l’economia nazionale puntando sia sui programmi strutturati che sull’uso ordinario e strategico del debito. Fondamentale, in tal senso, sarà il coordinamento tra programmazione economica e industriale, attività delle imprese e elasticità del settore finanziario nazionale. Draghi dovrà in un certo senso vincere una nuova scommessa dopo il sostanziale fallimento della strategia adottata assieme a Carlo Azeglio Ciampi ai tempi in cui era direttore generale del Tesoro negli Anni Novanta, in cui il futuro presidente della Repubblica detenne le cariche di Ministro dell’Economia e Presidente del Consiglio: attivare una crescita dei mercati finanziari nazionali esterni al circuito bancario attraverso la privatizzazione e lo sbarco in borsa di parte dei monopoli pubblici legati storicamente all’Iri. Così non è stato, il sistema italiano è rimasto bancocentrico e, in un certo senso, per la necessità del Recovery italiano e del legame tra industria e territori ciò è stato in larga parte un bene. Il circuito del credito, in tal senso, può rivelarsi un fattore di rilevanza strategica per rafforzare il tessuto economico nazionale piegato dalla pandemia.
“Le banche”, nota Repubblica avranno un ruolo fondamentale nel coinvolgere nei rivoli del Pnrr le circa 300 mila imprese interessate, specie nei settori costruzioni, tecnologia dell’informazione, trasporti, manifattura elettronica, energia”. 250mila di queste, quasi l’85%, saranno piccole e medie imprese che hanno in genere nei “partner bancari il solo referente-regista nella pianificazione strategica. C’è poi l’aspetto di cofinanziamento” che la società di consulenza strategica Oliver Wyman ritiene possa conservativamente ammontare a 150-200 miliardi.
Il contributo delle banche
Il circuito del credito bancario potrà, in questo contesto, contribuire al rafforzamento del Paese a livello di filiera cooperando, laddove già esistono, con i campioni industriali e contribuendo all’edificazione di catene del valore concentrate sul suolo nazionle nei campi interessati da progetti ad alta intensità tecnica e innovativa (energia, digitale, sostenibilità etc.) e migliorando l’efficienza e l’agilità degli investimenti delle imprese finanziati dai fondi pubblici negli altri campi, dall’istruzione al turismo.
Il mondo bancario italiano, in tal senso, è già in fermento. E il campione nazionale privato, Intesa San Paolo, guarda addirittura oltre e raddoppia le stime del gruppo statunitense. Il presidente della banca di Ca dei Sass, Gian Maria Gros-Pietro, intervenendo all’evento Milano Capitali organizzato da Class ha parlato di una mobilitazione di fondi per progetti legati al Pnrr che nei prossimi anni coinvolgerà 400 miliardi di euro: 120 miliardi saranno per le imprese piccole, 140 miliardi per quelle grandi e 140 miliardi per le famiglie. Un impegno titanico che testimonia la volontà di Intesa di pensare a progetti sistemici capaci di unire al Pnrr la programmazione strategica nazionale. Intesa nel 2020 ha superato i 3,2 miliardi di euro di utile, sostenendo con forza i marosi della pandemia, e ha rafforzato il suo impegno il supporto all’economia reale, reso concreto da un “mini-Recovery” privato da 50 miliardi di euro erogati sotto forma di crediti per famiglie e imprese.
Un piano per filiere e distretti industriali
Carlo Messina, ad di Intesa e sostenitore del governo Draghi nella fase della sua nascita, ha auspicato che il Pnrr diventi in Italia “il piano delle filiere e dei distretti industriali”, mentre la necessità di erogare crediti continui alle imprese e di mantenere una decisa solidità negli istituti potrebbe essere il volano per un crescente consolidamento nel settore finanziario italiano. Andrea Orcel, neo-ad di Unicredit, mira a rilanciare grazie a un pragmatico piano di rafforzamento del gruppo di Piazza Gae Aulenti e alla presa di distanza da progetti avventati e potenzialmente dannosi l’operatività del gruppo, per il quale un consolidamento del rapporto con Bper potrebbe fornire un sostanziale equivalente dell’ampliamento avuto da Intesa con l’Opa su Ubi.
E alle spalle dei due big il risiko è in continuo movimento: a Bper guarda anche Giuseppe Castagna, ad di Banco Bpm, che ha recentemente auspicato la nascita, alle spalle delle due big, di “un terzo polo forte nel Nord Italia, per sostenere l’esecuzione del Pnrr”, mentre anche la Francia è della partita dopo l’Opa di Credit Agricole su Credito Valtellinese. Banche sempre più solide, concentrate e strutturate caratterizzeranno il settore privato italiano: la loro tenuta e la loro resistenza a shock sistemici sarà fondamentale perché si attivi il motore del credito a servizio dell’economia.
Il ruolo di Cdp
Il braccio operativo dello Stato per moltiplicare gli effetti dell’intervento pubblico sarà, invece, Cassa Depositi e Prestiti. Da mesi Cdp, invece, ha avviato Patrimonio destinato, il vero e proprio “fondo sovrano” dal valore di 44 miliardi di euro che ai sensi del Decreto Rilancio promosso dal governo Conte II avrà in gestione per il sostegno e rilancio del sistema economico e produttivo.
I beneficiari saranno società per azioni, anche quotate, con sede legale in Italia, le quali non operino nel settore bancario, finanziario o assicurativo, con fatturato superiore a 50 milioni di euro: un motivo in più per pensare che Draghi vorrà a capo di Cdp, nel round di nomine primaverili, un fedelissimo come Dario Scannapieco, attualmente in forze come vicepresidente alla strategica Banca Europea degli Investimenti. Dalla Bei in Italia sono arrivati nel 2020 12 miliardi di euro per progetti ad alta valenza strategica e siamo certi che anche nell’anno in corso il sostegno del “gigante nascosto” d’Europa continuerà con la solita costanza e pragmaticità. Senza banche, dunque, non ci sarà ripresa. La nuova dottrina keynesiana di Draghi dovrà stimolare il circuito del credito con investimenti pubblici ben strutturati e efficienti.
FONTE: https://it.insideover.com/economia/il-valore-strategico-delle-banche-per-attuare-il-recovery-italiano.html
GIUSTIZIA E NORME
Conto corrente cointestato? Via un nome, senza chiuderlo
29 Aprile 2021
Vediamo come muoversi se ci si trova nella situazione di dover togliere un nominativo su un conto correte cointestato
Di solito lo sottoscrivono marito e moglie, o viene aperto dal genitore insieme al figlio che sta per andare all’università; il conto corrente cointestato o postale è sempre più diffuso e prevede che, ad aprilo e sottoscriverlo siano almeno due persone.
È possibile, però, che nel corso del tempo si renda necessario modificare il nome di uno dei cointestatari, soprattutto nel caso in cui si tratti di conti riferibili a società o imprese. In questi casi, difatti, la modifica della “compagine” societaria comporta la necessità di modificare i soggetti autorizzati ad effettuare azioni sul conto corrente.
Ma come fare a togliere uno dei nomi dei cointestatari senza chiudere il conto? Andiamo per ordine e vediamo di cosa si tratta.
Cosa è un conto corrente cointestato
Questa tipologia di conto è caratterizzata dalla presenza di due o più persone che ne risultano titolari; pertanto ne condividono il diritto a svolgere operazioni di accredito e addebito e condividono anche la responsabilità nei rapporti con l’istituto di credito.
