RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI 8 APRILE 2022
A cura di Manlio Lo Presti
Esergo
Se il mondo è il luogo dove ci nascondiamo a noi stessi,
cosa facciamo quando il mondo non è più accessibile?
DANIELE GLIGLIOLI, All’ordine del giorno è il terrore, Bompiani,2007, pag. 42
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SOMMARIO
COME MAI NELLA LEGGE ISTITUTIVA DELLA “GIORNATA EPIDEMICA” DEL 18 MARZO NON SI PARLA AFFATTO DI “COVID”?
IL MILIARDARIO UCRAINO CHE HA FINANZIATO HUNTER BIDEN, IL PRESIDENTE ZELENSKY E I NEONAZISTI DI AZOV
Le guerre di Obama
Ecco a cosa servono i flares, gli artifici pirotecnici lanciati da caccia ed elicotteri
Il nuovo virus (la Russia) e i centri Nato già sul suolo ucraino
Recensione del libro Julian Assange, Niente è come sembra di Germana Leoni
I new media e la guerra
COMBATTERE IL “DISORDINE INFORMATIVO”: LA COMMISSIONE ORWELLIANA DELL’ASPEN INSTITUTE CONTRO LA LIBERTÁ DI PAROLA
DEBUNKING: FINI, PRESUPPOSTI, METODI
“Putin usa armi chimiche” – fra imposture e menzogne, l’Occidente prepara i media al False Flag.
RUSSIA, CINA E BIR: IL “FILO D’ORO”
La questione ucraina all’origine della geopolitica
ROMPIAMO LE CATENE!!!
DISCORSO DI ADDIO DI DWIGHT EISENHOWER (1961)
IN EVIDENZA
COME MAI NELLA LEGGE ISTITUTIVA DELLA “GIORNATA EPIDEMICA” DEL 18 MARZO NON SI PARLA AFFATTO DI “COVID”? E QUI CASCA L’ASINO …
Le antiche caste sacerdotale formulavano i calendari in base alle osservazioni astronomiche ed ai cicli stagionali che regolano la vira: ciò anche in base al precetto secondo il quale, chi controlla la percezione del tempo controlla anche la vita dell’uomo.
Nella nostra epoca “finta laica”, le caste politiche non hanno rinunciato a tale precetto, e si moltiplicano le “giornate” mondiali, europee e nazionali per commemorare le ricorrenze più svariate.
Il 18 marzo del 2021 il Ministero della Salute pubblicava sul proprio sito web la notizia dell’istituzione della “Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’epidemia di coronavirus”. L’articolo proseguiva: “La Giornata è stata istituita formalmente il 17 marzo con l’approvazione all’unanimità della relativa legge da parte della commissione Affari costituzionali del Senato, riunita in sede deliberante.
“Il miglior modo per ricordare le vittime di questa pandemia – ha detto il ministro della salute Roberto Speranza – è quello di tornare a investire nel servizio sanitario nazionale, riformandolo e ponendo al centro la parola prossimità”.
Ora al di là della realtà dei fatti che ha visto il progressivo depotenziamento della sanità pubblica in relazione alla linea “austeritaria” delle oligarchie finanziarie che reggono l’Unione Europea (sarebbe questa la “riforma” a cui si riferiva Speranza?), si potrebbe fare qualche breve considerazione sul contenuto di questa nuova “giornata”.
Si ricorderà che nel 2000 l’Italia istituiva la “Giornata della memoria”, “in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti” come recita il titolo della legge del 20 luglio. La giornata si celebra il 27 gennaio, data dell’ingresso delle truppe sovietiche nel campo di concentramento di Auschwitz nel 1945, e sono previsti “cerimonie, iniziative, incontri e momenti comuni di narrazione dei fatti e di riflessione, in modo particolare nelle scuole di ogni ordine e grado, su quanto è accaduto al popolo ebraico e ai deportati militari e politici italiani nei campi nazisti in modo da conservare nel futuro dell’Italia la memoria di un tragico ed oscuro periodo della storia nel nostro Paese e in Europa, e affinché simili eventi non possano mai più accadere”.
Nel 2004 poi, tra non poche difficoltà, è stato istituito anche il “Giorno del ricordo” “al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe”.
Ora vediamo invece la norma sul “ricordo epidemico” (Legge 18 marzo 2021, n.35), e in particolare l’Art. 1:
“Art. 1 – Istituzione della Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’epidemia di coronavirus
“1. La Repubblica riconosce il giorno 18 marzo di ciascun anno quale Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’epidemia di coronavirus, di seguito denominata «Giornata nazionale», al fine di conservare e rinnovare la memoria di tutte le persone decedute a causa di tale epidemia.
“2. In occasione della Giornata nazionale, in tutti i luoghi pubblici e privati è osservato un minuto di silenzio dedicato alle vittime dell’epidemia.
“3. La Giornata nazionale non determina gli effetti civili di cui alla legge 27 maggio 1949, n. 260”.
In pratica, il testo asserisce: 1) l’esistenza di una “epidemia”; 2) che tale fenomeno è da attribuirsi al “coronavirus”; 3) che le persone sono decedute a causa di tale epidemia.
Da osservare subito il mancato utilizzo della parola “pandemia”, ripetuta a getto continuo dalla propaganda a livello mondiale da ormai 24 mesi; ma siccome, come già osservato dai più attenti, l’OMS non si è mai sbilanciato nell’utilizzo di quel termine, gli autori del testo hanno preferito la parola “epidemia”.
Inoltre si parla di “coronavirus”, una amplissima categoria di patogeni a cui viene attribuita una serie di patologie dal comune raffreddore a varie forme influenzali. Non si parla affatto di “Covid-19” né di “Sars-CoV2”, ossia di manifestazioni particolari e specifiche attribuite alla categoria più generica del “coronavirus”. Queste ginnastiche lessicali sono state ampiamente trattate in Operazione Corona, colpo di stato globale di Nicola Bizzi e Matteo Martini.
Mentre nel linguaggio mediatico si è fatto, in questi due anni, un vero e proprio “minestrone” semiologico, adoperando in particolare il termine “Covid” più come clava delle misure lesive delle libertà garantite dalla Costituzione, che non come categoria di patologia sopportata da una chiara ed inequivocabile eziologia medica, il legislatore è stato molto, ma molto più prudente.
Se la lingua italiana non è un’opinione, si direbbe che la “giornata” debba commemorare TUTTE le vittime di quella categoria generica di patogeni che sono i “coronavirus”, quindi i deceduti per le svariate forme influenzali.
E qui casca l’asino. Ogni anno, da tempo immemorabile, vi sono le epidemie influenzali. Ci pare molto curioso che il legislatore, molto occhiuto in tema di DPCM per comprimere i diritti del cittadino e delle imprese, abbia “dimenticato” di fare alcun accenno alla specifica epidemia (e non “pandemia”) associata al “Sars-CoV-2”, in relazione al famigerato “stato di emergenza” stabilito il 31 gennaio 2020 ed alle successive misure dal marzo dello stesso anno. C’era già il sentore, nei corridoi del potere, che tutto il castello di norme “pandemiche” fosse privo di solide fondamenta giuridiche, e che per salvare la “giornata” occorreva correggere opportunamente il tiro?
Tra l’altro, ad esempio, nella stagione influenzale 2015-2016, l’alto tasso di mortalità, specie in alcune province del Nord Italia, non fu accompagnato da alcuno “stato di emergenza”, da “zone rosse”, da fibrillazioni politico-mediatiche, da isterismo vaccinale.
A proposito del Nord Italia, arriviamo infine alla scelta della data: il 18 marzo 2020 era il giorno dell’operazione mediatica targata “bare di Bergamo”, in cui tutte le televisioni hanno riportato immagini di camion militari che avrebbero trasportato defunti in altre città, a quanto pare a causa di difficoltà pregresse riscontrate nei servizi obitoriali in quel comune.
Ma non è tutto: il varo della “giornata” coincideva con una visita del premier, insediato a Palazzo Chigi da appena un mese, con la relativa fanfara mediatica.
Ecco quanto si legge nell’Avvenire del 16 marzo 2021:
“Era il 18 marzo dello scorso anno quando i camion dell’esercito partirono dalla città carichi delle bare dei defunti per portarle a cremare in altre città e altre regioni e proprio a un anno di distanza esatto, nella giornata nazionale delle vittime del Covid, arriverà in città il premier Mario Draghi, in un ‘grande segnale di attenzione e affetto’ come il sindaco di Bergamo ha ribadito in un’intervista all’Eco di Bergamo.”
Si potrà perdonare l’utilizzo del termine “Covid”, non essendo stata ancora pubblicata la legge sulla Gazzetta Ufficiale. Ma il succo propagandistico c’è: bisognava sancire ufficialmente quelle immagini (che si aggiungevano a quelle verosimilmente artefatte provenienti dalla Cina) ad alto impatto emotivo ma di scarso valore informativo. Immagini ripetute nei media ad nauseam, per inculcare nel pubblico la paura; i politicanti di tutti i tempi sanno bene che, nella psicologia di massa, più aumenta la paura, più diminuisce la facoltà critica e la resistenza ai soprusi. Per fortuna, anche questo tsunami propagandistico ha ormai perso ogni forza.
FONTE: https://www.nexusedizioni.it/it/CT/come-mai-nella-legge-istitutiva-della-giornata-epidemica-del-18-marzo-non-si-parla-affatto-di-covid-e-qui-casca-lasino-6170
IL MILIARDARIO UCRAINO CHE HA FINANZIATO HUNTER BIDEN, IL PRESIDENTE ZELENSKY E I NEONAZISTI DI AZOV
12/03/2022
Kolomoysky, proprietario di Burisma Holdings
Il vero patrono e il capo del figlio dell’allora vicepresidente Joe Biden, Hunter Biden, presso la società di gas ucraina Burisma Holdings, non era l’amministratore delegato di Burisma Holdings, Mykola Zlochevsky, ma era invece Ihor Kolomoysky, che faceva parte del governo ucraino che la stessa amministrazione Obama aveva appena insediato in Ucraina, in quello che il capo dell’azienda Stratfor della “CIA privata” definì correttamente “il più clamoroso colpo di stato della storia”.
Poco dopo il colpo di stato ucraino dell’amministrazione Obama, il 2 marzo 2014, Kolomoysky, che ha sostenuto il rovesciamento di Yanukovich, è stato nominato governatore di Dnepropetrovsk, in Ucraina. Hunter Biden, senza esperienza nel settore o nella regione, si sarebbe unito alla Burisma Holdings di Kolomoysky due mesi dopo, il 12 maggio 2014.
Uno studio del 2012 su Burisma Holdings condotto in Ucraina dall’AntiCorruption Action Center (ANTAC), un’organizzazione investigativa senza scopo di lucro cofinanziata dal miliardario americano George Soros e dal Dipartimento di Stato americano, ha rilevato che il vero proprietario di Burisma Holdings non era altro che il miliardario ucraino, l’oligarca Ihor Kolomoysky.
Lo studio, che è stato finanziato per scavare la corruzione sul presidente ucraino Viktor Yanukovych, ha invece scoperto che Ihor Kolomoysky “è riuscito ad acquisire le più grandi riserve di gas naturale in Ucraina”.
Burisma Holdings ha cambiato proprietario nel 2011, quando è stata rilevata da un’impresa off-shore di Cipro chiamata Brociti Investments Ltd, e successivamente ha spostato gli indirizzi sotto lo stesso tetto di Ukrnaftoburinnya e Esko-Pivnich, due società di gas ucraine che sono anche di proprietà di Kolomoysky attraverso entità off-shore nelle Isole Vergini britanniche.
Oleh Kanivets, che ha lavorato come CEO di Ukrnaftoburinnya, ha confermato Kolomoysky come proprietario di Burisma Holding nel rapporto del 2012 dicendo: “Il gruppo Privat è il proprietario immediato. Questa società è stata fondata da Mykola Zlochevsky qualche tempo fa, ma poi ha venduto le sue azioni al Gruppo Privat”.
In altre parole, il capo e benefattore di Hunter Biden alla Burisma Holdings è lo stesso miliardario-oligarca ucraino che ha anche rivendicato la posizione di capo e benefattore su Volodymyr Zelensky prima di diventare presidente dell’Ucraina.
Kolomoysky possiede 1+1 Media Group
Kolmoysky, che attualmente detiene un patrimonio netto di $ 1,8 miliardi che lo rende la 1750ma persona più ricca del mondo, possiede partecipazioni nel settore dei metalli, del petrolio e dei media, dove ha avuto una lunga storia con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky.
Per anni, la compagnia di Zelensky ha prodotto programmi per la rete televisiva di Kolmoysky, 1+1 Media Group, uno dei più grandi conglomerati mediatici in Ucraina. Zelensky ha raggiunto la fama nazionale interpretando un presidente in una sitcom televisiva di successo chiamata Servant of the People, trasmessa su un canale di proprietà di Kolmoysky.
Nel 2019, i canali mediatici di Kolmoysky hanno dato un grande impulso alla campagna presidenziale di Zelensky, mentre Kolmoysky ha persino fornito sicurezza, avvocati e veicoli a Zelensky durante la sua campagna. La guardia del corpo e l’avvocato di Kolmoysky hanno accompagnato Zelensky durante la campagna elettorale mentre Zelensky veniva portato in giro con una Range Rover di proprietà di una delle società di Kolmoysky.
I Pandora Papers hanno mostrato che il presidente ucraino Volodymyr Zelensky e i suoi partner di produzione televisiva erano beneficiari di una rete di società offshore creata nel 2012, lo stesso anno in cui la società di produzione di Zelensky ha stipulato un accordo con il gruppo mediatico di Kolomoysky, ricevendo $ 41 milioni di fondi dalla banca privata di quest’ultimo.
Il rivale politico di Zelensky, il presidente Petro Poroshenko, ha commentato la loro connessione durante la campagna elettorale: “Il destino intendeva mettermi insieme al burattino di Kolomoyskiy nel secondo turno delle elezioni”.
Dopo la vittoria di Zelensky, Kolomoysky, che aveva trascorso gli ultimi anni vivendo tra Israele e la Svizzera, è tornato in Ucraina per mantenere i suoi rapporti con il nuovo presidente, nominando oltre 30 deputati al partito di recente costituzione di Zelensky e mantenendo l’influenza su molti di loro in parlamento.
Kolomoysky finanzia i battaglioni Azov, Aidar e Dnipro
Igor Kolomoysky è stato uno dei principali finanziatori del battaglione Azov sin dalla sua costituzione nel 2014. Ha anche finanziato milizie private come i battaglioni Dnipro e Aidar e le ha schierate personalmente per proteggere i suoi interessi finanziari.
Prima di entrare a far parte delle forze armate ucraine, chi ha finanziato Azov? L’unità ha ricevuto il sostegno del ministro degli interni ucraino nel 2014, poiché il governo aveva riconosciuto che il proprio apparato militare era troppo debole per confrontarsi coi separatisti russofili ed ha fatto ricorso a volontari paramilitari. Queste forze sono state finanziate privatamente da oligarchi, il più noto dei quali è Igor Kolomoisky, un magnate dell’energia miliardario e allora governatore della regione di Dnipropetrovska.
Secondo un rapporto di Amnesty International, gruppi di nazionalisti ucraini di destra stanno commettendo crimini di guerra nei territori in mano ai ribelli dell’Ucraina orientale, poiché sui media locali sono comparsi resoconti sui miliziani che decapitano le loro vittime.
I volontari armati che si definiscono il battaglione Aidar “sono stati coinvolti in diffusi abusi, inclusi rapimenti, detenzioni illegali, maltrattamenti, furti, estorsioni e possibili esecuzioni”, ha affermato Amnesty…
Il battaglione Aidar è sostenuto pubblicamente dall’oligarca ucraino Ihor Kolomoisky, che presumibilmente finanzia anche i battaglioni di volontari Azov, Donbas, Dnepr 1, Dnepr 2, che operano su ordine di Kiev.
Alcuni dei battaglioni privati ucraini hanno offuscato la reputazione internazionale del paese con le loro opinioni estremiste. Il battaglione Azov, parzialmente finanziato da Taruta e Kolomoisky, usa come proprio emblema il simbolo nazista Wolfsangel, e molti dei suoi membri manifestano apertamente opinioni neonaziste e antisemite. Gli appartenenti al battaglione hanno parlato di “portare la guerra a Kiev” e hanno affermato che l’Ucraina ha bisogno di “un dittatore forte che salga al potere e possa versare molto sangue ma unire la nazione nel processo”.
