RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI
7 FEBBRAIO 2022
A cura di Manlio Lo Presti
Esergo
Rivolgi attenzione al soggetto, all’azione, all’opinione, al significato.
MARCO AURELIO ANTONINO, Ricordi, Rizzoli, 1993, pag. 129
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SOMMARIO
La CIA recluta atleti per disturbare i Giochi Olimpici di Beijing
L’accerchiamento degli “Stati sentinella” armati dagli USA
La Blackwater è nel Donbass col battaglione Azov
ROMANTICISMO REAZIONARIO. LA VERITÀ DI HOUELLEBECQ
Servizi Segreti e Quirinale. Il no alla Belloni e il “precedente” Mattarella (poco conosciuto)
La tirannia della libertà nella società contemporanea
In Libano smantellate 17 reti di spionaggio israeliane
L’altra pandemia
Il “bisogno di pazienti” e quel labile confine tra sanità pubblica e privata
“Gamification” e le nuove tecniche (occulte) di controllo del lavoro
Destino manifesto: Cina e Russia riescono dove gli Stati Uniti falliscono
La Cina: Acquisire l’Europa
Proprio Mattarella parla di dignità? Dignità è anzitutto ripristinare lo stato di diritto
FASCISMO MAINSTREAM
Critica delle forme di vita
Carlo Magno e le lettere: i monaci e la difesa della cultura
IN EVIDENZA
La CIA recluta atleti per disturbare i Giochi Olimpici di Beijing
Secondo la stampa cinese, la CIA sta reclutando atleti per disturbare i Giochi Olimpici di Beijing 2022. L’Agenzia avrebbe offerto loro importanti indennizzi per risarcirli di eventuali conseguenze negative sulla carriera sportiva.
Gli Stati Uniti e alcuni loro alleati boicotteranno le Olimpiadi non inviando rappresentati diplomatici e politici ad assistervi.
FONTE: https://www.voltairenet.org/article215493.html
CONFLITTI GEOPOLITICI
L’accerchiamento degli “Stati sentinella” armati dagli USA
Alastair Crooke, SCF 27 gennaio 2022
La chiave della risposta per la sicurezza della Cina agli Stati Uniti è legata a due parole che non vengono dichiarate nei documenti politici formali statunitensi, ma la cui presenza silenziosa tuttavia pervade e sbiadisce il testo del National Defense Authorization Act del 2022. Il termine ‘contenimento’ non compare mai, né la parola ‘accerchiamento’. Eppure, come scrive il professor Michael Klare, la legge “fornisce un progetto dettagliato per circondare la Cina con una rete potenzialmente soffocante di basi statunitensi, forze militari e Stati partner sempre più militarizzati. L’obiettivo è consentire a Washington di barricare le forze armate del Paese all’interno del proprio territorio; e potenzialmente paralizzarne l’economia in qualsiasi crisi futura”. Ciò che mancava al precedente mosaico di misure statunitensi in Cina, finora, fu un piano generale per frenare l’ascesa della Cina e garantire così la supremazia permanente degli USA nella regione indo-pacifica: “Gli autori dell’NDAA di quest’anno”, tuttavia, “erano straordinariamente concentrati su tale carenza, e diverse disposizioni del disegno di legge sono volte a fornire proprio un simile piano generale”. Questi includono una serie di misure intese a incorporare Taiwan nel sistema di difesa statunitense che circonda la Cina. E un requisito per la stesura di una “grande strategia” globale per contenere la Cina “su ogni fronte”.
Una misura del “senso del Congresso” nella legge fornisce una guida generale su tali iniziative disparate, stabilendo una catena ininterrotta di “Stati sentinella” armati dagli Stati Uniti, che si estende da Giappone e Corea del Sud nel Pacifico settentrionale ad Australia, Filippine, Thailandia e Singapore nel sud e l’India sul fianco orientale della Cina, destinati a circondare e contenere la Repubblica popolare. Abbastanza inquietante, anche Taiwan è inclusa nella prevista rete anti-cinese. Di conseguenza, la misura sostiene un più stretto coordinamento militare tra i “due Paesi” e la vendita di sistemi d’arma sempre più sofisticati a Taiwan, insieme alla tecnologia per fabbricarne alcuni. “Ed ecco la nuova realtà degli anni Biden”, scrive Klare: “[Taiwan] si converte in un alleato militare de facto degli Stati Uniti. Difficilmente potrebbe esserci un assalto diretto ai profitti della Cina: che, prima o poi, l’isola deve accettare di riunirsi pacificamente con la terraferma; o affrontare un’azione militare”. Questo non è nuovo. L’idea di contenimento della Cina risale al perno di Obama verso l’Asia (e anche oltre), ma fu durante l’amministrazione Trump che il pretesto di Taiwan iniziò a diffondersi seriamente. Pompeo alzò la posta approvando le visite a Taipei di alti funzionari.
Ciò che è diverso ora è che l’amministrazione Biden non solo non invertiva le politiche Trump-Pompeo, ma piuttosto abbracciava l’agenda dell’accerchiamento di Pompeo, con una vendetta. Ciò è sottolineato da una disposizione della legge che insiste sul fatto che l’accordo degli Stati Uniti del 1982 per ridurre qualità e quantità dei loro trasferimenti di armi a Taiwan, non è più valido a causa del “comportamento sempre più coercitivo e aggressivo” della Cina nei confronti dell’isola. Il punto qui è che “accerchiamento” e “contenimento” sono effettivamente la politica estera predefinita di Biden. Il tentativo di cementare tale meta-dottrina attualmente viene attuato attraverso la Russia (come passo iniziale). L’essenziale compenso dell’Europa è il “pezzo di festa” per il contenimento fisico e l’accerchiamento della Russia. L’UE subisce forti pressioni da Washington affinché si impegni a sanzioni, la “modalità” finanziaria dell’accerchiamento, mentre i funzionari dell’UE negoziano quella che sarebbe considerata la loro “linea rossa”. Jake Sullivan, invece, chiariva la nuova dottrina e ciò che si aspetta dall’Europa a novembre, quando disse: “vogliamo che i termini del sistema [internazionale] siano favorevoli agli interessi e valori nordamericani: è piuttosto una disposizione favorevole in cui Stati Uniti e loro alleati possono plasmare le regole internazionali sulle questioni che fondamentalmente avranno importanza per il popolo [nordamericano]…”
La minaccia di Biden di sanzioni dure e inedite, tuttavia, ha prodotto un avvertimento da una fonte del tutto inaspettata, poiché sia il Tesoro che il dipartimento di Stato degli Stati Uniti avvertivano Blinken che le sanzioni previste danneggerebbero gli alleati degli statunitensi (cioè gli europei) più della Russia, e che la loro imposizione potrebbe persino innescare una controproducente crisi economica globale che toccherebbe sia i consumatori statunitensi che quelli europei, attraverso l’aumento dei prezzi dell’energia, dando così un forte calcio ai tassi di inflazione statunitensi già da record. In breve, l’Europa potrebbe anche affrontare una guerra di insurrezione guidata dagli Stati Uniti combattuta sul suo territorio, che si estende in altri Stati; dando vita a una nuova razza di ‘jihadisti’ radicali e dilatandosi in Europa. E ancora una nuova ondata di armi sofisticate (come accadde sulla scia della guerra in Afghanistan) che circolava tra i gruppi di opposizione, poiché i missili Stinger venivano venduti a chissà chi (e poi dovevano essere riacquistati). In un probabile pezzo commissionato, il NY Times riportava che: “Per anni, i funzionari statunitensi hanno discusso in punta di piedi sulla questione di quanto supporto militare fornire all’Ucraina, per paura di provocare la Russia. Ora, in quella che sarebbe una grande svolta, alti funzionari dell’amministrazione Biden avvertono che gli Stati Uniti potranno sostenere l’insurrezione ucraina se Putin invadesse l’Ucraina.
Il modo in cui gli Stati Uniti, appena usciti da due decenni di guerra in Afghanistan, potrebbero orientarsi verso finanziamento e sostegno dell’insurrezione appena terminata, è ancora in fase di elaborazione: “Biden non ha deciso come gli Stati Uniti potrebbero armare i ribelli in Ucraina; o, chi condurrebbe la guerriglia contro l’occupazione militare russa. Né è chiaro quale sarebbe la prossima mossa della Russia… Ma i funzionari dell’amministrazione Biden iniziavano a segnalare alla Russia [alla fine] troverebbe i costi dell’invasione… proibitivi in perdite militari. “Se Putin invade l’Ucraina con una grande forza militare… E se si trasforma in un’insurrezione ucraina, Putin dovrebbe capire che dopo aver combattuto noi stessi le insurrezioni per due decenni, sappiamo come armare, addestrare e rafforzarli”, aveva detto James Stavridis, ex-ammiraglio che fu il comandante supremo della NATO.
Tale discorso negli Stati Uniti di insurrezione in Ucraina acquisiva frenesia. La discussione scivolava nella nevrosi mentre i media statunitensi si sciolgono su qualsiasi suggerimento di svendita della causa della democrazia e dei valori liberali. Si guardi la reazione quando un ospite di Tucker Carlson disse: “il mondo è sull’orlo dell’abisso. Presto potremmo assistere al peggior conflitto in Europa dalla seconda guerra mondiale: uccidere migliaia di persone e aumentare le probabilità di guerra nucleare. Non doveva essere così”. È come se tutti i fallimenti dell’amministrazione Biden venissero incanalati e sfogati coll’ottusa espiazione del “salvare l’Ucraina”. Naturalmente, non è la fine del piano statunitense: col “contenimento” e la “nostra democrazia” così tanto in prima linea nel pensiero liberale di Washington, una volta che la Russia viene gulliverizzata e la Cina messa in guardia, il successivo contenimento e accerchiamento dell’Iran sembrerebbe la conclusione scontata. Soprattutto perché il piano di accerchiamento della Cina è già in corso. E non è limitato all’Indo-Pacifico. Gioca, ancora oggi, in Medio Oriente come tentativo di doppio contenimento dell’Iran e della Cina. Il recente attacco dei droni agli Emirati Arabi Uniti (rivendicato dagli huthi) non è estraneo alla grande lotta degli Stati presi di mira per spezzare l’accerchiamento degli Stati Uniti.
Una componente chiave del commercio globale nei prossimi anni sarà la Via della Seta marittima cinese, una rotta che passa inevitabilmente dal Corno d’Africa e dalla strozzatura dello stretto di Bab al-Mandab, al largo delle coste dello Yemen. Lo Yemen diventa quindi hub chiave per la capacità degli Stati Uniti di “contenere” e negare alla Cina la sua “Via della Seta marittima”. In tale contesto, gli Emirati Arabi Uniti svolgono la controparte strategica del Medio Oriente di “Taiwan” nel Pacifico, divenendo l’ancora geografica dei porti ed isole “sentinelle” che si affacciano su Oceano Indiano, Mar Arabico, Mar Rosso, Corno d’Africa e stretto di Bab al-Mandab, tutti attualmente controllati dagli Emirati Arabi Uniti. L’accresciuto peso strategico degli Emirati Arabi Uniti da Israele e Stati Uniti deriva interamente dal fatto che usavano sfacciatamente la guerra in Yemen come un’opportunità per stabilire un proprio ruolo smisurato conquistando la “custodia” dello stretto che collega Mar Rosso a Golfo di Aden. Ibrahim al-Amin delineava nel quotidiano libanese pro-resistenza al-Aqbar (di cui è editore), “la [recente] decisione nordamericana di costringere gli Emirati Arabi Uniti a riconsiderare la loro “strategia di uscita” dalla guerra in Yemen: “Il nuovo sviluppo consisteva in una grande modifica nelle decisioni nordamericano-britanniche rappresentata dalla decisione strategica d’impedire la caduta di Marib. I nordamericani intervennero così direttamente nella battaglia. Chiunque guardi ai dettagli… capirà che è più profondo e pericoloso per via della presenza israeliana… La natura dell’intelligence non assomiglia affatto al lavoro delle forze d’assalto negli anni passati… Nella presente situazione di guerra, la battaglia ha bisogno di uomini sul campo, da qui la decisione nordamericana di costringere gli Emirati Arabi Uniti a riconsiderare la loro “strategia di uscita dalla guerra”…”
Pertanto, porto di Aden, stretto di Bab al-Mandab e isola di Socotra rientrano nettamente nella componente vitale della creazione della Guerra Fredda tra Cina e Stati Uniti: l’alleato arabo che può controllare questo stretto essenziale darà agli Stati Uniti una leva con cui mettere a repentaglio la Via della Seta marittima cinese, da qui il sostegno degli USA al conflitto nello Yemen. E da qui l’attacco dei droni huthi agli Emirati Arabi Uniti, segnalando che gli huthi non hanno intenzione di concedere un punto chiave così vitale. Gli huthi danno agli Emirati Arabi Uniti un’amara scelta: colpire le sue città o rinunciare alla risorsa strategica di Bab al-Mandab e dintorni. Iran e Cina seguiranno da vicino questa iniziativa per lo “sfondamento”.
Riconoscendo che le politiche enunciate nell’NDAA del 2022 rappresentano una minaccia fondamentale alla sicurezza della Cina e al suo desiderato ruolo internazionale ampliato, il Congresso ordinava al presidente di elaborare una “grande strategia” sulle relazioni USA-Cina nei prossimi nove mesi e preparare un arsenale economico, diplomatico e militari di cui gli Stati Uniti avranno bisogno per smorzarne l’ascesa. Andrew Bacevich, storico militare statunitense, scrive che tra i mandarini della politica estera dell’odierna Washington, le “sfere di influenza” sono un anatema. Come interpretata oggi, tuttavia, la stessa frase sa di pacificazione: porta alla classe della politica estera della Beltway, il soffio della svendita della causa della libertà e della democrazia, un peccato che gli alti funzionari statunitensi detestano. Questo è fin troppo evidente nell’acceso discorso statunitense vigente oggi.
Un decennio fa Hillary Clinton dichiarò categoricamente che “Gli Stati Uniti non riconoscono le sfere di influenza”. Più recentemente, il segretario Blinken riaffermò tale dichiarazione. “Non accettiamo il principio delle sfere di influenza… il concetto stesso di sfere di influenza “avrebbe dovuto essere ritirato dopo la seconda guerra mondiale”. Ovviamente! Non è ovvio? Non si può barricare un Paese nel proprio territorio per usare la latitudine, in un secondo momento, per poter soffocarne l’economia in una crisi futura e, allo stesso tempo, accettare che Russia e Cina possano stabilire proprie linee rosse: formulate proprio per contrastare il contenimento e l’intimidazione attraverso l’accerchiamento militare. Quello che fa la NDAA (forse inavvertitamente) è sottolineare precisamente come la situazione russa e cinese siano riflesso intrecciato della reciproca difficile situazione. La ‘guerra’ per rompere contenimento ed accerchiamento è già in corso.
FONTE: http://aurorasito.altervista.org/?p=22353
La Blackwater è nel Donbass col battaglione Azov
CIA e MI6 stanno riorganizzando le reti stay-behind della Nato in Europa Centrale. Se durante la seconda guerra mondiale, per combattere i sovietici, si appoggiavano a ex nazisti, oggi sostengono gruppi neonazisti contro i russi. Non è affatto ovvio: se negli anni Quaranta i nazisti erano pletora, oggi sono molto pochi ed esistono solo grazie all’aiuto degli anglosassoni.
La telefonata tra il presidente Biden e il presidente ucraino Zelensky «non è andata bene», titola la Cnn: mentre «Biden ha avvertito che è praticamente certa l’invasione russa in febbraio, quando il terreno gelato rende possibile il passaggio dei carrarmati», Zelensky «ha chiesto a Biden di abbassare i toni, sostenendo che la minaccia russa è ancora ambigua». Mentre lo stesso presidente ucraino assume un atteggiamento più prudente, le forze armate ucraine si ammassano nel Donbass a ridosso dell’area di Donetsk e Lugansk abitata da popolazioni russe.
