RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI
8 GENNAIO 2021
A cura di Manlio Lo Presti
Esergo
Oggi la nuova élite […] si sta imponendo con l’astuzia, la manipolazione e il suo denaro, divenuto infinito, e pretende di rieducare i popoli che sono stati preventivamente trasformati in consumatori compulsivi e instupiditi.
Il problema di questa classe nuova e feroce è che ora deve rieducare i consumatori compulsivi alla carenza, alla mancanza, al razionamento.
GIULIETTO CHIESA, Invece della catastrofe, Piemme, 2013, pag. 250
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SOMMARIO
CAPITOL HILL: IL GIORNO CHE SI FINSE L’ASSALTO ALLA DEMOCRAZIA
CORONA, IL RITUALE OCCULTO DI INIZIAZIONE
Quella teoria complottista sulle elezioni americane che chiama in causa l’Italia
È una farsa! Guardate come si stanno “preparando” ad affrontare la terza ondata…
Italia divisa. Il saggio di Caligiuri spiega perché (con tante sorprese)
Lo sceicco Rouhani getta lo scompiglio in Medio Oriente
LA LUNGA GUERRA DI PUTIN CONTRO LA SCIENZA AMERICANA
PENTIMENTO E PERDONO, “LA FRAGILITÀ DEL MALE” DI DIETRICH BONHOEFFER
I CAPELLI BIONDI NELLA GRECIA ANTICA
La manipolazione dei media occidentali: supportano le proteste in Bielorussia, condannano quelle negli USA
La sentenza sull’estradizione di Assange è un sollievo, ma non è giustizia
Mario Draghi Presenta il “Gruppo dei Trenta
Mentre il mondo gridava al golpe, la Fed minacciava la fine del QE. Botto calcolato?
La sinistra che trattiene. Parte prima: il capitalismo come religione
La sinistra che trattiene. Parte seconda: fine del capitalismo e fine del mondo
Le banche creano denaro dal nulla
Palamara a cena con Pignatone, ma la Finanza decise di spegnere il trojan…
In Perfetta Neolingua
Fana Vs Fornero: Lavoro vero o nuova schiavitù?
L’ASSALTO AL CAMPIDOGLIO, UNA STRATEGIA PER SCREDITARE TRUMP
LA ZAD E LA GUERRA CIVILE MONDIALE
A cosa serve l’epiteto «negazionista» e quale realtà contribuisce a nascondere
LE BOLLE PAPALI CHE HANNO CAMBIATO IL MONDO: SIAMO SCHIAVI DAL 1302 D. C. LO SAPEVATE?
IN EVIDENZA
CAPITOL HILL: IL GIORNO CHE SI FINSE L’ASSALTO ALLA DEMOCRAZIA
La vicenda delle presidenziali negli Stati Uniti è finita come doveva finire: per l’ultimo atto di Donald Trump da capo della prima potenza mondiale, uno scenario wagneriano da Crepuscolo degli dei. L’assalto a Capitol Hill, simbolo della democrazia occidentale, è stato un errore e, insieme, una trappola in cui i rozzi sostenitori di “The Donald” si sono cacciati trascinando con loro la reputazione dello stesso Trump. A dirla tutta, per le modalità con le quali si è svolta l’incursione nell’edificio del Congresso c’è da sospettare che quella follia a qualcuno dei nemici del presidente in carica non dispiacesse affatto, al punto da auspicarla se non proprio favorirla. Perché, decorticando la realtà dal denso strato di demagogia con cui il mondo progressista ha narrato l’accaduto all’opinione pubblica mondiale, le conseguenze concrete del gesto inconsulto sono state un generoso regalo al neoeletto Joe Biden, ai Democratici e ai loro supporter incistati negli interstizi del Deep State (lo Stato profondo dei cosiddetti poteri forti) che è stato il vero nemico politico della presidenza Trump.
Dopo Capitol Hill a Trump e a i suoi sostenitori sarà difficile continuare a battere sul tasto del furto elettorale subìto. Tuttavia, la farsa dell’assalto al Parlamento, proseguita con la sceneggiata delle anime belle del progressismo sull’insurrezione contro le “sacre” istituzioni democratiche, non sana la faglia che divide l’America in profondità e che riflette la condizione di una crisi identitaria dell’Occidente. Al netto del folklore dei rivoltosi di Capitol Hill, la piazza che si è radunata a Washington per contestare la proclamazione ufficiale della vittoria di Joe Biden restituisce la fotografia di quel popolo degli abissi (la locuzione è stata coniata dallo storico dell’Economia, Giulio Sapelli) che emerge dalle profondità delle aree marginalizzate delle società capitalistiche, bucando la superficie del conformismo ideologico. L’obiettivo della protesta, debordata in scimmiottamenti ribellistico-insurrezionali, è di rendere manifesta la rabbia verso un sistema socio-culturale-economico che penalizza gli esclusi dalle dinamiche della globalizzazione inducendo disperazione economica ed esistenziale. Sbeffeggiare i ruspanti contestatori muniti di elmi con le corna, di pelli di bisonte e di armi, criminalizzarli, insultarli non servirà ad eliminarli. Il malessere nell’America profonda c’è e non saranno le condanne e le sopracciglia inarcate dei benpensanti ad estirparlo. È possibile che dopo la follia di ieri l’altro Donald Trump si sia giocato il proprio futuro politico, ma il trumpismo, e tutto ciò che esso ha rappresentato per gli Stati Uniti e per l’Occidente, non è morto. È un fuoco che coverà sotto la cenere, pronto a ravvivarsi quando la razza padrona progressista, che oggi si riconosce in Joe Biden e ancor più nella vicepresidente Kamala Harris, proverà a completare la trasformazione antropologica della società americana, e di rimando occidentale, iniziata da Barack Obama. Esploderà quando i “liberal” di Washington e la buona borghesia dell’Upper side della costa atlantica spalancheranno le porte all’onda, azzeratrice della storia, mossa dalla “Cancel Culture”. L’incendio propagherà quando nelle scuole e nelle università grandi capolavori della letteratura e dell’arte non potranno più essere letti o studiati perché giudicati razzisti o sessisti. Com’è accaduto in una High School del Massachusetts dove gli insegnanti, adepti del “Disrupt Texts”, hanno sentenziato che l’Iliade e l’Odissea dovessero essere espunte dai programmi di studio essendo stato ritenuto Omero “un bieco razzista e sessista” (la notizia è riportata nell’illuminante articolo di Michele Marsonet, pubblicato su Atlantico, di cui si consiglia la lettura).
Siamo sulla soglia dell’abisso con l’inverarsi nel reale del mondo descritto da Ray Bradbury nel profetico Fahrenheit 451: chissà che un giorno alcuni di noi, i più tenaci, non saranno costretti a imparare a memoria le grandi opere del passato per poterle salvare dalla furia iconoclasta del politicamente corretto per poi trasmetterle alle future generazioni quando il mondo sarà liberato dalla dittatura del progressismo. Ciò che di spaventoso si va delineando all’orizzonte della coppia Biden-Harris è l’instaurazione di una democrazia-simulacro, che dell’antica forma di governo mantiene l’involucro esteriore ma ne ha dismesso il contenuto sostanziale, di rappresentazione fedele della sovranità popolare. La democrazia-simulacro ha un linguaggio universale, il politicamente corretto, al quale non solo gli statunitensi ma tutti gli occidentali dovranno adeguarsi. Ma cosa accadrà quando in nome dell’ideologia “green”, in tutto l’Occidente verranno bruciati milioni di posti di lavoro? Cosa accadrà quando il solco che divide le élite dei privilegiati dalle masse dei diseredati diventerà una voragine incolmabile? La razza padrona di Washington con i suoi referenti europei, anche italiani, punta a disegnare il futuro di una quota d’umanità, cancellandone storia, identità, memoria e riscrivendo i codici di alcuni valori finora ritenuti fondanti. Come quello assoluto della libertà di espressione. Nel giorno della bravata dei trumpiani a Capitol Hill, di là dall’infantile sbrego al simbolo della democrazia (costato la vita a quattro manifestanti), il vero atto sostanziale di privazione della libertà l’hanno compiuto i manipolatori del pensiero, che controllano l’immenso mondo dei social, decidendo autoritativamente di oscurare i messaggi del presidente Trump. A seguito degli incidenti nella capitale, Facebook ha bloccato a tempo indeterminato la pagina di Donald Trump. Il proprietario Mark Zuckerberg, secondo le ricostruzioni di Axios, avrebbe definito la situazione a Washington un’emergenza. Domandiamoci allora chi sia più pericoloso per la sopravvivenza dell’idea di libertà: il rozzo contestatore che si fa fotografare seduto alla scrivania della Speaker alla Camera dei rappresentanti, Nancy Pelosi, o il titolare di una rete social di dimensioni planetarie che decide insindacabilmente chi debba esprimersi e chi invece debba essere censurato?
Oggi si parla di Stati Uniti e sono tante le anime belle del progressismo nostrano che l’altra notte si sono straccate le vesti per la protesta inscenata a Washington. Eppure, le medesime anime belle non si preoccupano di ciò che sta accadendo in Italia con un governo minoritario nella volontà popolare che imperterrito continua a tenere in scacco il Paese. C’è un comun denominatore che connette il progressismo delle due sponde dell’Atlantico: la pretesa di riconfigurare la democrazia privandola dell’elemento strutturale della volontà popolare. Nel luglio del 2019, in un’intervista al Financial Times, il leader russo Vladimir Putin parlò apertamente di democrazia liberale finita nel presente contesto storico. L’asserzione destò l’indignazione dei liberal occidentali, cioè di quegli stessi che hanno trovato giusto che, negli Stati Uniti, la prassi elettorale democratica venisse profanata dal ricorso massiccio al voto postale, tutt’altro che trasparente, nella convinzione che il fine (far fuori politicamente Donald Trump) giustificasse il mezzo (la truffa elettorale). Resta da chiedersi chi meglio abbia intonato il De profundis allo spirito autentico della democrazia: i sovranisti, brutti sporchi e cattivi, o i progressisti, campioni del Bene e delle buone maniere? La giornata dell’assalto a Capitol Hill andrà presto in archivio e verrà tirata fuori soltanto per completare l’opera di annientamento del nemico politico Donald Trump. Ma qualcosa è sfuggito al perfetto quadretto confezionato dalla narrazione liberal: i rozzi invasori di Capitol Hill un risultato l’hanno ottenuto. Hanno avuto il loro martire, l’eroina in nome della quale continuare la crociata anti-progressista. È Ashli Babbit, la donna (disarmata) uccisa da un proiettile al cuore esploso da un agente in servizio al Campidoglio. La Babbit era nel vivo della protesta perché convinta fan di Donald Trump. Aveva 35 anni ed era una veterana dell’Us Air Force. Nelle foto sui social amava apparire con la maglietta del QAnon, la milizia estremista che sostiene teorie complottiste sul ruolo del Deep State nell’affossare la presidenza Trump. Giusta o sbagliata che fosse la sua idea, quel che certo è che da domani la defunta Babbit sarà un’icona da portare in battaglia alla testa delle schiere dei “barbari”, visti all’opera ieri l’altro. E quando un popolo di disperati trova la sua Giovanna d’Arco alla quale votarsi, per i nemici e persecutori, di solito, non finisce bene.
FONTE: http://opinione.it/editoriali/2021/01/08/cristofaro-sola_capitol-hill-presidenziali-usa-biden-trump-qanon-putin-furto-elettorale/
- LA STORIA: La crisi del coronavirus continua, ma ti sei reso conto del significato rituale più profondo delle politiche governative?
- LE IMPLICAZIONI: La maggior parte della popolazione sonnambula attraverso un rituale mondiale i cui elementi sono stati abilmente mascherati?
Il mondo intero sta partecipando a un rituale occulto di iniziazione,
anche se quasi nessuno lo realizzerà. Le misure e le politiche che i governi hanno implementato in tutto il mondo dall’inizio dell’operazione Coronavirus – come la quarantena, il blocco, il lavaggio delle mani, l’uso di maschere, l’allontanamento sociale e altro – sono in realtà aspetti del rituale di iniziazione occulta. Questi aspetti sono stati abilmente adattati all’attuale “pandemia” e mascherati da autentiche strategie di salute pubblica. Come ho spiegato in articoli precedenti, questa pandemia è un piano che è stato meticolosamente pianificato per decenni . Le persone che gestiscono il mondo, che spesso chiamo i cospiratori del Nuovo Ordine Mondiale (NWO), lasciano ben poco al caso. Sono maghi neri e stanno eseguendo questo esercizio dal vivo in modo simile a come eseguono i loro rituali satanici segreti. In entrambi i casi, l’obiettivo è lo stesso: portare gli iniziati fuori dalla loro normale modalità di esistenza, scomporli, generare sottomissione, rimodellarli a somiglianza dei loro leader e infine riportarli a una nuova normalità dove non possono tornare ai loro vecchi modi e alle loro vite.
Lockdown e quarantena (isolamento)
Ogni buon rituale richiede una preparazione. La prima parte di un rituale di iniziazione è l’isolamento. Questo isolamento serve a separare l’iniziato dagli affari mondani (“del mondo”) della sua vita. Viene spesso fatto tagliando tutti i legami con il mondo esterno. A volte, l’iniziato può essere mandato in una stanza buia o in una grotta; questo suggerisce anche una prossima rinascita da un grembo oscuro. Al giorno d’oggi questo isolamento richiede anche la separazione dalla tecnologia e da tutto ciò che ne deriva (telefoni, computer, e-mail, social media, ecc.). La deprivazione sensoriale manda a galla l’iniziato dove è meno legato a credenze e comportamenti.
Nell’operazione Coronavirus, il lockdown e la quarantena sono l’aspetto dell’ isolamento rituale. Coloro che erano consapevoli della situazione hanno notato che mettere in quarantena un’intera comunità di persone sane era una contraddizione in termini, perché la stessa parola quarantena significa “uno stato, periodo o luogo di isolamento in cui isolare persone o animali che sono arrivati da altrove o sono stati esposti a malattie infettive o contagiose “. Quindi, per definizione, non si possono mettere in quarantena persone sane e non infette; si possono mettere in quarantena solo persone infette e malate. Tuttavia, il programma era isolare le persone con ogni mezzo necessario per raggiungere il primo passo dell’iniziazione.
Lavaggio delle mani (rifiuto)
Un altro elemento del rituale è stata l’attenzione ossessiva e compulsiva sul lavaggio delle mani. Mentre il lavaggio delle mani in generale è una buona attività igienica che può aiutare a limitare la diffusione della malattia, l’operazione Coronavirus l’ha portata a un livello completamente nuovo di ansia OCD (in base alla progettazione, ovviamente). Simbolicamente, il lavaggio delle mani ricorda la storia di Ponzio Pilato della Bibbia, che si lavò le mani della questione riguardante il destino di Gesù di Nazaret e rifiutò di punirlo o di liberarlo. Da questo punto di vista, lavarsi le mani riguarda il rifiuto. Ma chi o cosa viene rifiutato? La “vecchia normalità” della libertà?
Indossare la maschera (censura, sottomissione, disumanizzazione, rinforzo di una falsa idea di pericolo, personalità alternativa).
L’uso della maschera è un argomento enorme. In altri articoli ho parlato di alcuni dei motivi per cui indossare una maschera non è solo inutile dal punto di vista medico se vuoi proteggerti dal COVID, ma anche potenzialmente dannoso per la tua salute. Tuttavia, ci sono molti livelli più profondi quando si tratta degli aspetti rituali delle maschere. In primo luogo, le maschere connotano la censura, la copertura della bocca, il bavaglio e la soppressione di una voce libera. Pensa a quante immagini raffiguranti la censura mostrano una persona con del nastro adesivo sulla bocca. La censura è stata una parte importante di questo programma, anche prima che accadesse ufficialmente, con tutti gli appassionati di Event 201 che hanno praticato la loro simulazione per ore su come avrebbero controllato la narrativa ufficiale e censurato i punti di vista alternativi. In secondo luogo, le maschere simboleggiano la sottomissione, la rinuncia all’accesso illimitato all’ossigeno. L’intera agenda non riguarda il virus; si tratta di controllo. Si tratta di costringere le persone a sottomettersi alla volontà dei manipolatori del NWO, anche quando è legalmente e medicalmente ingiustificato. In terzo luogo, le maschere ricordano i robot. Sono disumanizzanti. Rimuovono la capacità di vedere completamente il viso di un’altra persona. Rimuovono l’individualità. Rendono tutti identici e contribuiscono al tipo di società della mente alveare . Creano distanza e separazione nelle persone, rendono più difficile per noi comunicare tramite il linguaggio del corpo e rendono più difficile per noi provare empatia per gli altri, poiché tale empatia si basa spesso sul vedere veramente un’altra persona. In quarto luogo, le maschere rafforzano il messaggio subliminale che siamo tutti in grave pericolo, che dobbiamo vivere costantemente nella paura, che dobbiamo proteggerci continuamente, che si sta verificando una vera pandemia – quando in realtà non c’è.
Infine, le maschere sono spesso usate dalle stesse élite alle loro feste e rituali. Ricordi la scena dell’orgia sessuale satanica da Eyes Wide Shut di Kubrick ? Le maschere nascondono l’identità. Accelerano la “morte” della vecchia identità. Le maschere creano una persona alternativa. Questo si collega al tema incredibilmente importante del Satanic Ritual Abuse (SRA) e del controllo mentale. Nel controllo mentale, un “conduttore” usa la tortura e l’abuso per costringere la vittima a dissociarsi. È qui che le loro menti si separano e si staccano dalla realtà per affrontare il tremendo dolore che viene loro inflitto. È una strategia difensiva mentale incorporata. Tuttavia, così facendo, la vittima crea più “alter” o personalità che sono scollegate dalla loro personalità di base. Questi alter non sanno dell’esistenza di altri alter; così la vittima può essere programmata per fare cose (ad esempio diventare una schiava del sesso o un assassino) e non ricordare di averle fatte, perché si può innescare un alter per farsi avanti e poi tornare nel subconscio dopo l’evento. Quando si tratta di controllo mentale,
Distanziamento Sociale (The New Normal)
Una volta che il rituale si avvia verso il completamento, l’iniziato esce in un nuovo modo di pensare e in un nuovo modo di comportarsi. È rifatto a immagine dei suoi addestratori o manipolatori che hanno condotto il rituale. Nel caso del COVID, l’obiettivo finale è la nuova normalità in cui tutti sono permanentemente separati e scollegati (così come testati, tracciati, tracciati dei contatti, monitorati, sorvegliati, medicati e vaccinati). L’allontanamento sociale è davvero un allontanamento antisociale; si tratta di rimuovere il tocco umano dalle nostre interazioni. Quel tocco è ciò che ci rende umani.
FONTE: https://www.databaseitalia.it/il-rituale-occulto-del-corona/
Quella teoria complottista sulle elezioni americane che chiama in causa l’Italia
L’ultima teoria del complotto sui presunti brogli nelle elezioni americane ha come protagonista l’Italia. Non ci sono prove sul racconto di un sedicente ex agente della Cia che chiama in causa Leonardo e Matteo Renzi. Ma su Twitter già impazza l’hashtag #Italydidit.
Mentre a Washington andava in scena la presa del Congresso da parte di alcuni dei manifestanti pro-Trump, sugli account Twitter trumpiani impazzavano gli hashtag #Italygate e #Italydidit.
Il motivo? Al centro dell’ultimo complotto dei sovranisti pro-Trump sulle elezioni americane dello scorso 3 novembre c’è proprio il nostro Paese. Una tesi discutibile, rilanciata però ieri, in concomitanza con la manifestazione di Washington e con l’arrivo della notizia della conquista del Senato da parte dei democratici.
Sotto accusa dei supporter trumpiani c’è il Dominion Voting System, la compagnia americana fondata nel 2003 che fornisce il software delle macchine per il voto usate in 28 Stati. Cosa c’entra l’Italia? Secondo il teorema basato sulle ricostruzioni di un sedicente ex agente della Cia e commentatore per il network trumpiano Oann, Bradley Johnson, l’ambasciata americana a Roma sarebbe stata il quartier generale di un hackeraggio che ha ribaltato il risultato delle elezioni.
Ad architettare il tutto, secondo il sito americano BlueSkyReport, il primo a diffondere la ricostruzione sui social, sarebbe stato il duo Barack Obama-Matteo Renzi.
Secondo quanto si legge sui tweet dei sostenitori di Trump e su alcuni blog, durante le elezioni sarebbe andato in scena un hackeraggio dei server di Dominion per spostare i voti da Trump a Biden attraverso presunti server della società a Francoforte, in Germania. Secondo la stessa ricostruzione i server con all’interno la “prova inconfutabile” dei brogli sarebbero stati recuperati da “un gruppo d’assalto delle forze speciali dell’esercito USA” per incastrare gli autori dell’hackeraggio.
Peccato però, che la circostanza del raid sia stata già smentita, sia da un portavoce dell’esercito americano sia da Scytl Secure Electronic Voting, un altro fornitore di sistemi di voto elettronico che ha negato di avere server o uffici a Francoforte. Anche Dominion ha chiarito di non possedere server in Germania e che tutti i voti sono stati scrutinati negli Usa dai funzionari elettorali locali.
Eppure chi crede a quello che è già stato ribattezzato come “Italia gate” sostiene che, come si legge nel blog del giornalista italiano Cesare Sacchetti, La cruna dell’Ago, “i dati hackerati da Francoforte sarebbero stati trasmessi a Roma, precisamente all’ambasciata americana di via Veneto”. Secondo il racconto del sedicente ex agente della Cia, Johnson, ci sarebbe stato un nuovo attacco hacker partito proprio da via Veneto per spostare voti sul candidato Dem visto che Trump “stava prendendo un numero di voti record”.
L’operazione, secondo l’ultima teoria del complotto, sarebbe stata messa in atto la notte del 3 novembre da un misterioso uomo “al servizio del dipartimento di Stato americano”, con l’avallo dell’ambasciatore americano in Italia, Lewis Eisenberg, descritto come “vicino alle lobby neocon sioniste che probabilmente sono tra le più feroci nemiche del presidente per il suo piano di disimpegno militare dal Medio Oriente”, e la partecipazione del colosso dell’industria della Difesa italiana.
L’opinionista di Oann, infatti, afferma che “una volta che sono stati creati i nuovi algoritmi per spostare ancora più voti da Trump a Biden, gli hacker avrebbero mandato i nuovi numeri ad un satellite militare gestito da Leonardo”.
“Successivamente – si legge ancora nel blog che ha ripreso la storia raccontata da Johnson – il satellite avrebbe trasmesso i nuovi dati manipolati dall’Italia agli Stati Uniti”.
Secondo i seguaci della teoria cospirazionista che sta impazzando tra gli esponenti dell’ultradestra americana, infine, sarebbe proprio l’ex premier Matteo Renzi, da questo lato dell’Oceano, a sostenere il “golpe mondialista per rovesciare Trump” già dal momento della sua elezione.
