RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI
3 AGOSTO 2021
A cura di Manlio Lo Presti
Esergo
La coscienza spettatrice, prigioniera di un universo appiattito, delimitato dallo schermo dello spettacolo, dietro il quale è stata deportata la sua vita, non conosce più se non gli interlocutori fittizi che la intrattengono unilateralmente sulla loro merce e sulla politica della loro merce.
Lo spettacolo, in tutta la sua estensione, è il suo “segno dello specchio”.
Qui si mette in scena la falsa via d’uscita di un autismo generalizzato.
GUY DEBORD, La società dello spettacoloO , Baldini & C., 2017, Pag.225
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SOMMARIO
La tv non l’ha detto. In Francia non è accaduto niente
Sovrano è chi discrimina i non vaccinati
LA LEGGENDA FARLOCCA DI IRMA TESTA LA PORTA-BANDIERA DEL NUOVO POTERE DEL SACERDOZIO MATRIARCALE
La cosa più inquietante di questa storia pandemica
Carlo Freccero: “Questa adesione acritica dei cittadini è più inquietante dell’autoritarismo”
Tunisia: come si muovono le potenze e che cosa rischia l’Italia
Calasso: un serpente di carta
L’aperto. L’uomo e l’animale
Lo stratega contro. L’attualità antagonista di Guy Debord
La metafisica del Caos e il Soggetto Radicale di Aleksandr Dugin (2a parte)
Twitter sospende giornalista scientifico dopo aver pubblicato i risultati di test clinici Pfizer sui vaccini
Perché la Russia ha multato Google
Regione Lazio e portale vaccini altro (che) attacco hacker!
Vaccini, big pharma non certo missionari: in Ue prezzi in aumento del 25%
Si parla di Rotondi su Il Foglio
Unicredit, Mps e il Palio delle fesserie politiche
E possibile che l’AD di Unicredit abbia il mandato di vendere la nostra prima banca ai Francesi?
Green pass: il nodo dei controlli, il pettine del GDPR
Circolare, non c’è niente da vedere
La grandeur francese sulla pelle dell’Italia
Le minchiate della tv di Stato quando si parla di diritti gay, maltrattamenti femminili, rivalsa gay e rivalsa femminile.
Ricarica auto elettriche a rischio in Gran Bretagna
Newgrange: in Irlanda l’immenso Sepolcro più antico delle Piramidi d’Egitto
IN EVIDENZA
La tv non l’ha detto. In Francia non è accaduto niente
e in Italia “flop”, solo “gruppi sparuti”
FONTE: https://www.maurizioblondet.it/la-tv-non-lha-detto-in-francia-non-e-accaduto-niente/
ATTUALITÀ SOCIETÀ COSTUME
Sovrano è chi discrimina i non vaccinati
di Geminello Preterossi
Il governo Draghi ha varato un drastico irrigidimento del green pass, sulla scia delle scelte di Macron, che le ha difese in tv con toni aggressivi, i quali hanno suscitato vaste e intense proteste in Francia (di cui per diversi giorni a stento si riusciva a trovare notizia nei media italiani). Un giro di vite che non a caso si è accompagnato alla minaccia, da parte di Macron, di rimettere in campo in autunno le contestatissime riforme neoliberiste delle pensioni, del lavoro e dei sussidi sociali. Queste avevano suscitato una forte, vasta mobilitazione di massa alla fine del 2019, con scioperi continui e manifestazioni sindacali molto partecipate, che avevano portato al ritiro del pacchetto di riforme euriste (che noi avevamo già conosciuto con Monti), la cui attuazione è sempre stato il vero mandato del Presidente francese creato in provetta dai centri finanziari euro-globalisti. Poi, la crisi del coronavirus ha desertificato non solo la società francese, ma tutto l’Occidente, neutralizzando a lungo la possibilità stessa del conflitto. Oggi, di fronte all’emergere di nuove proteste, Macron ha confermato l’impianto di fondo del green pass, anche se ha dovuto concedere qualche lieve alleggerimento. Del resto, anche il Consiglio di Stato si era pronunciato sfavorevolmente su alcune misure, giudicate “sproporzionate”, in particolare in merito all’entità delle multe e al profilo anche penale delle sanzioni previste. Non c’è da illudersi, ma l’esempio francese (tanto quello delle lotte iniziate alla fine del 2018 con i Gilets jaunes, quanto il ridestarsi della società oggi) mostra che forse la partita generale, pur difficilissima, è ancora aperta: protestando, criticando, non piegando la testa, si può provare a frenare la deriva in atto, e comunque testimoniare il rifiuto di esserne complici.
Bisogna avere ben chiaro che questione sociale ed emergenza democratica si tengono, diritti sociali e diritti di libertà viaggiano assieme e debbono essere difesi congiuntamente. Le pulsioni autoritarie del potere neoliberale di fronte alla crisi di legittimità e consenso che attanaglia l’Occidente, e in particolare l’Europa, sono le medesime, sia quando si tratta di lavoro sia quando si tratta di green pass: la crisi del coronavirus non fa che rivelarle ulteriormente ed esacerbarle. Il problema è come dare espressione politica coerente e organizzata a questo diffuso, motivato rifiuto popolare trasversale di assetti di potere che hanno perso ogni credibilità.
A ben vedere, l’aggressività non è mancata neppure all’Epistocrate nostrano: “non ti vaccini, ti ammali, muori. Oppure fai morire. Non ti vaccini, ti ammali, contagi, lui/lei muore”. Bella forma di mistificazione “populista”, visto che chiunque ragioni, e non debba fare propaganda, sa che questa è, a voler essere caritatevoli, una gigantesca semplificazione. Se quell’affermazione fosse vera, ne deriverebbe per il governo il dovere immediato di imporre l’obbligo vaccinale. Ma guarda caso si omette di farlo. La Germania, almeno per ora, si tiene alla larga non solo dall’obbligo vaccinale ma anche dalla previsione di discriminazioni come strumento di coercizione indiretta: sul tema c’è un grande dibattito nel mondo politico e culturale, molti mettono in guardia dai rischi di scivolamento progressivo su un pericoloso piano inclinato. Evidentemente il rispetto della dignità individuale e il principio di ragionevolezza, su un tema così delicato come quello dei trattamenti sanitari, che chiama in causa anche una memoria storica dolorosissima, ancora contano qualcosa, e suggeriscono cautela. In particolare, si mantiene una linea di grande cautela sulla vaccinazione dei giovani. La stessa cosa fa il Regno Unito, che pure è stato tra i primi a realizzare una vasta campagna di vaccinazione: ma senza obblighi vaccinali (neppure per il personale del servizio sanitario nazionale, almeno per ora), né norme discriminatorie. Secondo il Comitato congiunto per le vaccinazioni e le immunizzazioni (JCVI) del Regno Unito, per bambini e adolescenti “i benefici della vaccinazione Covid-19 non superano i potenziali rischi” (tranne per chi è portatore di peculiari fragilità). Niente di ciò in Italia, dove siamo alla caccia alle streghe: il green pass come “purga”, rieducazione dei refrattari. In un primo momento, la società italiana e il mondo intellettuale sono parsi intorpiditi, forse fiaccati da un anno e mezzo di dpcm ed emergenzialismo, come presi alla sprovvista dalla brusca accelerazione neo-autoritaria. Ad esempio, davvero scarse, e troppo timide, sono state le reazioni all’irricevibile proposta della Confindustria che chiede l’obbligo vaccinale generalizzato per tutti i lavoratori del settore privato, e la sospensione dal lavoro senza retribuzione per chi non si vaccina. Stranamente cauti anche certi ambienti della “sinistra” radicale, di solito avvezzi alla retorica anti-impresa “a prescindere” (riflettendoci, però, non è poi così strano…). Tuttavia, per fortuna, sta partendo anche da noi una protesta trasversale, ragionata e di piazza, che avanza dubbi e pone domande legittime: ma di fronte si trova, compatta, la furia stigmatizzatrice del mainstream, che nega la possibilità stessa del dibattito e della contestazione, in nome del suprematismo morale della nuova religione sanitaria. Il cui contenuto teologico–politico è per l’appunto determinato dal cortocircuito tra “mera vita” e moralismo sanitario, dal quale deriva una nuova, totalizzante “grande discriminazione”. Aveva ragione Carl Schmitt: tutto è politicizzabile, cioè può divenire oggetto e causa di ostilità. Anche il coronavirus. Esso si è anzi rivelato fonte privilegiata di ostilità moralizzata, incarnando al meglio la cifra tipica del progressismo neoliberale: una pretesa polemica estrema e dissimulata, che nega all’altro lo status di legittimo interlocutore e scinde in due il corpo sociale, creando le condizioni di una guerra di tutti contro tutti. È la stessa logica dell’umanitarismo usato come strumento di gerarchizzazione dell’umanità. L’uso politico del coronavirus, lo stigma e la discriminazione vaccinale, sono la forma teologico-sanitaria della discriminazione inumano/umanitaria attuale. Il lessico bellico non mente: siamo in guerra contro il virus, non essergli complice non vaccinandoti, chi pone domande è disfattista, anzi dovete amare i vostri governanti perché hanno a cuore il vostro bene (l’ha detto un prelato: ma ormai anche gli uomini di Chiesa sono preda di questo clima assurdo). Sono convinto che senza una rinnovata dialettica “laica”, ma aperta al “senso di ciò che manca”, tra cose “ultime” e “penultime”, non ci sia immaginazione del futuro, critica dei meccanismi di potere né possibilità di trascendenza politica rispetto al mondo amministrato dalla tecnica. Tutto è appiattito sull’immanenza assoluta della “mera vita”, sacralizzata e allo stesso tempo nichilistica. “Mera vita”, asocialità disincarnata e algoritmi tecno-finanziari rischiano di saldarsi in un micidiale dispositivo di dominio. Così anche la “salute”, da benessere psico-fisico che ha un valore tanto individuale quanto sociale, si riduce a pretesto di omologazione e disciplinamento. Ma la deriva è in atto da tempo. Se siamo a questo punto, è perché se ne erano già create le condizioni: ci siamo abituati all’eccezione quotidiana, a ripetute sospensioni di diritti e libertà in teoria indisponibili come se si trattasse non di gravi cedimenti, ma di banali parentesi temporanee, da non temere perché di un potere che si pretende “neutro” ci si può “fidare”: una riedizione dell’oligarchia in forma epistocratica, spesso travestita moralisticamente, sostenuta dalla “fede” nella tecno-scienza al servizio dei “divini” mercati e dei poteri globali, e nell’oggettività “scientifica” del neoliberismo.
Le decisioni assunte nel decreto varato da Draghi contengono una violenta prevaricazione in veste pseudo-legale, che pretende di normalizzare forzature inaccettabili, sancendo un principio di discriminazione irragionevole, che dovrebbe perlomeno creare disagio alla coscienza dei giuristi. Come si possono togliere o limitare diritti e libertà fondamentali sanciti solennemente dalla Costituzione a un’intera categoria di persone, per il solo fatto di esercitare una scelta – quella di non vaccinarsi contro il coronavirus – che, non essendo vietata, è ovviamente permessa e legittima? La costituzionalità di tutto ciò può essere sostenuta solo al prezzo di arrampicarsi sugli specchi, piegando agli interessi del potere oggi dominante la Costituzione medesima. Si passa così, scivolando sempre più nell’arbitrarietà, distruggendo gli anticorpi democratici, dall’uso disinvolto dell’emergenzialismo a un’inaccettabile politica discriminatoria, varata per decreto, senza neppure il coraggio di stabilire un esplicito obbligo, per paura dei risarcimenti, visto che vengono di fatto imposti, surrettiziamente, vaccini sperimentali. Un attacco alla Costituzione travestito da legalità emergenziale, da stato di necessità, che ne deturpa i fondamenti. Non a caso si procede, come se fosse normale, prorogando di sei mesi in sei mesi lo stato di emergenza, che è ormai tecnica di governo ordinaria. Del resto, un governo di emergenza, estraneo alla volontà popolare, fondato sul coronavirus (oltre che sull’obbedienza più cieca a eurismo e atlantismo) non può che mirare a prorogare il più possibile i presupposti fittizi sui quali si regge, che hanno vanificato la sovranità democratica (il voto del 2018 non ha nulla a che fare, politicamente, con Draghi e i consiglieri di cui si circonda, Giavazzi e Fornero in primis). Per questo bisogna marcare ora una netta differenza. Tracciare una linea perché è in gioco un nucleo etico-culturale, prima ancora che costituzionale, su cui non si può cedere. É fondamentale testimoniare un dissenso a futura memoria. Con equilibrio e prudenza, ma anche con la necessaria fermezza. Continuando a ragionare in autonomia, senza pregiudizi, senza farsi condizionare dal clima infame che si sta creando.
La questione non è il vaccino, ma la libertà. Sui vaccini sperimentali anti-coronavirus c’è un ampio dibattito scientifico, che non dovrebbe essere censurato. Una consapevolezza anche minimale di quale sia il profilo non negoziabile di uno Stato democratico pluralista, che non può non nutrirsi di un confronto razionale, basato su argomenti e verifiche fattuali, e non su isterie e demonizzazioni dall’alto, dovrebbe consigliare prudenza (soprattutto per adolescenti e bambini) e trasparenza nell’informazione sui pro e i contro. Lo ha affermato, di recente, Robert W.Malone, uno degli scienziati che ha posto le basi delle terapie geniche su cui si fondano i nuovi vaccini a mRNA, come il Pfizer: vi sono questioni bioetiche, è fondamentale informare correttamente i cittadini visto che si tratta di vaccini approvati in via derogatoria rispetto alle procedure ordinarie, soprattutto occorre essere cauti per quello che riguarda la vaccinazione dei giovani (naturalmente, per queste dichiarazioni è stato attaccato e anche censurato). Ora, non si tratta di essere contro i vaccini in generale, ovviamente. Né di contrastare un uso prudente e trasparente, che bilanci rischi e vantaggi, dei vaccini contro il coronavirus. Soprattutto per le categorie a rischio e le fasce d’età per le quali il calcolo costi-benefici è favorevole, essi rappresentano, unitamente all’applicazione diffusa delle cure precoci e allo sviluppo di nuovi farmaci, una via ragionevole, senza forzature e drammatizzazioni, alla risoluzione del problema. A proposito di cure, vogliamo assicurare allo Spallanzani i finanziamenti necessari per la sperimentazione sul nuovo farmaco (basato sugli anticorpi monoclonali), i cui primi risultati sono molto promettenti, invece di fare i fenomeni in conferenza stampa? Per inciso, qualcuno ci spiegherà un giorno perché il vaccino Reithera, sempre dello Spallanzani, è stato abbandonato, tagliando i fondi? Storie di ordinaria, assurda inefficienza, o c’è qualcos’altro?
Personalmente, le guerre di religione sui vaccini mi sono estranee. Ma ciò significa, innanzitutto, che è inaccettabile un fideismo irrazionalista che pretende di troncare qualsiasi discussione nel merito e far passare un’imposizione di fatto generalizzata, a prescindere da qualsiasi considerazione di prudenza, reale efficacia e necessità, colpevolizzando e ricattando i cittadini, sottraendo loro libertà e diritti. Cioè trasformando tutti noi in inermi sudditi nelle grinfie del potere, che toglie e concede spazi di libertà senza appello e senza limiti. Torna alla mente la metafora di Canetti in Massa e potere sul gatto che gioca con il topo: la nostra è ormai la libertà del topo? Invece della ragionevolezza (spesso invocata come stella polare dalla Corte Costituzionale), si decide di passare all’attacco, di imporre una dose ancora maggiore di stato di eccezione (in questo caso vaccinale). Adottando la stessa logica con la quale, per anni, si sono difese le mitiche riforme neoliberiste richieste dalla UE: se non funzionano, è perché non ne avete fatte abbastanza! Che il prezzo sia calpestare le libertà fondamentali di milioni di persone, trasformate in nemico interno e deprivate di diritti, sembra non preoccupare i moralisti a comando, i difensori della Costituzione a parole, quando non costa. In nome di un malinteso interesse pubblico, agitato strumentalmente. Considerato, oltretutto, che non c’è certezza scientifica sul fatto che questi vaccini producano anche una immunizzazione per i contagi; quindi chi non si vaccina, nel caso, danneggia se stesso, non chi è protetto, mentre chi è vaccinato è probabile possa essere veicolo del virus, come chi non lo è, almeno allo stato attuale delle conoscenze: si pensi al caso di Boris Johnson, vaccinato e finito in quarantena, e a tanti altri casi simili (del resto, se il vaccino immunizzasse dalla malattia, per accedere alla conferenza stampa dell’Epistocrate non sarebbe stato richiesto, oltre al certificato vaccinale, anche il tampone! Una scena impagabile per la sua plastica capacità di rivelare quanto sia grottesca e ben poco credibile la narrazione dominante). Ma forse proprio qui si radica una delle questioni di fondo, di chiara matrice ideologica globalista, all’opera nell’uso politico del coronavirus: l’ossessione della prevenzione assoluta (anche da minacce eventuali), il mito dell’eradicazione del “nemico” (di cui il virus è un perfetto simbolo). Il corollario è una strategia di indocilimento e controllo pervasivo: il conflitto, la dissidenza sono interdetti. E poi ci sono i “costi”, un classico della polemica neoliberista (ma anche del progressismo neoliberale in stile Blair) contro il Welfare. Si, perché dopo aver demolito la sanità, e non aver fatto niente per rimetterla in piedi (soprattutto quella sul territorio), la cosa più facile è criminalizzare paternalisticamente i cittadini, scaricando ancora su di loro inadempienze, fallimenti e zone grigie. Discorso analogo si può fare per la scuola, l’università e i trasporti pubblici (che saranno oggetto di prossime “attenzioni”). Del resto, si sa, i nostalgici del lockdown e della DAD non mancano…Forse si vuole giocare in anticipo rispetto a una nuova “ondata” in autunno, che sancirebbe un ovviamente non augurabile fallimento dei vaccini sperimentali, e una conseguente, pesante crisi di legittimazione per chi ha gestito finora la questione coronavirus? Si vuole creare un clima terroristico preventivo al fine di spostare l’attenzione su capri espiatori, scaricare la responsabilità di eventuali nuove chiusure sui non vaccinati, anche al costo di organizzare una grande menzogna di Stato, legittimando come normale la discriminazione dei cittadini e cancellando di fatto la libertà di scelta?