Secondo notizie provenienti dalla Missione di monitoraggio speciale dell’Osce in Ucraina, oscurate dal nostro mainstream che parla solo dello schieramento russo, sono qui posizionati reparti dell’Esercito e della Guardia Nazionale ucraini per l’ammontare di circa 150 mila uomini. Essi sono armati e addestrati, e quindi di fatto comandati, da consiglieri militari e istruttori Usa-Nato.
Dal 1991 al 2014, secondo il Servizio di ricerca del Congresso Usa, gli Stati uniti hanno fornito all’Ucraina assistenza militare per 4 miliardi di dollari, cui si sono aggiunti oltre 2,5 miliardi dopo il 2014, più oltre un miliardo fornito dal Fondo fiduciario Nato al quale partecipa anche l’Italia. Questa è solo una parte degli investimenti militari fatti dalle maggiori potenze della Nato in Ucraina.
La Gran Bretagna, ad esempio, ha concluso con Kiev vari accordi militari, investendo tra l’altro 1,7 miliardi di sterline nel potenziamento delle capacità navali dell’Ucraina: tale programma prevede l’armamento di navi ucraine con missili britannici, la produzione congiunta di 8 unità lanciamissili veloci, la costruzione di basi navali sul Mar Nero e anche sul Mar d’Azov tra Ucraina, Crimea e Russia.
In tale quadro, la spesa militare ucraina, che nel 2014 equivaleva al 3% del pil, è passata al 6% nel 2022, corrispondente a oltre 11 miliardi di dollari.
Agli investimenti militari Usa-Nato in Ucraina si aggiunge quello da 10 miliardi di dollari previsto dal piano che sta realizzando Erik Prince, fondatore della compagnia militare privata statunitense Blackwater, ora ridenominata Academy, che ha fornito mercenari alla Cia, al Pentagono e al Dipartimento di stato per operazioni segrete (tra cui torture e assassini), guadagnando miliardi di dollari.
Il piano di Erik Prince, rivelato da un’inchiesta della rivista Time [1], consiste nel creare in Ucraina un esercito privato attraverso una partnership tra la compagnia Lancaster 6, attraverso cui Prince ha fornito mercenari in Medioriente e Africa, e il principale ufficio di intelligence ucraino controllato dalla Cia. Non si sa, ovviamente, quali sarebbero i compiti dell’esercito privato creato in Ucraina dal fondatore della Blackwater, sicuramente con finanziamenti della Cia. Si può comunque prevedere che esso, dalla base in Ucraina, condurrebbe operazioni segrete in Europa, Russia e altre regioni.
Su questo sfondo è particolarmente allarmante la denuncia, fatta dal ministro russo della Difesa Shoigu, che nella regione di Donetsk vi sono «compagnie militari private Usa che stanno preparando una provocazione con impiego di sostanze chimiche sconosciute».
Potrebbe essere la scintilla che provoca la detonazione di una guerra nel cuore dell’Europa: un attacco chimico contro civili ucraini nel Donbass, subito attribuito ai russi di Donetsk e Lugansk, che verrebbero attaccati dalle preponderanti forze ucraine già schierate nella regione, per costringere la Russia a intervenire militarmente a loro difesa.
In prima linea, pronto a fare strage dei russi del Donbass, c’è il battaglione Azov, promosso a reggimento di forze speciali, addestrato e armato da Usa e Nato, distintosi per la sua ferocia negli attacchi alle popolazioni russe di Ucraina. L’Azov, che recluta neonazisti da tutta Europa sotto la sua bandiera che ricalca quella delle SS Das Reich, è comandato dal suo fondatore Andrey Biletsky [2], promosso a colonnello. Non è solo una unità militare, ma un movimento ideologico e politico, di cui Biletsky è il capo carismatico in particolare per l’organizzazione giovanile che viene educata all’odio anti- russo col suo libro «Le parole del Führer bianco».
NOTE
[1] «Exclusive: Documents Reveal Erik Prince’s $10 Billion Plan to Make Weapons and Create a Private Army in Ukraine», Simon Shuster, Time, July 7, 2021.
[2] “In Ucraina vivaio Nato di neonazisti”, di Manlio Dinucci, Il Manifesto (Italia) , Rete Voltaire, 23 luglio 2019.
FONTE: https://www.voltairenet.org/article215472.html
CULTURA
ROMANTICISMO REAZIONARIO. LA VERITÀ DI HOUELLEBECQ
di Pierluigi Pellini
[Questa recensione è uscita, con qualche taglio, su «Alias», domenica 23 gennaio. Nei prossimi giorni, per moltiplicare i punti di vista e alimentare la discussione sull’ultimo libro di Houellebecq, pubblicheremo anche la recensione di Annientare scritta per noi da Gilda Policastro.]
Titolo incendiario, sostanza pompier. Se voleva stupire, con il suo ultimo romanzo (Annientare, nella traduzione, scorrevole ma non sempre precisa, di Milena Zemira Ciccimarra, per La Nave di Teseo: pp. 752, euro 23), Michel Houellebecq c’è riuscito: pochissimo sesso, quasi nessuna provocazione politica; molto amore coniugale, molti buoni sentimenti. Soprattutto, pochissime idee: è un romanzo-romanzo, perfino ‘di genere’; non un romanzo a tesi, come i suoi libri più interessanti. Che manchino i consueti rigurgiti razzisti e islamofobi, o che il primo «pompino», peraltro interrotto, arrivi dopo più di quattrocento pagine, potrebbe essere una buona notizia. In realtà, svestiti i panni che più gli sono consoni, quelli dell’erotomane profeta reazionario, Houellebecq annienta il suo fascino ambivalente, rivelandosi scrittore mediocre e noioso.
Annientare è ambientato alla fine del secondo mandato di un mai nominato (ma riconoscibile) Macron; e con mossa furbesca – in Francia si avvicinano le presidenziali – mette in scena la campagna elettorale del 2027: è un racconto d’anticipazione che intreccia, senza mai fonderli, romanzo politico, storia familiare, thriller apocalittico. Dove i politici sono brave persone, la famiglia è rifugio sicuro, e perfino i misteriosi terroristi, mescolando magia bianca Wicca e hackeraggio, per un po’ rischiano di sembrare simpatici.
Il protagonista, Paul Raison (nomen omen: uomo pacato, triste, molto ragionevole), è collaboratore e amico del potente ministro dell’economia Bruno Juge, un tecnocrate pragmatico che ha saputo rilanciare l’industria francese, con una politica statalista incurante dei veti europei; e che in campagna elettorale affianca il candidato del partito presidenziale, una celebrità televisiva di nome Sarfati. Il padre di Paul, ex agente dei servizi segreti, vive invece nel Beaujolais, fra vigneti autunnali dai riflessi meravigliosamente kitsch (le descrizioni sembrano fare il verso, ma senza ironia, a un dépliant turistico); un ictus, che lo rende disabile, ha il merito di riavvicinare i suoi tre figli: oltre a Paul, il fragile Aurélien e la cattolica Cécile; quest’ultima, ottima cuoca (com’è giusto), è felicemente sposata con Hervé, notaio disoccupato a Arras (esistono notai disoccupati? forse chez les Ch’tis, nel depresso Nord…), legato a ambienti dell’estrema destra identitaria; Aurélien, invece, è sposato con una giornalista fallita, unico personaggio negativo del romanzo: naturalmente femminista e di sinistra, ancorché interessata solo ai soldi – con un articolo rancoroso provocherà il suicidio del marito. Infine, i terroristi, sempre fuori scena: con mezzi tecnologici sofisticatissimi, affondano portacontainer cinesi e bruciano banche dello sperma, avendo cura di danneggiare il commercio mondiale neo-liberista e gli immorali supermercati della vita, senza causare vittime; i capi dei servizi segreti, e lo stesso protagonista, non nascondono un certo ammirato rispetto. E quando alla fine (solo un dettaglio?) affondano anche un barcone con cinquecento migranti, l’indignazione, nel testo, sembra dividersi equamente fra loro e Macron, che strumentalizza il massacro, a pochi giorni dalle elezioni – infatti vinte con margine ridotto dal suo (mediocrissimo) delfino, e perse dal giovane candidato del Rassemblement National, a più riprese definito «bravissimo».
Fin dalle Particelle elementari, che resta il suo libro migliore (insieme a Extension du domaine de la lutte: ma i traduttori si ostinano a rendere con Estensione del dominio della lotta, anziché dell’‘àmbito’), Houellebecq interroga con acre pessimismo il futuro della Francia e dell’Occidente. A prima vista, Annientare è l’opposto di Sottomissione: se nel controverso romanzo del 2015 a Parigi prendeva il potere un partito islamico, cancellando ogni traccia di identità europea, nel nuovo libro vince la tecnocrazia. Debitamente riconvertito a un protezionismo soft, il Macron II ha fatto un buon lavoro. Certo, la disoccupazione cala poco, le RSA offrono ancora uno spettacolo indegno; ma le condizioni medie di vita sono accettabili, gli indicatori economici inducono all’ottimismo; e se la solitudine e l’individualismo continuano a dominare, il deserto affettivo del 2027 è punteggiato di oasi d’amore: dopo una lunga crisi coniugale, c’è un ritorno di fiamma fra Paul e Prudence; Aurélien vive una parentesi di felicità con un’infermiera nera; e perfino Bruno, l’algido ministro, si consola delle infedeltà della consorte con un’affascinante personal trainer di origine iraniana. C’è tanto amore, perfino inter-etnico. E sarebbe ingeneroso rimproverare a Houellebecq – che ha sempre rifuggito ogni forma di psicologismo – la repentina trasformazione di Prudence, motivata soltanto dalle suggestioni magiche (ancora!) del neopaganesimo Wicca.
Il punto è un altro: fluviale e ambizioso, programmaticamente molto diverso dai precedenti, adottando la trasparenza di una riconoscibile normalità, di un generalizzato ‘grado zero’, di una realistica medietas (scrittura piana, ambientazione rassicurante, personaggi pieni di buon senso, serietà del quotidiano), Annientare dice la verità su Houellebecq. Porta allo scoperto quel romanticismo frustrato e un po’ melenso, quel lirismo un po’ adolescenziale, che spesso, altrove, covava nelle ceneri del fuoco misogino; e conferma oltre ogni ragionevole dubbio che l’ideologia dei suoi romanzi (oltre che dell’autore) è di estrema destra. Se infatti dell’invettiva politicamente scorretta può darsi un’interpretazione allegorica, se l’iperbole si presta sempre (almeno da Céline in poi) a una lettura antifrastica – per questo Houellebecq (soprattutto in Italia) ha tanti estimatori di sinistra, che ne colgono le provocazioni anti-liberiste e anti-globalizzazione, affrettandosi a declinarle in senso progressista –, qui non può esserci ambiguità: i militanti anti-eutanasia che rapiscono il padre di Paul, per sottrarlo agli orrori della sanità pubblica francese, sono bravi ragazzi; le tesi dei presentabilissimi eredi dei Le Pen sono ben motivate, lo riconoscono anche i ministri di Macron; ai terroristi eco-identitari non manca un’aura; il male è la Rivoluzione francese (e, sullo stesso piano, Hitler). Del resto, i modelli culturali sono espliciti: il padre di Paul legge con passione De Maistre; il ministro di Macron recita con enfasi Musset (!). Romanticismo e reazione.
Annientare è perciò il negativo fotografico, non l’opposto, di Sottomissione; e soprattutto dice la verità su Houellebecq scrittore. Le tre storie – politica, familiare, terroristica – si giustappongono senza mai integrarsi; l’enigma irrisolto degli attentati è addirittura lasciato cadere nell’ultima parte. La trama avanza (faticosamente) grazie a coincidenze che pure a Dumas père sarebbero parse un tantino azzardate: per dirne una, quando Paul, dopo anni di astinenza sessuale, percepisce la possibilità di riavvicinarsi alla moglie, reputa necessario un po’ di allenamento; e nell’immenso catalogo online delle escort parigine, sceglie precisamente la figlia di sua sorella (la cattolica integralista): se ne accorge nel bel mezzo di una fellatio di ottima fattura, che rimane perciò sfortunatamente inconclusa. Il suicidio di Aurélien, che ha appena trovato l’amore, è un capolavoro d’inverosimiglianza. Va ancora peggio con i sogni del protagonista, che infarciscono il libro intero di mere digressioni: sogni, direbbe Freud, senza ombelico, e quasi intercambiabili con il piano della realtà – unica funzione strutturale, allungare il brodo.
Alla fine, Paul scopre di avere un tumore alla mascella. C’è qualcosa di pirandelliano, in Annientare: incesto mancato e suicidio, come nei Sei personaggi; e pure il fiore in bocca. Delle pagine finali il nume tutelare è Pascal; e l’addio alla vita, con la felicità quasi postuma al fianco di Prudence, è struggente (quasi senza enfasi kitsch). Sono le pagine migliori del libro. Non so quanti lettori riusciranno a arrivarci.
FONTE: https://www.leparoleelecose.it/?p=43356
Dignità dell’Uomo
Essere consapevoli della dignità significa difendere il diritto ad agire di propria iniziativa, mossi dalla coscienza del dovere e non pressati da misure coercitive.
La dignità esige che si dia al corpo fisico tutto ciò di cui ha bisogno, cioè cibo, movimento, sesso nella giusta misura, divertimento, ecc.
Il tratto caratteristico dell’uomo, che lo distingue e lo eleva nettamente al di sopra delle bestie, è la capacità di decidere liberamente e di progredire usando la riflessione e la ragione e ponendo un limite al godimento dei sensi; invece le bestie provano soltanto il piacere dei sensi e si lasciano guidare dagli istinti; cioè le bestie non hanno la nostra capacità di autodeterminazione.
Secondo Kant questa autonomia è “il fondamento della dignità della natura umana e di ogni natura razionale”.
Tenendo conto dell’eccellenza della dignità della nostra natura Cicerone afferma che “intenderemo come sia vergognoso guazzare nel lusso e vivere con ogni raffinata mollezza e quanto onesta invece sia una vita fragile, moderata, continente, severa e sobria”.
Nella tradizione giudaico-cristiana si è sempre collegata la dignità della persona all’idea che l’uomo è immagine di Dio. Nel racconto della Creazione si afferma che Dio creando l’uomo a Sua immagine e somiglianza, lo ha collocato in una posizione particolare nei confronti di tutte le altre creature; infatti l’uomo, diversamente dagli animali che si evolvono più o meno secondo quanto insito nella loro natura, ha la possibilità di oscurare l’immagine di Dio e di stravolgere la propria natura.
La perfezione del corpo e dello spirito umano pongono ancora di più in risalto la dignità se l’uomo segue le leggi divine ed imita Dio nella capacità di creare sentimenti e pensieri.
Dio in un ipotetico discorso ad Abramo dice: Noi ti creammo né celeste, né terreno, né immortale, né mortale in modo che tu, quasi volontario ed onorario scultore e modellatore di te stesso, possa foggiarti nella forma che preferisci”.
Kant nella “metafisica dei costumi” afferma: “l’uomo ha un valore interiore assoluto cioè una dignità con la quale costringe tutti gli altri esseri razionali ad avere rispetto di lui e grazie alla dignità può misurarsi con ognuno di loro su un piano di parità”.
Riassumendo e concludendo possiamo dire che la dignità si fonda sulla coscienza del proprio dovere e sulla capacità di porci finalità conformi alle leggi Divine.
Sergio Paribelli
FONTE: https://www.eboracum.org/dignita-delluomo/
CYBERWAR SPIONAGGIO INFORMAZIONE DISINFORMAZIONE
Servizi Segreti e Quirinale. Il no alla Belloni e il “precedente” Mattarella (poco conosciuto)
Sergio Mattarella è stato rieletto alla presidenza della Repubblica. Lo spettacolo triste e decadente di quel poco che resta dei partiti italiani si è finalmente concluso. C’è chi dice, forse a ragione, come l’arrivo di Draghi al Quirinale sia stato ritardato di un anno e mezzo; e chi che Mattarella, al contrario di Napolitano, concluderà effettivamente il secondo settennato.