I battaglioni di Kolomoysky bombardano i civili nel Donbas
Le regioni di Luhansk e Donetsk comprendono una regione più ampia conosciuta insieme come Donbas. Nel maggio 2014, poco dopo il colpo di stato di Maidan dell’amministrazione Obama, le due regioni hanno tenuto un referendum sulla secessione dall’Ucraina, in cui il 96% di Lukansk e l’89% di Donetsk hanno votato per la creazione di due nuove entità indipendenti nell’Ucraina orientale.
Mosca ha affermato che il voto rifletteva la “volontà del popolo“, ma l’Unione europea ha definito le elezioni ”illegali e illegittime“, che sono diventate rapidamente violente e sono sfociate in un conflitto a tutto campo tra le forze separatiste sostenute dalla Russia e l’esercito ucraino e le milizie pro-governative.
Il Donbas è diventato l’epicentro di una battaglia per l’influenza globale tra la NATO e Mosca in cui le case, le scuole e gli uffici di civili innocenti sono stati semplicemente danni collaterali e acqua, elettricità e gas sono stati regolarmente chiusi per i residenti che hanno pagato il prezzo più alto.
La guerra nel Donbas è continuata fino ad oggi, uccidendo circa 14.000 persone, mentre la regione del Donbas dell’Ucraina orientale viene ridotta a brandelli.
Human Rights Watch ha riferito il 24 luglio 2014 che le forze governative ucraine e le milizie filogovernative avevano utilizzato indiscriminatamente razzi Grad non guidati in aree popolate, che violavano il diritto umanitario internazionale, le leggi di guerra e costituivano crimini di guerra.
Mentre i funzionari del governo ucraino hanno negato di aver usato i razzi Grad a Donetsk, un’indagine di Human Rights Watch sul campo ha indicato fortemente che le forze governative ucraine erano responsabili degli attacchi e all’inizio del mese, il giornalista di Al Jazeera aveva persino filmato le forze ucraine con i lanciarazzi Grad sulla strada per Donetsk.
Mentre il battaglione Azov di Kolomoysky ha guidato l’assalto del governo post-golpe alle repubbliche autodichiarate di Luhansk e Donetsk, un rapporto di Amnesty International del 2014 accusava il battaglione Aidar di Kolomoysky di crimini di guerra nel Donbas citando specificamente “abusi diffusi, inclusi rapimenti, detenzioni illegali, maltrattamenti, furti, estorsioni ed eventuali esecuzioni”.
Nell’ottobre 2014, Human Rights Watch ha riferito che le forze governative ucraine e le milizie filogovernative erano responsabili dell’uso diffuso di munizioni a grappolo nelle aree popolate della città di Donetsk.
“È scioccante vedere un’arma, che la maggior parte dei paesi ha vietato, utilizzata così ampiamente nell’Ucraina orientale”, ha affermato Mark Hiznay, ricercatore anziano in tecnologia militare presso Human Rights Watch. “Le autorità ucraine dovrebbero impegnarsi immediatamente a non utilizzare munizioni a grappolo e aderire al trattato per vietarle”.
Questo non vuol dire che entrambe le parti non fossero colpevoli di crimini di guerra poiché i separatisti sostenuti dalla Russia furono anche accusati di aver usato razzi non guidati, abbattendo aerei civili ed entrambe le parti sono state accusate di numerosi crimini di guerra .
L’ accordo di Minsk II nel 2015 ha posto fine ai combattimenti peggiori e ha istituito una zona cuscinetto attorno alle repubbliche separatiste, ma la mortale guerra civile ha continuato a trascinarsi nella regione fino ad oggi. Le armi pesanti erano state vietate dagli accordi di Minsk, ma venivano ancora usate frequentemente e con effetti devastanti.
Le scuole per bambini a Donetsk sono state colpite così tante volte da bombardamenti indiscriminati che gli scantinati sono stati allestiti come rifugi antiaerei improvvisati e le finestre sono piene di sacchi di sabbia. Il Donbas è anche diventato uno dei luoghi più contaminati dalle mine sulla terra, mettendo a rischio più di 220.000 bambini.
“I bombardamenti non lasciano indenne la psiche di un bambino. I bambini sono traumatizzati. Sono terrorizzati. Ci sono bambini che diventano molto emotivi. Esprimono i loro sentimenti”, ha detto Iryna Morhun, la preside della scuola di Krasnohorivka, che è stata colpita da un colpo diretto.
“D’altra parte, ci sono bambini che si tengono dentro questo dolore. È molto triste vedere bambini che dovrebbero avere un’infanzia felice soffrire a causa di questa guerra”.
Il laptop di Hunter Biden parla di “bambini bruciati vivi” a Donetsk
Il gruppo di ricerca senza scopo di lucro Marco Polo, che sta compilando un rapporto completo sul laptop di Hunter Biden, ha fatto il collegamento tra i messaggi di testo di Hunter Biden e i massacri di Kolomoysky nell’Ucraina orientale.
I messaggi di testo trovati sul laptop di Hunter Biden mostrano quest’ultimo che chiede ad Hallie Biden, la vedova di suo fratello e sua amante, se credeva che egli avesse “bambini bruciati vivi a DONETSK” o “bambini uccisi a donetsk, Ucraina”.
Molto probabilmente, era in riferimento a Kolomoysky, il suo capo della Burisma Holdings, che stava anche finanziando il battaglione neonazista Azov, accusato di crimini di guerra e bombardamenti di civili nell’Ucraina orientale.
Nel 2018, il Congresso ha vietato alle armi statunitensi di andare al battaglione ucraino Azov che usava insegne neonaziste, accettava apertamente neonazisti nei suoi ranghi ed era stato accusato di crimini di guerra “stile ISIS”, comprese le decapitazioni.
“La supremazia bianca e il neonazismo sono inaccettabili e non hanno posto nel nostro mondo”, ha affermato martedì in una dichiarazione a The Hill il rappresentante Ro Khanna (D-Calif.), un critico schietto della fornitura di aiuti letali all’Ucraina. “Sono molto lieto che l’omnibus approvato di recente impedisca agli Stati Uniti di fornire armi e assistenza all’addestramento al battaglione neonazista Azov che combatte in Ucraina”.
Nel 2016, la Privatbank di Kolomoysky è crollata tra le accuse di appropriazione indebita e frode. Il fallimento della banca è costato al governo ucraino – e per estensione ai contribuenti americani ed europei che l’hanno sostenuta con fondi di aiuti – circa 5,5 miliardi di dollari in un salvataggio .
Nel 2020, il Dipartimento di Giustizia si è mosso per sequestrare le proprietà statunitensi di Kolomoysky dopo aver accusato l’oligarca di appropriazione indebita e frode di miliardi di dollari da PrivatBank e di averli riciclati in proprietà americane, tra cui un’acciaieria nel Kentucky, un grattacielo commerciale a Cleveland e uno stabilimento di produzione Motorola in Illinois.
Nel marzo 2021, l’amministrazione Biden ha vietato a Kolomoisky e ai membri della sua famiglia di recarsi negli Stati Uniti a causa del “coinvolgimento in atti di corruzione significativi”.
È altamente improbabile che Kolomoisky sarebbe tornato negli Stati Uniti considerando che il Dipartimento di Giustizia aveva già iniziato a sequestrare le sue proprietà l’anno prima e, secondo quanto riferito, aveva viaggiato tra Svizzera, Israele e Ucraina per paura di essere estradato negli Stati Uniti.
Mentre scrivo, il Congresso degli Stati Uniti sta approvando altri 14 miliardi di dollari di aiuti per l’Ucraina che saranno senza dubbio incanalati nei conti bancari dei familiari dei politici corrotti ucraini e degli Stati Uniti e delle entità finanziarie off-shore dell’oligarca prima di raggiungere i battaglioni neonazisti ai quali Il congresso aveva vietato di ricevere armi statunitensi nel 2018.
Le persone che spingono così tanto per la guerra con la Russia sanno dei “bambini bruciati vivi” a Donetsk? Sanno che stiamo armando battaglioni neonazisti che negli ultimi 8 anni hanno sparato razzi e lanciato bombe a grappolo sui bambini del Donbas?
FONTE: https://www.nexusedizioni.it/it/CT/il-miliardario-ucraino-che-ha-finanziato-hunter-biden-il-presidente-zelensky-e-i-neonazisti-di-azov-6167
Le guerre di Obama
- DOMENICA 12 FEBBRAIO 2017
Che presidente è stato, dal punto di vista militare, quello che ha vinto prematuramente il Nobel per la pace e viene accusato di aver bombardato troppo e troppo poco?
Una delle critiche che circolano di più su Barack Obama, anche in Italia, è quella che lo definisce un “guerrafondaio”: il presidente che nonostante il premio Nobel per la Pace e la pubblica opposizione al ricorso della forza armata si è avventurato in molte operazioni militari in paesi che non erano in guerra con gli Stati Uniti. È un argomento che è stato in parte usato nelle ultime settimane per mettere le mani avanti di fronte a possibili nuovi interventi militari decisi dall’amministrazione di Donald Trump, ma anche legato alle più ampie critiche di chi non condivide l’idea che Obama ha voluto lasciare di se stesso, cioè quella di un presidente riluttante a usare la violenza. È un tema interessante, che non si può però liquidare solo contando i paesi che Obama ha bombardato durante la sua presidenza (spoiler: sette), ma deve essere pensato guardando a molte altre cose, per esempio a come è cambiato il modo di fare la guerra negli ultimi quindici anni e a come sono cambiate le minacce che devono affrontare oggi gli Stati.
Per esempio potrebbe sorprendere che questa critica a Obama è tanto diffusa tra certa stampa e i commentatori online, ma quasi per niente tra gli analisti ed esperti di sicurezza nazionale e di politica estera, di qualsiasi settore: anzi, Obama viene criticato da molti di loro per avere ridotto il ruolo dell’esercito, per avere usato la forza militare con timidezza e per avere parzialmente ritirato i soldati americani da paesi che avevano bisogno di essere stabilizzati dopo interventi militari precedenti, cioè l’Iraq e l’Afghanistan. Quindi, a voler tirare le fila: Obama è stato un guerrafondaio o un presidente riluttante a fare la guerra? Dove ha deciso di attaccare, e in che modo? Partiamo dall’inizio: da quello che sappiamo dell’idea di guerra che ha formulato Obama prima della sua elezione e durante i suoi due mandati presidenziali.
Obama sulla guerra, dall’inizio
Un buon punto di partenza per capirci qualcosa è L’audacia della speranza (PDF), il libro uscito nel 2006 e scritto dall’allora senatore dell’Illinois Barack Obama. L’audacia della speranza conteneva alcuni dei temi che sarebbero diventati parte della campagna elettorale di Obama del 2008, tra cui diverse riflessioni sulla guerra e sull’uso della forza. Per esempio, parlando del mondo post-Seconda guerra mondiale, Obama diceva:
«Analogamente era nell’interesse dell’America lavorare con altri Paesi per dar vita a istituzioni e norme internazionali: non sull’ingenuo presupposto che sarebbero stati sufficienti leggi e trattati internazionali per mettere fine ai conflitti tra nazioni o eliminare la necessità di un intervento militare americano, ma perché più le norme internazionali venivano rafforzate e l’America si dimostrava disposta a esercitare con moderazione il proprio potere, minore sarebbe stato il numero di conflitti che sarebbero sorti; e più legittime sarebbero apparse agli occhi del mondo le sue azioni quando fosse stata costretta a fare uso delle armi.»
Obama riconosceva l’importanza delle istituzioni internazionali non solo come strumento per mantenere la pace, ma anche come mezzo per garantire la supremazia statunitense nel mondo occidentale. Allo stesso tempo non disconosceva il ricorso alla forza, e questo è un punto importante: lo limitava perlopiù a situazioni di estrema necessità.
Per capire cosa significa tutto questo nella pratica, si possono prendere come esempio due guerre iniziate dall’amministrazione di George W. Bush e che Obama si ritrovò tra le mani una volta insediato come presidente: i conflitti in Afghanistan (2001) e in Iraq (2003). Obama parlò di queste due guerre durante l’importante discorso pronunciato all’Università di Azhar, al Cairo, nel giugno 2009. Nel discorso – che girò attorno all’idea di promuovere nuovi e migliori rapporti tra Occidente e mondo islamico dopo i complicati anni dell’amministrazione di George W. Bush – Obama definì quella combattuta in Afghanistan contro i talebani e al Qaida una “guerra di necessità”, a cui gli Stati Uniti non si sarebbero potuti sottrarre. La guerra rispondeva a una precisa minaccia alla sicurezza nazionale americana, rappresentata dagli attentati terroristici dell’11 settembre 2001 a New York e Washington.
Per Obama era stata una guerra necessaria, perché minacciava direttamente gli Stati Uniti e perché era un’operazione approvata dalla NATO (quella fu anche l’unica volta in cui fu invocato l’articolo 5 del trattato istitutivo della NATO, che prevede l’intervento automatico di tutti i paesi NATO a seguito dell’aggressione di un paese terzo contro un membro dell’alleanza). Per Obama era diverso il discorso sull’Iraq. L’invasione in Iraq fu annunciata due anni dopo l’inizio delle operazioni in Afghanistan, ma fu giustificata sulla base di informazioni d’intelligence che si rivelarono poi false: Stati Uniti e Regno Unito dissero che l’allora presidente iracheno Saddam Hussein era in possesso di un arsenale di armi chimiche e aveva legami con al Qaida. Inchieste successive dimostrarono che non era vero. Per Obama quella in Iraq fu una “guerra per scelta”, non una “guerra per necessità”, oltretutto iniziata senza alcuna autorizzazione internazionale; Hussein non minacciava la sicurezza nazionale degli Stati Uniti e per questo, diceva Obama, la guerra non andava fatta.
In pratica, nel libro L’Audacia della Speranza e nel successivo discorso del Cairo, Obama aveva messo i primi paletti contro le grandi campagne militari che avevano caratterizzato gli anni di presidenza Bush, e prima di allora altre guerre che gli Stati Uniti avevano combattuto in giro per il mondo, come la guerra in Vietnam. Obama voleva presentarsi al mondo non come un “war president”, un presidente di guerra, cosa che invece aveva voluto fare di sé George W. Bush, ma come un presidente disposto a usare la forza solo in situazioni di estrema necessità e possibilmente con un ampio consenso internazionale.
Al discorso del Cairo, pronunciato nel giugno 2009, seguì nel dicembre dello stesso anno quello a Oslo durante la consegna del premio Nobel per la pace; premio tra l’altro criticato da molti, visto che Obama era al suo primo anno di presidenza e doveva ancora dimostrare tutto. Il discorso a Oslo fu molto ripreso e commentato perché Obama, nonostante l’occasione e il premio che il Comitato per il Nobel norvegese gli aveva appena conferito, non si dichiarò completamente contro la guerra: disse che l’umanità doveva conciliare «due verità apparentemente irreconciliabili: a volte la guerra è necessaria, e in un certo senso la guerra è espressione della follia umana» (dal minuto 12.53, nel video qui sotto). Disse anche: «Per chiarire: il male esiste nel mondo. Un movimento non violento non avrebbe potuto fermare l’esercito di Hitler. I negoziati non potrebbero convincere i leader di al Qaida a deporre le armi».
In un articolo pubblicato quattro anni dopo, il corrispondente alla Casa Bianca del New York Times Mark Landler tentò di spiegare se e come Obama fosse riuscito a trovare un modo per conciliare le due verità del discorso di Oslo. Trovò una definizione efficace, che incastrava nei paletti già annunciati in precedenza un’idea di guerra diversa da quella pensata da Bush: una guerra «come una sfida di sicurezza cronica ma gestibile, invece che una campagna nazionale a 360 gradi».
“Cronica” significava che la guerra veniva riconosciuta come una situazione permanente, la cui intensità poteva aumentare o diminuire a seconda delle minacce di quel momento. “Gestibile” nel senso che non comportava il dispiegamento massiccio dell’esercito in territorio nemico, ma poteva essere controllata e gestita, appunto, con interventi veloci, rapidi e mirati, come i droni e le forze speciali. L’idea di fondo, quella che mosse la politica militare di Obama, era che le minacce erano cambiate perché il mondo era cambiato. Gli Stati Uniti non dovevano più difendersi da stati nemici, perché secondo Obama nessuno stato arrivava a minacciare la sicurezza nazionale americana; dovevano difendersi invece da una minaccia diversa, quella che arrivava principalmente dall’azione di diversi gruppi terroristici, come al Qaida.