Si è cominciato con i diritti sociali e il lavoro, si è proseguito con la sovranità democratica, adesso si arriva alle libertà civili. Siamo al punto che va eradicato, coartato anche chi semplicemente pone domande, avanza qualche dubbio, oppure decide di esercitare una scelta magari discutibile per molti, ma lecita (in assenza di obblighi formali). Seguendo la stessa logica che ha portato a stigmatizzare e osteggiare in ogni modo un dibattito sereno sulle cure precoci, così da alimentare una realtà scissa: quella ufficiale del Ministero della Salute e di quei virologi che si sono prestati a fare le maschere del potere sui media, quella concreta di centinaia di medici (tra cui diversi luminari) che hanno operato sul territorio, curando e assistendo, infischiandosene delle direttive laconiche e omertose dei tecnici del Ministero. Una realtà scissa che ha determinato un vero e proprio buco nero di opacità e ingiustizia (chi non aveva medici di famiglia seri, che non se ne sono lavate le mani, o amici o parenti medici in grado di dare indicazioni tempestive sulle cure precoci, è stato abbandonato a se stesso). Ora, dunque, è comprensibile che omissioni, ritardi inspiegabili, opacità, documenti occultati o ritoccati suscitino qualche sospetto: il cosiddetto “complottismo” non c’entra nulla. Una volta il pensiero “progressista” coltivava controinformazione e diffidenza. Oggi fa da mosca cocchiera al discorso dominante. Bisogna “credere” a chi sa, cioè a chi ha il potere, senza fare domande. Mi sembra che urga un ripasso dei fondamentali, anche per certi scrittori…Siamo passati da Pasolini ed Elsa Morante ai cantori del moralismo peloso delle élites, oltretutto senza argomenti, per esplicita confessione (imponete, c’è poco da discutere!). Dunque, dobbiamo aspettarci che d’ora innanzi tutto sia possibile? Dobbiamo rassegnarci a vivere tempi apocalittici? Non ci resta che l’emigrazione interna? Per la prima volta, probabilmente, siamo sprovvisti di katéchon. Prepariamoci a una segreta lotta, dei puri di spirito, di quanti non si piegano al “divieto di pensare” (il nuovo Denkverbot denunciato da Slavoj Žižek), contro un proibizionismo senza ragione ma che si ammanta di conformismo violento e acritico (la banalità del presunto “bene” come suprema arma di un potere mefitico, in decadenza). Temo che, se non reagiremo, se non testimonieremo e organizzeremo forme di resistenza, se non preserveremo isole di pensiero critico, questo neo-autoritarismo dissimulato sia il drammatico piano inclinato che ci aspetta, anche rispetto alle prossime crisi, del debito, dello spread, della disperazione sociale.
FONTE: https://www.sinistrainrete.info/politica-italiana/20907-geminello-preterossi-sovrano-e-chi-discrimina-i-non-vaccinati.html
La cosa più inquietante di questa storia pandemica
(di questo pezzo non conosco l’autore. Me lo hanno girato e lo posto: avrei voluto scriverlo io)
La cosa più inquietante di questa storia pandemica è che le nuove generazioni si sono rivelate completamente asservite al potere. Impauriti, ipocondriaci, timorosi d’animo, incapaci di affrontare la complessità dell’esistenza, hanno aderito all’idea di una soluzione semplice e semplicistica (lockdown, limitazioni, perdita dei diritti naturali e adesso lasciapassare sanitario).
Ignari totalmente di diritto, di sociologia, di senso civico, di rispetto per l’altro (e ovviamente di medicina), hanno prima cantato dai balconi per il loro balordo che li ha impauriti a dovere, poi sono diventati segugi da caccia, branco di delatori assetati di falsa giustizia (di vendetta, di fatto), e infine kapo’ del sistema della carcerazione generalizzata. Se glielo proponessero si metterebbero a fare il servizio d’ordine davanti ai bar e ai ristoranti, o alle palestre (con le loro sopracciglia ad ali di gabbiano e il bicipite tatuato, le birkenstock ai piedi).
Chi sta cercando di difendere quel che resta dello stato di diritto è la mia generazione, quella del ’68 e quella successiva, del ’77. probabilmente perché siamo cresciuti con una istruzione e una consapevolezza diverse, perché la nostra scuola ha avuto ancora un minimo di basi e di struttura degne di una democrazia Occidentale uscita da una guerra micidiale. Dall’inizio degli anni’2000, la devastazione culturale, politica, sociale, sanitaria, umana è stata talmente forte (con la scuola come avamposto di questa devastazione) che i ragazzi che si ritrovano ad avere, oggi, dai 20 ai 35 anni, sono totalmente in balia del loro vuoto, del loro nulla assolutistico, semplicistico, schizofrenico se vogliamo. Non hanno alcuno spirito critico. Sono abituati al bianco e al nero. Se a qualcuno viene un minimo dubbio, hanno la sfortuna di avere intorno un gregge che glielo toglie all’istante.
E’ questa la cosa che fa più paura, in piazza stanno scendendo due generazioni che hanno avuto la fortuna di vivere gli anni’80 e ’90 (e in parte gli anni ’70) e sanno che prima di loro tutto quello che si era conquistato era costato fatica, sangue, lotta e sofferenza. I fascismi è così che tornano, con l’oblio che incombe, che si sostituisce alla memoria e crea un nuovo presente; l’unico mondo possibile.
FONTE: https://www.maurizioblondet.it/57364-2/
Carlo Freccero: “Questa adesione acritica dei cittadini è più inquietante dell’autoritarismo”
29 Luglio 2021
di Carlo Freccero per “la Stampa”
È necessario arrivare ad un punto di rottura perché la rottura si realizzi. Dall’inizio della pandemia i popoli di tutto il mondo sono scesi in piazza innumerevoli volte. Gli italiani sembravano sedati da una sorta di ipnosi. Con il green pass il miracolo si è compiuto: le piazze italiane si sono riempite. Ed è interessante notare che in piazza a contestare c’erano non solo i no-vax, ma anche i vaccinati, che, per motivi di principio, protestano per tutelare le libertà costituzionali.
Lo stesso concetto è ribadito da Cacciari nell’articolo di ieri: io mi sono vaccinato, ma la democrazia è libertà di scelta e questa libertà di scelta va difesa. Nel contesto del generale risveglio si pone il pezzo firmato congiuntamente da Cacciari e di Agamben che, bisogna dargliene atto, è stato l’unico ad intervenire dai primi giorni della pandemia con i suoi interventi quotidiani su Quodlibet. Purtroppo la sua voce è stata isolata ed ascoltata solo da minoranze. Per attirare l’attenzione di un numero sufficiente di persone, bisognava esagerare. Ed si è esagerato.
La somministrazione dei vaccini è stata affidata all’esercito per sottolineare il clima di emergenza, di protezione civile in cui ci troviamo. Ma per chi ha la mia età l’idea di una scelta sanitaria imposta dall’esercito ha qualcosa di inquietante come inquietanti suonano le minacce di mandare l’esercito porta a porta a «stanare» i non vaccinati. Analogamente, per quelli della mia generazione, la morte di De Donno evoca il fantasma di Pinelli. Per la mia professione nella comunicazione il primo problema che ha attirato la mia attenzione è stato da subito la mancanza di alternativa imposta al discorso pandemico.
Democrazia significa tutela del parere delle minoranze. Questo parere è stato sradicato in nome della scienza, chi lo professava è stato zittito ed insultato nei dibattiti pubblici. Nell’articolo contro il green pass, pubblicato dall’Istituto Italiano di Studi Filosofici di Napoli, Agamben e Cacciari criticano il green pass affermando che «la discriminazione di una categoria di persone, che diventano automaticamente cittadini di serie B, è di per sé un fatto gravissimo, le cui conseguenze possono essere drammatiche per la vita democratica».
L’art. 3 della Costituzione italiana vieta esplicitamente ogni forma di discriminazione. L’affermazione dei due filosofi dovrebbe quindi essere, in qualche modo,ovvia. Invece il fatto stesso che il sito Dagospia definisca l’articolo una «bomba» solo perché dissente dalla vulgata del «mainstream» è una conferma di quanto gli autori espongono nell’articolo citato e cioè del pericolo di una deriva totalitaria. Mi sembra di assoluta evidenza che un’informazione che bandisce qualsiasi forma di dissenso, sia di per sé sinonimo di propaganda.
E la propaganda ha poco di democratico. Da quando è iniziata la pandemia la televisione ci ha abituati alla consuetudine del dibattito unanimistico. Ci sono format e programmi come il talk show che hanno bisogno per esistere di un contraddittorio. Dato che gli invitati sono tutti della stessa idea, essi non sono tenuti a confrontarsi, ma fanno gara tra loro a superarsi in ortodossia ed obbedienza ai vari Dcpm ed ora a Decreti Legge che hanno sostituito la legislazione ordinaria. Mi si obietterà che tutto questo è fatto per il bene comune, un bene comune che autorizza uno stato di eccezione, previsto però in Italia, solo per lo stato di guerra (art. 78 della Costituzione).
Tutela cioè la collettività, ma anche l’individuo. E i trattamenti sperimentali sono esclusi dal codice di Norimberga, dalla dichiarazione di Helsinki, dalla convenzione di Oviedo. Il processo di Norimberga basta da solo ad evocare il nazismo. Gli imputati si difesero sostenendo di aver obbedito agli ordini. Per evitare che queste aberrazioni si ripresentassero fu stabilito un codice a futura memoria. Tra l’altro esso prevede che la sperimentazione sia ammessa solo se «il soggetto volontariamente dà il proprio consenso ad essere sottoposto ad un esperimento».
Senza accettazione volontaria l’esperimento non può avere luogo. Il vaccino è ancora in fase sperimentale. Cito dal bugiardino Pfizer e quindi faccio parlare direttamente le case farmaceutiche produttrici, perché sia ben chiaro che non sto riferendo il mio parere personale: «Per confermare l’efficacia e la sicurezza di Comirnaty il titolare dell’autorizzazione alla emissione in commercio deve fornire la relazione finale sullo studio clinico» e a lato «Dicembre 2023».
Sino al 2023 il vaccino sarà una terapia sperimentale con esiti futuri incerti. In questi giorni la senatrice Segre, sopravvissuta all’Olocausto, è intervenuta dicendo che è folle paragonare vaccino e green pass alla Shoah. Ci sarebbe una sproporzione tra le cose. Ma la senatrice sembra dimenticare che c’è sempre un inizio e la discriminazione è quell’inizio. Per parlare di regime autoritario non è necessario poi arrivare sino ai forni crematori. Basta che la normale vita democratica ed i diritti dei cittadini subiscano delle limitazioni.
In senso opposto va invece l’intervento di un’altra sopravvissuta all’Olocausto che milita invece sul fronte opposto, la signora Vera Sharav. «Conosco le conseguenze – dice la sopravvissuta – di essere stigmatizzati come diffusori di malattie». Il suo calvario è incominciato a piccoli passi con la segregazione ed il divieto sempre più esteso a partecipare alla vita sociale, a entrare in determinati contesti, a viaggiare.
La cosa che più mi ha colpito nell’intervento di Vera Sharav è la lucidità con cui collega il nazismo all’uso autoritario della medicina. In nome della scienza – ci dice – viene cancellato ogni principio morale della società.
Questa affermazione mi fa ricordare il fondamentale intervento di Agamben con la sua «Domanda» rivolta a tutti gli italiani. «Com’ è potuto avvenire che un intero Paese sia senza accorgersene eticamente e politicamente crollato di fronte ad una malattia?». In nome della sopravvivenza e di quella che Agamben chiama «nuda vita» (una vita privata di ogni valore che travalichi la sopravvivenza biologica ), gli italiani hanno accettato di lasciar morire i loro anziani in solitudine negli ospedali, hanno accettato di incenerire i cadaveri senza sepoltura, hanno accettato la perdita di ogni principio morale. Ed hanno rinunciato alla vita sociale.
E questa adesione acritica da parte dei cittadini è per certi versi più inquietante dell’autoritarismo del governo. È un indice inequivocabile che i meccanismi dell’autoritarismo sono già stati introiettati da tutti noi come naturali e che appartengono ormai alla quotidianità e al nostro futuro.
FONTE: https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-carlo_freccero_questa_adesione_acritica_dei_cittadini__pi_inquietante_dellautoritarismo/39602_42488/
CONFLITTI GEOPOLITICI
Tunisia: come si muovono le potenze e che cosa rischia l’Italia
Che cosa sta succedendo in Tunisia. I fatti, i numeri e l’analisi geopolitica di Dario Fabbri (Limes)
La Tunisia sta affrontando una gravissima crisi istituzionale. Il presidente Kais Saied il 25 luglio ha annunciato la sospensione del Parlamento per 30 giorni, la revoca dell’immunità ai deputati e il licenziamento del premier Hichem Mechichi. In un discorso alla nazione in cui ha spiegato i motivi del gesto, Saied ha parlato di “situazione insostenibile” e annunciato che assumerà il potere esecutivo con l’aiuto di un governo guidato da un nuovo primo ministro che lui stesso provvederà a nominare. La decisione è arrivata dopo una giornata di proteste diffuse in tutto il paese, contro i fallimenti del governo, il sistema politico e la cattiva gestione della pandemia.
La Tunisia deve ritrovare rapidamente la “via della democrazia”, ha detto ieri sera un alto funzionario della Casa Bianca a Kais Saied pochi giorni dopo che il presidente tunisino ha preso il potere esecutivo e sospeso per un mese l’attività del Parlamento. In una telefonata di un’ora con Saied, il consigliere per la Sicurezza nazionale del presidente americano Joe Biden, Jake Sullivan, ha espresso il suo sostegno alla “democrazia tunisina basata sui diritti fondamentali, su istituzioni forti e sull’impegno per lo Stato di diritto”, secondo una dichiarazione della Casa Bianca.
Le origini della crisi politica tunisina
La crisi tunisina ha più di una causa: l’instabilità politica endemica, la gravissima situazione economica e la conseguente incapacità del governo deposto di gestire la pandemia da coronavirus, che in Tunisia è una delle peggiori di tutta l’Africa. A queste si aggiungono ragioni di carattere strutturale che hanno a che fare con lo stato piuttosto fragile in cui la Tunisia è uscita dalla primavera araba.
I risultati delle primavere arabe
La Tunisia è stata l’unico paese coinvolto nella primavera araba, con la rivoluzione dei gelsomini, ad aver mantenuto una forma di governo democratica. Negli ultimi 10 anni la democrazia tunisina si è mostrata molto fragile e instabile. Ennahda, il partito islamista moderato che ha dominato la scena nazionale, non è mai davvero riuscito a imporsi con governi forti e capaci di fare le riforme di cui il paese aveva bisogno, e alla lunga i problemi e l’instabilità non hanno fatto che accumularsi. La politica tunisina è rimasta eccezionalmente frammentata, e dal 2011 a oggi si sono succeduti ben nove primi ministri.
La crisi economica tunisina
Alle fragilità politiche della democrazia tunisina nata dalle primavere arabe si è aggiunta la crisi economica, scoppiata nel 2010, peggiorata nei primi anni della rivolta e che non ha mai permesso al Paese di rilanciarsi sul serio. Come scrive il Sole 24 ore la disoccupazione, quella ufficiale, sta sfiorando il 20%. I dati reali sarebbero ben peggiori. La pandemia ha provocato una contrazione del Pil di quasi il 9% e sta facendo lievitare il rapporto debito/Pil al 91 per cento. Tunisi avrebbe bisogno di un prestito da di circa quattro miliardi di dollari. Il Fondo monetario internazionale potrebbe anche accordarlo alla sola democrazia del mondo arabo ma a patto di condizioni precise: riforme strutturali in grado di cambiare l’economia, tra cui taglio dei salari pubblici e dei sussidi statali. Misure che milioni di tunisini, esasperati per la crisi e senza un lavoro, difficilmente capirebbero.
