RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI
29 DICEMBRE 2021
A cura di Manlio Lo Presti
Esergo
Da Platone ad Aristotele fino all’età moderna la filosofia, nei suoi maggiori e più autentici rappresentanti, è tutta l’articolazione dello Stupore di fronte a ciò che è, così la filosofia moderna, da Descartes in poi, è consistita nelle articolazioni e ramificazioni del Dubbio.
HANNAH ARENDT, Vita activa Bompiani, 1998, pag. 128
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SOMMARIO
Tra talebani e COVID
AUMENTO DEI POSITIVI PER INCREMENTO DEI TAMPONI
La pubblica amministrazione è occupata da portaborse che lavorano per le multinazionali
Mossa aggressiva» russa: Mosca propone la pace
Putin: non è la Russia a piazzare missili ai confini americani, ma è Washington alle nostre porte
Sta arrivando una lobby israeliana più aggressiva nel 2022
Ecco chi sta finanziando i Talebani, lo Stato spacciatore
GUERRE E CONFLITTI NEL MONDO
“LE COSTITUZIONI”: L’ALBANIA (VIDEO)
L’iscrizione etrusca nascosta in un elmo di Vulci, una scoperta al Museo di Villa Giulia
I SOCIAL MEDIA ED IL “DIROTTAMENTO DEL CERVELLO”
L’avvento del Deep State non è una sorpresa. Ce lo avevano annunciato parecchi anni fa
La disuguaglianza è una scelta politica
Critica, capitale e totalità
Il dubbio come fonte della democrazia costituente
Il dominio israeliano su Washington
Teoria critica della razza e progetto ebraico
Europa, decrescita e lo spettro autoritario
Radici ideologiche del Pakistan
Lo svedese Alfred Nobel ed il belga Ernest Solvay
Alexa: hai rotto le scatole. Un quarto degli utenti la disinstalla nelle prime due settimane…
Pfizer testerà il terzo vaccino contro il COVID in bambini sotto i 5 anni dopo che le due dosi non sono state all’altezza
EDITORIALE
IN EVIDENZA
Tra talebani e COVID
di Gilad Atzmon
Ci vuole un genio per capire che il colossale fallimento della guerra degli Stati Uniti in Afghanistan è identico alla disastrosa “guerra contro il COVID”?
È certamente chiaro che sono più o meno le stesse persone che hanno ideato le strategie fatali che hanno portato a una grandiosa sconfitta in questi due inutili conflitti. Abbiamo a che fare con persone che aderiscono al concetto di guerra di distruzione. Queste sono persone che non cercano pace, armonia o riconciliazione né con la natura né con altri segmenti dell’umanità.
I nostri “strateghi” della pandemia credevano che fosse nei loro poteri cancellare la SARS CoV 2 dalla faccia della terra. Allo stesso modo erano convinti che i talebani potessero essere sradicati. Erano, ovviamente, catastroficamente sbagliati.
Ma anche i progressisti e la cosiddetta sinistra hanno una parte imperdonabile in questi racconti catastrofici. La sinistra non era responsabile delle ‘strategie’ o della grande pianificazione. Non erano realmente partecipanti ai think tank neoconservatori, non erano coinvolti nella promessa di Pfizer di riparare il genoma umano. Non stavano consigliando Netanyahu, Trump o Johnson nel 2020 in quanto non erano tra i consiglieri di Bush nel 2001. Ma sono stati i primi a sostenere la “guerra contro il terrore” dello ziocon, principalmente in nome dell'”interventismo morale”. Allo stesso modo, sono stati tra i più entusiasti sostenitori dell’attuale esperimento sulla popolazione umana di massa.
Non è necessario scalfire la superficie per notare che anche lo Stato ebraico ha avuto un ruolo centrale in questi due giganteschi errori. I think tank neocon che hanno spinto l’America in Afghanistan erano ovviamente composti da ardenti sionisti ebrei. Nel 2003 Ari Shavit ha scritto su Haaretz“La guerra in Iraq è stata concepita da 25 intellettuali neoconservatori, la maggior parte dei quali ebrei, che stanno spingendo il presidente Bush a cambiare il corso della storia”. Le persone che si sono offerte volontarie come cavie nell’esperimento COVID di Pfizer erano ovviamente gli israeliani. L’Israele di Netanyahu non ha tentato di “convivere con il COVID”, ma ha invece trattato il virus come un Amalek contemporaneo, una piaga antisemita che deve essere debellata: il Mossad insieme all’IDF hanno unito le forze nella guerra contro il Covid. Quando sembrava che il numero di casi di COVID stesse diminuendo, Israele è stato veloce nel dichiarare una vittoria nella guerra contro il virus.
Ma la realtà è imbarazzante. In Afghanistan i talebani sono più forti che mai . L’America ha lasciato il paese che aveva promesso di “liberare” con la coda tra le gambe. Nella lotta contro il COVID, l’America è ugualmente sconfitta. Negli Stati Uniti, uno studio del CDC ha rilevato che le persone vaccinate rappresentavano il 74% dei casi in un’epidemia di una cittadina balneare nel Massachusetts. E in Israele, Delta ha realizzato un’aliya di successo spettacolare. I vaccinati sono ormai sovrarappresentati tra i casi Delta ed equamente rappresentati tra i casi critici. Pochi giorni fa un direttore di un ospedale israeliano ha ammesso che il 90% dei suoi pazienti è vaccinato. “Il vaccino sta calando davanti ai nostri occhi”, ha detto.
Il teorico militare modernista del XIX secolo Carl von Clausewitz ha definito la guerra come “la continuazione della politica con altri mezzi”. Ma nell’universo globale sionizzato in cui viviamo, la politica è semplicemente la continuazione della guerra. Mantenere il mondo in conflitto è l’attuale mantra globale in quanto le persone sono sottomesse quando hanno paura. Questa filosofia ha sostenuto il sionismo per decenni. Ha tenuto unito il popolo ebraico per due millenni, ma ha avuto un prezzo. La storia ebraica non è esattamente una storia di tranquillità.
Non dovrei essere io a ricordare ai miei fratelli e sorelle amanti della pace che amare il prossimo può anche significare cercare la pace e l’armonia con l’universo nel suo insieme (virus inclusi).
FONTE: https://gilad.online/writings/2021/8/4/in-between-taliban-and-covid
AUMENTO DEI POSITIVI PER INCREMENTO DEI TAMPONI
Il fatto è spiegato da una foto di un appunto molto eloquente scritto a mano e tratto dalla rete:
ARTE MUSICA TEATRO CINEMA
ATTUALITÀ SOCIETÀ COSTUME
BELPAESE DA SALVARE
“La pubblica amministrazione è occupata da portaborse che lavorano per le multinazionali” Intervista al Professor Nino Galloni
Stiamo vivendo uno dei momenti più sorprendenti della storia: il collasso di un sistema e il disperato tentativo di tenerlo in vita?
Riusciremo mai a liberarci dalla morsa dei signori della finanza, dalle loro speculazioni e dai loro inganni?
Viviamo in serenità questo grande passaggio, senza dividerci in tifoserie, ma provando più profondamente a comprendere ciò che sta accadendo.
I potentati sembrano non aver soluzioni, se non le stesse vecchie proposte. Quindi non sono in grado di guadare l’umanità su un’altra sponda, verso una società migliore. Probabilmente non vogliono farlo. Vogliono incastrare l’umanità in questo giochino che si ripete all’infinito, come un loop, nel quale loro si ingozzano di denaro sonante.
Il sistema finanziario è attivo e ricco. I soldi non mancano. E’ la società reale che è deficiente di quella liquidità che servirebbe a farla ripartire. La finanza vive in un mondo a parte. Enormi quantità di denaro circolano quotidianamente senza alcun corrispettivo reale. Denaro futile.
La grande finanza rappresenta un problema effettivo per la società umana, che viene continuamente drenata da questo potere che tutto accumula per sé e sottrae ricchezza vera per riversarla nei suoi circuiti fittizi.
Trilioni di debito che gravano come macigni sulle nazioni che si ritrovano sottomesse a voleri esterni che sfruttano il debito come strumento di ricatto.
Ma una parte sempre più consistente di umanità sembra vivere una sorta di risveglio, sembra aprire gli occhi davanti a quello che altro non è che un inganno di proporzioni colossali.
Si preannunciano tempi interessanti. I padroni del discorso non avranno vita semplice nei prossimi mesi e forse anni perché chi ha capito non ha più intenzione di farsi prendere in giro.
Di questo e altro abbiamo parlato con il Professor Nino Galloni, che ringraziamo per questa intervista.
Per poter vedere l’intervista su YouTube cliccate qui: https://youtu.be/O9h8wIxe8UI
FONTE: https://www.mittdolcino.com/2021/12/28/intervista-a-galloni/#google_vignette
CONFLITTI GEOPOLITICI
«Mossa aggressiva» russa: Mosca propone la pace
di Manlio Dinucci
L’arte della guerra. La Federazione russa propone agli Usa un trattato e un accordo per disinnescare le tensioni tra le due parti
La Federazione Russa ha consegnato agli Stati Uniti d’America, il 15 dicembre, il progetto di un Trattato e di un Accordo per disinnescare la crescente tensione tra le due parti. I due documenti sono stati resi pubblici, il 17 dicembre, dal Ministero degli Esteri russo. La bozza di trattato prevede, all’Art. 1, che ciascuna delle due parti «non intraprenda azioni che incidono sulla sicurezza dell’altra parte» e, all’Art.2, che «si adoperi per garantire che tutte le organizzazioni internazionali e alleanze militari a cui partecipa aderiscano ai principi della Carta delle Nazioni Unite».
All’Art. 3 le due parti si impegnano a «non utilizzare i territori di altri Stati allo scopo di preparare o effettuare un attacco armato contro l’altra parte». L’Art. 4 prevede, quindi, che «gli Stati Uniti non stabiliranno basi militari nel territorio degli Stati dell’ex Urss che non sono membri della Nato», ed «eviteranno l’adesione di Stati dell’ex Urss alla Nato, impedendo una sua ulteriore espansione ad Est».
Nell’Art. 5 «le parti si astengono dal dispiegare le loro forze armate e i loro armamenti, anche nell’ambito di alleanze militari, nelle aree in cui tale dispiegamento può essere percepito dall’altra parte come una minaccia alla propria sicurezza nazionale». Quindi «si astengono dal far volare bombardieri equipaggiati con armamenti nucleari o non nucleari e dallo schierare navi da guerra nelle aree, al di fuori dello spazio aereo e delle acque territoriali nazionali, da cui possano attaccare obiettivi nel territorio dell’altra parte».
All’Art. 6 le due parti si impegnano a «non usare missili terrestri a gittata intermedia o corta al di fuori dei loro territori nazionali, nonché nelle zone dei loro territori da cui tali armi possano attaccare obiettivi sul territorio dell’altra parte». L’Art.7, infine, prevede che «le due parti si asterranno dallo schierare armi nucleari al di fuori dei loro territori nazionali e riporteranno nei loro territori le armi già schierate al di fuori» e che «non addestreranno personale militare e civile di paesi non nucleari all’uso di armi nucleari, né condurranno esercitazioni che prevedano l’uso di armi nucleari».
Il progetto di Accordo stabilisce le procedure di funzionamento del Trattato, basate sull’impegno che le due parti «risolveranno tutte le controversie nelle loro relazioni con mezzi pacifici» e «utilizzeranno i meccanismi delle consultazioni e informazioni bilaterali, comprese linee telefoniche dirette per contatti di emergenza». Il Ministero degli Esteri russo comunica che la parte statunitense ha ricevuto spiegazioni dettagliate sulla logica dell’approccio russo e di sperare quindi che, nel prossimo futuro, gli Stati uniti avviino seri colloqui con la Russia su tale questione critica.
Tace per ora la parte statunitense. Si fa sentire però la Voce dell’America, megafono multimediale di Washington che parla in oltre 40 lingue a centinata di milioni di persone in tutto il mondo: dice che «molti esperti sono preoccupati per questa mossa della Russia, che vuole sfruttare il fallimento del negoziato come pretesto per invadere l’Ucraina». Tace per ora la Nato, in attesa degli ordini da Washington. Tace l’Italia che, pur non essendo destinataria diretta della proposta russa, è parte in causa: tra le armi nucleari che gli Usa schierano al di fuori del proprio territorio vi sono le bombe B-61 installate a Ghedi e Aviano, tra poco sostituite dalle più micidiali B61-12, al cui uso viene addestrato il nostro personale militare nonostante l’Italia sia ufficialmente paese non nucleare. E gli Usa si preparano a installare in Italia anche nuovi missili nucleari a gittata intermedia.
Mentre i media calano una quasi totale cappa di silenzio sulla proposta russa, i gruppi parlamentari la ignorano come se non avesse niente a che fare con l’Italia, esposta a crescenti pericoli quale base avanzata delle forze nucleari Usa contro la Russia. Trovino almeno il tempo di leggere in pochi minuti la bozza che la Russia ha consegnato agli Usa per aprire la trattativa, e abbiano il coraggio politico di esprimere pubblicamente il loro giudizio. Se è negativo, spieghino perché è in contrasto con la nostra Costituzione e la nostra sicurezza.
FONTE: https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/21886-manlio-dinucci-mossa-aggressiva-russa-mosca-propone-la-pace.html
Putin: non è la Russia a piazzare missili ai confini americani, ma è Washington alle nostre porte
Il presidente russo Vladimir Putin nella consueta conferenza stampa annuale ha ribadito che non è la Russia che sta piazzando missili vicino ai confini degli Stati Uniti, ma che è Washington alle porte del paese eurasiatico.
“È chiedere troppo non mettere alcun sistema di attacco vicino a casa nostra, cosa c’è di strano?”, ha chiesto il presidente. “E se avessimo messo missili al confine tra Stati Uniti e Canada? O in Messico?”, ha aggiunto Putin, ricordando che storicamente gli Stati Uniti hanno avuto “dispute territoriali” con il loro vicino meridionale. “Di chi era la California? Di chi era il Texas? L’hanno già dimenticato?”
In questo contesto, il presidente russo ha chiesto a Washington di fornire garanzie di sicurezza. “Devono dare garanzie e subito”, ha avvertito Putin, che ha anche sottolineato che negli anni ’90 la Nato aveva promesso che non si sarebbe allargata “nemmeno un pollice verso est”, ma da allora ci sono state cinque fasi di espansione dell’organizzazione. “Le nostre azioni non dipenderanno dall’andamento dei negoziati, ma dalla garanzia incondizionata della sicurezza della Russia”.
FONTE: https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-putin_non__la_russia_a_piazzare_missili_ai_confini_americani_ma__washington_alle_nostre_porte/8_44503/
Quegli americani che osano sfidare la stretta strangolamento che Israele ei suoi amici hanno sulla politica estera degli Stati Uniti probabilmente si troveranno presi di mira in modo ancora più aggressivo nel prossimo anno. Due settimane fa l’American Israeli Public Affairs Committee (AIPAC), ampiamente considerato il più grande e potente componente della lobby dello stato ebraico, ha dichiarato che ora inizierà a finanziare direttamente i candidati politici che sono percepiti come pro-Israele. Finora l’AIPAC ha preferito operare un po’ nell’ombra, presentandosi come un’organizzazione in parte “educativa” per giustificare il suo status di esenzione fiscale 501(c)3 che utilizza per inviare tutti i nuovi membri del Congresso in viaggi di propaganda in Israele .
Naturalmente, questa è sempre stata un po’ una finzione resa possibile da un Dipartimento di Giustizia che è incline a ignorare tutti i comportamenti scorretti israeliani. Ci sono una serie di ragioni per cui l’AIPAC dovrebbe essere considerata per quello che è, cioè un’organizzazione che ha come priorità la promozione degli interessi israeliani senza alcuna preoccupazione per i danni arrecati agli Stati Uniti e alle sue istituzioni. Secondo la legge degli Stati Uniti, in particolare il Foreign Agents Registration Act del 1937, l’AIPAC dovrebbe essere obbligato a rinunciare al suo status fiscale speciale e al registro, che consentirebbe al governo di avere pieno accesso alle sue finanze e richiederebbe anche una registrazione dei suoi frequenti incontri con il governo israeliano Ambasciata a Washington e con alti funzionari israeliani in Israele. Dovrebbe anche riferire i suoi sforzi di lobby significativi e senza precedenti a Capitol Hill.il suo sito web in qualche modo smentisce quella presunzione in cui si descrive come “la lobby pro-israeliana americana” prima di elaborare come “siamo orgogliosi di essere un movimento diversificato di appassionati americani pro-israeliani”.
L’altra menzogna promossa dall’AIPAC è che, fino ad ora, non ha finanziato le campagne politiche dei suoi tanti amici sia al Congresso che nei governi statali e locali. La realtà è che l’AIPAC e alcuni dei suoi gruppi associati hanno vagliato in modo aggressivo i candidati alla carica a tutti i livelli. Durante il suo vertice annuale a Washington, i politici presenti hanno regolarmente organizzato raccolte di fondi in hotel e ristoranti non durante l’evento AIPAC, ma spesso in hotel raggiungibili a piedi. È noto che l’AIPAC pubblica, solo per uso interno, una “scheda di punteggio” dei candidati prima delle elezioni che riflette le opinioni su Israele. Poiché l’AIPAC è a sua volta finanziato da miliardari ebrei ed è in contatto regolare con loro, lo scambio di informazioni su chi è un “amico” e chi merita denaro per la campagna sarebbe facilmente realizzabile senza dover utilizzare l’AIPAC come canale.