Conta poco. Che dalla caduta del governo Conte II su iniziativa di Renzi (e Gianni Letta) ci sia un patto di ferro tra l’attuale presidente del Consiglio e il rieletto Presidente della Repubblica è noto. Le sorti del paese per i prossimi sette anni sono già segnati.
A proposito di Renzi. Anche in questa elezione (rielezione) del Presidente della Repubblica si conferma – al pari chiaramente di quel Pd che solo 2 mesi fa presentava a firma Parrini-Zanda una ddl per la non rieleggibilità formale del Capo dello Stato – il peggio che la politica italiana oggi sa offrire. E la media come potete capire è già molto bassa di partenza.
A proposito della possibile elezione di Elisabetta Belloni al Quirinale Renzi ha infatti dichiarato: “Solo in un Paese anti-democratico il capo dei servizi segreti diventa presidente della Repubblica”.
Prendendo a riferimento il caso di Bush padre (da capo della Cia alla Casa Bianca) potremmo essere anche d’accordo con Renzi, ma la cosa singolare è che fu proprio lui l’artefice della prima elezione al Quirinale di Sergio Mattarella nel 2015. Tuttavia, in pochi ricordano e fa bene a farlo l’editorialista di Milano Finanza, Guido Salerno Aletta, con un post Facebook, che nel 1998 Mattarella ha ricoperto la delega al Cesis (Comitato esecutivo per i servizi di informazione e sicurezza) durante il Governo D’Alema I. Cesis divenuto dal 2007 – con la riforma dei servizi, la Legge 3 agosto 2007, n. 124 – DIS (Sistema di Informazione per la sicurezza) a cui Draghi ha dato la delega come è noto alla Belloni.
L’anno dopo (1999) il riconfermato Presidente della Repubblica sarà Ministro della Difesa nel governo D’Alema II gestendo la partecipazione dell’Italia nella criminale guerra della Nato contro la Serbia. Una delle pagini più triste della storia della politica estera recente dell’Italia.
Ma c’è di più. E’ proprio dalla Riforma proposta da Mattarella nel 1998 in qualità di vicepresidente del Consiglio con delega ai servizi segreti – rafforzamento del ruolo di controllo politico dei servizi da parte della presidenza del Consiglio, in coordinamento con il Digis (Dipartimento governativo delle informazioni per la sicurezza) sottraendo potere al Viminale e alla Difesa – che si sono poste le basi della successiva riforma del 2007. Possiamo dire che per certi versi la nomina di Draghi alla Belloni sia figlia della riforma che prende spunto proprio da Mattarella.
Possibile che Renzi non lo sapesse? Certamente è un aspetto che si tende a non ricordare del passato politico del riconfermato Presidente della Repubblica e viene omesso anche nel curriculum con cui il sito del Quirinale lo presenta.
Che viviamo in un paese “antidemocratico” per riprendere le parole di Renzi è chiaro e palese a tutti. E non era certo l’elezione della Belloni al Quirinale che avrebbe cambiato qualcosa…
FONTE: https://www.voltairenet.org/article215510.html
La tirannia della libertà nella società contemporanea
Anti-Vaccination Society of America from 1902
La pandemia da COVID-19 e le reazioni alla stessa da parte della popolazione hanno messo in evidenza la diffidenza di alcuni nei confronti della tecno-scienza e, nello specifico, del sapere medico. Sebbene tale mancanza di fiducia fosse già diffusa prima della comparsa del virus, con l’introduzione del Green Pass e, di fatto, di una sorta di obbligo vaccinale, la diffidenza si è trasformata in ribellione contro il sistema.
Quali sono le ragioni che hanno portato alla mancanza di fiducia rispetto a quanto affermato dalla comunità medica internazionale? Io ritengo che la questione riguardi una concezione di libertà esasperata e distorta che si è progressivamente diffusa a partire dal secondo Dopoguerra, risultato della messa in discussione degli assi portanti della società e del rifiuto nei confronti di qualsivoglia limite o oppressione proveniente dall’alto. Infatti, se il periodo prima e durante la Seconda guerra mondiale è stato segnato da regimi che hanno oppresso ogni forma di libertà, dalla seconda metà del Novecento si è fatto strada un progressivo processo di ampliamento delle libertà e dei diritti in ambiti molto diversi: dalla possibilità di scegliere il proprio percorso di studi e/o lavorativo all’introduzione del divorzio nell’ordinamento civile italiano; dalla depenalizzazione dell’aborto alle diverse riforme atte a garantire la parità di genere e a contrastare ogni forma di discriminazione basata su razza, credo religioso, disabilità fisica e/o psichica, omosessualità, etc. Questo processo di ampliamento delle libertà, tuttavia, pare che oggi sia sfociato in un individualismo estremo in cui non si tiene minimamente conto dei diritti e delle libertà altrui, e che vede in ogni limite un nemico da abbattere: si tratta di una concezione di libertà ad ogni costo, che in certi casi pare sfiorare l’anarchia.
Un altro grande cambiamento avvenuto nel XX secolo ha riguardato il modo di pensare l’infanzia; infatti, nell’ambito degli interventi educativi gradualmente si è iniziato a tenere conto della singolarità e complessità di ogni bambino. Si è passati da un’educazione rigida a una, meno opprimente e direttiva, che prende in considerazione le peculiarità di ciascun infante. Ma se, da un lato, ci si è aperti alla psicologia del bambino, dall’altro si è fatta strada una cultura dell’iperprotezione che priva ciascun infante del senso del limite, del rispetto nei confronti degli altri e della responsabilità rispetto alle proprie azioni. Di fatto, oggi molte famiglie si organizzano in funzione delle esigenze e dei desideri dei figli: sono loro che decidono cosa mangiare, cosa comprare o che condizionano il tipo di vacanza. I genitori si premurano di risolvere ogni difficoltà che il bambino incontra nella sua strada, senza lasciargli lo spazio per crescere e sviluppare autonomamente le proprie capacità. La conseguenza di questa cultura è che nel loro sviluppo il bambino e, in seguito, l’adolescente vengono privati di volontà, responsabilità e senso del dovere. Ciò è aggravato dai numerosi casi di alienazione parentale che accompagnano separazioni e divorzi: dinamica in cui uno dei genitori viene frequentemente denigrato dall’altro. Tale processo può essere particolarmente insidioso, poiché una figura di riferimento importante viene demonizzata e privata di valore agli occhi del bambino. Non passerà molto tempo prima che il figlio impari ad utilizzare tale meccanismo nella vita adolescenziale e, dopo, in quella adulta, arrivando a non riconoscere il valore di qualsiasi forma di legge o di autorità.
Di fronte a questo stile educativo iperprotettivo e deresponsabilizzante, molti adolescenti oggi, molto più che prima, appaiono fuori controllo, anticonformisti, senza limiti e pudore. Eredi di una cultura individualista che pone la libertà quale valore fondamentale e figli di genitori iperprotettivi, incapaci di trasmettere il senso del limite e il rispetto nei confronti degli altri, l’adolescenza è divenuta la figura emblematica della nostra società.
Anche la televisione ha contribuito all’individualismo contemporaneo instillando in molti spettatori il desiderio di essere famosi e al centro dell’attenzione. Infatti, programmi televisivi del calibro del Grande Fratello, Isola dei famosi, Uomini & Donne, etc. hanno dato visibilità a personaggi discutibili, privi di cultura, competenza o di qualsiasi particolare qualità, portando alla spettacolarizzazione di litigi e questioni private ai limiti del ridicolo. La vita privata dei singoli è gradualmente diventata una forma di intrattenimento per la popolazione. Inoltre, questo bisogno di fama e visibilità ha trovato un terreno assai fertile nel momento in cui sono stati gradualmente lanciati i social media (Facebook, Twitter, Snapchat, Instagram, Tik Tok, etc.) che hanno dato la possibilità di trasformare la propria vita privata in una sorta di show alla portata di tutti.
Inoltre, sui social media le voci dello scienziato, del medico, dello specialista vengono poste allo stesso livello di quella del profano. Attraverso queste piattaforme è possibile affermare e diffondere su larga scala qualsiasi pensiero, informazione, notizia, etc., senza che venga effettuato controllo esterno dell’affidabilità. Ed in una società “libera” in cui nessuno può imporre la propria visione della realtà sugli altri, il sapere scientifico diventa solo un’opzione tra i diversi contenuti a cui si può accedere online e a cui si può decidere di affidarsi.
In Italia, il lockdown della prima metà del 2020 ha mostrato come una società fondata sul valore inviolabile della libertà possa collassare nel momento in cui la popolazione viene privata di diritti inviolabili. E se da un lato molti si sono rassegnati alle decisioni del governo, accettandole per un bene superiore; altri hanno reagito minimizzando e/o negando la gravità del COVID-19, risultato di un meccanismo di difesa atto ad arginare l’incertezza e la confusione tipica di questo periodo storico. Tale clima è stato rafforzato dalla diffusione di fake news su scala mondiale attraverso i mass e i social media. Se Facebook è risultato la principale piattaforma responsabile della diffusione di notizie i attendibili sul COVID-19, anche il giornalismo ha avuto un ruolo importante; infatti, molti giornalisti e reti televisive hanno contribuito alla diffusione di notizie poco attendibili e hanno dato visibilità ad esperti (o sedicenti tali) che, al fine di ottenere fama e popolarità, hanno divulgato informazioni contrarie a quanto accettato dalla comunità scientifica internazionale. E nonostante le tesi diffuse non siano in alcun modo suffragate da reali prove scientifiche, diverse persone continuano a seguire e ad alimentare l’ego di queste figure.
La tendenza ad affidarsi esclusivamente a fonti d’informazione inattendibili è anche il risultato del bias di conferma o confirmation bias: un meccanismo cognitivo che consiste nel ricercare, selezionare ed interpretare informazioni in modo da porre maggiore attenzione, e quindi attribuire maggiore credibilità, a quelle che confermano le proprie convinzioni o ipotesi e, viceversa, ignorare o sminuire informazioni che le contraddicono. Il risultato di questo processo è che per certe persone le notizie attendibili e verificate vengono percepite come false e manipolate, come esito di una cospirazione a livello mondiale, mentre le fake news vengono ritenute informazioni attendibili.
Tutti questi fattori hanno portato alla progressiva caduta del paternalismo medico in favore del diritto all’autodeterminazione del paziente. La visione paternalistica era basata sull’idea che il medico potesse agire per il bene di una persona senza che fosse necessario chiedere il suo assenso, poiché si riteneva che il paziente non possedesse le competenze necessarie per prendere una decisione relativa alla propria salute. Tuttavia, nonostante i pazienti di oggi non abbiano maggiori competenze di quelle che possedevano trent’anni fa, grazie ad internet si può rapidamente accedere ad una vasta gamma di informazioni relative a una determinata patologia; aspetto che contribuisce notevolmente ad un’illusione di competenza da parte dei profani. Nella società contemporanea ognuno ritiene di essere libero di scegliere come prevenire e/o (non) curare le malattie, non basandosi necessariamente sul parere di professionisti o del sapere scientifico. Nei casi più gravi questa tendenza porta all’adozione di pratiche “mediche” alternative, non scientificamente riconosciute e potenzialmente nocive.
Guglielmo Amato
FONTE: https://www.eboracum.org/la-tirannia-della-liberta-nella-societa-contemporanea/
In Libano smantellate 17 reti di spionaggio israeliane
Il 22 gennaio 2022 le Forze di Sicurezza Interne (FSI) libanesi hanno smantellato 17 reti di spionaggio israeliane. Molte persone sono state fermate, di cui 21 sono in detenzione provvisoria.
Al contrario delle spie arrestate dal 2008, appartenenti soprattutto alle forze armate o ai servizi di telecomunicazione, le persone fermate fanno parte di tutti i settori della società ed erano incaricate di raccogliere informazioni su personaggi politici e organizzazioni come le ONG. I bersagli principali erano comunque lo Hezbollah e la resistenza palestinese.
La maggior parte dei fermati non sapeva di lavorare per Israele, credevano infatti di essere stati reclutati da grandi imprese od ONG straniere.
Rachele Marmetti
L’altra pandemia
Scienza, informazione e fake news al tempo del coronavirus
06 February 2022
Ogni tempo ha il suo fascismo: se ne notano i segni premonitori dovunque la concentrazione di potere nega al cittadino la possibilità di esprimere ed attuare la sua volontà.
Primo Levi
Una delle virtù della democrazia – ineliminabile – consiste nel fatto che ciascuno deve essere esposto alla maggior quantità possibile di opinioni diverse.
Stefano Rodotà
La propaganda è in democrazia quello che il manganello è in uno stato totalitario.
Noam Chomsky
L’ignoranza afferma o nega rotondamente, la scienza dubita.
Voltaire
Parte 1
La guerra dei numeri
L’epidemiologia del COVID-19
Il COVID-19 è una malattia “mortale”?
Letalità, mortalità ed eccesso di mortalità.
La letalità del COVID-19 nel mondo
Il 3 marzo 2020, il direttore dell’OMS (Tedros Ghebreyesus) affermava, durante una conferenza stampa, che il SARS-CoV-2 avesse una letalità1 del 3,4%. Questo valore è stato sistematicamente smentito dalla letteratura scientifica e dalle evidenze epidemiologiche. Ecco alcuni, autorevoli, esempi:
- ► Uno studio di marzo 2020, pubblicato su The Lancet – una delle riviste mediche più importanti al mondo – e condotto da ricercatori afferenti al prestigioso Imperiai College di Londra, stimava la letalità media (ogni età) del COVID-19 in Cina allo 0,6%.1
- ► Ad aprile 2020, John Ioannidis, l’epidemiologo più importante del mondo (e uno fra i 10 scienziati più citati), pubblica un articolo su European Journal of Clinical Investigations nel quale sostiene che la letalità del SARS-CoV-2 sia molto minore dell’1% e che questo valore sia «più elevato di quello delle influenze stagionali – ma non di molto». ii
- ► Ad aprile 2020, uno studio pubblicato su International Journal of Epidemiology stimava la letalità in California attorno allo 0,17% (ogni età).iii
- ► Sempre ad aprile, alcuni ricercatori danesi pubblicano su Clinical Infectious Diseases le loro ricerche: la letalità è dello 0,089%, per la popolazione al di sotto dei 70 anni.iv
- ► A maggio 2020, importanti ricercatori tedeschi dell’Università di Bonn (fra cui virologi, epidemiologi, esperti di sanità pubblica) pubblicano su Nature Communications i loro risultati: in Germania la letalità (standardizzata, ogni età) del COVID-19 è dello 0,35%.v
- ► Ad agosto 2020, ricercatori italiani pubblicano su Eurosurveillance (la rivista ufficiale dell’eCDC, nonché una delle più importanti riviste europee di sanità pubblica) i risultati relativi alla “prima ondata” in Italia. La letalità è dello 0,43% – al di sotto dei 70 anni – e si riduce a zero sotto i 50 anni (su 62.861 casi analizzati).vi
- ► A settembre 2020 viene pubblicata una metanalisi su International Journal of Infectious Diseases. Analizzando i dati relativi a 24 studi, condotti in diversi paesi del mondo, la letalità è dello 0,68%.vii
- ► A dicembre 2020, Giorgio Palù, presidente AIFA, affermava «Covid ha una letalità, in base agli studi di sieroprevalenza, tra lo 0,3 e lo 0,6%. […] Dobbiamo porre un freno a questa isteria ».