La partita a scacchi tra Turchia, Arabia Saudita, Emirati Arabi e Qatar
In Tunisia è in corso una partita geopolitica molto intricata. “Negli ultimi mesi, anche anni, la Turchia ha esteso la sua influenza in Tunisia, un po’ quello che capita in Tripolitania – ha detto Dario Fabbri, analista di Limes -. La Turchia domina il paese, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi sono intervenuti per far fuori Ennahda. Il quale è molto vicino alla Fratellanza musulmana e dunque alla Turchia che la controlla. Arabia Saudita ed Emirati Arabi hanno agito proprio per sottrarre ad Ankara l’influenza decisiva sul paese”. Stando al parere degli analisti la Fratellanza Musulmana, alla quale rappresentanti di primo piano di Ennahda sono tradizionalmente vicini, sta giocando un ruolo fondamentale nello spingere la Tunisia verso il caos. La Fratellanza è supportata dalla Turchia di Erdogan, dal Qatar e dai “fratelli” di Hamas che dominano la Striscia di Gaza. La decisione presa dal presidente Kais Saied appare, più che un colpo di Stato, una mossa preventiva per frenare la presa del potere da parte dei fondamentalisti.
Il ruolo geopolitico dell’Italia
L’Italia, benché sia un partner strategico per la Tunisia, non sta giocando un ruolo nei disordini che stanno travolgendo il paese. “Ciò che succede per l’Italia è decisivo – ha aggiunto Fabbri nel corso di un intervento a Omnibus su La7 -. Una volta eravamo noi ad imporre i fatti in Tunisia, l’ultimo dittatore tunisino ce l’avevamo messo noi con un nostro golpe all’epoca. Adesso lo fanno gli altri. Noi contiamo talmente poco nel nostro che sauditi ed emiratini si giocano l’influenza con i turchi, pagati dal Qatar, e noi possiamo fare altro che stare a guardare”. Eppure capire l’evoluzione della situazione per l’Italia è molto importante.
“Paradossalmente lo sviluppo non è esattamente negativo per l’Italia, al di là della retorica riguardante la fine della democrazia in Tunisia – conclude Fabbri -. Democrazia sempre molto sbiadita da quelle parti. Se la Turchia si indebolisce in Tunisia per noi non è un dato negativo, tutt’altro. I turchi dominano in Libia soprattutto in Tripolitania dove noi siamo formalmente alleati della Turchia, che sta lì con i soldi del Qatar. Ecco diciamo che se Erdogan subisce un rovescio non tutti piangono a Roma nei palazzi dei nostri apparati”.
Le posizioni di Egitto e Algeria
“E’ una questione interna tunisina ed è necessario rispettare la privacy e la non ingerenza”: lo hanno detto durante una conferenza stampa congiunta tenuta al Cairo i ministri degli Esteri egiziano e algerino – Sameh Shoukry e Ramtane Lamamra – alla luce delle recenti decisioni del presidente tunisino Kais Saied di congelare il parlamento per un mese e licenziare il premier. “Siamo pienamente fiduciosi della saggezza della leadership tunisina sul piano politico e della sua capacità di gestire la situazione, per realizzare le aspirazioni del fraterno popolo tunisino”, ha aggiunto Shoukry: “Speriamo che tutte le misure prese vadano a buon fine”. Da parte sua, Lamamra ha sottolineato che l’Algeria confida nella capacità del popolo tunisino di superare questa crisi.
Le ricadute economiche della crisi tunisina sull’Italia
L’Italia è il secondo partner commerciale della Tunisia, nel 2020 l’Italia è stata il secondo mercato di destinazione dell’export tunisino con una quota del 15,2% e il secondo fornitore della Tunisia con una quota del 14,1%. È inevitabile pensare a una ricaduta sugli investimenti economici italiani. Tuttavia, come riporta il Sole 24 ore, secondo gli analisti i disordini tunisini non dovrebbero mettere a rischio gli investimenti del settore energetico di Ansaldo Energia, Eni, Saipem, Ternienergia. Le aziende italiane si concentrano nell’area della Grande Tunisi e delle regioni costiere dove si contano più di 800 società (miste o a capitale esclusivamente italiano), che impiegano oltre 68 mila lavoratori e rappresentano quasi 1/3 delle imprese a partecipazione straniera. In Tunisia sono presenti, tra gli altri: Colacem, Fs, Astaldi, il Gruppo Marzotto, Telecom Italia Sparkle, Gruppo Maccaferri, Prysmian, Grandi Navi Veloci, Inviaggi, Iccrea e Banca MPS, Ariston Thermo e Benetton.
Paura per una nuova crisi migratoria
La crisi economica potrebbe innescare l’aumento di flussi migratori verso l’Italia. Già da un anno sono ripresi gli sbarchi dalla Tunisia verso l’Italia, causati dall’incapacità del partito di governo, Ennahda, di fronteggiare la crisi economica e la pandemia che nel Paese ha fatto oltre 18.000 morti. L’anno scorso sono stati circa 14.000 contro i 3.600 del 2019. Come se non bastasse, ci sono preoccupazioni nella sponda Nord del Mediterraneo per le questioni di sicurezza e lotta al terrorismo con il dossier tunisino interconnesso fortemente a quello libico, egiziano, marocchino e algerino.
FONTE: https://www.startmag.it/mondo/tunisia-come-si-muovono-le-potenze-e-che-cosa-rischia-litalia/
CULTURA
Calasso: un serpente di carta
Mi hanno chiesto di scrivere un articolo su Calasso, il gran defunto. Dopotutto sono io che scrisse il libro contro la casa editrice Adelphi – Adelphi della Dissoluzione (1994). Non ne trovo in me le motivazioni: oggi, rispetto all’immane dittatura globale sotto cui stiamo soggetti, Calasso mi sembra – in confronto – una quasi innocua tigre di carta. Una vipera di paglia. Il suo zolfo, un fuoco d’artificio scoppiettante. In ogni caso esponente superato di una stagione perenta. Da rimpiangere perché, in fondo, ancora vi si leggevano libri. Quando si poteva ancora polemizzare senza essere trascinati davanti ai plotoni d’esecuzione degli analfabeti mediatici.
Come spiegarlo?
All’inizio del mio Adelphi, Massimo Cacciari esclama ed esorta: “Il Papa deve smettere i fare il katechon!”. Ebbene: El Papa ha smesso da un bel po’, e il risultato a Cacciari non piace, al punto che – giustamente – si schiera contro l’inaudita dittatura in corso, e lotta coraggiosamente – e pesantemente insultato da gente infinitamente più ignorante di lui, i nuovi kapò – contro l’obbligo vaccinale e la dittatura sanitaria che ci opprime e ci stermina. Perché una cosa è giocherellare come civetteria letteraria con l’Omicida fin da Principio, un’altra è vederlo in azione nella sua Impostura totalitaria e nella sua nuda brutalità reale e concreta nella totale assenza di Dio dell’umanità terminale, che si lascia fare tutto l’indicibile, afona di fronte al Male. “Lui” non scherza più, e Cacciari l’ha capito. Spero che l’abbia capito anche il Defunto.
Vi lascio con il breve commento – omaggio allo stile e rilevazione dello “zolfo” – del miglior studioso di Calasso, l’amico M. A. Jannaccone:
Il ghigno e lo stile
Morto il più grande scrittore d’Italia. Gli altri (tranne un paio), che siano pubblicati da Feltrinelli o da Mondadori, da Sellerio o da Newton sono comparse, che resteranno per dovere di cronaca. Soprattutto quelli che stanno sempre nei salotti per brigare premi.
Calasso diceva che la sua attività di scrittura e di editoria era un Serpente. E pour cause. Parola non scelta a caso.
Perché, purtroppo, oggi, la grandezza non è dei “buoni”, di quelli che costruiscono civiltà durevoli.
E stato uno dei tre scrittori contemporanei nella nostra lingua che ho ritenuto necessario leggere tutto e rileggerlo più volte. Per saggiarne la profondità, perché la prima volta non lo capisci, perchè aveva uno stile eccelso e sostanza. Per individuare, soprattutto, le profonde vene di zolfo che si trovavano nel suo pensiero-scrittura. Perché ha spiegato in anticipo cos’è la Dissoluzione che lui chiamava Tradizione. Ha spiegato bene cosa sia oggi il potere raccontando del diavolo zoppo Talleyrand e da Guénon (si definiva guenoniano).
Il Potere, diceva è menzogna. mistificazione, da quanto non vien più studiata la Metafisica. Aveva ragione.
Ci tornerò su, per i miei 25 lettori, con ben altro che un post. Ora leggerò i suoi due libri, appena usciti.
Il Serpente è finito.
Mario A. Jannaccone
FONTE: https://www.maurizioblondet.it/calasso-un-serpente-di-carta/
L’aperto. L’uomo e l’animale
Il sapiens è una specie divisa, all’interno del cui corpo passa una immaginaria cortina di ferro. Da un lato sta la nostra animalità, con i suoi bisogni corporei più improrogabili ed evidenti, con la conformazione biologica dei nostri organi di senso; dall’altro rimane la nostra cifra propriamente umana, col suo avere linguaggio, il suo poter essere felice o annoiata. Giorgio Agamben non scrive questo libro per negare o sostanziare questa scissione, che sempre viene data per decaduta e che però sempre ritorna. A lui interessa, piuttosto, chiarire da dove questa partizione tragga la propria forza, quale sia la sua origine e cosa, oggi, se ne debba fare.
Mysterium disiunctionis: la vita come soglia di articolazione
Per iniziare a orientare lo sguardo, è bene appuntarsi subito sulle note che l’autore scrive, al paragrafo quarto, sul concetto di “vita”. Potremmo infatti aspettarci che questo termine riesca a garantire l’unità del nostro stare al mondo. La storia del pensiero europeo ce ne ha consegnato una varietà di messe a fuoco, e però tutte accomunate da una decisiva insostanzialità. “Vita” è qualcosa che non pare potersi definire se non per privazione, o per scomposizione nei suoi elementi (come fa Aristotele nel De Anima, pp. 21-22). «Tutto avviene, cioè, come se, nella nostra cultura, la vita fosse ciò che non può essere definito, ma che, proprio per questo, deve essere incessantemente articolato e diviso» (p. 21). Il punto centrale del procedere di Agamben è che questa continua articolazione e divisione della vita stia all’origine della disgiunzione tra animalitas e humanitas. La separazione tra l’uomo e l’animale non passa dunque, come si potrebbe pure pensare, già da sempre al di fuori dell’uomo, ma ne attraversa il corpo dall’interno, provocando continui e rinnovati tentativi di ri-congiunzione e ri-articolazione (splendido a questo proposito il paragrafo sulle tassonomie di Linneo; pp. 30-34). Ma ciò che interessa l’autore non è la ricerca di una nuova formula relazionale tra queste due componenti, bensì l’indagine di questo mysterium disiunctionis.
Umwelt
Vi è un concetto che, coniato per quest’uso dal biologo estone Jakob Johann von Uexküll, parrebbe essere in grado di conferire alla vita una sua unità, annullandone le partizioni interne. Si tratta del concetto di Umwelt. Tradotto solitamente con “ambiente” o “mondo circostante”, esso designa l’insieme di tratti salienti che un organismo percepisce di ciò che gli sta intorno, e che, lavorando in simbiosi con i moduli istintuali della specie, costituisce il suo contesto vitale (pp. 44-48; De Carolis 2008, pp. 31-32). Agamben spende un paragrafo per descrivere la Umwelt della zecca canina, famoso esempio di Uexküll (pp. 49-51; cfr. Uexküll [1934] 2013, pp. 41-53), dal quale si capisce bene quanto, in questo animaletto, non vi sia proprio nulla da dividere e riarticolare in una nuova sintesi soggettiva. La zecca esiste per quei pochi stimoli che riesce a percepire, altro non conosce e altro non vive. Questi stimoli, costituendo la sua Umwelt, sono la sua vita e il suo mondo, ed essa vive della/nella sua animalitas in maniera piena.
Umgebung
Uexküll ha cura di distinguere bene Umwelt, termine destinato alla denotazione degli ambienti animali, da Umgebung, che usa invece per riferirsi all’ambiente della nostra specie. Reso recentemente con “dintorni” (cfr. Mazzeo [2010]), il concetto indica ciò che rimane ai margini dei vari ambienti animali, il loro resto, il loro fuori. Questo resto, ci dice Uexküll, è la Umwelt dei sapiens (il che ci rende in grado di comprendere le Umwelten delle altre specie). Questa Umgebung, però, non equivale in nessun modo a una gamma di stimoli preselezionati dalla specie, e non impone pertanto ai sapiens una omogeneità di comportamento. Essa è piuttosto lo sfondo opaco sul quale gli umani sono in grado di ritagliare le loro Umwelten storiche: esiste una quercia magica per la bimba, una quercia da abbattere per il boscaiolo, una quercia da abitare per dei ragazzini che hanno costruito una casetta sui suoi rami (cfr. Uexküll [1934] 2013, pp. 151-158). Il fatto che il nostro ambiente sia costituito da “dintorni”, quindi, dà vita alla più estrema varietà delle forme di esistenza umane. Ma Agamben non conferisce alla Umgebung degli umani il carattere destabilizzante che Uexküll invece le assegna (il filosofo la definisce come «lo spazio oggettivo in cui noi vediamo muoversi un essere vivente»; p. 45). I “dintorni” sarebbero perciò, nella lettura agambeniana, caratterizzati da una oggettività contemplativa, e, insomma, da una assenza di azione. Questa infatti potrebbe trovare posto solo all’interno di una qualche Umwelt, come attività fomentata dalla stimolazione.
Sospensione dello stimolo e contemplazione
Si ha la chiara impressione che questo stato di aprassia nella Umgebung rappresenti, per il nostro autore, quella nuova unità della vita umana di cui egli è in cerca. Una unità esclusivamente contemplativa, il cui paradigma animale non sarebbe da ricercarsi nella simbiosi dell’organismo con una data Umwelt, ma nella sospensione del rapporto con l’ambiente, vissuta in quanto tale. L’unità dell’umano troverebbe il suo parallelo animale, dunque, non nella vita piena della zecca in natura, ma in quella vuota dell’esemplare tenuto per diciotto anni chiuso nel laboratorio dell’Istituto di Rostock (p. 51; cfr. Belpoliti 2016). Privata di ogni stimolo ambientale e di nutrimento, una zecca è riuscita infatti a sopravvivere per tutto questo tempo come in uno stato di sonno comatoso, senza che le avvenisse letteralmente nulla. Ma questo sonno così poco allettante costituisce, per Agamben, il mistero del “semplicemente vivente” (p. 74). Il mistero di una vita afasica, sì, ma certo unitaria.
Noia profonda
È con questo paradigma di sospensione dell’azione come sbocco unitario della vita che Agamben si volge a Heidegger e al suo corso del 1929-30, Concetti fondamentali della metafisica. Mondo – Finitezza – Solitudine. Il paragrafo quattordici si configura come un commento alla lunga sezione del corso dedicata alla Stimmung della noia (p. 66-74; cfr. Heidegger [1929-1930] 1992). Heidegger fa di questo registro emotivo fondamentale un grimaldello che apre le porte dello spaesamento dei sapiens. Quando agiamo siamo presi dalle cose come l’animale è preso dai propri stimoli, mentre quando siamo presi dalla noia le cose, pur continuando a esistere, non hanno nulla da offrirci e non ci lasciano prefigurare un loro utilizzo (noia come essere-lasciati-vuoti, come “essere consegnati all’ente che si rifiuta”). Le similarità tra l’uomo e le specie non umane vanno ricercate, per Heidegger, nell’esperienza della pienezza dell’agire, nell’essere presi dalle cose come l’animale è stordito dagli stimoli; la possibilità della noia marca, all’opposto, una specificità dell’umano. Agamben sembra invece tentare un ribaltamento di questo quadro, accostando alla Stimmung della noia l’esperienza del sonno comatoso della zecca. Il contemplativo essere-lasciati-vuoti, una volta accostatolo a una situazione animale in cui il corpo è “semplicemente vivente”, sembra figurare come una condizione che non necessita di ulteriori articolazioni e divisioni.
Una ricomposizione unitaria dell’umano?
Difficile rimanere soddisfatti da questa ricomposizione di animalitas e humanitas. Si tratta infatti di una unità completamente afasica, aprassica, priva di ogni godimento, una sorta di adempimento della condizione post-storica prefigurata da Kojève (oggetto, non a caso, del terzo paragrafo del libro; pp. 16-20). Una vita priva di ogni attrito e ogni dolore, certo, ma anche di qualsivoglia felicità. Ma poi, al di là dell’attrattiva di un simile modo di esistenza, la domanda vera è un’altra: è davvero accessibile, alla nostra specie, una vita simile? Possiamo davvero pensare sensatamente un uomo che, cessando di articolare la propria humanitas e la propria animalitas, sia in grado di vivere nello iato che vige tra le due, nell’esibizione di questo vuoto?