La nuova struttura consisterà in un normale comitato di azione politica (PAC) in grado di contribuire con donazioni massime di $ 5.000 ai candidati identificati per gara e un super PAC, che può raccogliere fondi illimitati per un singolo candidato. AIPAC PAC sarà il nome del normale PAC, mentre il super PAC non ha ancora ricevuto un’etichetta.
Il portavoce dell’AIPAC Marshall Wittman ha inviato un’e-mail spiegando i cambiamenti. In forse una delle dichiarazioni più agghiaccianti che ho letto di recente, Wittman afferma che “La creazione di un PAC e di un super PAC è un’opportunità per approfondire e rafforzare significativamente il coinvolgimento della comunità filo-israeliana nella politica”. Dato l’attuale dominio israeliano del Congresso, della Casa Bianca e dei principali media, si teme cosa potrebbe succedere se il “coinvolgimento della comunità filo-israeliana nella politica” diventasse una realtà. Gli ebrei costituiscono meno del 2% della popolazione degli Stati Uniti e sono già enormemente sovrarappresentati nelle professioni e nella politica delle élite, mentre allo stesso tempo si riservano il vittimismo perpetuo per giustificare le politiche antidemocratiche preferenziali che effettivamente promuovono. Il governo di Joe “Sono un sionista” Biden sarà obbligato per legge a essere ebreo al 100%? Il Congresso richiederà una maggioranza ebraica? Il governo istituirà gulag da qualche parte a ovest per persone come me che si oppongono a tale dominio e al “Progetto Israele”? Dove finisce mai tutto questo per soddisfare la lobby ebraica?
Ci si potrebbe chiedere perché l’AIPAC stia cambiando la sua piattaforma per rendersi ancora più accessibile dal momento che sembrerebbe che il passaggio ai PAC non cambi molto ciò che accade a porte chiuse quando i politici vengono a chiedere l’elemosina. La risposta potrebbe risiedere nella percezione da parte dei gruppi ebraici e del governo israeliano che il sionismo sia in difficoltà a causa dell’accumulo di gravi violazioni dei diritti umani e attacchi di crimini di guerra ai vicini. La visione del mondo di Israele è sempre più negativa. Quindi la risposta è di aprire un po’ la porta per far penzolare visibilmente più soldi, di cui la lobby israeliana ha un sacco, per affrontare i critici.
Israele ei suoi amici sono particolarmente preoccupati per i pochi progressisti al Congresso che hanno espresso riserve sull’approvazione cieca dei crimini israeliani contro l’umanità. I PAC consentiranno una risposta più solida fornendo denaro prontamente disponibile per far correre i candidati pro-Israele contro di loro per ottenere la loro rimozione dal Congresso. I sionisti sono anche preoccupati per il crescente sostegno al movimento nonviolento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni (BDS), che cerca di esercitare su Israele lo stesso tipo di pressione economica che una volta ha portato al cambiamento in Sudafrica. Già i gruppi di difesa di Israele a livello statale sono riusciti a far approvare una legislazione in 27 stati che in un modo o nell’altro punisce chiunque sostenga il “boicottaggio” di Israele.
Di pari passo con le mosse a livello statale, i gruppi ebraici stanno riscrivendo i libri di testo per includere di più sul cosiddetto olocausto, per includere a volte l’istruzione obbligatoria sull’olocausto alle scuole elementari e superiori. In un bizzarro incidente a Washington DC, gli studenti sono stati costretti a ricostruire “scene” dell’olocausto, comprese esecuzioni di massa e sepolture. A uno studente è stato chiesto di ritrarre Adolph Hitler e gli è stato chiesto di includere un suicidio simulato alla fine dell’esercizio.
Tutto questo superamento viene confezionato insieme a rapporti allarmanti , diffusi inevitabilmente da gruppi ebraici, riguardo a un’ondata di ciò che sceglie di etichettare come crimini antisemiti. Tali “crimini” includono numerosi incidenti senza vittime come graffiti scarabocchiati sui muri o l’esposizione di manifesti a difesa dei palestinesi. L’Anti-Defamation-League (ADL), che guida il gruppo nelle sue continue grida di antisemitismo, afferma ipocritamente che sta lavorando per “combattere l’estremismo e l’odio”. Questa definizione apparentemente non include il trattamento dei palestinesi da parte dei suoi correligionari in Israele.
In effetti, la tendenza della lobby israeliana a esagerare perché è diventata così arrogante a causa del suo potere è forse la chiave per abbatterla. Un recente scambio in Florida dimostra come l’ADL, sensibile a ogni possibile offesa, abbia effettivamente reagito duramente a qualcuno che in realtà era dalla sua parte . Cinque settimane fa, la segretaria stampa del governatore rabbiosamente filo-israeliano Ron DeSantis, Christina Pushaw, ha twittato un commento sarcastico affermando che “non c’era nessuna strana teoria della cospirazione qui” sui rapporti stampa riguardanti l’incontro del Primo Ministro della Repubblica di Georgia con Rothschild & Co sugli investimenti opportunità. Il direttore regionale dell’ADL Florida Sarah Emmons si è offeso e ha risposto con quanto segue:
“La convinzione che i Rothschild manipolino la valuta e influenzino gli eventi globali per l’arricchimento personale e il dominio del mondo è un punto fermo dei teorici della cospirazione antisemita. È profondamente inquietante vedere questo tipo di cospirazioni promosse da un membro dello staff del governatore Ron DeSantis. Le teorie della cospirazione, specialmente quelle con origini antisemite, non appartengono all’ufficio più alto della Florida, o in qualsiasi parte del Sunshine State. Contatteremo l’ufficio del governatore per esprimere le nostre preoccupazioni e discutere la questione”.
Ebrei e banche nella stessa frase? Deve essere un tropo antisemita, come dice l’espressione. E se Pushaw fosse stato davvero abbastanza audace da dire qualcosa di più pertinente, come “Israele sta cercando di trascinarci in una guerra non necessaria con l’Iran”? In ogni caso, i sionisti stanno preparando la loro offensiva e noi della comunità agnostica di Israele scopriremo che il prossimo anno sarà ancora più difficile, poiché lo stato ebraico e i suoi amici stringono le viti per eliminare e persino criminalizzare tutte le critiche. Essere preparato!
Philip M. Giraldi, Ph.D., è direttore esecutivo del Consiglio per l’interesse nazionale, una fondazione educativa deducibile dalle tasse 501 (c) 3 (numero ID federale # 52-1739023) che cerca una politica estera statunitense più basata sugli interessi in Medio Oriente. Il sito web è Councilforthenationalinterest.org, l’ indirizzo è PO Box 2157, Purcellville VA 20134 e la sua email è inform@cnionline.org .
FONTE: https://www.unz.com/pgiraldi/a-more-aggressive-israel-lobby-is-coming-in-2022/
Ecco chi sta finanziando i Talebani, lo Stato spacciatore
- 01-10-2021 – Lorenzo Formicola
Chi finanzia i Talebani? Indirettamente noi europei, che siamo fra i maggiori acquirenti di droga dall’Afghanistan, poi i russi e poi gli asiatici. L’Afghanistan è diventato il principale Stato narcotrafficante del mondo. Ecco le rotte e le strategie di questo fiorente mercato illegale.
Chi sarà il principale finanziatore, seppur indiretto, dei nuovi padroni di Kabul. Europa occidentale e Russia sono in cima alla lista degli sponsor dell’Emirato. È là, infatti, che si trovano – in particolare, in Italia, Francia e Germania – i principali consumatori d’oppio. E l’Afghanistan è il primo fornitore di oppio al mondo. Vale circa il 90% della produzione mondiale. È da qui che parte tutto.
L’Unodc, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa del monitoraggio del consumo di droga nel mondo, nell’ultimo rapporto racconta che il mercato degli oppiacei si aggira intorno ai 60 miliardi di dollari. Una cifra drasticamente aumentata grazie a un importante balzo in avanti del consumo di eroina, specie tra i più giovani. Le varie dosi in giro per il Vecchio Continente muovono un giro d’affari di circa 7 miliardi di euro – il 92% di tutto l’oppio consumato nel Vecchio Continente viene smerciato nell’Europa occidentale. Un discorso valevole, quasi in egual misura, anche per la Russia. Insieme rappresentano, infatti, i due principali mercati. Poco dietro vi è invece il Nord America.
Ed è così che le organizzazioni criminali dedite allo spaccio di eroina in queste aree potrebbero diventare, improvvisamente, protagoniste dello scenario geopolitico dei prossimi anni. Chi, infatti, all’estero acquisterà oppio darà un implicito, e indiretto, contributo alla sopravvivenza dell’Emirato facendo soffiare un po’ più forte la bandiera bianca con la shahada in nero.
Il mercato dell’eroina non ha conosciuto crisi. Anzi, negli ultimi quarant’anni secondo l’Unodc – United Nations Office on Drugs and Crime – la crescita è stata costante. Soltanto nel 2020 la superficie di terreno interessata dalla coltivazione di oppio è cresciuta, del 37% e 3.600 tonnellate sono state esportate all’estero. Nel 2020 gli studenti coranici hanno guadagnato 1.6 miliardi di dollari: è stato proprio uno dei leader, Mullah Mohammad Yaqoob, a rendere note le entrate avute dai Talebani grazie alle loro attività. E se già senza essere al potere i Talebani dalla lavorazione del papavero hanno guadagnato quasi due miliardi, di quanto cresceranno adesso gli introiti? Considerando che il mercato della droga non ha conosciuto crisi neanche con l’emergenza sanitaria dettata dal Covid 19, gli studenti coranici nei prossimi mesi vedranno nelle esportazioni di oppio la carta principale da giocare per crescere economicamente. Il traffico globale di oppio, ad oggi, copre già il 60% di finanziamenti dei Talebani.
Quando il presidente Biden, ad agosto scorso, spiegava la strategia delle sue decisioni in merito al ritiro delle truppe Usa, si lanciò in un ragionamento definito lineare ed inoppugnabile: l’Afghanistan si reggeva sugli aiuti internazionali, se i talebani vogliono evitare il collasso economico e la conseguente esplosione sociale, devono rispettare l’impegno ad un «governo inclusivo» – formula magica a vaga allo stesso tempo – e moderare certi loro atteggiamenti verso donne e diritti umani. Ma i conti sono solo apparentemente a favore del mondo occidentale. E Biden non li ha fatti tutti. Il presidente Ashraf Ghani contava su un budget di circa 8 miliardi l’anno, di cui 6 erano donazioni. Il grosso delle spese (e degli aiuti) andava all’apparato militare: circa 5 miliardi. I talebani, invece, finanziavano la loro guerriglia con 1,5 miliardi e la stragrande maggioranza del denaro veniva dalla droga, il resto dalle miniere. Ora sanno di poter contare su donatori del Golfo. E sugli aiuti di Pechino: interessata a sfruttare tutti i diritti che vanta sulle miniere di rame. E non vede l’ora di iniziare a contrattare per zinco e terre rare.
Anche perché nel frattempo il consumo di eroina continua a crescere. In Italia, negli ultimi anni, s’è registrato un più 59,52% di eroina sequestrata, e rappresenta la prima causa di morte per overdose. Alla fine del 2018 le forze di polizia e le dogane avevano sequestrato in tutto il territorio nazionale poco meno di 900kg di eroina, il secondo più rilevate quantitativo del quinquennio dopo quello del 2014 (937kg). Nei primi sei mesi del 2021, ne hanno sequestrati già 256 kg. Tutta eroina afgana. Se l’Afghanistan in passato era solo un paese esportatore, con l’arrivo dei Talebani è divenuto anche raffinatore dell’oppio grezzo in eroina, grazie a laboratori dove lavorano i migliori chimici del settore, soprattutto turchi e iraniani. Mentre l’anidride acetica, utilizzata per la sintesi dell’eroina, è fornita da Europa (Francia e Germania), Russia e Cina.
Ma l’Afghanistan, oltre al mercato italiano ed europeo, approvvigiona quello del Medio Oriente, dell’Africa, dell’Asia meridionale e, in misura un tantino minore, il Sud est asiatico, il Nord America e l’Oceania. Sono circa 350 mila gli ettari coltivati per una produzione complessiva stimata di oltre 7 mila tonnellate di oppio. Il 2021 ha dimostrato, definitivamente, che le politiche antidroga occidentali attuate nel Paese negli anni passati sono state un fallimento. L’ultimo episodio degno di nota risale al 2017, quando le forze aeree statunitensi bombardarono laboratori per la produzione di droga nella provincia di Helmand, nel sud dell’Afghanistan. All’epoca, il generale John Nicholson, comandante delle truppe Usa e dell’operazione Resolute Support della Nato in Afghanistan, spiegò che l’operazione congiunta con le forze afgane fosse solo all’inizio e che i terroristi sostenuti dal narcotraffico avrebbero perso. Sappiamo com’è andata a finire.
I rapporti degli ultimi anni hanno sempre ribadito come “la resistenza dei contadini alle operazioni di eradicazione sia stata violenta. E le province che coltivano papavero sono anche le uniche che possono fare a meno dell’assistenza internazionale: il papavero fornisce sostentamento a 4 milioni di afgani”. Quindi oltre il 10% della popolazione. Il papavero essiccato porta mediamente ai coltivatori 240 euro al chilo, mentre un chilo di fagioli garantisce un guadagno di appena 2 euro. I Talebani ci guadagnano molto facilmente, come certifica anche l’Unodc: pretendono dai contadini una tassa del 5% del ricavato totale dell’oppio prodotto nei loro territori, mentre ai produttori va circa il 20%. Il restante 75% è spartito tra funzionari di governo, mediatori e trafficanti locali e milizie locali.
Ai tempi della monarchia, negli anni Sessanta, la chiamavano “little America”, quando gli ingegneri Usa costruirono 1.600 chilometri di canali di irrigazione. Oggi la provincia di Helmand è la terra dell’oppio e dei talebani. Nel sud dell’Afghanistan, è lì che i talebani hanno una delle loro principali roccaforti. Seguono le altre province meridionali, occidentali e orientali di Kandahar, Badghis, Faryab, Uruzgan e Nangarhar, aree storicamente roccaforti dei Talebani. Nangarhar, nell’est del Paese, vede attualmente la più massiccia presenza di milizie del sedicente Stato Islamico combattute dal governo di Kabul e dagli stessi Talebani che li considerano rivali nel “monopolio del jihad”. La presenza di questa provincia nella “top ten” della produzione di oppio indicherebbe anche l’Isis afgano tra chi utilizza i proventi dell’oppio per finanziarsi.
Tracciare le vie del mercato della droga potrebbe voler significare capire da dove arriverà il primo fondamentale indiretto sostegno finanziario al nuovo Emirato. Sono tre le vie principali. Quella del Nord, che passa per i tre paesi centro-asiatici confinanti: Turkmenistan, Uzbekistan e Tajikistan. Quella del Sud, che transita per il Pakistan attraverso i 1.200 chilometri di frontiera del Baluchistan con due delle province afgane a maggior produzione di eroina, Helmand e Kandahar. Dal Pakistan raggiunge la Cina via terra, mentre arriva in Africa, Oceania e America via mare. E poi quella dell’Ovest, verso l’Iran. Una parte della droga si ferma nel Paese per il consumo interno, ma la maggior parte prosegue per la Turchia: il passaggio obbligato per giungere in Europa. Il sud Italia, Albania, Serbia e Montenegro sono le ultime tappe della rotta balcanica per lo smistamento in Europa di una quantità di eroina pari a circa il 30% di quella prodotta in Afghanistan.
Le mafie dei Balcani giocano un ruolo da protagoniste. È la regione trampolino di lancio dell’eroina prima del suo ingresso in Europa occidentale. La stessa rotta battuta da quell’immigrazione irregolare in aumento e che devia verso Trieste. Su strada, la capitale afghana dista 6251 km da Trieste e l’ultima relazione curata dall’Osservatorio europeo delle droghe e delle tossicodipendenze e da Europol racconta che la rotta dei Balcani resta il principale corridoio d’ingresso dell’eroina in Europa.
FONTE: https://lanuovabq.it/it/ecco-chi-sta-finanziando-i-talebani-lo-stato-spacciatore
GUERRE E CONFLITTI NEL MONDO
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Educare i giovani alla pace è uno degli obiettivi trasversali della programmazione didattica ed educativa della Scuola Primaria e Secondaria di Primo e di Secondo grado. Per sviluppare questo argomento, occorre analizzare e spiegare ai discenti le ragioni dei conflitti armati nel mondo; solo così essi possono comprendere perché le guerre non risolvono i problemi e perché solo la pace può dirimere le controversie tra i popoli.