L’apertura di questo conto ha le medesime procedure di quello classico ed è per questo motivo che di solito è uno strumento utilizzato per gestire le finanze della famiglia senza dovere sostenere il costo di più conti corrente.
I titolari possono optare per un contratto a firma congiunta o disgiunta: con la prima tipologia è possibile effettuare operazioni di addebito sul conto corrente solo a seguito dell’autorizzazione di tutti i titolari; nel secondo caso possono essere emessi assegni, disposti bonifici in uscita o autorizzati pagamenti con la firma di uno solo.
Cosa succede quando non si è più titolari di un conto cointestato
I conti cointestati sono disciplinati dall’art. 1854 del codice civile che richiama anche il fatto che, nel momento in cui si è cointestatari si è creditori e debitori in solido del saldo sul conto medesimo, come stabilito, inoltre, dall’art. 1298, comma 2, del codice.
Dunque, nel momento in cui vi sia una situazione debitoria o creditoria sul conto corrente i cointestatari hanno l’obbligo di dividersi le quote in parti uguali, sia in caso positivo (situazione creditoria) che negativa (situazione debitoria).
Come sostituire il nome
Qualora si rendesse necessaria la modifica di un nome – magari a seguito della modifica dell’assetto societario o dell’impresa – non è sufficiente prelevare la quota di spettanza in deposito ma è necessario formalizzare l’operazione sotto il profilo giuridico-amministrativo in quanto, togliendo il proprio nome sul conte corrente, decadono i diritti e doveri del precedente cointestatario.
Pertanto va comunicato alla banca o pasta la propria intenzione di togliere la titolarità dal conto in questione anche semplicemente inviando un a lettera, una Pec oppure comunicando personalmente con un preavviso di 15 giorni.
In questo modo sarà possibile togliere un nome da conto corrente senza doverlo chiudere e lasciando in regola la situazione depositaria presso l’istituto di credito.
Autore
“Palamara dice la verità e siamo solo all’inizio…”
27 Aprile 2021
Per Giusi Bartolozzi con l’istituzione di una commissione di inchiesta parlamentare sull’uso politico della giustizia non si rischia il conflitto tra poteri dello Stato. E su Salvini: “Anche il suo è un processo politico”
L’istituzione di una commissione d’inchiesta parlamentare sull’uso politico della giustizia divide parlamentari e magistrati. Il caso è scoppiato dopo le rivelazioni di Luigi Palamara, ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati ed ex consigliere del Csm, che raccontano di un potere ideologizzato e al servizio, tramite le sue correnti interne, di una determinata parte politica. Un vero e proprio “sistema” che negli ultimi vent’anni sarebbe riuscito ad influenzare in modo determinante la vita politica del Paese. Per l’Anm si tratta soltanto di una “strumentalizzazione” che insidia “l’autonomia e l’indipendenza” delle toghe. Insomma, il Parlamento vuole fare il “processo” ai giudici, protestano anche Pd e M5S. Ma tutto il centrodestra, e anche Italia Viva, è d’accordo ad accendere un faro sulla pericolosa commistione tra politica e magistratura emersa dalle dichiarazioni di Palamara, e non solo.
La commissione, infatti, non si focalizzerà soltanto sulla vicenda dell’ex presidente dell’Anm, ma potrebbe prevedere decine di audizioni. “I lavori delle commissioni riunite sul testo di legge inizieranno la prima settimana di maggio”, spiega al Giornale.it Giusi Bartolozzi, deputata di Forza Italia, magistrato e segretario della commissione Giustizia della Camera. “Già nel luglio dello scorso anno il gruppo di Forza Italia aveva depositato una proposta di legge chiedendone, in ogni ufficio di presidenza, la calendarizzazione. – va avanti – Per molti mesi abbiamo dovuto registrare la netta contrarietà dell’allora maggioranza. Ma oggi tale preconcetta opposizione alla sua costituzione non ha giustificazione alcuna e, con tale spirito, durante la maratona oratoria d’aula, si è cercato di far comprendere che era giunto il momento di agire. Abbiamo avuto ragione”.
Chi è che non vuole un confronto su questo tema?
“La nostra proposta di legge è stata sottoscritta dai capigruppo di Lega e Fratelli d’Italia, ma anche Italia Viva si è mostrata, da subito, aperta alla questione. Netta opposizione per l’intero anno appena trascorso è arrivata dalla sinistra e dal Movimento 5 Stelle, da ultimo con il pretesto di un paventato conflitto di poteri dello Stato al quale è sufficiente replicare con le parole del professor Sabino Cassese. È certamente opportuno avviare un’inchiesta parlamentare sul rapporto tra politica e giustizia. Non credo occorra dire altro”.
Anche l’Anm, però, si è detta contraria all’istituzione di questa commissione, parlando proprio di conflitto tra poteri dello Stato…
“L’articolo 82 della Costituzione prevede che ciascuna Camera può disporre inchieste su materie di pubblico interesse e non vi può essere dubbio che quella dei rapporti tra politica e giustizia sia tale. Oggi più che mai l’Anm appare lontana dalla Magistratura che opera, ogni giorno, in silenzio. Al presidente dell’Associazione, Giuseppe Santalucia, mi permetto di suggerire la lettura della nota del 19 febbraio 2021 che un significativo numero di magistrati indipendenti di tutta Italia hanno inoltrato al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, proprio per chiedere l’istituzione di questa commissione parlamentare di inchiesta”.
Le rivelazioni di Palamara hanno messo in dubbio l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, ipotizzando che una parte di essa possa essere stata al servizio della politica con finalità quasi “eversive”. Da magistrato la ritiene una ricostruzione verosimile?
“Luca Palamara dice il vero e siamo solo all’inizio. Ma sarebbe sbagliato mettere al rogo le correnti che invece sono funzionali e fisiologiche all’equilibrio disegnato dal costituente e dal legislatore. È piuttosto la loro attuale debolezza, la perdita dei loro valori fondanti, la causa dello smottamento della democrazia giudiziaria”.
Perché è importante istituire una commissione di inchiesta su questi fatti?
“La magistratura è servizio, laico, e quando perde questa missione, giungendo a condizionare – se non a costruire – procedimenti giudiziari in danno del politico di turno, anche tramite la nomina indirizzata dei capi degli uffici, occorre fermarsi per poter ripartire. Lo ritengo un dovere nei confronti dei cittadini, ma nutro dubbi sulla capacità dell’odierna classe politica di andare sino in fondo. Insomma, non vorrei che si iniziassero i lavori in commissione giusto per placare gli animi e null’altro. Sarebbe una sconfitta per tutti”.
Come si fa a scardinare il “sistema” e a garantire l’indipendenza dei magistrati?
“È necessario che sia la magistratura che la politica aprano, ciascuno per le proprie competenze, uno spazio di dibattito e di riflessione che garantisca la più ampia partecipazione per l’elaborazione di proposte che consentano di apprestare effettive misure correttive. In questo senso, ad inizio legislatura, avevo lanciato l’Idea di una ‘Costituente per la Giustizia’, ma la mia richiesta è caduta nel vuoto. Oggi occorre ripensare al sistema elettorale per la designazione dei consiglieri togati del Csm che garantisca una maggiore rappresentatività e una maggiore partecipazione democratica, a modifiche statutarie che introducano forme di incompatibilità tra incarichi associativi e incarichi istituzionali e del testo unico della dirigenza in modo da privilegiare l’esperienza giudiziaria maturata positivamente rispetto ad altri parametri e tanto altro. Insomma una vera e propria opera di sensibilizzazione culturale per combattere quel carrierismo che sembra interessare settori sempre più ampi della magistratura”.