La noia è desiderio di felicità
La mia risposta è che non è possibile; e che, se anche fosse possibile, non sarebbe auspicabile. Le parole di Leopardi, che pure Agamben mette in esergo al paragrafo sulla noia profonda, lo spiegano bene: «La noia è il desiderio di felicità, lasciato, per così dir, puro» (p. 66; cfr. Leopardi [1900] 1997, p. 727). Difficile esprimere in maniera più sintetica ed efficace il nesso tra felicità e azione, difficile dire altrettanto bene quanto può esser noiosa la contemplazione. Sono d’accordo con Agamben: è necessario considerare l’uomo come un intero, senza più dividerlo. La strada da seguire non è però quella della contemplazione (seguita dall’autore anche nei lavori successivi; cfr. Agamben 2011, 2014), bensì dell’azione (Gehlen [1940] 2010; Mazzeo 2003, 2012; Virno 2005). Considerare l’uomo come essere che agisce elimina il dualismo. Ed evita di annoiarlo troppo.
Agamben, Giorgio (2002) L’aperto. L’uomo e l’animale. Torino: Bollati Boringhieri, pp. 100.
FONTE:http://www.libercensor.net/contenuti/recensioni/l-aperto-l-uomo-e-l-animale
Lo stratega contro. L’attualità antagonista di Guy Debord
di Gabriele Fadini
A chi lo definiva un filosofo, Guy Debord rispondeva di essere uno stratega. Per comprendere appieno ciò che egli intendeva Gabriele Fadini comincia dal momento in cui nell’opera di Debord la strategia non è solo riscontrabile tra le righe come una modalità di azione, ma in cui diviene il tema stesso di un’opera: Il gioco della guerra, ovvero il resoconto di una partita a un gioco di strategia, ideato dallo stesso fondatore dell’Internazionale Situazionista. A partire da qui, Fadini può approfondire alcuni aspetti del pensiero teorico-politico di Debord, confrontandosi anche con le interpretazioni di Agamben, Freccero e Bifo.
* * * *
Come mostrano ancora queste ultime riflessioni sulla violenza, non ci saranno per me né ritorno, né riconciliazione. La saggezza non verrà mai [i].
Iniziare un testo dedicato a Guy Debord citando le ultime parole della sceneggiatura del suo ultimo film In girum imus nocte et consumimur igni non significa solo installarci in quel «gioco» secondo cui la massima fedeltà ad un autore consiste nella massima infedeltà, quanto più riflettere sulle regole del particolare gioco che è quello debordiano e ancor di più sull’utilità di questo gioco per un pensiero che si voglia antagonista. Il nostro intento, infatti, è quello di dimostrare come il gioco fornisca un accesso peculiare, originale ma soprattutto fortemente attuale, alla riflessione dello stratega francese.
1. A chi, infatti, lo definiva un filosofo Guy Debord rispondeva di essere uno stratega. Per comprendere appieno ciò che egli intendeva definendosi stratega è bene riferirsi al momento in cui nell’opera di Debord la strategia non è solo riscontrabile tra le righe come una modalità di azione, ma ove essa diviene il tema stesso di un’opera: ci riferiamo ivi a Il gioco della guerra, che altro non è che il resoconto di una partita a un gioco di strategia, ideato da Guy Debord stesso, tra lui e la seconda moglie Alice Becker-Ho.
Il gioco della guerra è un’opera che attraversa la vita di Debord per più di trent’anni ed è forse l’unica opera cui egli riconosce un valore che resista al fluire del tempo. Sarebbe motivo di un’analisi molto interessante leggere l’intera opera debordiana proprio alla luce di questo gioco, ma quello che ci interessa sottolineare in questa sede è come Debord vide la propria stessa vita come un’incessante guerra che lo impegnò in una costante messa a punto di strategie. Il gioco della guerra non è un gioco territoriale poiché in esso lo spazio non è qualcosa da conquistare o da difendere [ii], ma allo stesso modo non è un gioco prettamente temporale [iii] poiché tutto quanto ha a che fare con gli elementi della temporalità è assente. L’aspetto più interessante della strategia che anima questo Kriegspiel è che si tratta di una strategia animata da necessità contraddittorie [iv] che fa sì che «l’interazione permanente della tattica e della strategia può comportare delle sorprese e dei rovesciamenti, talvolta fino all’ultimo istante. I principi sono sicuri, e la loro applicazione è sempre incerta» [v].
È possibile affermare de Il gioco della guerra ciò che la stessa Alice Becker-Ho sostenne a proposito della formula che conclude il film In girum che sostituisce la parola «Fine» e da cui siamo partiti, ovvero che è dalla fine che si può sapere, palindromicamente, come si sarebbe dovuto interpretare l’inizio. La strategia, infatti, risulta valida solo dall’esito finale essendo il gioco un gioco di guerra il cui fine è il completo annientamento della parte avversa. Ma non solo, perché a rafforzare questa idea ci viene in soccorso quanto ricorda Mckenzie Wark, allorché sottolinea come Debord non solo perfezionò per tutta la propria vita Il gioco della guerra ma giocandovi, ne trasse moltissime lezioni su come condurre la propria stessa vita arrivando a considerare le sorprese di questo Kriegspiel come infinite [vi].
Commentando il «da riprendere dall’inizio», Debord sottolinea come:
«il verbo riprendere ha qui parecchi significati congiunti da conservare al massimo. In primo luogo: da rileggere, o rivedere, dall’inizio (evocando così la struttura circolare del titolo palindromo). Poi: da rifare (il film o la vita dell’autore). Quindi: da criticare, correggere, biasimare» [vii].
Per Debord, la struttura del palindromo ha a che fare con quella del labirinto:
«Ma niente traduceva questo presente senza vie d’uscita e senza riposo come l’antica frase che ritorna integralmente su se stessa, essendo costruita lettera per lettera come un labirinto da cui non si può uscire, di modo che essa accorda così perfettamente la forma e il contenuto della perdizione: In girum imus nocti et consumimur igni. Giriamo in tondo nella notte e sia consumati dal fuoco» [viii].
L’affermazione «la saggezza non verrà mai», anch’essa parte del finale di In girum, consiste proprio nell’impossibilità di uscire dal labirinto palindromico e insieme nella necessità di riorientarsi sempre di nuovo all’interno del labirinto. C’è in queste due affermazioni – «da riprendere dall’inizio» e «la saggezza non arriverà mai» – la stessa incertezza di cui parla von Clausewitz a proposito della guerra:
«in guerra si è sempre nell’incertezza sulla situazione reciproca delle due parti. Ci si deve abituare ad agire sempre secondo verosimiglianze generali, ed è un’illusione l’attesa di un momento in cui si sarebbe liberati da ogni ignoranza» [ix].
Incertezza che è sinonimo dell’infinitezza delle riprese del palindromo e dell’impossibilità di una saggezza che, intesa come assenza di ignoranza, non si darà mai come qualcosa che serva a orientare il movimento della deriva in cui consiste, per Debord, il girare nella notte, così come il fare film, così come l’azione politica e l’azione estetica.
2. Il rifiuto della saggezza è rifiuto stesso della memoria. A tal proposito è fondamentale affrontare un altro elemento dell’impresa debordiana e qui situazionista, ovvero il détournement. In un breve saggio dal titolo Istruzioni per l’uso del détournement, lo stratega francese rifiutando l’idea di citazione come quella di proprietà privata nel campo dell’opera d’arte, sostiene come:
«fra due elementi, anche di origine lontanissime tra di loro, si stabilisce sempre un rapporto. Attenersi all’ambito di un ordine personale delle parole dipende soltanto dalla convenzione. L’interferenza di due mondi sentimentali, la messa in presenza di due espressioni indipendenti, superano i loro momenti primitivi per dare un’organizzazione sintetica di efficacia superiore. Tutto può servire. Inutile dire che si può non solo correggere un’opera o integrare diversi frammenti di opere sorpassate in una nuova, ma anche cambiare il senso di tali frammenti e mascherare in tutte le maniere che si giudicheranno valide quelle che gli imbecilli si ostinano a chiamare citazioni» [x].
A tal proposito, il détournement non opera semplicemente per rovesciamento, ma conduce alla scoperta di nuovi aspetti rinvenibili dell’elemento oggetto di détournement. Ci troviamo di nuovo di fronte all’infinitezza: ogni elemento è potenzialmente «traducibile» in contesti del tutto diversi. Ogni détournement, come sostiene Giorgio Agamben, corrisponde a una sorta di dis-attivazione, di ri-apertura dell’atto alla potenza. Una potenza che a propria volta non rimane tale fluttuando nell’indeterminato ma appunto si ri-attualizza nei contesti sempre più diversi e sempre più impensabili per l’originale elemento «deturnato». Parlando del cinema come arte privilegiata per il détournement, Debord sostiene come «la maggior parte dei film meritano soltanto di essere smembrati per comporre altre opere»[xi]. Ma «l’idea-limite è che qualunque segno, qualunque vocabolo, è suscettibile di essere convertito in qualcos’altro, addirittura nel suo contrario» [xii] così come a livello della vita sociale «i gesti e le parole possono essere caricati di altri sensi» [xiii] e le stesse situazioni possono essere detournate «mutandone deliberatamente questa o quella condizione determinante» [xiv].
Per Debord, da ultimo il détournement altro non è che la negazione della negazione [xv]: un elemento viene negato, cioè estratto dal contesto di nascita, per essere riattualizzato, ripetuto e riaffermato (ovvero negato come negazione originaria) in un nuovo contesto.
Nel suo saggio dedicato al cinema in Guy Debord, Agamben viene sostenendo proprio come la ripetizione non sia il ritorno dell’identico ma il ridiventare possibile di ciò che è stato. La ripetizione restituisce la possibilità a ciò che è stato, lo rende nuovamente possibile: essa è questo «pendolo» che dis-attiva il reale in direzione di altre possibilità e contemporaneamente attualizza le possibilità in direzione di altro reale [xvi]. Per il filosofo italiano l’idea di creazione che ne deriva non è quella di una «nuova creazione» ma di una «de-creazione»:
«Deleuze ha detto una volta, a proposito del cinema, che ogni atto creativo è sempre un atto di resistenza. Ma cosa significa resistere? Significa innanzitutto avere la forza di de-creare ciò che esiste, di de-costruire il reale, di essere più forti del fatto irreparabile che ci sta di fronte. Ogni atto di creazione è anche un atto di pensiero, e ogni atto di pensiero è un atto creativo, perché il pensiero si definisce innanzitutto attraverso la sua capacità di de-creare il reale» [xvii].
Ma non solo, poiché acutamente Agamben sottolinea come la stessa idea di «situazione» è comprensibile alla luce di questa interpretazione del détournement. La situazione, infatti, è un luogo di indecidibilità tra unicità e ripetizione: essa è sempre singolare e unica, cioè priva di saggezza, ma allo stesso tempo si può ripetere all’infinito, anzi deve essere ripresa all’infinito [xviii]. Lo stesso palindromo per il filosofo italiano è «una frase che si avvolge su se stessa e può essere letta nei due sensi» [xix] ma, aggiungiamo noi, anche circolarmente: ogni progresso è una riapertura della potenza cui segue una nuova attualizzazione di questa potenza e così via all’infinito.
3. Quanto abbiamo fin qui sostenuto, ci serve per affermare che la partita che rende Debord così attuale per il nostro presente non è l’alternanza tra autenticità e inautenticità come poteva sembrare emergere da La società dello spettacolo, ma qualcosa di molto più radicale che ha a che fare piuttosto con i Commentari sulla società dello spettacolo.
Carlo Freccero, acuto interprete di Debord, nel suo pampleth L’idolo del capitalismo considerando il film Matrix come una metafora del mondo virtuale di oggi, propone l’idea secondo cui l’eroe non sarebbe più Neo, il messia chiamato a vincere il virtuale per riportare il mondo alla realtà materiale, ma Cypher, il traditore che vende i suoi compagni per ritornare nel ventre protettivo di Matrix e vivere ancora, con l’inconsapevolezza perduta, le gioie dello spettacolo [xx]. Altrove, Freccero per rafforzare la sua tesi sempre partendo da Matrix, viene sostenendo che la resistenza degli uomini contro le macchine altro non sia che una produzione delle macchine stesse [xxi]. In entrambi i casi l’autore ligure sostiene che l’attualità di Debord oggi non consta più nella sua capacità di preconizzare un presente consumistico, ma in quello aperto dal superamento della contrapposizione tra spettacolo diffuso e spettacolo concentrato, ovvero nella colonizzazione non solo delle vite ma anche dell’immaginario, dei sogni, delle aspirazioni e del ruolo simbolico che un tempo era stato delle rivoluzioni [xxii].
Così l’individuo, impoverito e segnato nel profondo da questo pensiero spettacolare più che da ogni altro elemento della sua formazione, si mette subito al servizio dell’ordine costituito, mentre la sua intenzione soggettiva poteva essere anche completamente contraria a tale risultato. Egli seguirà essenzialmente il linguaggio dello spettacolo poiché è l’unico a essergli familiare: quello in cui gli è stato insegnato a parlare. Magari vorrà mostrarsi nemico della sua retorica; ma userà la sua sintassi[xxiii].
Nello spettacolo integrato, infatti, lo spettacolo permea così tanto la realtà che essa stessa non gli sta più di fronte come qualcosa di estranea, ma si è mischiato a ogni realtà irradiandola. Detta in altro modo: il divenir mondo della falsificazione come divenir falsificazione del mondo è superato da una dimensione in cui non esiste più nulla, nella cultura e nella natura, che non sia stato trasformato. Lo spettacolo regna sovrano ovunque e la sua massima aspirazione è che gli agenti segreti diventino dei rivoluzionari e che i rivoluzionari diventino degli agenti segreti [xxiv].
Nella critica allo spettacolare integrato, Debord si riferisce all’assenza di memoria come al muoversi delle immagini sulla superficie dell’acqua in cui ogni immagine scaccia indefinitamente l’immagine successiva. L’assenza di memoria è il distacco e la dissoluzione di qualsiasi forma di storia che dia profondità a questa superficie [xxv]. Il fatto che all’interno di un’immagine si possa giustapporre senza contraddizione qualunque cosa fa sì che proprio il flusso delle immagini per un verso travolga tutto e per altro verso, analogamente, sia qualcun altro a scegliere dove andrà la corrente e anche il ritmo di ciò che dovrà manifestarsi in essa [xxvi].
L’autonomizzazione dello spettacolo, per Debord, non significa che ciò non avvenga per una deliberata manipolazione di un nemico come nel caso della disinformazione [xxvii]. Al contrario lo spettacolare integrato che, ricordiamolo contiene in sé il massimo dello spettacolare diffuso e dello spettacolare concentrato, è il sommo grado della manipolazione da divenire essa stessa invisibile nell’immagine. Se tutto è immagine anche la critica all’immagine è contenuta nell’immagine medesima come un suo aspetto; se il manipolatore è percepibile a livello dell’immagine, l’immagine stessa è un divenir manipolatrice. Il falso fa sparire volontariamente la possibilità di riferimento al vero. Non si tratta, però, solo del fatto che si preferisca la copia all’originale ma che il falsificatore si dia nell’immagine come oramai invisibile. La società dello schermo è dunque una società del segreto presente nello schermo stesso [xxviii].
Da questo punto di vista i Commentari sono un approfondimento di quanto era stato già presente in nuce ne La società dello spettacolo. Ivi, infatti, lo spettacolo altro non era che l’ultima proiezione della merce privata del suo valore intrinseco e ridotta a puro valore di scambio:
«Nelle società capitalistico-avanzate la produzione è sempre più produzione di immateriale. Il mondo reale si è trasformato in immagini, le immagini diventano reali» [xxix].
Ne consegue che per un verso la realtà sorge nello spettacolo e che lo spettacolo è reale [xxx], e per altro verso che lo spettacolo è il cuore dell’irrealismo della società reale [xxxi].
Nella riflessione debordiana è presente incessantemente, come abbiamo già fatto cenno, il riferimento alla cancellazione della storia come genesi delle reti di falsificazione [xxxii]. Tuttavia da quanto è emerso sin qui, è proprio ciò che caratterizza maggiormente la storia ovvero la prassi di trasformazione della realtà a essere impotente nei confronti della produzione dell’immateriale poiché è lo spettacolo a essere paralizzante [xxxiii]. Ma non solo, poiché oggi rispetto al primo livello dello di società spettacolare – giova ripeterlo – viviamo uno spostamento. Oggi l’idea di vivere solo esperienze solo virtuali è vista positivamente e lo spettacolo è l’unica merce richiesta dal mercato. Il compimento del processo di smaterializzazione della realtà sembra aver cambiato di segno l’immateriale: esso anziché con il regno dell’alienazione si identifica sempre più con il regno della libertà [xxxiv].