Molto utile in quest’ottica è la decima edizione dell’Atlante, redatto dall’Associazione 46° Parallelo. Si tratta di un’Associazione culturale nata a Trento nel 2008, fondata da un gruppo di amici che volevano affrontare il tema della guerra e della pace, realizzando questo progetto, che in oltre dodici anni di lavoro è giunto alla decima edizione, ampliando in itinere le collaborazioni. Pensato come un vero e proprio atlante, è un annuario aggiornato delle guerre in atto sul Pianeta. Il volume si apre con l’Editoriale di Raffaele Crocco, il direttore responsabile, che ci riporta, attraverso i numeri, la drammatica situazione di un mondo in rovina: “I numeri scorrono implacabili davanti agli occhi. Sono i quasi 4,5 milioni di morti ufficiali a giugno 2021. Sono il miliardo di essere umani che muoiono di fame. Sono i 270 milioni di persone costrette a emigrare per cercare un senso alla loro vita. Sono i 2 mila miliardi di dollari spesi per comprare armi. Sono numeri di un mondo che non vuole guarire e che nella grande pandemia da Covid-19 ha trovato nuove ingiustizie, nuove ragioni di conflitto e guerra”. Precisa quindi che sono 34 le guerre ancora in atto e che, per renderle inutili, è necessario fare buona informazione. Questa è la base della democrazia, che a sua volta è il cardine su cui realizza la Pace. “Perché, ormai ne siamo certi – conclude – la Pace non è semplicemente la fine di una guerra. E’ un sistema di vita e di relazioni. E’ l’essenza e il fine della storia dell’uomo”.
Nell’Introduzione chiarificatore è lo scritto di Giuseppe Castronovo, già presidente nazionale ANVCG, vittime civili delle guerre: soltanto nel 2020 oltre 50 milioni di civili hanno vissuto il trauma della guerra nelle aree urbane.
Seguono quindi tre interessanti schede: Earth Overshoot Day 2020 di Raffaele Crocco; Emergenza Afghanistan di Emanuele Giordana; Guerra e finanza a cura della Fondazione Banca Etica. Un intero inserto dedicato al Coronavirus, intitolato Speciale Covid19, scritto dalla Redazione, fa poi il punto sul bilancio della “Chernobyl del XXI secolo”, così come viene definito il Coronavirus nel rapporto dell’OMS pubblicato nel mese di Maggio del 2021: l’impossibilità di comprendere come sia iniziata questa epidemia, vista la tensione in atto tra Cina e USA; le carenze gestionali dei Governi nel fronteggiare il Covid 19; l’ineguale distribuzione dei vaccini; l’aumento esponenziale di disordini civili e degli eventi violenti; la recrudescenza delle guerre locali; l’ampliamento delle disuguaglianze.
La Pace difficile a cura dell’Osservatorio ANVCG richiama infine l’attenzione sugli effetti a lungo termine delle armi esplosive sui civili. Il corpo centrale dell’Atlante è dedicato alle Schede di Guerra. Esse sono sviluppate, seguendo precisi criteri: accorpamenti di territori e di zone; stesso spazio e medesimo numero di pagine; rigoroso ordine alfabetico per continente; approfondimenti di Amnesty International e dello staff universitario del Prof. Scotto nella introduzione dei continenti. Da apprezzare l’intenzionale obiettività delle analisi.
Nella parte conclusiva, una riflessione di Raffaele Crocco sui limiti oggettivi delle missioni dei Caschi Blu per mancanza di fondi e un quadro veritiero di Federico Fossi sugli effetti nefasti della Pandemia sulle guerre e sulle ingiustizie. Segue una serie di Dossier su: Intersos, Eserciti, Traffico Armi, Nucleare, Migranti. Chiudono il volume le Infografiche generali, per illustrare le concause che generano i conflitti nel mondo. Molto utili per attività didattiche e lavori di approfondimento.
Glauco Carlo Casarico
FONTE: https://www.civica.one/guerre-e-conflitti-nel-mondo/
CULTURA
“LE COSTITUZIONI”: L’ALBANIA (VIDEO)
Nella nuova puntata de “Le Costituzioni” si parla di Albania. Il primo articolo della Costituzione albanese cita: “L’Albania è una Repubblica parlamentare. La Repubblica d’Albania è uno Stato unitario e indivisibile. Il Governo si basa su un sistema di elezioni libere, uguali, generali e periodiche”.
VIDEO QUI: https://youtu.be/jawHHUB-F58
FONTE: http://opinione.it/cultura/2021/12/17/manlio-lo-presti_le-costituzioni-albania-primo-articolo-repubblica-parlamentare-stato-unitario-indivisibile/
L’iscrizione etrusca nascosta in un elmo di Vulci, una scoperta al Museo di Villa Giulia
L’iscrizione etrusca si è nascosta per quasi un secolo dopo il ritrovamento dell’oggetto che la celava, un elmo risalente a 2400 anni fa proveniente da Vulci, necropoli dell’Osteria, in particolare dalla tomba identificata dal numero 55. Il ritrovamento del corredo risale al 1930. Ma l’importante iscrizione era sfuggita ai suoi scopritori.
Per fortuna il Museo Etrusco di Villa Giulia diretto da Valentino Nizzo è un museo “vivo”, che studia, cataloga e digitalizza le scoperte archeologiche delle sue collezioni. Proprio un intervento di digitalizzazione e conservazione di alcune armi della collezione di Vulci e non solo ha portato alla scoperta del’epigrafe
QUI IL VIDEO su immagini del Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia
Non resta che lasciare la parola al documentatissimo comunicato del Museo che citiamo quasi integralmentenella nostra sezione di news (il grassetto è nostro):
“Se si escludono gli esemplari con dediche votive e un gruppo di 60 elmi (su 150) tutti contraddistinti dal medesimo gentilizio rinvenuti sull’acropoli di Vetulonia nel 1904, sono circa una decina le armi di questo tipo caratterizzate da iscrizioni come quella appena individuata, documentate in ambito etrusco e italico tra il VI e il III secolo a.C. Si tratta, dunque, di un tipo di evidenza molto rara che offre informazioni fondamentali per la ricostruzione dell’organizzazione militare e dell’evoluzione dell’arte della guerra nell’Italia preromana.
In base al suo esame tipologico e alle informazioni fornite dagli altri oggetti del corredo della tomba 55 (una delle più ricche tra quelle coeve rinvenute a Vulci), la deposizione dell’elmo può essere datata intorno alla metà del IV secolo a.C. Siamo in un’epoca caratterizzata da una forte conflittualità tra popoli che competevano per il predominio nella nostra Penisola o per la semplice sopravvivenza, minacciata dalla calata dei Celti che nel 390 avevano messo a ferro e fuoco la stessa Roma.
L’elmo di Vulci si inserisce perfettamente in questo contesto e, grazie alla sua iscrizione, racconta una pagina inedita della vita di un guerriero del suo tempo, anche se non è possibile stabilire con certezza se il nome conservato coincida con quello del suo ultimo proprietario. Molti indizi, infatti, ci portano a cercare le sue origini in un’altra città, al confine tra Umbri ed Etruschi, Perugia.
La lettura non comporta particolari difficoltà e consente di ricostruire una sequenza completa di 7 lettere disposte ai lati di un ribattino: HARN STE.
Quest’ultimo ostacolo sembrerebbe essere stato considerato dall’autore dell’epigrafe la quale, molto probabilmente, va letta come un’unica parola, quasi certamente un gentilizio per analogia con le altre iscrizioni rinvenute su elmi e caratterizzate da una simile collocazione. La presenza all’interno doveva infatti essere nota solo a chi utilizzava l’elmo e, quindi, molto probabilmente doveva indicare il suo proprietario. Questo rafforzava il senso di appartenenza di un oggetto di vitale importanza che, nel nascondere le sembianze del guerriero e nel proteggerlo, diveniva la sua proiezione metaforica.
Se i guerrieri potevano viaggiare come mercenari alle dipendenze del migliore offerente, ancora di più potevano viaggiare le loro armi, donate come premio o acquisite come preda bellica sul campo di battaglia.
Contrariamente a quanto si pensava finora, è possibile che il nostro elmo non sia stato prodotto a Vulci ma a Perugia dove è documentato il maggior numero di esemplari di questo tipo peculiare, una via di mezzo tra i più antichi elmi tipo “Negau” di tradizione etrusca e quelli cosiddetti “Montefortino”, di tradizione celtica ma molto popolari anche nel mondo italico e nella Roma repubblicana. Tale provenienza sembrerebbe confermata dal gentilizio restituito dall’iscrizione, molto simile a quello documentato in un’epigrafe latina rinvenuta nei pressi del celebre ipogeo dei Volumni di Perugia e appartenuta a una donna di origini etrusche vissuta nel I secolo a.C.: Harnustia.
Analogie possono essere ravvisate anche con i gentilizi Havrna, Havrenies/Harenies attestati agli inizi del III secolo a.C. a Bolsena, a metà strada tra Vulci e Perugia.
A Perugia sembra tuttavia ricondurci quella che potrebbe essere l’origine del nome, se è corretto ipotizzare una sua correlazione con il toponimo Aharnam, menzionato da Tito Livio (X, 25.4) come sede di un accampamento romano alla vigilia della celebre battaglia delle Nazioni avvenuta presso Sentino nel 295 a.C. È infatti assai probabile che il piccolo centro etrusco-umbro menzionato da Livio vada identificato con la moderna Civitella d’Arna, vicinissima a Perugia. Il gentilizio del nostro guerriero si sarebbe dunque potuto formare traendo origine dal nome della città di cui era originario, come testimoniano diverse iscrizioni su armi, anche a seguito della mobilità dei militari e della loro eventuale propensione a essere chiamati con il nome del luogo di provenienza… Anche se non è più possibile stabilire se Harnste fosse il suo gentilizio o quello di un rivale ucciso su un ignoto campo di battaglia, ci piace pensare che il pubblico che da ora in poi ammirerà l’elmo vulcente potrà memorizzare non soltanto il freddo numero d’ordine di una tomba ma anche qualcosa di più intimo e personale, come un nome e alcuni brandelli della possibile storia di chi, un tempo, lo aveva posseduto e aveva affidato ad esso la sua vita”. Un articolo completo sull’interpretazione sul numero di gennaio 2022 di Archeologia Viva (Giunti Editore)
FONTE: https://www.archaeoreporter.com/2021/12/28/liscrizione-etrusca-nascosta-in-un-elmo-di-vulci-una-scoperta-al-museo-di-villa-giulia/
CYBERWAR SPIONAGGIO INFORMAZIONE DISINFORMAZIONE
I SOCIAL MEDIA ED IL “DIROTTAMENTO DEL CERVELLO”
Da un “addetto ai lavori”: I metodi di “dirottamento del cervello” delle piattaforme di social media sono dannosi per gli utenti, soprattutto per i bambini.
Isabel Van Brugen e Joshua Philipp – The Epoch Times – 21 dicembre 2021
I metodi di “dirottamento del cervello”, che creano dipendenza, utilizzati dai giganti dei social media per mantenere gli utenti sulle loro piattaforme hanno effetti dannosi, in particolare sui bambini, secondo l’insider dell’industria Rex Lee, che dice che le aziende potrebbero violare le leggi sulla protezione dei bambini e dei consumatori utilizzando tali tecniche.
Lee, che ha oltre 35 anni di esperienza nell’industria tecnologica e delle telecomunicazioni, ha recentemente testimoniato davanti al Congresso, parlando ai membri di alcune delle pratiche ingannevoli utilizzate dai social network – in particolare, il “brain hijacking” (dirottamento dei cervelli).
“La prima volta che ho sentito parlare di dirottamento del cervello, pensavo fosse qualcosa di un film di fantascienza“, ha detto recentemente al programma Crossroads di EpochTV.
Ha detto che le applicazioni dei social media, comprese quelle sviluppate da Google, Meta e Bytedance, sono intenzionalmente sviluppate per creare dipendenza.
Parte di ciò che consente a queste piattaforme di creare dipendenza è associato alle tecnologie di dirottamento del cervello, che coinvolgono la pubblicità suggestiva e manipolativa, ha spiegato.
Lee, che lavora nel settore tecnologico per uno sviluppatore di app e piattaforme aziendali, ha detto che è rimasto scioccato dopo essersi imbattuto in un’ammissione di Sean Parker, il primo presidente di Facebook, in un’intervista di Axios del 2017.
Nell’intervista, Parker aveva detto che Facebook era stato intenzionalmente sviluppato utilizzando tecnologie che creavano dipendenza associate a qualcosa che aveva descritto come un “ciclo di feedback di convalida sociale“.
“Questo di per sé è ciò che è al centro del dirottamento del cervello“, ha detto Lee. “E ciò che fa è rassicurare l’utente finale che ciò che sta pubblicando sulla piattaforma è accettato da un sacco di gente. In altre parole, un ciclo di feedback di convalida sociale sarebbe associato con un pollice in su, o coriandoli o emoji, e quel genere di cose dopo che inseriscono un post”.
Lee ha detto che sono queste qualità che innescano dipendenza, che gli sviluppatori inseriscono nei loro progetti di app e piattaforme, che alla fine finiscono per danneggiare l’utente.
“Sean Parker lo aveva effettivamente ammesso durante l’intervista con Axios quando aveva detto: ‘Dio solo sa cosa sta facendo al cervello dei nostri figli’”, ha proseguito Lee. “Ma non è solo il cervello dei bambini, è il cervello dell’utente finale, che sia un adulto, un adolescente, un bambino, o un’azienda ed un utente.”
“Questo è il motivo per cui la gente controlla il proprio smartphone fino a 150 volte al giorno”.
Lee ha aggiunto che Parker aveva espressamente detto ad Axios che il ciclo di feedback era “esattamente il tipo di cosa che un hacker come me avrebbe escogitato, perché stai sfruttando la vulnerabilità della psicologia umana“.
Lee ha fornito sia alle commissioni del Congresso che ai senatori e ai membri della Camera, informazioni privilegiate su come queste piattaforme vengono sviluppate.
Il consigliere per la cybersicurezza e la privacy ha anche evidenziato gli effetti dannosi che queste piattaforme di social media hanno sugli adolescenti e sui giovani, descrivendo le piattaforme come “non diverse dai produttori di tabacco che fanno sigarette al gusto di gomma da masticare da vendere ai bambini“.
“Questi cicli di feedback di convalida sociale, che sono al centro dell’applicazione, sono il motivo per cui gli adolescenti che utilizzano questa tecnologia possono essere danneggiati da essa – diventano dipendenti da essa, non possono mai trovare appagamento in essa“, ha aggiunto Lee.
“In ultimo, finiscono per deprimersi e finiscono per dover sempre cercare costantemente quella convalida, non solo dalla tecnologia, ma dagli altri utenti finali della piattaforma”.
“Questo è pericoloso anche perché contribuisce al cyberbullismo“, ha detto Lee, spiegando che i cyberbulli stessi possono diventare dipendenti dal bullismo online.
“Loro [i cyberbulli] ottengono qualche pollice su da quel post in cui stanno maltrattando qualcuno e poi arrivano altri pollici su. E poi quella persona, il bullo, diventa dipendente dal danneggiare effettivamente le persone, così come il destinatario inizia ad essere danneggiato“, ha spiegato. “E sappiamo tutti cosa porta all’ansia, all’autolesionismo e ai suicidi. E tutti questi sono in aumento tra gli utenti adolescenti e giovani adulti, soprattutto le ragazze che utilizzano la piattaforma“.
“I bambini vengono sfruttati“, ha affermato, notando che i giganti dei social media potrebbero violare una legge sulla protezione online dei bambini: il Children’s Online Privacy Protection Act (COPPA) della Federal Trade Commission (FTC), emanato nel 1998.
“È effettivamente illegale per un bambino sotto i 13 anni utilizzare qualsiasi tipo di tecnologia che è supportata da applicazioni predatorie che sono sviluppate per sfruttare l’utente per il guadagno finanziario attraverso metodi come il data mining e la sorveglianza“, ha detto Lee parlando di questa legge.
Lee ha detto di aver analizzato il linguaggio legale su uno smartphone Samsung Galaxy Note su cui erano pre-installate oltre 175 applicazioni create o sviluppate da 18 aziende, tra cui la società tecnologica cinese Baidu.
Ha spiegato che ciò che è spesso nascosto all’utente all’interno dei dispositivi stessi è “la parte più importante dei termini d’uso“.
Questo include le dichiarazioni di autorizzazione dell’applicazione e le avvertenze sul prodotto applicazione “che descrivono in grande dettaglio quanta sorveglianza e data mining che le aziende tecnologiche possono condurre su di voi“.
“Ma non lo vogliono online. Lo nascondono all’interno dei dispositivi, e alcune di quelle dichiarazioni di autorizzazione delle applicazioni in realtà contengono avvertenze sul prodotto”, ha detto Lee.
“Così di nuovo, un’altra analogia con le sigarette sarebbe, sarebbe come se l’avvertimento per le sigarette fosse stampato all’interno del pacchetto“, ha spiegato. “In modo che dopo aver consumato il prodotto, si capisce poi che si implica che può causare il cancro, è la stessa cosa“.
Ha aggiunto: “eStanno nascondendo le avvertenze sul prodotto all’interno delle dichiarazioni di autorizzazione dell’applicazione, a cui si può accedere solo dall’interno del dispositivo e non online.”
Lee ha detto che la FTC dovrebbe agire per indagare su queste aziende per i danni correlati segnalati dai loro consumatori, e far rispettare le leggi esistenti sui clienti, soprattutto perché ex dirigenti, come Parker, hanno ammesso di aver sviluppato queste tecnologie per creare dipendenza, “anche a scapito della sicurezza dell’utente finale.”