“Barack Obama e Renzi hanno orchestrato tutto questo con l’aiuto di agenti della Cia. Questo è tradimento”, twitta Ann Vandersteel, attivista pro-Trump, affiliata alla campagna di Trump 2020 in Florida.
La replica dell’ex premier italiano è arrivata stamattina in una “Enews” straordinaria: “Ieri, prima dell’assalto al Campidoglio, alcuni profili trumpiani hanno accusato Obama e il sottoscritto di “orchestrare” campagne contro Trump. Siamo alla follia totale”.
“I responsabili di queste menzogne hanno ricevuto il pardon – una sorta di grazia – da Trump qualche settimana fa”, ha scritto ancora Renzi riferendosi all’ex consigliere alla Sicurezza di Trump, Michael Flynn, il quale in una trasmissione seguita da un pubblico conservatore, InfoWars, ha accusato “Cina, Serbia, Italia, Spagna e Germania” di aver “interferito” nelle ultime elezioni americane.
“Sto cercando – ha proseguito Renzi nella Enews – con i miei avvocati di chiedere comunque di portare questi signori davanti alla giustizia italiana”. “Quello che dicono di me – ha concluso – è folle: ci mancava giusto che mi accusassero di complotti internazionali. Ma ancora più grave è che questi signori la facciano franca”.
FONTE: https://it.sputniknews.com/mondo/202101079981924-quella-teoria-complottista-sulle-elezioni-americane-che-chiama-in-causa-litalia/
ATTUALITÁ SOCIETÀ COSTUME
È una farsa! Guardate come si stanno “preparando” ad affrontare la terza ondata…
In primo luogo, secondo quanto riportato da Il Giornale, la tribù di virologi televisivi superstar ha ormai deciso la linea per garantire la salvezza: “Solo il lockdown ci salverà”, questo riporta l’articolo.
È assurdo pensare che il lockdown possa salvarci se si considera che finora non ci ha salvati. Non ci ha salvati il primo lockdown, quello della primavera 2020, non ci ha salvato il lockdown dell’autunno, che si diceva essere finalizzato a salvare il Natale che non è stato salvato, e non ci salverà nemmeno questo nuovo lockdown che viene proposto per salvarci dalla terza ondata.
Accanto a questa narrazione tra il tragico e il comico, basti rammemorare anche un’altra narrazione, quella riportata su La Repubblica: “Un coronavirus, 5 varianti. Ecco le mutazioni che preoccupano il mondo”. Ciò che lascia ben intendere è che quella che stiamo vivendo è e sarà una pandemia infinita con tante varianti e magari anche con nuovi virus all’orizzonte.
Ultima nota ci viene restituita da La Stampa di Torino che così titola: “Spunta la zona bianca, cosa cambia per bar, ristoranti, palestre, teatri e cinema”. Non bastavano l’arancione il giallo e il rosso, ora spunta anche la zona bianca. Sembra di assistere al gioco per bambini “Strega tocca colore”.
Capite bene che sono già da tempo stati superati i confini non solo della normalità ma anche della serietà.
RadioAttività, lampi del pensiero con Diego Fusaro
FONTE: https://www.radioradio.it/2021/01/farsa-terza-ondata-zona-bianca-fusaro/
BELPAESE DA SALVARE
Italia divisa. Il saggio di Caligiuri spiega perché (con tante sorprese)
“Emergono le responsabilità delle classi dirigenti del Mezzogiorno che non tutelano gli interessi dei cittadini che pure le esprimono”
Di Claudio Sirti | 04/01/2021
“Il saggio, seppur nella sua brevità, offre spunti di riflessione sulle ragioni delle sempre attuali differenze tra Nord e Sud nelle tre grandi fasi della storia d’Italia: liberale, fascista, repubblicana”. Il commento di Stefano Bonino all’ultimo libro di Mario Caligiuri, “La vera nascita della questione. Le conseguenze sul Meridione della prima Guerra Mondiale e del Referendum istituzionale” (Grimaldi & C.)
Su Amazon è da giorni sul podio dei libri più venduti in storia moderna e contemporanea, “La vera nascita della questione. Le conseguenze sul Meridione della prima Guerra Mondiale e del Referendum istituzionale” è il titolo del nuovo e innovativo libro di Mario Caligiuri, edito da Grimaldi & C. per le strenne natalizie.
“Il saggio, seppur nella sua brevità, risponde pienamente all’intento dell’autore: offrire spunti di riflessione sulle ragioni delle sempre attuali differenze tra Nord e Sud nelle tre grandi fasi della storia d’Italia: liberale, fascista, repubblicana”, ha commentato Stefano Bonino, criminologo italo-britannico, con un passato di studi in criminologia nelle Università di Edimburgo e di Bologna e come docente e ricercatore nelle Università di Birmingham, di Durham, della Northumbria e di Trento.
Il libro, aggiunge “va anche oltre perché in ogni paragrafo delinea con lucidità e grande ricchezza di riferimenti, per chi desiderasse approfondire, le linee guida utili per comprendere la realtà passata e presente del Mezzogiorno, mai saldatosi col Nord, palla al piede dell’Italia o esempio emblematico del fallimento dello Stato Nazionale, mentre si espande ‘la linea della palma’ della nota metafora di Sciascia”.
“Dall’Unificazione – prosegue Bonino -, ma soprattutto dal 1876 con l’avvento della Sinistra storica, iniziano ad aggravarsi i problemi del Meridione che vengono rapportati ad una triplice origine: politica, storica ed economico-sociale. Emigrazione, educazione, criminalità, le profonde conseguenze dalla Grande Guerra mai indagate sistematicamente, Monarchia e Repubblica e via via gli altri interrogativi e suggerimenti di analisi indicati, rendono il saggio utile ed interessante”.
Bonino sottolinea poi che “la tesi di Popper che segnalava la pericolosità di permettere al potere economico di dominare quello politico è sostenuta dall’autore, che ravvisa anche nelle disomogenee dimensioni territoriali il motivo del diverso rapporto col potere tra Nord e Sud e specialmente nell’inadeguatezza delle classi dirigenti, che hanno consentito il perpetuarsi delle politiche assistenziali e clientelari, una delle principali cause del divario, quando invece il Meridione avrebbe spazi di crescita superiori che il Nord perché il Mediterraneo …è destinato a diventare piattaforma di sviluppo mondiale”.
Eppure, come sottolinea la quarta di copertina, “sulla questione meridionale è davvero difficile scrivere qualcosa di nuovo. Di sicuro è il tema politico centrale della storia nazionale, che pesa sul passato, sul presente e sul futuro”, ma il volume di Caligiuri si documenta l’ipotesi che “la nascita della questione sia diventata irreversibile con la Prima Guerra Mondiale e con il Referendum istituzionale. In modo serrato si pongono due Italie a confronto, con storie e culture diverse che dopo 160 anni fanno ancora fatica a capirsi. Emergono le responsabilità delle classi dirigenti del Mezzogiorno che non tutelano sistematicamente gli interessi dei cittadini che pure le esprimono”.
“Il libro – si legge ancora – unisce punti dispersi ma tutti alla luce del sole. Si legge allora che un premio Nobel per la pace come Ernesto Teodoro Moneta possa diventare uno dei più strenui sostenitori dell’entrata in guerra, che Vittorio Emanuele Orlando si proclami orgogliosamente mafioso, che la democrazia possa trovare nuova linfa riflettendo a fondo su un tema inattuale come la monarchia. Probabilmente per comprendere le autentiche ragioni della mancata unità occorre cogliere i segnali deboli. È il tentativo di questo libro spiazzante, che fuoriesce dai luoghi comuni, scritto da uno dei più originali e brillanti meridionalisti delle ultime generazioni”.
FONTE: https://www.maurizioblondet.it/italia-divisa-il-saggio-di-caligiuri-spiega-perche-con-tante-sorprese/
CONFLITTI GEOPOLITICI
Lo sceicco Rouhani getta lo scompiglio in Medio Oriente
Se Joe Biden s’insediasse alla presidenza degli Stati Uniti potrebbe sostenere i progetti dei presidenti iraniano e turco e agevolare la costituzione d’un impero regionale iraniano nel Levante e di uno turco nel Caucaso, entrambi a spese della Russia. Thierry Meyssan analizza i cambiamenti in corso in Iran.
- Il presidente iraniano, sceicco Hassan Rouhani, è partner di lunga data d’Israele. Vuole reintegrare l’Iran nel ruolo di “gendarme regionale” svolto durante la dinastia Pahlavi.
Il governo dello sceicco Hassan Rouhani e i Guardiani della Rivoluzione sono fortemente antagonisti. I Guardiani non dipendono dal presidente, ma direttamente dalla Guida Suprema, l’ayatollah Ali Khamenei.
Il progetto del presidente Rouhani: capitalismo e imperialismo regionale
Lo sceicco Rouhani e l’ayatollah Khamenei appartengono al clero sciita, ma non i Guardiani della Rivoluzione, che sono soldati.
I Guardiani della Rivoluzione sono discepoli dell’imam Ruhollah Khomeini. Vogliono esportarne la rivoluzione antimperialista e liberare il mondo dall’impero anglosassone (USA + UK + Israele) che tante sofferenze ha causato all’Iran. Non sono in alcun modo collegati alle forze armate regolari iraniane, che invece dipendono dal presidente della Repubblica Islamica e vogliono unicamente difendere il Paese.
Durante la lunga guerra che l’Iraq dichiarò per conto degli Stati Uniti all’Iran, lo sceicco Rouhani, allora parlamentare, esercitò pressioni su Washington per ottenere armi in cambio della liberazione degli ostaggi USA in Libano. In seguito fu contattato da Israele per dotare il Paese di potenti armamenti. Rouhani coinvolse nella vicenda il proprio mentore, l’hodjatoleslam Akbar Hashemi Rafsanjani. Insieme orchestrarono il traffico d’armi Iran-Contras, che fu la disgrazia dei rivoluzionari del Nicaragua e la fortuna del già ricchissimo Rafsanjani.
Molto tempo dopo, nell’ambito di una nuova negoziazione segreta con gli Stati Uniti a Oman, l’ayatollah Khamenei scelse Rouhani per succedere al presidente Mahmoud Ahmadinejad. Durante la campagna elettorale Rouhani si presentò come sostenitore del nascente capitalismo finanziario e dichiarò che l’Iran doveva smettere di finanziare rivoluzioni straniere, anche se sciite come lo Hezbollah libanese, offrendo così le garanzie volute da Stati Uniti e Israele.
Una volta eletto, negoziò immediatamente con Washington secondo le istruzioni ricevute dall’ayatollah Khamenei. Rouhani ambiva ricoprire il ruolo di “gendarme regionale” a suo tempo affidato dall’impero anglosassone allo scià Reza Pahlavi; un ruolo che in seguito fu dell’Iraq di Saddam Hussein e poi dell’Arabia Saudita. Siccome l’obiettivo era in totale contraddizione con l’eredità dell’ayatollah Khomeini, Iran e USA presentarono i negoziati come trattative finalizzate a mettere fine al programma nucleare iraniano. Agli incontri di Ginevra, che sfociarono rapidamente nell’Accordo sul Nucleare del 2013, ammisero anche gli altri membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, nonché la Germania. Germania, Cina, Francia, Regno Unito e Russia non ne furono sorpresi, poiché era noto che dal 1988 l’Iran aveva abbandonato le ricerche sulle armi di distruzione di massa. L’anno di pausa che seguì fu utilizzato per negoziati bilaterali tra Teheran e Washington. Fu in questo periodo che Rouhani richiamò con discrezione l’ambasciatore iraniano a Damasco e sospese i finanziamenti alla Siria. A dar manforte contro la Nato e gli jihadisti rimasero solo i Guardiani della Rivoluzione. L’accordo negoziato dai 5+1 fu firmato a Vienna il 14 luglio 2015.
Per inciso, lo sceicco Rouhani negoziò con l’Austria un accordo per esportare il gas iraniano in Europa, a danno della Russia. L’intesa però non fu mai messa in atto.
Fu soltanto durante la seconda campagna elettorale per le presidenziali del 2017 che Rouhani rivelò il proprio progetto: ripristinare l’impero safavide. Agì ancora una volta con prudenza, affidandone la pubblicazione al suo think-tank e continuando a far ricorso alla retorica dell’imam Khomeini. L’impero safavide aveva come perno la religione sciita. Il “Grande Iran” di Rohani doveva includere Libano, Siria, Iraq, Iran e Azerbaijan, tutti sottomessi all’autorità della Guida della Rivoluzione.
Le conseguenze del progetto del presidente Rouhani
Il testo è stato immediatamente tradotto in arabo da Anis Nacchachee e ha gettato lo scompiglio nel Medio Oriente Allargato. Infatti, l’Azerbaijan è sciita pressoché per intero, ma gli altri Stati menzionati nel progetto non lo sono.
In Libano lo Hezbollah si è profondamente diviso tra il segretario generale, sayyed Hassan Nasrallah, sostenitore di una linea nazionalista libanese, e il suo vice, sceicco Naïm Qassem, che invece ha rumorosamente applaudito il progetto dello sceicco Rouhani.
In Siria, dove gli sciiti sono esigua minoranza, il presidente Bashar al-Assad (egli stesso sciita, tuttavia profondamente laico) ha trattenuto la collera simulando d’ignorare tutto.
In Iraq, gli sciiti, che sono maggioranza ma sono innanzitutto nazionalisti, si sono per la maggior parte – fra loro anche Muqtada al-Sadr – rivolti alla sunnita Arabia Saudita.
In Iran, il generale dei Guardiani della Rivoluzione Qasem Soleimani è diventato il maggiore rivale del presidente Rouhani.
In Azerbaijan, Paese sciita e turcofono, la classe dirigente si è rivolta alla Turchia, con cui poi ha lanciato la guerra contro l’Armenia.
È in questo lo scenario che il presidente Donald Trump ha rotto l’accordo 5+1 sul nucleare (JCPoA). Contrariamente alla lettura degli avvenimenti fatta dall’Europa occidentale, il presidente statunitense non ha voluto distruggere l’operato “pacifista” del predecessore Barack Obama, bensì opporsi alla riorganizzazione regionale che il progetto Rouhani implica: il Levante all’Iran, il Caucaso alla Turchia. L’unico criterio della Casa Bianca è stato prevenire nuove guerre che richiedessero un dispiegamento di truppe statunitensi.
A fine 2017 lo scarto troppo vistoso fra il tenore di vita delle famiglie dei membri del governo Rouhani e della popolazione causò sommosse di vaste proporzioni. L’ex presidente Ahmadinejad vi partecipò, schierandosi sia contro Rouhani sia contro la Guida. La repressione fu terribile. Ci furono molti morti, forse un migliaio, ed ex membri del gabinetto di Ahmadinejad furono segretamente processati e condannati a pesanti reclusioni per reati ignoti.
Nell’intento di mostrare che Washington non avrebbe più messo sunniti contro sciiti, e nemmeno arabi contro persiani, il presidente Trump ordinò l’uccisione, in momenti successivi, dei più importanti capi militari di entrambi i campi: il califfo sunnita Abu Bakr al-Baghdadi di Daesh e il generale sciita Qasem Soleimani della Forza Al-Quds.
In tal modo Trump ha dimostrato che gli Stati Uniti sono ancora i padroni della regione. Ma, senza volerlo, ha favorito in Iran il campo dello sceicco Rouhani, che non si è risparmiato nel denunciare «il Grande Satana» e ha accusato il capo dei servizi segreti iracheni, Mustafa al-Kazimi, di essere complice degli Stati Uniti. Salvo però, quando dopo poche settimane al-Kazimi viene nominato primo ministro a Bagdad, essere fra i primi a congratularsi e a felicitarsene.
Gli amici israeliani dello sceicco Rouhani hanno poi fatto assassinare il generale Mohsen Fakhrizadeh, scienziato nucleare e compagno del generale Soleimani. In tal modo l’ala khomeinista è stata decapitata.
Il presidente Rouhani e Israele
Il presidente Rouhani è pronto ad abbandonare l’Azerbaijan in cambio del Levante. Può far conto sull’aiuto di Israele che, diversamente da una convinzione molto diffusa in Occidente, lungi dall’essergli nemico è suo alleato di lunga data.
Come detto, fu Rouhani il primo contatto israeliano nell’affare Iran-Contras.
Ed è ancora Rouhani a gestire la metà del gasdotto Elat-Ascalona, con relativi terminali, indispensabili all’economia israeliana. A fine 2017 la Commissione per gli Affari Esteri e per la Difesa della Knesset ha deciso di punire con 15 anni di reclusione qualsiasi pubblicazione sull’argomento.
Ed è sempre Rouhani che periodicamente riceve a Teheran il fratello di Benjamin Netanyahu, Iddo, drammaturgo riservato che vive tra Stati Uniti, Israele e Iran, Paesi ove dispone di una residenza permanente.
Lo sceicco Rouhani oggi spera che l’elezione di Joe Biden alla presidenza degli Stati Uniti gli consentirà di realizzare il progetto. Non sarà necessario ripristinare il finto accordo sul nucleare, basterà consentire a Teheran di essere nuovamente il “gendarme della regione”.
FONTE: https://www.voltairenet.org/article211900.html
LA LUNGA GUERRA DI PUTIN CONTRO LA SCIENZA AMERICANA
Un decennio di disinformazione sanitaria promossa dal presidente della Russia Vladimir Putin ha seminato grande confusione, dannegiato importanti istituzioni e incoraggiato la diffusione di malattie mortali.
Di William J. Broad
Il 3 febbraio, poco dopo che l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato il coronavirus un’emergenza sanitaria globale, un oscuro account Twitter a Mosca ha iniziato a ritwittare un blog americano. Diceva che l’agente patogeno era un’arma biologica progettata per inabilitare e uccidere. Il titolo chiamava l’evidenza” inconfutabile” anche se i migliori scienziati avevano già smentito tale affermazione e dichiarato naturale il nuovo virus.
Mentre la pandemia avvolge il globo, si accompagna da una pericolosa ondata di informazioni false – una “infodemia”, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità. Gli analisti affermano che il presidente russo Vladimir V. Putin ha svolto un ruolo principale nella diffusione di informazioni false come parte del suo più ampio sforzo per screditare l’Occidente e distruggere i suoi nemici dall’interno.
La Camera, il Senato e le agenzie di intelligence della nazione si sono in genere concentrati sulle interferenze elettorali nei loro esami della lunga campagna di Putin. Ma le ripercussioni sono più ampie. Un’indagine del New York Times – che ha coinvolto decine di interviste, nonché una revisione di articoli accademici, notizie e documenti russi, tweet e programmi TV – ha scoperto che Putin ha diffuso disinformazione su questioni di salute personale per più di un decennio.
I suoi agenti hanno ripetutamente piantato e diffuso l’idea che epidemie virali – inclusi focolai di influenza, Ebola e ora il coronavirus – siano state seminate da scienziati americani. I disinformatori hanno anche cercato di minare la fiducia nella sicurezza dei vaccini, un trionfo della salute pubblica che lo stesso Putin promuove a casa sua.
L’obiettivo di Mosca, affermano gli esperti, è quello di evidenziare che i funzionari americani minimizzano gli allarmi sanitari con conseguente grave minaccia per la sicurezza pubblica.
“Si tratta di seminare mancanza di fiducia nelle istituzioni governative”, ha dichiarato in un’intervista Peter Pomerantsev, autore di “Nothing Is True and Everything Is Possible”, un libro del 2014 sulla disinformazione del Cremlino.
Il presidente russo ha condotto la sua lunga campagna per mezzo di open media, troll segreti e blog oscuri che regolarmente definiscono i funzionari della salute americani come patrocinatori di frodi. Di recente, nuove tecniche segrete e raffinatezza hanno reso il suo lavoro più difficile da vedere, rintracciare e combattere.
Anche così, il Dipartimento di Stato ha recentemente accusato la Russia di aver utilizzato migliaia di account sui social media per diffondere la disinformazione del coronavirus, inclusa una teoria della cospirazione secondo cui gli Stati Uniti hanno progettato la mortale pandemia.
Il pubblico del Cremlino per la disinformazione aperta è sorprendentemente ampio. I video di YouTube su RT, la rete televisiva globale della Russia, hanno in media un milione di visualizzazioni al giorno, “il più alto tra i notiziari”, secondo un rapporto di intelligence degli Stati Uniti. Dalla fondazione della rete russa nel 2005, i suoi video hanno ricevuto oltre quattro miliardi di visualizzazioni, hanno recentemente concluso gli analisti.
Poiché l’interesse pubblico per il benessere e la longevità aumenta, la disinformazione sanitaria può avere un impatto sociale sproporzionatamente grande. Gli esperti temono che favorirà il cinismo pubblico che erode l’influenza di Washington e il valore democratico fondamentale basato su fatti dimostrabili – fondamento per il processo decisionale.
“L’accumulo di queste operazioni per un lungo periodo di tempo si tradurrà in un grande impatto politico”, ha detto Ladislav Bittman, un ex ufficiale di disinformazione del blocco sovietico, spiegando la logica a lungo termine del Cremlino.
Sandra C. Quinn, una professoressa di sanità pubblica presso l’Università del Maryland che ha seguito le paure del vaccino del signor Putin per più di mezzo decennio, ha affermato che il presidente russo stava attingendo a un vecchio manuale . “La differenza ora è la velocità con cui si diffonde informazione e la denigrazione delle istituzioni su cui contiamo per comprendere la verità”, ha detto in un’intervista. “Penso che siamo in un territorio pericoloso.”
Armi viventi
Da giovane, Putin ha prestato servizio nel K.G.B., la principale agenzia di intelligence dell’Unione Sovietica, dal 1975 al 1991. Ha lavorato nell’intelligence straniera, che ha richiesto ai suoi ufficiali di trascorrere un quarto del loro tempo a concepire e attuare piani per seminare disinformazione. Ciò che il signor Putin ha realizzato non è chiaro. Ma i conti pubblici mostrano che è salito al grado di tenente colonnello e che il suo mandato di 16 anni ha coinciso con un importante K.G.B. operazione per distogliere l’attenzione dall’arsenale segreto di Mosca di armi biologiche, che ha costruito in violazione di un trattato firmato con gli Stati Uniti nel 1972.
The K.G.B. la campagna – che lanciò il virus mortale che causa l’AIDS come arma razziale sviluppata dall’esercito americano per uccidere i cittadini neri – ebbe un enorme successo. Nel 1987, erano finite notizie false in 25 lingue e 80 paesi, minando la diplomazia americana, specialmente in Africa. Dopo la guerra fredda, nel 1992, i russi ammisero che gli allarmi erano fraudolenti.
In qualità di presidente e primo ministro della Russia, Putin ha abbracciato e ampliato il libro di gioco, collegando qualsiasi focolaio naturale alla duplicità americana. Attaccare il sistema sanitario americano e la fiducia in esso divenne un segno distintivo del suo governo.