Ne usciva una nuova idea di guerra, poco definibile con i criteri usati dalle precedenti amministrazioni e forse poco definibile del tutto. Philip H. Gordon, che tra il 2013 e il 2015 lavorò alla Casa Bianca come coordinatore delle politiche in Medio Oriente, descrisse questa nuova condizione così: «la parola guerra non esiste più nel nostro vocabolario ufficiale». Esistevano gli attacchi mirati coi droni, le operazioni delle forze speciali e i programmi di addestramento delle forze alleate, ma non la guerra fatta di grandi campagne militari.
Cosa è successo nella pratica
Ci sono stati eccessi e storture, in questi otto anni, ma molte delle decisioni di Obama alla fine hanno rispecchiato la sua idea di guerra. Un buon esempio da cui partire è la guerra in Siria, uno dei conflitti più complicati e difficili da sbrogliare degli ultimi decenni.
Nella prima fase della guerra siriana, quando lo scontro era principalmente tra il regime di Bashar al Assad e i ribelli, Obama usò parole molto dure nei confronti di Assad e tracciò un’ipotetica “linea rossa”, che era l’uso di armi chimiche contro la popolazione civile, superata la quale gli Stati Uniti sarebbero intervenuti bombardando Assad. Nell’agosto 2013 il regime siriano bombardò con armi chimiche tre quartieri di Damasco, uccidendo circa 1.400 persone. Obama però non fece nulla. La sua decisione in un certo senso fu in linea con l’idea di guerra che aveva teorizzato: non volle infilarsi in un intervento armato che non aveva possibilità di ottenere l’approvazione dal Consiglio di sicurezza dell’ONU – per via del prevedibile veto della Russia – e che sarebbe stato diretto contro un regime che, almeno secondo la sua amministrazione, non si poteva considerare una minaccia diretta all’America. Gli Stati Uniti intervennero in Siria un anno dopo: non lo fecero però contro Assad bensì contro lo Stato Islamico, che nel frattempo aveva conquistato molti territori a cavallo tra Siria e Iraq e aveva proclamato la nascita del Califfato. Lo Stato Islamico, per la sua ideologia e la sua idea di jihad globale, era considerato da Obama una minaccia concreta da combattere con i mezzi adatti a quel tipo di guerra: bombardamenti aerei con e senza pilota, un ampio uso di tecnologia e intelligence, e missioni della Delta Force, che come ha scritto Daniele Raineri sul Foglio sono state compiute «nelle pieghe e nelle pause delle guerre ibride che l’America ha combattuto in questi anni»
Nemmeno l’intervento in Libia del 2011, quello diretto a destituire l’ex presidente Muammar Gheddafi, si può considerare così lontano dall’idea di guerra di Obama. Nonostante sia stata l’unica guerra combattuta dalla sua amministrazione per destituire un regime, Obama non intervenne in Libia con le forze di terra. Ordinò molti bombardamenti, quello sì, ma non si preoccupò per esempio di pianificare una ricostruzione post-conflitto, in linea con la sua idea di evitare il dispiegamento di soldati anche per operazioni di stabilizzazione di lungo periodo (una tra le scelte più criticate di Obama: ci arriviamo). La rinuncia americana a occuparsi della ricostruzione, condivisa comunque dagli altri Stati che parteciparono all’intervento, è oggi considerato uno dei motivi della violenta guerra civile che si sta combattendo in Libia, dove ci sono due governi in competizione tra loro e centinaia di milizie armate che fanno il bello e il cattivo tempo nei territori che controllano. Lo stesso Obama in un’intervista con il giornalista dell’Atlantic Jeffrey Goldberg ha definito quella scelta un errore.
Due casi particolari di guerre di Obama sono state quelle in Iraq e Afghanistan, che ereditò dall’amministrazione Bush e da cui non riuscì a ritirarsi davvero, perché nel frattempo le operazioni antiterrorismo in atto non avevano dato i risultati sperati. Nell’ottobre 2011 Obama annunciò che l’ultimo soldato americano avrebbe lasciato l’Iraq entro la fine di quell’anno, ma meno di tre anni dopo decise di rimandare in territorio iracheno 475 consiglieri militari che avrebbero aiutato i militari locali nella guerra contro lo Stato Islamico. Oggi i soldati americani in Iraq sono circa 5mila, impiegati probabilmente non solo in operazioni di addestramento ma anche in combattimento. Una cosa simile è successa con l’Afghanistan. Nel maggio 2014 Obama annunciò il ritiro di tutti i militari americani entro la fine del 2016, ma poi bloccò l’operazione dicendo che avrebbe lasciato più di 5mila soldati, che si sarebbero ritirati entro la fine del 2017. Come era accaduto in Iraq, ci fu però un’intensificazione delle minacce non statali: i talebani, il cui regime era caduto dopo l’intervento americano nel 2001, ripresero forza e conquistarono diversi territori, fino a controllarne di più di quanti non ne avessero mai controllati dal 2001. Obama decise così di lasciare in Afghanistan quasi 9mila soldati (per fare un paragone: con George W. Bush gli Stati Uniti avevano impiegato in Iraq e in Afghanistan 200mila uomini).
Oltre ai noti interventi in Siria, Libia, Iraq e Afghanistan, Obama ha bombardato anche in Yemen, Somalia e Pakistan. È difficile dare numeri precisi sulle operazioni militari in questi tre paesi, compiute per lo più con l’uso dei droni e – cosa importante – con il consenso dei governi locali. Si possono dire comunque due cose al riguardo. La prima è che l’efficacia dei bombardamenti coi droni è stata messa in discussione da più parti: in Yemen, per esempio, al Qaida non è stata eliminata, ma è riuscita a riorganizzarsi e a pianificare nuovi attentati terroristici (come quello alla redazione di Charlie Hebdo nel gennaio 2015). La seconda è che le modalità con cui sono stati compiuti questi attacchi – in parte sotto il controllo della CIA – sono state giudicate da alcuni giornali e da diverse organizzazioni internazionali molto poco trasparenti. Di certo c’è che i bombardamenti coi droni in Yemen, Somalia e Pakistan hanno rappresentato l’espressione perfetta della guerra di Obama, criticata da molti ed elogiata da pochi.
Le critiche: un guerrafondaio o troppo debole?
Negli ultimi anni alcune delle critiche a Obama sono arrivate dalla stampa americana considerata più di sinistra – come The Intercept – e da alcune organizzazioni o personalità che si occupano di diritto internazionale. Obama è stato accusato di avere fatto troppa guerra e soprattutto di averla fatta con un uso eccessivo dei droni, cioè con mezzi il cui utilizzo si trova ancora in una zona grigia del diritto internazionale (se un drone uccide in un bombardamento dei civili, di chi è la responsabilità, visto che è un aereo senza pilota? Del tecnico che lo guida a distanza dagli Stati Uniti?). I droni, che sulla carta servono a minimizzare le perdite dei soldati americani in guerra e che si basano su un uso massiccio della tecnologia, hanno anche mostrato di non essere “perfetti”, cioè di non poter evitare con sicurezza bombardamenti approssimativi e la conseguente uccisione di civili. Nel corso degli ultimi anni l’amministrazione statunitense ha dovuto affrontare diverse crisi di questo tipo, in particolare in Pakistan e in Yemen, con il rischio di inimicarsi la popolazione locale e dare argomenti ai terroristi per attaccare gli Stati Uniti.
Una delle critiche più incisive ha riguardato la progressiva espansione dei poteri presidenziali decisa da Obama in materia di guerra. Usufruendo al massimo dei poteri della presidenza in temi di guerra, nessuno degli interventi militari di Obama è stato infatti approvato dal Congresso americano (Obama chiese l’approvazione del Congresso solo quando si ipotizzava un intervento contro Assad, dopo il superamento della “linea rossa”: la proposta fu bocciata, probabilmente con suo stesso sollievo). Dopo l’inizio dei bombardamenti in Siria contro lo Stato Islamico, Jack Goldsmith, docente dell’Università di Harvard, esperto di diritto internazionale e co-fondatore del sito Lawfare, scrisse: «I suoi annunci di espandere l’uso della forza contro lo Stato Islamico senza il bisogno di un nuovo consenso del Congresso segnano la sua ultima avventura nell’unilateralismo e consolidano una legacy sorprendente di espansione dei poteri di guerra del presidente». Goldsmith sostenne allora che ricercare e ottenere il consenso dal ramo legislativo avrebbe potuto rafforzare la posizione di Obama, darle una legittimità che altrimenti non avrebbe mai avuto, e fornire anche una specie di copertura nel caso in cui le cose fossero andate storte. Obama però fece diversamente, probabilmente anche a causa dei rapporti sempre più tesi tra lui e i Repubblicani al Congresso. Oggi, poi, i superpoteri del presidente in materia di guerra pongono un’altra questione: come li userà Trump?
C’è poi tutto un altro tipo di critica che è stato fatto ad Obama: proviene da uno dei campi teorici più influenti della politica estera americana, tradizionalmente considerato vicino ai conservatori. Secondo questi critici, per la maggior parte analisti ed esperti di sicurezza, Obama avrebbe fatto troppa poca guerra: avrebbe ridotto il ruolo dell’esercito americano, per esempio approvando dei tagli alle spese militari; avrebbe trascurato quelle politiche in grado di contrastare efficacemente il terrorismo intervenendo nei contesti dove si sviluppa, e che spesso richiedono grandi interventi militari via terra e operazioni di stabilizzazione post-conflitto. Michael E. O’Hanlon, analista della Brookings Institution, ha scritto sul Wall Street Journal che per proteggere l’interesse nazionale l’America dovrebbe disporre di un esercito in grado di anticipare e svolgere un’ampia varietà di operazioni di terra e dovrebbe avere il potere di reagire alle eventuali azioni aggressive della Russia di Vladimir Putin contro i paesi baltici o a un’eventuale scontro tra le due Coree (gli Stati Uniti sono alleati della Corea del Sud, mentre sono nemici di quella del Nord), tutte cose che Obama non ha messo tra le sue priorità. Chi critica Obama da destra, diciamo così, pensa che tutte queste cose insieme abbiano contribuito a ridurre considerevolmente il ruolo degli Stati Uniti nel mondo: che abbiano ridotto la capacità degli americani di contrattaccare, e allo stesso tempo anche quella di fare paura ai nemici e di rassicurare gli amici, due tra gli aspetti più importanti che si guardano quando si misura il potere di uno stato.
Josef Joffe, docente di affari internazionali all’università di Stanford (California), ha descritto la presidenza di Obama come la più sorprendente dall’entrata degli Stati Uniti nel gruppo delle grandi potenze, dopo la Prima guerra mondiale: «Normalmente le grandi potenze sono spinte fuori dalla scena internazionale da attori più forti e potenti di loro, come successe con l’Impero Asburgico, la Francia e il Regno Unito all’inizio di questo secolo. L’America di Obama se ne è andata lentamente, senza alcuna costrizione».
E quindi?
È vero che Obama è stato il presidente americano che ha tenuto in guerra gli Stati Uniti per più tempo. È però altrettanto vero che il numero delle guerre combattute da Obama, sette, non può essere sufficiente da solo per definire la sua amministrazione “guerrafondaia”: anche perché sono operazioni molto diverse tra loro, e alcune probabilmente non ha nemmeno senso chiamarle guerre. Obama non ha compiuto alcun intervento di terra su larga scala e, a eccezione della Libia, non ha partecipato a missioni finalizzate a destituire regimi di altri paesi. Ha modificato sensibilmente il modo di fare la guerra, adattandolo a un tipo nuovo di minaccia, ed è intervenuto quasi esclusivamente per colpire gruppi terroristici o vicini ai terroristi, espandendo sempre di più i poteri del presidente e limitando quelli del Congresso. Da un punto di vista militare verrà ricordato soprattutto per l’estesissimo uso dei droni e per il parziale ridimensionamento dell’esercito.
Spiegare le cose bene
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FONTE: https://www.ilpost.it/2017/02/12/le-guerre-di-obama/
CONFLITTI GEOPOLITICI
Ecco a cosa servono i flares, gli artifici pirotecnici lanciati da caccia ed elicotteri
Il conflitto in Ucraina ha fornito numerosi video che testimoniano le operazioni belliche spesso girati da semplici cittadini armati di smartphone. Alcuni di questi, quando riprendono aerei ed elicotteri in volo a bassa quota, mostrano i velivoli lanciare un grande numero di “razzi luminosi” il cui scopo non sempre viene compreso dal grande pubblico. Non sono infatti dei razzi, bensì di flares, ovvero degli artifici pirotecnici che producono un intenso calore che vengono emessi da appositi lanciatori integrati nella fusoliera dei velivoli per sviare i missili con guida all’infrarosso (o IR), ovvero capace di dirigere l’ordigno verso una fonte di calore. I flares, come si può vedere dai numerosi video diffusi sui social, vengono lanciati da un aereo, o da un elicottero, in “raffiche” per confondere il sistema di ricerca del missile, che può essere lanciato da terra o da un altro velivolo.
Durante il conflitto in Ucraina, infatti, i cacciabombardieri russi tipo Su-24, Su-25 e Su-34 che hanno effettuato attacchi al suolo, sono stati inquadrati da sistemi missilistici spalleggiabili (definiti MANPADS) come gli Stinger di fabbricazione americana o Strela-2 di origine sovietica/russa. Anche i caccia hanno missili che puntano una fonte di calore: l’AIM-9 “Sidewinder” statunitense, ad esempio, è uno di questi insieme al russo R-73 (AA-11 Archer in codice NATO). Gli elicotteri non sono al riparo da queste minacce, e infatti, come si vede nei filmati, durante un attacco spesso e volentieri fanno largo uso di flares per evitare di essere colpiti. Durante l’azione lampo all’aeroporto di Gostomel, effettuata nelle prime ore del conflitto, gli elicotteri Mil Mi-8 e Mi-24 accompagnati dai Kamov Ka-52 che hanno trasportato le truppe d’assalto russe, come possiamo vedere nel video, hanno fatto largo uso di questi artifici pirotecnici. In un altro video sono due cacciabombardieri da attacco al suolo russi tipo Su-25 (Frogfoot in codice NATO) a usarli mentre erano in azione sul Donbass. I primi sensori IR dei missili erano in grado di operare su una banda dell’infrarosso corrispondente ad oggetti molto caldi, come ad esempio l’ugello di scarico del motore di un velivolo ed erano ingannabili anche da altre fonti, come il Sole. La seconda generazione di sistemi di guida IR è invece in grado di “vedere” anche oggetti di temperatura inferiore, come la parte frontale di un aereo. I flares normali non erano più del tutto adatti, e così sono stati sostituiti da alcuni più sofisticati capaci di imitare le radiazioni caratteristiche del metallo incandescente, e non semplicemente un fuoco ad altissima temperatura. Per sviare i missili in arrivo un velivolo ha anche altre strumenti, che vanno a coprire lo spettro delle onde radar: un missile lanciato da un caccia può, infatti, essere a guida radar attiva o semi attiva. Per cercare di evitare di essere colpito, un pilota può sganciare i chaff, ovvero delle “pagliette” di materiale radar riflettente che si disperdono in una nuvola nell’aria e servono per “accecare” e confondere i radar avversari. Questa scoperta è stata fatta più o meno parallelamente a quella del radar e i chaff (anche detti window) sono stati impiegati per la prima volta in battaglia già durante la Seconda Guerra Mondiale. Un altro sistema di inganno per i radar da ricerca o tracciamento avversari sono le contromisure elettroniche attive, che vengono trasportate su un velivolo in modo integrato alla cellula oppure in un pod esterno che si aggancia alla fusoliera o sotto le ali.
FONTE: https://it.insideover.com/guerra/ecco-a-cosa-servono-i-flares-gli-artifici-pirotecnici-lanciati-da-caccia-ed-elicotteri.html
Il nuovo virus (la Russia) e i centri Nato già sul suolo ucraino
Roberto Speranza è intoccabile: è veramente protetto dai poteri forti che rappresenta. Proprio lui, insieme al Pd, avrebbe appena impedito a Draghi di eliminare definitivamente il Green Pass: il primo ministro, infatti, avrebbe voluto abolirlo dal 1° aprile, con la fine dello stato d’emergenza. E invece, niente da fare: c’è chi vuole che la “schedatura digitale” resti in vigore a tutti i costi. Fonti vicine al governo mi riferiscono addirittura di pressioni, in questo senso, da parte del Vaticano: rendetevi conto. Spero quindi che questo esecutivo cada al più presto, e che i suoi componenti poi rispondano, anche a livello giudiziario, dei crimini che hanno commesso: devono essere messi in condizione di non nuocere più al paese. Ormai, un buon 30% degli italiani ha compreso di essere stato vittima della farsa pandemica. E oggi, lo stesso potere che fino a ieri ha sottomesso la popolazione col pretesto del Covid, si è inventato il nuovo virus con cui terrorizzare tutti: la Russia. Notare: mentre Francia e Germania stanno già trattando sottobanco per limitare i danni delle sanzioni, l’Italia procede verso il precipizio. Di questo passo saremo gli unici a subire conseguenze devastanti: ed è la precisa volontà demolitrice di questo governo di servi.