“Non solo abbiamo avuto queste piattaforme armate contro l’utente finale per sfruttarle per il guadagno finanziario attraverso tecnologie dannose, come le app che creano dipendenza, ma ora le stanno usando per opprimere le persone e diffondere la disinformazione, la censura, schiacciare la libertà di stampa ed altre cose“, ha aggiunto Lee. “È incredibile“.
The Epoch Times ha contattato Meta, ByteDance e Google per un commento.
FONTE: https://comedonchisciotte.org/i-social-media-ed-il-dirottamento-del-cervello/
ECONOMIA
La disuguaglianza è una scelta politica
Il 7 dicembre scorso è stato rilasciato il World Inequality Report per il 2022, un rapporto che traccia il quadro della disuguaglianza di reddito e ricchezza a livello internazionale. La situazione che emerge è quella di un mondo caratterizzato da diseguaglianze feroci, sia tra Paesi che all’interno dei Paesi. In altre parole, le disparità di reddito e ricchezza sono forti e persistenti sia tra Nord e Sud del mondo, sia tra individui all’interno di ciascuna economia nazionale. Niente di nuovo sotto il sole, purtroppo.
Partiamo da una prima fotografia globale, facendo tuttavia una preliminare distinzione. Con il termine ‘ricchezza’ intendiamo l’ammontare di risorse che, in un determinato momento, un soggetto possiede. Con il termine ‘reddito’ intendiamo invece l’ammontare di risorse che, in un preciso intervallo di tempo (generalmente, un anno), giunge nelle mani di un soggetto per effetto del proprio apporto al processo produttivo: un lavoratore, ad esempio, riceverà come reddito il salario derivante dal proprio lavoro; un capitalista riceverà il profitto derivante dalla propria attività d’impresa; il proprietario di un immobile locato percepirà come reddito i canoni di affitto dell’inquilino. Certo, seppur stiamo parlando di due concetti differenti, è facile immaginare che le due grandezze si parlino: un basso livello reddito non contribuirà ad accrescere in misura rilevante la ricchezza di un individuo (perché questi non potrà permettersi di risparmiare risorse in ammontare considerevole), e soprattutto non gli permetterà di godere nel presente di un buon tenore di vita, in quanto potrà permettersi un ammontare più basso di beni e servizi.
Bene, il report in questione analizza la disuguaglianza attraverso le lenti di entrambe le dimensioni appena introdotte: reddito e ricchezza. Se, tornando al rapporto (Figura 1), consideriamo la distribuzione dei redditi e della ricchezza su scala mondiale, scopriamo che la metà più povera dei cittadini del mondo (bottom 50% nella figura, in blu) arriva a raggranellare solo l’8% del reddito totale, e a possedere appena il 2% della ricchezza complessiva. Dalla parte opposta, il 10% più ricco (top 10% nella figura, in rosso) è oggi in grado di accaparrarsi il 52% del reddito mondiale, e addirittura possiede il 76% della ricchezza. Dati che fotografano una situazione di fortissima disuguaglianza.
Figura 1. Fonte: Global income (reddito) and wealth (ricchezza) inequality 2021.
A un livello di analisi più specifico, il documento indica che i livelli di disuguaglianza non sono gli stessi nelle diverse aree del mondo. L’Europa, per esempio, mostra ancora una distribuzione del reddito meno diseguale rispetto agli Stati Uniti e, soprattutto, rispetto alle aree più povere del pianeta, come il Medio Oriente (MENA), il Nord Africa e l’Africa Sub Sahariana (Figura 2). Nonostante la crisi che stiamo vivendo sulla nostra pelle, la situazione è molto peggiore in altre parti del mondo, e parte di questa tendenza è attribuibile alla sopravvivenza di qualche residuo di stato sociale e di tutela del lavoro che in altre parti del globo non sono mai esistite o sono completamente scomparse.
Figura 2. Distribuzione del reddito in varie aree del mondo. Fonte: ibid.
Tuttavia, la vicenda si fa ancora più interessante una volta che si sposta il focus sul livello nazionale delle disuguaglianze, e soprattutto sulle macrotendenze storiche che hanno caratterizzato la dinamica delle disuguaglianze di reddito e ricchezza in Italia.
Partiamo dal primo punto. Anche in questo campo, il Belpaese primeggia. Per quanto concerne la distribuzione del reddito, la metà più povera degli italiani riesce a racimolare appena il 20% del reddito prodotto, mentre il 10% più alto ne raccatta un cospicuo 32%. Passando alla distribuzione della ricchezza, la metà che sta in basso detiene una quota che non supera il 10%, mentre al top 10% è riconducibile il 48% della ricchezza complessiva. Quasi la metà! Senza contare che il top 1% (l’uno percento più ricco della popolazione) detiene il 18% della ricchezza nazionale.
Figura 3: distribuzione del reddito in Italia (1900/2020). Fonte: ibid.
Come è stato possibile? Questo è l’aspetto più interessante del rapporto, che consente di cogliere in una singola immagine la storia che ci ha condotto verso questa situazione drammatica. Nella Figura 3 è riportato l’andamento, in Italia, della quota di reddito riconducibile al 10% più ricco e al 50% più basso della distribuzione nel corso del secolo scorso e fino al 2020. Come si può osservare, fino agli anni ’70, l’andamento è decrescente per i redditi più alti e crescente per la metà più bassa della distribuzione, tanto che in questo decennio avviene un sorpasso, comunque non entusiasmante, con la quota riconducibile al 50% più basso dei redditi che supera quella del top 10%. Viceversa, dai primi anni ’80 questa tendenza convergente si inverte in maniera permanente e, dopo il contro-sorpasso, la distanza continua ad aumentare fino ai giorni nostri. In altri termini, fino agli anni ’70 la parte meno agiata della popolazione era riuscita ad accaparrarsi fette sempre più ampie del prodotto sociale, mentre dagli anni ’80 in poi i più ricchi hanno visto sempre più aumentare i loro redditi.
L’andamento della distribuzione della ricchezza va ancora peggio (Figura 4) e questo è bene sottolinearlo, anche in considerazione del fatto che l’Italia è uno dei primissimi Paesi al mondo per rapporto tra ricchezza privata e reddito nazionale. Tale indice è esploso dal 250% del 1970 al 650% del 2010 (oggi siamo intorno al 700%) e sta ad indicare che la distribuzione della ricchezza è particolarmente importante per valutare la distribuzione complessiva e dunque le disuguaglianze nel nostro Paese.
Figura 4: Distribuzione della ricchezza in Italia (1995-2021). Fonte: ibid.
Come si spiega questo andamento? Quali politiche si sono consolidate e rafforzate in particolare a partire dagli anni ’80? Il documento esaminato afferma che la disuguaglianza – e la sua crescita – è una precisa scelta politica e non è inevitabile. Non a caso, in Italia (e in molti altri Paesi a dire il vero) prende il via da quegli anni un preciso percorso di deregolamentazione del mercato del lavoro e di libera circolazione su scala mondiale di merci e capitali, un copioso processo di finanziarizzazione, un progressivo smantellamento dello stato sociale e una sostanziale riduzione dei diritti dei lavoratori.
Tali strumenti hanno rappresentato un formidabile dispositivo per le classi dominanti per invertire la tendenza di convergenza nella distribuzione del reddito e della ricchezza, instaurando una nuova fase caratterizzata dalla crescente precarizzazione del lavoro e dall’indebolimento delle organizzazioni sindacali.
Si tratta di deliberate scelte politiche che hanno contribuito a ridurre la quota del prodotto che va al lavoro, ossia la porzione di reddito che i salariati riescono a portare a casa nel conflitto distributivo, e, in tal modo, ad aumentare anche le disuguaglianze di reddito e di ricchezza: esiste infatti una precisa correlazione tra la quota di reddito che va ai percettori di profitto e quella che va alle fasce più agiate della popolazione (in altri termini, non lo scopriamo oggi che i capitalisti sono di norma più benestanti dei lavoratori). Risultato: alla riduzione della quota salari si è accompagnata la parallela crescita della quota profitti, che è stata il motore vero e proprio dell’esplosione delle disuguaglianze a livello internazionale. Questo ragionamento vale specialmente per l’Italia, unico paese tra quelli dell’OCSE, dove dal 1990 al 2020 dove si è registrata una diminuzione (-2,9%) dei salari reali.
Davanti a questo quadro a tinte fosche, che fare? Politiche di redistribuzione (come, ad esempio, aumentare la tassazione su redditi alti e grandi ricchezze per finanziare la fornitura di servizi pubblici ai meno benestanti) sono senz’altro necessarie, ma potrebbero rivelarsi non sufficienti alla luce delle mostruose disuguaglianze esistenti. Occorre, pertanto, intervenire sulla la distribuzione primaria dei redditi, ossia garantire ai lavoratori un salario reale più elevato. Solo in questo modo verrebbero sostanzialmente intaccati gli enormi margini di profitto e le rendite che hanno contribuito, negli ultimi 40 anni, a polarizzare la ricchezza nelle mani di pochi.
Per concludere, il miglioramento delle condizioni di vita per le classi subalterne passa in primo luogo per un aumento dei salari, e, in secondo luogo per forme di redistribuzione ex-post (da sole però non sufficienti), ma soprattutto, specie in un’ottica di lungo periodo, per una trasformazione del sistema economico nella direzione di una pianificazione e di una trasformazione in senso collettivo della proprietà. L’esatto contrario di quanto sta accadendo sotto la gestione Draghi, alfiere di un Governo di impronta liberista che mira a privatizzare quel poco che resta dei servizi pubblici, a tagliare la spesa sociale e a promuovere una riforma fiscale i cui frutti più prelibati saranno raccolti dalle classi medio-alte.
Critica, capitale e totalità
di Roberto Finelli
Critica e totalità sono due categorie che entrano nella cultura moderna come intrecciate e inscindibili solo con la filosofia di Hegel. Già Kant, com’è ben noto, aveva fatto della critica la modalità fondamentale di una filosofia che, rinunciando alle astrazioni di una metafisica ontologica dell’Essere o della Realtà Oggettiva, indagasse di fondo le strutture invarianti e trascendentali della soggettività. Ma è propriamente con Hegel che, a partire dalla tesi secondo cui «il vero è l’intero», la critica diventa fattore intrinseco della costruzione di una totalità, giacchè solo attraverso il progressivo autotoglimento di visioni fallaci e parziali si raggiunge la verità di un intero: attraverso cioè la dialettica dell’autocritica e dell’autocontraddizione in cui non può non cadere qualsiasi pretesa di un lato solo particolare o di una configurazione parziale di valore come l’intero. Il finito si toglie da sé medesimo, perché, non riuscendo alla fin fine a coincidere e a consistere solo con sé stesso, è costretto, per necessità interiore, a negarsi e a trapassare in altro.1 La critica qui, ancor più che in Kant, non rimanda più ad alcun osservatore o giudice esterno ma è il giudizio che la realtà stessa produce su sé medesima, in un’autonegarsi attraverso contraddizione, che dovrebbe garantire insieme verità del sapere ed emancipazione dell’agire. Solo che Hegel per dare continuità ai diversi passaggi dialettici ha dovuto forzare, almeno a mio avviso, la natura della negazione, assolutizzandola e ipostatizzandola, fino ad estremizzarla in un puris– simo negativo, che non nega alcunché di determinato fuori di sé, ma alla fine null’altro che il proprio negare. Estenuando, con ciò, il nesso fondamentale genialmente istituito tra critica e totalità nella chiusura, invece, di una metafisica immanente del nulla/negazione.
Marx ha accolto da Hegel tale definizione di critica intrinseca allo strutturarsi totalitario della realtà secondo un fattore di universalizza- zione, ma ha mutato radicalmente l’identità e la natura di tale soggetto universalizzante. Infatti a differenza del Nulla/Negazione in cui si risolve l’Assoluto/Spirito di Hegel, Marx ha fatto soggetto a destinazione totalizzante della vita e della società contemporanea il «Capitale». Das Kapital è un soggetto a destinazione universalizzante perché è denaro, quantità di ricchezza astratta che cresce su sé stessa, e che, per la sua natura meramente quantitativa, ha in sé l’obbligo, pena il suo venir meno come capitale, di una valorizzazione e di una accumulazione tendenzialmente illimitata. Questa natura intrinsecamente universale del capitale – che Marx ha definito come il concetto del «capitale in generale» – non è, ovviamente, come tutti i concetti e le dimensioni universali, immediatamente percepibile, non può essere cioè oggetto immediato dei sensi. Tant’è che ogni singolo capitale si presenta come capitale determinato, diverso da tutti gli altri capitali e, nella sua particolarità, sempre materialmente immerso nella produzione di beni economici specifici e differenziati. Eppure l’essenza interiore, invisibile e tendenzialmente universale propria del concetto di capitale, si fa concreta e visibile attraverso la lotta e lo stimolo incessante della concorrenza, che obbliga ogni capitale individuale a superare costantemente i suoi limiti. Della concorrenza da un lato con gli altri capitali per l’espansione del mercato e la costante innovazione tecnologica e con la classe lavoratrice dall’altro per condurla costantemente da sussunzione formale a sussunzione reale.
Comprendere il Capitale di Marx significa a mio avviso comprendere la dialettica di astratto e concreto, di universale e particolare, di invisibile e di visibile, di interno ed esterno, di Uno e dei molti, che lo struttura. Significa cioè comprendere una dialettica che è in primo luogo di essenza ed apparenza, per la quale la ricchezza astratta e a tendenza di universalizzazione propria del capitale colonizza, saccheggia e svuota di autonomia il mondo del concreto ma nello stesso tempo lo utilizza come mondo della superficie per nasconderne, dietro un’apparenza fatta di cose concrete e di liberi agenti individuali del mondo, la sua essenza e costrizione di soggetto universale. Buona parte della complessa e varia tradizione dei marxismi sia del ’900 che contemporanei, secondo la mia opinione, o non ha visto o ho ampiamente trascurato tale tipologia di dialettica, di essenza ed apparenza, anteponendogli la tradizionale dialettica della contraddizione, secondo la quale quella capitalistica è una formazione storico-sociale destinata al superamento, visto che costringe all’espropriazione/alienazione una soggettività lavoratrice, che non potrà che volere riappropriarsi di ciò di cui viene privata.2
Ma sembra evidente che dialettica della contraddizione e dialettica di essenza-apparenza rimandano a due assai diverse interpretazioni della società nella quale viviamo e a due radicalmente diverse teorie della soggettività storica in essa operanti.
La prima, la dialettica della contraddizione, quale canone classico del marxismo-leninismo, vede come soggetto della storia moderna una forza-lavoro la cui ricchezza umana, sociale ed economico-produttiva viene alienata ed espropriata dal capitale fino a creare una scissura di opposti non ulteriormente sostenibile (e dunque contraddittoria in sé medesima) da quella soggettività fabbrile e produttrice dell’intero. La seconda, la dialettica dell’astrazione, vede invece come soggetto il capitale e la sua pulsione a realizzarsi, attraverso il superamento dei limiti che incontra e lo svuotamento/colonizzazione del mondo concreto, quale soggetto totale e totalitaristico della società, capace di plasmare della sua logica monetario-accumulativa tutti i luoghi essenziali della produzione e riproduzione sociale.
Nell’opera di Marx sono presenti, a mio avviso, entrambe le dialettiche, non conciliate né integrate, e questo ha causato e causa tuttora profondi contrasti e confusioni interpretative. Ma per quello che qui interessa dire, è alla seconda che appare opportuno rivolgersi per una comprensione più adeguata del mondo contemporaneo e dello spazio e della funzione, in esso, della critica.
La potenza del capitale come produttore e diffusore di un’astrazione reale implica che corpi, menti, natura siano rese oggetti di una sussunzione reale: attraversati cioè e mediati da una logica unidimensionale di riduzione a misura quantitativa e a criteri di commercializzazione e scambiabilità. Ma sussunzione reale, in una dialettica non della contraddizione ma dell’astrazione, significa, come s’è detto, svuotamento dell’interiore e sovradeterminazione dell’esteriore, mortificazione dell’interno e celebrazione sovratono dell’esterno, in una dialettica appunto tra profondità e superficie, per la quale, come ha scritto assai bene a suo tempo Fredric Jameson, rimangono del mondo concreto solo delle silhouettes di superficie, che, con la loro apparenza luccicosa, occultano e mistificano la sostanza dell’essenza che le anima in profondità.3
Ed è qui che si depone, in tale dialettica di interno/esterno, io credo, il significato più attuale della dottrina del feticismo di Marx, che deve essere letto oggi non più come feticismo della merce ma come, assai più propriamente, feticismo del capitale. Giacchè il feticismo della merce, com’è esposto dallo stesso Marx nel primo capitolo del Capitale, rimanda ad una dialettica della contraddizione, dove i soggetti sono i produttori che, scambiando sul mercato, socializzano attraverso cose e dunque reificano la loro socialità. Mentre il feticismo del capitale vede come soggetto il capitale medesimo e la sua produzione che, attraverso lo svuotamento/superficializzazione del mondo, produce l’apparenza di un mondo agito da liberi individui che lavorano e scambiano merci e beni concreti. Fino a produrre, a tutt’oggi, l’apparenza di un lavoro informatico-cognitivo, che, anziché essere dipendente dal programma delle macchine informatiche, sarebbe la messa in opera delle funzioni più creativo-linguistiche dell’essere umano, ricco di tutte le sue presunte potenzialità di creatura comune di genere e di transindividualità.