Inizialmente, il suo principale divulgatore di notizie false era Russia Today, che ha fondato nel 2005 a Mosca; nel 2008 è stato ribattezzato RT, oscurandone le origini russe.
All’inizio del 2009, un’influenza particolarmente virulenta, chiamata H1N1, ha spazzato il mondo e migliaia di persone sono morte. Quell’anno, la rete presentava le opinioni cospiratorie di Wayne Madsen, un collaboratore regolare di Washington che descriveva come giornalista investigativo. In almeno nove spettacoli e bollettini di testo, il signor Madsen ha caratterizzato il germe mortale come bioingegnerizzato. “Il mondo sta effettivamente combattendo una tragedia creata dall’uomo”, ha dichiarato un bollettino.
Nel giugno dello stesso anno, Madsen ha detto ai telespettatori rt che i produttori di virus avevano lavorato in un oscuro mix di laboratori, tra cui l’Army Medical Research Institute of Infectious Diseases a Fort Detrick, a Frederick, Md. Il compito ufficiale dell’istituto è quello di aiutare a difendere gli Stati Uniti contro i tipi di agenti patogeni che il signor Madsen lo ha accusato di creare.
In uno show di follow-up, Madsen ha detto che il virus era stato unito da altri ceppi influenzali, tra cui il virus responsabile della pandemia del 1918, e paragonato i suoi creatori agli scienziati pazzi di “Jurassic Park”, il film di successo sui dinosauri resuscitati. La chiassosa di RT per lo spettacolo ha caratterizzato il risultato come “Germ Warfare”.
Nel 2010, la rete ha fondato un nuovo braccio, RT America, a pochi isolati dalla Casa Bianca. Il signor Madsen è diventato un ospite regolare su camera.
Nel 2012 il signor Putin ha aggiunto l’esercito al suo arsenale informativo. Il suo nuovo capo dell’esercito russo, il generale Valery Gerasimov, ha esposto una nuova dottrina di guerra che ha sottolineato la messaggistica pubblica come mezzo per suscitare il dissenso straniero. Nello stesso anno, un oscuro gruppo di troll a San Pietroburgo ha iniziato a usare Facebook, Twitter e Instagram per sparare salvature di informazioni spazzatura a milioni di americani. L’obiettivo era quello di aumentare la polarizzazione sociale e danneggiare la reputazione delle agenzie federali.Una ricca opportunità è nata nel 2014 quando l’Ebola ha spazzato l’Africa occidentale. È stata la peggiore epidemia di febbre emorragica, alla fine ha mietuto più di 10.000 vittime.
La galleria di tutti i presunti criminali di RT includeva ancora una volta l’esercito degli Stati Uniti. La rete ha profilato un’accusa di Cyril Broderick, un ex patologo delle piante, che ha affermato in un articolo di giornale liberiano che l’epidemia era un complotto americano per trasformare gli africani in cavie armi biologiche, e ha citato l’accusa di AIDS come sostenere.
Il presentatore di RT ha osservato che gli Stati Uniti stavano spendendo centinaia di milioni di dollari per aiutare le vittime dell’ebola in Africa, ma ha aggiunto: “Non può riacquistare la fiducia del mondo”.
I troll di San Pietroburgo hanno amplificato la richiesta su Twitter. Il virus mortale “è stato creato dal governo”, ha dichiarato un tweet. Un’altra serie di tweet ha definito il microrganismo “solo un’arma biologica regolare”. L’idea ha trovato un pubblico. L’artista hip-hop Chris Brown ha fatto eco nel 2014, dicendo ai suoi 13 milioni di follower su Twitter: “Penso che questa epidemia di Ebola sia una forma di controllo della popolazione”.
CENTRO PER LA PREVENZIONE E IL CONTROLLO DELLE MALATTIE. nel mirino
La campagna di disinformazione sulla salute di Putin era ormai un’impresa globale, con l’energia creativa di una casa divertente e la capacità di colpire ovunque.
Il prossimo obiettivo erano i Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie, l’agenzia di punta della sanità pubblica degli Stati Uniti. Alla fine del 2014, un’eruzione di notizie false affermava che una vittima di Ebola in Liberia era stata portata in aereo ad Atlanta, iniziando un focolaio locale. Un video di YouTube ha mostrato quello che ha descritto come C.D.C. personale, in tuta ignifuga, che riceve e sposta il paziente in segreto. Il video ingannevole includeva un camion con il logo dell’aeroporto di Atlanta.
Una scarica di tweet ha alzato il volume. “Panico qui in ATL !!” uno ha dichiarato. Un altro ha esclamato: “OMG! L’Ebola è ovunque! ”
Man mano che il Cremlino diventava più sicuro, iniziò semplicemente a riciclare vecchie narrazioni piuttosto che aspettare che emergessero nuove epidemie. Nel 2017, i troll russi hanno usato Twitter per dare nuova vita alla falsità dell’AIDS. Questa volta l’attore dichiarato era il Dr. Robert Gallo, uno scienziato che nel 1984 aveva effettivamente aiutato a scoprire il virus che causa l’AIDS. I tweet lo citavano, falsamente, dicendo che aveva progettato l’agente patogeno per spopolare l’umanità. I troll hanno citato un sito web, World Truth. Il suo video che attacca il Dr. Gallo ha registrato quasi quattro milioni di visualizzazioni.
Sei ricercatori incentrati sull’Università della California, a Los Angeles, hanno scoperto che, nel corso di decenni, le false narrazioni sull’AIDS avevano favorito una “mancanza di fiducia” tra gli afroamericani che ha impedito a molti di cercare cure mediche. Il loro studio del 2018, su centinaia di neri di Los Angeles che hanno rapporti sessuali con uomini, ha riferito che quasi la metà degli intervistati pensava che il virus responsabile dell’AIDS fosse stato prodotto. E più di un quinto considerava le persone che assumevano nuove droghe protettive come “cavie umane per il governo”.
difensori assediati
In Russia, Putin è stato un convinto sostenitore dei vaccini.
“Mi assicuro di ricevere le vaccinazioni in tempo, prima che inizi la stagione influenzale”, ha detto agli ascoltatori di uno spettacolo di call-in 2016. In un incontro televisivo con i medici a San Pietroburgo, nel 2018, ha rimproverato i genitori russi che si rifiutano di vaccinare i loro figli: “Mettono in pericolo la vita dei propri figli”.
Definendo la questione “molto importante”, ha avvertito di possibili passi amministrativi per accelerare il ritmo delle vaccinazioni infantili. Lo scorso autunno, le autorità sanitarie russe hanno stabilito regole ampliate che richiedono una stretta aderenza ai protocolli per la vaccinazione infantile.
Allo stesso tempo, Putin ha lavorato duramente per incoraggiare gli americani a vedere le vaccinazioni pericolose e gli agenti sanitari federali malevoli. La minaccia dell’autismo è un tema regolare di questa campagna anti-vaccino. Il C.D.C. ha ripetutamente escluso la possibilità che le vaccinazioni conducano all’autismo, così come molti scienziati e riviste specializzate. Tuttavia, la falsa narrativa si è moltiplicata, diffusa dai troll e dai media russi.
Inoltre, la disinformazione ha cercato di implicare il C.D.C. in un insabbiamento. Per anni, i tweet originari di San Pietroburgo hanno affermato che l’agenzia sanitaria ha messo a museruola un informatore per nascondere le prove che i vaccini causano l’autismo, specialmente nei neonati afroamericani. Gli esperti medici hanno respinto l’accusa, ma ha riverberato.
In una serie di tweet del 2015, i troll russi hanno promosso un video di un ministro nero a Los Angeles per una manifestazione. “Non ci stanno solo sparando con le pistole”, ha detto al pubblico. “Ci stanno uccidendo con gli aghi”. Il ministro e il testo di accompagnamento nel video affermarono che le vaccinazioni infantili avevano causato l’autismo in 200.000 bambini neri.
RT America ha fatto eco alla carica. Si è concentrato su “Vaxxed: From Cover-Up to Catastrophe”, un film del 2016 di Andrew Wakefield, un attivista anti-vaccino screditato. Quando il film è stato estratto dal Tribeca Film Festival dopo una protesta pubblica, la rete ha trasmesso un’intervista con i suoi creatori. “Possiamo fidarci del C.D.C. sui vaccini? ” ha chiesto una spina per lo spettacolo.
I troll russi hanno lanciato tweet contenenti collegamenti al film e un sito di raccolta fondi per la sua promozione. Uno ha affermato che i tassi di autismo stavano per salire alle stelle con vaccinazione “1 su 2”.
Il blitz di disinformazione di Putin è coinciso con un calo dei tassi di vaccinazione tra i bambini negli Stati Uniti e un aumento del morbillo, una malattia considerata una volta vinta. Il virus, specialmente nei neonati e nei bambini piccoli, può causare febbre e danni al cervello. L’anno scorso, secondo il C.D.C., gli Stati Uniti hanno avuto 1.282 nuovi casi, un record negli ultimi decenni; di questi, 128 hanno coinvolto ricoveri ospedalieri e 61 hanno comportato gravi complicazioni come la polmonite e l’encefalite.
La nuova minaccia
Il sito di Mosca che ha retwittato il blog di coronavirus a febbraio appartiene a un punto di riferimento russo chiamato The Russophile. È provocatoriamente audace. Il ritratto dell’autore sulla sua pagina Twitter mostra un soldato non identificabile in abiti verdi con in mano un gatto soriano arancione. L’immagine di sfondo è un mosaico del Cremlino colorato. Il sito si definisce un “feed di notizie dai media gratuiti (= non di proprietà dell’élite globalista)”.
Nella pagina Informazioni sul sito, sotto il titolo “Alcune ragioni in più per la nostra esistenza”, c’è una citazione attribuita al presidente Abraham Lincoln: “Puoi ingannare alcune persone tutto il tempo e tutte le persone qualche volta, ma non puoi ingannare tutte le persone tutto il tempo. ”
Il sito web elenca il nome del suo proprietario come OOOKremlinTrolls e il suo indirizzo come un imponente edificio accanto agli uffici di Lukoil, un gigante petrolifero russo legato alle campagne digitali di Cambridge Analytica per influenzare gli elettori americani. “È una bella parte della città”, ha detto Darren L. Linvill, un esperto della Clemson University che ha scoperto i retweet, del discorso di Russophile.
Il sito incarna la complicata natura della nuova minaccia, parti delle quali si sono evolute per diventare più aperte, mentre altre sono diventate più furtive. “È una nuvola di influencer russi”, ha detto il dottor Linvill, un professore di comunicazione che ha studiato milioni di post di troll. I giocatori, ha detto, probabilmente includono attori statali, agenti dell’intelligence, ex membri dello staff di RT e le squadre digitali di Yevgeny Prigozhin, un oligarca segreto e fiducioso di Putin che ha finanziato la fattoria dei troll di San Pietroburgo.
Il nuovo marchio di disinformazione è più sottile del vecchio. Il dottor Linvill e il suo collega Patrick L. Warren hanno sostenuto che la nuova metodologia del signor Putin non cerca di creare che curare, di ritwittare e amplificare l’attuale cacofonia americana, aumentando il livello di confusione e discordia dei partigiani.
Gran parte della disinformazione, come il sito di Russophile, è nascosta in bella vista. Ma altri elementi racchiudono una nuova raffinatezza che rende sempre più difficile per le aziende tecnologiche scovare le interferenze della Russia o di qualsiasi altro paese. Gli esperti affermano che i troll russi potrebbero persino pagare gli americani per pubblicare disinformazione per loro conto, per nascondere meglio le loro impronte digitali.
Il 5 marzo, Lea Gabrielle, capo del Global Engagement Center del Dipartimento di Stato, che cerca di identificare e combattere la disinformazione, ha dichiarato all’udienza del Senato che Mosca si era lanciata sull’epidemia di coronavirus come una nuova opportunità per seminare caos e divisione – per “trarre vantaggio di una crisi sanitaria in cui le persone sono terrorizzate “.
“L’intero ecosistema della disinformazione russa è stato coinvolto”, ha riferito. Gli analisti e i partner del suo centro, ha aggiunto Gabrielle, hanno scoperto che “siti web di procuratori statali russi, media statali ufficiali, nonché sciami di falsi personaggi online che pubblicano false narrazioni”.
RT America ha respinto le accuse del dipartimento, che sono state fatte per la prima volta a febbraio, come “vagamente dettagliate”. Nella sua testimonianza di marzo, la signora Gabrielle ha affermato che il suo centro aveva intenzionalmente reso pubblici alcuni dettagli ed esempi della disinformazione, in modo che gli avversari non potessero decifrare “il nostro mestiere”, presumibilmente nel tentativo di contrastare le contromisure.
Tass, l’agenzia di stampa russa, ha riferito che il ministero degli Esteri ha fermamente respinto l’accusa del Dipartimento di Stato. Questa risposta fa eco a una regola di ferro di disinformazione. Come Oleg Kalugin, un ex K.G.B. generale, inseriscilo in una video intervista con The Times: “Nega, nega, nega – anche se la verità è ovvia”.
Pechino sembra ora prendere in prestito dal libro di gioco del signor Putin, almeno nelle prime bozze. Recentemente ha dichiarato che il coronavirus è stato ideato da Washington come un’arma di design destinata a paralizzare la Cina.
Putin ha diffuso racconti falsi e allarmanti sulla salute non solo di agenti patogeni e vaccini, ma anche di onde radio, geni di bioingegneria, prodotti chimici industriali e altri intangibili della vita moderna. Gli argomenti intricati spesso sfidano la comprensione del pubblico, rendendoli candidati ideali per seminare confusione su ciò che è sicuro e pericoloso.
Gli analisti vedono uno sforzo non solo per minare i funzionari americani ma anche per realizzare qualcosa di più basilare: danneggiare la scienza americana, una base della prosperità nazionale. I ricercatori americani hanno vinto oltre 100 premi Nobel dal 2000 e cinque russi. Geograficamente, la Russia è il paese più grande del mondo, ma la sua economia è più piccola di quella italiana.
Comw afferma il dottor Quinn dell’Università del Maryland, i salvos del signor Putin prendono di mira “le istituzioni su cui facciamo affidamento per comprendere la verità”.
FONTE: http://www.conflittiestrategie.it/la-lunga-guerra-di-putin-contro-la-scienza-americana-traduzione-di-svetlana-wilke
CULTURA
PENTIMENTO E PERDONO, “LA FRAGILITÀ DEL MALE” DI DIETRICH BONHOEFFER
“Chi ama non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto,” si legge nella Prima lettera ai Corinzi (13:5), e Dietrich Bonhoeffer, ne “La fragilità del male”, prende spunto da questo passo per osservare che, mentre la giustizia sembra illuminarci la strada “determinando il bene e il male, l’amore al contrario è cieco, consapevolmente cieco. Vede il male, ma non ne tiene conto: perdona. Soltanto l’amore può farlo. Dimentica. Non serba rancore”. Questo costituisce a suo avviso, e certo non solo per lui, un punto centrale per il Cristianesimo: “Se solo comprendessimo questo concetto: l’amore non serba rancore. Ogni giorno è un giorno nuovo che affronta con rinnovato sentimento, dimenticando il passato. Per questo motivo gli uomini si fanno beffe di lui, lo scherniscono. E nonostante questo continua ad accrescersi sempre di più”. Gesù dice anche a Pietro di perdonare non “fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette” (Matteo, 18: 21-22) e ciò perché “perdonare e scusare non sono azioni che si contano o che hanno un limite. Non preoccuparti se hai ragione oppure no. Spetta a Dio decidere. Tu puoi farlo senza fine, perché il perdono non ha inizio e non ha termine. Si verifica quotidianamente e di continuo, perché proviene dal Signore. È la liberazione da ogni ostilità nei confronti del prossimo, perché così siamo liberati da noi stessi. Dobbiamo rinunciare al nostro proprio diritto per aiutare e servire l’altro”.
Per Bonhoeffer, dunque, “mediante la confessione e il perdono di Dio tutto il mio essere diventa santo, risanato e rinnovato” e il perdono può guarire i peccati. Come per Lev Tolstoj – che aveva incentrato il proprio cristianesimo nel Discorso della montagna, dove Gesù esorta a non opporre resistenza al male (Matteo, 5: 39) – l’amore per il nemico costituisce anche per Bonhoeffer il cuore del messaggio cristiano. Esso costituisce tuttavia anche “uno scandalo insopportabile” per l’essere umano, per l’uomo naturale: è “qualcosa di superiore alle sue forze”, perché “si oppone al suo concetto di bene e di male”. Se circa un secolo prima già Søren Kierkegaard aveva sottolineato l’aspetto scandaloso del Cristianesimo, anche Bonhoeffer pensa che risulti molto più semplice e comprensibile per l’uomo ciò che risulta un peccato contro la legge di Dio di quanto non lo sia la lieta novella. Per Bonhoeffer Gesù “prende nelle sue mani la legge di Dio e la interpreta: “La vittoria sul nemico per mezzo dell’amore è la volontà del Creatore espressa nella sua parola”. L’amore infatti “non deve chiedersi se viene ricambiato, ma cercare chi ne ha bisogno, chi ne è completamente privo, cioè chi vive nell’odio. Chi ne è più degno del mio nemico? Dove viene esaltato questo sentimento, se non in mezzo ai rivali?”. Certo, coltivare del rancore è incompatibile con una visione autenticamente cristiana dei rapporti tra i figli dello stesso Padre. Ma se l’essenza di Dio è proprio un amore incondizionato e gratuito verso i suoi figli – pura grazia, come ha anche ribadito Papa Francesco nell’omelia della Messa di Natale – bisogna dedurne che sia “indifferente nei confronti della giustizia e dell’ingiustizia?” Secondo Bonhoeffer no, perché “non si rallegra dell’iniquità, ma si compiace della verità. Vuole vedere le cose come sono realmente. Preferisce affrontare direttamente la menzogna, piuttosto che mascherarsi con una gentilezza che in realtà nasconde l’astio e lo rende ancora più profondo. L’amore vuole stabilire rapporti chiari e non nascondere nulla. Si rallegra della verità perché soltanto in essa può rinnovarsi e operare”.
Ma allora, se il cristiano non è indifferente nei confronti della giustizia e dell’ingiustizia, come può perdonare chi compie deliberatamente il male nel momento stesso in cui lo compie, e perdonarlo anche senza pentimento? In Sequela, Bonhoeffer afferma chiaramente che “chi accetta questa dottrina, vede cancellati per poco prezzo anche i peccati di cui non si pente e dai quali non desidera distaccarsi. Ma così, grazia a buon prezzo è perdono e sacramento sprecato; è rinnegamento di Cristo, della sua opera di salvezza, della sua croce. (…) Grazia a buon prezzo è annunzio del perdono senza pentimento, è battesimo senza disciplina di comunità, è Santa Cena senza confessione dei peccati, è assoluzione senza confessione personale. Grazia a buon prezzo è grazia senza che si segua Cristo, grazia senza croce, grazia senza il Cristo vivente, incarnato”. Del resto, nel Vangelo di Luca si può leggere a chiare lettere: “Se tuo fratello pecca, riprendilo; e se si ravvede perdonalo. Se ha peccato contro di te sette volte al giorno, e sette volte torna da te e ti dice: ‘Mi pento’, perdonalo” (Luca, 17: 3-4). Vi si raccomanda quindi di perdonare colui che si pente, ma non di accordare comunque, indipendentemente dal pentimento, il proprio perdono; e lo stesso Bonhoeffer ricorda come sia opera di falso profeta dire che la pace è ristabilita quando non è ancora. Questa convinzione trova conferma anche in Isaia 26:10, dove è scritto “se si fa grazia all’empio, egli non impara la giustizia”. Alla luce di questi passi, risulterebbe quindi che il perdono abbia senso solo in presenza del pentimento. Come dice Paul Wells, riceviamo il perdono solo quando riconosciamo il nostro peccato, quando è confessato apertamente davanti a lui e davanti a coloro che abbiamo offeso. A coloro che vorrebbero accordare il perdono senza pentimento, Wells chiede: “Siamo noi più santi di Dio? Il nostro pentimento è necessario per il suo perdono; quello del nostro offensore non lo è di meno per il nostro!”! (Paul Wells, Certitudes N. 195, 2000, pagina 26).
Ma esiste anche, nell’ambito del Cristianesimo, un altro modo di concepire il rapporto tra grazia e peccato, che fa riferimento ad altri passi del Vangelo. Per esempio, in Matteo 5:44 si può trovare la nota esortazione cruciale: “Amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano”, e poi, soprattutto, non bisogna dimenticare le parole di Cristo sulla Croce “Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno” (Luca, 23:34). Non sapendo quello che fanno, non possono pentirsi, e dunque questo sembrerebbe contrastare con la tesi che ritiene il pentimento necessario, sebbene, naturalmente, quest’ultima tesi possa risultare di nuovo verosimile non appena sussista qualche forma di coscienza del proprio errore morale. Secondo questa interpretazione dell’annuncio cristiano il perdono è gratuito: non richiede il pentimento, ma prima ancora può indurlo. Il senso della parabola del figliol prodigo sembrerebbe rafforzare questa tesi: il padre è felice del ritorno del figlio, indipendentemente dalla sua richiesta di perdono. Lo abbraccia e lo bacia prima ancora di sentire la sua voce. Secondo quest’interpretazione, dunque, prima ancora che il peccatore si sia pentito. Come si legge in San Paolo, (Romani, 5:8) “Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi”, lasciando intendere che sono la misericordia divina e la grazia che provocano il pentimento, e non il contrario. Ma insieme a “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno”, nello stesso Vangelo di Luca l’episodio del buon ladrone (Luca, 23:39) ci dimostra con evidenza che tra i due ladroni si salva e va in Paradiso solo quello che riconosce il Signore come Messia, si pente dei suoi peccati e gli dice: “Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno”; e Gesù gli risponde: “In verità ti dico, oggi sarai con me in Paradiso”. Sebbene infatti sia vero che la disponibilità al perdono preceda e susciti il pentimento, e che non sia solo conseguenza del pentimento, questo non significa che il perdono di Dio sia senza misura e senza condizioni. Ciò che è senza condizioni è solo la disponibilità al perdono, è cioè la “grazia sufficiente” – come avrebbero potuto esprimersi i molinisti – che però diventa “efficiente” ed effettiva solo in presenza del pentimento e del desiderio di perdono.