L’operazione Covid e la disinformazione sulla crisi in Ucraina hanno gli stessi mandanti e la stessa matrice, basata sulla frode sistematica e sul capovolgimento della verità. Tanto per cominciare, sul suolo ucraino, la Russia sta colpendo decine di laboratori destinati a produrre armi biologiche e batteriologiche, anche con l’impiego di virus: laboratori finanziati dallo stesso Deep State statunitense che sta dietro alla farsa pandemica che ci ha attanagliato negli ultimi due anni. Ridicolo, poi, che i nostri media parlino delle difficoltà che starebbero incontrando le forze russe. Mosca non ha mai pensato a una guerra-lampo, concentrata su un unico fronte da sfondare rapidamente: al contrario, l’operazione russa – accuratamente pianificata – prevedeva fin dall’inizio la “bonifica” dell’Ucraina, agendo contemporaneamente su 10 fronti ben distinti. Mi spiego: è emersa la presenza, sul territorio ucraino, di oltre una ventina di installazioni Nato. Dal golpe del 2014, che ha deposto il legittimo presidente Yanukovic e portato al regime che ha prodotto prima Poroshenko e ora l’attuale pagliaccio, la Nato non ha fatto che moltiplicare, in chiave anti-russa, le sue installazioni militari in Ucraina.
Un sito web di orientamento religioso, “VeritasLiberabitVos.it”, presenta una mappa aggiornata della presenza militare Usa e Nato in Ucraina, evidenziando le basi principali, a partire dal sito operativo navale Ochakov che è stato completamente distrutto dai russi il 25 febbraio. Oppure l’Isola dei Serpenti, un centro di intelligence della Cia, catturata dai russi sempre il 25 febbraio, senza neppure dover combattere. Un’altra installazione ad uso e consumo della Nato è il porto di Yuzhny, nella regione di Odessa, utilizzato anche dalla marina militare britannica: nel centro portuale di Yuzhny (non ancora raggiunto dalle forze russe) era prevista la costruzione di una vera e propria base Nato. E non è tutto: sono stati censiti 241 campi di addestramento, per “armi combinate”, nella regione di Kherson, ora occupata dalle truppe della Federazione Russa. Quindi, come dimostrano le prove documentali: parliamo di 241 campi, con addestratori americani. A Mariupol, invece – dove i russi stanno ormai finendo di “bonificare” i residui quartieri ancora in mano alle truppe fedeli a Kiev – c’erano centri di addestramento per cecchini.
Tra gli altri siti in dotazione alla Nato, c’era il “Centro internazionale per la pacificazione e la sicurezza” di Yavorov, nella regione di Lvov (Leopoli): è stato distrutto il 13 marzo dai missili russi. Un altro centro di addestramento, sempre con istruttori americani, era quello di Malaya Lyubasha, nella regione di Rovno: qui, gli Usa addestravano le unità ucraine della X Brigata dei Fucilieri da Montagna. Al momento risulta che tutti gli istruttori americani abbiano lasciato l’installazione, che ora sarebbe allo sbando. Buona parte di queste strutture, ormai, sono state completamente disabilitate dall’intervento russo. Per questo, le truppe di Mosca stanno procedendo – con lentezza, necessariamente – proprio per eseguire questi interventi di tipo selettivo e chirurgico, esattamente come previsto dai piani iniziali del Cremlino. Senza contare che, nella prima settimana di guerra, l’Ucraina ha perso da subito la sua capacità aerea, la difesa antiaerea e l’80% del suo potenziale militare: l’esercito ucraino ha sostanzialmente perduto ogni capacità offensiva.
Che dire? Cerchiamo di tenere alto il morale: viviamo tempi davvero difficili, la situazione economica non rifiorirà certo da un giorno all’altro. Probabilmente, nelle prossime settimane avremo ulteriori rincari dei generi alimentari, ulteriori spinte inflattive. Ci saranno problemi determinati dall’aumento del costo dei carburanti. Ma è quello che vuole il sistema: vuole le persone spaventate (e oggi distratte dalla cronaca bellica). Io però sono tendenzialmente ottimista: la mia forza d’animo interiore mi suggerisce che le cose, alla fine, andranno bene. Dal punto di vista militare, sono convinto che entro la metà di aprile questa guerra potrebbe concludersi, anche perché tecnicamente la Russia ha già vinto. Tutto dipende da quando l’Occidente autorizzerà i suoi fantocci di Kiev a trattare. In Ucraina vorrebbero già negoziare: ma la trattativa è bloccata, perché i veri padroni impediscono agli ucraini di scendere a patti, e tentano di sabotare e ritardare l’avanzata delle truppe di Mosca. Gli stessi russi avanzano lentamente anche per limitare i danni collaterali e le vittime civili: la Russia non ha né l’interesse né la volontà di uccidere cittadini ucraini. Quindi: impariamo a riconoscere le “false flag” e non legittimiamo questa grande ondata di follia russofobica. E manteniamo alta la bandiera della libertà: in Italia non c’è più un solo politico che parli di libertà. Ce ne rendiamo conto?
(Nicola Bizzi, dichiarazioni rilasciate a Gianluca Lamberti del canale YouTube “Facciamo Finta Che”, nella diretta del 20 marzo 2022 con anche Luca La Bella e Adrian Fiorelli).
FONTE: https://www.libreidee.org/2022/03/il-nuovo-virus-la-russia-e-i-centri-nato-gia-sul-suolo-ucraino/
CULTURA
Recensione del libro Julian Assange, Niente è come sembra di Germana Leoni
Il libro di Germana Leoni (Julian Assange, niente è come sembra) sfida la narrativa dominante sin dal sottotitolo. Nell’affrontare la vicenda umana e politica di questo eroe del nostro tempo l’autrice lascia trasparire una passione politica e genuina adesione all’etica della convivenza umana.
Assange ha acceso i riflettori su tanti crimini americani, detenuti senza processo torturati a Guantanamo, riunioni segrete del club Bilderberg, violenze gratuite in Afghanistan, in Iraq e altrove, che altrimenti sarebbero rimasti nascosti per sempre. L’inviato speciale delle Nazioni Unite contro la tortura (lo svizzero Nils Metzer) ha dichiarato che Assange subisce da anni trattamenti disumani, qualificabili come tortura vera e propria: “in vent’anni di lavoro non avevo mai visto un gruppo di stati cosiddetti democratici coalizzarsi così accanitamente per aggredire e torturare un individuo per così lungo tempo e senza alcun rispetto della legge e della dignità umana.”.
Come ricorda George Orwell nel suo mirabile “1984” il linguaggio politico è progettato per far sembrare vera la bugia, rispettabile l’omicidio e per dare un tocco di solidità alle correnti d’aria.
Il futuro delle nostre libertà – il pianeta, con inevitabili differenze, non è che un grande villaggio! – si giocherà in gran parte sugli spazi di vigilanza che i cittadini del mondo saranno capaci di esercitare sugli apparati pubblici, in particolare quelli onnipotenti delle grandi potenze, che operano spesso fuori da quel controllo democratico che pure la legge prevede e dispongono di strumenti di sorveglianza un tempo inimmaginabili. In un quadro di pesante deficit istituzionale, nei labirinti occulti degli stati profondi agiscono strutture non controllabili in commistione e protette da apparati pubblici, che obliterano platealmente i bisogni della collettività, costituiti ovunque da pace, lavoro, partecipazione e giustizia sociale. La resistenza dei cittadini ancora in grado di battersi appare talora inutile davanti a poteri inafferrabili, lontani e misteriosi. I legami profondi tra la sfera degli interessi privati e le istituzioni fa inorridire.
Attraverso il doloroso percorso che ha portato Julian Assange a diventare – insieme a Chelsea Manning e altri – un’icona della resistenza al dominio imperiale, Germana Leoni solleva il sipario sul mondo di menzogne, nefandezze e ingiustizie che la narrazione pubblica ci ha somministrato per anni, un mondo dove i valori di democrazia, tutela della vita umana e primari diritti umani hanno costituito la maschera di un saccheggio etico e materiale di interi popoli.
I sistemi dittatoriali gestiscono l’informazione con la Censura: solo notizie amiche superano la barriera. Nelle cosiddette democrazie occidentali, invece, dominano manipolazione, saturazione, racconto parziale, distrazioni di campo, tecniche sopraffine costantemente aggiornate per nascondere la coscienza critica e le domande moleste. Il rigido controllo sugli strumenti mediatici alimenta la Dea Menzogna, impedisce la riflessione, manipola la mente collettiva, con qualche coraggiosa eccezione che non fa la differenza. Chi controlla la narrazione pubblica domina il mondo. E tale narrazione nulla ha a che vedere con la verità o con la ricerca della verità.
Il libro di Germana Leoni prende chiara e immediata posizione, e non è questo il suo unico pregio. Accurato e documentato, esso possiede quel taglio assiologico raramente rintracciabile nello sguardo cinico e nichilista dei cosiddetti intellettuali. Il suo posizionamento contro la mistificazione e il sopruso dell’impero mette in luce un’evidenza che tende a sfuggire alla pubblica percezione – poiché, come affermava il filosofo Hegel, “ciò che è noto spesso proprio per questo non è conosciuto” – vale a dire che siamo tutti bersagli potenziali, se solo ci capita di superare la soglia di infastidimento.
Inseguito da un mandato di cattura della giustizia svedese che grondava di accuse pretestuose, nel giugno 2012, Julian Assange trova rifugio all’Ambasciata dell’Ecuador a Londra per evitare di essere trasferito in Svezia, e poi estradato negli Stati Uniti. Dopo 7 anni di internamento forzato, l’11 aprile 2019, smentendo la scelta del suo predecessore (Rafael Correa), il nuovo presidente dell’Ecuador (Lenin Moreno) lo consegna alle autorità britanniche, che lo rinchiudono nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh. Ora rischia una condanna a 175 anni di carcere per aver svelato documenti segreti del Pentagono forniti dall’ex-militare Chelsea Manning senza violazione alcuna da parte di Assange, il quale svela però il business model di un paese schiavo di patologia dell’onnipotenza: violare ogni norma o codice di condotta, nascondere le malefatte, raccogliere informazioni ovunque, costruire algoritmi e schemi di condotta da utilizzare in duplice modo: a fini di profitto (lo scambio di dati con le big di internet), e di potere/ricatto universali (su stranieri e cittadini): in buona sostanza, una gigantesca macchina di sorveglianza e indottrinamento. Il governo controlla, le imprese schedano e fanno profitti e all’occorrenza si rivolgono a quegli stessi apparati, le poltrone essendo interscambiabili.
In un primo tempo (gennaio 2021), la giustizia britannica nega l’estradizione – senza concedendogli però la libertà su cauzione – con la motivazione che nelle carceri statunitensi il fondatore di Wikileaks sarebbe a rischio di suicidio. Un’asserzione rivelatrice questa: persino la giustizia di un paese intimo dell’impero americano giudica il sistema carcerario Usa una struttura deviata, di segregazione sociale e politica. In un carcere americano, lo stato di diritto è giudicato carente. Un detenuto è esposto a degradazione fisica e morale, sevizie sessuali, torture o peggio. Un monito, dunque, per coloro che negli sterminati apparati d’intelligence Usa dovessero essere tentati di seguire le orme di Julian Assange o di Chelsea Manning: colpirne uno (o due) per educarne cento!
Nel dicembre 2021, l’Alta Corte di Londra ribalta la sentenza, conferma l’estradizione e rinvia il caso al tribunale di primo grado per un nuovo esame. La vicenda non è ancora finita. Assange giace tuttora in prigione in attesa del biglietto di sola andata per l’America o magari di crepare prima.
Il libro denuncia altresì il vincolo mafioso che unisce alcuni apparati di Stati Uniti, Regno Unito, Svezia e Australia incaricati di silenziare la voce di un uomo coraggioso contro la concezione americana usa e getta del diritto internazionale, à la carte, al servizio della prevaricazione e della brutalità.
L’assurdità di un impero che reputa di poter decretare la pace, la guerra e il futuro del mondo non è un’astrazione. La prova è davanti a noi, milioni di morti e rifugiati, distruzioni e violenze, sempre a difesa dei padroni del mondo, le cui ricchezze e potere hanno raggiunto vette come mai prima nella storia.
Il libro di Germana Leoni, poi, non si limita alle vicende di Assange e Manning, ma illustra accuratamente nomi e vicende di altri eroi (tra cui Edward Snowden) che hanno sacrificato o rischiato la vita per questi valori, mentre i responsabili vivono liberi alla luce del sole.
Alcuni passaggi di questo scritto meritano una particolare sottolineatura. Dai files di Wikileaks emerge che G. W. Bush e Tony Blair, responsabili di centinaia di migliaia di morti in Iraq e altrove, avevano tra loro una relazione che rifletteva alla perfezione quella tra Washington e Londra. Rivolgendosi a G. W. Bush, infatti, il PM britannica afferma: sarò sempre con te, a qualsiasi costo. Una sudditanza umiliante, secondo alcuni, per il popolo britannico.
Ad Oxford, nel consegnare a Chelsea Manning il premio Sam Adams per Integrità nel lavoro di intelligence, Craig Murray, ex ambasciatore britannico in Uzbekistan, così si esprime: “Chelsea, mentre la verità veniva mistificata, senza alcuna compassione verso le vittime dei crimini di guerra, il tuo paese creava terrorismo e violenze anziché ridurle. L’impegno umanitario della tua condotta testimonia il meglio dell’anima umana. Tu sei più libera di coloro che passano la vita nascondendo il male. Un plauso al tuo coraggio, alla tua dignità, alla tua integrità. Avrai sempre il nostro sostegno. Per me, ambasciatore Craig Murray, è un vero onore consegnarti il premio Sam Adams.”.
Un ultimo episodio riguarda anche l’Italia, inseguito dagli agenti Usa, Edward Snowden in un momento di obnubilamento mentale aveva pensato di chiedere asilo anche all’Italia. Nel rispondere in Parlamento a una interrogazione in proposito, Emma Bonino, allora Ministro degli Esteri, aveva così motivato il rifiuto italiano: non vi sono le condizioni giuridiche affinché l’Italia accolga la richiesta di asilo di Snowden. A me, a noi come governo, pare che preservare un rapporto di fiducia con gli Stati Uniti, sia nei nostri migliori interessi nazionali”. Tutto chiaro.
Il libro in questione è dunque un volume indispensabile per chi vuole penetrare nei labirinti di una distopia diffusa che, se non sarà fermata in tempo, metterà a rischio la vita e la libertà dei popoli del pianeta.
Per informazioni e acquisti: https://shop.nexusedizioni.it/collections/libri-nexus/products/julian-assange-niente-e-come-sembra
(Alberto Bradanini è un ex-diplomatico. Tra i numerosi incarichi ricoperti, è stato Ambasciatore d’Italia a Teheran (2008-2012) e a Pechino (2013-2015). È attualmente Presidente del Centro Studi sulla Cina Contemporanea. Ha pubblicato “Oltre la Grande Muraglia” Ed. Bocconi 2018; “Cina, lo sguardo di Nenni e le sfide di oggi”, Ed. Anteo, 2021 e “Cina, l’irresistibile ascesa”, Ed. Sandro Teti, 2022.)
FONTE: https://www.nexusedizioni.it/it/CT/recensione-del-libro-julian-assange-niente-e-come-sembra-di-germana-leoni-6163
CYBERWAR SPIONAGGIO INFORMAZIONE DISINFORMAZIONE
I new media e la guerra
Possiamo ancora parlare di comunicazione?
I drammatici venti di guerra che soffiano da est ci pongono in una prospettiva del tutto diversa rispetto a quella utilizzata per analoghi eventi in un passato anche relativamente recente. Ora il pilastro centrale su cui ruota la complessità degli accadimenti non è tanto quello dei fatti in sé bensì della modalità con la quale i fatti vengono rappresentati. Fin qui in realtà nulla di nuovo, perché già Mac Luhan, padre della moderna comunicazione, sosteneva che non esiste il fatto, ma la notizia del fatto. Questo perché l’accesso alla notizia da parte dell’opinione pubblica è un accesso “mediato” da altri soggetti/strutture che più o meno consapevolmente contaminano o addirittura inquinano la notizia che devono trasmettere.