4. Per Giorgio Agamben, laddove lo spettacolo sembra essere invincibile e maggiormente espropriante si apre uno spazio che lo può portare al sovvertimento. Non accelerandone le dinamiche interne ma, come è tipico nella riflessione agambeniana, agendo per sottrazione da esso. Lo spettacolo, secondo il filosofo italiano, può tollerare ogni identità, anche quelle identità che gli si contrappongono, ma ciò che non può tollerare è che le identità che esso stesso ha svuotato di ogni contenuto rendendole singolarità qualunque agiscano al suo interno in maniera non dialetticamente contraddittoria ma fuoriuscendo dallo spettacolo stesso. Fuoriuscita che è sottrazione come affermazione di una irrappresentabilità. Che l’irrappresentabile esista e faccia comunità senza presupposti né condizioni di appartenenza è la minaccia con cui lo spettacolo non è disposto a venire a patti [xxxv].
Franco Berardi in un articolo uscito su «Liberazione» nel dicembre del 2004 e intitolato La premonizione di Guy Debord, sostiene come l’acutezza di Debord consistette nel vedere, in relazione alle istanze del ’68 verso una vita in cui la differenza prevalesse sulla ripetizione, che l’immaginazione si cristallizzò nei meccanismi automatici di un immaginario che rese la vita incapace di immaginare nulla che non fosse stato prodotto nel sistema globale omologato. Allo stesso tempo per Bifo fu proprio l’incapacità di agire nella costruzione di situazioni extrastoriche e l’attendersi dalla storia l’esito della rivoluzione come il realizzarsi di una totalità il limite del situazionismo e di Debord. Tutto ciò è sicuramente vero se restiamo al Debord che crede ancora nelle potenzialità di rovesciamento dialettico della storia. Tuttavia ci sembra altrettanto vero che lo stratega francese sia riuscito a enucleare partendo dalla sua critica allo spettacolo per come appare nei Commentari qualcosa di differente che non assomiglia a una negazione dialettica e va maggiormente in direzione di quel prevalere della frammentazione che prende il sopravvento nell’universo sociale della rete del semio-capitalismo. Ci riferiamo a Il gioco della guerra e al détournement. L’uno, come abbiamo già intravisto, è uno spazio in cui i movimenti che animano quella che è a tutti gli effetti una lotta sono sempre movimenti assolutamente singolari che tracciano traiettorie segnate sempre dalla finitezza spazio-temporale. L’altro è un’operazione anch’essa non misurabile una volta per tutte, ma sempre aperta a essere modificata negli infiniti movimenti singolari che viene a configurare.
5. La peculiarità dell’antagonismo debordiano consiste a nostro avviso prima di tutto nell’aver saputo vedere con radicalità assoluta la struttura di uno spettacolo che contiene al suo interno anche le istanze più a esso contrarie e ad aver posto profondamente la necessità del passaggio attraverso l’irrappresentabilità quale unica forma possibile di fuoriuscita rispetto al potere totalizzante dell’immagine spettacolare.
Sostenere che il Kriegespiel sia la metafora della lotta contro la società dello spettacolo, significa affermare che l’irrappresentabile può darsi non solo nei termini che sopra abbiamo visto riferendoci ad Agamben, ma anche in quel particolare gioco in cui la strategia rende impossibile determinare in maniera univoca i movimenti dei giocatori, i quali a propria volta si costituiscono come tale proprio nell’atto di giocare. Il fatto che fuori dal gioco il giocatore non esista, significa che fuori dalla strategia lo stratega – ovvero per Debord il soggetto stesso – non esiste. L’antagonismo debordiano è, dunque, tutto un gioco di mosse e contromosse, di traiettorie e cambiamenti di direzione, movimenti e attese. Si tratta di giocare sul piano dell’immagine spettacolare stessa, senza ricercarvi un fondo o una possibile autenticità di contro alla falsificazione spettacolare ma, assumendo che la spettacolarizzazione del reale è un dato assodato, perseguire l’unica possibilità che è data ovvero quella di muoversi sulla superficie di immagini che volano via l’una dappresso all’altra e «giocarle» le une contro le altre. Se nello spettacolo tutto è immagine è necessario affermare allo stesso tempo che è in queste immagini che è presente ciò che può agire contro di esse, sia per via sottrattiva come abbiamo visto in Agamben nella fondazione di una comunità di singolarità irrappresentabili, che per quella via secondo cui è lo spettacolo che viene agito contro se stesso nella determinazione di una situazione come sostiene Berardi.
Il modo in cui mettere lo spettacolo contro se stesso è quello di «deturnarlo», di agire deturnandone gli elementi. Il détournement è, dunque, il secondo momento del gioco. Se il primo, infatti, è la strategia ovvero la determinazione di un fine particolare – e non generale, poiché la guerra contro lo spettacolo si vince non in una battaglia campale ma in una guerriglia che ne colpisce obbiettivi di volta in volta differenti –, il secondo è proprio il détournement che fa proprio agire le immagini spettacolari contro loro stesse mettendo in luce relazioni tra elementi impensati, contraddittori, contrari, irrelati. Il détournemet entra quindi nella categoria della produzione come inversione di senso rispetto a materiali che da limitati si aprono a molteplici nuovi utilizzi. Esso crea dei «buchi» all’interno del piano fluido dello spettacolo integrato e in questo crea delle «linee di fuga» che possano cortocircuitarne la concentrazione mediale e farlo perdere nei labirinti insolubili dei palindromi. Come per Walter Benjamin che pensava di realizzare solo di citazioni, così per Guy Debord il desiderio non troppo inconfessato è quello di costruire opere non di citazioni, che come abbiamo visto sono l’esatto contrario della logica del détournement, ma fatte componendo elementi deturnati. Anche in questo caso, l’elemento soggetto a détournement può sfuggire a un riassorbimento nello spettacolo perché la propria consistenza determinandosi solo all’interno dell’atto del détournement si fa, ancora una volta, irrappresentabile e quindi sfuggente alle prese totalizzanti spettacolari.
Resta la questione aperta da Franco Berardi sul rapporto tra immaginazione e immaginario. Il problema è amplissimo e, a livello del pensiero di Debord, meriterebbe una ricerca a parte. A noi sembra che in questo cercare di fare giocare lo spettacolo contro se stesso a partire da un legame originario con la falsificazione spettacolare, Debord abbia visto tra i primi la condizione di quella possibile liberazione che è inscritta nelle relazioni tra semio-capitalismo e lavoratori immateriali. Il punto dell’antagonismo debordiano sotto questo aspetto, perciò, non consisterà tanto nel riattivare l’immaginazione contro l’immaginario, ma nel fare esplodere lo spettacolo dal di dentro secondo le tattiche che abbiamo testé visto.
Alla domanda se anche questo tentavo di esplosione dello spettacolo non sia una strategia dello spettacolo stesso per rinascere dalle proprie ceneri più forte di prima e se, soprattutto, sia proprio l’immaginario dei soggetti che vogliono far esplodere lo spettacolo ad agire in quella direzione, crediamo che solo la rischiosa messa in gioco della propria esistenza nella militanza di una lotta estrema combattuta contro lo spettacolo possa dare una risposta.
Nel finale del film di Quentin Tarantino Bastardi senza gloria in cui per uccidere gli alti gradi dell’esercito tedesco compreso Hitler convenuti in un piccolo cinema parigino alla prima di un film celebrante il coraggio di un militare nazista in battaglia, la proprietaria Shoshanna – una giovane ebrea scampata al massacro della propria famiglia a opera delle Ss – decide con il compagno Marcel di bruciare insieme ai nazisti appiccando un incendio con le pellicole dei film in suo possesso. La cosa interessante è che Shoshanna si «monta» in uno dei rulli del film nazista e celebra la sua vendetta simbolica apparendo sullo schermo di fronte ai tedeschi ormai destinati a morire mentre nella cabina di regia muore «realmente» prima di poter vedere la propria morte simbolica sullo schermo, uccisa dall’attore del film nazista che veniva proiettato.
Con le parole di Baudrillard ne Lo scambio simbolico e la morte, sfidare il sistema con un dono cui il soggetto non possa rispondere se non con la propria morte è il crollo del sistema stesso [xxxvi]. Il filosofo francese ha qui in mente il contro dono al dar-morte del sistema che consiste nell’offrire la propria morte come morte violenta [xxxvii]. Se infatti, da ultimo, il lavoro è una morte che permette al padrone di schiavizzare sempre di nuovo il lavoratore, l’ingresso del salario permette di vincolare ancor più strettamente il lavoratore che da servo si fa lavoratore salariato. Rifiutare il lavoro significa rifiutare questa dominazione simbolica [xxxviii], prendere il potere può rischiare simbolicamente di restituire alle logiche del potere ciò che è stato presuntamente liberato. Resta il fatto che solo restituendo al potere ciò che esso non può tollerare, ovvero la morte [xxxix], è possibile quella rottura del piano simbolico su cui si fonda anche il potere spettacolare.
Questo offrire la morte, che è un’altra modalità per parlare della propria scomparsa, o meglio assenza [xl], può essere letto in termini debordiani proprio come l’impossibilità di un ritorno o di una riconciliazione [xli] – e siamo ritornati palindromicamente alla citazione con cui abbiamo aperto questo testo – e insieme la necessità di criticare, correggere e biasimare non solo come richiamo allo spirito critico [xlii] ma come radicale accettazione che tutto sia sempre da riformulare, riprodurre, rifare: nella formula di Debord, da riprendere dall’inizio, senza che nessuna saggezza possa garantire gli esiti di questa ripresa come appare dalle ultime immagini di In girum che mostrano una barca che superate le ultime case sbocca in una grande distesa d’acqua deserta [xliii], metafora di un viaggio senza ritorno.
Note
[i] G. Debord, Opere cinematografiche, Bompiani, Milano 2004, p. 197.
[ii] Su questo si veda M. Wark, The Spectacle of Disintegration: Situationist Passages out of the Twentieth, Verso, London-New York, 2013, p. 178.
[iii] A. Becker-Ho – G. Debord, Il gioco della guerra, Giometti&Antonello, Macerata 2019, p. 143.
[iv] Ivi, p. 142.
[v] Ivi, p. 146.
[vi] Cfr. Wark, The Spectacle of Disintegration, cit., p. 176.
[vii] Debord, Opere cinematografiche, cit. p. 213.
[viii] Ivi, p. 168.
[ix] Ivi, pp. 184-185.
[x] Ivi, p. 216.
[xi] Ivi, p. 222.
[xii] Ivi, pp. 223-224.
[xiii] Ivi, p. 223.
[xiv] Ivi, p. 224.
[xv] Ivi, p. 215.
[xvi] Cfr. G. Agamben, Il cinema di Guy Debord, in Guy Debord (contro) il cinema, a cura di E. Ghezzi e R. Turigliatto, Il Castoro/La Biennale di Venezia, p. 105. Il testo di Agamben mette in relazione il cinema di Debord con il pensiero messianico sull’immagine di Walter Benjamin. Cfr. soprattutto ivi, p. 107.
[xvii] Ivi, pp. 106-107.
[xviii] Cf Ivi, p. 106.
[xix] Ibidem.
[xx] Cfr. C. Freccero, L’idolo del capitalismo, Castelvecchi, Roma 2016, p. 42.
[xxi] Il riferimento è a G. Debord, Commentari sulla società dello spettacolo, in G. Debord, La società dello spettacolo, Baldini&Castoldi, Milano 1997, § 3 in cui Debord sostiene come la critica allo spettacolo sia mossa dallo stesso spettacolo e, per fare un altro esempio § 10, in cui lo stratega francese afferma che dato che nessuno può contraddirlo, lo spettacolo ha il diritto di contraddirsi da solo e di rettificare di volta in volta arbitrariamente il proprio passato.
[xxii] Cfr. Freccero, L’idolo del capitalismo, cit., pp. 26, 43.
[xxiii] Debord, Commentari sulla società dello spettacolo, cit., § 11.
[xxiv] Cfr. ivi, § 4.
[xxv] Cfr. ivi, § 6.
[xxvi] Cfr. ivi, § 10.
[xxvii] Cfr. ivi, § 16.
[xxviii] Cfr. ivi, §§ 18, 21.
[xxix] Cfr. Freccero, L’idolo del capitalismo, cit., p. 37.
[xxx] Cfr. Debord, La società dello spettacolo, cit., § 8.
[xxxi] Cfr. ivi, § 6.
[xxxii] Cfr. Debord, Commentari sulla società dello spettacolo, § 27.
[xxxiii] Cfr. Freccero, L’idolo del capitalismo, pp. 38-39.
[xxxiv] Cfr. ivi, p. 42.
[xxxv] Cfr. G. Agamben, Violenza e speranza nell’ultimo spettacolo, in AA.VV. I situazionisti, Manifestolibri, Roma 1991, pp. 11-17.
[xxxvi] Cfr. J. Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano 1979, p. 53.
[xxxvii] Cfr. ivi, p. 60.
[xxxviii] Cfr. ivi, p. 57.
[xxxix] Cfr. ivi, p. 60.
[xl] Cfr. Debord, Opere cinematografiche, cit., p. 9.
[xli] Cfr. ivi, p. 197.
[xlii] Cfr. Debord, Commentari sulla società dello spettacolo, cit., § 10.
[xliii] Cfr. Debord, Opere cinematografiche, cit., p. 197.
FONTE: https://www.sinistrainrete.info/filosofia/20906-gabriele-fadini-lo-stratega-contro.html
La metafisica del Caos e il Soggetto Radicale di Aleksandr Dugin (2a parte)
(P. Paolo M. Siano) Nella scorsa puntata ho illustrato alcuni elementi della premessa del Dr. Andrea Virga (“Comprendere Dugin”, pp. XV-LXXIV) contenuta nella prima edizione italiana (da lui curata) del libro del Prof. Aleksandr Dugin “La Quarta Teoria Politica”, NovaEuropa Edizioni, Milano 2017. Virga spiega chiaramente che il pensiero di Dugin è essenzialmente «gnostico» ed è improntato alla «Via della Mano Sinistra» già teorizzata e praticata dal barone Julius Evola a cui Dugin si ispira (qui).
Quel libro di Dugin, attualmente esaurito presso NovaEuropa Edizioni (qui), nel 2019 ha avuto una nuova edizione con Aspis Edizioni e la prefazione di Luca Siniscalco (qui), ma senza la suddetta premessa del Dr. Virga.
Ora vediamo alcuni contenuti del libro di Aleksandr Dugin “La Quarta Teoria Politica” secondo l’edizione di NovaEuropa Edizioni del 2017. Evidenzierò in grassetto quei concetti e brani che ritengo più importanti.
Cominciamo dal titolo del libro. Secondo Dugin la Russia ha bisogno di quella che egli chiama «la Quarta Teoria Politica» (cf. pp. 5-6). Le tre precedenti teorie politiche sono: liberalismo, comunismo, fascismo (cf. pp. 8-10). La Quarta Teoria Politica permette di trascendere ateismo e religioni monoteiste, teologie e dogmi, e recuperare «quegli aspetti irrazionali dei culti, riti e leggende che hanno lasciato perplessi i teologi nelle epoche passate» (cf. pp. 25-26).
Secondo Dugin la vita è «collegata all’eterno ritorno» (p. 82)… Apollo e Dioniso, il luminoso e l’oscuro, modernizzazione e declino, sono opposti ma anche «complementari», insomma non c’è l’uno senza l’altro (cf. p. 83). Dugin aggiunge: «Non c’è vita senza morte. L’Essere per la morte, l’attenzione, la cura per la morte, che è l’altra faccia della totalità dell’Essere, come scrive Heidegger, non è in conflitto con la vita ma, piuttosto, la sua glorificazione e il suo fondamento» (p. 83).
Come vedremo, l’unione degli opposti (Vita-Morte, Caos-Logos, Destra-Sinistra…) è essenziale nell’impianto metafisico e politico di Dugin.
* * *
A proposito di «tradizionalismo» inteso quale forma di «conservatorismo» che rigetta «in toto» tutto il sistema, Dugin cita anche Evola (cf. pp. 114-116).
Dugin parla di un tipo di conservatorismo, «il più interessante» (p. 127), chiamato «Rivoluzione Conservatrice». Anche qui si intravede la dialettica-necessità degli opposti.
In sintesi: «i Conservatori devono guidare la Rivoluzione», i «rivoluzionari conservatori» comprendono che la fede in Dio, le forme religiose e sacrali, hanno al loro interno «un certo elemento di decadimento», e «nella stessa Divinità» c’è «l’intenzione di inscenare questa dramma escatologico» (cf. pp. 128-129).
Dugin sta forse suggerendo (come gli Gnostici) che Dio sia autore del Male o che il Male sia anche in Dio?
Secondo Dugin i «rivoluzionari conservatori» non vogliono «ritornare al passato, come i tradizionalisti», ma vogliono «abolire il tempo come qualità distruttiva della realtà, e, facendolo, realizzare una sorta di intenzione segreta, parallela, non-evidente della Divinità stessa» (p. 130). Dunque, stando alle parole di Dugin, i rivoluzionari conservatori hanno una sorta di conoscenza (o gnosi?) dell’«intenzione segreta» di Dio e vogliono realizzarla…
Dugin spiega che i «rivoluzionari conservatori» vogliono trascinare l’attualità o post-modernità alla sua stessa fine (cf. pp. 131-132) e il finale sarà «molto spiacevole per gli spettatori e gli attori» (p. 132). Dugin afferma che «in questa logica» operava un gruppo di surrealisti-dadaisti che elogiarono e praticarono il loro suicidio. Dugin ricorda a tal proposito il personaggio Kirillov di “Demoni” di Dostoevskjy, per il quale il suicidio era espressione di libertà conseguente alla morte di Dio (cf. pp. 132-133).