Se dal punto di vista umano il male sussiste, non opporgli resistenza quando possibile, sia dentro la nostra coscienza che nella vita reale fuori di noi, significherebbe assecondarlo. Non cercare d’impedire, anche usando la forza, o comunque nei modi che si è in grado di usare, che qualcuno usi violenza verso un’altra persona significa di fatto assecondare quel comportamento violento. Chi non oppone resistenza al male, anche se lo facesse confidando nell’intervento di Dio, sarebbe di fatto un complice del male, un coautore del male. Si può non opporre resistenza nel senso di una violenza contrapposta a quella dell’offensore, come Gandhi ritenne giusto seguendo Tolstoj, e solo se si è disposti a subire in prima persona questa violenza, ma si deve comunque opporre una resistenza morale, anche se “passiva” sotto il profilo fisico. Dal limitato punto di vista umano esiste il male, ed esiste anche, in maniera non meno oggettiva, l’imperativo morale di opporsi al male, anche per il tolstojano Gandhi. Nessun essere umano può collocarsi nella prospettiva di Dio, dalla quale non si deve opporre resistenza al male semplicemente perché non avrebbe senso, dato che tutto quanto accade è comunque da ricondursi alla libertà e all’onnipotenza stessa di Dio. L’umanità ha invece il dovere di opporsi e resistere al male, o perlomeno a quello che risulta tale per la coscienza di ogni singolo individuo. Il non farlo, implicherebbe l’auto-collocazione di quell’individuo al posto di Dio e costituirebbe una superba forma di Ubris. Chi non oppone resistenza al male, pur essendo in condizione di farlo, diviene infatti coautore di quel male cui non oppone resistenza in nome di un’assenza di giudizio che è prerogativa di Dio, dello scenario olistico in cui opera il suo giudizio.
Chi invece non giudica pur opponendosi al male, chi avverte distintamente l’innocenza di ogni essere umano ed è per questo pronto a perdonare chiunque sia animato da un sincero e consapevole pentimento, costui è in armonia con Dio senza pensare di poter prendere il suo posto, senza pensare di poter adottare la sua prospettiva. La gratuità del suo perdono non sarebbe possibile se questo procedesse dal ritenere di potersi collocare nella prospettiva di Dio e implicherebbe l’assecondare il danno recato all’offeso nello stesso istante in cui questi lo subisce. “Non opporre resistenza al male” non può dunque significare questo per alcun cristiano, dato che la mancata resistenza morale al male, e talora anche fisica, (Gandhi condivise la decisione che l’India combattesse a fianco della Gran Bretagna contro Adolf Hitler, così come Bonhoeffer si adoperò per cercare di fermare Hitler) non può essere rigorosamente distinta da una deliberata complicità col male. In realtà, infatti, anche il perdono gratuito del padre verso il figliuol prodigo avviene al ritorno del figlio, che costituisce ai suoi occhi un’apertura alla Grazia del perdono, e ha senso solo di fronte a questa possibilità, ovvero quando la Grazia ha già iniziato a toccare il cuore ed è iniziato il percorso di ravvedimento: solo in questo caso l’azione anticipatrice del perdono rende entrambi partecipi, l’offensore e l’offeso, dell’azione della Grazia. In caso contrario, la non resistenza al male sarebbe anzi il contrario dell’effetto della Grazia: sarebbe una farisaica complicità col male, un compiere il male senza assumersene nemmeno la responsabilità. Solo chi oppone resistenza al male pur perdonando coloro che lo fanno in base all’unica ragione plausibile – e cioè, come attesta la supplica di Cristo sulla Croce, saldando in via definitiva Cristianesimo e platonismo, perché non sanno quello che fanno – solo questo individuo lavora per un perdono autentico e non avanza la pretesa di sostituirsi a Dio. Se può trarre da Dio la coscienza dell’innocenza del peccatore, suo fratello tanto nella Grazia come nel peccato, questo non lo autorizza infatti a dimenticarsi dei suoi doveri umani, che gli impongono di opporre resistenza al male per non compiere a sua volta il male, di fermare la mano omicida esercitando se necessario a sua volta violenza. Solo chi, pur rimanendo nella disposizione d’animo del perdono, si oppone al male, gli resiste nel modo di volta in volta più idoneo per farlo desistere, non rinnega per Bonhoeffer Cristo e la sua croce.
La “non resistenza al male” significa dunque, da parte dell’offeso, conservare sempre nel cuore l’apertura e la disponibilità al perdono per assecondare l’azione della Grazia nell’offensore tramite il suo ravvedimento, significa assecondare nella propria anima tale azione così come chi ha compiuto l’offesa l’asseconda nel suo. Come scrive il cardinale Walter Kasper, presidente emerito del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, “il pentimento, la preghiera per ottenere la grazia e il desiderio di perdono, sono già un’opera di Dio in noi, una mossa suscitata dall’attrattiva della grazia”, ed è in effetti difficile concepire qualsiasi perdono senza questa attrattiva che si manifesta all’unisono col desiderio di perdono. Certo, opporre resistenza al male non è rendere occhio per occhio e dente per dente e non opporsi al malvagio significa davvero che se uno ti percuote la guancia destra bisogna porgergli la sinistra. Ma quest’esortazione contenuta nel Discorso della montagna costituisce il fondo, il riferimento essenziale ed ellittico, e dunque anche scandaloso e paradossale, e per questo prezioso, del Cristianesimo per quanto concerne il rapporto che ciascuno può avere con se stesso. Questo riferimento ultimo e decisivo, così come l’amare i propri nemici e pregare per i propri persecutori, sapendo che il Padre celeste “fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti”, non esime tuttavia gli uomini dal cercare di essere giusti piuttosto che ingiusti, buoni piuttosto che malvagi, o dal cercare di coadiuvare l’azione dei primi piuttosto che quella dei secondi. E questo significa anche essere sempre e sinceramente aperti al perdono ogni volta che nell’altro si fa luce la Grazia silenziosa che dischiude al perdono.
Dietrich Bonhoeffer, “La fragilità del male”, Edizioni Piemme
FONTE: http://opinione.it/cultura/2021/01/07/gustavo-micheletti_pentimento-perdono-bonhoeffer-fragilit%C3%A0-male-ges%C3%B9-vangelo-tolstoj-hitler-dio/
I CAPELLI BIONDI NELLA GRECIA ANTICA
1 11 2020
Apollo di Fidia. Particolare. Museo del Louvre, Parigi.
E’ stato Reche a osservare che mai i Greci avrebbero adoprato la parola “arcobaleno” (iris) per designare l’iride della pupilla (come i Tedeschi: Regenbogenhaut = iride) se avessero avuto occhi scuri. Solo un popolo con occhi azzurri, o grigi, o verdi può chiamare l’occhio “arcobaleno”: il primo ceppo degli Elleni apparteneva perciò alla razza nordica.
Frequenti nelle fonti greche sono gli aggettivi xanthòs e xoutòs“biondo”, pyrrhòs “fulvo” e chrysoeidés “aureo”, riferiti ai capelli di uomini o Dei, aggettivi che corrispondono perfettamente al latino flavus, fulvus e auricomus. Diffuse anche espressioni come chrysokàrenos “testa bionda”, o chrysokóme “chioma d’oro”. Lo stesso progenitore degli Ioni e degli Achei sarebbe stato Xoutòs, “il biondo”, fratello di Doro e figlio di Elleno, mitico capostipite della stirpe greca. Che xanthòs significhi veramente “biondo” è rilevabile da Pindaro che chiama xanthos il leone, Bacchilide il colore del grano maturo (III, 56) mentre Platone nel Timeo (68 b) ci spiega che xanthòs(il giallo) si ottiene mescolando “lo splendente col rosso e col bianco” e Aristotele (Dei colori, I, I) afferma che il fuoco e il sole van detti xanthòs.
Che i bambini dei Germani ai Greci già snordizzati apparissero “canuti” non sorprenderà se si tiene presente quel biondo platino quasi bianco di cui sono spesso i capelli dei bambini di pura razza nordica. Il significato di xanthòs come “biondo” ci è dato da qualunque dizionario greco. Come è stato spesso notato, gli eroi e gli dei d’Omero sono biondi: Achille, modello dell’eroe acheo, è biondo come Sigfrido, biondi sono detti Menelao, Radamante, Briseide, Meleagro, Agamede, Ermione. Elena, per cui si combatte a Troia, è bionda, e bionda è Penelope nell’Odissea. Peisandro, commentando un passo dell’Iliade (IV, 147), descrive Menelao xanthokòmes, mégas én glaukòmmatos “biondo, alto e con gli occhi azzurri”.
Karl Jax ha osservato che tra le dee e le eroine d’Omero non ce n’è una che abbia i capelli neri. Odisseo è l’unico eroe omerico bruno, ma l’abitudine a ritrarre gli eroi biondi è così forte che in due passi dell’Odissea (Xlll, 397, 431) anche lui è detto xanthòs. E, d’altronde, Odisseo si differenzia anche per i suoi caratteri psicologici, segnatamente per la sua astuzia: Gobineau vedeva in lui l’eroe “nella cui genealogia il sangue dei guerrieri achei si è fuso con quello di madri cananee”. In genere però, il disprezzo dei Greci d’epoca omerica per il tipo levantino, è scolpita dal loro disprezzo per i Fenici, bollati come “uomìni subdoli”, “arciimbroglioni” (Iliade XIX, 288).
Tra gli dei omerici, Afrodite è bionda, come pure Demetra. Atena è, per eccellenza, “l’occhicerulea Atena”. Il termine adoperato è glaukopis, che certo è in relazione anche col simbolismo della civetta, sacra alla dea (glaux = civetta: occhi scintillanti, occhi di civetta), ma che in senso antropomorfico vale “occhicerulea”: Aulo Gellio (Il, 26, 17) spiega glaucum con “grigio-azzurro” e traduce glaukopis con caesia “die Himmelbluaugige“. Pindaro completa il ritratto omerico della dea chiamandola glaukopis e xanthà. Apollo è phoibos “luminoso, raggiante” e anche xoutòs. Era, sposa di Zeus e modello della matrona ellenica, è leukòlenos, “la dea dalle bianche braccia”, tipico tratto della bellezza femminile della razza nordica.
Bianche braccia, piedi d’argento, dita rosate, e altri caratteristici aggettivi che rimandano a un colorito chiaro, sono frequenti nei poemi omerici. Anche Esiodo ci parla d’eroi e di dei biondi: biondo è Dioniso, bionda Arianna, bionda Iolea. La connessione dei canoni estetici d’età arcaica con l’ideale nordico si ricava anche dall’importanza attribuita all’altezza: kalos kai mégas sono due aggettivi che van sempre insieme. Nella descrizione di Nausicaa e di Telemaco nell’Odissea, si sente che l’alta statura è quasi sinonimo di nobile nascita. E’ lo stesso modo di sentire del nostro Medioevo, che ha dipinto tutte le donne bionde e che poneva come condizione della loro bellezza la grandezza della persona (“grande, bianca e fina”), anch’esso per l’influenza d’una aristocrazia d’origine nordica, germanica. In epoca classica, nomi come Leukéia, Leukothea, Leukos, Seleukos (da leukòs “Bianco”) alludono al colorito chiaro, così come Phrynos e Phryne a pelli bianche e delicate, come anche i nomi Miltos, Miltìades, e Milto. Galatéia (da gàla-gàlaktos =latte) è “quella dalla pelle di latte”. Rhodope e Rhodopìs quelle dalla “pelle di rosa”. Non rari i nomi Xanthòs, Xuthìas, Xanthà, come anche Phyrros “fulvo” (da pur = fuoco) e Pyrrha sposa di Deucalione e mitica progenitrice del genere umano.
Verosimilmente le stirpi doriche, ultime venute dal settentrione, e in particolare gli Spartiati, rigorosamente separati dal popolo, dovettero serbare a lungo caratteri nordìci. Ancora nel V secolo, Bacchilide loda le “bionde fanciulle della Laconia”; due secoli prima Alcmane, nel famoso frammento (54) aveva cantato la fanciulla spartana Agesicora “col capo d’oro fino e dal volto d’argento”. Anche le abitudini sportive delle Spartane, il loro costume di fare ginnastica insieme con gli uomini, ci parlano d’una femminilità acerba e atletica che meglio s’immagina in fanciulle di razza nordica che in quelle di razza mediterranea. Eustazio, (IV, 141) vescovo di Salonicco, commentando un passo dell’Iliade, ricordava come la biondezza avesse fatto parte dell’essere spartano. La cosiddetta “fossa dei Lacedemoni” ci ha restituito gli scheletri di 13 Spartani appartenenti alla guarnigione messa in Atene alla fine della guerra del Peloponneso: tre sono quelli di uomini molto alti (1,85; 1,83; 1,78), gli altri di statura superiore alla media, il più piccolo misura 1,60. Breitinger, che ha studiato questi resti scheletrici, rinviene in essi, “almeno una forte impronta nordica”. Ricorderemo che Senofonte segnalava l’alta statura dei Spartani.
Anche le stirpi ioniche, nonostante risiedessero da più tempo sulle rive del Mediterraneo – fatto che aveva condotto a una notevole mescolanza dell’elemento nordico con quello occidentale-mediterraneo – dovettero serbare, specie nell’aristocrazia, un certo ideale nordico. Nel cimitero del Dypilon, in età geometrica, si nota un incremento di brachicefali centroeuropei a spese dei dolicocefali mediterranei. Non si dimentichi che il geometrico nasce in Attica, esattamente come il gotico nasce in Francia, e così come sarebbe incauto affermare che la Francia non sia stata germanizzata solo perché la lingua è rimasta latina, così sarebbe azzardato sostenere che la migrazione dorica non abbia penetrato l’Attica. Nel VII secolo Solone ci parla d’un Crizia – antenato di Platone – coi capelli biondi, xantothrix, e Platone stesso nel Liside e nella Repubblica ci parla della biondezza come qualcosa di non particolarmente raro. I tragici d’età classica, e particolarmente Euripide, ci mostrano una quantità d’eroi e d’eroine bionde. Nelle Coefore di Eschilo (v. 176, 183, 205) la bionda Elettra rinviene un capello biondo presso il sepolcro del padre, e, poco più in là, ravvisa un’orma del piede particolarmente grande e ne deduce che debba trattarsi di suo fratello. Ridgeway per primo suppose che la saga d’Elettra serbasse un’eco della contrapposizione d’una aristocrazia nordica molto più alta delle plebi mediterranee . Nell’Elettra di Euripide (v. 505 e sgg.) apprendiamo che la biondezza è caratteristica degli Atridi, e nell’Ifigenia in Tauride Ifigenia (52/53) ricorda il padre Agamennone “col crine biondo ondeggiante sul capo”. Lo stesso Euripide ci mostra biondi Eracle, Medea, Armonìa.
Il Sieglin ha notato che nei livelli dell’Acropoli inferiori alla distruzione persiana si trovano costantemente statue con capelli dipinti d’ocra gialla o rossa e occhi in verde pallido: è noto il famoso “efebo biondo”. In genere, in tutta l’epoca classica, si mantenne l’usanza di dipingere di biondo i capelli delle statue: Filostrato, nel suo libro sulla pittura (Eikones), scrive che “la pittura dipinge un occhio grigio, l’altro azzurro o nero, i capelli gialli, o rossi, o fulvi”.
Anche la grande Athena Parthenos che sorgeva accanto al Partenone era bionda, ed è stato osservato che l’arte crisoelefantina sorge per ritrarre un’umanità fondamentalmente chiara. Il tipo ritratto dalla plastica ellenica è essenzialmente nordico: “Nelle figure maschili, la grandezza d’animo (megalopsychìa) d’un tipo umano superiore e capace d’una contemplatività spassionata, in quelle femminili il nobile ritegno, l’acerba e pudica ritrosia d’un’anima nobile di razza nordica”. Anche le statuette di Tanagra, analizzate dal Sieglin, si rivelano bionde al 90%, il che non ci sorprenderà gran ché se Eraclido Critico ancora nel III secolo scriveva delle donne della beotica Tebe: “Sono per la grandezza dei corpi, l’andatura e i movimenti, le donne più perfette dell’Ellade. Hanno capelli biondi che portano annodati sul capo” (Bios Hellados, 1, 19).
Una particolare biondezza delle tebane non meraviglia se si considera la penetrazione tracia nell’area eolica, successiva alla migrazione dorica e connessa all’introduzione della cavalleria, le cui tracce linguistiche si avvertono anche oltre l’Adriatico, tra gli Iapigi. Teodorida di Siracusa (Antologia Palatina, VII, 528 e) ci descrive le fanciulle della beotica Larissa che si tagliano le bionde chiome per la morte d’una concittadina. Anche la colonizzazione eolica avrà diffuso caratteri nordici se si pensa che Saffo chiama la figlia Cleide chryseos (frammento 82). La stessa Saffo è chiamata da Alceo (framm. 63) ioplokos, “col crine di viola”, che viene comunemente tradotto “bruna”. In realtà, come ha mostrato il Sieglin, prima del IV secolo, epoca che segna il disseccamento dell’Ellade e la scomparsa dei boschi, in Grecia esisteva solo la specie gialla della viola (viola biflora), quella stessa che oggi cresce in Baviera e in Tirolo. Ióplokos va tradotto perciò con “bionda”: che Saffo fosse “piccola e nera” (mikrà kai mélaina) è una tarda leggenda.
Che anche la grecità di Sicilia avesse con sé caratteri nordici potrebbero suggerirlo quelle fonti che ci descrivono Dionigi, tiranno di Siracusa, biondo e con le lentiggini. In genere, la menzione di tanti biondi tra le figure d’un certo rango, convalida l’idea del Sieglin che blond galt als vornehm. In genere, nel V secolo la biondezza doveva esser ancora sentita come qualcosa di tipico per il vero elleno se Pindaro, nella nona Ode Nemea (v. 17), rivolto agli Argivi presenti, celebra i “biondi Danai”. D’altronde. ancora Callimaco (Inni V, 4), due secoli dopo, poteva esortare le donne di Argo: “affrettatevi, affrettatevi o bionde pelasghe!”. Bacchilide, nell’ode a un vincitore degli stessi giochi nemei, loda i mortali, uomini dell’Ellade tutta, che “con la triennale corona velano le teste bionde”. Lo stesso Bacchilide, in un frammento (V, 37 e sgg.), menziona dei “biondi vincitori” xanthotricha nikasanta.
La grande arte classica, che data da questo secolo, ha ritratto quel tipo alto, con tratti fini e regolari, che è proprio della razza nordica, e quale oggi si può trovare compattamente solo in alcune regioni contadine della Svezia. Anche la razza mediterranea ha tratti regolari, ma è di piccola statura, e quell’impronta più fiera, quel modellato più energico del naso e del mento che fanno la fisionomia classica, sono da ricondursi alla razza nordica: “Ancora Aristotele scrive nella sua Etica Nicomachea che per la bellezza si richiede un corpo grande, di un corpo piccolo sì può dire che sia grazioso e ben fatto ma non propriamente bello. Questo corpo piccolo e grazioso è essenzialmente quello mediterraneo, come appare a uomini di sentire nordico. Per la sensibilità nordica il contenuto fisico e spirituale della razza mediterranea non è sufficiente ad attingere la vera ‘bellezza’, perché qui per la bellezza si richiede una certa gravità interiore, una grandezza d’animo che dai Greci di sensibilità nordica fu sintetizzata nel concetto della megalopsychìa… La figura mediterranea agli occhi dell’uomo nordico apparirà sempre troppo leggera e troppo inconsistente perché i suoi tratti fisici siano ammirati come “belli”.
Nordiche sono la metriótes, la misurata dignità, la enkrateia, la padronanza di sé, la sofrosyne, la coscienziosa ragionevolezza, in cui lo spirito greco ravvisò la sua essenza profonda. L’apollineo e il dionisiaco, questi due poli della civiltà ellenica esplorati da Nietzsche, altro non sono che l’anima nordica delle élites indoeuropee e la sensibilità spumeggiante delle plebi mediterranee.
Dionisiaco è l’entusiastico, lo spumeggiante, il piacere chiassoso e l’indomita ferocia dell’antico Mediterraneo; apollineo il tono sublime, la saggia ponderazione, la pronta decisione del Nord. Ma è proprio nel V secolo, estremo equilibrio dello spirito greco, che la bilancia s’inclina. La crisi delle aristocrazie maturava già da almeno un secolo e Teognide – che in un frammento ricorda la sua gioventù, quando “i biondi riccioli gli cadevan dal capo” – aveva già maledetto la mescolanza del sangue, rovina delle antiche schiatte. Il ceto dirigente ateniese andava incontro alla snordizzazione per l’afflusso di sangue meteco, plebeo, levantino. La conseguenza ne era il volgersi dei migliori ateniesi al modello spartano. Senofonte addirittura si trasferì a Sparta. Platone laconeggiava nella sua Repubblica, dove l’élite dei capi è educata come gli Spartiati, e dove il nuovo stato poggia sull’eugenetica (unire i migliori ai migliori, sopprimere i minorati, etc.) sì che l’ideale finale si configura come allevamento di fanciulli secondo il modello dell’uomo perfetto, e guida dello Stato da parte di un gruppo scelto per un tale compito.
Ma anche Sparta non superò indenne il conflitto peloponnesiaco, che ferì a morte la sua nobiltà guerriera non meno di quel che la seconda guerra mondiale non abbia logorato quella tedesca. E’ un fatto facilmente constatabile che all’eliminazione del sangue più nobile – e da parte lacedemone era il sangue, preziosissimo, dei nordici Spartiati – abbia considerevolmente contribuito la guerra del Peloponneso. Alla battaglia di Leuttra, gli Spartiati finirono col dissanguarsi completamente, sì che quello spartano poteva rispondere ai soldati tebani entrati in Sparta che chiedevano “Dove sono dunque gli Spartani”: “Non ve ne sono più, se no voi non sareste qui adesso”. Il IV secolo è ancora un’epoca di splendore. Ma c’è nella sua luce qualcosa di più caduco e raffinato che sta come la grazia morbida dell’Hermes di Prassitele alle figure acerbamente eroiche dell’arcaismo e a quelle maturamente solari del secolo V. In esso è l’elemento mediterraneo che torna a parlare. In tutti questi caratteri, è stata giustamente ravvisata la presenza di una specie umana più leggera e più leggiadra.
Di fronte a un’Ellade così fortemente snordizzata, non meraviglia che alla fine del IV secolo l’egemonia sia passata alle regioni periferiche, alla Macedonia. I Macedoni, consanguinei dei Dori, il cui nome dovrebbe significare “gli alti”, dovevano conservare, accanto a una monarchia e a un contadinato patriarcali, l’acerbità nordica delle origini. Alessandro, coi suoi occhi azzurri scintillanti, con la pelle così rosea e delicata che lo si poteva vedere arrossire anche sul petto, è una figura nordica. I Macedoni costituirono l’estrema riserva della grecità, che permise nella fase declinante della sua cultura – di espandere la sua civilizzazione per tutto l’Oriente. Una certa fisionomia nordica dovette conservarsi a lungo nell’aristocrazia macedone. Stratonica, figlia di Demetrio Poliorcete e moglie di Seleuco I, era bionda, biondo era Tolomeo Filadelfo, come pure la sorella Arsinoe, “simile all’aurea Afrodite”. In tutta l’epoca ellenistica, l’ideale femminile continuò ad incentrarsi sulla xanthótes, sulla biondezza. Ce lo ricordano i poeti (Apollonio Rodio, l’Antologia Palatina etc.), il famoso epigramma “Eros ama lo specchio e i biondi capelli”, come pure il fatto che tutte le etere d’alto rango d’epoca ellenistica (Doride, Calliclea, Rodoclea, Lais) erano bionde. La frase… ‘i signori preferiscono le bionde’ vale anche per il mondo maschile delle città ellenistiche.