Che ci sia un peccato originale in tutto questo è già nella definizione di “media” che noi moderni attribuiamo al complesso dei mezzi di comunicazione. Innanzitutto pronunciamo questo termine “midia” quando invece si pronuncia come si scrive perché non è inglese, ma latino ed esattamente plurale di medium. Il termine “media” costituisce quindi una grossolana contraddizione in termini, perché “media” significa appunto equidistante, che sta in mezzo mentre è del tutto improbabile che chi rappresenta un evento sia perfettamente asettico ed equidistante rispetto ai significati che tale evento può assumere.
La rappresentazione dell’evento da parte di chi lo riporta risentirà infatti di una serie infinita di fattori tra i quali possiamo citare la formazione scolastica, il credo religioso, l’ideologia politica, l’educazione ricevuta, l’estrazione sociale, l’etnia di appartenenza, la condizione emotiva. Restando nell’ambito della buona fede penso di potermi fermare qui.
Se invece consideriamo la possibilità di manipolare artatamente la notizia per raggiungere un secondo fine che travalica gli ambiti della cronaca, il moltiplicatore diventa esponenziale. Attribuire all’avversario ogni sorta di nefandezza non è cosa recente. Da sempre in qualunque tipo di conflitto militare e non solo, sono stati prodotti grandi sforzi per convincere la propria parte di essere nel dominio del bene assoluto relegando conseguentemente l’altro nelle tenebre del male. Ma perché in passato non si è assistito a quello sgretolamento dell’informazione che oggi ci lascia il più delle volte storditi ed incapaci di elaborare una visione personale? La domanda è semplice, ma la risposta temo potrebbe non esserlo altrettanto.
Azzardo un’ipotesi e provo a dimostrarla. Il tessuto sociale bersaglio della comunicazione era una volta più compatto e quindi in grado di reggere i messaggi di cui era destinatario senza frammentarsi. Se fratture c’erano, erano per blocchi, non per cellule. Le stratificazioni sociali erano minori, le distanze tra uno strato e l’altro molto marcate, i messaggi e soprattutto i mezzi per diffonderli limitati. L’analfabetismo diffuso e l’istruzione concentrata sulle classi superiori costituivano il binario naturale che incanalava la comunicazione verso i destinatari. In quegli anni se dovevi comunicare qualcosa prendevi la penna, scrivevi, imbucavi la lettera ed aspettavi trepidante la risposta che arrivava dopo settimane. Oppure ti mettevi in fila e telefonavi dal posto pubblico.
Oggi si ha pochissimo da dire, ma i mezzi a disposizione sono moltissimi e diffusi. Nella bulimia comunicativa che ne consegue i mezzi finiscono per travalicare un messaggio che spesso addirittura scompare, lasciando nell’etere contenitori che viaggiano pericolosamente vuoti alla velocità della luce. Su questo vero e proprio zoccolo sociale nel 1954 si innesto’ la TV di Stato ispirandosi ai protocolli della BBC inglese che si riassumevano nelle 3 I: informare, istruire, intrattenere. I lettori più anziani ricorderanno programmi come TV7, Almanacco del giorno dopo, il maestro Alberto Manzi, il film del lunedi, Studio Uno o Canzonissima il sabato e la grande opera di divulgazione che portò alla conoscenza della platea molto vasta di chi non aveva avuto una formazione scolastica opere letterarie come il Mulino del Po, i Promessi Sposi, il Conte di Montecristo, i Fratelli Karamazoff. La policy aziendale era rigidissima soprattutto per quanto riguardava abbigliamento, linguaggio e comportamento e si basava sul principio che la TV entrava nelle case degli italiani e che quindi dovesse farlo con educazione. I presentatori erano colti, preparati, rigorosamente in abito scuro e cravatta quando non in smoking, super professionali.
Chi apparteneva alle classi più svantaggiate vedeva rappresentati persone e modelli che lui o lei non sarebbero riusciti ad emulare, ma ai quali forse i loro figli, studiando ed impegnandosi un giorno avrebbero potuto avvicinarsi. E questo era l’argano che supportava l’ascensore sociale.
Il dibattito televisivo era limitato a Tribuna Politica, moderatore Jader Jacobelli. I giornalisti seduti ai banchi come scolaretti e i politici allineati in cattedra come professori. Un minuto per la domanda, due per la replica alla risposta. Chi sforava anche di un secondo veniva rimproverato aspramente e richiesto di alzarsi e scusarsi a capo chino con i colleghi. Cosa avvenne poi nella TV con conseguente impatto sulla societa?
Arrivarono le TV commerciali, all’inizio senza troppi scossoni. A parte qualche scollacciatura peraltro gradita dopo anni di puritanesimo, più o meno si andava in scia a mamma RAI. Il primo passo fu che il dibattito televisivo usci dalle felpate sale di Tribuna Politica per entrare nei più chiassosi set del talk show. Anche qui all’inizio non fu dramma.
Si tendeva più a esibire qualche stranezza, qualche fenomeno da baraccone all’insegna del “venghino signori venghino!” Roba un po’ paesana, ma tutto sommato inoffensiva che ebbe ae non altro il merito di portare alla notorietà qualche discreto talento che diversamente sarebbe stato inghiottito dal nulla. Tutto sommato si manteneva un certo fair play e le svirgolate erano per lo più spontanee, naif e dovute principalmente all’estrazione casareccia di qualche partecipante scaraventato sul palco per farsi quatto risate.
Poi un bel giorno…anzi, no…non era giorno e non era nemmeno bello….una sera, da Maurizio Costanzo arriva un giovanotto con lenti spesse un dito, che nervosamente si passa le dita tra i capelli guardandosi intorno spaesato…il classico nerd, per intenderci. Tutti ne abbiamo avuto almeno un esemplare in classe al liceo. Questo nerd un po’ stralunato, ma che comunque si intuiva dotato di un discreto quoziente intellettivo e di buona cultura, inopinatamente sbrocca e con la bava alla bocca aggredisce urlando una malcapitata che era tra gli ospiti della trasmissione sommergendola sotto una valanga di epiteti per lo più irripetibili. Costanzo sbianca, balbetta, si dissocia…ma poi a mente fredda da quell’animale televisivo che è intuisce di aver inaugurato una nuova era.
Il giovane nerd si chiamava Vittorio Sgarbi ed invecchiando nulla ha perso delle sue peculiarità, anzi le ha rinforzate. Si avviò quindi quella spirale vorticosa che ha portato a tronisti, grande fratello, isola dei famosi ai cui partecipanti veniva regolarmente richiesto di esprimersi in qualità di opinionisti sui temi più svariati.
Ovviamente i poveretti, trovandosi ad affrontare argomenti di cui erano totalmente ignoranti, la risolvevano a urla, parolacce e qualche sganassone, per la gioia dell’audience che si impennava per lo stesso atavico istinto che portava i nostri antenati ad accorrere entusiasti al Colosseo o i nostri contemporanei a rallentare in autostrada per guardare l’incidente sull’altra corsia, possibilmente filmandolo con il cellulare. E nella società che accade?
Che la massa degli spettatori che venti anni prima guardavano la TV con soggezione traendone modelli virtuosi ai quali ispirare l’educazione dei propri figli, oggi pensa di non avere nulla di meno degli animali che vede furoreggiare acclamati sullo schermo, tutt’altro….Perché quindi impegnarsi e sacrificarsi per acquisire competenze distintive quando un paio di comparsate a GF aprono le porte di un radioso futuro da velina candidata fidanzata di calciatore o da tronista futuro influencer?
Si realizza pertanto quello che gli psicologi sociali definiscono lo straniamento dell’uomo moderno di fronte all’orizzonte delle infinite possibilità (che sono cosa ben diversa dalle opportunità). È uno straniamento che porta a non fermarsi, a non chiudersi le porte alle spalle, pensando o sperando che la scelta migliore sia quella ancora da compiere, che dietro l’angolo ci sia qualcosa di ancora più facile e vantaggioso e che pertanto non valga la pena di impegnarsi nel presente o chiudere con il passato perché tenere i piedi in una pluralità di staffe ci consentirà di essere liberi di poter partecipare alla grande abbuffata dello scintillante banchetto che tv e riviste patinate ci fanno scorrere vorticosamente davanti agli occhi, allontanandoci sempre di più dal mondo reale
Ma perché tutta questa elencazione non si riconduca a semplice nostalgismo, provo a ripartire dalle definizioni.
La prima domanda è: oggi possiamo parlare di comunicazione? Quali sono gli elementi che devono essere presenti perché si possa parlare di comunicazione?
Il diagramma di Schramm li individuava molto chiaramente. Innanzitutto occorre che ci sia un emittente, quindi un messaggio, un codice, un destinatario una decodifica. Sembra elementare, ma come spesso accade ciò che è semplice non sempre è facile .
Nei vortici dell’attuale comunicazione (per ora definiamola cosi, ma poi vedremo che potrebbe essere qualcos’altro) l’emittente ad esempio non sempre è individuato. E questo potrebbe già essere un problema, perché sempre Mac Luhan asseriva che l’emittente è il messaggio.
Quindi lo stesso messaggio declamato dal Presidente della Repubblica dagli uffici del Quirinale ha diverso peso e diversa credibilità rispetto a quello annunciato da Nino Frassica dalla trattoria di Marcella la Zozzona.
Se entrambi annunciassero ad esempio l’entrata in guerra dell’Italia, uno sarebbe creduto e l’altro probabilmente no, anche se nel caos comunicativo imperante non è del tutto scontato immaginare a chi dei due verrebbe dato più credito. Il secondo elemento del diagramma di Schramm è il canale ed anche questa apparente banalità oggi non è più cosi scontata. Da un sistema relativamente semplice (TV, radio, carta stampata, telegrafo) siamo passati ad un contesto appunto multimediale in cui i canali sono cresciuti a dismisura. Mia nonna quando voleva conferire ad un fatto il crisma della verità incontrovertibile affermava: “l’hanno detto alla radio” e molti ricorderanno la beffa di Orson Welles quando nel 1938 annunciò alla radio un’invasione aliena scatenando una psicosi collettiva. Quindi il canale legittimava il messaggio.
Oggi nell’era delle fake news il canale è talmente accessibile o permeabile da non rappresentare alcuna garanzia in ordine ai contenuti che veicola. Arriviamo quindi ai codici. Anche qui potrei dilungarmi, ma pur limitandoci al codice più diffuso e cioè la lingua italiana, osserveremo il dilagante fenomeno dell’anafalbetismo funzionale.
Il concetto è piuttosto semplice. Mentre l’analfabetismo strutturale è ormai quasi scomparso e quindi la stragrande maggioranza della popolazione è in grado di leggere, è sempre più elevata la percentuale di coloro che sanno leggere, ma sostanzialmente non capiscono ciò che leggono, non sono in grado di estrarne i contenuti, di effettuare collegamenti con esperienze altre, dirette o mediate.
Questa rilevante quota di nostri connazionali (una delle stime più recenti la dimensiona al 47%) non è in grado di comprendere istruzioni scritte o di compilare correttamente un modulo. In altre parole non riescono a capire un articolo giornale pur riuscendo a leggerne le parole, non riescono a compilare una domanda di lavoro o a interagire con strumenti e tecnologie digitali e comunicative e rimandano ogni informazione alla propria esperienza diretta. A tutto ciò si aggiunge il fattore demografico che vede il sensibile invecchiamento della nostra popolazione. Quindi anziani che sono cresciuti in un mondo lento ed accurato si trovano immersi in un vortice velocissimo di informazioni frammentarie che non riescono a cogliere o interpretare.
Approfondire questo aspetto nel modo che meriterebbe sarebbe del tutto impossibile in questa sede. Mi limiterò quindi ad un semplice esempio soffermandomi sui messaggi pubblicitari. Carosello si articolava su sketch della durata di 1 minuto e 45 secondi cui si aggiungeva il messaggio propriamente pubblicitario (la reclame) che durava 30 secondi. Una durata assolutamente incompatibile con il costo degli odierni spazi pubblicitari televisivi dal momento che il prezzo di uno spot in prima serata oggi può superare i 90 k.
Se immaginiamo un soggetto over 80 (circa il 7% della popolazione) che assiste ad uno spot pubblicitario odierno, nel quale in 30 secondi si susseguono decine di frame a velocità ipersonica, con collegamenti affidati spesso a messaggi al limite del subliminale e’ lecito supporre che difficilmente riuscirà ad agganciare il senso e la finalità di quei contenuti sparati stroboscopicamente. Arriviamo quindi alla componente finale del diagramma di Schramm che volutamente ho omesso di citare finora perché è l’ultimo fattore che, ove presente, ci consente di affermare che siamo effettivamente in presenza di un processo comunicativo: il feedback. In assenza di questo il processo è mutilato e non si può definire “comunicativo”, bensi informativo.
Questo e’ ciò che sta accadendo oggi: un flusso ininterrotto e velocissimo di INFORMAZIONI ad una via che vengono spacciate per COMUNICAZIONE bersagliano una platea vasta ed indifferenziata senza preoccuparsi di esiti e ritorni. Il feedback infatti è quasi del tutto assente o limitato alle forme più elementari: il pollice su ad indicare “mi piace” o pollice verso per dire “non mi piace” ne sono un chiaro esempio.
Personalmente ritengo che già sostituire il “mi piace/non mi piace” con “ho capito/non ho capito” sarebbe un bel passo avanti.
FONTE: https://www.infosec.news/2022/04/08/news/guerra-dellinformazione/i-new-media-e-la-guerra/
COMBATTERE IL “DISORDINE INFORMATIVO”: LA COMMISSIONE ORWELLIANA DELL’ASPEN INSTITUTE CONTRO LA LIBERTÁ DI PAROLA
L’Aspen Institute ha pubblicato i risultati della sua tanto annunciata commissione di 16 persone sul disordine informativo su come proteggere il pubblico dalla disinformazione. La commissione sulla disinformazione e la “costruzione della fiducia” è stata in parte guidata da Katie Couric che sta ancora lottando contro la sua stessa ammissione di aver modificato un’intervista per rimuovere le dichiarazioni controverse del defunto giudice Ruth Bader Ginsburg.
Le raccomandazioni di Aspen, tuttavia, sono una piena approvazione dei sistemi di censura. I risultati e le raccomandazioni si trovano in un rapporto di 80 pagine su come combattere la “disinformazione” e la cattiva informazione, che vengono lasciati notevolmente indefiniti ma trattati come una questione di “quando le vediamo le riconosciamo”. Dall’inizio, tuttavia, la Commissione ha respinto l’antico principio della libertà di parola che la soluzione ad un cattivo discorso è un discorso migliore, non la censura. Il problema è che molti oggi si oppongono a permettere a coloro che hanno opinioni opposte di continuare a parlare o agli altri di continuare ad ascoltarli. La Commissione mette rapidamente da parte la norma della libertà di parola:
“La più grande menzogna di tutte, su cui questa crisi prospera, e di cui si nutrono i beneficiari della disinformazione e della cattiva informazione, è che la crisi stessa è incontenibile. Uno dei corollari di questa mitologia è che, per combattere la cattiva informazione, tutto ciò di cui abbiamo bisogno è più informazione buona (e meglio distribuita). In realtà, la semplice elevazione del contenuto veritiero non è quasi sufficiente per cambiare il nostro corso attuale”.
Oltre alla Couric, la Commissione era guidata dal presidente di Color of Change Rashad Robinson e da Chris Krebs, ex direttore dell’Agenzia per la sicurezza informatica e delle infrastrutture. Robinson è stata una scelta degna di nota anche perché è stato uno dei più schietti sostenitori della censura. Mentre alcuni di noi hanno denunciato il sistema di censura in espansione da parte di aziende come Facebook, Robinson minacciava boicottaggi se le aziende non avessero “tenuto a freno” quelli considerati razzisti o diffusori di disinformazione.
La Commissione include anche il principe Harry che si è riferito alle protezioni della libertà di parola sotto il Primo Emendamento come “pazzesche”. Gran parte del rapporto sembra più a livello di aspirazioni e intenti nel raccomandare come “sostenere gli sforzi che si concentrano sull’esposizione di come gli squilibri storici e attuali di potere, accesso ed equità sono prodotti e propagati con la disinformazione e la disinformazione – e sulla promozione di soluzioni guidate dalla comunità per forgiare legami sociali”.
La Commissione sembra anche appoggiare i movimenti contro “l’obiettività” e l’atteggiamento bipartisan nei media: “I commissari hanno anche discusso la necessità di adeguare le norme giornalistiche per evitare false equivalenze tra bugie e fatti empirici nel cercare obiettività dando spazio a tutti, in particolare in aree di salute pubblica, diritti civili, o risultati elettorali.”