Nelle chat di Palamara si parla anche di un clima ostile nei confronti dell’ex ministro dell’Interno, Matteo Salvini. Pensa che quello al leader della Lega sia un processo politico?
“Onestamente, mi pare non ci siano altre spiegazioni. Il primo governo Conte decise il blocco degli sbarchi clandestini come concretamente poi attuato dall’allora Ministro degli interni Matteo Salvini che, ricordo a me stessa, venne indagato. In quella occasione il Senato negò la procedibilità perché ritenne quello di Salvini esercizio di insindacabile attività politica. Poi, con il secondo governo Conte, cambiata la maggioranza di governo, il Senato ha deliberato in modo opposto su una situazione identica. E da qui il processo. Su questo spaccato vanno poi ad incidere anche le intercettazioni tra Luca Palamara e il procuratore di Viterbo. Ed il quadro è completo”.
Da magistrato, quante volte secondo lei lo scontro politico è entrato nelle aule di tribunale?
“La Giustizia dal 1992 ha fortemente condizionando la vita politica del nostro Paese, non è certamente un mero esercizio degli ultimi mesi. Giovanni Falcone in un’intervista a La Repubblica nel 1990 disse che Il Csm era diventato, anziché organo di autogoverno e garante dell’autonomia della magistratura, una struttura da cui il magistrato si deve guardare con le correnti trasformate in cinghia di trasmissione della lotta politica. Da allora è passato molto tempo, ma la storia pare tristemente ripetersi”.
FONTE: https://www.ilgiornale.it/news/politica/palamara-dice-verit-e-siamo-solo-allinizio-1942342.html
PANORAMA INTERNAZIONALE
Lavrov: “La Russia presenterà presto la lista dei ‘paesi ostili’. I criteri sono chiari”
28 04 2021
In un’intervista a Sputnik, il ministro degli Esteri russo ha toccato una vasta gamma di questioni, tra cui la recente escalation sull’Ucraina, i tentativi dell’Occidente di trarne vantaggio e il deterioramento delle relazioni tra Russia e vari paesi occidenti.
Ucraina
L’Ucraina non dovrebbe contare sull’assistenza militare degli Stati Uniti, ha detto a Sputnik il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov, intervenendo sulla recente escalation del Donbass.
“… non ha senso fare affidamento sull’assistenza militare degli Stati Uniti. Tutti lo hanno sempre saputo. Se qualcuno avesse l’illusione che tale aiuto sarebbe arrivato, beh, tali “consiglieri” non avrebbero valore in qualsiasi governo, incluso [Il presidente ucraino Volodymyr] Zelenskyy “.
Secondo il massimo diplomatico russo, la squadra di Zelenskyy si sta sforzando di annullare gli accordi di Minsk mentre l’Occidente, che ha sostenuto gli accordi all’inizio, e mostra la sua impotenza mentre osserva semplicemente.
Il ministro degli Esteri ha ricordato la dichiarazione di Zelensky sugli accordi, quando il presidente ucraino è diventato “disperato per ribaltare gli accordi di Minsk” e ha detto che il trattato “non è più buono per noi, ma ne abbiamo bisogno perché preservare gli accordi di Minsk garantisce che le sanzioni contro la Russia resteranno”.
“Chiediamo all’Occidente, come lo valuta? Abbassano gli occhi per la vergogna e non possono dire nulla. Ma penso che sia una vergogna, è una disgrazia quando un documento legale internazionale viene distorto in questo modo, e l’Occidente, che è coautore del documento e lo ha sostenuto nel Consiglio di sicurezza dell’ONU, mostra un’assoluta mancanza di autorità”.
L’Occidente continua a cercare di convincere Mosca della necessità di “ammorbidire” gli accordi di Minsk o di cambiare la sequenza di attuazione della serie di misure, ma così facendo porterebbe a un massacro nel Donbass, ha ammonito Lavrov, mentre biasima i tentativi di Kiev di promuovere la necessità di “riaffermare” il cessate il fuoco nel Donbass.
“Un paio di settimane fa, la leadership ucraina ha deciso che è necessario rilanciare di nuovo l’argomento del cessate il fuoco. Questo è vergognoso e rimprovevole”.
L’OSCE cerca di evitare di pubblicare un rapporto obiettivo sugli sviluppi del Donbass
Il ministro degli Esteri ha proseguito affermando che l’ Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE) sta cercando di evitare di pubblicare dati equi sulla situazione nel Donbass, mentre Mosca si sta impegnando per garantire la pubblicazione regolare di tali rapporti.
“La leadership della Missione di monitoraggio speciale e della stessa OSCE si sente molto a disagio al riguardo e sta cercando in ogni modo possibile di evitare di pubblicare dati onesti”.
Secondo il ministro russo, le statistiche dell’OSCE sui feriti civili e sui danni alle strutture civili “non sono favorevoli a Kiev”, poiché confermano che nella stragrande maggioranza dei casi è Kiev a lanciare gli attacchi, costringendo così le milizie del Donbass a vendicarsi.
Lavrov: “Pio Desiderio” dell’Occidente il ritiro delle truppe russe dalla Crimea
Lavrov ritiene che l’Occidente si sia lasciato viziare da un pio desiderio affermando che la Russia “ha fatto marcia indietro” concludendo esercitazioni militari nella parte occidentale del paese, vicino al confine con l’Ucraina.
“Ricordo come hanno gridato al fatto che la Russia stia avvicinando le sue truppe al confine con l’Ucraina … E poi, quando le esercitazioni sono finite e abbiamo fatto un annuncio pertinente, abbiamo sentito esclamazioni incredibili da lì, dal lato occidentale, come, la Russia è stata costretta a fare marcia indietro, la Russia si è ritirata. Sa, esiste una tale espressione, una profezia che si auto avvera, ma si tratta di qualcos’altro, questo è un pio desiderio”, ha precisato Lavrov.
“Dimostra che l’Occidente vuole approfittare di questo, prima di tutto, per pubblicizzare che la sua parola è quella decisiva e il suo posto di comando nelle relazioni internazionali. Tutto questo è triste”.
La Russia non etichetterà i paesi come “ostili” in modo indiscriminato
Mentre il ministro degli Esteri si è concentrato sulle tensioni prevalenti tra Russia e Occidente, specialmente sullo sfondo dell’espulsione dei diplomatici russi, ha sottolineato che Mosca non etichetterà indiscriminatamente i paesi come “ostili” senza prima condurre un’analisi approfondita prima di fare un simile decisione.
“Se arriviamo alla conclusione che non si può fare nient’altro, credo che l’elenco verrà aggiornato di volta in volta”, ha aggiunto Lavrov, sottolineando che l’elenco attualmente in fase di stesura potrebbe essere rivisto in futuro.
Il ministro ha osservato che ai paesi “ostili” sarà vietato assumere personale in Russia, non solo tra i russi, ma anche tra i cittadini di paesi terzi.