- ► Ad aprile 2021, John Ioannidis, alla luce dei lavori pubblicati in letteratura, pubblica sulla rivista ufficiale dell’OMS una metanalisi di 51 studi in 27 paesi che smentisce – al ribasso – le sue stesse stime. La letalità media del COVID-19 nel mondo è fra lo 0,23% e lo 0,27%. La letalità media per persone al di sotto dei 70 anni (nel mondo) varia fra lo zero e lo 0,31% (mediana 0,05%).viii
- ► Un report ufficiale del Center For Disease Control statunitense ha stimato la letalità del COVID-19, a marzo 2021, al variare dei possibili scenari pandemici. Tabella 1, scenario 4: nel caso peggiore, con un R0 di 4, per le persone +70 anni, la letalità (IFR) è inferiore allo 0.1%. Nel caso più realistico (scenario 5), con R0 di 2.5, scende allo 0,05%. La letalità nella fascia 50-69 anni è lo 0,005%. In quella 20-49 anni è lo 0,0002%. Al di sotto dei 19 anni è lo 0,00003%. Queste ultime letalità sono estremamente basse, dell’ordine di parti per milione: al di sotto dei 50 anni è più probabile morire a causa di un fulmine.
- ► A settembre 2021, uno studio pubblicato su International Journal of Infectious Diseases stima la letalità del COVID-19 nei “Paesi emergenti”, basandosi su indagini di sieroprevalenza, allo 0,24%.ix
La letalità del COVID-19 in Italia
Diverse testate italiane, fra cui Repubblica, Leggo, Il Messaggero, Il Fatto Quotidiano, hanno riportato le parole del direttore dell’OMS (riguardo alla presunta letalità del COVID-19 al 3,4%), dando però ad intendere che avesse parlato della mortalità.2 Secondo Il Giornale la mortalità sarebbe addirittura oltre 8%. Questi sono esempi di plateale disinformazione: la mortalità del COVID-19 è oltre 1.000 volte inferiore.3
Secondo i dati ufficiali dell’Istituto Superiore di Sanità [Tabella 1, pagina 12 dell’ultimo4 bollettino di Sorveglianza Integrata COVID-19], la letalità media (su ogni età) del COVID-19 risulta del 2,1%. Al di sotto dei 60 anni sarebbe (di molto) inferiore allo 0,5%. Inoltre è bene ricordare che questi dati sono fortemente sovrastimati: si riferiscono infatti ai decessi totali dall’inizio della pandemia (20 mesi).5
Per continuare la lettura vai al seguente link (pdf scaricabile):
www.sinistrainrete.info/pdf/laltrapandemia.pdf
Sito internet: https://informazionecovid.wixsite.com/home
FONTE: https://www.sinistrainrete.info/pdf/laltrapandemia.pdf
ECONOMIA
Il “bisogno di pazienti” e quel labile confine tra sanità pubblica e privata
1 02 2022 di Eugenio Donnici
Ogni qualvolta ci troviamo ad affrontare un grave problema di salute, entriamo nei meandri di un percorso labirintico, là dove diventa difficile trovare una via d’uscita.
Medicus curat natura sanat, recita l’aforisma, per dire che le conoscenze e le tecnologie di cui dispone la medicina attuale, non di rado, non sono sufficienti a riportare il paziente sulla via della guarigione.
Sia come sia, il tema della salute, anche e soprattutto per le tensioni generate dalla crisi pandemica, ritorna continuamente al centro del dibattito pubblico, con il rischio di diventare l’oggetto di una contesa inestricabile tra varie fazioni in lotta, sullo sfondo di un pervasivo processo di privatizzazione del SSN, nato nel 1978 dalla soppressione delle “Casse Mutue” e ispirato ai principi di universalità, equità e uguaglianza.
Tali principi, con l’ascesa delle forze liberiste e il conseguente cambio del paradigma economico-sociale, nel corso degli anni Ottanta seguirono un percorso accidentato e travagliato, al punto che finirono per sgretolarsi, quando vennero emanati i primi provvedimenti sulle privatizzazioni delle strutture sanitarie pubbliche.
In realtà, i diritti sociali, tra cui quello alla salute, garantiti e riconosciuti dalla nostra Costituzione, avevano già iniziato a scricchiolare a metà degli anni Settanta. In quel periodo, infatti, si era aperta la breccia attraverso cui si diffondeva l’idea che le prestazioni private a pagamento erano superiori a quelle gratuite. Forse, coloro che hanno una certa età dovrebbero ricordare le prese in giro degli oculisti o dei dentisti delle mutue e l’esaltazione dei pregi di quelli privati.
Gli insidiosi e piccoli rivoli che solcavano il terreno, ben presto, finirono per ingrossarsi, ricevendo acqua a bizzeffe dalle continue inondazioni che alimentavano l’erosione delle precedenti conquiste dello Stato sociale.
Nei primi anni novanta del secolo scorso, i sostenitori delle politiche sociali a vantaggio dei meno abbienti, comprese le nuove generazioni che ne condividevano le scelte, furono neutralizzati dalla dottrina mistica dei conti pubblici in ordine, dottrina che ha ignorato il fatto che gli squilibri dei Bilanci pubblici erano generati dal prendere a prestito il denaro dai privati sul mercato, dietro il pagamento di interessi crescenti.
In tali circostanze, le USL furono trasformate in ASL e si diffuse la credenza che gli ospedali potessero funzionare come delle aziende private, improntate ai criteri di efficienza, efficacia e al calcolo di convenienza economica. Tutto ciò che era gestione pubblica divenne sinonimo di spreco e malaffare, mentre i funzionari pubblici ottennero la patente di dirigenti d’azienda e poterono finalmente trattare i pazienti come clienti.
Al tempo in cui managers aziendali diventarono l’icona di condottieri dell’economia, gli speculatori finanziari celebravano «orge cosmopolite» e i proletari credevano di poter moltiplicare i propri soldi, nelle strutture pubbliche di erogazione dei livelli essenziali di assistenza furono introdotte misure legislative che aprivano nuovi varchi ai fautori della mercificazione della salute.
Dapprima, si è consentito ai medici delle strutture pubbliche di poter lavorare anche in quelle private, successivamente si è data l’opportunità agli stessi di effettuare prestazioni sanitarie in regime di intramoenia, vale a dire che il professionista, nel mettere il suo tempo e il suo sapere a disposizione degli utenti (clienti), fuori dal suo regolare orario di lavoro, usa gli strumenti, i locali e il personale di servizio non medico, ottiene un corrispettivo e paga una percentuale del 6,5 % sul suo fatturato alla struttura ambulatoriale.
Su quest’ultimo punto, l’intervento del legislatore la dice lunga sulla sua buona fede, in quanto invia un messaggio esplicito: basta pagare e lo stesso tipo di prestazione, che con la prescrizione del medico di base richiede mesi, sarà effettuata in pochissimi giorni.
D’altronde, se ci rivolgiamo a qualsiasi studio medico privato, le richieste vengono evase in tempi rapidi. Nella maggior parte dei casi, quei medici che vediamo operare in equipe in cui si scambiano informazioni nell’ottica del cooperave learning, in quanto convinti di essere troppo ignoranti quando agiscono isolatamente, non appena scatta l’ora X di fine turno nell’azienda ospedaliera pubblica dove lavorano, quegli stessi medici li vediamo correre a gestire il pacchetto clienti nella propria bottega. Ed è proprio in queste cellette singole e slegate tra di loro che si coltivano gli interessi privati e si preparano gli accessi alle strutture pubbliche o accreditate per i ricoveri e gli interventi.
L’affermarsi di quest’ultima relazione produttiva ha partorito, a sua volta, il bisogno dei pazienti – complici anche il clima di sfiducia e la confusione che innervano le strutture sanitarie – di essere operati da un chirurgo competente e affidabile, di un ospedale accreditato, dietro il pagamento di un corrispettivo, saltando nel concreto le lunghe liste di attesa delle persone con una simile patologia.
Ergo: per imboccare la corsia preferenziale, è sufficiente comprare il servizio di cura!
Profitti e salute
Fin qui non siamo ancora entrati nel cuore del problema delle privatizzazioni.
C’è un altro aspetto dei processi di privatizzazione di cui bisogna tener conto e per il quale vale la pena interrogarsi: è giusto che le strutture private realizzino profitti sulla salute dei cittadini, ottenendo, tramite gli Enti regionali, i rimborsi delle prestazioni effettuate da parte del SSN,?
La questione del profitto va di pari passo o è implicitamente collegata ai criteri di efficienza aziendali, i quali si fondano sulla riduzione dei costi ai minimi termini e sull’incremento dei ricavi, in modo da ottenere un congruo ROI.
Una tale pratica esercita un peso notevole sull’operato delle strutture pubbliche, le quali, pur essendo soggette al vincolo dei conti in pareggio, vengono rimborsate in base al numero delle prestazioni effettuate. Di conseguenza anch’esse tenderanno a iper-produrre, con il forte rischio di intraprendere attività inutili o inopportune. Da questo punto di vista, per meglio esplicitare la situazione paradossale in cui si vengono a trovare gli operatori sanitari, potremmo condividere il pensiero di S. Canitano, quando afferma che se i Vigili del fuoco venissero pagati a prestazione, potrebbero andare in giro ad appiccare il fuoco. (1)
L’ingresso e l’espansione degli investitori privati nella medicina ha legittimato la promozione della salute come una merce, che alla pari di tutte le altre merci è diventata oggetto del profitto. Per un altro verso, tale apertura ha consentito agli imprenditori privati di godere di un mercato garantito, poiché, come dice Gino Strada, possiamo scegliere di andare o non andare a mangiare al ristorante, ma non possiamo decidere se ammalarci oppure no. Il che significa che con molta probabilità vengono messe in atto imponenti campagne pubblicitarie per la promozione della malattia.
In un simile contesto, il confine tra la promozione della salute e della malattia diventa molto labile.
Su questa scia, lo Stato è diventato «il primo cliente della sanità privata: il SSN acquista infatti il 60 per cento delle sue prestazioni, per un valore di 41 miliardi di euro». (2)
Nel sistema sanitario è stato individuato un chiaro sbilanciamento a favore dei privati e a sostegno di questa tesi ci sono di aiuto i dati elaborati da M.E. Sartor a proposito della sanità lombarda.
I posti letto negli ospedali pubblici della Lombardia, nell’arco temporale che va dal 1995 al 2017, sono stati più che dimezzati, sono calati da 45.000 a circa 20.000(3). Eppure, in questo trend, Sartor ha rilevato una controtendenza che esplica lo sbilanciamento del sistema sanitario a favore dei privati. Infatti, questi ultimi, nello stesso lasso di tempo, hanno incrementato la capienza ricettiva di 3.000 posti(4).
Il discorso diventa ancora più complesso se teniamo conto della rilevanza e della diffusione che assumono i farmaci nella nostra vita quotidiana. Ci sono farmaci che, per via dei brevetti e delle logorroiche e capillari campagne promozionali, costano al SSN cifre da capogiro, con l’aggravante che spesso si rivelano inefficaci e gravidi di effetti collaterali. Eppure, una volta che l’AIFA autorizza la casa farmaceutica alla commercializzazione di un principio attivo e il SSN l’acquista, è difficile fermare la “macchina” e riconoscere gli effetti negativi del farmaco in circolazione.
I limiti dello schema dicotomico pubblico-privato
Quando ci lamentiamo o proviamo rancore nei confronti del nostro SSN e lo accusiamo di non essere in grado di far fronte in modo celere alle nostre richieste di assistenza sanitaria, di non essere capace di eliminare le piccolissime percentuali di errori durante gli interventi chirurgici, di non aver salvato la vita a un nascituro, prima, durante o subito dopo il parto e così via, dimentichiamo, per esempio, che nel 1863 su 1.000 bambini nati vivi, 232 morivano durante il primo anno di vita.
Ma questa riflessione non ci impedisce di sottolineare che nel «decennio 2010-2019 tra tagli e definanziamenti al SSN sono stati sottratti circa € 37 miliardi e il fabbisogno sanitario nazionale (FSN) è aumentato di soli € 8,8 miliardi». (5)
Tuttavia, le strutture del SSN, sia la componente pubblica che quella privata, nel prendere in carico i pazienti, per quanto riguarda la storia clinica degli assistiti, non riescono a condividere le informazioni mediche elaborate durante il percorso di cura.
A tal proposito, le critiche avanzate da L. Foresti sono puntuali, in quanto è assurdo che le aziende sanitarie dislocate sul territorio non comunichino tra di loro: non c’è un approccio collettivo nella gestione dei dati relativi alle relazioni di cura e assistenza, mentre le informazioni rilevanti vengono date in mano al singolo paziente, che va in giro con la sua sconnessa e disordinata cartella.
Così come è opportuno evidenziare che l’individuazione del valore che una determinata terapia farmacologica apporta alla società e ai singoli pazienti è una materia molto complessa e delicata per consegnarla in mano alle lobby delle case farmaceutiche, le quali tendono a far lievitare i prezzi dei principi attivi, in base alle loro capacità di penetrazione del mercato e sulla pelle di coloro che esprimono urgenti bisogni di essere curati.
Tutti i tentativi di trasformare i prodotti dell’assistenza sanitaria in prodotti standard, da posizionare, scambiare e commercializzare sul mercato, si scontrano con la complessità che li caratterizza e che si traduce nei difficili rapporti di equivalenza tra valori e prezzi.
Pertanto, può succedere che una Stroke Unit ben organizzata, indispensabile per affrontare tempestivamente le problematiche inerenti a chi è colpito da ictus, abbia dei costi elevatissimi, ma inferiori al suo valore d’uso, se teniamo conto dei costi sociali legati all’invalidità che questa determinata patologia causa, quando viene trattata in ritardo. Al contrario, la RM lombare, nota per «lo scandalo delle lunghe liste di attesa, è un esame diagnostico inutile e inappropriato», (6) il cui valore d’uso è inferiore al costo, esprime un valore d’uso negativo.
Ci troviamo di fronte, dunque, a situazioni complesse che mettono in rilievo non solo l’avanzamento della sanità privata a danno di quella pubblica, ma anche le criticità di quest’ultima forma organizzativa.
Del resto, la crisi pandemica, che ci sta dando filo da torcere, ha messo in evidenza e accentuato lo scatafascio precedente e ci ha imposto di ricorrere al linguaggio militare, tant’è vero che se si usa per diversi mesi l’espressione “coprifuoco”, non c’è da meravigliarsi che il Governo nomini come Commissario straordinario per l’emergenza Covid-19 il generale Figliuolo.
Ma proprio per questo motivo e per tutte le difficoltà che sorgono nella gestione di contesti complicati e complessi, sarebbe curioso chiedersi:
Qual è la differenza principale tra un generale e un primario di un ospedale?
A dire il vero, ci sono tante differenze e tante somiglianze, ma vorrei soffermarmi su un determinato punto, che, molto spesso, è stato tralasciato o completamente ignorato.
Entrambi coordinano le risorse di cui dispongono, per raggiungere obiettivi diversi, entrambi guidano una “macchina”, che una volta messa in moto, difficilmente può essere fermata. Ma è proprio questa la differenza dirimente: nel caso del generale, se la “macchina” è stata preparata per bombardare l’avamposto del nemico, la paura che si può provare non ferma l’azione, anzi funziona da stimolo ad agire, per il solo fatto che tutto il lavoro preparatorio non può essere sprecato. Al contrario, nella sanità, la paura, se non si è sicuri di portare a termine un determinato intervento, può bloccare l’azione e obbligare il primario dell’ospedale a ripensarci, a ridefinire il modo di procedere.
Il generale, sia nell’azione di difesa che di attacco, ha il compito di neutralizzare o annientare il nemico, mentre il chirurgo ha il compito di curare le ferite di quelli che cadono in battaglia. Il chirurgo può fermare la “macchina”, in quanto non tratta il soggetto che ha di fronte come un nemico.
—————
(1) Stefano Canitano, Sanità e profitto. Perché ha ragione Gino Strada, http://www.quotidianosanita.it, 06/05 2013.