L’ex reporter del New York Times Magazine Nikole Hannah-Jones è stata una dei giornalisti che hanno spinto il New York Times a prendere posizione contro la propria attività e a promettere di ridurre le rubriche in futuro. Così facendo, ha inveito contro coloro che si impegnano in quello che lei chiamava un giornalismo “imparziale, da entrambe le parti”. Allo stesso modo, il professore emerito di comunicazione di Stanford, Ted Glasser, ha pubblicamente chiesto la fine dell’obiettività nel giornalismo, in quanto troppo vincolante per i reporter nella ricerca della “giustizia sociale” (sic). In un’intervista allo Stanford Daily, Glasser ha insistito che il giornalismo ha bisogno di “liberarsi da questa nozione di obiettività per sviluppare un senso di giustizia sociale”. Ha rifiutato la nozione che il giornalismo si basa sull’obiettività e ha detto che vede “i giornalisti come attivisti perché il giornalismo al suo meglio – e la storia al suo meglio – è tutta una questione di moralità”. Così, “i giornalisti hanno bisogno di essere palesi e candidi sostenitori della giustizia sociale, ed è difficile farlo sotto i vincoli dell’obiettività”.
Tuttavia, l’aspetto più agghiacciante del rapporto è l’ovvio invito a maggiori forme di censura. Chiede al governo di essere coinvolto nella lotta contro la disinformazione, il flagello della libertà di parola e un invito al controllo statale sulla parola. Ironicamente, non c’è bisogno di un tale coinvolgimento diretto del governo quando le aziende dei social media stanno agendo come l’equivalente di un media statale nella censura dei dibattiti pubblici.
L’importanza delle raccomandazioni è abbondantemente chiara:
Ridurre i danni: Mitigare i danni peggiori della disinformazione e della cattiva informazione, come le minacce alla salute pubblica e alla partecipazione democratica, e la presa di mira delle comunità attraverso discorsi di odio ed estremismo.
1- Approccio federale globale: Stabilire un approccio strategico globale per contrastare la disinformazione e la diffusione della disinformazione, compresa una strategia di risposta nazionale centralizzata, ruoli e responsabilità chiaramente definiti in tutto il ramo esecutivo, e identificare le lacune nelle autorità e nelle loro capacità.
2- Fondo pubblico di ripristino: Creare un’organizzazione indipendente, con il mandato di sviluppare contromisure sistematiche di disinformazione attraverso l’educazione, la ricerca e l’investimento nelle istituzioni locali.
3- Empowerment civico: Investire e innovare nella formazione online e nelle caratteristiche dei prodotti della piattaforma per aumentare la consapevolezza e la resistenza degli utenti alla disinformazione online.
4- Responsabilità dei superdiffusori: Tenere i superdiffusori di misinformation e disinformazione responsabili con politiche chiare, trasparenti e applicate in modo coerente che permettano azioni e sanzioni più rapide e decisive, commisurate al loro impatto – indipendentemente dal luogo, dalle opinioni politiche o dal ruolo nella società.
5- Emendamenti alla sezione 230 del Communications Decency Act del 1996: 1) Ritirare l’immunità della piattaforma per i contenuti che sono promossi attraverso la pubblicità a pagamento e la post-promozione; e 2) Rimuovere l’immunità per quanto riguarda l’implementazione delle caratteristiche del prodotto, i motori di raccomandazione e il design.
I termini mal definiti di “disinformazione” e “cattiva informazione” diventano più minacciosi quando questi termini sono usati come base per un apparato pubblico o settore privato per prendere “azioni e sanzioni decisive” contro coloro che diffondono tali informazioni. La Commissione è più concentrata sul danno che sulla definizione specifica:
“La disinformazione infiamma disuguaglianze di lunga data e mina le esperienze vissute dalle comunità storicamente prese di mira, in particolare le comunità nere/americane. False narrazioni possono seminare divisione, ostacolare iniziative di salute pubblica, minare le elezioni, o consegnare nuovi voti a truffatori e profittatori, e capitalizzano su problemi profondamente radicati nella società americana. La disinformazione versa il liquido per accendini sulle scintille di discordia che esistono in ogni comunità”.
Alla fine, la Commissione respinge la classica difesa della libertà di parola mentre chiede una maggiore regolamentazione del discorso per affrontare “problemi profondamente radicati nella società americana”. Tuttavia, i problemi più radicati nella nostra società includono la negazione della libertà di parola. Infatti, il Primo Emendamento è premesso sulla convinzione che questo diritto è essenziale per proteggere le altre libertà della Costituzione. È il diritto che permette alle persone di sfidare il loro governo e altri su questioni elettorali, questioni di salute pubblica e altre controversie.
Il rapporto Aspen è l’ultima prova di un movimento anti-libertà di parola in costruzione negli Stati Uniti. È un movimento che rifiuta i valori fondamentali della libertà di parola, ma cerca anche di normalizzare la censura. Negli ultimi anni, abbiamo visto una crescente richiesta di censura privata da parte di politici democratici e commentatori liberali. Facoltà ed editori stanno ora sostenendo attivamente versioni moderne dei roghi di libri con liste nere e divieti per coloro che hanno opinioni politiche opposte. Il preside della Columbia Journalism School Steve Coll ha denunciato la “weaponization“ (= trasformazione in arma, lett.) della libertà di parola, che sembra essere l’uso della libertà di parola da parte della destra. Così il preside di una delle più importanti scuole di giornalismo ora sostiene la censura.
I sostenitori della libertà di parola stanno affrontando un cambio generazionale che ora si riflette nelle nostre scuole di legge, dove i principi della libertà di parola erano una volta una pietra di paragone dello stato di diritto. Mentre a milioni di studenti viene insegnato che la libertà di parola è una minaccia e che “la Cina ha ragione” sulla censura, queste figure stanno plasmando un ruolo nuovo e più limitato per la libertà di parola nella società.
Traduzione: Matt Martini
FONTE: https://www.nexusedizioni.it/it/CT/combattere-il-disordine-informativo-la-commissione-orwelliana-dellaspen-institute-contro-la-liberta-di-parola-6117
DEBUNKING: FINI, PRESUPPOSTI, METODI
31/05/2017 RILETTURA
Il debunking non è una cosa a sé, isolata, che si faccia per sport. Va analizzata nel suo contesto, compresa secondo le esigenze che soddisfa, studiata nei suoi metodi.
Il debunking consiste nello smontare e confutare, persuadendo della loro infondatezza e capziosità, teorie e informazioni che vanno contro il pensiero ufficiale o dominante, il mainstream; o semplicemente contro la vulgata della realtà che si vuole preservare. Il debunking è diretto principalmente a demolire e a screditare come bugiarda o paranoica (espressione di delirio di persecuzione) la controinformazione, soprattutto quella tendente a svelare e denunciare “complotti” di gruppi elitari potenti, anche di vertici di istituzioni pubbliche o della grande finanza o industria. Complotti diretti a mettere insieme e impiegare conoscenze, tecnologie, strumenti speciali, spesso segreti, per manipolare il pensiero, le decisioni, i comportamenti della popolazione generale a proprio vantaggio egoistico, economico e/o politico, e a danno della popolazione generale, o perlomeno a limitazione della sua libertà, salute, dignità, possibilità di conoscere la realtà delle cose.
Si constata subito come la suesposta definizione di “complotto” corrisponde semplicemente al marketing e alla propaganda politica, come insegnati e studiati dai testi di marketing e propaganda disponibili nelle librerie, anche se non direttamente insegnati nelle università.
Per capirci, è necessario fare un breve ragionamento economico. Generalmente l’imprenditore, e soprattutto l’imprenditore industriale e tecnologico, ha bisogno, quindi tende, a produrre e ad assicurarsi una forte, duratura e rigida domanda (la domanda dicesi “rigida” quando varia poco al variare, e soprattutto all’aumentare, del prezzo) dei prodotti o servizi che intende produrre. Ne ha bisogno allo scopo di assicurarsi l’ammortamento degli investimenti (passati, in corso, futuri), di poter pianificare nuovi investimenti, e di guadagnare. Maggiore è l’investimento e il tempo di ammortamento, maggiore è questo bisogno. L’artigiano tradizionale (il calzolaio, il fornaio, il fabbro) investe poco, rischia poco, ammortizza presto, ha pochi costi fissi. Quindi può tranquillamente aspettare la clientela, la domanda. Non ha bisogno di produrla. L’industriale che investe molto è invece nella condizione opposta.
L’ideale è conquistare una stabile posizione di monopolio, che consente di massimizzare i ricavi (alzando i prezzi), quindi di accelerare l’ammortamento e di accrescere i profitti. Per questo si dice che ogni imprenditore vorrebbe il libero mercato per gli altri, e il monopolio per sé. È un interesse oggettivo, non una scelta etica.
Per capirci meglio, facciamo un esempio: se vogliamo produrre industrialmente aeroplani militari, da vendere ovviamente a governi, dobbiamo investire (rischiare), diciamo, 5 miliardi di Dollari in spese di ricerca, progettazione, impianto produttivo, personale, macchinario, materiali. Abbiamo necessità, quindi, di contare su una domanda futura di aeroplani militari prodotti da noi. Il nostro investimento si ammortizzerà in non meno di 15 anni. Un concorrente che arrivi sul mercato con aeroplani migliori o meno costosi dei miei, ci farebbe perdere l’investimento. Una evoluzione pacifista nella politica dei governi costituenti la nostra clientela porterebbe a un crollo della domanda dei miei prodotti, e anche tale evento ci farebbe perdere il nostro investimento. Quindi, se non vogliamo perderlo e se vogliamo guadagnare, dobbiamo organizzarci in modo da prevenire il realizzarsi dei due eventi distruttivi per il nostro business: la concorrenza e la pace.
Poiché il nostro budget imprenditoriale, il rischio, è di 5 miliardi di Dollari, possiamo destinare una grossa somma, diciamo 1 miliardo, alla prevenzione della concorrenza e della pacificazione.
Come procederemo, quindi, prima ancora di attuare l’investimento?
Innanzitutto, cercheremo alleanze con imprenditori che condividano i nostri interessi – come produttori di missili e bombe, di sistemi d’arma, di avionica, di navi militari, di carri armati, etc. – per fare una lobby degli armamenti e un pool di risorse finanziarie, in modo che al nostro miliardo di dollari se ne aggiungano altri cento.
Con questa somma potremo condizionare la politica – sovvenzionare i candidati portatori di un forte programma di spesa per gli armamenti; comprare gli eletti; montare scandali contro leader pacifisti; corrompere i politici affinché comperino i nostri prodotti anziché quelli della concorrenza, potenziale o attuale che sia; possiamo condizionare gli information media (giornali, riviste, editori, pubblicisti, scrittori) e gli entertainment media (produttori cinematografici) in modo che diffondano una cultura di allarme e bisogno di protezione; possiamo sovvenzionare università e ricercatori affinché producano studi scientifici e analisi da cui risulti che il mondo va verso un clima di instabilità e guerre; possiamo pagare agenti che organizzino incidenti – quali attentati, rapimenti, assassinii – idonei a suscitare conflitti, paure, tensioni, quindi propensione ad accettare un aumento della spesa per la difesa.
Ovviamente, abbiamo anche interesse a che l’opinione pubblica non si accorga, non sia informata, dei nostri interessi e delle operazioni che compiamo per proteggerli e portarli avanti. Pagheremo, per mantenerli nascosti. Il capitale dell’industria degli armamenti è anche nell’industria chimica, elettronica, automobilistica, alimentare. Quindi condizioniamo i mass media (quando addirittura non li si possiede direttamente), che vivono degli introiti pubblicitari, dicendo
“Se volete che continuiamo a comperare spazi pubblicitari nei vostri giornali o nelle vostre trasmissioni, la vostra linea editoriale deve sostenere i nostri interessi industriali e non deve ospitare idee e informazioni contrarie ad essi, anzi, alla bisogna deve screditarli, smontarli (debunk), pubblicando opportune confutazioni.”
Ho fatto un esempio con l’industria degli armamenti perché è il più completo tra quelli facilmente comprensibili (un esempio con le banche e la moneta sarebbe ancora più completo, ma molto più complesso da spiegare, richiederebbe un libro – v. Euroschiavi).
All’inizio del 2001, dopo il crollo borsistico del 2000, l’economia, la domanda interna soprattutto, ristagnavano. Le precedenti politiche monetarie (ribassi dei tassi, ampliamento del credito) e fiscali (restituzione del surplus finanziario ai contribuenti, incentivi vari) non sono servite. Bisognava stimolare l’economia con la spesa pubblica, in senso keynesiano: la spesa pubblica finisce nelle tasche delle imprese appaltatrici e subappaltatrici, in quelle dei lavoratori, dei fornitori, etc., e tutti possono spendere di più, così generano più domanda, e l’economia riparte. Ma per organizzare ed eseguire una grossa spesa pubblica occorrono anni di progettazioni, autorizzazioni, gare di appalto, mentre la grave situazione richiedeva invece un intervento urgente. Tuttavia si sa anche che c’è un tipo di spesa pubblica che si può fare rapidamente: quella militare, la quale, con l’entrata in guerra a seguito dell’attacco di Pearl Harbor (che ora si sa istigato, previsto e voluto da Washington per creare consenso popolare all’entrata in guerra), già fece uscire l’economia statunitense dalla depressione seguita al crollo del 1929. Però bisognava renderla accettabile, anzi desiderabile, all’opinione pubblica, ai contribuenti. Supponiamo di avere allora organizzato ed eseguito l’attacco alle Torri Gemelle per rilanciare le spese governative per armamenti. La cosa funziona, come Pearl Harbor. La nazione è indignata, inorridita, impaurita. Chiede difesa. La spesa pubblica riparte, ripartono gli investimenti e la produzione, il sistema-paese ritrova slancio. Iniziano campagne militari, con forte consumo di munizioni, bombe, missili, vettovaglie, etc. Il P.I.L., che è calcolato sulla spesa ai costi di mercato, ascende. La disoccupazione cala.
Ecco che, nel bel mezzo di questa ripresa, si fa avanti qualcuno con un insieme di elementi probatori o indiziari che rischia di disturbare la convinzione che abbiamo prodotto nell’opinione pubblica, scoprendo ciò che abbiamo fatto. E magari aggiungendo che il particolato tossico emesso dagli incendi ha causato ad oggi 400.000 malattie mortali, respiratorie e degenerative, nella popolazione di New York. A questo punto, è logico che noi cerchiamo di neutralizzare questa minaccia della controinformazione, anche se è una minaccia modesta, rispetto alla forza e all’estensione dei processi che abbiamo messo in moto nella società, nell’economia, nella mente collettiva.
Una volta che una convinzione forte, a livello morale e biologico, abbia fatto presa sulla mente collettiva e stia producendo un comportamento collettivo, la semplice conoscenza razionale della falsità di quella convinzione ha poco o punto effetto sul comportamento collettivo, soprattutto perché quella convinzione è diventata essa stessa un fattore di integrazione sociale e di creazione di valori.
D’altronde, il grado di efficacia di un input sul comportamento e sul grado di “verità” che il suo contenuto informativo assume nei soggetti, è funzione della forza emotigena di cui è caricato. Inoltre, la carica emotigena dell’input dato dalla apocalittica scena delle Torri Gemelle brucianti e agonizzanti è infinitamente superiore a quella di una semplice informazione o controinformazione. Essa si trasmette ai commenti e ai giudizi che accompagnano quella scena e insieme attiva nella psiche un mode funzionale regressivo, emotivo e non critico, ideale per la propaganda mirata a convincere il popolo che è sotto attacco di un prestabilito nemico e che bisogna distruggerlo.
Non sempre saremo tanto agevolati, nella nostra opera di gestione della mente collettiva, come nel caso delle Torri Gemelle. Raramente la propaganda o il marketing possono avvalersi della forza emotigena di un fatto tanto apocalittico e impressionante. Non di rado la controinformazione sarà molto più efficace e pericolosa per la gestione della mente pubblica. Talvolta, come nel caso del riscaldamento globale e dei gas serra, o delle inesistenti armi di distruzione di massa dell’Iraq, o degli inesistenti rapporti tra Saddam Hussein e Al Quaeda, si deve fronteggiare una controinformazione che a sua volta si avvale di un’immagine molto positiva, etica, ecologica, pacifista, e che si diffonde molto più facilmente che la controinformazione sull’11 Settembre. Altre volte la controinformazione non riesce a raggiungere numeri preoccupanti di persone, pur disponendo di efficacissime prove filmate della falsità delle tesi della propaganda, come sta avvenendo con la o.n.g. Etleboro, che sul suo sito offre prove schiaccianti della falsità delle accuse e dei documentari sulle pretese stragi e atrocità dei Serbi ai danni di musulmani di Bosnia ed Erzegovina.