Eventi ‘schizofrenici’ a Praga sulle indagini di Vrbetice Blasts
Lavrov ha poi continuato descrivendo come “schizofrenia pura” le dichiarazioni ufficiali di Praga sulle esplosioni mortali del 2014 al deposito di munizioni di Vrbetice e sulle accuse di alto tradimento rivolte al presidente ceco Milos Zeman, che ha chiesto che tutte le spiegazioni siano prese in considerazione, inclusa la possibile negligenza, o manipolazione delle armi .
“Non posso parlarne perché non capisco cosa vogliono realmente. Si può seguire questo come guardare una sorta di serie TV non troppo elegante, ci sono molte componenti schizofreniche in questa storia. Quando il presidente Zeman dice che abbiamo bisogno di prove per capirlo, non esclude la possibilità che questo possa essere stato un sabotaggio da parte di alcuni agenti stranieri”.
“Propone solo di prendere in considerazione la versione sollevata dalla leadership ceca, incluso l’attuale primo ministro [Andrej] Babis: hanno detto nel 2014 che ciò è accaduto a causa della negligenza del proprietario del magazzino. E il presidente Zeman ha appena suggerito di considerare questa versione, che non è mai stata viziata negli ultimi sette anni. Ora è accusato di tradimento. E il presidente del parlamento ha affermato che, avendo sottolineato la necessità di studiare tutte le versioni, il presidente Zeman ha rivelato un segreto di stato … Beh, non è questa schizofrenia ? Secondo me, questa è pura schizofrenia. ”
Le dichiarazioni di Zeman arrivano una settimana dopo che il governo ceco ha accusato la Russia di essere dietro l’esplosione nel magazzino di munizioni di Vrbetice. Praga ha anche affermato che l’esplosione è stata organizzata da due presunti agenti del GRU: Alexander Petrov e Ruslan Boshirov.
I due erano stati precedentemente accusati dalle autorità britanniche di aver compiuto un presunto attacco che coinvolgeva un agente tossico contro l’ex agente del GRU Sergei Skripal, ma hanno negato fermamente di essere loro stessi agenti del GRU o di essere coinvolti in qualche modo nell’avvelenamento di Skripal.
A seguito delle accuse del governo ceco il 17 aprile, Praga ha espulso 18 diplomatici russi e rimosso la società statale russa Rosatom dalla lista dei contendenti per la costruzione di un nuovo reattore presso la centrale nucleare di Dukovany.
Mosca ha negato con forza le accuse di Praga e ha collegato le azioni della Repubblica Ceca a una nuova ondata di isteria anti-russa guidata dagli Stati Uniti. La Russia ha risposto reciprocamente all’espulsione dei suoi diplomatici, allontanando 20 diplomatici cechi. Praga potrebbe anche cadere nelle condizioni di una legge recentemente annunciata che vieta alle ambasciate dei paesi “ostili” di assumere cittadini russi.
Il ruolo sovversivo del Regno Unito nelle relazioni Russia-UE
Il Regno Unito sta svolgendo un ruolo sovversivo significativo nelle relazioni tra Russia e Unione europea, ha lamentato il ministro degli esteri russo.
“Per quanto riguarda le relazioni tra Russia ed Europa, credo ancora che il Regno Unito stia giocando un ruolo attivo e molto serio di sovversione. Si è ritirato dall’Unione Europea, ma non vediamo diminuire le sue attività su questa strada. Al contrario, stanno cercando di influenzare nella misura massima possibile gli approcci degli Stati membri dell’UE alla Russia “.
“Allo stesso tempo, sa, ci inviano segnali, propongono di stabilire contatti. Ciò significa che non evitano la comunicazione [con la Russia], ma cercano di scoraggiare gli altri. Di nuovo, probabilmente [questo può essere spiegato con] il loro desiderio di avere il monopolio di questi contatti e di dimostrare ancora una volta che sono superiori agli altri “.
La Russia non ha intenzione di aderire al formato G7
In questo senso, ha aggiunto che la Russia non ha intenzione di aderire al formato G7, poiché ritiene che il gruppo abbia perso il suo significato nel nuovo ordine mondiale.
“Abbiamo ripetutamente detto che non ci uniremo mai. Non ci sarà nessun G8, questo è un ricordo del passato”, dice, sottolineando che le dichiarazioni dei membri del G7 contro la richiesta alla Russia di aderire al formato sono solo finalizzate a “promuovere la loro parola decisiva “.
Il formato G8, istituito nel 1998, è stato ridotto a G7 nel 2014, quando gli altri Stati membri hanno accusato la Russia di ingerenza negli affari interni dell’Ucraina a seguito della riunificazione della Crimea con la Russia e hanno imposto sanzioni a Mosca.
ESISTE PER LA RUSSIA UN’ALTERNATIVA A SWIFT
“Esiste la base per un’alternativa a SWIFT. E sono convinto che sia il governo che la Banca Centrale dovrebbero fare di tutto per rendere questa base affidabile e garantire la completa indipendenza e salvaguardia contro i danni che qualcuno potrebbe tentare di infliggerci”, ha concluso Lavrov. La Russia ha iniziato a sviluppare il suo sistema SPFS nel 2014, a seguito delle minacce di Washington di disconnessione da SWIFT. La prima transazione sulla rete è avvenuta alla fine del 2017.”
FONTE: https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-lavrov_la_russia_presenter_presto_la_lista_dei_paesi_ostili_i_criteri_sono_chiari/5694_40991/
La Francia toccata dal terrorismo archivia la dottrina Mitterrand
A leggerla così, la notizia stride con il passato più o meno recente dei rapporti tra Italia e Francia: l’Eliseo ha annunciato che sette ex membri delle Brigate Rosse sono stati arrestati stamane a Parigi su richiesta dell’Italia, mentre altri tre sono in fuga e sono ricercati. Si tratta di atti di terrorismo risalenti agli anni ’70 e ’80. Secondo quanto si apprende da fonti investigative francesi, si tratta di Enzo Calvitti, Giovanni Alimonti, Roberta Cappelli, Marina Petrella e Sergio Tornaghi, tutti delle Brigate Rosse; di Giorgio Pietrostefani di Lotta Continua e di Narciso Manenti dei Nuclei Armati contro il Potere territoriale. Un’operazione che ha previsto un’intensa collaborazione tra i due Paesi che sembra suonare il Requiem definitivo sulla vecchia dottrina Mitterrand. Un passaggio dei tempi dettato anche degli ultimi anni turbolenti che hanno visto il territorio francese colpito da attentati e agguati costati la vita a decine di cittadini transalpini, di fatto toccando con mano gli effetti del terrorismo. Ma questo addio alla dottrina dell’ex presidente socialista parte da lontano.
La nascita della Dottrina Mitterrand
Durante la grande stagione del terrorismo rosso, italiano ed europeo, l’Europa si pose il problema di una trattazione collegiale della materia, ma una convenzione che potesse disciplinare l’intricata questione non vide mai la luce. Valéry Giscard d’Estaing, presidente della Repubblica dal 1974 al 1981, cercò di raccogliere le ceneri di quell’iniziativa, proponendo, in maniera piuttosto confusa, l’idea di «spazio giudiziario europeo». Una sterzata in senso gallicano si ebbe con il cambio della guardia che portò alla presidenza il socialista François Mitterrand nel 1981: fu proprio quest’ultimo che, in un discorso al Palais des Sports di Rennes il 1º febbraio 1985 segnò un cambiamento epocale.