(2) Laura Melissari, I privati hanno un ruolo sempre maggiore nella sanità pubblica, https://www.internazionale.it, 09/12/2020
(3) L’elaborazione di questi dati sintetici, nella maggior parte dei casi, non tiene conto dell’aumento della capacità produttiva, infatti grazie all’utilizzo di macchinari sempre più precisi, al perfezionamento delle tecniche nelle sale operatorie e all’acquisizione di conoscenze specifiche sulle pratiche terapeutiche, in alcuni reparti i ricoveri sono giornalieri. Si pensi all’intervento di cataratta che negli anni ottanta del secolo scorso richiedeva circa tre ore e un ricovero di due settimane, ai giorni nostri viene eseguito in venti minuti e il paziente è dimesso dopo poche ore.
(4) M. E. Sartor, La nebbia sulla sanità lombarda, https://serenoregis.org, 09/12/20219; Webinar del 1616/11/20, www.youtube.com
(5) Il definanziamento 2010-2019 del Servizio Sanitario Nazionale, Osservatorio GIMBE n. 7/2019, www.gimbe.org
(6) Stefano Canitano, Ivi.
FONTE: https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-il_bisogno_di_pazienti_e_quel_labile_confine_tra_sanit_pubblica_e_privata/34357_44980/
LAVORO PENSIONI DIRITTI SOCIALI
“Gamification” e le nuove tecniche (occulte) di controllo del lavoro
Leo Essen – 31 Gennaio 2022
Come rendere attraente un’attività intrinsecamente noiosa?
Nei Corsi Avanzati delle più prestigiose Business School questa domanda impegna i migliori cervelli.
Ayelet Fishbach, ricercatrice alla Prestigiosa Booth School of Business dell’University of Chicago, esperta di Psicologia sociale, Motivazione del processo decisionale, Management e Comportamento dei consumatori, in un recente studio ha censito tre modi o strategie per rendere un’attività noiosa o faticosa più intrinsecamente motivante (chicagobooth.edu).
Innanzitutto, scrive, c’è la strategia “make-it-fun” – rendi divertente l’attività. Bisogna associare all’attività incentivi immediati – mini-obiettivi. Quando la persona raggiunge l’obiettivo, il regolatore (che di solito è una macchina) eroga un token o un cookie (un biscottino). In questo modo, scrive Fishbach, l’attenzione della persona viene deviata dall’attività vera e propria verso la gratificazione (il biscottino). Il fine diventa la gratificazione, mentre l’attività vera e propria diventa il mezzo per realizzarla.
Fishbach, esperta psicologa, non si avventura, come avrebbe fatto Zizek, in una analisi del profondo. Si limita a dire che gli incentivi sfruttano il bisogno immediato di gratificazione, soddisfano un desiderio crescente (ma minuscolo) con dosi minime e ripetute di biscotti e zuccherini, creando una dipendenza che attiva il desiderio alla sola vista del biscotto.
Non siamo lontani dalle pubblicità tradizionali che passano in TV, dove, ai signori sintonizzati su Carta Bianca, si fanno vedere cioccolatini e merendine, non tanto per promuovere la marca, quanto per dare il segnale operativo, la scossa che fa alzare dal divano e andare alla credenza – in stato di semi-coscienza.
In un esperimento con studenti delle superiori, Fishbach ha somministrato musica e merendine e ha scoperto che il piccolo incentivo aumentava l’impegno e le ore di studio. L’offerta immediata di piccoli incentivi rendeva la matematica più sopportabile.
Non si tratta di fornire un incentivo unico e corposo al termine di un lavoro, come la paga per un lavoratore. Si tratta di segmentare un’attività lineare e noiosa, dirottando l’attenzione dallo scopo dell’attività vera e propria verso il micro-incentivo. L’incentivo deve essere piccolo, e continuo, in quanto solo se somministrato con una cadenza che alterna rapidamente movimenti di ascesa (mini-incentivo) a movimenti di discesa, si tiene ritta e salda la tensione lavorativa.
Questo metodo, usato per legare le persone alla postazione, è stato introdotto nei videogame. Solo in un secondo momento si è capito che poteva essere esportato dalle console di gioco e innestato nel processo lavorativo.
La Scienza delle Organizzazioni Complesse, quel ramo della socio-psicologia che studia il processo lavorativo, cercando metodi per incrementare la produttività del lavoro, ha cominciato a interessarsi al fenomeno catalogandolo sotto l’etichetta Gamification. Oggi disponiamo di una vasta letteratura. Persino in lingua italiana. Ciò che si cerca di fare è esportare le tecniche di game design in contesti esterni ai giochi. L’Istituto Europeo di Design (IED) di Milano, che vuol fare la sua bella figura sul mercato dell’MBA e della graduate school, ha attivato una cattedra di Engagement e Gamification. Fabio Viola, che vi professa, spiega come l’intenzione è di implementare meccaniche ludiche capaci di produrre cambiamenti apprezzabili sui comportamenti e sulle performance individuali. Per esempio: un manager che proibisce i ritardi nella propria azienda sta impartendo un ordine; se invece incentiva la puntualità attraverso una classifica aziendale dei lavoratori più puntuali, sta sfruttando un mini-incentivo (V. Petruzzi).
Per i patiti di VideoGame si tratta di meccanismi stra-conosciuti. Il Tamagotchi, un videogioco giapponese, era formato da una console portatile a forma di uovo, con un piccolo schermo e tre tasti. Il gioco era un simulatore di vita. Il compito del giocatore era prendersi cura di un piccolo animaletto (Tamagotchi), trattandolo come un animale domestico, dunque facendolo mangiare, dormire, cacare, eccetera. Il pungolo era rappresentato dalle richieste dell’animaletto, il token dal fatto di averlo tenuto in vita per quel giorno.
Poi è arrivato Pokémon GO, in cui l’obiettivo pedagogico di far camminare o uscire di casa (in contro-tendenza con i giochi più tradizionali) veniva perseguito mediante i mini-incentivi costituiti dal Desiderio di “acchiapparli tutti”.
La Gamification si affianca e supera le vecchie tecniche di Controllo del Lavoro – Kaizen, TQM, Just in time, Statistical process control, eccetera. Ippolita, un gruppo milanese di reality hacking, in un manuale di autodifesa digitale, fornisce suggerimenti molto utili per comprendere se ci si trova in un ambiente gamificato.
Se nell’ambiente la stimolazione predominante è visiva (l’occhio domina gli altri sensi); se si ha una dispercezione spazio-temporale (il tempo sembra scorrere molto velocemente); se c’è astrazione ambientale (l’ambiente esterno alla procedura non raggiunge lo stadio percettivo conscio); se c’è la tendenza all’aumento quantitativo di sessioni o di accessi; se le azioni sono semplici e ripetitive ed effettuate in modo meccanica, “senza pensare” (ricorso alla memoria procedurale), e facilmente quantificabili; se ci sono segni o simboli che misurano ed esprimono in modo quantitativo l’attività; se ci sono premi, classifiche, status, badge, ricompense; se sono assenti marche esplicite che delimitano lo spazio-tempo dell’azione; se non si utilizzano formule esplicite per entrare-iniziare nell’attività o per uscire-finire; se è impossibile cambiare le regole dell’attività in modo concordato; se ci sono tutte o molte di queste caratteristiche ci si trova in un ambiente gamifigato.
L’esempio tipico di ambiente gamificato è Facebook, e, in genere, tutto ciò che gira intorno alla Fan Culture. Quando la Cina ingaggia una lotta senza quartiere contro questo sistema, non sta (NON STA) privando i cittadini della loro libertà di espressione. Sta ponendo una questione che attiene alle tecniche di controllo del lavoro, tecniche pervasive in Occidente, e che si tenta di impiantare anche in Cina. Il capitalismo non ha Nazione, non ha Ideali, non ha una Politica, attacca una cellula (anche comunista) con l’obiettivo di costruire il tandem capitale-lavoro, dove il lavoro e incentivato, anche con biscottini e zuccherini, a riprodurre se stesso e il capitale che lo sfrutta.
PANORAMA INTERNAZIONALE
Destino manifesto: Cina e Russia riescono dove gli Stati Uniti falliscono
Matthew Ehret, SCF 22 gennaio 2022
“Il modo migliore per prevedere il futuro è crearlo“.
Abraham Lincoln
Dovrebbe essere ovvio che il mondo viene risucchiato in una nuova Guerra Fredda, con la cortina di ferro della vecchia scuola, la retorica anticomunista e persino il tintinnio della sciabola nucleare spinti dai guerrafondai unipolari occidentali. A differenza della prima Guerra Fredda, questa nuova varietà presenta Russia e Cina che lavorano a stretto contatto coll’Iran e un coro crescente di nazioni che sempre più s’integrano nella Belt and Road Initiative. Quale crimine hanno commesso le nazioni eurasiatiche in modo tale che il complesso industriale militare USA/NATO ne faccia suoi obiettivi? Semplicemente hanno scelto di non sottomettersi alla dittatura scientifica tecnocratica unipolare. Invece di abbracciare un destino distopico rinchiuso in una gabbia geopolitica sempre più stretta come Boris Eltsin o Zhao Ziyang erano felici di fare non molto tempo fa, l’intellighenzia eurasiatica di oggi riconosce che l’unica soluzione alla multiforme crisi che minaccia la civiltà sia nel futuro. Questo può sembrare banalità per alcuni, ma da un punto di vista geostrategico, il futuro è dove vive la creatività.
Quando le risorse sono monopolizzate e sistemi di regole modellati da un’élite sociopatica antagonista ai diritti fondamentali dell’umanità, l’unico percorso praticabile di resistenza impegnandosi in un combattimento vincente è cambiare le regole del gioco truccato e creare nuove risorse. Ciò avviene aumentando l’opportunità di 1) fare nuove scoperte, 2) creare nuove risorse, 3) tradurre i principi appena scoperti in nuovi miglioramenti tecnologici e 4) aumentare i poteri produttivi (mentali, spirituali e fisici) dell’umanità. Se i passaggi 1-4 non esistono al momento, dove si trovano? Lo ripeto: il futuro.
Il concetto di ideali futuri positivi teleologicamente (1) che guidava la società era un concetto potente che un tempo governava gran parte della civiltà occidentale. L’idea che l’uomo fosse immagine viva del Creatore, capace di partecipare allo stesso processo continuo di creazione era una nozione potenziante che animò alcuni dei maggiori balzi del progresso scientifico, libertà, sovranità, aumento della qualità della vita e popolazione in crescita mai vista. Nei primi Stati Uniti, questo concetto divenne noto come “destino manifesto”… che Dio aveva un piano per espandere il meglio della civiltà ed estendere i frutti del progresso a tutti al fine di adempiere al mandato biblico che l’umanità doveva “essere feconda e moltiplicarsi” e “ricostituire la terra e soggiogarla”. Mentre molti vantaggi per l’umanità sono nati da questa idea, fu anche un’arma a doppio taglio che causò gravi danni se usata da tiranni, schiavisti o imperialisti che ignoravano la realtà che TUTTA l’umanità fu dotata dal creatore di diritti inalienabili e non solo pochi eletti che pretendevano di avere le giuste caratteristiche educative, religiose, linguistiche o razziali.
Il nuovo destino manifesto eurasiatico si risveglia
In Russia, questo orientamento al futuro prese la forma di sorta di “destino manifesto russo” del 21° secolo che mira ad estendere la civiltà nell’Estremo Oriente e Artico siberiano, e oltre Asia centrale, Mongolia, Giappone, Cina e oltre. Mentre molti sono abituati ad analisi miopi degli eventi mondiali dalla modalità “dal basso verso l’alto”, è chiaro che, “Dal 2018, le ambizioni dello sviluppo orientale della Russia si sono sempre più fuse coll’estensione settentrionale della Cina della BRI soprannominata The Polar Silk Road, che amplifica la crescita di ferrovie, strade, hub delle telecomunicazioni, porti, progetti energetici e corridoi marittimi attraverso regioni a lungo ritenute inospitali per la civiltà umana. La Cina ha visto la nascita della propria versione di “Manifest Destiny” sotto forma di Belt and Road Initiative, svelata nel 2013, mostrando un potere di trasformazione, interconnettività e cooperazione vincente al di là di qualsiasi cosa anche i suoi primi fan potessero immaginare otto anni fa. In un breve lasso di tempo, furono spesi oltre 3 trilioni di dollari per progetti infrastrutturali di piccola, media e grande scala che coinvolgono 140 nazioni (con vari gradi di partecipazione). Dando un’occhiata alle migliaia di progetti BRI che nascono nel mondo, troviamo la maggiore gamma di linee ferroviarie (inclusa l’alta velocità: maglev e convenzionale), corridoi di sviluppo integrato, nuove città intelligenti, nuovi hub industriali, gasdotti e iniziative scientifiche avanzate che toccano esplorazione dello spazio, energia atomica, ricerca sulla fusione, informatica quantistica e molto altro. Questi corridoi di sviluppo si sono estesi attraverso le linee settentrionali su Russia e Asia centrale includendo il ” Corridoio centrale della BRI”. Di recente, si assisteva allo sbocciare della rotta meridionale dalla Cina a Pakistan, Iran, Iraq, Siria e Libano prendere forma anche con la Siria che finalmente lo firmava il 12 gennaio 2022. Anche nazioni in Africa sono salite a bordo con entusiasmo con oltre 48 delle 54 nazioni africane che aderiscono alla BRI. Attualmente, hanno aderito al programma anche 18 Stati iberoamericani e 20 arabi.
La diversità deve essere sacrificata all’unità?
Cina e Russia hanno nazioni estremamente grandi con vasto potenziale in risorse non sviluppate, manodopera e bisogni tecnologici, ma ospitano anche una vasta gamma di gruppi culturali, religiosi, linguistici ed etnici piccoli e di tutti i ceti sociali. La stragrande maggioranza dei 146 milioni di cittadini russi vive nel 1/5 più occidentale del Paese, con l’80% della popolazione che vive all’interno o nelle vicinanze di zone urbane che si estendono dal Baltico al Mar Caspio. Nelle vaste regioni nord-orientali della Siberia (che occupano una massa continentale 1,3 volte più grande del Canada), solo 24 milioni di cittadini sono sparsi in questa terra sottopopolata. La Cina deve affrontare problemi simili con la densità di popolazione e i settori sviluppati rinchiusi non a ovest, ma lungo la costa sul Pacifico. Quasi il 94% della popolazione cinese vive ancora a est della linea Heihe-Tengchong col vasto cuore che ospita solo il 6% della popolazione cinese. La Russia ospita 193 gruppi etnici che comprendono quasi il 20% della popolazione e sebbene la popolazione Han della Cina sia di gran lunga la più numerosa (rappresentando il 91% della popolazione), ci sono 56 gruppi etnici distinti che rappresentano 113 milioni di persone, molti che vivono sparsi in Tibet, Xinjiang e Mongolia Interna.
Il pressante dilemma affrontato dai leader eurasiatici che pianificano i programmi di espansione verso l’estero può essere espresso nel modo seguente: come è possibile estendere lo sviluppo scientifico e industriale a territori multietnici e multilinguistici sia a livello nazionale che internazionale senza distruggere il patrimonio culturale delle centinaia, se non migliaia di piccoli gruppi culturali lungo il percorso? Lo sviluppo deve sempre avvenire a spese della diversità culturale dei gruppi etnici piccoli, come successo troppo spesso nella storia del mondo, O esiste un modo organico per bilanciare entrambi i fattori?