Tornando a noi, dobbiamo ora reagire alla controinformazione sull’11 Settembre. Per farlo, ci occuperemo poco delle minoranze colte e critiche, che leggono i libri. Inibiremo essenzialmente la divulgazione, anche nella stampa medica e in internet, dei dati sui 400.000 malati. Ci preoccuperemo soprattutto della popolazione generale, che non è raggiunta dai libri, ma dalla televisione e dai quotidiani più diffusi. Quindi innanzitutto, cercheremo di bloccare la divulgazione della controinformazione su tv e quotidiani, usando le ‘leve’ già descritte.
Se però la controinformazione riesce in qualche modo a diffondersi a una parte rilevante della popolazione, allora sarà necessario reagire con un adeguato debunking, ovviamente orientato soprattutto alla gestione della popolazione generale. Vedremo presto come.
Orbene, tutto questo altro non è che business. Strategia imprenditoriale e finanziaria. Che si continua nella strategia politica. E in cui sfruttiamo a nostro beneficio il nostro vantaggio informativo, tecnologico, finanziario, politico, ma soprattutto di consapevolezza dei processi mentali, di razionalità dei processi valutativi e decisionali, rispetto alla popolazione generale. Il business, col passaggio dall’artigianato e dal commercio locale all’industria, alla produzione in serie, ai grandi investimenti di lungo ammortamento, ha iniziato ad aver bisogno, e bisogno assoluto, di produrre la domanda, di manipolare la mente pubblica, la politica, la democrazia. Senza questa manipolazione, non vi sarebbero la società dei consumi, tutta la ricchezza e abbondanza di cui disponiamo, tutta la tecnologia che ci riempie le case, che si basano sulla ricerca e sulla produzione industriale in serie, in grande scala. E tutte le elezioni a cui siamo chiamati. Ciò è stato capito, analizzato, enunciato e tradotto in strategie da oltre cent’anni. Già Edward Bernays, nel suo celeberrimo ma poco pubblicato saggio del 1929, Propaganda, lo spiega molto chiaramente, come prassi già in atto e consolidata. Il grosso della psicologia, della ricerca e degli investimenti e dell’attività in campo psicologico, ha precisamente questo scopo. La psicologia come popolarmente intesa – la psicoterapia, la psicoanalisi – e quella insegnata nelle università, è solo marginale, quantitativamente e qualitativamente.
A questo punto abbiamo contestualizzato e definito il debunking: esso è una componente indispensabile nello strumentario della gestione della mente pubblica e dei comportamenti di massa nella società ricca, industrializzata e democratica.
Resta da vedere come si attua il debunking.
Premettiamo che la formazione dell’opinione pubblica, della percezione, dell’interpretazione, dell’accettazione della realtà e dei valori da parte del pubblico, è prodotta largamente dalla televisione e da pochi altri information media, e in misura trascurabile dalla conoscenza personale o ricevuta da altre persone. Il telespettatore è solo davanti allo schermo, il lettore è solo davanti al tabloid. Il flusso di informazioni è unidirezionale, top-down, senza scambio: dallo schermo e dalla pagina del mass media al cervello del singolo. Il messaggio è trasmesso alla massa, ma raggiunge ciascuno singolarmente e unidirezionalmente. Ciò è stato definito da Noam Chomsky “individualismo di massa”. Individualismo, perché siamo soli davanti allo schermo o al tabloid e riceviamo molta più informazione da essi che dagli scambi sociali. Di massa, perché i mass media trasmettono, appunto, alla massa, in modo uniformato e uniformante informazioni prese da fonti governative nazionali o dalle poche e oligopolistiche agenzie di informazioni dominanti (come Reuters o Ansa). Pochi direttori osano, su temi delicati, prendere notizie da altre fonti.
Da questa situazione discende che, se la maggioranza dei cittadini ha una convinzione o una volontà contrarie a quelle sostenute dalla politica e dai mass media (ad esempio, ritiene che l’occupazione dell’Iraq sia illegittima, immorale, basata su accuse false e finalizzata allo sfruttamento del petrolio di quel paese), purtuttavia ciascuno dei cittadini che compongono quella maggioranza riceverà, dai mass media, una realtà rappresentata, in cui tutti sanno, e nessuno dubita, che l’Iraq ha armi di distruzione di massa, che collabora con Al Quaeda; tutti sono doverosamente patrioti, cantano e pregano insieme, solidali col governo e coi “nostri ragazzi che combattono laggiù per la nostra sicurezza e la democrazia”. Quindi, amenoché possa accedere ai sondaggi di opinione e attivare un mode cognitivo razionale e non emotivamente condizionato, si sentirà come un cane in chiesa, isolato, colpevole, diverso. Non avrà la cognizione di essere maggioranza. La maggioranza contraria all’occupazione non saprà… di esistere.
Ma anche questa struttura della formazione dell’opinione pubblica non è, evidentemente, sufficiente e completa.
Occorre attivare ulteriori misure, come il debunking.
Per il debunking, gli strumenti abbondano. Si tratta, sostanzialmente, di una selezione mirata dei medesimi strumenti della sofistica, della retorica, della pubblicità, della propaganda, che si trovano descritti nei trattati di queste discipline. Sofisti come Gorgia erano lautamente pagati proprio per tali prestazioni. Le Institutiones Oratoriae di Quintiliano sono un classico di tecnica dialettica e persuasiva, ed erano un libro di testo nell’antichità romana e medievale. Finché la scuola è rimasta privilegio delle classi governanti, i rampolli di tali classi sono stati addestrati a persuadere di una tesi e poi del suo contrario, quindi sia a suggestionare gli altri che a resistere alla manipolazione e all’indottrinamento. Quando la scuola è divenuta popolare, naturalmente è stata privata di queste materie di insegnamento, perché il popolo deve restare manipolabile. Le relative tecniche si insegnano ancora, ma altrove e a pagamento.
Vediamone alcune tra le più pertinenti al debunking.
Prima di tutto, la controinformazione sostanzialmente evidenzia i veri scopi (profitto e potere) che stanno dietro a scelte politiche ed economiche, smentendo la giustificazione ufficiale, in chiave etica, di queste medesime scelte. Quindi, per un efficace debunking, preliminarmente e preventivamente occorre far sì che la gente non pensi agli atti politici, legislativi, istituzionali e, se possibili, industriali, come ad atti aventi fini economici egoistici (non dichiarati). La gente non deve pensare che siano moventi economici a guidare le scelte dei governanti e delle grandi corporations. Non deve imparare a interpretarle in quella chiave. Deve essere educata e indotta e sempre richiamata a interpretarli in chiave etica, affettiva, ideologica, religiosa (qualsiasi cosa tranne che il business) – come se fossero ispirati da sentimenti di solidarietà, di doverosità, di onorevolezza, di amicizia, di dignità, di devozione. Le figure di potere agiscono per il bene di coloro su cui hanno potere, secondo il modello genitori-figli. È ciò che dà loro autorevolezza e legittimazione. Nel farlo, rispettano e fanno rispettare le regole. Esse sono genuinamente interessate al rispetto delle regole e desiderano genuinamente punire chi le viola. Inoltre, i loro atti mirano ad aumentare l’eguaglianza sociale, non mai ad aumentare le diseguaglianze (i vantaggi in termini di potere e di strumenti tecnologici) in favore dei governanti stessi. Soprattutto, non mirano mai a nascondere verità o informazioni né a mentire su di esse alla nazione. Chi pensasse diversamente, è come se pensasse tali cose dei propri amati genitori, è come se pensasse che il suo babbo volesse derubarlo e che la sua mamma si fosse sposata e stesse con lui solo per denaro; dovrebbe perciostesso vergognarsi e tacere, come farebbe uno che effettivamente avesse tali genitori.
In effetti, spiegare e spiegarsi una policy in termini eroici o etici o ideologici è molto più semplice, discorsivo, bello, emotivamente gratificante, che analizzarla in freddi termini economici, ricercando dati matematici, partecipazioni incrociate, informazioni scientifiche. Anche perché riportabile alle esperienze relazionali umane, familiari, della vita personale. E perché ci consente di “proiettare” meglio le nostre emozioni e motivazioni sugli atti e sulla vita di personaggi che pensano, decidono e agiscono in un contesto che, in fondo, la popolazione generale immagina senza poter conoscere, e che cerca di “tirar giù” nei propri schemi interpretativi.
Questo esempio mostra diversi strumenti all’opera:
- educazione al pensiero acritico e depistaggio dall’indagine di realtà;
- seduzione alla chiave interpretativa più facile, gratificante, espressiva, umanizzante, da applicarsi a processi molto più complessi e impersonali;
- evocazione di conflitti tra il contenuto demistificante della controinformazione e costrutti consolidati, affettivi, rassicuranti, integranti (con sé, con la società, con la famiglia), corroborati dall’agito abituale e collettivo, come quelli pertinenti alla famiglia, ai genitori, alla patria, alla lealtà;
- colpevolizzazione del prestar fede a chi tocca e “sporca” la consacrazione delle figure eroicizzate, santificate: genitori, presidente, pompieri (impegnatisi generosamente ma poco utilmente nelle Torri Gemelle, poi quasi tutti morti), dei militari morti come eroi in Afghanistan e Iraq, etc.;
- suggestione che, prestando fede alla versione divergente, ci si renda diversi e socialmente esposti ed evitati come traditori degli interessi nazionali o addirittura alleati de facto del nemico.
Questi strumenti, che già operano in via preventiva, possono essere facilmente convertiti e usati per il debunking, per far sentire il messaggio controinformante come
a) inutilmente complesso, cervellotico, astruso, arido;
b) delirante, del tipo “delirio di persecuzione” (che peraltro non può escludersi come possibilità), quindi malato, stupido, perdente;
c) sporco, infame, proditorio, antisociale, contagioso, isolante.
Forniremo quindi alla popolazione generale una versione che, anziché suscitare i conflitti di cui sopra, si allei e si rinforzi mutuamente con tutte le convinzioni e i valori consolidati, e che inoltre appaghi il bisogno incomprimibile dell’uomo comune di darsi sempre una spiegazione dei fatti, anche quando non è in grado di capirli e spiegarli. L’uomo comune, non specificamente educato e formato, fa molta fatica a dire “so di non sapere”, “sospendo il giudizio”, “mancano dati”, “forse le cose stanno in questo modo, forse in un altro completamente diverso”. L’uomo comune individua subito il vero e il falso, il giusto e il torto, l’amico e il nemico. Un’informazione culturalmente onesta, al contrario, frequentemente dichiara i propri limiti, i propri dubbi, i propri “non si sa”, la debolezza del proprio pensiero, la provvisorietà delle proprie verità. La mente pubblica vuole invece certezze e definitività. Respinge la sospensione del giudizio e la relatività del giudizio. Più i temi sono importanti ed emotigeni, più preferisce ed esige un’informazione culturalmente disonesta ed è attratta da chi offre certezze con linguaggio categorico e connotazioni morali.
Il debunker, come in generale l’esperto di propaganda e marketing, a differenza dell’uomo comune, è professionalmente al corrente di questa e di molte altre caratteristiche, di molti punti deboli, di molte fallacie tendenziali della mente umana; e adopera consapevolmente queste sue conoscenze per i fini dei suoi committenti: sa dove mettere le dita.
L’uomo si crede, perché così gli si insegna a pensarsi, di essere consapevole dei propri processi e fattori di interpretazione della realtà, di scelta dei valori, di presa delle decisioni. Non è così. Quei processi e quei fattori sono perlopiù inconsci. La manipolazione mentale, di cui il debunking è una forma, e la pubblicità commerciale un’altra, interviene su di essi e lo fa a livello inconscio per produrre i comportamenti desiderati, di adesione a valori, verità ufficiali, etc. L’uomo non sa a causa di che cosa comperi un prodotto di una certa marca o con un certo design, piuttosto che un altro. O perché voti per un certo candidato piuttosto che per un altro. Ma l’esperto di propaganda lo sa. (v. Clotaire Rapaille, Il codice nascosto, Nuovi Mondi Media, 2006): egli stesso ha congegnato quel fattore causale. Ha elaborato il design del PT Cruiser, ad esempio, perché esso corrisponde al codice culturale inconscio degli americani per “automobile”, e la domanda di PT Cruisers è subito balzata oltre la capacità produttiva della fabbrica.
Il debunker sa che tutti hanno emozioni e pensieri, alcuni pensano, pochi ragionano, pochissimi discernono quando stanno pensando razionalmente da quando stanno fantasticando o associando o vivendo stati emotivi; ancora meno ne tengono conto, nel senso di tener presente, agli effetti dell’aderenza alla realtà, che stanno vivendo un’idea come bella, buona, reale, rispondente ai loro bisogni (ad es., l’idea di un amore, o di un messaggio religioso), ma che tutto ciò non costituisce alcuna dimostrazione che quell’idea corrisponda alla realtà oggettiva, e che non è idoneo a supplire alla mancanza della prova oggettiva della verità di quell’idea. Sull’uomo comune quei vissuti soggettivi hanno l’efficacia di prova oggettiva; mentre l’idea di che cosa sia il dimostrare, e quindi il non dimostrare, non è realmente presente alla sua coscienza e attenzione.
Inoltre, quasi nessuno è conscio di come il suo stato di umore ed emotivo modifica la sua penetrabilità alla manipolazione, alla suggestione della propaganda. I venditori, i predicatori televisivi e i gestori dei culti organizzati che fanno proselitismo ne sono molto consci e ne fanno un uso massiccio. Sanno che, se si riesce a indurre un’elevazione del tono dell’umore, a creare un sentimento di giocosità, di rilassatezza, o di aspettative di successo, o di grazie divine, etc., sarà più facile indurre la persona comune a comperare, a firmare un contratto, ad accettare di condividere una fede e una pratica religiosa. Anche la stanchezza, il tedio, la paura attenuano le capacità critiche e le resistenze delle persone al condizionamento.
Insomma, il debunker sa che ciò che fa sì che una tesi faccia presa e sia vissuta come reale non è la sua dimostrabilità, ma la sua forza gratificatrice. La completezza del quadro probatorio, la rigorosità delle deduzioni logiche, la correttezza del loro concatenamento, le basi scientifiche e documentali sono secondarie. Anzi, spingere le persone ad eseguire un consapevole e critico esame di queste cose, comprendente il vaglio delle ipotesi alternative e degli indizi contrari (esame che invece costituisce il metodo professionale dell’operatore scientifico e del giudice) può essere controproducente, perché nella gente comune suscita noia, stanchezza o desta tendenze critiche latenti.
Perciò il debunker attacca la controinformazione con messaggi semplici, discorsivi, prevalentemente diretti al livello emotivo, con “ganci” diretti all’inconscio, piuttosto che con la logica e le dimostrazioni. Componenti, “spezzoni” di logica e di scientificità vengono inseriti, ma non come struttura portante, bensì per evocare una sensazione di razionalità scientifica del messaggio stesso, per dare un’impressione, una vernice di autorevolezza e oggettività – in funzione, ossia, di testimonials (come, nella réclame per un dentifricio, un riferimento ai dentisti del tipo “il più raccomandato dai dentisti”). Ovviamente, anche veri e propri testimonials possono essere impiegati.
Per contro, spesso questi messaggi mirano a screditare la fonte e l’autore della controinformazione sul piano morale o con insinuazioni di immoralità ideologica o di affiliazioni “appestanti” coi terroristi o coi nazisti o coi fascisti o coi comunisti – si pensi al debunking del revisionismo o del negazionismo.
Soprattutto, forse, il debunker tiene presente che, a sua volta, l’adesione popolare alla controinformazione è essa pure dovuta non tanto alla forza probatoria e logica degli argomenti dei controinformatori, ma a fattori emotivi: al gusto per la dietrologia, per il pettegolezzo, per lo smascheramento dei complotti. Il cittadino si sente, complessivamente, ingannato, disinformato, manipolato, sfruttato. Ma non ha gli strumenti per capire come, per uscire da questa situazione. Quindi è risentito, frustrato. Perciò è recettivo, bramoso di rivelazioni, di scandali, di controinformazione, di dietrologia. Di rivalsa. Offriamogli una bella teoria del complotto, più o meno dimostrata, più o meno vera, più o meno fantascientifica o magica, e avremo buone chances di far presa su questo o quel sottogruppo sociale.