La Francia era decisa a combattere duramente il terrorismo e concedere l’estradizione per i delitti di sangue ma, in tutti i casi di reati meramente ideologici, si apriva un’enorme zona grigia, soprattutto a proposito di un certo numero d’italiani giunti in Francia: “Sono circa trecento e più di un centinaio erano già qui prima del 1981. Hanno evidentemente rotto con il terrorismo. Anche se si sono resi colpevoli in passato—in molti casi è probabile—sono stati ricevuti in Francia, non sono stati estradati, si sono inseriti nella società francese, vivono qui, si sono molto spesso sposati (…) la maggior parte di essi ha chiesto la naturalizzazione”.
Un colpo d’accetta a ciò che l’Italia poteva ottenere o meno, alla lotta italiana al terrorismo che viveva la sua stagione più dura (Moro era stato ucciso solo pochi anni prima) ma soprattutto un confine sottilissimo tra chi poteva essere definito terrorista o sedicente ex. Ergo, tutti coloro i quali non si fosse macchiati di delitti di sangue non sarebbero stati estradati. Di fatto, dunque, la Francia si trasformò nel buen retiro per decine di ricercati stranieri ritenuti da Parigi “rabboniti” dalla vita francese. Nel caso italiano, l’applicazione della dottrina venne giustificata, sulla stampa e nei corridoi del potere, anche in nome di una presunta “non conformità” della legislazione italiana agli standard europei, soprattutto per quanto concerneva le leggi speciali, l’uso della carcerazione preventiva e il rapporto con i collaboratori di giustizia.
Fu lo stesso Mitterrand a difendersi da accuse di connivenza o giustificazionismo verso il fenomeno, in virtù della sua appartenenza politica: «Sì, ho deciso l’estradizione, senza il minimo rimorso, di un certo numero di uomini accusati d’aver commesso dei crimini (…) Il diritto d’asilo, essendo un contratto tra chi ne gode e la Francia che l’accoglie, è sempre stato e sempre sarà rispettato (…) Mi rifiuto di considerare a priori come terroristi attivi e pericolosi degli uomini che sono venuti, in particolare dall’Italia, molto tempo prima che esercitassi le prerogative che mi sono proprie, e che si erano appena ritrovati qui e là, nella banlieu parigina, pentiti… a metà, di fatto … non saprei, ma fuori dai giochi (…)Ma io dico chiaramente: la Francia è e sarà solidale coi suoi alleati europei, nel rispetto dei suoi principi, del suo diritto: sarà solidale, rifiuterà ogni protezione diretta o indiretta del terrorismo attivo, reale, sanguinario». Le polemiche e l’astio con Roma, però, non si spensero con il tramonto della stagione del terrorismo.
Il caso Cesare Battisti
Sebbene l’epopea dei terroristi (semi)nascosti in Francia abbia avuto vari protagonisti, è stato soprattutto il caso Cesare Battisti a rinfocolare l’acredine tra Parigi e Roma. Battisti, attivo durante gli anni di piombo come membro del gruppo Proletari Armati per il Comunismo era evaso dal carcere di Frosinone nel 1981 dopo essere stato condannato a 12 anni in primo grado per banda armata; venne condannato in seguito in contumacia all’ergastolo, per quattro omicidi, due commessi materialmente, due in concorso. Evaso nel 1981, Battisti per quasi un anno visse da clandestino a Parigi.
Ed è nella ville lumière che si diede alla scrittura, fondando perfino una rivista culturale, Via Libre. Dopo un’ulteriore latitanza messicana, Battisti tornò in Francia nel 1990 con aspirazioni da letterato ed intellettuale à la page. Poco tempo dopo venne arrestato a seguito di una richiesta di estradizione del governo italiano. Nell’aprile 1991, dopo quattro mesi di detenzione, la Chambre d’accusation di Parigi lo dichiarò non estradabile: tra le motivazioni, il fatto che, secondo la magistratura francese, le prove a suo carico erano “contraddittorie” e “degne di una giustizia militare”. Tutto in linea con la dottrina Mitterrand.
Nel 2004 il caso Battisti riesplode: viene arrestato il 10 febbraio a Parigi sempre su richiesta delle autorità italiane. Ma in Francia si scatena una campagna in suo favore sostenuta dagli intellettuali gauchisti e il 3 marzo Battisti viene scarcerato. Il 30 giugno successivo dopo l’udienza per l’estradizione, la corte d’appello francese dà il via libera: Battisti ricorre e perde. Il 23 ottobre il primo ministro francese firma il decreto di estradizione in sua assenza. Lui, infatti, è fuggito in Brasile.
Numerosi passi erano stati compiuti con l’arrivo di Jacques Chirac. Nel 2004 il presidente francese tornò sulla questione tuonando: “Nello spazio giuridico europeo se una persona viene condannata per reati di sangue, nel caso di Battisti per terrorismo, concedere l’estradizione è un dovere”. Sembrò una sterzata definitiva, considerando che quelle parole furono pronunciate in una conferenza stampa congiunta con Silvio Berlusconi in un vertice italo-francese. Nella stessa occasione, aggiunse: “Battisti fu condannato definitivamente nel 1993 dalla giustizia italiana per diversi omicidi e reati di sangue.
Ora la Chambre de l’Instruction della Corte d’appello di Parigi ha dato un parere favorevole all’estradizione”, dichiarando di lasciare il tempo alla Corte di cassazione per far conoscere la posizione della Francia. La posizione di Chirac, duramente contestata da Socialisti, Verdi e Comunisti francesi, giustificava il cambio di rotta anche in virtù di una evoluzione delle leggi italiane che, a suo dire, erano divenuto meno lesive dei diritti umani. Un anno pregno di significati il 2004 anche in virtù del fatto che, nell’ambito del caso Cesare Battisti, il Consiglio di Stato, massimo organo giurisdizionale amministrativo e consultivo della Repubblica francese, negò ogni validità giuridica alla vecchia dottrina.
Cosa è cambiato negli ultimi anni
Cosa è accaduto nel frattempo? Anche Nicolas Sarkozy, prima ministro dell’Interno e poi all’Eliseo, si trovò a gestire un altro caso di estradizione, quello di Marina Petrella, brigatista e condannata all’ergastolo per vari omicidi. La Petrella però possedeva un nobile vantaggio nel suo pedigree: era amica di Valeria Bruni Tedeschi, attrice, sorella di Carla Bruni, moglie di Sarkozy. Così anche la première dame canterina venne investita intellettualmente della vicenda, e il suo strizzare l’occhio al mondo degli intellettuali ex terroristi provocò una bufera senza precedenti che fece sorgere il sospetto di un revival 2.0 della dottrina Mitterrand.
Al netto di una querelle legata ai processi agli intellettuali (nel caso di Erri De Luca), nella quale fu trascinato per la giacca, anche François Hollande finì ad occuparsi, suo malgrado, del problema dell’estradizione, ma per ragioni differenti. Dopo la strage di Parigi, infatti, il governo francese chiese l’estradizione di Salah Abdeslam, arrestato dopo una rocambolesca caccia all’uomo. In quell’occasione, il presidente sottolineò a chiare lettere come la richiesta di estradizione dal Belgio fosse un atto dovuto per poter combattere la minaccia a livello europeo, sollecitando l’approvazione della direttiva europea sul controllo delle armi. Quel momento segnò una svolta, anche se simbolica, perché nobilitò la pratica dell’estradizione per i reati terroristici, che non possono restare impuniti nel tempo e nello spazio, soprattutto quello europeo.