Wilhelm Sieglin, che si è preso la pena di andare a scovare tutti i passi delle fonti greche dove si parli del colore degli occhi e dei capelli, ha potuto dimostrare che dei 121 personaggi della storia greca di cui gli autori ci descrivono i caratteri fisici, 109 sono biondi, e solo 13 bruni. Lo stesso Sieglin ha raccolto le descrizioni dei personaggi della mitologia: delle divinità, 60 hanno capelli biondi, e solo 35 capelli scuri (di cui 29 numi del mare o degli inferi); degli eroi delle saghe, 140 sono biondi e 18 han capelli neri; dei personaggi poetici, 41 biondi e 8 neri. Da tutto ciò sarebbe eccessivo dedurre che in tutte le epoche della storia greca i biondi siano stati in così schiacciante maggioranza. Certo è però che erano numerosi e, soprattutto, davano il tono alla classe dirigente.
Che un certo ideale nordico contrassegnasse il vero elleno fino ai tempi più tardi, potrebbe confermarlo questa notizia del medico ebreo Adimanto, vissuto all’epoca dell’Impero Romano. Egli scrive (Physiognomikà, 11, 32): “Quegli uomini di stirpe ellenica o ionica che si son conservati puri, sono di statura abbastanza alta, robusti, di corporatura solida e dritta, con pelle chiara e biondi… La testa è di media grandezza, la pelosità corporea inclinante al biondo, fine e delicata, il viso quadrato, gli occhi chiari e lucenti … “. E tuttavia, il romano Manilio ormai ascriveva i Greci alle coloratae gentes. Con la scomparsa della biondezza naturale, erano divenuti di moda i mezzi artificiali di colorazione dei capelli, i xanthìsmata. Il verbo xanthìzestai, “tinger di biondo”, passò ad indicare l’adornarsi, il “farsi belli” per eccellenza.
Ma non eran questi mezzi che potevano arrestare il processo di snordizzazione del mondo ellenico. Il tipo dell’elleno si avviava ormai ad estinguersi. Ad esso succedeva il graeculus, lo schiavo astuto o lo scaltro retore, il trafficante o la guida turistica, segnato dal marchio di quella furbizia levantina che lo fecero sentire dai Romani come “inferiore”.
* * *Fonte: Tratto dal libro Gli Indoeuropei. Origini e migrazioni, Edizioni di Ar, Padova 1978. Tratto dal sito http://scicli.splinder.com/
CHE TRATTI SOMATICI AVEVANO GLI ANTICHI GRECI?
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L‘ideale di bellezza nordico che da sempre permea la nostra società affonda le sue radici in tempi molto antichi e giunge fino ai giorni nostri praticamente inalterato.
Le stesse statue greche create più di 2000 anni fa,che tuttora possiamo ammirare, potrebbero benissimo raffigurare dei modelli nordoidi contemporanei; questo non stupisce dal momento che in tutta la letteratura greca vi sono continui riferimenti alla nordicità come ideale di bellezza massimo. Chiunque abbia letto l’Iliade e l’Odissea si sarà sicuramente accorto, anche senza essersi mai interessato di estetica e tassonomia, dell’incredibile quantità di personaggi dai tratti chiari, nonostante le vicende si svolgano in un’area che noi comunemente associamo al fenotipo mediterraneo.
Gli eroi dell’Iliade e dell’Odissea sono molto spesso biondi (xhantòs). Abbondano epiteti come “aureo” o “dalla chioma dorata”. O ancora “dagli occhi azzurri”, “dal volto argenteo”.
Quando Achille da piccolo viene nascosto dalla madre per proteggerlo (dopo che l’indovino Calcante aveva predetto che la sua partecipazione sarebbe stata indispensabile per la vittoria dei greci a Troia) e fatto passare per bambina ,viene battezzato col nome di Pirra (da pyrrhòs, cioè color fiamma) a causa dei suoi riccioli biondi.
Menelao è “xanthokómes, mégas en glaukómmatos” (biondo, alto e con gli occhi azzurri);bionda e chiara è anche sua moglie Elena (quella per cui scoppia tutta la guerra, non penserete mica che la guerra sia scoppiata per una CO scura?LOL).
Biondi sono Penelope, moglie di Ulisse, e Briseide, la sacerdotessa di Apollo (che diventa schiava di Achille durante la guerra).
Anche gli Dei vengono immaginati tutti come nordici, dalla glaucopide (occhi azzurri) Atena, ad Apollo, Dio della bellezza, a Zefiro “dai capelli dorati”.
Nordici sono Eros, Dioniso, Artemide “la bionda figlia di Zeus”, Afrodite, Teti (la madre di Achille) che ha “i piedi d’argento”, e la lista è lunghissima ma mi fermo perché ormai si è capito dove voglio arrivare.
Adesso lo so che qualcuno si incazzerà, ogni volta che tocco questo argomento è sempre così, ma dovete imparare a farvene una ragione: i Greci raffiguravano i loro Dei ed eroi come nordici semplicemente perché loro stessi erano nordici.
O meglio, nordiche erano quelle popolazioni di origine indoeuropea che, nel 2 millennio A.C., penetrarono da nord attraverso i balcani e si insediarono nell’attuale Grecia, imponendosi come elite dominante sulle popolazioni autoctone e creando quella civiltà che tanta lucentezza ha dato all’umanità.
Da che mondo è mondo i canoni estetici sono quelli dell’elite dominante e all’epoca l’elite dominante era questa. Punto.
E nonostante la popolazione si sia poi nei millenni mescolata e ci siano state successivi invasioni, i Greci moderni rimangono a tutt’oggi
una popolazione geneticamente molto disomogenea, come testimoniano i più recenti risultati genetici.Gli italiani del nord che hanno fatto il test del dna si saranno sicuramente accorti di risultare geneticamente più affini ai tessali e ai greci settentrionali, mentre gli italiani del sud
ai greci del sud e isolani. Differenza genetica che peraltro si manifesta nei tratti somatici e che andremo ad approfondire in un articolo specifico.
Anche gli scavi archeologici supportano quanto sto dicendo. I resti degli spartani trovati nella famosa “fossa dei Lacedemoni” appartenevano prevalentemente a uomini di statura alta anche per i giorni nostri (o comunque medio alti) ed avevano una forte impronta nordica.
Mi fa morire dal ridere il leader di Alba Dorata, un nanetto scuro e tozzo, che fa il suprematista. Vorrei tanto sapere cosa ci azzecca con i Greci antichi uno scarafaggetto del genere che non sarebbe stato in grado di sopravvivere neanche un minuto in battaglia,
anzi non sarebbe stato in grado neanche di tenere in mano lo scudo senza venirne schiacciato.
Mi fanno morire dal ridere anche i siciliani (che sempre greci sono) che dicono di essere normanni perché sono biondi.Tutte balle, tutte cazzate. In Sicilia non c’è una forte impronta genetica normanna, lo abbiamo visto all’articolo sulla Genetica Italiana, i siciliani erano biondi anche duemila anni fa.
Ogni volta c’è sempre qualcuno che si incazza e cerca di dimostrare il contrario (leggi negare l’evidenza) , guarda caso quasi tutti mediterranei che, incazzandosi, mostrano appieno il loro naturale temperamento sanguigno, aggressivo e virulento, e non fanno altro che rendere ancora più evidente quanto la loro indole sia distante dalla compostezza e razionalità degli antichi Greci.
Chi se la prende per queste questioni lo fa solo perché, in fondo, dentro di sè, non si è ancora rassegnato all’amara verità di essere destinato a trascorrere i suoi giorni su questa terra senza avere mai la possibilità di capire cosa si prova ad appartenere alla razza degli Dei.
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Fonte: da il https://www.ilredpillatore.org del 25 agosto 2020
Link: https://www.ilredpillatore.org/2017/08/lideale-di-bellezza-nordico-nellantica.html
ANALISI DEL DNA LO CONFERMANO: I BIONDI ACHEI E MICENEI DELL’ILIADE SONO IMPARENTATI CON STIRPI CAUCASICHE
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Le origini genetiche di Achei e Micenei della Guerra di Troia
Lo scorso ottobre è stato pubblicato uno studio sulla rivista Nature – “Genetic origins of the Minoans and Mycenaeans” di Iosif Lazaridis […] – che fa luce sulle civiltà fiorite a Creta e nella Grecia durante la l’età del bronzo.
Questo studio conferma pienamente la tesi che sostengo nel libro “Quando Troia era solo una città” dove affermo che gli antichi micenei erano imparentati con stirpi di derivazione caucasica, provenienti dalle steppe del nord (popolo Kurgan), mentre i minoici appartenevano a stirpi mediterranee orientali, cioè autoctone.
E questo sottolinea ancora una volta che l’Iliade racconta del passaggio epocale tra due distinti modi di vedere il mondo (dall’antico sistema matrilineare al più recente modello gerarchico e violento, fondato sulla guerra, che comunemente si definisce patriarcato).
Il Genoma di 19 scheletri: studio delle parentele di Minoici e Micenei
L’analisi del Dna effettuato su 19 scheletri antichi dissepolti a Creta, ha permesso di ricostruire le migrazioni delle popolazioni antiche. Lo studio entra nei dettagli della storia greca, tracciando l’albero genealogico degli abitanti dell’Egeo, dall’età del bronzo a quella odierna.
L’articolo lo conferma: il DNA trovato negli scheletri portano alcuni tratti comuni, ma come si legge nelle ultime righe: “…solo il genoma dei Micenei mostra affinità con i popoli delle steppe, a nord del Mar Nero e del Mar Caspio” [Rivista “Le scienze”, “Geni minoici e micenei”, ottobre 2017].
Come si evince dal testo scientifico summenzionato, i reperti studiati vanno dal 3000 a.c. (fine età del Bronzo e inizio età del Ferro) fino al 1050 a.c., epoca in cui si presume fosse stata combattuta la prima guerra del mondo, immortalata nell’Iliade.
Nell’Iliade, i Micenei e Achei sono alti e biondi
In altre parole ciò spigherebbe come mai nell’Iliade solo tre personaggi che appartenevano alla genia Achea (gli invasori) fossero sempre definiti come “biondi”.
Achille era biondo e così la bella Elena e il marito di lei, Menelao. Questo aggettivo, viene ripetuto più e più volte nel poema, il che dimostra come questa caratteristica fisica fosse da ritenersi “strana” o almeno degna di nota. Ciò implica che gli altri personaggi fossero bruni, come la maggioranza della popolazione di quelle terre ancora oggi, tra Grecia e Anatolia.
A Troia un Cavallo… di origine caucasica
Oltre all’aspetto fisico, un altro dato raramente posto in connessione con i dati suddetti, ci conferma che questi invasori provenissero dal Caucaso e dalle steppe russe: il famoso Cavallo di Troia. Nel mio libro ne parlo a pagina 192: “Inoltre non è certo un caso che proprio il cavallo e nessun altro animale possa rappresentare tutto questo processo”.
Perché? La ragione è prima di tutto storica. Come sappiamo, le popolazioni pacifiche dell’antica Europa, che abitavano il bacino del Mediterraneo da millenni, non conoscevano la doma del cavallo.
L’agricoltura era fiorente, così come l’allevamento di animali, soprattutto galline, maiali e pecore. Anche grossi animali selvatici venivano cacciati saltuariamente da squadre addestrate di cacciatori esperti, ma il cavallo nessuno lo aveva mai addomesticato.
Solo i popoli provenienti dal Caucaso, dall’alto Volga e dalle terre gelate del Nord, avevano cominciato a usare questa bestia per sottomettere tutte le altre. Quel primo uomo caucasico che ha pensato di saltare sul dorso di un cavallo ha compiuto un salto quantico per tutta l’umanità, paragonabile millenni dopo, al primo volo dei fratelli Wright.
Da quel momento in poi, il concetto stesso di mobilità verrà cambiato per sempre. Un uomo a cavallo è mille volte più veloce e potente di un uomo a piedi, e di questo fatto dovevano presto accorgersi, con dolore, le ignare popolazioni sud europee.
… E dalle steppe arriva una società patriarcale
I popoli del Nord adoravano un Dio Maschio, dominatore del Cielo e della Terra, violento e crudele, che soggiogava i suoi adoratori con fulmini e saette scagliate dall’alto dei cieli. Queste popolazioni allevavano mandrie enormi di bovini grazie al cavallo, come ancora facevano i cow-boy in America fino al secolo scorso. Erano abituati a razziare tutto ciò che incontravano sul loro cammino. La società era fortemente gerarchica e a capo della tribù vi era sempre un re maschio, forte e crudele. Le donne erano completamente sottomesse, rinchiuse nelle capanne e obbligate a fare figli fino alla morte.
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Da quel momento in avanti, le statue dei condottieri a cavallo, che dominano le piazze di qualsiasi grande città del mondo, la dicono lunga sull’aggressività di queste popolazioni (un esempio per tutti, la statua di Marco Aurelio che domina il Campidoglio a Roma)…
Proseguo la disamina di questo fatto a pag 194 dello stesso libro:
“Nelle steppe russe e nell’alta valle dell’Indo, i cavalli erano numerosi. Si hanno notizie dell’addomesticamento di questo animale, in quelle terre, fin dalle epoche più remote. Sicuramente i cavalli erano presenti anche nelle zone più meridionali d’Europa e ne abbiamo testimonianza nei dipinti rupestri delle grotte di Lascaux in Francia e in altre grotte in Spagna e Italia, però non venivano né allevati né cavalcati.
L’impressione che dovette fare il primo indoeuropeo a cavallo sul suo destriero agli occhi di chi non aveva mai visto un uomo così “gigantesco” potrebbe essere paragonabile solo all’impressione fatta dai primi spagnoli, sbarcati sulle coste americane con enormi galeoni, agli occhi esterrefatti degli Indios. Una cosa da non credere!”
Se l’Iliade venisse letta non come un poema di poesia, ma come un libro di storia, si capirebbero molti enigmi che invece sono rimasti irrisolti fino ad ora. Così si dovrebbe fare con la Bibbia e con gli altri scritti che ci giungono dal lontano passato. Per fortuna mezzi scientifici e analisi accurate ci confermano che gli antichi avevano molta meno fantasia di quanto noi moderni attribuiamo loro. I libri di Storia e anche di Letteratura andrebbero completamente riscritti.
Fonte: srs di Mirella Satamano, da Unoeditori del 13 febbraio 2018
CYBERWAR SPIONAGGIO INFORMAZIONE DISINFORMAZIONE
La manipolazione dei media occidentali: supportano le proteste in Bielorussia, condannano quelle negli USA
Questo articolo non è scritto seguendo lo stile del politicamente corretto che attualmente va molto di moda. Ma il comportamento della maggior parte dei media occidentali è così ridicolo, che non si può non sottolinearlo con forza e decisione.
Lungi da me provare simpatia verso qualsiasi presidente statunitense, è interessante però notare come da ieri sera, l’informazione mediatica occidentale racconta quanto recentemente accaduto negli Stati Uniti, mettendo in atto una strategia comunicativa, che tende palesemente a ridicolizzare i protestanti che hanno manifestato a Washington, davanti e dentro il Congresso.
Tralasciando il fatto che non si comprende come un gruppo di persone non armate possano essere entrate indisturbate nel luogo della maggiore assemblea politica statunitense, circostanza che merita senz’altro una riflessione a parte, ciò che intendo sottolineare in questo articolo è la strategia comunicativa dei media occidentali. In questa circostanza, i manifestanti sono derisi, ridicolizzati, colpevolizzati, il fine della protesta travisato, ci si addentra in un’analisi dei simboli che identificano il loro abbigliamento al fine di strumentalizzare dei concetti e degli stereotipi. Si individua un mandante, il quale è pubblicamente demonizzato e accusato di comportamento antidemocratico. In estrema sintesi: chi protesta è antidemocratico perché non accetta il risultato elettorale, si macchia di crimini e assume atteggiamenti pericolosi per la tutela della democrazia. Da parte dei media, è in atto un martellamento continuo verso l’opinione pubblica occidentale, la quale deve essere ammaestrata.
Ma gli stessi media, con altrettanto squallore, sono anche in grado di supportare le proteste e divinizzare i protestanti. Ma non quando costoro si contrappongono agli “amici” del circo mediatico occidentale. Si procede a una suddivisione in buoni e cattivi. Non si può protestare contro i “buoni”!
Ma se le proteste, invece, sono indirizzate contro il legittimo presidente della Bielorussia, Aleksandr Lukašenko, allora tali manifestazioni sono da supportare con enfasi, ci si mobilita per raccogliere consenso attorno ai protestanti che sono rappresentati come “eroi”, ma anche “vittime” di uno “spietato dittatore”. Le telecamere sono puntate su di loro non per ridicolizzarli, ma per incensarne l’attività. In questo caso, diversamente da quanto accaduto ieri con i manifestanti statunitensi, non si procede ad un’analisi dei simboli utilizzati dai manifestanti stessi, perché in questo caso occorrerebbe spiegare perché utilizzano una bandiera di colore bianco e rosso e non la bandiera bielorussa. Bisognerebbe raccontare cosa rappresenta la bandiera che utilizzano, ma risulterebbe difficile e scomodo, perché occorrerebbe scavare nella storia che coinvolge più di un paese (la Polonia, per esempio), e che per l’Occidente poi non è così gloriosa.
Anche in questo caso, i media si ergono al ruolo di domatori dell’opinione pubblica. In realtà, la loro missione non è l’informazione, ma la formazione!
Chi starnazza?
Chi sono questi giornalisti ed editori che starnazzano, arrogandosi il diritto di stabilire chi è buono e chi è cattivo? Stabilire chi è democratico e chi non lo è! Sentenziare quando le elezioni sono valide, oppure quando sono truccate?
Per quanto concerne l’Italia, sono gli stessi media che evitano accuratamente di creare e attuare approfondimenti per raccontare agli italiani chi fosse Steve Pieczenik? Sono gli stessi media che non si pongono dubbi sulla tragica fine del tenente colonnello Ivo Nutarelli e del tenente colonnello Mario Naldini. Sono gli stessi media che appecoronati agli interessi geopolitici occidentali, hanno sostenuto con simpatia e passione il colpo di stato in Ucraina, realizzato da una banda di loschi individui di gran lunga più deprecabili di quelli che ieri hanno manifestato a Washington. Sono gli stessi media che diffondono le notizie su quanto accade in Siria, citando quale fonte l’osservatorio siriano per i diritti umani, lasciando palesare la completa attendibilità di tale fonte. Salvo poi ignorare, volutamente ignorare, che il suddetto osservatorio non è altro che un individuo, un singolo venditore di biancheria intima che vive a Coventry, oppositore del legittimo presidente Assad e che in Siria non mette piedi da molti anni ormai. Sono gli stessi media che definiscono “ribelli moderati”, degli spietati terroristi e tagliagole inviati in Siria per destituire il presidente Assad, ma che al contempo definiscono terroristi, i civili, compresi donne e bambini, che combattono nel Donbass per la loro libertà e per la loro sopravvivenza.
Ma non c’è da stupirsi! I giornalisti che si comportano in tal modo sono dei semplici dipendenti che tutelano il loro stipendio, che sperano di portare a casa il pranzo e la cena, guardandosi bene dall’uscire dal sentiero per loro tracciato. Lo stesso vale per gli editori e i canali mediatici che sposando una linea editoriale compiacente alle cancellerie occidentali, scelgono di salvaguardare la loro esistenza, la loro sempre più sottile fetta di mercato, convinti che l’importante è rimanere a corte!
Chi abbocca?
Chi abbocca purtroppo è una larga parte dell’opinione pubblica, sempre più costretta a rincorrere le esigenze familiari giornaliere, bombardata da un sistema d’informazione a senso unico. Poche le voci che escono dal coro.
Ma l’opinione pubblica occidentale “che abbocca”, non è solo vittima del comportamento assunto dai media. È triste doverlo constatare, ma è anche colpevole! Colpevole, perché invece di individuare gli strumenti con i quali poter attingere ad altre versioni della storia raccontata, invece di aver voglia di “ascoltare l’altra campana”, dopo essersi abbeverati a cinque minuti di informazione mainstream, dedicano il resto del loro tempo a guardare programmi televisivi improponibili. Ma quei cinque minuti di informazione a senso unico, costituiscono il terreno sul quale poi fanno nascere e crescere le loro opinioni, le loro idee, sono tutto ciò sul quale si baseranno per esprimere i loro giudizi, soprattutto in tema di politica internazionale e di geopolitica.
Tristemente, si assiste a gran parte dell’opinione pubblica, la quale l’unico viaggio all’estero che ha effettuato durante la propria vita, l’ha realizzato volando su qualche compagnia low-cost per recarsi in una delle più gettonate capitali europee. Ma che importa, basta così tanto poco, basta un modestissimo fine settimana all’estero, magari un soggiorno in villaggio turistico esotico, cinque minuti di informazione a senso unico e si è pronti per sentenziare su tematiche di geopolitica.
Luca D’Agostini
FONTE: http://www.madrerussia.com/la-manipolazione-dei-media-occidentali-supportano-le-proteste-in-bielorussia-condannano-quelle-negli-usa/
La sentenza sull’estradizione di Assange è un sollievo, ma non è giustizia
Caitlin Johnstone
caityjohnstone.medium.com
Il giudice britannico Vanessa Baraitser si è pronunciata contro la richiesta di estradizione da parte degli Stati Uniti per il fondatore di WikiLeaks, Julian Assange, ma non per le ragioni che avrebbero dovuto indurla a tale decisione.
L’inquietante sentenza della Baraitser ha praticamente avallato tutte le argomentazioni presentate dal pubblico ministero americano durante il processo di estradizione, per quanto assurde e orwelliane fossero. Tra queste, la citazione di un rapporto della CNN, da tempo screditato, che sostiene, senza prove, che Assange avrebbe trasformato l’ambasciata [dell’Ecuador] in un “posto di comando” da cui avrebbe interferito nelle elezioni americane, aggiungendo che il diritto alla libertà di parola non dà a nessuno la “libera discrezione” di pubblicizzare qualsiasi documento si desideri, respingendo poi le argomentazioni della difesa secondo cui la legge britannica proibisce l’estradizione per reati politici. [La Baraister] ha anche ripetuto a pappagallo la falsa affermazione secondo cui il tentativo di Assange di proteggere la sua fonte, Chelsea Manning, mentre esfiltrava documenti a cui aveva accesso non sarebbe stato un normale comportamento giornalistico, asserendo poi che l’intelligence statunitense avrebbe avuto motivi legittimi per spiare Assange nell’ambasciata ecuadoriana, e che, in caso di estradizione, i diritti di Assange sarebbero garantiti dal sistema legale statunitense.
“Nel caso Assange, il giudice ha parlato come il procuratore americano, ripetendo anche le sue affermazioni più discutibili,” ha twittato l’attivista John Rees durante il procedimento.