Come NON attuare il Destino manifesto
L’ironia è che fino a poco tempo il concetto di Destino manifesto era tradizionalmente associato agli Stati Uniti che condividono molte caratteristiche demografiche con la Cina e la Russia con la stragrande maggioranza della popolazione concentrata nella metà orientale del continente. Purtroppo, le forze che plasmarono l’espansione nordamericana, specialmente durante quei primi 125 anni in cui il destino manifesto ebbe la maggiore influenza, troppo spesso fallirono miseramente questo test. Nei primi 12 decenni di vita, gli Stati Uniti passarono da 13 colonie arretrate nel 1776 a 45 Stati industrialmente avanzati nel 1900. Nel corso di quegli anni, le voci più sagge contro la schiavitù di Benjamin Franklin, John Jay, John Quincy Adams, Abraham Lincoln, Charles Sumner, William Seward e William Gilpin furono troppo spesso sovvertite da una classe di parassiti anglofili dello Stato profondo che gestiva Wall Street a nord che lo schiavismo a sud. Tale idra in agguato nel cuore degli Stati Uniti aveva le sue idee pervertite di “destino manifesto” che si opponevano diametralmente alle ambizioni dei grandi statisti sopra elencati. Laddove figure di spicco dell’abolizionismo come Benjamin Franklin e Alexander Hamilton incoraggiarono condivisione di conoscenze, abilità tecniche, scienza e frutti del progresso tecnologico sia a neri che nativi senza imporre conversioni religiose o schiacciarne le tradizioni locali, lo Stato profondo nelle zone di influenza a nord e sud cercavano di espandere il potere solo attraverso la frusta dei conquistatori.
La perversione meridionale del Destino manifesto promossa da Andrew Jackson, Jefferson Davis e Albert Pike prevedeva l’ascesa della schiavitù di nera e nativi americani schiacciati sotto il tallone della razza bianca “superiore” e confinati in piantagioni o riserve simili a gabbie a non avere mai voce in capitolo nel proprio destino. L’Indian Removal Act di Jackson del 1830 svuotò terre preziose consegnate rapidamente ai piantatori di cotone del sud che ampliarono rapidamente l’afflusso di schiavi neri dall’Africa, aumentando notevolmente la tensione tra Stati liberi e schiavisti, portando all’inevitabile guerra civile del 1861-65. Si dimentica spesso che sotto la presidenza massonica legata a Mazzini di Franklin Pierce (1853-1857), l’allora segretario alla Guerra Jefferson Davis (poi presidente confederato) e il generale Albert Pike erano incaricati di promuovere l’”alternativa meridionale” alla ferrovia transcontinentale, attraverso gli Stati schiavisti. A differenza della linea settentrionale (iniziata da Lincoln nel 1863) progettata per diffondere la crescita industriale e, infine, connettersi con la Cina, (2) la versione meridionale serviva semplicemente come gabbia di ferro per mantenere gli schiavi sotto il controllo dei padroni. In tal modo, il “Destino manifesto” confederato non era diverso dalla visione razzista di Cecil Rhodes della linea ferroviaria da Capo a Cairo cercando di mantenere il continente sotto il tallone britannico o l’odierno piano UE-Londra “Green Belt Initiative”/OSOWOG per imporre le reti di energia verde dall’Africa all’India.
Durante la guerra civile, gli inglesi furono più che felici di fornire armi, navi da guerra, supporto logistico, centri di intelligence in Canada e finanziamenti ai ribelli che quasi portarono Lincoln a combattere una guerra su due fronti (uno contro il sud e l’altro contro l’impero britannico) (3). Mentre i legittimi difensori dell’American Manifest Destiny cercavano di evitare la guerra, affidandosi invece alla diplomazia per far crescere i loro territori (vedi: l’acquisto della Louisiana del 1804, dell’Oregon nel 1848 o dell’Alaska del 1867 ) l’”America” di Wall Street e il potere schiavsta della Virginia era sempre felice di combattere con un vicino per diffondere le proprie ambizioni imperiali (vedasi la guerra messicana del 1846-48, o il rovesciamento della monarchia delle Hawaii nel 1893). Sfortunatamente, quelle tradizioni che un tempo resistevano all’imperialismo sono svanite, con la repubblica odierna misera ombra di se stessa, epurata dagli autentici patrioti dalle posizioni di potere federale. Gli Stati Uniti di oggi hanno svuotato la loro base industriale, distrutto il loro legame culturale con i valori cristiani e la loro fede nel progresso scientifico, risultando una nazione alienata di consumatori nichilisti senza idea sul futuro.
La crescita dell’eco-colonialismo nel XX secolo
Il programma razzista di ghettizzazione dei nativi sotto forma di riserve tribali segregò per generazioni le tribù della Prima Nazione dal resto della società, tenendole bloccate in cicli di dipendenza, povertà, abuso di sostanze, tassi di mortalità infantile e grandezza di suicidi superiori alla media nazionale. Tale manipolazione dei nativi americani vide queste persone maltrattate utilizzate dai maestri del gioco nel tentativo di bloccare progetti di sviluppo continentale ampi nell’ambito della politica di “gestione degli ecosistemi umani”. Dalla fine degli anni ’60, è sempre più di moda trattare le popolazioni autoctone come semplici estensioni dei loro ecosistemi locali, che si presume esistano in equilibrio stazionario coi modelli computerizzati utilizzati per calcolare le regioni di conservazione e crescita ottimale della popolazione per decenni.
Per chiunque cerchi di capire perché la politica di crescita economica su larga scala avanzata da gente come Franklin Roosevelt e JFK fu deragliata alla fine degli anni ’60 coll’inizio della guerra del Vietnam, comprendere tale uso razzista delle riserve native e della gestione dell’ecosistema è vitale. La vasta crescita dei parchi di conservazione e delle terre federali escluse da ogni investimento infrastrutturale non fu effetto di amanti della natura cordiali come molti sono indotti a credere, ma piuttosto l’effetto di una politica calcolata a freddo da parte di giocatori geopolitici intenti a mantenere la società rinchiusa in un piccolo mondo controllato delle “risorse limitate”.
Mentre gli imperialisti liberali versavano lacrime di coccodrillo per la difficile situazione dei nativi abusati a lungo dai colonizzatori bianchi egoisti, erano ben felici di sostenere la sterilizzazione in massa delle donne native negli anni ’70 e di mantenere i nativi senza acqua potabile pulita, elettricità, assistenza sanitaria o persino accesso a servizi di qualità. Uno dei più accesi sostenitori della ferrovia transcontinentale (che si estende in Eurasia) fu William Gilpin (governatore del Colorado durante la guerra civile), alleato di Lincoln, che identificò astutamente le riserve come “come blocchi di pietra nel muro di una prigione contro la linea di frontiera”. Sotto il velo di questo nuovo tipo di colonialismo moderno, il denaro fu spesso infuso nelle casse di capitribù corrotti felici di lasciare che i cartelli petroliferi sfruttassero le loro risorse mantenendo la loro gente bloccata nella dipendenza e privazione tecnologica. Da questo punto di vista, si può vedere un chiaro parallelo nell’applicazione di una simile politica neocoloniale all’Africa.
Cina: un destino manifesto con dignità
Nonostante le forti denunce dalla classe politica occidentale gestita dai Five Eyes, l’approccio della Cina ai partner africani della BRI che ai loro gruppi minoritari è in netto contrasto con la nefasta tradizione di sfruttamento e genocidio culturale dispiegata dall’oligarchia occidentale per generazioni. Ciò che abbiamo visto in luoghi come Tibet e Xinjiang sono centri del patrimonio culturale, tassi di alfabetizzazione esplosivi, celebrazione e insegnamento di lingue, canti, storie e danze tradizionali col pieno patrocinio del governo. Sebbene le prove di questa crescita culturale siano cresciute in tutte le zone etniche minoritarie, abbiamo anche assistito a una crescita drammatica in termini di longevità, densità di popolazione, qualità della vita, riduzione della povertà e della mortalità infantile e accesso a competenze industriali avanzate, acqua pulita, Internet e elettricità abbondante. A livello religioso, nello Xinjiang esistono attualmente oltre 24400 moschee, per non parlare di 59 templi buddisti e 253 chiese. In soli otto anni, la rovina del terrorismo finanziato da Arabia Saudita e Stati Uniti in Cina è stata affrontata senza che un solo Stato arabo sia stato bombardato, il che non è un risultato da poco. In Tibet, alta velocità e ferrovia convenzionale hanno collegato le comunità locali che vissero a lungo in povertà, a mercati globali ampi con competenze tecniche durature e formazione in crescita vivace nella gioventù. Anche i templi buddisti prosperano col pieno sostegno del governo. La propaganda controllata da NED in entrambe le regioni accecano su questi fatti dimostrabili della vita cinese.
Mentre le concessioni a favore delle aziende cinesi sono certamente integrate nella maggior parte dei progetti connessi alla BRI che nascino nel sud-ovest asiatico, in Africa e oltre, il fatto è che le infrastrutture (sia hard che soft), i nuovi hub industriali e le opportunità educative prendono vita a una velocità vertiginosa. In Africa, abbiamo riscontrato che le tradizioni culturali locali prosperano di pari passo con la politica vista in Tibet e Xinjiang. Se questa è una novità, provate a mettere giù Epoch Times e a guardare alcune notizie dall’Africa o dai canali africani della CGTN. L’approccio della Cina è in netto contrasto coi programmi FMI-Banca Mondiale-USAID che sistematicamente tennero le nazioni povere nella schiavitù del debito usurario per decenni, fornendo denaro per comprare del pesce, ma mai per permette la capacità di pescarli da sé. La Cina, d’altra parte, ha incoraggiato la crescita di vasti progetti di costruzione, centri di produzione e, forse, cosa più importante, competenze ingegneristiche avanzate.
Superare gli ostacoli monetaristi della Russia
In Russia, un sistema bancario centrale privatizzato, ancora largamente influenzato dai protocolli monetari elaborati dal FMI, ha reso molto più difficile l’attuazione della visione dell’Estremo Oriente di Putin che in Cina, dove un vivace sistema bancario di proprietà dello Stato fornisce uno strumento inestimabile di crescita a lungo termine. La banca centrale privata russa, istituita (nella sua forma attuale) nel 1990, soffre ancora dei legami strutturali profondi con FMI, OMC ed ideologi liberali che brulicano nel panorama burocratico garantendo che la dottrina dei “bilanci equilibrati” e libero mercato abbia la precedenza sull’emissione di credito produttivo. Nonostante tali blocchi, la versione unica della Russia del Destino manifesto iniziò a prendere vita col “grande piano per la Siberia” di Sergej Shojgu che inizia con la costruzione di cinque nuove città che ospitano da 500000 a un milione di cittadini. Inoltre, i piani per espandere e migliorare la ferrovia transiberiana di 9300 km che la ferrovia principale Baikur-Amal meridionale di 4300 km vengono modernizzati, a doppio binario e integrati sempre più profondamente in Mongolia, Cina e persino Giappone. Ciò coincide col corridoio di trasporto internazionale nord-sud in espansione da Mosca all’India attraverso Asia centrale ed Iran, che ora dovrebbe essere visto come un’altra dimensione della BRI e della visione dell’Estremo Oriente. Coll’avanzare del progetto, il traffico merci lungo queste linee ferroviarie aumenterà da 120 milioni di tonnellate/anno a 180 milioni di tonnellate/anno nel 2024.
L’ espansione ferroviaria è strettamente legata al Piano di sviluppo della Russia per la rotta del Mare del Nord adottato nel 2019 e che mira ad aumentare le spedizioni annuali a 80 milioni di tonnellate entro il 2024. Oltre a porti e nuovi hub minerari artici, questo piano include la costruzione di 40 nuovi navi (compresi rompighiaccio nucleari), ferrovie e porti marittimi del nord che vedranno di 10 giorni ridotto il tempo di spedizione delle merci tra Cina ed Europa. Se ciò non bastasse, il 15 gennaio 2022 Putin annunciò che le proposte per la costruzione della tanto attesa ferrovia artica verso il Mare di Barents vanno presentate entro il 10 maggio 2022. Questa ferrovia si estenderà al porto di Indiga nella regione di Nenets, che ospiterà un porto artico per tutto l’anno con capacità di traffico di 80-200 milioni di tonnellate di merci all’anno.
Cina e Russia hanno concordato la costruzione dei centri di ricerca scientifica nell’Artico nel 2019 al fine di “promuovere la costruzione della ‘Via della Seta sul ghiaccio’”, mentre nuovi progetti per una nuova base di ricerca scientifica internazionale a Jamal, chiamata Snezhinka (alias: “Fiocco di neve”), aprirà nel 2022. In entrambi i casi, pura ricerca scientifica sull’Astroclimatologia (l’Artico è il punto di ingresso più denso per la radiazione cosmica interstellare che svolge un ruolo trainante nel cambiamento climatico), l’evoluzione delle specie e la chimica saranno effettuate in questi nuovi centri. Forse i campi di ricerca più interessanti riguarderanno la sperimentazione di nuovi progetti di ecosistemi artificiali necessari per sostenere comodamente la vita umana non solo nell’Artico ma anche su altri corpi celesti, come Luna o Marte. Dopotutto, entrambe le nazioni concordarono di co-sviluppare una base lunare permanente che sarà svelata nel prossimo decennio.
Se riusciamo a evitare le trappole della guerra nucleare, le scoperte che avverranno lungo questo nuovo entusiasmante capitolo dello sviluppo inter-civiltà vanno oltre la capacità di previsione di qualsiasi modello computerizzato, ma accadranno comunque. Lo scatenamento di scoperte creative da parte di menti umane istruite, ispirate e orientate agli obiettivi risveglierà sempre più nuove tecnologie e ridefinirà la relazione dell’umanità con la tavola periodica degli elementi man mano che vengono trovati nuovi usi per l’atomo, con ampio accesso a migliaia di isotopi che hanno ancora ancora da trovare un ruolo nei nostri sistemi economici. In questo modo, lo spazio e il tempo saranno condensati come rotaie a levitazione magnetica, sistemi di propulsione nucleare e nuove fonti di energia saranno attivati rivoluzionando le nostre idee di “vicino”, “lontano”, “lento” e “veloce” in modi drammatici. Basti pensare ai mesi richiesti per viaggiare dal vecchio al nuovo mondo nell’età coloniale, alle poche ore che tale viaggio impiega oggi su un aereo supersonico. Questo è il salto quantico previsto poiché i 300 giorni di viaggio per Marte attualmente richiesti coi motori a razzo chimici diverranno poche settimane con la propulsione nucleare. Forse si potrebbe volermi accusare di eccessivo idealismo, ma allora?
Questo processo già si svolge davanti ai nostri occhi, poiché realtà politiche e scientifiche che molti ritenevano impossibili un decennio fa, hanno già iniziato a cambiare la traiettoria del nostro futuro. Se il cambiamento di fase dell’umanità in specie matura e consapevole di sé viene sovvertito ancora una volta… in un momento in cui le armi termonucleari si sparpagliano nel globo, non vi è alcuna garanzia che avremo un’altra possibilità.
Traduzione di Alessandro Lattanzio
FONTE: http://aurorasito.altervista.org/?p=22291
La Cina: Acquisire l’Europa
POLITICA
Proprio Mattarella parla di dignità? Dignità è anzitutto ripristinare lo stato di diritto
“Mattarella parla di dignità: dignità è anzitutto ripristinare lo stato di diritto. Auguri al Presidente, ma ancora di più agli italiani” – Lorenza Morello presidente nazionale APM
(Roma): Un discorso in cui per 18 (diciotto) volte il riconfermato Presidente della Repubblica Sergio Mattarella cita la parola “dignità”. Affinché queste non restino belle dichiarazioni di intenti parlando di donne -che così biecamente sono state strumentalizzate anche durante la tornata elettorale per l’elezione presidenziale- o i migranti, è fondamentale anzitutto ripristinare lo stato di diritto, facendo cessare, come primo impegno del Suo nuovo mandato, lo stato di eccezione.
Non vi può essere infatti nessun tipo di dignità in uno Stato che continua a gestire il Paese giustificando con il vessillo dell’emergenza delle scelte che violano senza giustificazione ne’ giuridica ne’ scientifica molteplici libertà costituzionali.
L’analisi impietosa del Wall Street Journal che per voce di Steve Hanke commenta “the Fascist are back” dovrebbe far riflettere, e molto. Perché gli americani -che conosco molto bene avendo metà della famiglia americana- hanno molti difetti, ma sanno riconoscere il fascismo da lontano.
La rielezione di Mattarella rappresenta, come abbiamo già avuto modo di dire, il fallimento dell’intero sistema politico, in quanto conferma la fondamentale impotenza e futilità dei partiti politici italiani e, più in generale, del parlamento.