Dugin racconta che in Russia il comico Sasha Cekalo, spesso volgare e osceno, organizzò una performance dinanzi a un pubblico numeroso di moscoviti, ma ad un tratto giunsero «alcuni terroristi ceceni». All’inizio il pubblico credette che fossero parte dello spettacolo, poi «con orrore» comprese la terribile realtà e iniziò «la vera tragedia, il vero incubo» (cf. p. 133). Ecco il commento di Dugin: «I rivoluzionari conservatori si presentano in modo simile: lasciamo che la buffoneria della postmodernità si dispieghi, lasciamo che consumi i paradigmi dell’ego, del super-ego e del logos, lasciamo che si fonda con il rizoma, le schizo-masse e la coscienza frammentata, lasciamo che il nulla porti con sé la sostanza del mondo. Allora si apriranno porte segrete che erano celate, e gli archetipi antichi, eterni, ontologici verranno in superficie e porranno fine al gioco, terribilmente» (p. 133).
Rammento ai lettori, come ha scritto Andrea Virga nella sua premessa a “La Quarta Teoria Politica”, che la «Rivoluzione Conservatrice» è una delle «principali coordinate» del pensiero di Dugin (cf. p. XXXV).
Ancora a proposito di dissoluzione, Dugin elenca elementi centrali della «Nuova Sinistra»: «il rifiuto della ragione (l’invito ad abbracciare consapevolmente la schizofrenia di Deleuze e Guattari); la rinuncia dell’uomo come misura di tutte le cose (“La morte dell’uomo” di Levi, “la morte dell’autore” di Barthes); il superamento di tutti i tabù sessuali (libertà di scegliere il proprio orientamento sessuale, rinuncia a proibire l’incesto, rifiuto di riconoscere la perversione come tale, e così via); la legalizzazione di ogni genere di droga, comprese quelle “pesanti”;[…] la distruzione della società strutturata e del governo al servizio di nuove, libere e anarchiche forme di comunità» (pp. 188-189).
Mi chiedo: secondo Dugin tutta questa dissoluzione è necessaria alla discesa/ritorno nel Caos e alla manifestazione del Soggetto Radicale conditio sine qua non per la Nuova Era o Nuovo Ciclo? Il Soggetto Radicale accompagna, favorisce, accelera tale dissoluzione? Se la risposta è sì, allora ha ragione il Prof. de Mattei a vedere in Soros e Dugin due facce della stessa medaglia (qui) in quanto Soros (ciò che Soros vuole e ciò che rappresenta) assurgerebbe ad elemento necessario e preparatorio al manifestarsi del Soggetto Radicale di Dugin…
Più avanti, dopo aver accennato alla «follia» («tutte le forme di trasgressione intellettuale, la pratica della pazzia volontaria, da Friedrich Holderlin e Nietzsche a Bataille e Artaud»: p. 270), Dugin afferma: «La follia è parte dell’arsenale di genere della Quarta Teoria Politica» (p. 271).
E poi c’è l’androgino: «Il genere nella Quarta Teoria Politica è lo stesso del sesso nel Dasein, ossia abbiamo spiegato un oggetto sconosciuto con un altro oggetto sconosciuto. Il Dasein può, in qualche modo, essere sessualizzato, ma il suo sesso non può essere né maschile né femminile. Potrebbe aver senso parlarne in termini di “androgino”. Dovremmo dire che la Quarta Teoria Politica si rivolge all’essere androgino, e il suo genere è l’androgino? Forse, ma solo se è possibile non proiettare sull’androgino l’ovvio schema dei due sessi come metà di un tutto» (p. 272).
Dugin concepisce l’androgino «come qualcosa di radicato o radicale» e «autosufficiente» (cf. p. 272), dunque l’«androgino radicale» «che esiste non come risultato della combinazione dell’uomo e della donna, ma rappresenta invece l’unità primordiale, pura, illibata» (p. 273).
Dugin afferma che l’Uomo della Quarta Teoria Politica (4TP) deve essere: «Non adulto», «Non bianco», «Contadino», «Spericolato» ossia trasgressivo anche come l’ “Acefalo” di Georges Bataille (cf. pp. 312-313).
L’Uomo della 4TP è «non “uomo”» («è non-umano», «al di fuori dei paradigmi che definiscono regole e fila»), è «Soggetto Radicale» (p. 314), è «androgino». Cito testualmente circa il Soggetto Radicale: «È un androgino o no? Perché no… Un androgino è un essere umano alla radice, prima dell’essere umano sessuato e il suo radicalismo è in esso, significando il suo appartenere alle radici. Stavamo parlando di ciò a un seminario che riguardava la Quarta Teoria Politica. E ci siamo approcciati al tema della zona unusuale dove pratica e teoria coincidono addirittura senza distinguersi. Il Caos precede le strutture duali dell’ordine allo stesso modo. Il Soggetto Radicale nel senso del genere precede la differenziazione tra maschio e femmina ma non esiste un prodotto del loro congiungersi. Li precede ma non seguono. Possiamo definire il sesso del Soggetto Radicale – genere radicale» (pp. 314-315).
E dall’androgino all’angelo… : «Nello spirito dell’angelomorfismo dell’antropologia politica della Quarta Teoria Politica possiamo descrivere il sesso del soggetto di questa come il sesso degli angeli. Il sesso può a tempo debito stabilirsi nel desiderio (di mascolinità) dei Bene Elohim sedotti dalla bellezza delle figlie dell’uomo o può essere presentato come un’androide femmina – “ninfa della stella polare” da Cyliani, Atalanta Fugiens o Beatrice» (p. 315).
Dugin vede nell’Epoca Postmoderna la «tendenza neomarxista» che legittima i «codici omosessuale e transgenere» e, all’interno dell’«ultraliberalismo», «il nazi-satanismo sadomaso schizoide» che si rifà anche a Aleister Crowley e include «i club gay» (cf. pp. 316-317). Il Soggetto Radicale della 4TP vedrà questo panorama esplodere in una «escatologia non duale» come ad esempio quella descritta nel Kalki Purana induista (cf. pp. 317-318). E Kalki è il Distruttore! (qui).
Dovrebbe essere chiaro che l’apocalisse duginiana non è l’Apocalisse biblica (sebbene sembri richiamarvisi) ma in realtà si ispira alla ciclicità della Gnosi induista ed evoliana.
Passiamo al saggio La Metafisica del Caos che nell’edizione italiana di La Quarta Teoria Politica (Nova Europa 2017), risulta “Appendice D” (pp. 329-340).
La riassumo.
La filosofia europea, occidentale, si regge sul concetto di «logos», sull’«ordine logico dell’essere», un «modo di pensare logocentrico», che è in crisi. Sin dal XIX secolo «i più brillanti filosofi europei (come Friedrich Nietzsche e Martin Heidegger)» hanno intuito che il logos va verso la sua fine… L’ordine logocentrico è di impronta maschile, patriarcale, autoritaria, verticale (cf. p. 329). Questo pensiero è incentrato sulla «“Logica” di Aristotele, in cui i principi di identità ed esclusione sono al centro di una riflessione che ha un carattere normativo» (p. 330). Dugin afferma che «oggi» questa filosofia [dunque i suoi principi di identità, di non-contraddizione, ecc.] «è giunta alla fine» (p. 330). Dobbiamo allora avvicinarci al Caos, che non è la confusione postmoderna, ma è «situazione preesistente all’ordine» (p. 332). Il logos, ormai al tramonto, è «esclusivo ed escludente», è mascolino, invece il Caos è «femminino» (pp. 333-334). Dugin afferma che «il logos non ci può salvare da quella situazione che egli stesso origina. Il logos non ci serve più, ora. Solo il caos pre-ontologico può darci un indizio su come superare la trappola della postmodernità» (p. 336).
Secondo Dugin per salvarci dobbiamo abbandonare il logos, «la cultura logocentrica», e andare «verso il caos» (cf. p. 337). Mentre il logos esclude ciò che non è logos, il caos è onni-inclusivo, include anche il logos, il logos è nel caos, il caos ha in sé il logos come la donna ha in sé il bambino da partorire… (cf. pp. 337-338). «Il caos è l’eterna natività dell’Altro, ossia del logos» (p. 338). Il logos zampilla dal caos, è ravvivato dal caos, dunque è «il logos caotico» (p. 338).
«Il caos può pensare. Dovremmo chiederle come fa. L’abbiamo chiesto al logos, ora è il turno del caos. Dobbiamo imparare a pensare con il caos e dentro il caos» (p. 338).
«Dovremmo esplorare altre culture, piuttosto che quella occidentale, per cercare di trovare esempi diversi di filosofie inclusive, di religioni inclusive, e così via. Il logos caotico non è solo un concetto astratto. Se cerchiamo con attenzione, possiamo trovare le forme concrete di una simile tradizione intellettuale in alcune società arcaiche, oltre che nella teologia orientale e in alcune correnti mistiche» (pp. 338-339).
Secondo Dugin «il caos è eterno», è sorgente di ogni invenzione… il logos non può esserci senza caos, muore come un pesce fuori dall’acqua (cf. p. 339).
«L’era astronomica che sta giungendo al termine è l’era dei Pesci, della costellazione dei Pesci» (p. 339).
Dugin si sta riferendo alla credenza New Age del passaggio dall’Era dei Pesci all’Era dell’Acquario?
Ancora Dugin: «Solo il caos e la filosofia alternativa basata sull’inclusività può salvare l’umanità e il mondo dalle conseguenze del degrado e del decadimento del principio esclusivistico che è il logos. Il logos è ormai giunto a scadenza, e resteremo tutti seppelliti tra le sue rovine se non facciamo appello al caos e ai suoi principi metafisici, e li usiamo come base per qualcosa di nuovo» (p. 340).
Non è difficile comprendere che la metafisica duginiana inneggiante al Caos («femmino») è davvero gnostica, rovescia il Logos (la Ragione), l’Uomo (non solo quello occidentale) e la Provvidenza di Dio. (continua)
1 PARTE: https://www.corrispondenzaromana.it/la-metafisica-del-caos-e-il-soggetto-radicale-di-aleksandr-dugin-1a-parte/
FONTE: https://www.corrispondenzaromana.it/la-metafisica-del-caos-e-il-soggetto-radicale-di-aleksandr-dugin-2a-parte/
CYBERWAR SPIONAGGIO INFORMAZIONE DISINFORMAZIONE
Twitter sospende giornalista scientifico dopo aver pubblicato i risultati di test clinici Pfizer sui vaccini
I social network come luogo libero e neutro dove è possibile il confronto delle idee? No. La realtà è ben diversa. I social sono ormai divenuti luoghi dove è ammesso solo il pensiero unico dominante, e vige la censura più ferrea nei confronti di ogni voce dissonante. Finanche il dubbio pare non sia più ammesso. Gli episodi sono ormai innumerevoli e quasi all’ordine del giorno.
L’ultimo caso è quello riguardante la censura subita da un ex giornalista scientifico del New York Times, Alex Berenson, sospeso per aver semplicemente citato i risultati di uno studio clinico di Pfizer e sollevato dubbi sull’introduzione dell’obbligo vaccinale. Al contempo la Casa Bianca ha accusato sia il Washington Post che il New York Times di reportage irresponsabili sul Covid, ma sorprendentemente Twitter non ha sospeso quegli account. È la licenza del censore. Twitter non è disposto a consentire alle persone di leggere o discutere punti di vista con cui non è d’accordo come azienda.
Scrive Jonathan Turley: «Ho poca capacità di giudicare la scienza su tali questioni. Tuttavia, accolgo con favore il dibattito. Tuttavia, piuttosto che rispondere a tali critiche e confutare le loro argomentazioni, molte persone si concentrano sul mettere a tacere chiunque abbia punti di vista dissenzienti come Berenson.
Berenson è stato effettivamente confinato a Substack da Big Tech a causa delle sue opinioni discordanti sulla scienza attorno al Covid-19. Il suo ultimo reato contro Big Tech è arrivato quando ha pubblicato i risultati pubblicati da Pfizer dei propri dati clinici. Ha affermato che la ricerca ha mostrato poca differenza tra quelli nella sperimentazione con un vaccino e quelli a cui è stato somministrato un placebo».
Come abbiamo visto Berenson è stato censurato da Twitter mentre i due quotidiani smentiti e accusati di disinformazione dalla Casa Bianca non hanno subito alcun provvedimento da parte del social network.
«Ora tutti e tre i post (Berenson, The Post e The Times) citavano studi e sono accusati di di non averli contestualizzati. Tuttavia, solo Berenson è stato sospeso.
Ovviamente – continua Turley – nessuno di questi post dovrebbe essere sospeso e Twitter non dovrebbe imporre uno dei più grandi programmi di censura della storia. Tuttavia, il silenzio dei sostenitori della libertà di parola, accademici e giornalisti di fronte a questa ipocrisia è assordante».
La censura operata dai social network è sostenuta dal governo statunitense con l’amministrazione Biden che regolarmente «segnala il materiale da censurare a Facebook».
FONTE: https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-twitter_sospende_giornalista_scientifico_dopo_aver_pubblicato_i_risultati_di_test_clinici_pfizer_sui_vaccini/38822_42521/
Perché la Russia ha multato Google
Google condannata in Russia per violazione della legge su dati. Che cosa è successo
La Russia ha comminato a Google una multa di 34.500 euro per non aver archiviato i dati degli utenti russi nel Paese.
È la prima volta che il colosso americano viene condannato nel Paese per tale ragione.
In particolare il tribunale di Mosca ha dichiarato Google colpevole di violazione della legge sull’archiviazione dei dati. Pertanto, la società dovrà pagare una multa di tre milioni di rubli (circa 34.500 euro al tasso attuale), ha detto un portavoce del tribunale all’agenzia pubblica Ria Novosti.
Il governo russo ha cercato di rafforzare il controllo sul segmento russo del web e di sviluppare una cosiddetta “internet sovrana“. Dal 2014 la legge russa obbliga le imprese del web a stoccare i dati dei loro utenti russi in Russia.
Tutti i dettagli.
LA MULTA INFLITTA DALLA RUSSIA A GOOGLE
Giovedì il tribunale distrettuale di Tagansky di Mosca ha dichiarato Google colpevole di violazione delle leggi sulla localizzazione dei dati, imponendo una multa di 3 milioni di rubli. La multa massima prevista per un caso simile è pari a sei milioni di rubli.
LA PRIMA VOLTA PER BIG G PER QUESTA RAGIONE
Questa è la prima volta che l’azienda statunitense è condannata per aver violato la controversa legge approvata nel 2014. Quest’ultima prevede la conservazione dei dati personali degli utenti russi all’interno della Russia.
L’anno scorso Mosca ha condannato per lo stesso motivo Facebook e Twitter. A differenza del sito web di networking Linkedin, bloccato dalla Russia dopo aver rifiutato di trasferire i dati degli utenti russi.
I GUAI RUSSI DI TWITTER, FACEBOOK & CO
Negli ultimi mesi, la Russia ha avviato azioni legali contro le società tecnologiche straniere, in particolare i social network, per non aver eliminato i contenuti su richiesta dell’autorità di vigilanza statale dei media.
I critici del Cremlino affermano che il governo Usa il pretesto di proteggere i minori e combattere l’estremismo per rimuovere i contenuti legati all’opposizione, che si basa in gran parte online.
Facebook e Google sono state multate per non aver rimosso i contenuti illegali, mentre Twitter ha visto i suoi servizi strozzati dal regolatore dei media del governo russo all’inizio di quest’anno. L’authority ha anche minacciato di vietare completamente Twitter se il contenuto considerato illecito non fosse stato rimosso.
FONTE: https://www.startmag.it/innovazione/perche-la-russia-ha-multato-google/
Regione Lazio e portale vaccini altro (che) attacco hacker!
Il problema maggiore adesso sembra essere la gestione dell’incidente
La notizia diramata su Twitter e Facebook dell’attacco hacker al CED della Regione Lazio, che ha bloccato il portale di prenotazione vaccini, e disattivato tutti i sistemi, “compresi tutti quelli del portale Salute Lazio e della rete vaccinale”, lascia non poco basiti per un ampio novero di motivi.
Certo, un ransomware è pur sempre un ransomware, e un cryptolocker comporta l’effetto devastante di bloccare dei sistemi informatici, ma è possibile che la reazione all’evento di un “potente attacco hacker” (che non può essere una wild card da giocare per evitare ogni responsabilità) è stata il comunicare “Ci scusiamo per il disagio indipendente dalla nostra volontà.”?
Insomma: altro che attacco hacker, il problema maggiore adesso sembra essere la gestione dell’incidente.