Alla fine, però, la Baraitser si è pronunciata contro l’estradizione. Non perché il governo degli Stati Uniti non ha alcun diritto di estradare dal Regno Unito un giornalista australiano reo di aver denunciato i suoi crimini di guerra. Non perché estradare e processare un giornalista accusandolo di spionaggio rappresenti una minaccia diretta alla libertà di stampa in tutto il mondo. Non per impedire un effetto paralizzante a livello mondiale sul giornalismo investigativo della sicurezza nazionale, quello che indaga sui comportamenti delle più grandi strutture di potere del nostro pianeta. No, la Baraitser, alla fine, si è pronunciata contro l’estradizione solo perché Assange sarebbe a rischio elevato di suicidio nel rigido sistema carcerario americano.
Assange non è ancora libero e non è fuori pericolo. Il governo degli Stati Uniti ha detto che farà ricorso in appello contro la decisione, e la Baraitser ha l’autorità legale per tenere Assange rinchiuso nella prigione di Belmarsh fino alla fine del processo di appello. Il dibattimento per un eventuale rilascio su cauzione riprenderà mercoledì e Assange rimarrà nella sua cella di Belmarsh almeno fino a quel momento. Dal momento che, nel 2012, Assange non aveva rispettato un’ordinanza di rilascio su cauzione, chiedendo asilo politico all’ambasciata ecuadoriana, è molto probabile che gli venga negata la libertà provvisoria e debba rimanere in carcere per tutta la durata del processo di appello richiesto dal governo statunitense.
The Media, Entertainment and Arts Alliance (MEAA), il sindacato australiano a cui Assange è iscritto come giornalista, ha rilasciato una dichiarazione sulla sentenza che inquadra bene la situazione.
“La sentenza odierna è un enorme sollievo per Julian, la sua partner, la sua famiglia, il suo team legale e i suoi sostenitori in tutto il mondo,” ha detto il presidente federale della MEAA, Marcus Strom. “Julian ha dovuto sopportare dieci anni di calvario per aver rivelato informazioni di interesse pubblico e questo ha avuto un impatto immenso sulla sua salute mentale e fisica.”
“Ma siamo costernati dal fatto che il giudice, in nessuna delle sue dichiarazioni odierne, abbia mostrato anche il minimo interesse per la libertà di stampa e che, invece, abbia a tutti gli effetti accettato le argomentazioni statunitensi secondo cui i giornalisti possono essere perseguiti per aver denunciato crimini di guerra e altri segreti governativi e per aver protetto le loro fonti,” ha aggiunto Strom. “Le rivelazioni per le quali [Assange] è stato perseguito erano state pubblicate da WikiLeaks un decennio fa e avevano portato alla luce crimini di guerra e altre azioni vergognose commesse dal governo degli Stati Uniti. Erano chiaramente nell’interesse pubblico. Il caso contro Assange è sempre stato di natura politica e il suo intento è quello di limitare la libertà di parola, criminalizzare il giornalismo e inviare il chiaro messaggio ai futuri informatori e a chi pubblicherà le loro rivelazioni che anch’essi saranno puniti se oseranno sgarrare.”
In effetti, la sentenza di oggi è stata un enorme sollievo per Assange, la sua famiglia e per i suoi sostenitori in tutto il mondo. Ma non è stata giustizia.
“E’ bello sapere che il tribunale ha deciso di non estradare Julian Assange, ma non mi piace il fatto che la decisione sia dovuta solo a motivi di salute mentale,” ha commentato Joana Ramiro dell’AP. “E’ un precedente piuttosto debole contro l’estradizione degli informatori e/o in difesa della stampa libera. La democrazia ha bisogno di qualcosa di meglio.”
“Non è stata una vittoria per la libertà di stampa,” ha twittato il giornalista Glenn Greenwald. “Al contrario: il giudice ha chiarito di ritenere che ci sono motivi per perseguire Assange in relazione alle pubblicazioni del 2010. Si è trattato, invece, di un’accusa al sistema carcerario statunitense, follemente oppressivo quando si tratta di giudicare le ‘minacce’ alla sicurezza.”
E’ positivo che la Baraitser, alla fine, si sia pronunciata contro l’estradizione, ma la sua sentenza ha anche sostenuto l’intera narrativa del governo statunitense che, in futuro, consentirebbe l’estradizione dei giornalisti ai sensi dell’Espionage Act. La sentenza è un passo significativo per la liberazione di Julian Assange, ma non cambia nulla per quanto riguarda la tirannia imperialista globale.
Perciò, la risposta appropriata in questo momento è un sospiro di sollievo, ma non una celebrazione. Il caso Assange non ha mai riguardato un uomo solo: la battaglia più importante, quella che stiamo combattendo tutti, continua senza sosta.
Detto questo, il messaggio dell’Impero è stato essenzialmente “avremmo potuto estradarti, se solo lo avessimo voluto, ma sei troppo pazzo,” che è un po’ il “potrei prenderti a calci in culo ma non ne vale la pena” tipico della diplomazia internazionale. È un modo per tirarsi indietro e, allo stesso tempo, salvare la faccia e apparire comunque minacciosi. Ma, agli occhi di tutti, una marcia indietro è sempre una marcia indietro.
Penso di poter dire con certezza che, se questo caso non fosse stato portato all’attenzione di tutto il mondo, oggi avremmo avuto una sentenza diversa. L’Impero ha fatto il possibile per cercare di intimidire i giornalisti con la minaccia di incarcerare i delatori dei suoi atti criminali, ma, alla fine, si è tirato indietro.
Non penso che abbiamo vinto una guerra, neanche una battaglia. Ma è evidente che i nostri pugni stanno arrivando a segno. E che abbiamo almeno la possibilità di combattere.
Caitlin Johnstone
Fonte: caityjohnstone.medium.com
Link: https://caityjohnstone.medium.com/the-assange-extradition-ruling-is-a-relief-but-it-isnt-justice-9ec90d9658cc
05.01.2021
Scelto e tradotto da Markus per comedonchisciotte.org
FONTE: https://comedonchisciotte.org/la-sentenza-sullestradizione-di-assange-e-un-sollievo-ma-non-e-giustizia/
ECONOMIA
Mario Draghi Presenta il “Gruppo dei Trenta
Un G30 a firma Mario Draghi. L’ex numero uno della Bce infatti ha presentato, come co-presidente con il celebre economista indiano-americano Raghuram Rajan, il gruppo di lavoro al quale partecipano grandi personalità internazionali che va sotto il nome appunto di G30, Group of the Thirty, “un think tank di consulenza su questioni di economia monetaria e internazionale”. Redatto con Douglas Elliott di Oliver Wyman e Victoria Ivashina della Harvard Business School, il documento di presentazione redatto dal team si concentra sul futuro delle imprese dopo gli shock e l’accumulo di debito e sussidi che le hanno sostenute in questi ultimi mesi.
Draghi ne ha parlato a un gruppo ristretto di media internazionali, fra cui il “Corriere della Sera”. “Perché non stiamo vedendo molte insolvenze di imprese nel mondo?”, si è chiesto Draghi: “In realtà, almeno in Europa, ne vediamo meno quest’anno che nel 2019”.
La spiegazione dell’ex presidente della Bce è che il flusso di sussidi pubblici e credito garantito da parte dei governi “sta coprendo una realtà che è molto più preoccupante di quanto possiamo stimare per il momento”.
Il rapporto del Gruppo dei Trenta indica le strade per gestire le conseguenze di questo fenomeno, a partire da norme di diritto fallimentare più snelle e efficienti. Draghi sceglie un approccio che lui stesso definisce di “cauto realismo”. Offrire sempre nuovo credito a un’azienda non redditizia non la rimetterà in piedi, osserva. “Ci sarà un aumento dei crediti deteriorati in tutto il sistema bancario in gran parte del mondo” prevede Draghi che, come evidenziato dal Corriere, suggerisce uno ‘sguardo lungo per la crescita.
Di qui l’esigenza, che lui stesso sottolinea, di preparare strategie per permettere agli istituti di evitare una stretta al credito nei prossimi mesi e anni. Successe durante o anche dopo la Grande recessione del 2007-2008 in molti Paesi avanzati e lo stesso fenomeno va prevenuto adesso. “Anche in futuro le piccole e medie imprese continueranno a dipendere dal sistema bancario e anche per questo la salute degli istituti di credito è importante – avverte Draghi -. Tutti vogliamo banche che continuino a sostenere l’economia e il settore privato ma, se il loro capitale viene assorbito dai crediti deteriorati, quel sostegno mancherà”.
“La sostenibilità del debito pubblico verrà giudicata anche da come verrà impiegato il Recovery Fund, i progetti devono avere un rendimento elevato, ha detto ancora Draghi aggiungendo: “Quel che bisogna valutare è se un progetto è utile o no. Se supera certi test che riguardano il suo tasso di rendimento sociale, come anche nell’istruzione o nel cambiamento climatico, oppure è semplicemente il frutto di una convenienza politica e di clientelismo”.
FONTE: https://www.adepp.info/2021/01/mario-draghi-presenta-il-gruppo-dei-trenta/
Mentre il mondo gridava al golpe, la Fed minacciava la fine del QE. Botto calcolato?
7 Gennaio 2021
Fra le minute della riunione di dicembre è comparsa una frase inattesa: alcuni membri del board hanno messo sul tavolo l’ipotesi di ritiro graduale dello stimolo, a fronte di una normalizzazione della ripresa. Citando come esempio il 2013, l’anno del Taper tantrum di Ben Bernanke che squassò i mercati emergenti. Nuovo alibi ’in progress’? Una cosa è certa: la Cina è stanca dello yuan debole. E ha cominciato a reagire.
Al netto dall’assoluta anteprima mondiale rappresentata da un’insurrezione nel cuore della principale potenza mondiale accolta da Wall Street che chiude sui massimi e soprattutto dall’indice Vix fisso a 26, quasi al Campidoglio fosse in corso la premiazione per il titolo di Boy scout dell’anno, qualcosa di paradossalmente più serio ha stonato nel giorno della Befana.
E non solo il fatto che, come mostra il grafico seguente, in perfetta contemporanea con l’assalto al Parlamento USA sui mercati venissero trattati oltre 29 milioni di contratti di opzioni call, il quarto volume in assoluto da quando vengono tracciate le serie storiche.
Come dire, buy the revolution.
Mentre tutti i media del mondo avevano infatti i loro occhi puntati su Washington, impegnati in estenuanti maratone dai toni apocalittici, la Fed rendeva note le minute della sua ultima riunione, quella del 15 e 16 dicembre.
Nulla di particolare, se non per una frase, quasi nascosta fra le altre: A number of participants noted that… a gradual tapering of purchases could begin and the process thereafter could generally follow a sequence similar to the one implemented during the large-scale purchase program in 2013 and 2014.
Tradotto: alla faccia della granitica certezza di tassi di interesse fermi come rocce fino al 2023, qualcuno all’interno del Comitato monetario della Banca centrale Usa ha messo sul tavolo l’opzione del ritiro graduale del programma di stimolo anti-pandemico. Tradotto ulteriormente: l’unico acclarato effetto collaterale del vaccino potrebbe essere quello per i mercati, allergici alla normalizzazione monetaria al limite del rischio da shock anafilattico.
Soprattutto perché la Fed ha utilizzato come riferimento storico praticabile quello del 2013. Ovvero, il famigerato Taper tantrum innescato da Ben Bernanke con il suo annuncio di stop alla stamperia in seno alla Banca centrale. Cosa accadde sui mercati emergenti più indebitati in dollari è memoria condivisa. Qualcuno sta forse cercando l’incidente controllato, paradossalmente proprio per obbligare la medesima Fed a rientrare in campo a primavera inoltrata, forte degli strumenti più estremi mantenuti strategicamente nella “cassetta degli attrezzi” lo scorso mese? In effetti, la dinamica mostrata dal grafico qui sotto e relativa alle reazioni pavloviane di Wall Street soltanto di questa settimana, parla decisamente chiaro: si prezza nuovo stimolo grazie anche alla vittoria democratica alle suppletive in Georgia, viatico al controllo del Senato da parte del partito del neo-presidente.
Fonte: Bloomberg/Zerohedge
Scenario poco gradito al mercato sul medio termine, poiché una Casa Bianca in modalità anatra zoppa veniva ritenuta deflazionaria e quindi supportiva all’azione continuativa della Fed. Ma molto comodo sul breve, poiché occorre sempre ricordare come – politicamente in maniera inspiegabile, almeno stando all’epilogo appena vissuto in seno al processo di transizione – Steven Mnuchin e le sue emissioni record di debito del 2020 abbiano lasciato a Janet Yellen 1,3 trilioni di dollari di riserve in eccesso al Treasury. Denaro da spendere obbligatoriamente entro il 1° agosto, ovvero prima dell’entrata in vigore del regime di debt ceiling. E con un Congresso che non patisce il veto di un Senato a guida repubblicana, quel tesoretto potrà essere speso senza ritardi, né intoppi. E poi?
Nel frattempo, come accade dalla scorsa primavera, sarà il Covid a dettare i tempi e i modi della prossima correzione, quella talmente drastica da candidarsi fin da ora a guadagnare le prime pagine dei giornali e “costringere” la Fed all’ennesimo ritorno in campo. Il vaccino sarà davvero efficace nel raggiungimento dell’immunità di gregge? L’economia reale statunitense rimbalzerà in modo tale da giustificare quella minaccia di normalizzazione dei tassi, apparentemente più formale e strategica che reale, contenuta nelle minute della Fed? La situazione di partenza, certamente non è delle migliori. Perché come mostra questo grafico, la narrativa un po’ infantile propagandata da chi fino ad oggi ha magnificato l’esempio statunitense di contrasto al fall-out del virus, rischia di scontrarsi bruscamente con la realtà.
Fonte: Bloomberg
Sono state infatti 244 le aziende americane che hanno presentato domanda per il riconoscimento della bancarotta nel 2020, il dato più alto dalla grande crisi finanziaria. All’epoca, nel 2009, furono 293. Ma attenzione, perché dodici anni fa si operava ancora fra le macerie a mani nude e non con regimi di QE a vario livello già operativi praticamente da inizio pandemia (anzi, da anni), come accaduto oggi. I settori più colpiti? Energia, commercio retail, viaggi e consumi in genere. E l’analisi di Bloomberg Intelligence parla chiaro: il peggio rischia di arrivare con il secondo trimestre di quest’anno, quando il denaro dello stimolo appena approvato comincerà a venire meno (quantomeno a livello di effetto di off-set immediato) e toccherà alla Yellen vestire i panni del cavaliere bianco.
E nonostante tre mesi di vaccinazione di massa già in atto, perché l’attività legata a linee aeree, tour operator, hotel, resort e tutto quanto riguarda il turismo, certamente non ripartirà di colpo. E fra i 244 giubilati di questo 2020 ci sono nomi altisonanti per il commercio Usa come JCPenney e Stein Mart oppure Brooks Brothers Group e Neiman Marcus Group. Sono cadute le icone, stavolta. Non le start-up.
Infine, l’ultima criticità. Questo grafico mostra come Pechino pare aver perso la pazienza rispetto alla sovra-valutazione dello yuan sul dollaro.
Fonte: Bloomberg/Zerohedge
Le banche cinesi infatti fra il 4 e il 5 gennaio hanno cominciato a vendere valuta locale, di fatto cercando di indebolirne il cambio. E trattandosi, de facto, di istituti a controllo statale, questo significa che il Partito e la Pboc hanno deciso che era giunta l’ora di inviare un segnale ai mercati. Il primo in tal senso da anni, scattato quando lo yuan ha toccato 6.43. E molti analisti hanno la certezza che se interventi chirurgici di questo tipo non dovessero sortire effetti almeno di breve termine consistenti, alle porte potrebbe esserci una svalutazione massiva in stile agosto 2015. Ma se nella cassetta degli attrezzi della Banca centrale ci sono una serie di mosse intermedie a disposizione (da fixing più deboli fino all’allentamento dei freni sui capitali e l’extrema ratio del ritorno al trading di Bitcoin), nessuno in cuor suo sente di escludere un ordine diretto alle medesime banche di acquistare dollari. Con il badile.
Fonte: Bank of America
La sinistra che trattiene. Parte prima: il capitalismo come religione
di Wolf Bukowski *
Al prossimo capodanno, avvolto nel coprifuoco notturno, s’aprirà il genetliaco secolare, almeno secondo la datazione accettata, del frammento Kapitalismus als Religion di Walter Benjamin. Possiamo certamente confermare oggi, come si legge nel breve testo, che il capitalismo risponde alle «stesse ansie, pene e inquietudini a cui in passato davano risposta le cosiddette religioni». Nondimeno, adesso, quel passato di appartenenza religiosa, almeno per la maggioranza dei cittadini della parte di mondo che abitiamo, è ormai remoto e avvolto nella nebbia dell’indifferenza e, salvo per curiosità personale, dell’oblio. Dunque, qui e ora, la dimensione religiosa del capitalismo si regge da sola, emancipata dalle sue assonanze con le esperienze religiose storiche. In ciò si manifesta l’attualità mordente di Benjamin, che tratta del capitalismo come «fenomeno essenzialmente religioso» in senso pieno, e «non solo, come intende Weber, come […] formazione condizionata dalla religione», e il riferimento è qui ovviamente al Max autore de L’etica protestante e lo spirito del capitalismo.
Oggi forse ancor più di allora, proprio perché sgravato da ingombranti persistenze (quelle appunto delle religioni in senso storico), il capitalismo è religione altamente sincretica, opportunista, senza teologia e senza dogmi, se non quella e quelli relativi al proprio essere eterno ed eternamente adattabile al mutare delle condizioni. È religione del debito, senza dubbio, di sobrietà e colpa (Schuld, dunque colpadebito) da scontarsi col lavoro, con la formazione (permanente), la resilienza e l’imprenditoria del sé, ma è anche religione di estasi e pacchianeria rilucente e ingiunzione al godimento. Porvisi dinanzi contemplandola non nella sua contraddittoria totalità, ma enfatizzando troppo l‘uno rispetto l‘altro aspetto, fa rischiare un approccio parziale, approccio di cui trovo più che traccia in un articolo pubblicato su Jacobin giorni fa, La religione del debito di Stimilli et al. (da qui: LRDD). Della religione capitalistica si dipinge infatti in quelle righe un ritratto assai calvinista; dove, solo per citare un esempio, della contabilità a cui è sottoposto il soggetto costretto all‘amministrazione ragioneristica del sé si riconosce l‘aspetto gravoso di partita doppia di colpe e virtù, come è certamente corretto, ma si lascia in ombra quello gioioso della gamification integrale dell‘esistenza, mediata dal sex appeal dell’inorganico digitale.
1. Un (provvisorio) obbligo di sobrietà
Nella contingenza, non c’è dubbio, il discorso del potere nello stato capitalista ruota attorno all’obbligo di sobrietà, di non socializzare, di andarci piano persino con i consumi per non «assembrarsi». Questo discorso è interclassista, e colpisce tanto i consumi di lusso o quasi-lusso (per esempio le settimane bianche) quanto quelli popolari. Ma ci troviamo qui in una piega della storia, in cui l’istanza di proteggere i cittadini (dal virus) prevale su ogni altra considerazione, anche come esito non più revocabile di un impegno pluridecennale con cui lo stato ha promesso di proteggere i cittadini da qualsiasi minaccia; pur trattandosi in gran misura, diversamente dall’attuale, di minacce inventate. Ciò avveniva non solo «negli ultimi anni con le nuove istanze sovraniste» come si legge piuttosto inesplicabilmente in LRDD, ma ben prima e dall’altro lato dell’emiciclo: il securitarismo di stampo anglosassone ha avuto nei governi di sinistra ed europeisti il suo cuneo più dirompente, proprio perché andava a intossicare strati sociali fin lì non avvezzi all’essere governati attraverso la paura del crimine. Ma in ogni caso: quando lo stato promette di proteggerti a ogni costo vincola la propria tenuta a questa promessa: la sicurezza biopolitica non è un contratto unilaterale, fatto di sola repressione, come sarebbe assai desiderabile e comodo a chi vi si oppone. Essa ti sottrae davvero all’anomia, o almeno lo fa il più delle volte e per il più dei cittadini riconosciuti come tali. Non fosse così, non se ne spiegherebbe la presa. Non fosse così, la sinistra non avrebbe il problema a mio parere totalmente irresolubile (cioè che sarà ri-solto solo con la sua completa dis-soluzione in qualcosa di diverso) di scegliere se schierarsi con la possibilità di trasformare radicalmente il mondo, con il rischio di mettere a repentaglio la sicurezza, oppure di tentare di piegare le istituzioni a pratiche più inclusive e meno repressive («trasformare […] le forme istituite del potere» in LRDD), sapendo però in questo secondo caso, anche senza doverselo ammettere, che il fondo dei rapporti di potere (il capitalismo) sarà necessariamente mantenuto – pena il ricadere nell’altra ipotesi, quella dell’anomia e della perdita di sicurezza.
Ma per tornare al presente: siamo in un momento in cui la sovrastruttura si piega e in maniera totalmente non meccanicistica rimodella temporaneamente e parzialmente i rapporti economici; ma si delineano già nell’atto stesso i modi e le forme con cui la struttura riprende il controllo, e i soggetti che lo esercitano. Viene ovviamente fatta salva la tenuta dello stato senza il quale il capitalismo contemporaneo non sarebbe possibile alla magnitudine attuale, e dunque viene fatto salvo l’imperativo statuale di «salvare i cittadini». Naturalmente, poiché quella di salvare i cittadini da qualsiasi minaccia può essere solo una promessa, nella pratica lo stato è costretto a scegliere la minaccia più terrificante per aggredirla, e finisce così per trascurare le altre: oggi, con intensità davvero inedita, ci promette salvezza da quella virale nella declinazione coronavirale, e non considera affatto come minacce degne di almeno pari attenzione, per esempio, le solite morti dovute ai tumori (e il cancro è malattia dello sviluppo capitalistico par excellence); domani forse ritorneremo alle rassicuranti minacce immaginarie (l’invasione dei migranti), e così via. La sicurezza biopolitica, una volta dichiarata, non è revocabile, anche se può essere plasmata nell’uno o nell’altro senso.
2. Il virus come antitesi del capitalismo?
La dialettica vivace tra struttura e sovrastruttura, nel senso qui, rispettivamente, di imperativi economici e scelte di governo, ha spinto molti a non mettere a fuoco il profilo del nemico, scambiando Confindustria tout court con il capitalismo: il governo vorrebbe fermare tutto, si ritiene, ma Confindustria lo contrasta. Si manca così di riconoscere che Confindustria, con l’ovvio cinismo del padronato, vuole in gran parte tornare al suo business as usual; mentre la lotta intercapitalistica globale in corso ha ben altra portata, e i suoi probabili vincitori non desiderano alcun as usual, perché sono certi che il futuro appartiene loro, come noi lo fummo un tempo ormai remoto. Quando, parafrasando Buenaventura Durruti, le macerie non ci facevano paura, perché portavamo un mondo nuovo nei nostri cuori.