Paradossalmente, quelli che fino a ieri sarebbero stati definiti progressisti sono oggi così terrorizzati dal cambiamento da essere effettivamente diventati il blocco più conservatore della società italiana e i più grandi sostenitori di qualsiasi cosa e chiunque sostenga lo status quo. E la rielezione di Mattarella come Presidente della Repubblica rappresenta appunto il miglior risultato possibile per l’establishment italiano ed euro-atlantico, se non per lo stesso Draghi, il cui governo resterà in carica fino alle prossime elezioni, con un convinto difensore dello status quo nel ruolo di presidente.
Ma il riconfermato Presidente ha oggi la possibilità di smentire questa analisi da molti condivisa ridando, appunto, dignità ad un Paese ed un popolo che merita di vivere in uno stato di diritto. Anche perché, un’eccezione che dura più di qualche giorno -il tempo di capacitarsi per i nuovi accadimenti imprevisti che la giustificano- non può più ritenersi tale, e quindi legittima i cugini d’oltreoceano a fare delle analisi che solo Mattarella, garante della Costituzione, può smentire.
E siamo certi che lo farà.
FONTE: https://www.ilparagone.it/attualita/proprio-mattarella-parla-di-dignita-dignita-e-anzitutto-ripristinare-lo-stato/
FASCISMO MAINSTREAM
18 GENNAIO 2022
«Un nuovo fascismo sarà la forma di governo che ci accompagnerà dal nostro presente fino alla catastrofe ecologica?». Se lo chiede Valerio Renzi nel suo ultimo libro “Fascismo Mainstream”. E considerando le risposte reazionarie dei governi globali a crisi sociale e catastrofe climatica, la domanda appare lecita.
SCIENZE TECNOLOGIE
Critica delle forme di vita
È appena uscito “Critica delle forme di vita” di Rahel Jaeggi (Mimesis). Nel libro si affrontano i problemi dati dalla possibilità di criticare le forme di vita in cui siamo immersi senza assumere un punto di vista paternalistico o censorio. Per gentile concessione dei curatori e dell’editore, ne pubblichiamo un estratto composto dalla “Prefazione” e da alcuni brani dell’“Introduzione”.
Rahel Jaeggi
La teoria critica della società ha invece come oggetto gli uomini in quanto produttori di tutte le loro forme di vita storiche. […] Ciò che ogni volta è dato, non dipende solo dalla natura, ma anche da quello che l’uomo è in grado di fare di essa. – Max Horkheimer
Le elezioni al Bundestag, la cerimonia delle Olimpiadi, l’azione di un commando di tiratori scelti, la prima mondiale in un grande teatro, sono considerati eventi pubblici. Fatti di straordinario rilievo pubblico, come l’educazione dei figli, il lavoro in fabbrica, il consumo televisivo all’interno delle mura domestiche, passano come privati. Le reali esperienze sociali degli esseri umani, prodotte nella vita quotidiana e nella produzione, sono trasversali rispetto a questa divisione. – Oskar Negt e Alexander Kluge
Si possono criticare le forme di vita? Si può affermare che esse, in quanto forme di vita, siano buone, riuscite o addirittura razionali? A partire da Kant, si dà per scontato che la felicità o la buona vita, al contrario della vita moralmente giusta, non si lascino definire filosoficamente. E con John Rawls e Jürgen Habermas – forse le due posizioni più influenti della filosofia politica attuale – viene proposto, in riferimento all’irriducibile pluralismo etico delle società moderne, di astenersi dalla discussione filosofica sul contenuto etico delle forme di vita. In questo modo la filosofia si ritrae dalla questione socratica su “come si debba vivere”, limitandosi al problema di come, alla luce della molteplicità di concezioni reciprocamente incompatibili della buona vita, si possa garantire una giusta convivenza in cui diverse forme di vita esistano le une accanto alle altre. L’ordine politico dello Stato costituzionale liberale si presenta perciò come il tentativo di organizzare questa convivenza in maniera neutrale rispetto alle forme di vita. Tuttavia, se non si tratta più di realizzare la giusta forma di vita condivisa, ma di garantire che la coesistenza tra diverse forme di vita sia quanto più possibile scevra da conflitti, le domande sul modo in cui vadano condotte le nostre vite vengono spostate nell’ambito delle preferenze private. Come sulle questioni di gusto, quindi, anche sulle forme di vita non si può più discutere. Le forme di vita divengono un inaccessibile black box e al massimo se ne possono criticare con ragione gli effetti.
Di fatto esistono ragioni evidenti per una posizione di questo genere. Non solo è legittimo dubitare che si possa facilmente raggiungere un accordo tra individui che hanno visioni del mondo e convinzioni etiche fondamentalmente diverse. Inoltre, il desiderio di non “farsi prescrivere” da legislatori (filosofici) della morale il modo in cui progettare la propria esistenza, è una delle componenti imprescindibili della nostra autocoscienza moderna. Perciò può sembrare che il black box liberale sia una delle condizioni di possibilità dell’autodeterminazione moderna e che essa crei per prima lo spazio libero in cui diversi modi di vita possano svilupparsi (o mantenersi) indisturbati.
La presente ricerca prende le mosse dall’ipotesi che in questo assunto ci sia qualcosa di sbagliato, che anzi, per certi versi, le cose stiano esattamente all’opposto. Se abbandoniamo la costituzione interna delle nostre pratiche sociali e forme di vita a una “oscurità extrafilosofica”, secondo l’espressione del filosofo canadese Charles Taylor, corriamo il rischio di accettarle indebitamente come date. In questo modo dichiareremmo frettolosamente come una irrimediabile questione di identità personale qualcosa che possiede “pubblica rilevanza”, sottraendo all’argomentazione razionale aree tematiche che non dovrebbero essere tenute fuori dalla sfera d’influenza dell’autodeterminazione democratica collettiva. Forse l’onere della prova dovrebbe essere invertito: non si può eliminare facilmente dai processi decisionali individuali o collettivi l’interrogativo etico su “come si deve vivere”. A questo interrogativo in qualsiasi formazione sociale è sempre stata data risposta, implicitamente o esplicitamente. Ciò vale anche per la forma di organizzazione sociale che ha adottato il pluralismo delle forme di vita. Ma allora la domanda sulla possibilità di una critica delle forme di vita è, in un certo senso, mal posta. È proprio alla luce, e non malgrado, la situazione delle società moderne – intese come “l’immane potenza che tutto divora” (Hegel) – che la valutazione delle forme di vita non può essere relegata in una riserva di preferenze particolari e di legami ineluttabili.
Ciò diventa particolarmente evidente in situazioni sociali di conflitto e di rivolgimento. Così si verificano circostanze in cui le innovazioni tecnologiche – si pensi all’ingegneria genetica – mettono improvvisamente in questione principi etici fino a quel momento indiscussi. Ma anche il confronto con altre forme di vita può dar luogo a conflitti, crisi e sconvolgimenti della comprensione che abbiamo di noi stessi, in cui i contenuti e gli orientamenti fondamentali delle nostre forme di vita e anche di quelle estranee vengono passati al vaglio e le pratiche sociali consolidate divengono oggetto di discussione. Non occorre pensare necessariamente ai conflitti spesso ipostatizzati in modo erroneo come “scontri di civiltà” né alle crisi dei fondamenti dei nostri sistemi di riferimento morale. Anche discussioni del tutto ordinarie sulla progettazione dello spazio urbano[1], sulle misure di assistenza pubblica all’infanzia[2], sulla cessione al mercato di beni come la salute, l’istruzione e l’abitazione, o sulla cognizione che abbiamo della nostra come di una società fondata sul lavoro, possono essere intese come conflitti sull’integrità e il carattere specifico delle forme di vita.
Una critica delle forme di vita non ha a che fare quindi con questioni “di contorno” sulla buona vita (nel senso di una filosofia di lusso concernente l’arte di vivere), che valga la pena porsi dopo che i problemi fondamentali dell’organizzazione sociale siano stati risolti. Riguarda la costituzione interna di quelle istituzioni e di quelle connessioni sovra-individuali che conferiscono una forma alle nostre vite e all’interno delle quali sorgono in primo luogo le nostre possibilità di azione e progettazione. Se però il progetto della modernità, la pretesa degli individui di “vivere la propria vita”, non consiste solo nella libertà dalle interferenze degli altri, allora questa è la tesi qui sostenuta – la riflessione pubblica e filosofica sulle forme di vita, più che un intervento problematico su questioni residuali dell’identità individuale o collettiva che non devono essere messe in discussione, è la condizione della possibilità di trasformare le proprie condizioni di vita e appropriarsene. La critica delle forme di vita, o meglio: la teoria critica della critica delle forme di vita, come intendo qui concepirla, non va perciò intesa come discorso in favore di una ricaduta nel paternalismo premoderno, ma piuttosto come esame di ciò che può essere interpretato, nella linea tradizionale della teoria critica, come fermento di processi di emancipazione individuale e collettiva.
Una simile prospettiva si differenzia dalla temuta “dittatura etica” anche per il fatto di essere parte di una ricerca il cui punto di partenza non è l’insistenza sull’unica forma di vita giusta, ma piuttosto la comprensione delle molteplici carenze delle nostre come delle altrui forme di vita. Come afferma Hilary Putnam: “Il nostro problema non è quello di dover scegliere tra un numero predefinito di ‘modi di vita ottimi’; il nostro problema è che non ne conosciamo neanche uno”[3]. Ma se non conosciamo una sola “forma di vita buona”, dovremmo innanzitutto svilupparla in processi in cui l’idea di “identità immutabili” e le “concezioni del bene” a essa associate si dissolvono. Il confine tra “interno” ed “esterno” di una forma di vita, su cui si basano per certi aspetti le idee della sua immutabilità, diventa così permeabile, come il “noi” collettivo cui facciamo ricorso. Anche la differenza tra conflitti interculturali e intraculturali perde in larga misura importanza. Se si cerca di contrastare la separazione tra interno ed esterno nella prospettiva qui adottata, tra la discussione – interculturale – sui matrimoni combinati e quella – intraculturale – sui matrimoni gay, non ci sarà una differenza categoriale, ma si tratterà al massimo di una questione di sensibilità al contesto specifico. In questo senso, le forme di vita non sono solo oggetti, ma anche il risultato di conflitti.
Il punto di partenza della mia ricerca è l’assunzione che non solo possiamo criticare le forme di vita, ma che dovremmo criticarle (e quindi anche noi stessi nella nostra condotta di vita) e che, implicitamente o esplicitamente, già lo facciamo sempre. Valutare e criticare – e ciò vale particolarmente per le cosiddette “società post-tradizionali” sono parte di ciò che comporta condividere una forma di vita e (al tempo stesso) confrontarsi con altre. L’assunto che indagherò nella presente ricerca è quindi che le forme di vita si possono discutere e che può essere fatto a ragione. Le forme di vita implicano pretese di validità che non si possono “mettere tra parentesi” senza conseguenze, anche se qui non si tratta di ragioni definitive (e in questo senso cogenti). Ciò di cui si tratta, quindi, tramite la questione della loro criticabilità, è anche la specifica razionalità delle forme di vita.
L’oggetto del mio libro è dunque il problema della possibilità di una critica delle forme di vita. Il suo scopo è elaborare e difendere in base ad argomenti una certa concezione della critica, non di fornire la diagnosi di una forma di vita specifica.
Non è un caso che io affronti la questione della riuscita delle forme di vita nella prospettiva della critica. Non intendo occuparmi di progettare in astratto il concetto generale di una forma di vita giusta, a mio avviso questo genere di progetti etici onnicomprensivi non è né auspicabile né fecondo. Piuttosto mi concentrerò, in senso negativo, sugli specifici fallimenti delle forme di vita, sulle crisi che esse attraversano e sui problemi cui possono andare incontro: sugli aspetti quindi in cui “qualcosa non funziona” in esse e in cui si espongono perciò alla critica.
Inoltre, il fatto che qui mi occupi della struttura e della dinamica delle forme di vita (prendendo di conseguenza sul serio il concetto stesso di forma di vita adottato nella discussione), invece di affrontare il problema dal punto di vista della giustificabilità dei valori etici, non è motivato solo dall’uso del linguaggio nell’ambito di una speciale discussione filosofica[4]. La prospettiva del successo delle forme di vita – intese, secondo la mia proposta, come insiemi di pratiche sociali – consente di sviluppare criteri di valutazione che seguano le condizioni normative del successo di queste pratiche.
Il momento della disfunzione o crisi si rivelerà un movente importante di ciò che nel mio progetto sarà definito “critica”. Se la critica delle forme di vita, come intendo qui concepirla, comincia dove sorgono problemi, crisi o conflitti, allora non è condotta da una prospettiva esterna autoritaria ma è, si potrebbe dire, il fermento di un processo in cui critica e autocritica sono reciprocamente intrecciate. La critica a cui tendo, perciò, per delineare i poli rispettivamente contrapposti, non dev’essere né “eticamente astensionista” né paternalistica; non adotta un atteggiamento relativistico sulle pretese di validità delle forme di vita, ma nonostante ciò non deve avere conseguenze antipluralistiche. E alla fine si vedrà che è proprio il fatto che le forme di vita possono essere intese come processi di apprendimento che si sviluppano storicamente e sono dotati di pretese normative a fornirci la chiave per la loro valutazione.
La struttura della mia ricerca è semplice: nell’Introduzione la problematica e la mia impostazione sono sviluppati in contrasto con la posizione opposta, ovvero con le diverse varianti della “astensione etica”. Quindi la Prima parte pone il problema di cosa costituisce una forma di vita, intesa come un insieme di pratiche sociali. La Seconda parte elabora la normatività specifica delle forme di vita e presenta un concetto di forme di vita come insieme di strategie per la risoluzione di problemi. La Terza parte si occupa di forme di critica e sviluppa il concetto di una versione “forte” di critica immanente ispirata dalla critica dell’ideologia. Infine, nella Quarta parte, viene elaborata l’idea di un processo di apprendimento sociale normativo. Così, il problema di quando una forma di vita sia deficitaria o riuscita diventa quello dei criteri del fallimento o della riuscita di un simile processo, in quanto processo di apprendimento razionale.
Introduzione
La mercificazione come problema delle forme di vita
La specificità di una forma di critica che, in questo senso, mira al contenuto intrinseco di una forma di vita, si può forse illustrare al meglio attraverso una delle attuali discussioni già menzionate nella prefazione. La commercializzazione di sfere sempre più ampie di vita, diagnosticata talvolta per le società capitalistiche, è un caso in cui si intersecano diverse dimensioni. Il problema dell’estendersi della logica del mercato a sfere di vita che prima non erano organizzate attraverso il mercato – come ad esempio la sfera della riproduzione umana, ma anche quelle dell’istruzione e della salute – è, per un certo verso, un problema di giustizia. Di solito sono le donne più povere che si fanno assumere come madri surrogate; una salute sottoposta alle logiche di mercato è quasi sempre una salute per due o più classi, così come un sistema educativo organizzato secondo gli imperativi dell’economia di mercato si espone al sospetto di pro- muovere innanzitutto l’auto-riproduzione delle élite.
Il problema della mercificazione solleva d’altra parte anche la questione della “riuscita” di un ordine sociale o del suo “successo” in senso lato. Anche se, in via puramente ipotetica, si potesse correggere il deficit di giustizia delle istituzioni sottoposte al mercato attraverso un’equa distribuzione a livello di base, la cosa non toccherebbe comunque la questione – e tanto meno la risolverebbe se vi siano beni che non dovrebbero essere sottoposti al mercato, a prescindere dalle condizioni di distribuzione. Si tratta in questo caso delle ripercussioni che ha sulla nostra autocomprensione di noi stessi come individui e come società nonché sulla forma e il funzionamento delle nostre pratiche sociali il fatto di intendere determinati beni come merci e di trattarli secondo criteri di efficienza economi- ca. Coloro che intendono il problema in questi termini sottolineano, in un modo o nell’altro, quanto sia inappropriato applicare dei criteri economici ad alcune sfere della vita sociale, sostenendo che la particolare natura di alcuni beni viene stravolta nel momento in cui essi divengono “oggetto di mercimonio” (K. Marx). Ciò che qui è in questione, dunque, è il significato intrinseco delle pratiche in cui prende forma la nostra vita (comune). La discussione investe la diversità qualitativa dei modi in cui ci rapportiamo a noi e alle cose cui attribuiamo valore. Quindi il problema riguarda la costituzione della nostra forma di vita in quanto tale, i beni stessi e non la loro distribuzione entro i confini tracciati da un simile “ordine di apprezzamento” [Wertschätzungsordnung][5].