Però questo meccanismo può anche essere rivolto dal debunker contro la controinformazione. Il medesimo gusto della controinformazione, dello smascheramento, dello sputtanamento, può essere provato anche a spese del controinformatore, quando si scopre che anch’egli è un mentitore, un manipolatore. Anche questa scoperta è gratificante. Ancor più se essa lo riconcilia col sistema, coi valori e le verità ufficiali, del mainstream, riportandolo “a casa”, “in famiglia”, “in patria”, dopo un’escursione proibita.
Smascherare lo smascheratore, sputtanare lo sputtanatore, è una dinamica che abbiamo visto all’opera anche durante Mani Pulite, una campagna di smascheramento della sporcizia e dell’illegalità dei politici, dalla quale però nacque una contro-campagna: Toghe Sporche. Alcuni magistrati-simbolo di Mani Pulite, e soprattutto il dr Antonio di Pietro, furono a loro volta indagati e inquisiti per gravi ipotesi di reato. Le loro vite, i loro vizi privati, furono esposti dai mass media e avidamente divorati dall’opinione pubblica. Anche se i magistrati inquisiti furono, più o meno credibilmente, assolti o prosciolti, l’indice di fiducia popolare nei magistrati crollò al 20% circa – un livello inferiore a quello che mediamente gli avvocati giudicano corrispondente alla realtà.
L’approdo estremo del debunking, che pare sia raggiunto in Italia, è quello di portare lo smascheramento degli smascheratori alle estreme conseguenze, ossia di portare l’opinione pubblica alla conclusione che tutto è marcio, tutti mentono, tutti ingannano, tutti fregano, tutti sono disonesti; che la verità non si potrà mai sapere; e che quindi è moralmente giustificato fare l’unica cosa razionale in un cosiffatto contesto, ossia arrangiarsi, infischiarsi di tutto e di tutti, fregare gli altri e la società ogniqualvolta sia possibile. Questa idea, soprattutto in Italia dove vi è una cultura nazionale del chiagni (piangi) e fotti, specificamente predisponente, sia perché legittima la frode, l’immoralità, il menefreghismo; sia perché razionalizza la pigrizia mentale di chi non vuole impegnarsi nell’indagine della realtà e di sé stesso; sia e ancor più perché discolpa l’insuccesso: grazie ad essa, chi nella vita si sente fallito, trova una spiegazione attraverso una decolpevolizzazione propria e una colpevolizzazione degli altri. Forse anche un riscatto del proprio valore perduto: nel vittimismo.
L’Autore
Collaboratore di diverse riviste, autore di numerosi articoli (reperibili nel suo blog www.marcodellaluna.info) e di libri, tra cui Euroschiavi, Neuroschiavi (pubblicato anche in Francia), Cimiteuro, Oligarchia per popoli superflui, nonché, pubblicati da Nexus, Polli da spennare e La Moneta Copernicana. Dottore in legge e in psicologia, avvocato libero professionista. Studia gli strumenti di dominazione, manipolazione e sfruttamento sociale, anche economico-finanziari e giuridici. Per primo, nel 2005, ha messo in luce la falsità strutturale dei bilanci delle banche, che non registrano i ricavi da creazione di mezzi monetari – una omissione intenzionale, che è il motore delle crisi bancarie e anche della finanza pubblica, e colla quale il cartello internazionale dei grandi banchieri nasconde la fonte del suo potere politico su governi e parlamenti.
Questo articolo è stato pubblicato originariamente su NEXUS New Times n.69, Agosto – Settembre 2007, nell’inserto Informazione [Per info sull’arretrato della rivista, ed eventuale acquisto, CLICCA QUI]
FONTE: https://www.nexusedizioni.it/it/CT/debunking-fini-presupposti-metodi-3310
“Putin usa armi chimiche” – fra imposture e menzogne, l’Occidente prepara i media al False Flag.
Una delle cose più impressionanti dell’atto di accusa vibrato dal segretario di Stato A. Blinken contro Putin è stato il lancio di accuse già dimostrate false: cita “l’ospedale pediatrico di Mariupol” – dove è comprovato che non c’erano più piccoli degenti, ma mezzi militari Azov e “aver colpito il teatro di Mariupol”, dove tutti i media speravano in una strage dei 400 civili che vi si trovavano, e che invece erano tutti salvi e sono usciti liberati dai russi. Accusa di “massacri” un esercito che palesemente fa ogni sforzo per limitare le vittime civili, come ammesso dall’ONU:
Perché possiate apprezzarne il tono, riporto pressoché integrale dela dichiarazione ufficiale del Segretario di Stato Blinken, mentre inizia il Consiglio Europeo di oggi:
“Da quando ha lanciato la sua guerra non provocata e ingiusta, il presidente russo Vladimir Putin ha scatenato una violenza implacabile che ha causato morte e distruzione in tutta l’Ucraina. Abbiamo visto numerosi rapporti credibili di attacchi indiscriminati e attacchi che hanno deliberatamente preso di mira i civili, così come altre atrocità. Le forze russe hanno distrutto condomini, scuole, ospedali, infrastrutture critiche, veicoli civili, centri commerciali e ambulanze, lasciando migliaia di civili innocenti uccisi o feriti. Molti dei siti che le forze russe hanno colpito erano chiaramente identificabili come in uso ai civili. Questo include l’ospedale di maternità di Mariupol, come l’Ufficio dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani ha espressamente notato in un rapporto dell’11 marzo. Include anche un attacco che ha colpito un teatro di Mariupol, chiaramente segnato con la parola “дети” – russo per “bambini” – in lettere enormi visibili dal cielo. Le forze di Putin hanno usato queste stesse tattiche a Grozny, in Cecenia, e ad Aleppo, in Siria, dove hanno intensificato il loro bombardamento delle città per spezzare la volontà del popolo. Il loro tentativo di farlo in Ucraina ha nuovamente scioccato il mondo e, come il presidente Zelenskyy ha sobriamente attestato, “ha bagnato il popolo dell’Ucraina nel sangue e nelle lacrime”. Ogni giorno che le forze russe continuano i loro attacchi brutali, il numero di civili innocenti uccisi e feriti, tra cui donne e bambini, sale. Al 22 marzo, i funzionari di Mariupol assediata hanno detto che più di 2.400 civili sono stati uccisi solo in quella città. Non includendo la devastazione di Mariupol, le Nazioni Unite hanno confermato ufficialmente più di 2.500 vittime civili, tra morti e feriti, e sottolineano che il bilancio reale è probabilmente più alto.
“La settimana scorsa, ho fatto eco alla dichiarazione del presidente Biden, basata sugli innumerevoli resoconti e immagini di distruzione e sofferenza che tutti abbiamo visto, che le forze di Putin in Ucraina hanno commesso crimini di guerra. Ho notato allora che l’attacco deliberato ai civili è un crimine di guerra. Ho sottolineato che il Dipartimento di Stato e altri esperti del governo degli Stati Uniti stavano documentando e valutando potenziali crimini di guerra in Ucraina.
“Oggi, posso annunciare che, sulla base delle informazioni attualmente disponibili, il governo degli Stati Uniti valuta che i membri delle forze della Russia hanno commesso crimini di guerra in Ucraina”.
Non c’è in queste frasi alcuna volontà di negoziato.
E’ un circostanziato testo d’accusa processuale penale che
- prelude probabilmente a un false flag con armi chimiche di cui accusare i russi;
- giustificare di conseguenza l’intervento diretto della NATO;
- arrestare Putin e farlo condannare da un tribunale dei vincitori tipo Norimberga, possibilmente a morte.
Un altro indizio che proprio questo è il progetto è l’intervista che Il Corriere ha fatto a Manuel Valls , di cui il giornale si premura di ricordare che è “ ex premier della Francia, al governo quando il siriano Bashar al-Assad con l’appoggio di Vladimir Putin usava le armi chimiche sui suoi connazionali” (accusa falsa che serviva a Obama a giustificare l’entrata di guerra americana in Siria)
FINANZA BANCHE ASSICURAZIONI
NOTIZIE DAI SOCIAL WEB
PANORAMA INTERNAZIONALE
La questione ucraina all’origine della geopolitica
Geopolitica: la guerra continua tra terra e mare
Eurasia, teatro di scontri geopolitici
Lo smembramento della Grande Russia
Ucraina e cordone sanitario
I bolscevichi creano e smantellano simultaneamente l’Ucraina
L’Ucraina nell’URSS dopo la Grande Guerra Patriottica
Atlantismo e mondo bipolare
Il problema di Rimland
L’attacco all’atlantismo
La creazione dell’anti-Russia
La Russia non potrà mai riprendersi senza l’Ucraina.
– farne un avamposto dell’atlantismo e
– imporre al suo popolo il nazionalismo russofobo come ideologia principale.
La nascita della geopolitica in Russia: l’Eurasia come soggetto
Putin cambia il vettore geopolitico
Il nazionalismo ucraino come strumento geopolitico dell’atlantismo
La resa dei conti finale
POLITICA
ROMPIAMO LE CATENE!!!
Augusto Sinagra – 8 04 2022
La servile assicurazione data il 14 settembre 1943 da Pietro Badoglio al Gen. USA Donovan è stata pienamente adempiuta: l’Italia è solo una colonia americana, anzi un territorio occupato. Lo attestano i 13.000 militari e le circa 120 basi USA (forse di più). Tutti immuni dalla giurisdizione italiana. Qualcuno ricorda il Cermis?!
L’Italia è priva di indipendenza e di dignità. Chi ha tentato di difendere gli interessi nazionali è stato ucciso o è stato eliminato. Penso a Pella, Mattei, Moro, Craxi, e tanti altri ancora. Eufemisticamente si dice che siamo uno “Stato satellite”. La realtà è che siamo diventati la discarica degli americani e ospitiamo ordigni nucleari USA, esponendoci così a rischio di totale distruzione. I “politici” sono marionette nelle mani dei pupari d’oltre Oceano. Meglio se si tratta di comici. Penso a Grillo o a Zelensky, ma anche Draghi fa ridere.
La situazione economica, sociale, della continua invasione di clandestini (favorita dal governo) rende chiare le finalità criminali. Gli USA continuano nella loro delinquenziale “politica” predatoria. Hanno provocato la guerra in Ucraina e non vogliono che finisca. L’Armata russa scopre efferati eccidi commessi fin dal 2014, laboratori finanziati dagli USA per la produzione di armi chimiche di distruzione di massa, immensi depositi di armi straniere, “esercitazioni” NATO che hanno toccato il territorio ucraino, la presenza di militari stranieri (USA, francesi, inglesi, ecc.) impegnati nel conflitto, i governi delle false democrazie occidentali forniscono gli ucraini di armamento pesante e distruttivo in esecuzione degli ordini americani, ma niente basta!!!
Il responsabile di tutto deve essere solo Vladimir Putin ma la guerra è contro la Russia che, tra l’altro, “deve” fornirci il gas e poi subire il sequestro dei relativi pagamenti da parte delle “democrazie” occidentali. Dunque, si pretende il gas e la Russia lo deve fornire gratis!!!!
Vogliamo finalmente capire – e agire – che l’unica nostra salvezza è il Presidente Vladimir Putin, la “terza Roma” e Santa Madre Russia che sola ci può affrancare dal servaggio verso il nostro vero nemico d’ oltre Oceano, d’ oltre Manica e d’ oltralpe (dall’ Ovest all’ Est)?!
FONTE: https://t.me/radiofogna/365
STORIA
DISCORSO DI ADDIO DI DWIGHT EISENHOWER (1961)
Tre giorni prima dell’inaugurazione di John F. Kennedy, presidente uscente degli Stati Uniti Dwight Eisenhower ha pronunciato il suo discorso di addio al popolo americano. Parlando in televisione, Eisenhower ha messo in guardia contro i pericoli di un crescente “complesso militare-industriale” mentre esprimeva speranze per la pace e il disarmo:
“Buonasera, miei concittadini americani …
Tra tre giorni, dopo mezzo secolo al servizio del nostro Paese, stabilirò le responsabilità dell’ufficio poiché, nella cerimonia tradizionale e solenne, l’autorità della Presidenza è conferita al mio successore. Questa sera, vengo da voi con un messaggio di commiato e addio, e per condividere alcuni pensieri finali con voi, miei concittadini …
Siamo ormai dieci anni oltre la metà di un secolo che ha visto quattro grandi guerre tra grandi nazioni. Tre di questi hanno coinvolto il nostro paese. Nonostante questi olocausti, l’America è oggi la nazione più forte, influente e più produttiva del mondo. Comprensibilmente orgogliosi di questa preminenza, ci rendiamo ancora conto che la leadership e il prestigio dell’America dipendono non solo dal nostro progresso materiale senza pari, dalla ricchezza e dalla forza militare, ma da come usiamo il nostro potere nell’interesse della pace mondiale e del miglioramento umano.
Durante l’avventura dell’America nel libero governo, i nostri scopi fondamentali sono stati di mantenere la pace, promuovere il progresso nella realizzazione umana e accrescere la libertà, la dignità e l’integrità tra i popoli e tra le nazioni. Impegnarsi per meno sarebbe indegno di un popolo libero e religioso. Qualsiasi fallimento riconducibile all’arroganza, o alla nostra mancanza di comprensione, o alla disponibilità al sacrificio ci infliggerebbe un grave dolore, sia in patria che all’estero …
Minacce, nuove in natura o in grado, sorgono costantemente. Di questi, ne cito solo due.
Un elemento vitale per mantenere la pace è il nostro stabilimento militare. Le nostre braccia devono essere potenti, pronte per un’azione istantanea, in modo che nessun potenziale aggressore possa essere tentato di rischiare la propria distruzione. La nostra organizzazione militare oggi ha poche relazioni con quelle conosciute da nessuno dei miei predecessori in tempo di pace, o, in verità, dai combattenti della Seconda Guerra Mondiale o della Corea.
Fino all’ultimo dei nostri conflitti mondiali, gli Stati Uniti non avevano industria degli armamenti. I fabbricanti americani di vomeri potevano, con il tempo e quanto basta, anche fabbricare spade. Ma non possiamo più rischiare l’improvvisazione di emergenza della difesa nazionale. Siamo stati costretti a creare un’industria di armamenti permanente di vaste proporzioni. Inoltre, tre milioni e mezzo di uomini e donne sono direttamente coinvolti nell’establishment della difesa. Ogni anno spendiamo solo per la sicurezza militare più del reddito netto di tutte le società degli Stati Uniti.
Ora questa unione di un immenso stabilimento militare e di una grande industria di armi è nuova nell’esperienza americana. L’influenza totale – economica, politica, persino spirituale – si fa sentire in ogni città, ogni Statehouse, ogni ufficio del governo federale. Riconosciamo la necessità imperativa di questo sviluppo. Tuttavia, non dobbiamo mancare di comprendere le sue gravi implicazioni. Sono coinvolti il nostro lavoro, le nostre risorse e il nostro sostentamento. Così è la struttura stessa della nostra società.
Nei consigli di governo, dobbiamo guardarci dall’acquisizione di un’influenza ingiustificata, cercata o meno, dal complesso militare-industriale.
Il potenziale per il disastroso aumento del potere fuori luogo esiste e persisterà. Non dobbiamo mai lasciare che il peso di questa combinazione metta in pericolo le nostre libertà o i processi democratici. Non dovremmo dare nulla per scontato. Solo una cittadinanza attenta e ben informata può obbligare a unire adeguatamente l’enorme apparato di difesa industriale e militare con i nostri metodi e obiettivi pacifici, in modo che la sicurezza e la libertà possano prosperare insieme …
Il disarmo, con reciproco onore e fiducia, è un imperativo costante. Insieme dobbiamo imparare a comporre le differenze, non con le armi, ma con intelletto e scopo decente. Poiché questa esigenza è così acuta ed evidente, confesso che ho stabilito le mie responsabilità ufficiali in questo campo con un preciso senso di delusione. Come uno che ha assistito all’orrore e alla persistente tristezza della guerra, come uno che sa che un’altra guerra potrebbe distruggere completamente questa civiltà che è stata costruita così lentamente e dolorosamente per migliaia di anni, vorrei poter dire stasera che una pace duratura è intuizione.
Fortunatamente, posso dire che la guerra è stata evitata. Sono stati compiuti progressi costanti verso il nostro obiettivo finale. Ma resta ancora molto da fare. In quanto privato cittadino, non smetterò mai di fare quel poco che posso per aiutare il mondo ad avanzare su questa strada …
Ora, venerdì a mezzogiorno, devo diventare un privato cittadino. Sono orgoglioso di farlo. Non vedo l’ora di farlo.
Grazie e buona notte.”
FONTE: https://it.alphahistory.com/guerra-fredda/dwight-eisenhowers-discorso-d%27addio-1961/
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