Ora, da tutto ciò consegue che il campo e la funzione della critica non può che collocarsi, precisamente, nello snodo tra essenza ed apparenza, che è snodo propriamente di opposti, perché le strutture di relazioni asimmetriche e violente tra classi, proprie dell’essenza capitalistica, si manifestano alla superficie come rovesciate nei loro contrari, di relazioni di equivalenza, codificate dal diritto, tra individualità libere ed eguali, o, appunto, come nel caso delle nuove tecnologie, l’uso comandato ed eterodiretto di lavoro mentale si manifesta come attività, invece, creativa e linguistico-calcolante di una mente che ha cessato di “lavorare”, ormai solo per comunicare e per elaborare solo simboli alfa-numerici.
Del resto parlare del capitale come fattore storico-sociale a destinazione universale e totalizzante non può che significare che il capitale produca direttamente, con la sua medesima produzione economica, anche i contenuti della coscienza sociale generalizzata, ossia le forme e i modi dell’apprensione conoscitiva del mondo. Lasciandoci alle spalle gli arcaismi marxiani di struttura e sovrastruttura, insieme a tutta l’impalcatura, da filosofia della storia a tesi predestinate, del materialismo storico, ciò che qui va detto è infatti che il capitale si fa fattore totalizzante di realtà quando con la sua produzione economica è, insieme e senza mediazione alcuna: 1) produzione di beni e merci atti a soddisfare bisogni; 2) produzione di plusvalore e di rapporti asimmetrici tra classi; 3) produzione di falsa coscienza e di forme generalizzate di ideologia.
Oggi con la sussunzione reale al capitale di esseri umani, valori d’uso e natura, con lo svuotamento del concreto da parte dell’astratto e la superficializzazione del mondo che ne consegue, il capitale produce direttamente identità apparenti di soggettività, modi di conoscenza legati alla superficie dell’esperire e modalità collettive di comportamento. Secondo quanto un autore, pure lontano dalla frequentazione approfondita del Capitale di Marx come Antonio Gramsci, aveva ben compreso nelle pagine di Americanismo e fordismo quando scriveva che con la rivoluzione tecnologica di Taylor e la produzione di massa, il capitalismo americano non aveva più bisogno della mediazione degli intellettuali, per procurare consenso, perché produceva direttamente, insieme ai nuovi beni di consumo, una nuova tipologia di soggettività umana, con nuovi orientamenti morali e nuovi modelli di comportamento. Con una riflessione geniale che, va detto, anticipava e superava di gran lunga le riflessioni dei francofortesi che, se avevano pur compreso la natura totalitaristica del capitalismo, vincolati e limitati, com’erano per altro, dal paradigma lukacsiano del feticismo della merce, hanno ben messo a fuoco la dinamica pervasiva dell’industria culturale, ma, privi di una teoria dell’astrazione reale nella produzione e del feticismo del capitale che ne consegue (cfr. in tal senso le drammatiche ingenuità della teoria dell’astrazione reale di Sohn Rethel, incredibilmente retrocessa nell’Atene del IV sec. e fatta principio fondativo della filosofia), non hanno mai stretto un’intima connessione tra produzione di valore, svuotamento del concreto e forme della coscienza ideologica.
Invece quello che qui maggiormente interessa dire è che il capitale, quando si fa soggetto a tendenza totalizzante, produce direttamente, attraverso la specificità del suo feticismo, che non è appunto quello della merce, direttamente forme di umanità e visioni del mondo, Weltanschauungen. Fino a plasmare oggi la pretesa identità di un soggetto umano come capitale autovalorizzantesi, ossia come imprenditore di sé stesso che, con un’attitudine solo calcolante, ha da procedere nel suo vivere solo ad acquisire ed accumulare competenze da scambiare sul mercato. O ancor di più a sollecitare, attraverso una partecipazione subalterna ai nuovi sistemi «forza lavoro mentale/macchina dell’informazione», sollecitare l’adesione all’ultima ideologia del mondo come «infosfera», cioè alla credenza mitica per cui il mondo consisterebbe in un costante ed enorme processo di elaborazione di informazioni e che in tale ambito la stessa intelligenza umana dovrebbe essere ormai considerata come una macchina computazionale che processa, calcola ed elabora informazioni, tanto da poter essere progressivamente sostituita dall’intelligenza artificiale, cioè da macchine che processano informazioni a una velocità sempre più incomparabile rispetto a quella umana.
Il capitale è dunque soggetto di totalizzazione perché, oltre a produrre economia ed ontologia sociale (quanto a divisione e riproduzione di classi), produce anche gnoseologia, cioè modi e forme generalizzate di conoscenza. Ossia produce – ora che la forza lavoro è sempre più forza lavoro mentale – intellettualità di massa, la quale, mentre lavora, produce, allo stesso tempo, dissimulazione e falsificazione del proprio operare. E per questo oggi il capitale si costituisce, assai meno come nesso di opposizione e contraddizione sociale, e assai più come nesso di dissimulazione, dove l’apparenza, come si diceva, rovescia e risignifica costantemente l’essenza.
Per questo, proprio perché l’astrazione del capitale produce, attraverso il doppio movimento dello svuotamento del concreto e della sovradeterminazione della superficie, direttamente intellettualità di massa, agli intellettuali di professione, ai maîtres à penser, non lascia altro che la conferma di tale suo operare svuotante e superficializzante. Lascia cioè il compito di produrre pensieri, filosofie, configurazioni ideali che siano ispirate al principio della smaterializzazione del mondo e che si vietino ogni oltrepassamento nel verso della materialità sociale. Tanto da potersi facilmente e schematicamente affermare che, di fondo, tutta l’alta cultura dell’ultimo quarantennio ha celebrato l’epopea di un’assenza di strutturazione, di ogni gerarchia possibile, di ogni sistematica della realtà, per il darsi di un accadere sempre evenemenziale, esito di parallelogrammi di forze e di significazioni sempre cangianti e mai concluse in una qualche permanenza e identità. Né dunque è stato un caso se tale autosequestrarsi della cultura in una propria smaterializzata autoreferenzialità4 abbia avuto come massimo evento inaugurale, almeno nell’ultimo cinquantennio, la filosofia dell’«Essere» e della «differenza ontologica» di Martin Heidegger, la cui genialità reazionaria è consistita nel riproporre come principio dell’intendere e del vivere una categoria arcaica ed astrattamente metafisica come quella di Essere, il cui superamento critico aveva invece costituito la condizione prima di ogni svolgimento positivo sia della filosofia antica di Platone ed Aristotele sia della migliore filosofia moderna.
Insomma, per concludere queste brevi note, la funzione della critica oggi è, a mio avviso, quella di ritornare – dopo i riti celebrativi dell’ermeneutica e di un Assoluto di linguaggio, coniugato in tutte le varianti possibili – ad ispirarsi ad uno sforzo teorico capace di confrontarsi con l’ontologia della totalizzazione che il capitale ha posto in essere con l’attuale globalizzazione. A patto di superare, torna a dirsi, l’horror vacui che tutta la cultura della decostruzione e dei rizomi, dell’heideggerismo e del lacanismo, dell’althusserismo e del transindividuale, ha disseminato riguardo alle nozioni di soggettività, di totalità e di sistema, ed avendo ben chiaro di contro (ma senza cadere nell’altro estremo della mitologia operaista del soggetto come moltitudine o come comunanza linguistica di genere), che verosimilmente mai nella storia umana s’è costituito una soggettività, come quella contemporanea del capitale, così capace di tradursi in soggetto totale e pervasivo di ogni luogo, materiale e mentale, del nostro vivere.
Note
1 Sulla genesi e la struttura di questa concezione hegeliana mi permetto di rimandare al mio Mito e critica delle forme. La giovinezza di Hegel (1770-1803) [1995], Lecce, Pensa Multimedia, 2009.
2 Anche per questa interpretazione del Capitale e dell’intera opera di Marx rinvio ai miei testi: Astrazione e dialettica dal romanticismo al capitalismo. Saggio su Marx, Roma, Bulzoni, 1986; Un parricidio mancato. Hegel e il giovane Marx, Torino, Bollati Boringhieri, 2004; Un parricidio compiuto. Il confronto finale di Marx con Hegel, Milano, Jaca Book, 2014. Ma cfr. anche C. Corradi, Marx e la realtà dell’astratto, in Ead., Storia dei marxismi in Italia, Roma, manifestolibri, 2005.
3 Cfr. F. Jameson, Postmodernismo. Ovvero, la logica culturale del tardo capitali– smo [1991], trad. it. di M. Manganelli, Roma, Fazi, 2007.
4 Cfr. in tal senso M. Gatto, Marxismo culturale. Estetica e politica della letteratura nel tardo Occidente, Macerata, Quodlibet, 2012; Id., Resistenze dialettiche. Saggi di teoria della critica e della cultura, Roma, manifestolibri, 2018.
FONTE: https://www.sinistrainrete.info/filosofia/21903-roberto-finelli.html
GIUSTIZIA E NORME
Il dubbio come fonte della democrazia costituente
di Gennaro Imbriano
Si procederà per slogan, per “tesi”, sette per la precisione, molto secche e immediate.
1. Il dubbio è il metodo della critica. Come uomini moderni dovremmo saperlo da tempo. Contro i miti delle certezze incondizionate, il pensiero critico moderno ha sempre ritenuto che non vi fosse nulla di insindacabile e di indicibile. Sarebbe persino troppo semplice – ma forse oggi non scontato – evocare i nomi di Descartes, di Hume, dello stesso Kant, come esponenti di una attitudine che è moderna e scientifica proprio perché non è mitico-religiosa, in quanto sottopone a dubbio e revisione costante il dato positivo, che è in quanto tale una ipostatizzazione sempre suscettibile di essere aggiornata e aggredita dalla critica.
2. Il dubbio è il metodo della scienza e della filosofia della scienza. La critica che rivendica il suo rapporto costitutivo con il dubbio non è mitologia o anti-scienza. È semmai antiscientismo, anti-positivismo, difesa della dimensione autenticamente critica della ricerca scientifica. Questo dovrebbe essere scontato per quanti si richiamano alla tradizione dell’illuminismo e del razionalismo, sino alle configurazioni più avvertite del pensiero dialettico e della biopolitica.
A proposito, se è lecita una domanda: ma dove sono finiti i filosofi della biopolitica, che negli ultimi decenni ci hanno insistentemente fatto attenti alle dinamiche del potere molecolare che aggredisce il bios? Viene il dubbio, per stare al nostro tema, che al momento decisivo abbiano deciso di aderirvi.
3. Nella sua elevazione a strumento di governo, la scienza perde il suo legame costitutivo con il dubbio. È il rapporto stesso tra la scienza e la verità – e di conseguenza tra la scienza e il potere – che si vuole evitare in tutti i modi di tematizzare. Si intende in questo modo occultare il fatto che la ricerca scientifica, oggi, è un fenomeno complesso. Da un lato esercizio pubblico al servizio della collettività, in continuazione con il secolare spirito della rivoluzione scientifica moderna; dall’altro lato, tuttavia, forza produttiva al servizio dell’accumulazione capitalistica, condizionata nella sua stessa prassi dagli interessi privati che la sostengono.
4. Presentando una presunta scienza pura, univoca e neutrale – che non esiste più neanche nelle Università – si tenta di celare il legame strutturale che esiste tra una determinata ricerca scientifica e il potere economico. Mentre si tenta maldestramente di bollare l’oppositore come irrazionale, oltre che come irresponsabile, si intende – altrettanto maldestramente – celare gli interessi particolaristici e l’irrazionalità predatoria che orientano molte scelte di politica sanitaria. Basti dire che niente viene fatto per investire in tracciamento del contagio e in medicina di prossimità, per assumere nuovo personale sanitario, per aumentare i posti letto delle terapie intensive, per sostenere la ricerca scientifica di base e quella sulle cure. È la stessa razionalità scientifica, non altro, che suggerisce da tempo di affrontare la pandemia con sistemi integrati.
5. La rimozione della legittimità del dubbio mostra che la gestione della pandemia è politica, non sanitaria. È in atto nel nostro Paese un’epocale svolta regressiva. Un’immane «rivoluzione passiva», con la quale le classi dominanti volgono a proprio favore la crisi sanitaria per demolire quello che resta del formalismo costituzionale e delle sue garanzie, dopo avere smantellato lo stato sociale e i diritti dei lavoratori. L’emergenza sanitaria costituisce un’occasione irripetibile per la realizzazione di questo programma restauratore. Sappiamo bene dov’è l’origine della crisi che stiamo vivendo: in un sistema economico che da decenni distrugge la medicina di prossimità, che ha ridefinito in termini esclusivamente mercantili il rapporto tra paziente e medico, che ha ridotto il numero dei posti letto e quello dei sanitari. Un sistema che ha umiliato l’essenza della medicina occidentale e la sua stessa missione ippocratica, che vede nel malato una persona e una singolarità irriducibile, e non solo un numero, un cliente o addirittura un potenziale e fastidioso “effetto collaterale”.
Lo stigma dell’individualismo non ci tange. Individualista è chi ha distrutto e privatizzato la sanità, non chi reclama metodi razionali di lotta alla pandemia.
6. L’esercizio del dubbio per mezzo della critica è l’unico modo mediante il quale potere esercitare oggi una nuova democrazia costituente. È oramai evidente che le forze politiche democratiche – o presunte tali – di questo Paese sono complici, non da oggi, della ristrutturazione neoliberista. Se negli ultimi trent’anni si è trattato di svendere le conquiste sociali maturate nel Novecento, oggi occorre completare l’opera dismettendo ciò che resta della legalità costituzionale. Questa la nuova missione dei “riformisti” e dei “democratici”: picconare definitivamente la costituzione formale, dopo avere trasformato in senso regressivo quella materiale. A questa deriva, alla crisi nichilistica che il potere ci impone, opponiamo la radicalità del dialogo democratico, per trasformare la crisi in una nuova possibilità costituente.
7. Il dubbio deve farsi fonte della contraddizione, poiché la contraddizione è la prima e irrinunciabile fonte della democrazia. Nella società che lavora, oltre che nell’Università, si fa sempre più chiaro che il Green Pass ha una missione politica: prolungare l’emergenza permanente in eccezione per farla diventare regola, certo, ma regola della nuova fase della restaurazione neoliberista, fatta di un nuovo possente attacco ai diritti dei lavoratori, alla condizione dei ceti medi, al potere d’acquisto dei salari e, da ultimo, delle pensioni, proprio mentre sinistre figure riemergono dal passato per rivendicare apertis verbis, senza tema di smentita, che il dibattito pubblico e la stessa libertà di informazione andrebbero sapientemente dosate in funzione della stabilità del nuovo progetto elitista.
Il Green Pass è in tal senso un prodotto del nostro modello di società, non di altri, cioè della libertà liberista, alla quale occorre opporre un’altra idea di libertà, che non è individualista, come viene maldestramente detto, ma è moderna – la libertà, consentitemi, dei giganti dalle cui spalle guardiamo il futuro: la libertà come autonomia morale di Kant, ad esempio; o la libertà come vincolo etico dell’universale di Hegel; o, perché no, la libertà come liberazione del lavoro di Marx. La libertà che inorridisce di fronte ai decreti legge per mezzo dei quali viene conculcato il diritto al lavoro. Consentitemi di concludere con una domanda idealmente rivolta a chi oggi è contro queste prese di posizione. Amici progressisti che ancora restate nell’ombra, nessun governo si era spinto sino al limite di sottoporre esplicitamente a ricatto il diritto al lavoro: cos’altro deve accadere perché voi mostriate il vostro sdegno?
FONTE: https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/21884-gennaro-imbriano-il-dubbio-come-fonte-della-democrazia-costituente.html
PANORAMA INTERNAZIONALE
Alla fine di ogni anno, mi piace commentare i progressi – e le battute d’arresto – nella nostra lotta per far capire al governo degli Stati Uniti che esiste per migliorare la vita degli americani piuttosto che lavorare a tempo pieno per assecondare gli israeliani e i loro potenti lobby domestica. Si sarebbe pensato che non potesse andare peggio dello strisciare in ginocchio dell’amministrazione Donald Trump per soddisfare ogni capriccio espresso o lasciato inespresso dal primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, davvero uno degli uomini più malvagi che siano mai esistiti sulla faccia della terra. Trump si è ritirato dal trattato nucleare con l’Iran, una mossa guidata da Israele e dalla sua lobby statunitense, sostenuta dagli incentivi del megadonatore del GOP Sheldon Adelson. Poiché Israele è una potenza nucleare segreta, un programma sviluppato attorno alla tecnologia e all’uranio rubato agli Stati Uniti.