La parte vincente dello scontro intercapitalistico globale (i nomi già li conosciamo), assume la tenuta dello stato come asset indispensabile agli affari, e mai si sognerebbe di mettere in discussione lockdown e provvedimenti restrittivi (come ha fatto invece Confindustria), tanto essi non riguarderanno mai né il flusso di dati che ne garantisce i profitti (anzi, al contrario: la digitalizzazione integrale è potenziata dalle misure restrittive alla socialità) né i facchini che movimentano le merci, che saranno comunque assai più rapidamente di quanto vogliamo immaginare sostituiti vieppiù da macchine, lasciando per sovrammercato cadere ogni illusione sulla consistenza del nuovo soggetto storico di classe operaia.
Errore comune, in questi tempi pandemici, è stato abdicare alla consapevolezza della portata dello scontro intercapitalistico in corso, e insistere sul fatto che il virus avrebbe messo a nudo le contraddizioni del capitalismo, non riconoscendo invece la pandemia come un fenomeno a cui la parte vincente del capitalismo sta dimostrando di far fronte sul piano del profitto. Si direbbe quasi che, in mancanza di un soggetto storico rilevante opposto al dominio capitalistico globale, si sia fantasmato il virus come antitesi del capitalismo, cosa che a un qualsiasi tipo di analisi materialistica non reggerebbe neppure come ipotesi preliminare.
3. Vita interiore e lockdown
Ma torniamo all’ascesi. La portata interclassista delle restrizioni attuali potrebbe anche condurre a un’errata valutazione delle tendenze in atto, facendole scambiare per il segno di un capitalismo ascetico e calvinista, fatto di rinunce. Sull’illusione ottica della fine del consumismo dice cose chiare un articolo, uscito sempre su Jacobin, di Loris Caruso e Francesco Campolongo (che pure sul finale inciampa nell’idealismo di ritenere che l’ipotetica proprietà statale dei big data possa emendarne la natura intrinsecamente alienante). Per mostrare come le restrizioni attuali non abbiano in alcun modo a che fare con il presunto mutare della temperatura etica del capitalismo possiamo cominciare dal riconoscerne la genealogia: zone rosse, Daspo, coprifuoco (giovanili, come sono di fatto anche quelli in pandemia), provvedimenti contro la movida… sono iniziati ben prima del virus, e possiamo tracciarne le origini anche agli anni novanta, negli Stati Uniti; da noi poco più tardi. Lo stesso dicasi per il contrasto degli «assembramenti», dipinti come criminogeni fin dai primi ottanta. «Teenagers gather in front of the corner store. The merchant asks them to move; they refuse», scrivevano Kelling e Wilson nel 1982, per poi proseguire con la favoletta dark del quartiere che precipita nel caos; e si era nel pieno dell’edonismo reaganiano. Pur a partire da una premessa securitaria tali restrizioni erano volte alla messa a profitto di parti di città in senso immobiliare, e quindi facevano parte di una fase nuova di accumulazione originaria che grava(va) sulla città e sulle forme del vivere urbano. Non mi convince quindi l’idea che il lockdown, apice di restrizioni articolate sul modello di quelle di cui si è appena detto, epicentro di una temperie in cui v’era persino l’invito alla delazione e l’indicazione di capri espiatori, in diretta Facebook, da parte di rappresentanti istituzionali, possa costituire «un’occasione per interrogarsi su come coltivare la propria vita interiore» nel senso di un «ascetismo politico» (inteso qui in LRDD positivamente: ci tornerò più avanti). Non parlo qui in alcun modo della necessità di lockdown e restrizioni, e cioè, detta in modo esplicito, del fatto che fossero opportune e giuste o meno, valutazione che ci ha travagliato tutti ma che in questa fase non mi interessa punto; e neppure disconosco che il lockdown, nel suo portare le restrizioni a un limite estremo, possa aver prodotto effetti paradossali e forse per qualcuno illuminanti. Dico però che posta sotto le lenti del materialismo quella vita interiore si rivelerebbe, temo, come resa possibile soprattutto da stabilità abitativa, abbonamenti in streaming, consegne a domicilio, redditi correttamente e puntualmente accreditati; buon riscaldamento domestico e in generale comfort. Sia detto, tutto ciò, materialisticamente e mai moralisticamente – ché anche il sottoscritto, pur in una varietà un po’ rudemente appenninica, ne ha goduto, e di questo e di quello. Ma del materialismo abbiamo bisogno, per non perdere la bussola, e più che mai quando contempliamo il cielo e il numinoso.
4. Disciplinamento ed effetti ascetici
Anche in riferimento alla cura della propria salute, alla ginnastica, il cibo sano e la performatività individuale… e insomma a tutti i topoi dell’ascetismo imposto alle classi popolari nel regime capitalista attuale, mi sento di dire che sono le retoriche del disciplinamento a essere venate di calvinismo, non le loro premesse ideologiche e teologiche. Il ricco non è mai tenuto all’ascesi, alla moderazione, al decoro. Come scrive Tamar Pitch: «nel senso comune prevalente il sostantivo “decoro” e l’aggettivo “decoroso” non si applicano a tutte le posizioni sociali […:] i ricchi e i potenti non hanno bisogno di imporsi limiti e non devono essere “decorosi”». A monte di quell’ideologia (qui teologia), poi, non trovo il calvinista «profitto per il profitto», ma di nuovo l’accumulazione originaria ricercata, questa volta, nella privatizzazione del welfare. Essa, al solito, avviene non una volta per tutte, ma ripetutamente: il servizio sanitario pubblico viene sbranato di un boccone, per così dire, ogni volta che un sindacato confederale sottoscrive un contratto che prevede il «welfare aziendale».
Anche qui dunque non riesco a intravedere il segno di alcuna ascesi, se non appunto nella retorica del disciplinamento. Peraltro quello stesso disciplinamento non sembra in ultima istanza indirizzato a produrre stigma nei confronti di chi non è illuminato dalla grazia del successo: esso produce innanzitutto un nuovo spazio di accumulazione originaria nel cosiddetto terzo settore, luogo di travaso privilegiato di denaro pubblico in profitti privati, di occupazione precaria e ricattabile, nonché di composizione preventiva dei conflitti sociali nel segno della massima cancellazione dell’autodeterminazione del soggetto assistito. Ciò in modo puntuale; per quanto invece riguarda i soldi gettati dall’elicottero statuale a fini di consenso verso il capitalismo, basti citare come negazione estrema di ogni tensione all’ascesi l’attuale iniziativa paganissima e dementemente gaudente della lotteria degli scontrini.
5. Verso una sinistra radicale del trattenimento?
In generale fatico a vedere dove, se non appunto nelle conseguenze disciplinari, il capitalismo contemporaneo sia «caratterizzato dalla rinuncia e dal rigore» e perché l’ascesi sarebbe «fondamentalmente la pratica che può essere “elettivamente” integrata nei modi di produzione capitalistici» (LRDD), modi di produzione che sono invece al tempo presente caratterizzati da una dissipazione sconvolgente e catastrofica di energia e materia. Ma anche ciò in ipotesi accettato, mi pare poco convincente come a tale supposta ascesi del capitalismo venga opposta in LRDD una positiva «forma di ascetismo politico – se così si può dire – che consiste nella capacità di indicare nuovi stili di vita, nuove condotte, nuovi costumi, nuove regole del gioco sociale». L’uso del termine ascesi in questo senso, oltretutto infelicemente associato a «nuovi stili di vita», anche se invece più avanti viene riallacciato in senso intersezionale «alla generazione, al genere, al blackness, a tutti quegli ambiti legati alla riproduzione e alla cura», mi riporta alla classica riduzione ad atto virtuoso del contrasto alla devastazione capitalistica, pratica questa dell’atto virtuoso che sì viene facilmente «integrata», metabolizzata e messa a reddito nei correnti «modi di produzione capitalistici». Puntare sull’ascetico oppositivo nel centro del regime della (presunta) ascesi capitalistica fondata sul debito non rischia forse, come mi avverte l’amico Pierpaolo Ascari in una feconda comunicazione sui questi temi, di farci trascurare tutti quei soggetti che cercano opportunamente di rivendicare e far valere il proprio credito nei confronti del capitalismo? E che magari lo fanno, aggiungo io, in modi e con parole in cui noi fatichiamo a riconoscerci?
Tale riduzione mi rimanda poi all’ulteriore rischio – che forse per taluni è però possibilità auspicabile – dell’edificazione di una sinistra radicale di trattenimento volta a conquistare spazi transitoriamente trascurati dal capitalismo (e magari a valorizzarli, preterintenzionalmente, in vista del suo ritorno), piuttosto che a darsi un piano aggressivo verso il capitalismo stesso. Ma di questo dirò nella seconda parte del presente lavoro.
* Wolf Bukowski scrive su Giap, Jacobin Italia e Internazionale. È autore per Alegre di La danza delle mozzarelle: Slow Food, Eataly Coop e la loro narrazione (2015), La santa crociata del porco (2017) e La buona educazione degli oppressi: piccola storia del decoro (2019). Nel 2020 dell’emergenza Covid ha scritto per Giap l’articolo in due puntate La viralità del decoro. Controllo e autocontrollo sociale ai tempi del Covid-19 e Max Headroom-19. Il sogno del «distanziamento sociale» permanente nella propaganda post-coronavirus.
FONTE: https://www.wumingfoundation.com/giap/2020/12/la-sinistra-che-trattiene-parte-prima/
La sinistra che trattiene. Parte seconda: fine del capitalismo e fine del mondo
Nell’ascoltare gli stralci di conversazione che compongono il documentario Oeconomia di Carmen Losmann (2020) si coglierà il ricorrere del sostantivo Schöpfung, e cioè creazione. Si tratta, qui, della creazione ex nihilo del denaro su conti bancari, effettuata mille e mille volte al giorno negli istituti di credito del globo. Essa è a un tempo atto divino, nel suo costituire realtà sonante a partire dal nulla; e atto liturgico, cultuale, celebrato «senza tregua» nel senso indicato da Benjamin nel frammento con cui abbiamo aperto già la prima parte di questa riflessione. Il suo ripetersi, nelle cattedrali dell’alta finanza firmate da archistar, si riflette e anzi si radica nel riproporsi costante, in ogni recesso della società e del pianeta, delle dinamiche estrattive di accumulazione originaria (come peraltro il film esemplifica assai efficacemente). Queste dinamiche sono a loro volta rese possibili, all’inedita e devastante dimensione attuale, dalla tecnologia sviluppata dal capitalismo stesso. E a questa, appunto, veniamo.
Te(cn)ologia del capitalismo
Il capitalismo, per quando già detto, è religione polimorfa: ascesi quanto basta, ma anche godimento, e più di tutto promessa. Questa promessa si manifesta eminentemente, e forse, a pensarci bene, esclusivamente, sotto le specie della sua tecnologia. La città nuova che il capitalismo promette è la città globale delle tecnologie interconnesse: AI, IoT, modificazione genetica, la colonizzazione di Marte… Persino la longevità, quei 120 anni da raggiungere che sarebbero dietro l’angolo. Il capitalismo ci porta l’immortalità nell’immanente, e lo fa tramite le sue tecnologie. Esse sono la sua buona novella. E la sinistra, quella radicale (ché l’altra non ha senso includerla nelle nostre riflessioni: essa è solo triviale tecnica di governo), nella sua gran parte tace ostinatamente sulle tecnologie, e se ne fa dominare anche più di quanto sia socialmente e umanamente necessario, e questo proprio quando tracciare il limite di quel necessario dovrebbe essere il tema politico e culturale più urgente di ogni altro.
Dopo averla citata anch’io, come tanti altri, fino all’eccesso, ho meditato una rilettura eterodossa della formula resa celebre da Mark Fisher («it is easier to imagine an end to the world than an end to capitalism»), pur rendendomi conto che ad alcuni, forse a ragione, tale rilettura parrà blasfema. Ma, ecco il punto, se ci è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo potrebbe non essere per errore prospettico o depressione collettiva, ma perché il capitalismo ha predisposto la fine del mondo come sola exit strategy alla propria ipotetica fine. E ciò, al solito, senza intenzione ma semplicemente e oggettivamente innestando la nostra sopravvivenza su una struttura tecnologica che solo il liquido amniotico del capitalismo, e il suo regime di inauditi consumi, può sostenere. Questa fine del capitalismondo non è detto che si avveri storicamente, perché per fortuna il futuro non ha copione scritto in anticipo, ma si è già avverata nel nostro sguardo prospettico e nel nostro immaginario, anche se fatichiamo ad accorgercene: è la passione quasi morbosa della nostra cultura per le distopie a tradirlo, anche prima che emerga alla coscienza. Guardiamo alle distopie perché esse ci illustrino quella fine del mondo di cui nelle tecnologie che ci circondano cogliamo oscuramente l’annuncio.
Trattenimento e parusia
La figura del katechon, ben nota alla teologia politica, s’annuncia nella Seconda Lettera ai Tessalonicesi, attribuita a Paolo. Katechon è ciò o colui che trattiene l’Anticristo; dunque trattiene lo scatenarsi dell’anomia. Ma con ciò stesso impedisce, il katechon, che abbia luogo lo scontro finale tra il bene e il male, e ne emerga, nella promessa cristiana cui Paolo aderisce, la seconda venuta e il regno di dio. Affinché questo si instauri il katechon va, letteralmente, «tolto di mezzo». L’attesa di un tale regno, piaccia o no, è (stata) incistata nella prospettiva escatologica delle lotte umanissime e terrene in cui ci riconosciamo – quelle di socialisti, comunisti e anarchici. Senza tale promessa nessuno avrebbe messo in gioco la propria vita. Poi possiamo calarla e declinarla, la promessa, nella classe operaia, tra i subalterni, i colonizzati eccetera. Ma è la promessa a muovere gli animi, e, oserei dire, solo la promessa: non certo «programmi e azioni concrete» (vedi oltre) e neppure la sofferenza del presente. «Se stanno così male, perché non si ribellano?», domandano alcuni, riferendosi ai più sventurati ed espropriati del pianeta. Semplice: perché non è l’oppressione a muoverci verso l’altrove, ma è la fede in quell’altrove a darci la forza di strappare via la nostra carne dai ricatti dell’oppressione, a farci superare la paura delle macerie.
Ora: in tutte le concrezioni storiche convivono probabilmente elementi di matrice catecontica con elementi di rottura; e questo è forse ineluttabile nel dinamismo della vicenda umana. Ma la sinistra radicale di oggi è quasi interamente identificata con il trattenimento; e la chiesa cattolica lo è altrettanto. Francesco è il non plus ultra del trattenimento, proprio perché immette elementi di buonsenso di sinistra in un sistema che non vede l’ora di accoglierli e che lo farà, ma solo retoricamente. I clienti della maggiore catena italiana di supermercati, a cui è stato consegnato alla cassa l’house organ del mese di novembre, hanno ricevuto la notizia che l’enciclica recente chiama «in causa la responsabilità di tutti per correggere eccessi e storture della società in cui viviamo»; e durante la lettura hanno appreso che «Francesco osa là dove non osa più nessuno e critica il capitalismo finanziario e il modo in cui i beni comuni della Terra […] sono stati e sono ancora usati». Non credo sia necessario, in questa sede, evidenziare che l’indicare il feticcio del «capitalismo finanziario» sia solo un modo per distogliere lo sguardo dal capitalismo come sistema (peraltro impensabile senza finanza); e come lo slogan dei «beni comuni» sia lieve come un palloncino gonfio d’elio. Non interpreto qui, sia chiaro, Bergoglio attraverso la Coop, ma cerco di evidenziare come il suo buonsenso di sinistra sia impotente di fronte alla capacità mimetica, propagandistica e persuasiva del capitalismo.
La supplenza papale
Cosa manca a quel buonsenso per dargli forza? Manca, come è ovvio, l’essenziale, ovvero una teoria che contempli l’abbattimento del capitalismo. Scrive Augusto Illuminati a proposito del riformismo del Papa, nel conferirgli honoris causa il titolo di «zecca come noi»:
«accontentiamoci e non pretendiamo di misurarci con grandi sistemi teorici – cosa del resto cui abbiamo rinunciato anche nella valutazione delle forze politiche di sinistra, di cui andiamo a vedere i programmi e le azioni concrete, senza indagare troppo sulle abborracciate teorie che ne sarebbero cornice e presupposto».
Il culto di «programmi e […] azioni concrete» mi pare, in realtà, più che altro il frutto dell’aziendalismo soluzionista che dai Novanta ha permeato la politica dei partiti (che non rappresentano più nessuno, ma si impegnano a convincere alcuni cittadini di ceto medio di avere un programma di sinistra, quando persino non solo, sardinescamente, contro le destre). Ma qui il problema è un altro: la rinuncia a un sistema teorico non è forse, essa stessa, il più insidioso dei sistemi teorici? Non è forse il ribaltarsi in ideologia secolare debole di quella che è la forza teologica del capitalismo, ovvero il non avere dogmi se non quello, chiarissimo e irrinunciabile, della propria onnipervasività e del proprio conservarsi? La teoria della rinuncia alla teoria non potrà mai nulla contro la prevaricazione sistemica del capitalismo, perché questa procede di ricatto in ricatto forte del suo unico dogma, e in ogni singola occasione troverà perfettamente il modo per dimostrare che questa volta è indispensabile fare così, ovvero dispiegare il profitto, poi la prossima facciamo come dice il Papa, promesso giurin giurello. A meno di non pensare fallacemente, come già ipotizzato in precedenza, che in mancanza d’altro, in mancanza cioè di una vera antitesi sociale, si possa immaginare il virus come antitesi del capitalismo, e siccome il capitalismo s’è fermato per il virus, almeno un po’, e quindi ha fatto come dice il Papa e dunque c’è la prova che si può fare, lo costringeremo a fermarsi ancora. Peccato solo che la sagoma di un tale capitalismo, quello che si sarebbe fermato per il virus, è ritagliata sul cartamodello dei sogni, e lascia fuori quasi tutto, ovvero il capitalismo vincente delle piattaforme e della logistica e della sorveglianza che col virus convive e prospera, e non teme in alcun modo un prossima pandemia.
Il Papa fa il suo lavoro, e lo fa bene, anche se vale la pena di ricordare, non foss’altro per diletto storico, ciò che scrisse Gramsci del tempo di Pio XI, e cioè che quando la «lotta contro il modernismo aveva squilibrato troppo a destra il cattolicismo, occorre[va] nuovamente “incentrarlo” nei gesuiti, cioè dargli una forma politica duttile, senza irrigidimenti dottrinali, una grande libertà di manovra ecc.», e dunque v’è tradizione, come sempre da quelle parti, in tutte le apparenti novità di oggi; nondimeno, ciò detto e verificato, il cardinale Krajewski che riattacca la luce a Spin Time emoziona anche me, perché la solidarietà, che Oltretevere chiamano carità, è scintilla del regno a venire; ma il lavoro della sinistra radicale dovrebbe essere altro, ovvero organizzare la distruzione dei palazzi del capitale, per fare spazio al regno nell’accezione nostra, immanente, comunista e libertaria. O almeno, al minimo sindacale, il lavoro della sinistra radicale dovrebbe essere il darsi una teoria in grado di ipotizzarla, tale distruzione, senza esserne atterriti. La supplenza della chiesa alla sinistra radicale è una sciagura, ma ci si può pur convivere; più grave se dalla sinistra radicale si guarda a quella sciagura con compiacimento.
La redenzione automatizzata
Se tutto dunque è volto al trattenimento, donde verrà la trasformazione? Se tutto è volto al trattenimento che ne è di quella «debole forza messianica» conferita in dote a ogni generazione dalle precedenti, e che la nostra sembra interamente dilapidare? Benjamin apre le sue Tesi di filosofia della storia con un’immagine buffa, quasi da baraccone: quella dell’automa in veste da turco, con una pipa in bocca, «costruito in modo tale da rispondere, ad ogni mossa di un giocatore di scacchi, con una contromossa che gli assicurava la vittoria». A vincere, per mezzo del fantoccio, è il materialismo storico; ma a muoverne le mani sulla scacchiera, da una postazione nascosta e per mezzo di fili, c’è la teologia, che «com’è noto, è piccola e brutta, e […] non deve farsi scorgere da nessuno». Tra le «cose rozze e materiali», dunque, che animano la lotta di classe, e «quelle più fini e spirituali», compresa la promessa di un’«umanità redenta», corre dunque un nesso, un filo nascosto, non solo ineludibile, ma fecondo.
Esiste però una possibilità ulteriore rispetto al trattenimento, ed è quella che la sinistra radicale aderisca alla prospettiva di una redenzione che provenga dalle macchine. Essa appare diretta ed esplicita nell’accelerazionismo, che si ripromette, con toni talvolta anche naïf, di «togliere di mezzo» ogni resistenza catecontica all’avvento di una piena automazione; ma in modo obliquo quella prospettiva plasma anche altre posizioni della sinistra più o meno radicale, posizioni che poi nella prassi quotidiana sono moderate e di trattenimento. Si tratta, in entrambi i casi, di costruzioni astratte – qui la loro debolezza – edificate a partire da dati di fatto reali, e in questo invece la loro forza e appeal. Si potrà così, per esempio, sostenere che il capitalismo produca una fittizia scarsità di beni per renderli appetibili, il che è vero, ma finendo poi per dimenticare il reale della scarsità delle risorse (la limitatezza del pianeta); oppure si argomenterà che è la cooperazione sociale a generare gli avanzamenti tecnologici, di nuovo una verità, ma trascurando il fatto che i più sofisticati strumenti sono concepiti solo nel e per il regime capitalista, di cui recano l’impronta digitale e l’ergonomia; si contemplerà giustamente, ancora, la necessità dell’ozio e del godimento in una società futura emancipata dal profitto, ma lo si farà permanendo compiaciuti in un immaginario consumistico, come nel puerile Falc (Fully Automated Luxury Communism). Nulla impedisce a tali traiettorie teoriche di manifestarsi, nel qui e ora, come pieno trattenimento: il lavoro sporco e dialettico della salvezza è infatti affidato alle macchine.
In questo panorama non c’è una forza che diriga le mosse dell’automa in veste da turco in direzione di un’«umanità redenta». E questo non solo per la nostra sconfitta storica, ma perché per una parte sostanziosa del pensiero della sinistra (radicale, ma anche liberal) la dimensione umana di quella redenzione, diciamo la bambina, viene gettata via con l’acqua sporca degli abusi in cui era coinvolto, come complice, il concetto di natura umana. Non più condotto da quell’aspirazione, l’automa in veste da turco si muta nel Turco Meccanico di Amazon; le sue mosse sono orientate dal profitto e alimentate da schiere di lavoratori polverizzati, ognuno dinanzi al suo schermo solitario, il cui lavoro vivo ha la prospettiva del kamikaze: quello di diventare ben presto lavoro morto e mutarsi (diventando eterno?) in algoritmo macchinico. Eppure anche qui, nonostante tutto, il materialismo storico fa il suo lavoro. Ma quella che traspare in controluce è un’escatologia triste e inorganica.