Per chi non è di memoria corta alcune considerazioni vengono spontanee. La prima: stiamo considerando i servizi di un sistema software che è rimasto privo di marcatura CE, presidio che avrebbe ben potuto tutelare i cittadini da questo incidente. La seconda: forse quel server rientra nel novero di quel 95% di quelli dichiarati dallo stesso Ministro Colao come “non sicuri”? La terza: possibile che ogni volta che ci sia un tilt dei sistemi informatici della PA l’annuncio si limiti a parlare di un – stavolta potente – “attacco hacker”?
E infine: dove sono gli elementi necessari a comporre una valida comunicazione nei confronti degli interessati richiesta dall’art. 34 GDPR dal momento che è indubbio che vi sia stato un data breach con (almeno) una temporanea perdita di disponibilità dei dati? Certo, si spera non sia presa come esempio quella del Ministero della Giustizia relativa al data breach dell’esame di avvocato.
Al di là del profilo comunicativo e di gestione dell’incidente relativo ad un’infrastruttura critica, preso atto che stavolta il tilt non è dovuto dalla troppa “ansia da F5”, il problema appare ricorrente e porta sempre agli stessi interrogativi: lo scenario non era assolutamente prevedibile? Il piano di ripristino di emergenza porterà ad un approccio di tipo lesson learned onde evitare il ripetersi di tali evenienze?
Ad esempio: qualora si accerti che il ransomware derivi da un improvvido clic (su link o allegato di un’e-mail) da parte di un operatore, saranno oggetto di riesame e implementazione le politiche e le misure di formazione e sensibilizzazione del personale così da ridurre i rischi derivanti dal fattore umano?
Viene da chiedersi se infine saranno individuate delle responsabilità al fine di programmare una strategia di miglioramento o tutto sarà immobile e destinato a ripetersi. Certamente, già sentir svilire via canali social istituzionali l’accaduto ad un disservizio non fa ben sperare.
FONTE: https://www.infosec.news/2021/08/01/news/sicurezza-digitale/regione-lazio-e-portale-vaccini-altro-che-attacco-hacker/
ECONOMIA
Vaccini, big pharma non certo missionari: in Ue prezzi in aumento del 25%
BioNTech aumenta i ricavi di 73 volte e Pfizer di 6 miliardi
di Daniele Rosa – Lunedì, 2 agosto 2021
Per chi non lo avesse ancora capito Big Pharma non è un comparto costituito di missionari. Lo si è capito dal loro modo di operare in occasione del Coronavirus. In piena pandemia, ad esempio, le multinazionali del farmaco non hanno nemmeno preso in considerazione l’idea di “prestare” a tempo le licenze per permettere ad altri di fabbricare i vaccini così da poter gestire il drammatico fabbisogno dei grandi paesi poveri come India, Brasile e Sudafrica.
Lo si è capito anche quando hanno fatto arrivare le dosi con il contagocce, molto spesso non rispettando i contratti in essere, non con un singolo cliente ma con tutta l’Europa.
E lo si è capito pure quando, per bocca dei loro Ceo, hanno detto che ci sarebbe stato bisogno di una terza dose, quando ancora la comunità scientifica non si era espressa su questa eventualità.
E adesso, come ultima dimostrazione di sano egoismo, lo stanno ancora dimostrando con i prezzi.
Infatti, dopo aver sviluppato la ricerca sui vaccini con lo stragrande sostegno economico di Stati Uniti per quanto riguarda Moderna, Pfizer, Johnson & Johnson e dell’Europa per Astra Zeneca adesso le grandi multinazionali del farmaco alzano la posta.
Nel secondo giro di contratti di riserva preparati per l’Europa i prezzi dei vaccini contro il Covid-19, secondo l’autorevole Financial Times, sono aumentati fino al 25% . Le dosi di Pfizer e BioNTech sono passate da 15 euro a 19,50, mentre quelle di Moderna, da 19 a 21 euro.
Entrambi i prodotti utilizzano la tecnologia dell’RNA messaggero, affermata nell’Unione Europea come la migliore rispetto ad altri. Altri come AstraZeneca (venduto a due euro) o Janssen ( 8,4 euro) non verranno presi in considerazione per il prossimo futuro.
L’aumento, guarda caso, è coinciso con il dibattito aperto dai numeri uno delle aziende, sulla necessità o meno di iniettare una terza dose di richiamo.
Il nuovo costo del contratto tra l’Europa e Pfizer/Biontech era stato scovato dal Financial Times che sembra essere riuscito a vedere parti del nuovo contratto che impegnerebbe le aziende a fornire tra il 2021 e il 2023 quasi 2 miliardi di dosi con un aumento del 25% rispetto ai primi accordi.
Sempre il bene informato FT ha confermato che anche Moderna ha alzato i prezzi di quasi il 10%, ma la fornitura all’UE è molto inferiore. Circa 460 milioni di dosi prevista entro il 2022.
La distribuzione dei vaccini nell’UE consente già di coprire il 70% della popolazione adulta. Finora sono state distribuite più di 530 milioni di dosi in tutta l’UE, di cui 369 milioni provengono da Comirnaty, il marchio BioNTech/Pfizer. Dietro c’è Vaxzevria di AstraZeneca, con 87 milioni. E quello di Moderna, Spikevax, con 57 milioni. 19 milioni sono arrivati da Janssen.
Pfizer, che condivide i ricavi del vaccino al 50% con BioNTech, ha previsto conti in crescita, 28 miliardi di euro contro i 22 miliardi precedentemente pianificati. E questo grazie soprattutto ai nuovi accordi con l’Europa e all’aumento di prezzo.
BioNTech, dal canto suo, ha già moltiplicato i propri ricavi per 73 nel primo trimestre del 2021 rispetto all’anno precedente. “L’aumento è dovuto principalmente al rapido aumento della fornitura di vaccini Covid-19 in tutto il mondo”, ha confermato l’azienda tedesca che, così come le altre sue colleghe , forse ha dimenticato la parola “sociale”.
FONTE: https://www.affaritaliani.it/big-pharma-non-certo-missionari-prezzi-in-aumento-del-25-752524.html
EVENTO CULTURALE
Si parla di Rotondi su Il Foglio
26 07 2021
FINANZA BANCHE ASSICURAZIONI
Unicredit, Mps e il Palio delle fesserie politiche
Perché si sentono troppe sciocchezze su Unicredit e Mps. Il corsivo di Michele Arnese, direttore di Start
Anche per le sciocchezze non si dovrebbe mai superare la modica quantità.
Ma i politici di tutti colori – sull’offerta di Unicredit tanto caldeggiata dal Tesoro su Mps – la modica quantità l’hanno abbondantemente superata (in fondo c’è un estratto – emblematico – di un articolo odierno del quotidiano Repubblica).
Sciocchezze e strepitii sono mendaci, perché non ricordano un paio di questioncelle.
Il ministero dell’Economia, che controlla il Monte dei Paschi di Siena, si è impegnato con la Commissione europea a uscire entro il 2022 dal capitale di sociale come previsto dall’intesa con Bruxelles quando il Tesoro salvò Mps.
Governo e parlamento hanno previsto sconti fiscali per banche che aggregano altre banche.
Gli stress test dell’Eba delineano scenari da incubo sulla solidità patrimoniale di Mps.
La gestione Mps targata del Tesoro non è stata un successone, come ha spiegato il giornalista finanziario Fabio Pavesi.
Infine, formalmente, solo un soggetto – il fondo Apollo – si è detto disposto a valutare l’acquisto di tutto il Monte; ai politici piace dunque più la proprietà di un fondo estero rispetto a Unicredit?
Finanche i sindacati rispetto ai politici sono più assennati sul dossier Mps: “Nessun pregiudizio su Unicredit, occorre però chiarire il concetto di spezzatino”, ha detto Lando Maria Sileoni, segretario generale della Fabi, il sindacato più rappresentativo dei bancari.
Chi poi si straccia le vesti – cosa buona e giusta, ovviamente – per l’esborso dello Stato direttamente (tramite Mef) o indirettamente (tramite la sgr Amco del Tesoro o Mcc-Invitalia) per gli spezzatini poco succulenti (tra Npl e cause legali) di Mps, si ricordi che un’operazione di sistema è già avvenuta con le tre banche popolari venete acquisite a costo zero e con robusti ammortizzatori statali da parte di Intesa Sanpaolo.
Va bene che c’è campagna elettorale a Siena, ma chi gareggia non deve vincere pure il Palio delle fregnacce.
+++
(Estratto di un articolo del quotidiano Repubblica)
Il ministero dell’Economia, che controlla il Monte dei Paschi di Siena, si è impegnato con la Commissione europea a uscire entro il 2022 dal capitale di sociale come previsto dall’intesa con Bruxelles quando il Tesoro salvò Mps.
Governo e parlamento hanno previsto sconti fiscali per banche che aggregano altre banche.
Gli stress test dell’Eba delineano scenari da incubo sulla solidità patrimoniale di Mps.
La gestione Mps targata del Tesoro non è stata un successone, come ha spiegato il giornalista finanziario Fabio Pavesi.
Infine, formalmente, solo un soggetto – il fondo Apollo – si è detto disposto a valutare l’acquisto di tutto il Monte; ai politici piace dunque più la proprietà di un fondo estero rispetto a Unicredit?
Finanche i sindacati rispetto ai politici sono più assennati sul dossier Mps: “Nessun pregiudizio su Unicredit, occorre però chiarire il concetto di spezzatino”, ha detto Lando Maria Sileoni, segretario generale della Fabi, il sindacato più rappresentativo dei bancari.
Chi poi si straccia le vesti – cosa buona e giusta, ovviamente – per l’esborso dello Stato direttamente (tramite Mef) o indirettamente (tramite la sgr Amco del Tesoro o Mcc-Invitalia) per gli spezzatini poco succulenti (tra Npl e cause legali) di Mps, si ricordi che un’operazione di sistema è già avvenuta con le tre banche popolari venete acquisite a costo zero e con robusti ammortizzatori statali da parte di Intesa Sanpaolo.
Va bene che c’è campagna elettorale a Siena, ma chi gareggia non deve vincere pure il Palio delle fregnacce.
+++
(Estratto di un articolo del quotidiano Repubblica)
FONTE: https://www.startmag.it/economia/unicredit-mps-e-il-palio-delle-fesserie-politiche/
E possibile che l’AD di Unicredit abbia il mandato di vendere la nostra prima banca ai Francesi?
RILETTURA NECESSARIA
Non so se avete letto il CV di Monsieur Mustier, AD di Unicredit: formazione alla Ecole Polytechnique ossia con ranghi militari scolastici ottenuti con la laurea alla facoltà napoleonica/militare di Francia ma soprattutto X-Mines [elites delle elites, a capo della solidarietà Grandes Ecoles – Mines più importante di Francia, a cui per definizione appartengono di norma i vertici delle istituzioni francesi, una forma di ancienne regime, da dove spesso attingono i servizi segreti francesi, ndr*], secondo molte fonti ex ufficiale della legione straniera e poi capo in SocGen di quel Kerviel a cui furono date (impropriamente) tutte le colpe per l’affossamento della banca francese con un supposto buco di circa 5 mld di euro nel pieno della crisi subprime post Lehman. Tra l’altro va detto che gli stessi avvocati e forse giudici che indagavano sul caso Kerviel – che fu denunciato proprio da Mustier – sembra furono segretamente spiati dai servizi segreti d’oltralpe, oltre ad aver costretto il capo della Brigade Financiere a dimettersi in quanto aveva scoperto che lo “scandalo” del traderino che perdeva soldi era invece a conoscenza dei vertici di SG (e quindi anche dal capo di Kerviel ossia di Mustier?). (Mustier per altro multato dalla Consob francese per insider trading, ndr**)
Dunque, l’attuale AD di Unicredit è certamente un personaggio ambiguo, a dir poco.
Aggiungiamoci il fatto che l’On. Boccia (PD, incredibile), non più tardi di qualche ora fa a Radio24 ha detto chiaramente – facendo “evolvere” la nostra tesi di alcune settimane fa ***- che sembrerebbe esistere un piano per far far “fluire” Unicredit ai francesi. Questo fa scopa con il tentativo di scalata di Bollorè a Mediaset, il quale secondo indiscrezioni di stampa di qualche mese fa voleva inizialmente solo far paura a Berlusconi per ottenere in cambio il suo supporto ad impossessarsi di Generali e forse di Mediobanca, avviando un risiko bancario nazionale dagli esiti imprevedibili ma certamente contrario agli interessi italici****; il Cavaliere rifiutò e dunque si arrivò all’attacco a Mediaset di qualche settimane fa (attacco che verrà respinto, ndr). Ma la parte più succulenta è la chiosa di Boccia nella sua intervista alla radio di Confindustria quando ha invocato la reintroduzione generalizzata della golden share [cancellata dal solito Monti per le aziende europee che ci vogliono depredare!!!] in difesa delle aziende strategiche nazionali.
Siamo felici di questa svolta politica, stigmatizziamo da tempo la sistematica asimmetria riservata all’Italia quando cerca di comprare aziende in Francia e Germania, mentre secondo alcuni (del PD) noi dovremmo permettere che gli stranieri acquisiscano i nostri campioni nazionali solo per scoprire dopo qualche anno che profitti ed impiego se ne sono andati all’estero (chiedere a Parigi cosa è successo dopo lo smembramento di Montedison). Ricordo solo che dopo l’avvento dell’euro l’Italia ha perso circa il 25% di produzione industriale ossia, vuoto per pieno, inclusa Montedison passata ai francesi il 25% di aziende manifatturiere (occupazione inclusa).
Ritornando al titolo, non possiamo escludere che Mustier possa essere/essere stato anche solo “inconsciamente” asservito ad interessi francesi per finalmente far vendere asset strategici del gruppo italiano – o la stessa Unicredit – ai nostri sempre invidiosi vicini d’oltralpe (…, …). Che poi Mustier possa anche solo ipoteticamente essere in odore di servizi segreti francesi (ad es. DRM magari appoggiati al DGSE) è nei fatti irrilevante, potendo invece affermare che è esistita una sua contiguità all’ “apparato sistemico se non istituzionale” transalpino, almeno a guardare il CV.
La cosa che più inquieta è che la vendita dei fondi Pioneer da parte di Mustier ossia di Unicredit sia avvenuta un attimo prima dell’attacco di Bollorè a Mediaset ed all’acquisizione del 5,1% di Terna da parte sempre di una compagine francese. Sarebbe interessante sapere quante azioni Mediaset fossero nel portafoglio di Pioneer nelle settimane precedenti alla vendita ad Amundi e quante ne siano postate trasferite a Credit Agricole/Natixis. Molti infatti sospettano che gran parte delle azioni acquisite da Bollorè per il tentativo di scalata alla galassia berlusconiana provengano proprio dai portafogli dei fondi Pioneer ceduti da Mustier ad Credit Agricole, anche per il tramite di equity swaps con Natixis (notasi: tutte istituzioni francesi quelle coinvolte).
Ricordiamo anche che nel bel mezzo della battaglia per l’acquisto di Mediaset è balenata anche l’ipotesi di vendita della rete francese di Generali ad AXA (azienda francese), della serie i francesi vogliono il risparmio degli italiani e rivogliono anche indietro quello francese oggi in mano a Generali.
Sta di fatto che – si noti che si tratta di una ipotesi esemplificativa assolutamente scolastica e certamente surreale, solo per fare un esempio “scolastico” sulle conseguenze di un simile ipotetico e teorico evento – se emergesse che il Mustier della situazione fosse davvero o anche fosse solo stato in forza ai servizi segreti francesi le conseguenze sarebbero pesantissime, sarebbe uno scandalo enorme, anche con risvolti diplomatici. Chiaramente tutti siamo certi che questo non è il caso (…), per il bene delle relazioni bilaterali tra i due paesi. Tanto per dare l’idea della gravità di un tale ipotetico evento – proprio per tale ragione di estrema gravità siamo tenuti ad escluderlo a priori – si potrebbe anche arrivare ad annullare la vendita di Pioneer ad Amundi (…) ed anche a mettere in discussione la reciproca permanenza dei due paesi nella moneta unica. Siamo invece ragionevolmente confidenti che per ragioni totalmente differenti (…), tempo fine mese o giù di lì le azioni di Bollorè in Mediaset verranno congelate nei diritti di voto sine die, in attesa dei danni multi miliardari che dovranno essere pagati ai soci Mediaset.
Lato italiano, resta da indagare quali consulenti milanesi ipoteticamente molto vicini alla giustizia meneghina abbiano supportato con i propri servigi l’acquisizione di Pioneer e/o partecipazioni in Mediaset da parte dei francesi. Magari scoprirem(m)o che è lo stesso che seguì la scalata di EDF su Montedison e/o l’acquisizione di BNL da parte di Credit Agricole.