Oltre a ciò, e senza alcuna reale sollecitazione da parte di Israele, Trump ha fatto una pioggia di regali sullo stato ebraico, spostando l’ambasciata degli Stati Uniti a Gerusalemme in violazione dello status “internazionale” della città, riconoscendo l’annessione da parte di Israele delle alture del Golan siriane occupate illegalmente e approvando Il “diritto” di Israele di trattare con i palestinesi in Cisgiordania come meglio crede. Nessuna di quelle azioni era a sostegno di reali interessi americani, né era nemmeno necessario farle per placare gli israeliani. Né era un interesse americano rilasciare dalla libertà vigilata la spia israeliana Jonathan Pollard, la spia più dannosa nella storia degli Stati Uniti, così da poter emigrare in Israele dove ha ricevuto il benvenuto di un eroe. Dopo la partenza di Trump dall’incarico,
Di recente, Trump, per il quale la parola “delirante” sembra spesso applicarsi, ha affermato con enfasi cheIsraele ha “giustamente” controllato il Congresso degli Stati Uniti ma non lo fa più. In un’intervista con qualcuno di nome Ari Hoffman, Trump ha dichiarato che “Il più grande cambiamento che ho visto al Congresso, Israele possedeva letteralmente il Congresso – lo capisci? – dieci anni fa, quindici anni fa. Ed era così potente. Era così potente. E oggi è quasi il contrario. Hai, tra AOC e Omar e queste persone che odiano Israele con passione, stanno controllando il Congresso. Israele non è più una forza al Congresso! È fantastico. Non ho mai visto un tale cambiamento. E non stiamo parlando di un periodo di tempo molto lungo, penso che tu sappia esattamente cosa sto dicendo. Avevano un tale potere. Israele aveva tale potere, e giustamente, sul Congresso. E ora no! È incredibile, in realtà”.
Poiché mancano prove per tale affermazione di Trump, in particolare mentre il Congresso continua a riversare armi e denaro su Netanyahu e sul suo successore Naftali Bennett, si deve presumere che Donald sia altrettanto ignorante riguardo al dominio della lobby israeliana sul Congresso. Deve aver mancato lo stanziamento di un miliardo di dollari in modo che gli israeliani potessero ricostruire le loro scorte di missili dopo averli lanciati tutti contro condomini, ospedali e scuole palestinesi. E poi ci sono i miliardi in più per Israele che provengono dal commercio sbilenco e da schemi fraudolenti di beneficenza e di co-sviluppo truccati, oltre al denaro nascosto in importanti stanziamenti come il finanziamento della Difesa e della Sicurezza Nazionale.
L’incapacità di Trump di comprendere la verità su Israele e la sua corruzione del nostro governo è un’altra buona ragione per cui i repubblicani non dovrebbero mai più lasciarlo candidarsi alla presidenza. Ma, naturalmente, il GOP a tutti i livelli ama Israele tanto quanto i Democratici. L’ indimenticabile e imperdonabile commento della presidente della Camera Nancy Pelosi: “Ho detto alle persone quando mi chiedono se questo Campidoglio è crollato al suolo, l’unica cosa che rimarrebbe è il nostro impegno per il nostro aiuto … e non lo chiamo nemmeno aiuto … la nostra cooperazione con Israele. Questo è fondamentale per quello che siamo” avrebbe potuto facilmente uscire dalla bocca del suo omologo repubblicano Kevin McCarthy.
Quindi cosa ha fatto Joe Biden ora che Trump non c’è più e noi americani abbiamo avuto altri undici mesi per soffrire sotto il dominio israeliano? Bene, si potrebbe osservare che ha assurdamente invitato Israele a partecipare al ridicolo “Vertice sulla democrazia” che è stato ospitato la scorsa settimana dalla Casa Bianca anche se “l’apartheid” Israele non è una democrazia e discrimina praticamente in ogni funzione del governo sia dalla religione che dalla razza , avendo solo ebrei strade, scuole e progetti abitativi. Sono stati esclusi altri paesi che hanno elezioni e non discriminano in modo simile tra i loro cittadini, tra cui Russia, Turchia, Brasile, Polonia e Ungheria. L’unico stato arabo invitato era l’Iraq.
Tuttavia, oltre a ciò, una cosa da notare è che il gioco e la trama sono cambiati considerevolmente nell’ultimo anno. Joe Biden e il suo team tutto ebraico del Dipartimento di Stato si sono divertiti a rientrare nell’accordo nucleare (JCPOA) con l’Iran attraverso colloqui indiretti che si sono svolti a Vienna, ma la partita in corso è stata una frode fin dall’inizio. Biden credeva che fosse politicamente opportuno promettere di raccogliere i pezzi di quello che un tempo era considerato un successo significativo dell’amministrazione Barack Obama che avrebbe inibito ogni possibile proliferazione nucleare iraniana. Ma la vera agenda è stata politica, ovvero non concludere un accordo con l’Iran, ma piuttosto incolpare Trump per un grave errore in politica estera.
Non c’è mai stata alcuna reale intenzione di tornare allo status quo ante con l’Iran perché richiederebbe anche l’approvazione di Israele, che non è imminente. E sia la doppia lealtà di molti ebrei americani sia la volontà dei funzionari del governo israeliano di interferire direttamente nella politica degli Stati Uniti sono stati messi in mostra durante una recente apparizione del ministro israeliano per gli affari della diaspora Nachman Shai alla sinagoga di Park Avenue. Shai ha suggerito che potrebbe essere in arrivo una “crisi” tra Stati Uniti e Israele per l’accordo con l’Iran, e Israele avrà bisogno che gli ebrei americani si schierino dalla sua parte contro il presidente Joe Biden, se necessario. Ha detto che “Durante molte crisi… molti problemi tra Israele e gli Stati Uniti, l’ebraismo americano è sempre stato lì a sostenere Israele”. Davvero.
Un nuovo accordo con l’Iran richiederebbe anche la cancellazione dell’ampia gamma di sanzioni punitive messe in atto contro Teheran da Trump, ma Biden ha pensato bene di accettare il concetto di Trump che fare pressioni sull’Iran potrebbe “migliorare” l’accordo, aggiungendovi misure per prevenire “l’ingerenza” iraniana nella regione e per mettere un freno allo sviluppo dei missili balistici iraniani. Questi passaggi e richieste erano ben noti alla Casa Bianca per essere decisivi per l’Iran, che è stato pienamente conforme al JCPOA e chiede il ritorno all’accordo originale insieme alla garanzia che una nuova amministrazione nel 2024 non farà marcia indietro esso.
Sia il primo ministro israeliano Naftali Bennett che il ministro degli Esteri Yair Lapid hanno fatto numerosi viaggi negli Stati Uniti per attaccare saldamente il nuovo presidente degli Stati Uniti alle loro spalle. Ad ogni visita vengono accolti da Biden, dal suo Gabinetto e dalle solite organizzazioni parassitarie ebraiche da cui dipendono per aprire il portafoglio dello Zio Sam e fornire un supporto totale e acritico per tutto ciò che il regime cleptocratico di Gerusalemme sceglie di fare. Il ministro della Difesa Benny Gantz e il capo del Mossad David Barnea sono attualmente a Washington per incontrare alti funzionari dell’amministrazione Biden. I media israeliani riferiscono che sono in città per assistere nella pianificazione per gli Stati Uniti di effettuare un attacco militare su obiettivi iraniani quando i negoziati a Vienna prevedibilmente falliranno. In effetti, Bennett ha chiesto chei colloqui siano chiusi perché l’Iran è impegnato in un “ricatto nucleare”. Sia Biden che il Segretario di Stato Tony Blinken hanno già avvertito che se l’Iran non accetterà un nuovo accordo, ci saranno conseguenze, compreso l’esercizio di una possibile opzione militare.
Il caloroso abbraccio di Israele è caratteristicamente incurante di qualsiasi reale interesse americano che potrebbe compromettere. Lo spyware telefonico israeliano sviluppato dal gruppo NSO è stato recentemente scoperto sui dispositivi degli utenti iPhone, tra cui almeno nove dipendenti del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti. Si aggiunge ai dispositivi di intercettazione delle comunicazioni israeliani “spyware” scoperti a Washington nel 2019. Gli israeliani spiano gli Stati Uniti perché sanno che farlo è privo di conseguenze.
Nel frattempo, il coinvolgimento di Israele nella politica americana continua a diventare sempre più profondo. Alison Weir di If Americans Knew ha riferito come, nel mezzo del trauma causato dal virus COVID nel 2020, il Congresso sia stato ancora in grado di “lavorare incessantemente per vincere enormi aiuti militari e trattamenti speciali per lo Stato ebraico con 68 atti legislativi incentrati su Israele.”
La corruzione è penetrata anche a livello statale e locale. Ventisette stati hanno adottato una legislazione che limita il diritto del Primo Emendamento alla libertà di parola, penalizzando coloro che boicottano Israele. Una dozzina di procuratori generali a livello statale hanno chiesto il disinvestimento dalla società britannica Unilever perché uno dei suoi marchi, Ben & Jerry’s, non vuole vendere gelati nei territori occupati da Israele. In un certo numero di università negli Stati Uniti, Gran Bretagna e Canada gli insegnanti sono stati licenziati o puniti in altro modo quando cercavano di tenere corsi sul Medio Oriente che descrivono accuratamente la spietata occupazione israeliana della Palestina storica.
Ma c’è stato anche uno spostamento dell’attenzione al di fuori del governo. Dal lato positivo, come ce n’è uno, gran parte del mondo ha finalmente realizzato quanto sia malvagio Israele. Ora è ampiamente accettato che il governo del paese gestisca un vero regime di “apartheid” e molti governi e persino alcune società hanno iniziato a usare la parola. I sindacati di tutto il mondo hanno organizzato proteste contro la repressione israeliana dei palestinesi e persino i dipendenti di Google e Amazon hanno presentato una petizione controil coinvolgimento delle loro aziende con l’esercito dello stato ebraico. Il Belgio e altri stati europei ora richiedono che gli articoli importati prodotti negli insediamenti israeliani siano etichettati come tali, non “Made in Israel”. E molti ebrei liberali, che normalmente tacevano su ciò che fa Israele, hanno iniziato ad essere apertamente d’accordo con quella designazione di “apartheid”, particolarmente vera tra gli ebrei più giovani. Il cambiamento è avvenuto gradualmente dopo gli orribili attacchi israeliani a Gaza negli ultimi due anni, che hanno ucciso principalmente civili e devastato le infrastrutture impoverite della regione. Da allora, i coloni israeliani si sono scatenati, rubando case e attaccando civili palestinesi, distruggendo anche i loro mezzi di sussistenza impunemente mentre i soldati dell’IDF stanno a guardare. Il mondo si è stancato di Israele e delle sue pretese,
Israele e le sue potenti lobby riconoscono il cambiamento nelle percezioni e hanno lanciato una grande campagna internazionale per rendere le critiche allo stato ebraico un “crimine d’odio”.Hanno avuto un discreto successo nello sfruttare la definizione di antisemitismo dell’Alleanza internazionale per la memoria dell’Olocausto (IHRA), che include critiche a Israele. Sia il Congresso degli Stati Uniti che la conferenza recentemente completata sul presunto risorto antisemitismo tenutosi in Svezia hanno abbracciato pienamente il perpetuo vittimismo promosso da Israele e hanno preso provvedimenti per criminalizzare le critiche agli ebrei e a Israele. La Gran Bretagna ha risposto alla presunta ondata di antisemitismo designando l’organizzazione di Hamas, che governa Gaza, come un gruppo terroristico. Il ministro degli Interni Priti Patel ha detto ai giornalisti a Washington che la mossa ha lo scopo di combattere l’antisemitismo usando il Terrorism Act e che i sostenitori di Hamas che vanno alle riunioni di gruppo o addirittura esibiscono una bandiera di Hamas potrebbero essere condannati a 10 anni di carcere.
Quindi, come spesso accade, ci sono stati progressi, ma anche alcune battute d’arresto. Dal lato del progresso del libro mastro, il mondo si è stancato della pretesa di Israele di un’esenzione speciale e alla fine lo stato ebraico diventerà più isolato e le sue politiche insostenibili man mano che la pressione cresce, proprio come il Sudafrica è stato costretto ad abbracciare il cambiamento. Ma, allo stesso tempo, gli israeliani sono riusciti in gran parte a convincere i governi in Europa e negli Stati Uniti ad andare avanti nella criminalizzazione e nell’emarginazione delle critiche legittime. Hanno anche venduto con successo, tramite un media mainstream completamente controllato, il mito che l’antisemitismo è in aumento, ignorando il fatto che, poiché qualsiasi critica a Israele è considerata un atto antisemita, è facile trovare qualsiasi numero uno. vorrebbe sfruttare. Ma la vera “domanda misteriosa” continua a essere come la popolazione demografica più ricca, più istruita, più potente e privilegiata in paesi come Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Canada sia in grado di continuare a ritrarre se stessa come la vittima perpetua e farla franca con l’impostura. . Bisogna sperare che alla fine il velo cadrà e gli elettori comuni saranno in grado di vedere e comprendere la massiccia frode cospirativa internazionale che ha prevalso negli ultimi settant’anni. Speriamo in qualche vero cambiamento nel 2022! Bisogna sperare che alla fine il velo cadrà e gli elettori comuni saranno in grado di vedere e comprendere la massiccia frode cospirativa internazionale che ha prevalso negli ultimi settant’anni. Speriamo in qualche vero cambiamento nel 2022! Bisogna sperare che alla fine il velo cadrà e gli elettori comuni saranno in grado di vedere e comprendere la massiccia frode cospirativa internazionale che ha prevalso negli ultimi settant’anni. Speriamo in qualche vero cambiamento nel 2022!
Philip M. Giraldi, Ph.D., è direttore esecutivo del Consiglio per l’interesse nazionale, una fondazione educativa deducibile dalle tasse 501 (c) 3 (numero ID federale # 52-1739023) che cerca una politica estera statunitense più basata sugli interessi in Medio Oriente. Il sito web è Councilforthenationalinterest.org, l’ indirizzo è PO Box 2157, Purcellville VA 20134 e la sua email è inform@cnionline.org .
FONTE: https://www.unz.com/pgiraldi/israels-dominance-of-washington/
Teoria critica della razza e progetto ebraico
di Gilad Atzmon
C’è un crescente dibattito negli Stati Uniti sulla teoria della razza critica (CRT). Abbastanza stranamente, gli oppositori di CRT insistono sul fatto che il discorso “marxista” deve essere sradicato dalla cultura e dal sistema educativo americani. Ne sono perplesso, perché non riesco a pensare a niente di più lontano dal pensiero di Marx di CRT.
Marx ha offerto un’analisi economica basata sulla divisione di classe. Per Marx, quelli in fondo allo strato di classe erano destinati a unirsi indipendentemente dalla loro razza, genere o orientamento sessuale. Marx in quanto tale era cieco per la razza. Tuttavia, la sua visione era unificante almeno per quanto riguarda la classe operaia. Ma la teoria della razza critica mira nella direzione completamente opposta. I sostenitori di CRT credono che le persone siano e debbano essere definite politicamente dalla loro biologia: dal colore della pelle, spesso dal genere e/o dall’orientamento sessuale. CRT tenta di combattere il razzismo, non eliminandolo ma elevando il determinismo biologico a campo di battaglia costante.
I teorici della razza critica non sono troppo originali su quel fronte biologico determinista. Già alla fine del XIX secolo, il sionismo invitò gli ebrei a identificarsi politicamente con la loro biologia. La richiesta di Hitler al popolo ariano di fare lo stesso è avvenuta circa due decenni dopo. Ironia della sorte, anche i cosiddetti ebrei “anti” razzisti all’interno delle cellule politiche antisioniste “solo ebrei” (come JVP, JVL, IJAN) seguono esattamente l’agenda sionista e hitleriana. Insistono anche nell’identificarsi politicamente e ideologicamente come “una razza”.*
Ci si può chiedere a questo punto perché le persone all’interno della destra conservatrice si riferiscano alla CRT come “marxista” nonostante non abbia nulla a che fare con Marx e abbia molto a che fare (ideologicamente) con il sionismo e il biologismo hitleriano. Un’opzione è che le persone all’interno della destra americana credano che il riferimento a Marx comunichi bene con la loro folla di supporto. Un’altra opzione leggermente meno genuina è che Marx sia un nome in codice per un “discorso sovversivo relativo all’ebreo”. L’universo conservatore americano è in gran parte ispirato dal nazionalismo israeliano, tuttavia è disgustato dall’interventismo cosmopolita tipo Soros. La destra americana potrebbe usare un linguaggio codificato per affrontare la propria paralisi. Fa chiaramente fatica a chiamare le cose col loro nome.
Considerando quanto sopra, è affascinante esaminare il punto di vista ebreo americano sul dibattito CRT.
Il mese scorso lo storico ebreo Henry Abramsonha usato la piattaforma dell’Agenzia Telegrafica Ebraica per informarci che “chi insegna il passato saltando le parti spiacevoli non insegna storia. Sono impegnati nella propaganda”. Questa affermazione ferma mi ha colto di sorpresa. Come Abramson mi oppongo a tutte le forme di leggi della memoria che limitano la libera discussione storica. Tuttavia, le istituzioni ebraiche sono investite pesantemente nel controllo del dibattito storico. Spesso criticano come negatori dell’olocausto chiunque osi mettere in discussione il primato della sofferenza ebraica o anche offrire una visione leggermente non ortodossa della seconda guerra mondiale. Anche la tradizione intellettuale ebraica non è famosa per la sua lista di testi storici, anzi. C’è una completa mancanza di testi storici giudaici tra Flavio Giuseppe (37-100 dC) e Heinrich Graetz (1817-1891). L’universo rabbinico ha avuto la tendenza a saltare la tradizione storica perché il Talmud e la Torah sono lì per determinare il modo in cui gli ebrei reagiscono all’universo che li circonda. Lo storico israeliano Shlomo Sand ha sottolineato che ebrei e sionisti in particolare inventano in gran parte il loro passato per adattarsi ai loro interessi politici, esistenziali e spirituali. Forse non dovrebbe essere compito delle istituzioni ebraiche predicare come discutere del passato.