A questo punto dovrebbe essere chiaro che, dove le forme di vita vengono messe a tema, discusse e criticate in quanto forme di vita, non si tratta solo di stabilire la linea di condotta preferibile all’interno di un quadro dato di scopi per conseguirli, né come vada concepito, all’interno di una cornice prestabilita di orientamenti di valore, il modo più appropriato di realizzarli[6]. Si tratta piuttosto di esaminare quegli scopi stessi, non solo quindi la distribuzione di beni e opportunità di influenza, ma anche la forma che gli stessi beni e le pratiche sociali connesse dovrebbero assumere. Se quindi ciò che viene esaminato non sono solo gli effetti iniqui della mercificazione, ma anche la questione di cosa significhi trattare o meno beni come merci, non solo la distribuzione o la retribuzione appropriata del lavoro ma anche il suo senso, ecco che allora – per ricorrere a un’utile formulazione di George Lohmann – sono i “protovalori” di una forma di vita a diventare oggetto di discussione[7]. A ogni modo, una simile discussione rivela innanzitutto quanto certi modi apparentemente ovvi di stabilire questi “protovalori” siano tutt’altro che ovvi e in che misura siano invece il prodotto di determinate costellazioni (e interessi) storico-sociali. La costituzione interna delle forme di vita diviene quindi oggetto di discussione: la “scatola nera” viene aperta.
La critica delle forme di vita come riflessione sulle condizioni dell’agire
La critica delle forme di vita non mira, quindi, solo a un dominio diverso, ad esempio da quello della teoria della giustizia, ma adotta al tempo stesso una prospettiva differente: non si limita a esaminare oggetti diversi, ma esamina diversamente gli oggetti. Il modo più produttivo per illustrare cosa significhi criticare le forme di vita in quanto forme di vita, è forse il seguente: la critica delle forme di vita non riguarda solo le nostre azioni, quindi che cosa (dobbiamo) fare, ma anche il quadro di riferimento entro il quale agiamo e ci orientiamo. Così i nostri orientamenti normativi, i concetti attraverso cui comprendiamo noi stessi e l’intero armamentario delle pratiche sociali da cui si generano le nostre possibilità d’azione vengono messi a tema in riferimento alla loro forma e qualità interne.
(…) Naturalmente, i quadri di riferimento così descritti non sempre sono pienamente disponibili e non sempre sono facilmente individuabili. Perciò, anche prendere in esame questi quadri di riferimento in quanto tali, rendendoli in tal modo rilevanti e visibili, non è affatto un problema pratico da poco per una critica delle forme di vita. Esempi di quanto una simile scoperta possa essere produttiva sono i classici movimenti di emancipazione sociale come quello di liberazione femminile. Questi movimenti possono essere definiti proprio dal fatto di mostrare che quei quadri di riferimento non sono ovvi, di privarli del carattere di naturalità e di contestarli in diversi modi. Per poter criticare una forma di vita, dobbiamo in primo luogo vedere che concetti come castità, onore e disciplina (e il repertorio di pratiche e idee a essi associate) non sono affatto evidenti o addirittura naturali, ma parte di determinate forme di vita tradizionali. La disputa sulle forme di vita ha quindi l’effetto di cancellare il carattere di naturalità, privando di legittimazione ciò che è apparentemente ovvio.
NOTE
[1] La sociologia della città di Hans Bardt fornisce un quadro estremamente preciso della misura in cui l’esistenza nella (grande) città è sempre stata intesa come forma di vita e come tale è stata al centro di accesi dibattiti cfr. H.P. Bahrdt, Die moderne Großstadt. Soziologische Überlegungen zum Städte- bau, Springer, Hamburg 1969, in part. il cap. 1, “Kritik der Großstadtkritik”.
[2] Uno dei motivi per cui le recenti discussioni in Germania sulla cura dell’infanzia e sulla parità tra i coniugi su questo aspetto sono state così accese, è che le forme tradizionali di vita – che si manifestano nel ruolo subalterno della donna nel matrimonio e nella maternità a tempo pieno – perdono terreno a favore di altre. In effetti, in questo modo, viene codificato legalmente il cambiamento di forma di vita e l’emergere di un nuovo modello familiare (occupazione di entrambi i coniugi con una corrispondente maggiore necessità di istituzioni extrafamiliari di cura dell’infanzia) dal punto di vista economico, ma anche rispetto al riconoscimento pubblico, anche se ci sono buoni motivi per sostenere che si tratta innanzitutto solo di conseguire la parità con i modelli di vita tradizionali.
[3] H. Putnam, Words and Life, Harvard University Press, Cambridge Mass. 1995, p. 194 (corsivo mio).
[4] Così Habermas parla ripetutamente (anche se con una certa imprecisione) di forme di vita in rapporto alle questioni qui sollevate. Si parla di forme di vita anche nel contesto del dibattito sul relativismo, anche se già Wittgenstein aveva ampiamente fatto ricorso a questo concetto, messo in circolazione dal best seller di Eduard Spranger Lebensformen (1921). Cfr. il suo Lebensformen. Geisteswissenschaftliche Psychologie und Ethik der Persönlichkeit, Max Niemeyer, Halle/Saale 1921.
[5] Cfr. la discussione tra Axel Honneth, Rainer Forst e me “Kolonien der Ökonomie”, in POLAR – Zeitschrift für Politik, Theorie und Alltag, n. 2, 2007, pp. 151-160, cfr. anche il mio articolo “Die Zeit der universellen Käuflichkeit”, in ivi, pp. 145-150. Per la più recente discussione filosofica sui limiti del mercato cfr. E. Anderson, Value in Ethics and Economics, Harvard University Press, Cambridge Mass. 1993; M.J. Radin, Contested Commodities, Harvard Univer- sity Press, Cambridge Mass. 1996 e il mio articolo di sintesi “Der Markt und sein Preis”, in Deutsche Zeitschrift für Philosophie, vol. 47, n. 6, 1999, pp. 987- 1004. Su questo dibattito ora cfr. anche D. Satz, Why Some Things Should Not Be for Sale. The moral limits of markets, Oxford University Press, Oxford 2010.
[6] Questo è, in un certo senso, l’approccio che Michael Walzer ha in mente con la sua teoria delle sfere di giustizia e con la critica della mercificazione fondata su di essa: trattare determinati beni come se fossero in vendita non rientra nella nostra concezione di noi stessi in quanto comunità. Cfr. M. Walzer, Spheres of Justice. A defense of pluralism and equality, Basic Books, New York 1983; tr. it. di G. Rigamonti, Sfere di giustizia, Feltrinelli, Milano 2008. Walzer ha avanzato la corrispondente concezione della critica sociale nel suo Interpretation and Social Criticism, Harvard University Press, Cambridge Mass. 1987; tr. it. di A. Carrino, Interpretazione e critica sociale, Lavoro, Roma 1990.
[7] Cfr. G. Lohmann, “Zwei Konzeptionen von Gerechtigkeit in Marx’ Kapitalismuskritik”, in E. Angehrn (a cura di), Ethik und Marx. Moralkritik und normative Grundlagen der Marxschen Theorie, Hain Verlag bei Athenäum, Königstein 1986, pp. 174-194. Lohmann fa riferimento qui a Cornelius Castoriadis, “Valore, uguaglianza, giustizia, politica: da Marx ad Aristotele e da Aristotele a noi”, in Id., Les Carrefours du labyrinthe, Éditions du Seuil, Paris 1978; tr. it. di M.G. Conti Bicocchi, F. Lapore, Gli incroci del labirinto, Hopefulmonster, Firenze 1989.
FONTE: https://www.micromega.net/critica-delle-forme-di-vita/
STORIA
Carlo Magno e le lettere: i monaci e la difesa della cultura
Il re dei Franchi riuscì a costruire una vera e propria rete culturale nel suo impero. Come? Dando un prezioso contributo storico all’Europa nelle fasi più drammatiche del Medioevo.
Il mito, la storia e la politica
La sua figura col tempo è divenuta emblema dell’Europa. Tirato per la sua veste regale, quando da una parte quando dall’altra, è stato rievocato più volte nei secoli successivi, a seconda della causa che si voleva portare avanti – soprattutto cause politiche – dato che l’imperatore dei Franchi, di fama incontrastata, ammantata da un’aura di leggenda e persino di santità, ha sempre rappresentato l’emblema dell’unità e della tradizione europea. Seppure questa figura mitica (basti pensare agli eroici racconti su Roncisvalle e alle numerose leggende), costruita in parte nei secoli, non corrisponda esattamente a quella storica, il vero Carlo Magno, probabilmente, un aiuto tanto all’Europa, quanto alla storia e alla cultura, per svariate cause ovviamente anche di convenienza politica, lo ha dato sul serio.
Carlo Magno e la cultura: un contributo concreto per la nuova Europa
Nei secoli più difficili del Medioevo – che non fu epoca buia, ma che ebbe le sue fasi drammatiche – la rete di monasteri, di chiese, di abbazie, di legati, di ecclesiastici, di scrivani e di intellettuali, che ruotavano intorno alla corte di Aquisgrana, abilmente controllati dal monarca e indissolubilmente legati allo stesso tessuto amministrativo del Sacro Romano Impero, tanto da rendere difficile talvolta capire dove iniziasse il potere civile e finisse quello religioso, svolse un ruolo cardine.
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Un ruolo cardine soprattutto nella produzione di documenti utili agli storici, ma anche e principalmente nella conservazione, nella diffusione e nella copiatura di testi della cultura classica. Intorno alla corte di Carlo, nacque una nuova classe dirigente, prettamente ecclesiastica, che dopo il crollo dell’antico Impero Romano d’Occidente, le invasioni barbariche e le spaccature territoriali in Europa, è stata in grado di assorbire l’antica cultura e di tramandarla, accompagnando il Medioevo verso le sue fasi più radiose e la stessa Europa verso una nuova età della rinascita.
La nascita del monachesimo, i predicatori da Nord e la rete di abbazie
Nei trambustati secoli tra la fine dell’Impero Romano d’Occidente (476 d.C.) e l’impero carolingio (secolo IX d.C.), le fonti storiche e documentali subiscono soprattutto in Europa un drastico calo. Per alcune fasi storiche risulta complicato un lavoro di analisi e di piena conoscenza delle dinamiche sociali e politiche. Grazie all’esperienza monastica e all’organizzazione della Chiesa, che sostituisce i vecchi ordinamenti imperiali romani, fungendo da collante sociale anche nelle fasi più difficili, riesce a conservarsi la cultura antica e una minima essenziale documentazione scritta, che sarà ancora più accentuata in età carolingia.
Il clero viene coinvolto nell’attività di governo; vescovi ed abati assumono un potere ingente, finendo per divenire al pari degli aristocratici di corte. Alla Chiesa Carlo Magno, il sovrano del popolo più romano tra i barbari, i Franchi, garantì concessioni e beni innumerevoli. Ed ecco che i monaci e gli ecclesiastici, inizialmente promotori di piccoli centri di studio e preghiera, divengono parte di una rete essenziale per l’organizzazione stessa dello stato carolingio, della trasmissione culturale e storica, della registrazione documentale e amministrativa.
Benedetto, Colombano, Gilda, Beda e la fondazione dei cenobi
L’azione di Benedetto da Norcia, quanto quella di predicatori come l’irlandese Colombano, lo scozzese Gilda o Beda il Venerabile, hanno garantito la linfa vitale per lo sviluppo dei cenobi e l’impostazione della vita monastica, già ben prima di Carlo Magno, a partire dal VI secolo d.C. A Colombano va attribuita la fondazione dell’abbazia di Luxeil, in Francia, centro di altissimo livello culturale e con un grande numero di monaci. Lo stesso Colombano riuscì a farsi accogliere anche dai Longobardi, con la protezione del re Agilulfo in Italia.
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Fu Carlo Magno, poi, nell’organizzare e controllare la rete monastica, a favorire l’adozione, pressoché ovunque, della Regola di San Benedetto. E ancora il figlio, Ludovico Pio, si affidò ad un altro Benedetto (Benedetto di Aniane) fondatore dell’abbazia omonima attualmente nella zona di Montpellier, per l’organizzazione monastica e culturale. Le abbazie furono innumerevoli, non solo in Francia ma anche in Germania, nelle aree conquistate da Carlo. Di rilievo assoluto fu l’abbazia di Fulda, come in età post-carolingia sarà quella di Cluny. Questi centri detenevano e tramandavano la cultura antica, lo studio della classicità e dei manoscritti.
Monaci, abbazie e chiese: la cultura al servizio del governo di Carlo Magno
Carlo Magno si avvale di tali organizzazioni monastiche e al tempo stesso centri di cultura per garantire alla corte la raccolta di informazioni storiche su fatti rilevanti, la stesura e la diffusione di atti amministrativi, il controllo sulla gestione territoriale, l’istruzione di una classe dirigente sempre nuova e utile poi alla corte stessa. Molti personaggi gravitanti intorno al palazzo di Aquisgrana, infatti, divenuti anche consiglieri e talvolta stretti confidenti dell’imperatore e della sua famiglia, provenivano dalle abbazie e dai monasteri e si erano formati sotto i più noti abati.
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Lo scambio era reciproco. Nobili rampolli delle migliori famiglie finivano per studiare presso abbazie o monasteri, divenuti ancora di più luoghi di alto prestigio e di rigida formazione. Solo grazie a questa rete e al solido appoggio tra ecclesiastici e Impero – al tempo ovviamente per ragioni di pura convenienza reciproca – si è potuta garantire una certa continuità culturale, una trasmissione del sapere classico e un trampolino di lancio per gli studi futuri.
Gli Annales, Alcuino e la storia imperiale
Questa rinascita della cultura nell’età carolingia, voluta e sostenuta anche da Carlo Magno in persona, servì anche alla corte stessa e al governo centrale, sempre nell’ottica del reciproco sostegno prima menzionato. Proprio dai monasteri viene partorita la storia regia, una fortunatamente interessante collezione di scritti, raccolti sotto il nome di Annales regni Francorum, che basandosi sulla registrazione annuale degli avvenimenti principali operata dai monaci, si sviluppò in maniera più ampia divenendo vera cronaca storica, seppur col grosso limite di raccontare i fatti in maniera “ufficiale”, in linea col potere. I racconti degli Annali vanno dal 741 all’829 d.C. circa.
Ruolo essenziale presso la corte di Carlo svolse il monaco Alcuino, originario di York, divenuto abate di Saint-Martin di Tours, che lasciò 270 lettere, una corrispondenza importante per la ricostruzione di alcuni passaggi storici del tempo. La corrispondenza, oltre che alla corte, era rivolta a funzionari, messi imperiali, vescovi, ecclesiastici, monaci e aristocratici di tutto l’impero. Il potere dato da Carlo Magno agli ecclesiastici fu immenso, oltre alle ricchezze che racimolarono. Tuttavia, senza questo connubio e senza questa organizzazione monastica, poco a livello storico ci sarebbe rimasto di scritto su quegli anni e ancora meno ci sarebbe rimasto dei testi antichi, se in quei cenobi, oltre agli affari di governo, non si fosse anche e soprattutto studiato il passato e raccontato il presente.
FONTE: https://www.frammentirivista.it/carlo-magno-cultura-storia/
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