In questi anni, il governo italiano non ha mai desistito nelle richieste di estradizione dei ricercati. I nomi di questa mattina erano, infatti, inclusi in una lista ulteriore di 200 nomi consegnata al governo francese. Agli inizi di aprile, era stata proprio la ministra della Giustizia italiana Marta Cartabia, durante un incontro con l’omologo Eric Dupond-Moretti, a chiedere ufficialmente la consegna dei brigatisti. Al termine della riunione, avvenuta l’8 aprile scorso, la ministra si era detta “soddisfatta dello scambio di vedute” con il collega francese.
Epilogo di questa lunga scia di bufere, tensioni, arresti, delitti e connivenze tra le due nazioni cugine è l’operazione di questa mattina. Effetto Mario Draghi? Effetto Europa? Forse sì, ma forse occorre guardare anche alla storia recente della Francia: un altro tipo di terrorismo affligge il Paese negli ultimi anni. Innumerevoli stragi. Solo per citarne alcune: Tolosa e Montauban nel 2012, la strage di Charlie Hebdo nel 2015, e poi ancora Nizza nel 2016; l’anno dopo il terrore tornò a Parigi e a Marsiglia e poi ancora a Strasburgo. Non ultima la decapitazione di Samuel Paty, il professore ucciso barbaramente da un estremista islamico. Attentati covati nel cuore della Francia, impastati nel rancore di una integrazione zoppicante, in quelle stesse banlieu un tempo nascondiglio dei terroristi rossi.
“La Francia, essa stessa colpita dal terrorismo, comprende l’assoluta necessità di giustizia per le vittime”. Con queste parole, l’Eliseo ha annunciato la decisione di consegnare alla giustizia gli ex brigatisti. Nella stessa nota si legge che il presidente Emmanuel Macron “ha voluto risolvere la questione come l’Italia chiede da anni”. Ora che la Francia soffre come l’Italia negli anni di piombo, anche se per ragioni diverse, la stagione delle connivenze e della tolleranza è finita. Anche a Parigi.
FONTE: https://it.insideover.com/terrorismo/italia-francia-brigate-rosse-anni-piombo-terrorismo.html
POLITICA
Sarebbe un errore imperdonabile candidare Draghi al Quirinale
Sembra passato un secolo da quando gli Olandesi e gli altri “frugali” tenevano sotto scacco l’avvocato degli Italiani, dettando sadicamente le modalità di accesso al programma “Next Generation UE”. Oggi la telefonata con le istruzioni per l’uso sui fondi comunitari parte da Roma per Berlino, e la garanzia personale del premier prevale sui bizantinismi burocratici.
Non che il nostro paese abbia magicamente risolto tutti i suoi problemi, che sono strutturali e in gran parte insolubili, né che “l’uomo solo al comando” sia infallibile e onnipotente, sia chiaro. Anzi, in alcuni casi – come nel piano della vaccinazione di massa – la delusione è piuttosto diffusa, nonostante l’impiego dell’esercito e una disponibilità di mezzi praticamente illimitata.
E’ però innegabile che siamo tornati a giocare in Champion’s League, mentre fino a poche settimane fa ci affannavamo nei campetti di Lega Pro.
Una serie di concause ha oggettivamente favorito l’ascesa di Draghi, sia in Italia che in Europa. Da noi il quadro politico frammentario, con le palesi difficoltà del partito di maggioranza relativa (il Movimento 5 Stelle), della Lega (in crisi di consensi) e del Partito Democratico, passato da poco attraverso un rilevante cambio di leadership.
In Europa, d’altra parte, il mandato di Angela Merkel è in articulo mortis, e non è stato ancora individuato un degno successore, tanto che si parla di un rientro in auge dei gruenen; in Francia Macron sta incontrando – come trascinamento delle proteste dei gilét gialli – un significativo calo dei popolarità e la Spagna pure stenta a riprendersi dalla crisi post-pandemica. L’Unione Europea, da parte sua, ha sì recuperato un ruolo di regìa e coordinamento ma ha evidenziato anche incertezze nella gestione dei contratti con le big pharma e resta clamorosamente assente dagli scenari più caldi della politica estera, Ucraina, Libia e rapporto con il gigante russo.
In questo vuoto pneumatico di leadership e autorevolezza, l’esperienza e il network di Mario Draghi hanno avuto buon gioco a posizionarsi a centro area e a recuperare ampia credibilità per il nostro paese.
Il che ha portato, addirittura in anticipo rispetto alla scadenza che incombeva minacciosa sul Conte 2, ad approvare con larga e convinta maggioranza il nostro programma sul Recovery Plan e a inviarlo a destinazione.
Dovremmo quindi aver risolto il problema della reperibilità delle risorse economiche per superare questa fase, mentre siamo ancora immersi totalmente in quello della vaccinazione di massa, che consentirebbe un recupero stabile e una crescita di lunga durata su basi solide. Come dire: abbiamo brillantemente superato l’emergenza, ma per le cause di fondo dobbiamo ancora attrezzarci.
Un anno (fino ad ora, almeno) di pandemia lascerà tracce profonde sul nostro sistema economico e produttivo, e la rinascita va governata con mano ferma, perché non potremo contare sull’inerzia della ripartenza, come se – chiusa la parentesi del virus – si potesse riprendere dal punto in cui eravamo arrivati. Interi settori produttivi andranno ripensati, molti scompariranno del tutto, così come molte aziende. Dovrà essere ricostruita, su basi più ampie, l’intera infrastruttura digitale e delle comunicazioni, necessaria per lo smart working, la didattica a distanza (che purtroppo non potrà scomparire), l’e-commerce. Sperando che la lezione sia servita, dovrà essere fortemente incentivata la ricerca scientifica e la sanità.
La resilienza, parola che va molto di moda ma che non significa altro che “rimbalzo”, potrà contare su grandi disponibilità finanziarie, come avvenne nel dopoguerra col piano Marshall. A differenza di allora, però, questa volta si tratta di risorse acquisite a debito, e non regalate come lo furono i dollari USA del tempo. Pertanto, in un modo o nell’altro, questi denari andranno restituiti. Per questo Draghi ha parlato di “debito buono” – intendendo quello finalizzato all’investimento, e quindi alla creazione di ricchezza, dalla quale potranno derivare le risorse per il rimborso – in contrapposizione al “debito cattivo”, quello che si disperde in mille rivoli di spesa improduttiva e ci lascia esattamente nello stesso punto.
In questo processo un ruolo decisivo potrà essere svolto dalle banche, alle quali spetterà il compito di selezionare aziende e progetti e di accompagnare e sostenere quelli validi, anche se inizialmente sprovvisti di garanzie patrimoniali. Chi meglio di Draghi, che è stato banchiere centrale nazionale (Governatore della Banca d’Italia) e europeo (Presidente della BCE), potrà guidare con azione illuminata questo processo?
Il compito di Supermario, quindi, è tutt’altro che concluso; anzi possiamo dire che, per quanto riguarda gli aspetti strutturali e di sistema, non è ancora neanche incominciato. Come Cincinnato ai tempi dell’antica Roma, il suo public service non è ancora terminato ed è lontano il momento in cui potrà tornare a coltivare l’orto di casa.