Abramson è sconvolto dal fatto che in “quasi due dozzine di stati, il movimento per imporre restrizioni all’insegnamento della storia sta guadagnando slancio”. Abramson è anche sconvolto dalla nuova legge sulla memoria polacca e Putin che detta una visione dell’Holodomor. Forse prima di approfondire la preoccupazione di Abramson, dovrei menzionare che utilizzando la ricerca su Google, non sono riuscito a trovare alcuna opposizione fatta da Abramson alla legge israeliana Nakba che limita allo stesso modo la discussione sul crimine di pulizia etnica israeliano del 1948.
Abramson sostiene che gli oppositori della CRT tentano di evitare la discussione sui “momenti controversi e dolorosi della storia americana”. Non sono sicuro che questo sia il caso. Non sono sicuro che l’America possa o addirittura intenda negare il suo problematico passato abusivo, ma so che ogni accademico nero che ha tentato di discutere il ruolo degli ebrei nella tratta degli schiavi africani ha assistito allo scatenarsi dell’inferno. Consiglio vivamente ad Abramson e a tutti gli altri di leggere lo spettacolare The Jewish Onslaught del Prof. Tony Martin , un reportage di una campagna istituzionale ebraica orchestrata e abusiva contro uno studioso nero che non ha seguito il copione e ha cercato di esaminare quale fosse il ruolo di alcuni ebrei in la tratta degli schiavi africani.
Guarda il Prof. Tony Martin: https://youtu.be/QdPF2RcSxE8
Per Abramson e altri, CRT è uno studio sull’impatto del razzismo sistemico. È l’adesione alla convinzione “che l’eredità della schiavitù è impressa nella società e nella cultura americana a un livello tale che gli afroamericani continuano a subire danni economici sistemici a lungo termine”. Suggerisce che la discussione sulle riparazioni dovrebbe essere all’ordine del giorno nazionale.
La verità è che molti di coloro che si oppongono alla CRT sarebbero d’accordo con Abramson che il razzismo è vivo e vegeto negli Stati Uniti. Alcuni potrebbero persino suggerire di usare l’aiuto americano a Israele come riparazione per la progenie della schiavitù nera. La JTA, l’AIPAC o Abramson si unirebbero a una simile richiesta di giustizia in ritardo? Ne dubito.
La JTA insiste per dare l’impressione che ebrei e neri condividano entrambi un passato marginale simile. Abramson scrive: “Ai neri, come gli ebrei, era proibito acquistare case nei sobborghi di nuova concezione, mentre gli americani bianchi ricevevano aiuto dal governo per acquistare case in questi quartieri verdeggianti e per costruire ricchezza generazionale”. Tuttavia, c’è una differenza che il nostro “storico” ebreo dimentica di menzionare: gli ebrei sono immigrati volontariamente in America. Per loro, l’America era una “Medina d’oro” (Terra d’oro), la vera terra promessa delle libere opportunità e del capitalismo definitivo. I neri, d’altra parte, si diressero verso la “terra dei liberi” incatenati in navi salve. Gli ebrei sono venuti in America alla ricerca di una vita migliore, hanno affrontato ostacoli ma hanno prevalso e ora sono tra i gruppi etnici più privilegiati negli Stati Uniti, se non il più privilegiato. I neri furono portati per essere sfruttati come lavoro forzato. Hanno avuto un inizio molto diverso negli Stati Uniti. Il tentativo di fare un confronto tra i due è intellettualmente disonesto a dir poco, ma potrebbe servire a uno scopo.
Dieci anni fa, in un raro momento di onestà, Philip Weiss, il principale collaboratore dell’outlet ebraico filo-palestinese Mondoweiss, mi ha ammesso in un’intervista che non era l’altruismo a motivare la sua posizione pro-palestinese. Era ” interesse personale ebraico “. Ho imparato molto da questo incontro con l’attivista ebreo e da allora sono stato molto sospettoso nei confronti dei progetti di solidarietà ebraica . In qualche modo vedo sempre l’interesse personale che salta fuori in una fase o nell’altra.
Le istituzioni e gli individui ebraici sono stati coinvolti nella maggior parte dei progetti di solidarietà nell’ultimo secolo. Insistono per salvare la classe operaia, per universalizzare i diritti civili, per liberare donne e gay e, naturalmente, i transessuali. Il risultato non è mai stato troppo buono. Invece di portare avanti la società nel suo insieme, siamo finiti con un amalgama di conflitti che assomiglia praticamente alle Dodici Tribù di Israele.
Se ti chiedi perché i talebani siano riusciti a conquistare l’Afghanistan in 72 ore, una possibile risposta è che gli ebrei per i talebani devono ancora essere formati. Lo stesso vale per Hezbollah e Iran. Se ti chiedi perché la Palestina impieghi così tanto tempo per emanciparsi, è in parte perché il suo discorso di solidarietà è definito (letteralmente) dall’oppressore.
Se l’America o chiunque altro vuole combattere davvero il razzismo, la via da seguire è cercare la fratellanza umana invece di indurre il vittimismo. Se la JTA o qualsiasi altra istituzione ebraica si prende davvero cura dei neri, allora abbraccia la Nation of Islam oggi prima del tramonto. Incoraggia i critici e gli intellettuali neri a guardare senza paura agli ebrei e alla tratta degli schiavi africani. Mostraci un esempio di grande trasparenza. Guida la strada e sii luce alle nazioni per la prima volta nella storia invece di aspettarti che il resto dell’umanità zigzaga all’infinito attorno alle tue sensibilità.
* Il sottoscritto crede veramente che gli ebrei non siano una razza, tuttavia, il fatto di non essere una razza non impedisce alle persone di identificarsi “come una” razza.
FONTE: https://gilad.online/writings/2021/8/20/critical-race-theory-and-the-jewish-project
L’aggettivo ‘felice’ nell’espressione ‘Decrescita Felice’ rimanda al fatto che se vivessimo una vita più frugale, consumassimo meno e assumessimo stili di vita più rispettosi per l’ambiente, saremmo non meno ma più felici.Questa idea, che condivido, nasconde però un’insidia. Dà per scontato che una serie di istituzioni fondamentali su cui si basa il benessere nelle società liberal-democratiche contemporanee esisteranno ‘a prescindere’ anche in una ipotetica società futura decresciuta: istituzioni quali la libertà di espressione, i diritti civili e politici, uno stato di diritto solido e una vera separazione dei poteri.
Vi confesso che io stesso davo queste cose per scontate fino a qualche anno fa. Oggi, invece, di fronte all’ascesa apparentemente inarrestabile di leader populisti d’ogni sorta in occidente e al crescente successo e assertività internazionale di stati autoritari come la Cina e la Russia, non posso e non possiamo più permetterci di farlo. Gli indicatori parlano chiaro: da circa quindici anni le democrazie liberali sono in declino nel mondo1, mentre i regimi autoritari sono in rapida crescita. Il trend, è bene sottolinearlo, non è in miglioramento, e con tutta probabilità non lo sarà negli anni a venire2.
In un tale contesto storico e geopolitico, possiamo immaginare tre possibili scenari nel caso in cui dovesse avviarsi una transizione decrescente in Europa.
- SCENARIO NUMERO 1. Il ‘progetto decrescita’ fallisce. La transizione verso una società decresciuta e sostenibile è avviata nel rispetto dei principi liberal-democratici da governi eletti democraticamente. Anche ipotizzando che i nuovi governi adottino politiche di transizione sostenibili dal punto di vista sociale ed economico, ci sarebbe da aspettarsi, almeno nel breve periodo, una profonda crisi economica. Questa sarebbe dovuta da una parte a una inevitabile fuga di capitali e di cervelli, dall’altra allo svantaggio commerciale dell’Europa decrescente nei confronti delle economie della crescita3. La crisi sarebbe facilmente sfruttabile dalle opposizioni politiche, portando all’elezione di un nuovo governo pro-crescita alle successive elezioni e facendo fallire il progetto decrescentista sul nascere.
- SCENARIO NUMERO 2. Il ‘progetto decrescita’ sposa la via autoritaria. La transizione è avviata da governi eletti democraticamente i quali, una volta in carica, si convincono che la decrescita, dopo tutto, sia più importante dei principi liberal-democratici. Rifiutano così di abbandonare il potere in nome di un presunto bene superiore (per esempio ‘il benessere delle generazioni future’). Al fine di mantenere il potere, i governi decrescentisti iniziano a censurare le voci dissenzienti, arrestare giornalisti e oppositori politici, annullare le istituzioni democratiche e limitare le libertà e i diritti delle persone. In questo scenario, l’Europa liberale e democratica della crescita si trasformerebbe in una sorta di Russia decrescente – o, in alternativa, un colpo di stato farebbe tornare la situazione al punto di partenza.
- SCENARIO NUMERO 3. Il ‘progetto decrescita’ ha successo nel seno del modello liberal-democratico. La transizione è avviata nel rispetto dei principi liberal-democratici da governi eletti democraticamente. Gli elettori decidono di continuare a votare per la transizione decrescente la quale, nonostante la crisi economica e i molti sacrifici, è portata a compimento senza intaccare i diritti e le libertà fondamentali delle persone o le istituzioni basilari del modello liberal-democratico (stato di diritto, divisione dei poteri, ecc.).
Poiché il primo scenario corrisponde al fallimento del progetto decrescentista e il secondo condurrebbe a una decrescita alquanto infelice, solo il terzo scenario può essere preso in seria considerazione4. Per questa ragione, il resto dell’articolo si concentrerà sulle problematiche relazionate a quest’ultimo.
Pressioni esogene e tenuta del modello liberal-democratico
Una transizione decrescente della sola Europa produrrebbe non solo una sua perdità di competitività a livello globale – con tutte le conseguenze del caso, poche delle quali positive –, ma si tradurrebbe anche in un continente indebolito davanti all’espansionismo militare, economico e culturale delle grandi potenze autoritarie (Cina e Russia in primis). Detto in altri termini, nel terzo scenario, il modello liberal-democratico sarebbe sopravvissuto alle insidie interne della transizione, ma si troverebbe maggiormente esposto a quelle esterne.
Storicamente, le democrazie liberali sono sopravvissute alle pressioni esogene quando forti e sono crollate di fronte ad esse quando deboli. La debolezza e la forza di un paese (o di un continente) e del suo regime politico è in buona misura funzione della forza dei modelli alternativi dominanti nell’ambiente politico globale. Le democrazie liberali sono attualmente in declino per numero, popolazione rappresentata e forza economica relativa, a vantaggio dei paesi autoritari. Ci sono buone ragioni per pensare che un indebolimento economico (e dunque anche militare) dei paesi liberal-democratici, esito pressoché inevitabile di una transizione decrescente, accelererebbe tale declino.
Invito chi avesse dubbi circa la volontà di paesi terzi, in una tale situazione, di approfittare della debolezza dell’Europa per perseguire i propri interessi, a guardare all’aumento esponenziale negli ultimi anni del numero e dell’entità delle ingerenze Cinesi nella politica e nella vita sociale Europea, dalla Svezia5 alla Francia 67, dalla Repubblica Ceca8 alla Lituania9, fino ad arrivare alle recenti sanzioni dirette a numerosi intellettuali e membri del Parlamento Europeo10. Anche la Russia non è da meno, con la sua volontà di espansione nell’Europa dell’est e i costanti tentativi di destabilizzazione politica, nell’area11 e non solo1213.
Tutto questo accade con un’Europa relativamente forte economicamente e militarmente. Per avere un’idea di cosa potrebbe accadere con un’Europa indebolita è sufficiente guardare a cos’è successo in Ucraina e cosa sta succedendo nel Mar Cinese Meridionale. Il disrispetto della Russia per l’ordine internazionale vigente è reso palese dall’annessione illegale della Crimea. Il disrispetto della Cina per l’ordine internazionale vigente è reso palese dalla costruzione e militarizzazione di isole artificiali in acque internazionali14, dall’invasione delle acque territoriali Giapponesi15 e Filippine16, nonché dall’invio quotidiano di aerei militari nello spazio aereo di Taiwan (380 incursioni di aerei militari nel solo 2020), con annesse costanti minacce di invasione militare dell’isola17.
Tutto questo dovrebbe essere sufficiente per lo meno a mettere in discussione la pia illusione che potremmo semplicemente farci i fatti nostri e creare un’isola felice democratica, liberale e decrescente in un mondo caratterizzato da superpotenze autoritarie in ascesa.
Va detto a chiare lettere, perché in molti sembrano dimenticarlo: se negli ultimi quarant’anni non ci sono state guerre o ingerenze straniere significative in Europa non è grazie alla bontà dei nostri vicini o al rispetto generato in loro dal nostro ahimè tanto vituperato sistema liberal-democratico. In Europa non ci sono state guerre o ingerenze straniere significative perché l’Europa (grazie anche all’appoggio militare degli Stati Uniti e alla NATO) è sempre stata relativamente forte rispetto ai suoi vicini.
Avviare una transizione decrescente in un momento storico in cui gli equilibri di forza fra paesi liberal-democratici e paesi autoritari si sta modificando a favore di questi ultimi rischia di condurre, nella migliore delle ipotesi, a una colonizzazione economica (e dunque politica e culturale) dell’Europa. Nella peggiore, a una colonizzazione militare.
Un primo passo nella giusta direzione
Nella situazione in cui ci troviamo, procrastinare la decrescita significa mettere in pericolo gli ecosistemi, e dunque il benessere delle generazioni future. Implementarla unilateralmente in un ambiente politico internazionale sempre più autoritario significa porre a rischio le istituzioni liberal-democratiche, e dunque, di nuovo, mettere in pericolo il benessere delle generazioni future.
In ambienti decrescentisti questo potenziale trade-off fra democrazia liberale e decrescita è sovente ignorato, o addirittura negato, come se vivessimo in una bolla e i diritti individuali (civili, politici, umani) di cui disponiamo siano nostri per sempre, a prescindere dalle nostre scelte e da quelle dei nostri governi. Eppure sono innumerevoli i casi in cui democrazie liberali si sono trasformate in terribili dittature: l’Italia fascista e la Germania nazista o, più recentemente, il Venezuela di Chavez e la Turchia di Erdogan sono solo alcuni fra gli esempi più noti. Persino nell’Europa di oggi l’Ungheria di Orbán solleva grandi preoccupazioni. In tutti questi casi non sono state neppure necessarie influenze straniere dirette. Sono stati sufficienti leader forti che hanno saputo sfruttare (a livello elettorale o direttamente attraverso un colpo di stato) un periodo di instabilità economica, politica e sociale.
La strategia è quasi sempre la medesima: appellarsi a una visione illiberale della democrazia, per cui il volere (o il supposto ‘bene’) della maggioranza è posto al di sopra di qualunque cosa, inclusa la tutela delle minoranze e degli individui. Si tratta della stessa retorica utilizzata dalla Cina per legittimare i campi di concentramento nello Xinjiang, il genocidio culturale in Tibet, la tortura e gli arresti di giornalisti e dissidenti politici. “Abbiamo il consenso della maggioranza dei cinesi”, dichiarano (a ragione) i portavoce del PCC a chi li critica dall’interno e dall’esterno18. Come ce l’avevano i nazisti tedeschi e i fascisti italiani.
La democrazia senza liberalismo è proprio questo: una dittatura della maggioranza. Poco importa, all’atto pratico, se quella maggioranza ha eletto direttamente i propri leader o meno. Il rischio più grande che corriamo non è dunque la morte della ‘democrazia’, quanto la morte di un tipo specifico di democrazia: la democrazia liberale. La decrescita, per essere felice, deve impedire a tutti i costi tale morte.
Come riuscirci è una domanda aperta, ma divenire consapevoli dell’esistenza di un legame profondo fra transizione decrescente, benessere delle persone e tenuta del sistema liberal-democratico è un primo, fondamentale passo nella giusta direzione.
Note:
1 Basato sui dati di Freedom House, scaricabili qui: https://freedomhouse.org/sites/default/files/2020-04/All_Data_Nations_in_Transit_NIT_2005-2020_for_website.xlsx
2 Cfr. Il rapporto ‘Nations in Transit 2020’ di Freedom House: https://freedomhouse.org/report/nations-transit/2020/dropping-democratic-facade
3 Per un approfondimento, cfr. i capitoli 2 & 6 di F. Tabellini, Il secolo decisivo: storia futura di un’utopia possibile, Manto Blu, 2018. Versione PDF disponibile gratuitamente qui.
4 Un ipotetico mancato accordo su questo punto non farebbe che confermare l’attuale precaria stabilità della democrazia liberale europea.