Fantomas per Mitt Dolcino
FONTE: https://scenarieconomici.it/adunicreditdgsedrm/
GIUSTIZIA E NORME
Green pass: il nodo dei controlli, il pettine del GDPR
Indicati i “verificatori” delle certificazioni verdi e gli adempimenti da svolgere in materia di protezione dei dati personali
Con il d.l. 23 luglio 2021, n. 105 “Misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19 e per l’esercizio in sicurezza di attività sociali ed economiche” è emersa l’oramai nota e diffusa questione del Green Pass come misura per l’accesso a determinati eventi e strutture.
Ma chi è il soggetto che materialmente deve svolgere i controlli? E soprattutto: ci sono adempimenti da svolgere ai sensi della normativa in materia di protezione dei dati personali?
La risposta alla prima domande è nell’art. 13 DPCM 17 giugno 2021, il quale indica come “verificatori”, oltre i pubblici ufficiali nell’esercizio delle proprie funzioni, anche gli addetti ai servizi di controllo delle attività di intrattenimento e spettacolo iscritti all’elenco prefettizio, nonché una serie di soggetti quali:
- i titolari, proprietari o detentori di strutture, luoghi o locali presso cui l’accesso è condizionato dal possesso del Green Pass;
- i gestori delle strutture che erogano prestazioni sanitarie, socio-sanitarie e socio-assistenziali per l’accesso alle quali è prescritto il Green Pass;
- i vettori aerei, marittimi e terrestri.
Con riferimento a queste tre ultime categorie, è prevista la possibilità di delegare tale attività di controllo, purché avvenga mediante incarico “con atto formale recante le necessarie istruzioni sull’esercizio dell’attività di verifica” (comma 3 del citato articolo 13).
E dunque, inquadrati così i soggetti, si può considerare che l’atto formale consista almeno in un atto scritto e che fornisca evidenze circa l’effettiva conoscenza della delega da parte del destinatario, quale può essere una sottoscrizione datata per ricevuta da parte di questi.
Sotto la lente della normativa in materia di protezione dei dati personali, si legge un’attribuzione di funzioni e compiti a soggetti designati indicata dall’art. 2-quaterdecies Cod. Privacy per cui è possibile, nell’assetto organizzativo del titolare o del responsabile del trattamento, prevedere che “specifici compiti e funzioni connessi al trattamento di dati personali siano attribuiti a persone fisiche, espressamente designate, che operano sotto la loro autorità.”. Tale prescrizione altro non è che una specifica declinazione operativa dell’art. 29 GDPR, il quale generalmente prescrive che i soggetti che accedono ai dati personali possono trattarli solo previa istruzione da parte del titolare del trattamento.
Dal momento che l’art. 13 comma 5 stabilisce che “L’attività di verifica delle certificazioni non comporta, in alcun caso, la raccolta dei dati dell’intestatario in qualunque forma.”, va esclusa ogni registrazione dei dati di accesso e men che meno dei documenti di identità, i quali, a richiesta, devono solo essere esibiti al verificatore ai sensi del comma 4 del medesimo articolo.
Ciò comporta di conseguenza che il dato non può essere conservato né trasmesso, ma che comunque occorrerà fornire, anche oralmente, un’informativa all’interessato (indicando come finalità il controllo degli accessi e come base giuridica l’applicazione delle disposizioni emergenziali) e provvedere ad aggiornare di conseguenza i registri delle attività di trattamento.
Ultimi ma non meno importanti, gli aspetti della sicurezza e della sensibilizzazione degli operatori, per cui occorrerà una particolare cura nel saperli riferire al contesto operativo senza ricorrere a formalismi inutili (in difetto) né paralizzanti (in eccesso).
FONTE: https://www.infosec.news/2021/08/01/news/riservatezza-dei-dati/green-pass-il-nodo-dei-controlli-il-pettine-del-gdpr/
PANORAMA INTERNAZIONALE
Circolare, non c’è niente da vedere
Pfizer e moderna rincarano i loro preziosi sieri magici nei loro contratti di fornitura con la UE , rivela il Financial Times: il nuovo prezzo per i vaccini Pfzier è di 19,50 euro a dose contro i 15,50 delle precedente fornitura, mentre quello di Moderna sale a 25,50 dollari a dose, contro i precedenti 22,60. Rincaro che graverà sui 2,1 miliardi di dosi che le due multinazionali venderanno alla UE entro il 2023.
Il rincaro viene a puntino quando ormai si parla della “necessità della terza dose” dovuta “al rialzo dei contagi causati dalla variante Delta, come sta già facendo Israele – sempre all’avanguardia – che oggi ha iniziato a vaccinare gli over 60 con il “booster”.
“In Israele questa settimana iniziano con la 3 dose agli anziani, perchè dicono che dopo 4-5 mesi l’effetto Pfizer e Moderna decade per cui tra un poco avrai la popolaz divisa in a) 3 dosi b) 2 dosi c) 1 dose d) 0 dosi” (G. Zibordi)
All’Europa (cioè a noi) questo costerà “approssimativamente almeno 18 miliardi di euro“, com’ebbe a dire il premier bulgaro Boyko Borissov, rivelando le mene di una trattativa condotta non si sa da chi e con quali tangenti e mazzette non è dato chiedere, ma che va avanti da mesi. Secondo voci raccolte da FT, dal quotidiano della City, Moderna invece si è rivelata “arrogante” nella trattative con l’Europa “mostrando la sua mancanza di esperienza nei rapporti con i governi”, lascia indovinare qualcosa sul rapporto fra la Grande Scienza e i compratori di Essa.
I rincari della Scienza, uniti al boom della domanda da “necessaria terza dose”, renderanno a Pfizer (come ha stimato nell’ultima trimestrale aprile-giugno) un aumento dei ricavi del 30% da vaccino per il Covid a 33,5 miliardi di dollari nel 2021, rispetto ai “soli” 26 miliardi attesi in maggio. Solo nel secondo trimestre il vaccino ha generato per Pfizer 7,8 miliardi di dollari. E lo stesso vale per Moderna, con un balzo dei ricavi da vaccino a 30 miliardi di dollari. Nonostante le difficoltà del vaccino AstraZeneca, anche per questa ditta si prevede che i ricavi che dovrebbero salire a 15 miliardi di dollari il prossimo anno.
Circolare, non c’è niente da vedere. Se non questo articolo di Lancet, che garantisce l’Europa dovrà miliardi e miliardi di dosi per una serie infinita di rivaccinazioni a prezzi in aumento perché
L’anticorpo Spike svanisce dopo la seconda dose di Pfizere Astra zeneca
Magari qualche spigolatura:
Giovane muore nel sonno, si era vaccinato due giorni prima
VicenzaToday (https://www.google.it/amp/s/amp.vicenzatoday.it/cronaca/giovane-vaccinato-muore-sonno-aperto-fascicolo.html)
Il sindaco di Asiago: «Ora bisogna fare chiarezza» . Il ragazzo, un 31enne, aveva sofferto di miocardite 5 anni fa.
Santo Giuliano, l’ex di Amici: “Arresto cardiaco e miocardite dopo prima dose di Pfizer. Non dico di non fare il vaccino, ma attenti ai sintomi”
l’ex ballerino di Amici di Maria De Filippi, Santo Giuliano, è finito in ospedale per un arresto cardiaco e una miocardite. Il giovane professionista di 33 anni, che ora lavora a Dubai, ha raccontato su Instagram il suo calvario, iniziato pochissimi giorni dopo la prima dose di vaccino Pfizer, ricevuta il 15 luglio.
Finlandia, focolaio in ospedale. Età mediana 80 anni
Due terzi delle infezioni (66%) e dei decessi (67%) sono occorsi da pazienti vaccinati con una o due dosi, rispetto ai non vaccinati.
FONTE: https://www.maurizioblondet.it/circolare-non-ce-niente-da-vedere/
La grandeur francese sulla pelle dell’Italia
I pericoli per la finanza dopo il rapporto del Copasir. Unicredit e Generali e altri pezzi pregiati del nostro sistema potrebbero finire presto sotto il controllo di Parigi
Il presidente del Copasir, Raffaele Volpi
Il capitale francese punta a mettere le mani sulla finanza italiana: banche, assicurazioni e debito pubblico. L’allarme arriva dall’ultima relazione del Comitato parlamentare di vigilanza sui servizi segreti (Copasir) sul futuro di Unicredit e Generali. Una preoccupazione che tiene conto della forte presenza della Francia nel nostro sistema finanziario. Il Credit Agricole ha rilevato la Cariparma e un paio di altre casse di risparmio in Emilia Romagna diventando un presidio molto forte nell’Italia centrale. Adesso, secondo le indiscrezioni, è in trattativa con gli azionisti di Banco-Bpm. Inoltre, attraverso Amundi è oggi uno dei protagonisti dell’industria del risparmio avendo rilevato Pioneer. Dal canto suo Bnp Paribas ha la proprietà di Bnl. Infine il Copasir non dimentica che sono francesi Jean Pierre Mustier, amministratore delegato di Unicredit e Philippe Donnet, capo di Generali.
Il Copasir definisce “preoccupanti” le voci degli ultimi mesi su possibili fusioni di Unicredit con banche straniere come i tedeschi di Commerzbank o i francesi di Crédit Agricole e Societé Générale. “A parere del Comitato, le iniziative da parte di attori esteri su entità strategiche per la sicurezza economica nazionale rappresentano un rischio di particolare rilevanza per il sistema bancario e del pubblico risparmio. Infatti, pur continuando a provenire dalle famiglie e dalle imprese italiane, le risorse raccolte da UniCredit potrebbero essere impiegate per finanziare territori e sistemi produttivi esteri”.
In particolare il presidente del Copasir, Raffaele Volpi, si sofferma sul progetto di scissione della banca con la creazione di un sub holding nella quale raggruppare tutte le attività estere. L’operazione (che però Mustier annuncia di aver accantonato) rappresenta un pericolo per tutto il sistema economico e finanziario italiano. A partire dal portafoglio di titoli di Stato che “al 30 giugno ammontava a circa 44 miliardi di euro”. Non solo: Unicredito secondo gruppo bancario italiano per numero di sportelli (2700), stando alle cifre dell’Antitrust, “detiene il 10-15 per cento della raccolta complessiva del sistema italiano e il 10-15 per cento dei prestiti alle famiglie, il 5-10 per cento di quelli alle PMI e una quota del 10-15 per cento delle erogazioni alle imprese di medie e grandi dimensioni”. Senza considerare che l’ultimo piano industriale prevede un taglio di circa 8.000 dipendenti, principalmente in Italia (circa 6.000) dove il personale verrà ridotto del 21 per cento, e la chiusura di 500 filiali, di cui 450 nel nostro Paese.
Poi c’è il capitolo Generali su cui da anni si allunga l’ombra di Axa. Un altro rischio per la sicurezza nazionale considerato che nei forzieri del gruppo triestino ci sono 85,5 miliardi di titoli italiani, pari al 3,5% del nostro debito pubblico.
“Una eventuale cessione di Assicurazioni Generali ad Axa incrementerebbe in misura considerevole la quota – già elevata – di titoli di stato italiani posseduta da operatori francesi – spiega la relazione – Un rischio a livello strategico e di rilievo per l’interesse nazionale”. Il problema è diventato ancora maggiore considerando che Generali ha avuto l’autorizzazione per arrivare al 49,9% di Cattolica.
Ma il trasloco di Generali e Unicredit in mani francesi, secondo il Copasir pone un problema complessivo di sovranità. Nel complesso Parigi controlla l’11,8% del debito italiano. Significa 285 miliardi che in qualunque momento potrebbero utilizzati come piattaforma per eventuali azioni speculative contro l’Italia. Era già accaduto nel 2011. Allora a promuovere il blitz furono i tedeschi di Deutsche Bank. Ora però potrebbero essere i francesi.
FONTE: https://www.quotidianodelsud.it/laltravoce-dellitalia/le-due-italie/economia/2020/11/08/la-grandeur-francese-sulla-pelle-dellitalia/
POLITICA
Le minchiate della tv di Stato quando si parla di diritti gay, maltrattamenti femminili, rivalsa gay e rivalsa femminile.
Tonio De Pascali – 2 08 2021c
Bisognerebbe stare attaccati alla tv a tutte le ore per elencare le minchiate della tv di Stato quando si parla di diritti gay, maltrattamenti femminili, rivalsa gay e rivalsa femminile.
Una puttanata dietro l’altra, una ogni cinque minuti.
Ora ora c’è in diretta Jacopo Volpi con Fiona May, paladina della rivalsa delle atlete di colore, doppiamente bistrattate perchè femmine e di colore. Ormai un leit motiv di questa edizione.
Con loro c’è Julio Velasco, genio come pochi al mondo, di tutti i tempi, con una medaglia in più sul petto, quella di essere stato vittima, dice lui, dei generali fascisti argentini , che, cattivissimi, lo costrinsero a cambiare città per passare inosservato in quanto di idee comuniste.
Insomma oggi il terzetto (giornalista di regime- atleta maltrattata di colore e femmina – intellettuale comunista) ne ha lanciata un’altra di mega-puttanata.
Si parla del vulcano Fuji e Volpi chiede a Fiona Mai se c’è stata ma lei risponde secca e piangente: “No non ci sono stata. Quel vulcano le donne non possono scalarlo”. Velasco annuisce e accompagna.
Volpi: “Questa è una cosa brutta. Ma non è posssibile!”-
Gli altri due annuiscono. Sì è una cosa brutta che le donne non possano scalarlo. Discriminazione delle donne. Vergogna,
PUTTANATA COLOSSALE. FALSO. FALSISSIMO-
NON E’ VERO.
Capito come la Stampa di regime indottrina falsamente gli Italiani?
FONTE: https://m.facebook.com/story.php?story_fbid=1031623614041780&id=100015824534248
SCIENZE TECNOLOGIE
Ricarica auto elettriche a rischio in Gran Bretagna
La rete deve essere rafforzata, altrimenti l’intero Paese rischia un black-out totale
2 Agosto 2021
La tenuta della rete di distribuzione di corrente elettrica in Gran Bretagna è messa a rischio dalla ricarica di milioni di veicoli a zero emissioni in contemporanea, il pericolo di black-out in alcune parti del Regno Unito infatti sarebbe molto alto.
Il presidente della Commissione Trasporti della Camera dei Comuni Huw Merriman ha lanciato l’allarme illustrando anche quello che potrebbe succedere a seguito di una rapida espansione di auto e veicoli elettrici nel Paese, che infatti ha già deciso di eliminare progressivamente tutti i mezzi con motore a combustione, facendoli ‘sparire’ entro il 2030.
È stato elaborato un rapporto a tale proposito, che sottolinea quanto le abitudini dei consumatori debbano cambiare per poter affrontare il passaggio alla mobilità completamente elettrica, ed è assolutamente necessario anche rafforzare la rete di distribuzione di corrente, per poter supportare la ricarica contemporanea di milioni di veicoli a zero emissioni, per evitare possibili black-out in alcune aree del Paese.
Ancora troppi inoltre i dubbi su quelli che sono i piani del governo per agevolare la costruzione di un’ottima rete di ricarica per i veicoli elettrici (ancora scarsa oggi, come in Italia). Si teme anche che i benefici della mobilità elettrica possano andare a favore solo di alcune fasce di popolazione; gli automobilisti residenti in aree rurali o remote non devono essere penalizzati. Le operazioni di ricarica di veicoli elettrici dovrebbero essere semplici, economiche e comode per tutti, a prescindere dal luogo in cui vivono o altri fattori. Serve oltretutto un quadro normativo chiaro, richiesto infatti dai parlamentari per agevolare gli investimenti necessari alla costruzione di infrastrutture di ricarica.
Entro fine anno il governo dovrebbe presentare la sua strategia per le infrastrutture, che andrà a far parte delle politiche per la decarbonizzazione dei trasporti. Il Paese collabora con l’autorità di vigilanza del settore energetico Ofgem per accelerare gli investimenti e il lavoro in corso.
Focus anche sulle tariffe energetiche, la commissione sottolinea quanto sia fondamentale proteggere i consumatori dall’eccesso di oneri e sistemi tariffari, chiedendo un sistema più equo e un rifornimento su strada più economico. Anche questo potrebbe servire ad evitare i black-out, si spinge verso la creazione di tariffe in grado di incentivare ricariche più frequenti, ma nei momenti in cui la rete può soddisfare la domanda, come di notte.
La città di Milano, durante il mese di giugno, ha subito diversi black-out elettrici, che hanno acceso il campanello d’allarme anche in Gran Bretagna sulla capacità delle infrastrutture di supportare questi fabbisogni energetici. La ragione dei problemi nati nel capoluogo lombardo riguarda l’accensione di migliaia di condizionatori in contemporanea. Le alte temperature hanno infatti portato a un aumento dei consumi di energia in città. Il gestore dell’infrastruttura Unareti ha spiegato: “Per superare i disservizi che possono verificarsi in presenza di aumenti di carico sulla rete, sono necessari ingenti investimenti che richiedono tempi lunghi per poter essere portati a termine”.
FONTE: https://motori.virgilio.it/notizie/ricarica-auto-elettriche-rischio-gran-bretagna/166025/
STORIA
Newgrange: in Irlanda l’immenso Sepolcro più antico delle Piramidi d’Egitto
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