L’errore più grande che la classe politica potrebbe fare oggi sarebbe quindi quello di pensare a Draghi quale prossimo Presidente della Repubblica, poiché il mandato di Sergio Mattarella scade a fine gennaio 2022 e a brevissimo inizieranno le danze per trovargli un successore. A luglio inizierà il semestre bianco (durante il quale le Camere non possono essere sciolte) e se a qualcuno venisse la pessima idea di candidare Draghi al Quirinale, di fatto si entrerebbe fin d’ora in piena paralisi istituzionale e governativa, pregiudicando tutto quello che di buono è stato fatto e impostato.
Non scherziamo: Draghi sta bene dove sta; non è proprio il caso di disturbare il manovratore, altrimenti il rischio di schiantarsi contro un muro diventerebbe molto molto reale.
FONTE: https://www.marcoparlangeli.com/2021/04/28/non-disturbate-il-manovratore
Solo incompetenza? Tutte le follie del “pass sanitario”
Il governo Draghi ha capito, finalmente, che la vaccinazione di massa sta fallendo, essendo vissuta con diffidenza dalla popolazione, soprattutto dopo il pasticciaccio Astrazeneca e J&J (ma solo perché i dati della farmacovigilanza a livello europeo che vedono Pfizer BioNTech al primo posto per eventi avversi non vengono strombazzati dai media).
Dopo il fallimento della “miracolosa app immuni”, come fare leva sulla disperazione della popolazione italiana, a livello di limiti superati di tolleranza socioeconomica e psichica?
Col pass sanitario libera tutti.
Ma le normative proposte e sbandierate nella conferenza stampa show e riproposte dal mainstream mediatico acriticamente, devono essere applicabili e utili.
Ci vorrebbero fare credere che un cittadino italiano che deve andare, ad esempio, da Napoli a Milano o da Roma a Palermo, sarà in grado di effettuare un tampone a distanza di poche ore dalla richiesta e ottenere il referto in tempo utile per partire alla data della prenotazione già fatta giorni prima?
Non rischia di intasare le ASL già congestionate? O dovrà pagarlo nelle strutture private?
E riceverà dal laboratorio un codice leggibile che gli permetta di spostarsi nelle 48 ore successive?
Ripeto: un codice.
Infatti il green pass non deve “introdurre discriminazione dei cittadini non vaccinati”.
Questo significa, in pratica, che non sarà possibile presentare un certificato medico che costituisce dato sensibile, ma con un QR, un codice a barre anonimo, generato se è soddisfatta una delle tre condizioni richieste, senza che il controllore possa venire a conoscenza di quale delle tre condizioni sia in essere.
Ne deriva, inoltre, che, poiché la vaccinazione segue un piano di priorità per età e fragilità, i giovani dovranno necessariamente fare il tampone.
E questo porrebbe un ulteriore problema, il problema dei problemi, qualora effettivamente il pass dovesse essere necessario anche per entrare nei locali pubblici.
Perché sono loro, i giovani, che viaggiano, che vanno al pub e ai concerti, sono loro che vanno al ristorante, che vanno in piscina e in palestra, non solitamente gli over 80.
Significa che i giovani non potranno più muoversi da casa, senza aver ripetuto un tampone ogni 48 ore?
Però dovranno andare a scuola, tutti, l’ultimo mese, trovando le aule insufficienti e i banchi a rotelle, le classi pollaio di sempre e i mezzi pubblici dove ammassarsi.
Se non ci fosse una logica in tutto questo si potrebbe parlare di follia.
Ma c’è sempre una logica in ogni follia, in ogni apparente contraddizione: non sanno più come uscire dall’investimento di fiumi di soldi nei vaccini a discapito della sanità pubblica e della scuola, non sanno più come arginare la protesta di tutti i lavoratori autonomi, ristoratori, spettacolo, turismo, palestre.
E annaspano nel buio più totale dell’incompetenza.
SCIENZE TECNOLOGIE
I vaccini COVID potrebbero “decimare la popolazione mondiale,” avverte il Dr. Bhakdi
Alex Newmann – 16.04.2021
thenewamerican.com
In questa intervista esclusiva con Alex Newman, Senior Editor della rivista The New American, il microbiologo tedesco-thailandese-americano di fama mondiale, Dr. Sucharit Bhakdi, avverte che l’isteria COVID è basata su bugie e che i “vaccini” COVID sono destinati a causare una catastrofe globale e una decimazione della popolazione mondiale. All’inizio, spiega come il test PCR sia stato travisato in modo ascientifico per incutere paura alla popolazione. Poi, spiega quali effetti avranno i vaccini mRNA sull’organismo umano con termini e analogie alla portata di tutti. Tra le altre cose, si aspetta un massiccio aumento di trombosi letali e di risposte esagerate da parte del sistema immunitario. Infine, Bhakdi, che aveva messo in guardia sull’imminente “sventura” durante un’intervista su Fox News diventata immediatamente virale, chiede di perseguire penalmente i responsabili e di fermare immediatamente questo esperimento globale.
Alex Newmann
VIDEO QUI:
Link su Rumble: https://rumble.com/vg6oen-i-vaccini-covid-potrebbero-decimare-la-popolazione-mondiale-avverte-il-dr.-.html
Fonte: thenewamerican.com
FONTE: https://thenewamerican.com/covid-shots-to-decimate-world-population-warns-dr-bhakdi/
IN EVIDENZA
Dr. Harvey RISCH e studio del governo UK: il 60-70% dei nuovi casi e decessi C0VID proviene da soggetti già vaccinati
John Cooper – 25 04 2021
Il dottor Harvey Risch si è unito alla War Room per spiegare che i funzionari della sanità pubblica utilizzano uno standard sull’efficacia dei vaccini completamente diverso da quello che dicono.
“Quello che i medici mi dicono è che più della metà dei nuovi casi di covid che stanno strattando sono di persone che sono state già vaccinate”, ha detto il dottor Risch. “Hanno stimato che il 60% dei nuovi pazienti che hanno trattato sono persone che sono state vaccinate”.
Il dottor Risch ha detto che l’establishment medico non è onesto sull’efficacia del vaccino perché sta spingendo tutti nella direzione del vaccino.
“Hanno paura che se dici che questo vaccino è efficace solo al 50 o 60% … allora le persone non lo faranno”, ha detto il dottore.
IL 60-70% DEI NUOVI RICOVERI E DEI DECESSI COVID PROVIENE DA PAZIENTI GIÀ VACCINATI”, AMMETTE UN RAPPORTO DEL GOVERNO BRITANNIC
Il sito web del governo britannico ha appena pubblicato uno studio che conferma l’ipotesi avanzata dal virologo Dr Geert Vanden Bossche , dal DR. Vernon Coleman, dalla dott.ssa María José Martínez Albarracín e da altri esperti che hanno avvertito che la vaccinazione di massa per Il Covid-19 produrrebbe una ” malattia potenziata dal vaccino “. Come indica lo studio, questo sta già accadendo nel Regno Unito. Anche se i mass media non lo stanno divulgando.
Secondo uno studio del governo britannico , pubblicato il 5 aprile sul proprio sito, l’aumento dei decessi e dei ricoveri dovuti al Covid-19 è composto da persone che hanno già ricevuto due vaccini contro il Covid.