5 Fonte: https://thediplomat.com/2019/12/china-tries-to-put-sweden-on-ice
6 Fonte: https://www.france24.com/en/france/20210322-france-to-summon-china-envoy-over-insults-threats-to-french-mps
7 Fonte: https://www.theguardian.com/world/2020/oct/14/china-insists-genghis-khan-exhibit-not-use-words-genghis-khan
8 Fonte: https://thediplomat.com/2020/02/czech-companies-the-latest-target-of-chinese-retaliation-for-taiwan-ties
9 Fonte: https://www.lrt.lt/en/news-in-english/19/1378043/we-will-not-be-intimidated-despite-china-threats-lithuania-moves-to-recognise-uighur-genocide
10 Fonte: https://www.politico.eu/article/china-slaps-retaliatory-sanctions-on-eu-officials
11 Fonte: https://www.rferl.org/a/russia-e-mail-hack-belarusian-usorsky-piskorski-dugin/28363888.html
12 Fonte: https://www.repubblica.it/esteri/2019/07/10/news/russia_come_putin_ha_versato_milioni_di_dollari_alla_lega_di_salvini_-230866514
13 Fonte: https://euobserver.com/foreign/148099
14 Fonte: https://www.defensenews.com/opinion/commentary/2020/04/17/chinas-island-fortifications-are-a-challenge-to-international-norms
15 Fonte: https://www.japantimes.co.jp/news/2021/02/08/national/china-justifies-coast-guards-entry
16 Fonte: https://www.aljazeera.com/news/2021/4/16/duterte-urged-to-confront-chinese-bullying-in-south-china-sea
17 Fonte: https://www.bbc.com/news/world-asia-56728072
18 I critici interni non sono così fortunati da ricevere una semplice risposta verbale.
FONTE: https://www.apocalottimismo.it/europa-decrescita-e-lo-spettro-autoritario/
POLITICA
Radici ideologiche del Pakistan
Dai Padri fondatori alla costruzione di un pensiero geopolitico
19 12 2021
Riflessioni su “LA TERRA DEI PURI, ideologia e geopolitica del Pakistan” di Daniele Perra (Anteo Ed.2021)
di Maria Morigi
Il Pakistan nasce dalla “Partizione” del 15 agosto 1947, data che segna la nascita di due Stati indipendenti: l’India, a maggioranza indù, e il nuovo Pakistan, a maggioranza musulmana. Ma forse, nel nostro umanitarismo per la tragedia degli esuli e confusi dallo slogan di un Pakistan “Stato fallito” (che però, essendo in possesso del nucleare, deve essere trattato “con le pinze”!) avevamo capito poco. Tanto poco che non ci siamo accorti che il Pakistan era praticamente l’unico Stato – oltre a quelli nati dalle ceneri del colonialismo ottocentesco di Russia e Gran Bretagna, con la fine del Grande Gioco (convenzione anglo-russa del 1907) – dotato di una fortissima carica ideale che ne giustificava la fondazione, senza dover ricorrere a ‘prestiti’ da parte della cultura persiana o dell’impero timuride, così come in Uzbekistan.
Il Pakistan fin dalla sua nascita ebbe la sicurezza dell’appartenenza all’Islam.
Per approfondire gli aspetti identitari del Pakistan ora abbiamo a disposizione questo approfondito studio di Daniele Perra che tratta di Islam finalmente in modo limpido e tratta di geopolitica dell’Islam con le necessarie informazioni storico-ideologiche, senza perdersi nei meandri dei vari integralismi islamici che l’Occidente (spesso privo delle necessarie capacità analitiche in tema di Islam) avrebbe la pretesa di gestire strategicamente, ma che continuamente gli sfuggono dalle mani.
I Padri della Patria pakistana sono quanto mai autorevoli, basta vedere il pellegrinaggio continuo all’ultima dimora di Karachi del Quaid-e-Azam (Grande Leader) Muhammad Ali Jinnah e gli onori tributati al poeta Muhammad Iqbal morto nel 1938 ben prima di vedere la nascita del Paese. Quest’ultimo, sostenitore della rinascita politico-spirituale della civiltà islamica nel mondo, ha lasciato una importante eredità ideologica (o “Metafisica geografica”) per cui il Pakistan è individuato come luogo d’incontro tra cultura indiana e persiana, entrambe fondate sulla speculazione metafisica e su un sistema di pensiero che portò gli indiani a “raggiungere vette ideali per le quali l’Europa dovrà attendere il XIX secolo e la riflessione nietzschiana ”(pag 51).
A quei Padri si deve non solo il “gran rifiuto” del Pakistan di rimanere suddito dei vantaggi offerti dall’impero britannico, ma anche il rifiuto di adattarsi al nazionalismo etnico di piccole patrie razziali (ben sperimentato in Europa con la dissoluzione jugoslava). Senza quei Padri il Pakistan oggi non esisterebbe: sarebbe un insieme di irrilevanti staterelli a base etnica (“pseudo-stati privi di sovranità”), utilizzabili da una o da un’altra delle grandi potenze… una specie di “Balcani asiatici”.
La prima parte del testo “Le radici ideologiche del Pakistan” fa comprendere la forza ideale di quella “Utopia retrospettiva” condivisa dai padri fondatori. Con un bagaglio di riferimenti ad importanti autori che ne hanno trattato, affronta problemi cruciali: le differenze tra Stato-nazione e Stato-islamico, la separazione tra ambito legale–politico e ambito morale-religioso tipico dell’Islam, il confronto con la modernità imposta dal liberalismo e dalle filosofie occidentali, l’effetto della globalizzazione unipolare.
Ripercorrendo la capacità di aggregazione della Shari’a e la sua evoluzione in sistema normativo di base del diritto all’interno di una entità politica, si delinea il profilo ideologico e culturale dello Stato islamico, la cui intrinseca natura è costituita da Umma (ovvero “Comunità dei credenti” fondata sull’identificazione e sul rispetto della Legge di Dio) che sostituendo l’idea occidentale di Nazione e spezza il principio di identificazione etnica.
Viene poi affrontata l’evoluzione dell’idea di “Due distinte Nazioni” fatta propria da Muhammad Ali Jinnah solo nel 1937 ma che già alla fine del XVIII secolo aveva avuto consensi da parte dei fondatori della indiana Scuola Deobandi e in seguito di esponenti del sufismo. L’idea era già emersa in epoca pre-moderna ai tempi delle dinastie persiano-afghane precedenti l’Impero Moghul e vide anche occasionali soluzioni. A tal proposito Perra cita l’ edificazione nel 1575 da parte dell’imperatore Akbar della magnifica “Città della Vittoria” Fathepur Sikri che accoglieva un centro di studio filosofico-religioso (Ibadhat Khana) inteso a superare le divergenze interne dell’Islam e ad aprirsi anche ad altre fedi (zoroastrismo, induismo, cristianesimo, ebraismo).
La teoria delle “Due Nazioni”, attribuita per semplificazione ad Jinnah, ebbe un più attuale importante precedente nel pensiero del filosofo e giurista indiano Sayyed Ahmad Khan (1817 – 1898) con cui assume caratteri moderni ma anche ‘mediazioni’ funzionali e relative alla presenza britannica. E, sembra un po’ surreale, ma bisognerà aspettare l’indipendenza del Bangladesh e l’intransigente giudizio di Indira Ghandi perché la teoria delle due Nazioni fosse definitivamente bollata come fallimentare!.
Non secondaria la questione della ”Democrazia islamica” proposta da Fazlur Rahman (1919-1988), lucido critico degli elementi di irrazionalità presenti nella tradizione islamica e critico dei “neo-fondamentalismi” musulmani contemporanei. Il suo approccio era orientato a recuperare nella pratica della “shura” (consultazione) il pilastro di uno stato islamico moderno basato sull’uguaglianza e la giustizia sociale. Secondo Fazlur Rahman, proprio per incoraggiare in senso democratico il rinnovamento delle istituzioni educative islamiche, punto di forza dovrebbe essere quello di raccogliere lo spirito di giustizia sotteso alle ingiunzioni coraniche.
Infine “Il mito dell’indipendenza” Manifesto di Zulfiqar Ali Bhutto, uno dei fondatori nel 1967 del Pakistan Peoples Party (PPP) contro la dittatura militare del presidente Ayub Khan. Si tratta secondo Perra della: “ prima reale espressione e primo tentativo di costruzione di un pensiero geopolitico e strategico per il Pakistan” (pag. 93) dove Indipendenza e Partizione appaiono come i soli strumenti atti a contrastare gli interessi britannici e americani sul subcontinente indiano. Dopo il conflitto indo-pakistano del 1965, la posizione di Bhutto si fa infatti più ‘nazionale’ e più strategica: l’interesse pakistano deve essere difeso, anche a costo di dispiacere l’alleato USA, strategicamente si può ricercare collaborazione con la Cina, allora osteggiata sia dall’India che dalle potenze occidentali, ma non ancora in grado di rappresentare una minaccia per Washington. La lungimiranza di Bhutto non vedeva nella Cina comunista un ostacolo né un pericolo, anzi, da ammiratore del pensiero confuciano e degli esiti della rivoluzione maoista, aveva messo a fuoco le opportunità di una cooperazione con la Cina, proprio per lo sviluppo afro-asiatico.
Mi fermo qui perché mi pare fuor di luogo analizzare solo sommariamente i complessi rapporti afghano-pakistani, o i problemi legati al terrorismo che interessano il China-Pakistan Corridor, o l’attuale politica governativa… infatti in Pakistan ci sono andata per lavoro archeologico, ho percorso la Valle dell’Indo da sud all’estremo nord e ho visto “cose” che mi rendono difficile parlarne frettolosamente e con la necessaria equidistanza.
FONTE: https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-radici_ideologiche_del_pakistan_dai_padri_fondatori_alla_costruzione_di_un_pensiero_geopolitico/39602_44446/
SCIENZE TECNOLOGIE
Lo svedese Alfred Nobel ed il belga Ernest Solvay
Lo svedese Alfred Nobel ed il belga Ernest Solvay erano due amici, due scienziati, due ricchi industriali che all’inizio del XX secolo discutevano spesso fra loro perché volevano fare qualcosa di nuovo che favorisse lo sviluppo ed il progresso dell’umanità. Decisero pertanto di utilizzare parte del loro considerevole patrimonio in modo diverso e complementare: Nobel istituì i famosi premi che portano il suo nome, per valorizzare le idee, le trovate, le menti più geniali e più rappresentative sia nei settori della scienza che delle discipline umanistiche e umanitarie; Solvay invece istituì una serie di congressi che si sarebbero svolti a Bruxelles con cadenza triennale, con l’obbiettivo di riunire per circa una settimana una ventina fra i più valenti scienziati del momento appartenenti agli ambiti della fisica e della chimica e favorire un’occasione di confronto di teorie ed idee.
In questo modo Nobel e Solvay favorirono la nascita di idee e di scoperte che avrebbero cambiato per sempre la storia dell’umanità.
I Congressi Solvay, cominciati nel 1911 e tutt’ora realizzati, sono considerati importanti punti di svolta nel piano del progresso del mondo della fisica e della scienza in generale. Quello che viene considerato il più rilevante di questi congressi è sicuramente il quinto, quello svoltosi alla fine di ottobre del 1927, che vide la partecipazione di alcune delle menti più brillanti della storia moderna.
La fotografia sopra, immortala i 29 partecipanti al Congresso, 17 dei quali erano stati o sarebbero stati in futuro premiati con il premio Nobel. Marie Curie, l’unica ad aver vinto il premio Nobel in due discipline distinte (Fisica e Chimica), fu anche l’unica donna presente.
Il congresso in questione aveva come titolo Electrons et photons (Elettroni e Fotoni) ed i fisici teorici e sperimentali partecipanti si incontrarono per discutere le teorie dei quanti di nuova formulazione; fra questi c’erano Albert Einstein, padre della Teoria della relatività, Werner Heisenberg, a cui si deve il Principio di indeterminazione, Niels Bohr, ideatore della cosiddetta Interpretazione di Copenaghen della meccanica quantistica, Wolfang Pauli, ideatore del Principio di esclusione. Tutti si riunirono con lo scopo di presentare le loro nuove scoperte, ma soprattutto, tutti andarono a Bruxelles per assistere allo “scontro” annunciato tra Einstein e Bohr che produssero un dibattito riguardante il Principio di indeterminazione di Heisenberg: nonostante i due si stimassero reciprocamente, erano in contrasto praticamente su ogni questione.
Fin dai tempi remoti l’uomo ha cercato di comprendere gli elementi che compongono la materia e ne ha studiato quelle che sono le unità fondamentali. Si deve agli antichi filosofi greci la nascita della parola atomo[1], inteso come unità indivisibile di cui era costituita ogni cosa.
Senz’ombra di dubbio Bohr, essendosi dedicato per anni allo studio ed alla comprensione della struttura atomica e della meccanica quantistica, era maggiormente preparato sull’argomento, ma Einstein era molto più influente e veniva interpellato in ogni dove per qualunque questione concernente la fisica o la scienza (e anche per tante altre cose!).
Tra i due iniziò una discussione che li impegnò per diversi giorni sulla validità del principio d’indeterminazione e come accade spesso in questi casi, le discussioni più importanti avvennero in un ambiente diverso da quello dai seminari “ufficiali”, ovvero a tavola: ogni mattina a colazione Einstein proponeva a Bohr un esperimento immaginario, che sembrava andare in contraddizione con il principio di indeterminazione. Bohr studia il caso fino a riuscire a contrappore le sue teorie alle critiche di Einstein, ma il giorno successivo Einstein era pronto a controbattere con un diverso e nuovo esperimento immaginario.
In uno degli esperimenti più astuti che Einstein propose, chiese di immaginare una scatola dalla quale in un preciso momento fuoriusciva un raggio di luce. Andando a pesare tale scatola prima e dopo e sfruttando la famosissima formula di Einstein E=mc2 che mette in relazione l’energia con la massa, si può ottenere il valore dell’energia del raggio di luce emesso. Conoscendo quindi l’energia del raggio ed il momento esatto in cui questo è uscito, si riuscirebbe a contraddire il principio di indeterminazione!
L’esperimento proposto da Einstein era davvero ben congegnato e Bohr rimase sconvolto dalla sua apparente perfezione ed in principio ebbe difficoltà nel trovare una soluzione. Il giorno successivo però Bohr propose una soluzione sfruttando, paradossalmente, proprio la teoria della relatività di Einstein, dimostrando che la forza di gravità necessaria a pesare la scatola influenzava anche lo scorrere del tempo e quindi la misura del preciso istante in cui la particella si allontana dalla scatola. Bohr, infine, vinse il duello.
È importante capire che il dibattito tra Einstein e Bohr avveniva fra due persone che si stimavano, dove ognuno difendeva strenuamente le proprie idee e le proprie opinioni mosso dalla pura sete di conoscenza: nonostante quindi entrambi cercassero vigorosamente di confutare le idee dell’altro, il loro obbiettivo era arrivare alla verità.
FONTE: https://www.fabioscolari.it/il-5-congresso-solvay-e-il-duello-einstein-bohr/
Alexa: hai rotto le scatole. Un quarto degli utenti la disinstalla nelle prime due settimane…
Dicembre 26, 2021 posted by Giuseppina Perlasca
Secondo i dati interni ottenuti da Bloomberg, dal 15% al 25% dei nuovi utenti Alexa dal 2018 al 2021 hanno completamente abbandonato il dispositivo durante seconda settimana di possesso.
Amazon ha concluso che il mercato degli altoparlanti intelligenti aveva “superato la sua fase di crescita” lo scorso anno e sarebbe cresciuto solo dell’1,2% annuo in futuro. Insomma: cara Alexa, hai rotto le scatole.
La società ha perso in media cinque dollari per dispositivo Alexa venduto e entro il 2028 prevede di dimezzare quel numero. Generare entrate tramite i dispositivi Alexa è stato impegnativo, ed ha spinto Amazon a cercare nuove soluzioni di marketing più aggressivo. Ecco perché Alexa ora ha funzionalità che ti dicono cosa indossare quando chiedi informazioni sul tempo e ti suggeriscono persino di acquistare quei vestiti su Amazon: la società deve fare cassa, sfrutta tutti i metodi per farlo, ma questo la rende ancora meno amata.
Queste statistiche non dipingono una prospettiva positiva per la divisione Alexa di Amazon, ora in perdita, che impiega più di 10.000 persone con costi fissi di circa $ 4,2 miliardi nel 2021. Anche se Amazon si è concentrato su nuovi modi per riconquistare la fidelizzazione degli utenti, forse le persone sono solo stanche o dispositivi intelligenti Alexa che li spiano. Sta nascendo una certa diffidenza nell’intelligenza artificiale, e chi potrebbe dare torto agli utenti?
Si cono state oltre 75.000 lamentele di utenti Amazon. Sono partite diverse cause collettive, alcune anche riguardavano dei minori registrati senza il loro consenso.
Il microfono sempre attivo ha suscitato polemiche con i sostenitori della privacy e molte sono richieste di rivedere questa funzione o di cancellarla tout court. Forse le persone stanno capendo che avere una società che monitora le conversazioni personali è troppo, anche per la società moderna.
FONTE: https://scenarieconomici.it/alexa-hai-rotto-le-scatole-un-quarto-degli-utenti-la-disinstalla-nelle-prime-due-settimane/
Pfizer testerà il terzo vaccino contro il COVID in bambini sotto i 5 anni dopo che le due dosi non sono state all’altezza
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