Le persone vaccinate con già due dosi di vaccino ora costituiscono la maggior parte dei pazienti affetti da coronavirus nel Regno Unito e sono anche la maggioranza. Rappresentano circa i due terzi di tutti i casi.
Nello studio, intitolato ” SPI-MO: Riepilogo dell’ulteriore modellazione delle restrizioni di allentamento – Roadmap Step 2 “, e datato 31 marzo 2021, a pagina 10 si afferma che:
“La recrudescenza sia dei ricoveri che dei decessi è dominata da coloro che hanno ricevuto due dosi del vaccino, che rappresentano rispettivamente circa il 60% e il 70% dell’ondata. Ciò può essere attribuito agl alti livelli di assorbimento nei gruppi di età a più alto rischio, in modo tale che i fallimenti dell’immunizzazione sono responsabili di malattie più gravi rispetto agli individui non vaccinati. Questo è discusso ulteriormente nei paragrafi 55 e 56. “
S1182 SPI-M-O Summary of Modelling of Easing Roadmap Step 2 Restrictions by Detoxed Info on Scribd
https://www.gov.uk/government/publications/spi-m-o-summary-of-further-modelling-of-easing-restrictions-roadmap-step-2-31-march-2021
FONTE: https://www.detoxed.info/dr-harvey-risch-il-60-70-dei-nuovi-casi-e-decessi-c0vid-proviene-da-soggetti-gia-vaccinati-studio-del-governo-uk-lo-conferma/
STORIA
Il tesoro delle SS è nascosto in una casa di “piacere“
29 Aprile 2021
Oltre quaranta casse d’oro nascoste nelle “segrete” di una villa polacca: è il tesoro di Himmler, il comandante delle SS che avevano reso un antico palazzo di Minkowskie la loro casa di piacere
Sono anni che se ne parla, ma ormai l’ora della verità è vicina, e i due ricercatori che hanno passato quasi un decennio seguendo le tracce del famigerato tesoro di Himmler sono pronti ad impugnare pale e picconi per scavare sotto una villa del diciottesimo secolo. Una “casa di piacere” che troneggia su una collina alle porte di Minkowskie, nella Slesia polacca, dove il Reichsführer delle SS avrebbe nascosto 48 casse contenenti ognuna dozzine di lingotti d’oro. L’oro che sarebbe servito, secondo alcuni storici, per fondare il Quarto Reich.
Dieci anni passati dietro i resoconti che spesso si perdono nella leggenda. A confrontare date, a cercare in documenti, dispacci, lettere, diari, informazioni ufficiali e ufficiose che potessero aiutarli ad identificare l’esatta posizione del “oro di Breslau”: un carico di decine di tonnellate di lingotti d’oro, opere d’arte e altri preziosi, rastrellati dalle SS di Heinrich Himmler e accumulati nella “Reichsbank”, partiti su un treno da Breslavia, per poi scomparire nel nulla alla fine della seconda guerra mondiale.
L’ufficiale in questione, denominato “Michaelis”, avrebbe spinto i cacciatori di tesori a cercare in un’area delimitata della Slesia polacca, al confine con la Repubblica Ceca, per poi concentrarsi sul terreno che circonda un elegante palazzo dal tetto celeste, risalente al diciottesimo secolo in evidente stato d’abbandono, oggi di proprietà della fondazione Silesian Bridge. A riportare la notizia è il tabloid britannico Daily Mail, che in un reportage esclusivo racconta dove potrebbe celarsi il tesoro da quantificare in oltre mezzo miliardo di sterline.
L’edificio di due piani dal tetto spiovente commissionato dal generale prussiano Friedrich Wilhelm von Seydlitz, oggi perfetto per ambientare un film di fantasmi, venne requisito durante l’occupazione nazista e utilizzato come bordello dagli ufficiali che portavano la testa di morto sul bavero: gli uomini incaricati di “cancellare” dalla faccia della terra ebrei, zingari, partigiani, oppositori e sostenitori del comunismo. Una vicenda che racconta bene Littell del suo capolavoro “Le Benevole” (Enaudi). Sarebbe lì e in fondo ad un pozzo, che il tesoro aspetta di essere ritrovato da oltre settant’anni.
Nelle pagine vergate a mano dall’ufficiale nazista si legge: “Mia cara Inge, porterò a termine il mio compito, se Iddio vorrà. Alcune operazioni di trasporto hanno già avuto successo. Le restanti 48 grosse casse della Reichsbank e tutte quelle appartenute a diverse famiglie, le affido a te. Soltanto tu sai dove si trovano. Possi Dio aiutarti e aiuti me, a finire quanto ho iniziato” – e prosegue – “Un passaggio è stato scavato nell’orangeria, che è una “casa” sicura per le casse e gli altri contenitori che sono stati inviati”. Tra questi, 48 colli della Reichsbank, “in buone condizioni e ben nascosti sottoterra e sotto le piante”.
L’ultima nota è datata al 12 marzo del 1945, e Inge, la cara Inge, sarebbe secondo i resoconti una delle tante prostitute, o semplici ragazze affamate che si erano stabilite nella casa di piacere di Minkowskie per soddisfare per pulsioni degli ufficiali delle SS, della quale Michaelis si era innamorato. Fidandosene al punto da rivelarle l’esatta (o ipotetica) posizione del tesoro che però non è mai stato toccato. Forse perché con la rottura del fronte e l’avanzata dell’Armata Rossa, sia Michaelis, ufficiale nemico e criminale di guerra, che Inge, collaborazionista, sono rimasti uccisi; o forse, come sostiene Roman Furmaniak, capo della spedizione dei cacciatori d’oro, perché Inge, sopravvissuta, non ha mai voluto tradire il suo amore rivelando il segreto.
Secondo Furmaniak, infatti, la ragazza era così innamorata del bell’ufficiale ariano “in uniforme nera delle SS”, che credeva sarebbe tornato a prenderla, e magari avrebbero dissotterrato il tesoro insieme. “Sarebbe dovuta restare lì per un anno, forse due, poi tutto sarebbe finito”, continua Furmaniak, “Nessuno credeva allora che la regione sarebbe passata sotto il controllo dell’Unione Sovietica. C’è stato un periodo di due mesi nel 1945 in cui ha dovuto nascondersi nella foresta dai russi. Ma quando è tornata, la zona non era stata disturbata”. Poi avrebbe continuato a sorvegliare, per sessant’anni, fino alla morte.
Una storia poco credibile, più degna di un romanzo che della realtà, ma comunque prossima ad una svolta definitiva, perché all’inizio di maggio il gruppo di cacciatori d’oro dei nazisti inizierà gli scavi, partendo dalla villa di Minkowskie. Per setacciare gli undici nascondigli identificati dai documenti segreti, compreso il pozzo di Roztoka, altra X segnata sulla mappa. “Il diario dice che i depositi di Roztoka sono sepolti a 64 metri sul fondo di un pozzo. Sarebbe un compito enorme scavare quel sito. Ci stiamo concentrando su Minkowskie ora perché pensiamo che sarà più facile”. È solo questione di tempo dunque, e sapremo se l’oro di Himmler si nasconde davvero sotto a un vecchio bordello delle milizie tedesche, che poi divenne sotto l’Unione Sovietica un asilo e per un po’ di tempo anche un cinema. O seppure la storia fantasiosa sarà più adatta un film, che certe trame riscuotono ancora un certo successo: guerra, amore, e tesori nazisti.
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