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* Wolf Bukowski scrive su Giap, Jacobin Italia e Internazionale. È autore per Alegre di La danza delle mozzarelle: Slow Food, Eataly Coop e la loro narrazione (2015), La santa crociata del porco (2017) e La buona educazione degli oppressi: piccola storia del decoro (2019). Nel 2020 dell’emergenza Covid ha scritto per Giap l’articolo in due puntate La viralità del decoro. Controllo e autocontrollo sociale ai tempi del Covid-19 e Max Headroom-19. Il sogno del «distanziamento sociale» permanente nella propaganda post-coronavirus.
FONTE: https://www.wumingfoundation.com/giap/2020/12/la-sinistra-che-trattiene-parte-seconda/#more-45926
FINANZA BANCHE ASSICURAZIONI
Le banche creano denaro dal nulla
DI FABIO CONDITI – 7 gennaio 2021
comedonchisciotte.org
Maurice Allais, premio Nobel per l’economia nel 1988, amava ripetere questa frase sulla moneta creata dal nulla dalle banche: “L’attuale creazione di denaro dal nulla operata dal sistema bancario è identica alla creazione di moneta da parte di falsari. La sola differenza è che sono diversi coloro che ne traggono profitto”.
Sono ovviamente d’accordo con Maurice Allais, ma per comprendere appieno la natura del problema, cambierei l’ultimo periodo della frase, sostituendolo con “La sola differenza è che i falsari non chiedono interessi”.
Nel convegno “Spread, debito e sovranità monetaria nel contesto europeo”, cui ho partecipato il 18 marzo 2019 alla Regione Lombardia, Maurizio Blondet ci ha raccontato il suo incontro come giornalista con Maurice Allais, che gli confidò un fatto curioso: da quando aveva cominciato a parlare del denaro creato dal nulla dalle banche e della sua convinzione che invece dovesse crearlo lo Stato, Allais non venne più invitato in tv e dovette pubblicare i suoi saggi a proprie spese, circostanza alquanto strana per un premio Nobel.
VIDEO QUI: https://youtu.be/QWkO04bapEI
Che l’argomento sia un tabù e che debba essere trattato con attenzione, lo conferma anche un fatto di cronaca molto noto, di cui ricorre oggi 7 gennaio 2021 il 6° anniversario, dove però la notizia più importante è tuttora sconosciuta ai più.
Nella strage di Charlie Hebdo, avvenuta alle ore 11:30 del 7 gennaio 2015, furono uccise ben 12 persone, ma tra di loro c’era anche un componente della redazione del giornale satirico, che però era anche un personaggio francese molto conosciuto e famoso: l’economista di area keynesiana Bernard Maris, che il Presidente del Senato francese Jean-Pierre Bel aveva nominato membro del Consiglio Generale della Banca di Francia.
Nei giorni seguenti l’evento tragico e ancora oggi quando lo si ricorda, si è sempre parlato dei componenti della redazione di Charlie Hebdo, senza mai specificare che tra essi c’era una vittima in assoluto molto più illustre, perché era un esperto economico di rilevanza internazionale che ricopriva anche una carica istituzionale.
La sua caratteristica peculiare è che era uno dei pochi economisti conosciuti che aveva dichiarato nei suoi libri ed anche in una sua famosa intervista, che le banche creano denaro dal nulla. “È qualcosa che è davvero difficile da capire”, aveva conclude la sua intervista che trovate in questo breve video:
VIDEO QUI: https://youtu.be/1sHs-KmRfwQ
Purtroppo ancora oggi, il fatto che praticamente quasi tutta la moneta che usiamo sia creata dal nulla dal sistema bancario è un argomento completamente assente nel dibattito politico ed economico. Eppure è proprio questo che determina l’andamento buono o cattivo di una economia.
Nei passi precedenti abbiamo spiegato e dimostrato che per il buon funzionamento di un sistema economico è necessario che la moneta circoli in quantità sufficiente per effettuare tutti gli scambi di beni e servizi, perché se scarseggia o finisce solo sui mercati finanziari, finiamo in recessione e si aggrava la crisi economica.
In questo passo, però, non analizzeremo le conseguenze che la creazione del denaro dal nulla, da parte del sistema bancario, generano all’interno del sistema economico. Cercheremo solo di analizzare con quale sistema le banche creano denaro dal nulla e come vengono gestiti i nostri pagamenti all’interno dell’economia reale, rimandando ai prossimi passi l’analisi delle conseguenze.
Considerato che la creazione di denaro dal nulla da parte delle banche è un argomento molto tecnico, consiglio, prima di proseguire nella lettura, di vedere questo video dove, con delle semplici slides, spiego i passaggi contabili in modo più semplice e chiaro.
VIDEO QUI: https://youtu.be/vIXHE8qgHvg
La moneta bancaria è un debito della banca
Avevamo chiarito nel passo precedente qual è la vera natura della moneta elettronica bancaria, sancita dall’articolo 1834 del Codice Civile secondo il quale il denaro depositato presso un banca diventa di sua proprietà, obbligandola a restituire i contanti su richiesta del “depositante”.
Quindi il nostro conto corrente bancario, in particolare la cifra del suo saldo, è un debito della banca nei nostri confronti, che però, in particolari condizioni, potrebbe non essere restituito tutto o in parte, come è già successo in Grecia con la chiusura di sportelli bancari e bancomat, o in Italia con il bail-in.
Tra l’altro questa eventualità diventa molto più probabile nei periodi di prolungata recessione come quello che stiamo vivendo oggi, dove a causa dell’aumento degli NPLs all’interno del sistema bancario, le banche sono molto più a rischio di fallimento che nel passato.
Per creare moneta le banche utilizzano ancora oggi un sistema contabile che è lo stesso da secoli, la partita doppia, con la quale nel passato venivano create le “note di banco” o le successive “banconote”, mentre oggi viene creata la ben più diffusa moneta elettronica bancaria.
La “nota di banco” rappresentava una promessa di pagamento in monete d’oro, mentre la moneta elettronica bancaria rappresenta una promessa di pagamento in contanti, cioè in moneta a corso legale.
La moneta bancaria è una promessa di pagamento in contanti
Per capire quale tipo di denaro le anche creano, dobbiamo prima distinguere tra:
- “moneta a corso legale”, che è una moneta ad accettazione obbligatoria ed è l’unica ad avere la capacità di estinguere un debito secondo l’art.1277 del c.c.;
- “promessa di pagamento in moneta a corso legale”, che è la “moneta elettronica bancaria” ma è ad accettazione volontaria ed ha la capacità di estinguere un debito solo nel momento in cui il creditore consegue la disponibilità giuridica della somma di denaro.
Quindi la banca non crea “moneta a corso legale”, ma una “promessa di pagamento in moneta a corso legale”, che però, essendo i contanti sempre meno utilizzati per effetto delle limitazioni legali all’uso dei contanti, permette alla banca di creare molte più “promesse” rispetto ai contanti che ha.
Infatti stiamo assistendo alla progressiva eliminazione dei contanti negli scambi economici, per favorire l’utilizzo della moneta elettronica, ma questo crea non pochi problemi giuridici, perché ancora oggi la moneta a corso legale costituisce la base monetaria su cui si fonda tutta la moneta elettronica bancaria che usiamo.
Più volte la BCE ha più volte redarguito il Governo per la sua intenzione di “incentivare le transazioni per mezzo di strumenti di pagamento elettronici per l’acquisto di beni e servizi allo scopo di combattere l’evasione fiscale”, perché ritiene che “tali limitazioni o disincentivi devono rispettare il corso legale delle banconote in euro”.
Il processo però sembra ormai irreversibile, la moneta da oggetto materiale cartaceo o metallico, sta diventando sempre di più immateriale e caratterizzato dall’essere solo “una promessa di pagamento in contanti”. Ma se i contanti spariscono, la moneta elettronica bancaria rischia di diventare una “promessa di niente”, che sarà considerata una “moneta a corso legale”, anche se non lo è e non lo potrà mai essere.
Infatti la moneta a corso legale è per definizione uno strumento monetaria dello Stato, che è l’unico che può crearlo perché è il solo che può dichiarare di accettarlo in pagamento delle tasse.
Come le banche creano il denaro
Per capire come le banche creano denaro dal nulla, possiamo fare diverse ipotesi partendo da quella più semplice per arrivare gradatamente a quella più complessa:
- se depositiamo contanti in banca, le banconote diventano di proprietà della banca e sono inserite nel suo attivo di bilancio, mentre al passivo compare un numero nel nostro c/c, che rappresenta il debito in contanti che la banca ha nei nostri confronti. Se decidiamo di riprenderci i contanti, la banca li preleva dal suo attivo e ce li dà, ma azzera la cifra sul nostro c/c;
- se chiediamo i soldi in prestito per acquistare un immobile, dobbiamo firmare un contratto di mutuo con ipoteca sull’immobile a favore della banca, che essendo un credito lo inserisce nel suo attivo di bilancio, mentre al passivo compare un numero nel nostro c/c, che rappresenta il debito in contanti che la banca ha nei nostri confronti. Al rogito possiamo trasferire questo debito della banca da noi al proprietario della casa, che quindi potrà richiederlo in contanti, ma non lo farà quasi mai.
I limiti normativi alla creazione di denaro dal nulla
Quando dico che le banche creano denaro dal nulla, l’obiezione più frequente è :
“ma allora come fanno a fallire” ?
Come abbiamo già visto, la creazione è possibile mettendo all’attivo del bilancio la nostra promessa di restituire il denaro creato dal nulla, altrimenti la banca dovrà far fronte alla sua “promessa di pagamento in contanti” con il suo attivo, che quindi deve coprire questo “ammanco”.
Quindi in pratica la creazione di denaro dal nulla con i prestiti, è “garantita” dalla nostra capacità di restituire il prestito ricevuto, ma se per qualche motivo non lo restituiamo, la banca deve utilizzare le proprie risorse.
Per questo motivo c’è sempre stato un vincolo relativo alla percentuale di riserve obbligatorie che la banca deve avere proprio per far fronte a questa necessitò. Ma se fino al 1993 erano obbligate a conservare una riserva in contanti superiore al 17,5% di tutti i loro depositi, dopo di quella data la Banca d’Italia e la BCE hanno ridotto progressivamente questa percentuale fino all’1% fissato nel 2012, cioè con 1 euro se possono creare 100 euro. Addirittura in alcuni paesi al mondo l’obbligo di riserva è stato eliminato.
Ma l’1% è un limite oggettivamente troppo basso, per questo motivo negli ultimi anni sono state introdotte alcune regole sugli attivi dei bilanci delle banche, le cosiddette regole di Basilea I, II e III, che impongono un patrimonio di garanzia minimo pari a circa l’8% del rischio di credito, che però è meno dell’ammontare di tutti i depositi.
In realtà solo una parte di questo patrimonio di garanzia può essere considerato “liquidità disponibile”, quindi il limite reale è inferiore all’8% sui depositi creati, ma se anche volessimo prendere per buono questo valore, la moltiplicazione monetaria sarebbe comunque superiore a 1 a 12, che significa che nella migliore delle ipotesi con 1 euro le banche possono creare circa 12 euro dal nulla.
Come avvengono i pagamenti tra le banche
La domanda che viene spontanea a questo punto è la seguente: come fanno le banche ad effettuare i pagamenti tra banche diverse se la riserva obbligatoria è così bassa ? Ricordiamo che un trasferimento di denaro da un c/c di una banca ad un c/c di un’altra, corrisponde al trasferimento di un “debito” della banca nei confronti del cliente, quindi nessuna banca accetterebbe questo trasferimento senza richiedere un equivalente in riserve per coprire questo debito.
Nel caso quindi di un pagamento nei confronti di un soggetto cliente di un’altra banca, teoricamente il pagamento tra le due banche dovrebbe essere regolato con un trasferimento di riserve equivalenti, ma, non avendone a sufficienza, le banche utilizzano altri sistemi per evitare di doverle usare.
Visto che ogni giorno avvengono molti pagamenti tra tutte le banche che sono collegate alla Banca d’Italia, quest’ultima può effettuare tutte le compensazioni tra le entrata e le uscite da ciascuna banca, utilizzando il suo sistema di compensazione multilaterale Bi-Comp, in modo da ridurre limitare l’eventuale uso di riserve. Infatti se la banca X ha avuto entrate per 100.000 euro e uscite per 120.000 euro, l’importante è che abbia riserve per la differenza, cioè per 20.000 euro.
Ma anche i residui dopo la compensazione, possono essere risolti, in alternativa al pagamento in riserve, con un prestito sul mercato interbancario oppure direttamente con un prestito della Banca d’Italia. Questo perché in un sistema bancario “chiuso” le entrate e le uscite sono matematicamente compensate, quindi se c’è una banca che ha un residuo da pagare in riserve, ci saranno sicuramente una o più banche che dovranno riceverlo, e che possono essere disponibili a sostituire questo pagamento con un prestito sul mercato interbancario.
La BCE e Target II
Visto che però il sistema bancario non è chiuso, perché l’Italia fa parte del SEBC, cioè del Sistema Europeo delle Banche Centrali gestito dalla Banca Centrale Europea, ci saranno sicuramente pagamenti verso l’estero che possono creare “scompensi”, per questo motivo è stato creato un meccanismo di compensazione svolto dalla BCE, chiamato Target II che immette riserve della BCE all’interno del sistema bancario “debitore”.
Quindi Target II non è un debito dell’Italia nei confronti della BCE, ma un debito del nostro sistema bancario, prevalentemente privato, verso la BCE, che verrà naturalmente saldato quando la moneta creata dal nulla con i prestiti, verrà nel frattempo restituita da chi l’ha richiesta. Considerato però che nel frattempo viene anche creata moneta dal nulla con nuovi prestiti, in realtà questo “debito” del sistema bancario italiano tende a crescere all’infinito per effetto del continuo disequilibrio nelle bilance di pagamento tra i diversi stati europei, ovviamente a vantaggio della Germania.
Conclusione
Le banche creano dal nulla una moneta elettronica che è in sostanza una “promessa di denaro”, che però noi ci scambiamo come se fosse “moneta a corso legale”.
Le limitazione all’uso dei contanti, ha determinato la condizione che più del 90% di tutta la moneta che usiamo è una “promessa di denaro” che le banche creano dal nulla con le nostre garanzie.
Purtroppo in Italia oggi le banche italiane sono controllate prevalentemente da azionisti stranieri, che prestano sempre meno all’economia reale perché preferiscono le speculazioni finanziarie.
Se lo Stato italiano avesse un sistema bancario come ha la Germania, dove più del 50% delle banche sono pubbliche, anche in Italia lo Stato potrebbe creare denaro per le famiglie e le imprese.
Con un moltiplicatore minimo di 1 a 12, lo Stato potrebbe, con soli 30 mld di euro, prestare all’economia reale più di 360 mld di euro, senza aver bisogno di chiedere prestiti ai mercati finanziari o alle istituzioni europee.
La banca pubblica potrebbe anche prendere prestiti a tasso negativo dalla BCE (TLTRO, Targeted Longer-Term Refinancing Operations) come Unicredit, che nell’ultima asta di è aggiudicata ben 94,3 mld di euro ad tasso negativo intorno a -0,75%.
Solo se diventiamo consapevoli che oggi praticamente tutto il denaro che usiamo viene creato dal nulla dal sistema bancario con i prestiti, allora saremo in grado di capire perché il debito pubblico e privato cresce continuamente, ma soprattutto riusciremo a cambiare paradigma per trovare soluzioni concrete e realizzabili per uscire dalla crisi.
Perchè LORO non molleranno facilmente, ma NOI NON MOLLEREMO MAI.
La moneta sarà di proprietà dei cittadini e libera dal debito.
Fabio Conditi – Presidente dell’associazione Moneta Positiva
http://monetapositiva.blogspot.it/
Altri articolo dell’autore
https://comedonchisciotte.org/?s=Fabio+Conditi
Fonte: www.comedonchisciotte.org
07.01.2021
GIUSTIZIA E NORME
Palamara a cena con Pignatone, ma la Finanza decise di spegnere il trojan…
di Paolo Comi
Non ci fu alcun malfunzionamento: il trojan venne spento dai finanzieri del Gico la sera che Luca Palamara incontrò a cena Giuseppe Pignatone. La clamorosa rivelazione è emersa solo adesso con la lettura degli atti d’indagine depositati dalla Procura di Perugia. La storia è nota. Il telefono cellulare di Palamara, indagato per corruzione nel capoluogo umbro, venne, dal 3 al 31 maggio del 2019, sottoposto a intercettazione mediante l’utilizzo del trojan”, il virus spia che trasforma l’apparato in un microfono.
Come più volte ricordato, il trojan deve essere programmato. Utilizzando molta energia, è necessario indicare le fasce orarie in cui accendersi. Normalmente non si devono superare le sei o otto ore al giorno, proprio per evitare che l’intercettato, notando un consumo anomalo della batteria, possa insospettirsi. Nel caso di Palamara, conoscendo le sue abitudini, i finanzieri alle dipendenze del colonnello Gerardo Mastrodomenico e del maggiore Fabio Di Bella, decisero che, durante l’arco della giornata, le ore serali sarebbero state quelle più interessanti dal punto di vista investigativo. E questo perché il magistrato romano era solito cenare quasi sempre fuori casa “intrattenendosi con svariati soggetti”.
Mastrodomenico e Di Bella, come disse Palamara parlando un giorno con il dem Luca Lotti, erano gli uomini di fiducia del “I”, alias Pignatone. L’avvio della registrazione avveniva all’orario programmato per ogni giornata in maniera automatica e solo quando lo schermo del terminale era spento, interrompendosi quando lo schermo si fosse acceso per qualsiasi motivo.
Leggendo, come detto, l’annotazione relativa alle operazioni di intercettazione della società milanese Rcs (che ha fornito il captatore e il supporto tecnico alla Procura di Perugia, ndr) datata 29 luglio 2019 e depositata dai pm lo scorso 20 aprile, risulta, però, una circostanza clamorosa.
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Integrale del Riformista qui: https://www.ilriformista.it/palamara-a-cena-con-pignatone-ma-la-finanza-decise-di-spegnere-il-trojan-i-documenti-187026/
FONTE: https://www.maurizioblondet.it/palamara-a-cena-con-pignatone-ma-la-finanza-decise-di-spegnere-il-trojan/
LA LINGUA SALVATA
In Perfetta Neolingua
https://twitter.com/GiuseppeConteIT/status/1347118543133954048
“Agenda globale”, “sostenibile”, “inclusiva”… i termini approvati dal World Economic Forum, da Lady Rothschild e da Bergoglio.
Anche noi dobbiamo imparare. Adesso diventa pericoloso usare il linguaggio non approvato.
Già è cominciata la campagna sui media contro i “negazionisti” che sono anche “cospirazionisti” e “trumpiani”, quindi vannno repressi e perseguiti.
FONTE: https://www.maurizioblondet.it/perfetta-neolingua/
LAVORO PENSIONI DIRITTI SOCIALI
Fana Vs Fornero: Lavoro vero o nuova schiavitù?
Dibattito sul futuro che ci attende
Di Federica Tonani, ComeDonChisciotte.org
Si confrontano Marta Fana, economista e saggista, ed Elsa Fornero, ministro del Lavoro durante il governo Monti.
Elsa Fornero sottolinea il problema di un conflitto tra generazioni nella distribuzione del reddito e nell’appropriazione dei benefici della spesa pubblica. Le scarse risorse pubbliche a disposizione dei giovani sarebbero, in questa prospettiva, il risultato di un’iniqua distribuzione a favore degli attuali pensionati (o prossimi alla pensione).
Marta Fana, al contrario, mette al centro un problema di conflitto distributivo tra reddito da lavoro e reddito da capitale. Le scarse prospettive per i più giovani sarebbero, quindi, il risultato di un deterioramento della distribuzione del reddito a sfavore del lavoro e a favore dei profitti e delle rendite.
I due punti di vista, che sono l’oggetto di confronto tra le due ospiti, offrono uno sguardo a due prospettive di politica economica e forniscono lo spunto per una domanda “capitale”: conflitti di classe in orizzontale (tra generazioni o tra parti sociali), o lotta di classe SottoSopra?
Same as Usual, buona visione.
#ideesottosopra #disuguaglianze #leferitedelpianeta #osservatorioglobalizzazione
VIDEO QUI: https://youtu.be/yMpPoh-_OMU
L’intervista nasce dalla collaborazione tra Sottosopra e Osservatorio Globalizzazione
Un grazie speciale a Sottosopra e Osservatorio Globalizzazione per la gentile concessione.
Pubblicato da Jacopo Brogi per ComeDonChisciotte.org
FONTE: https://comedonchisciotte.org/fana-vs-fornero-lavoro-vero-o-nuova-schiavitu/
PANORAMA INTERNAZIONALE
L’ASSALTO AL CAMPIDOGLIO, UNA STRATEGIA PER SCREDITARE TRUMP
LA ZAD E LA GUERRA CIVILE MONDIALE
HERVÉ KEMPF – 16 LUGLIO 2018
L’offensiva del governo contro la ZAD (Zona da difendere in francese NDT) mira alla distruzione di ogni possibilità di vitA alternativa. E si inserisce in una tendenza mondiale della classe dirigente neo- liberale di imporre un potere forte.
Con 2500 carabinieri delle volanti, veicoli blindati, elicotteri… e pure qualche centinaia di carabinieri a Nantes e a Rennes, per coprire la retroguardia.
Dal 9 aprile, la Francia è in guerra. Contro chi ? Contro circa due cento persone, che vivono in un paesaggio di boschi in cui fanno del pane, della birra, dell’orticoltura, e armeggiano, discutano, leggono, entrano ed escono.
L’apparato militare della Francia, che interviene nel Mali, in Siria o in Iraq – senza dibattito parlamentare, al contrario delle prescrizioni dell’articolo 35 de la Costituzione -, si è dispiegato sulla ZAD di Notre-Dame-des- Landes.
La logica di questa operazione che ogni essere ragionevole considererebbe come la manifestazione di un grande delirio appare chiara : dopo aver ceduto davanti ad una lotta popolare abbandonando il progetto di costruzione dell’aeroporto di Notre-Dames-des-Landes, il governo vuole dimostrare la sua forza espellendo gli ‘occupanti illegali’.
Nel disprezzo delle procedure legali d’espulsione, il governo francese ha rifiutato senza discussione la proposta di gestione collettiva dei terreni coltivati da dieci anni dagli occupanti, e non ha il minimo progetto concreto di uso di questa zona unica per la sua ecologia e mantenuta proprio da quelle e quelli che Emmanuel Macron, Edouard Philippe, Gérard Collomb e Nicolas Hulot vorrebbero cacciare.
Questo brillante quartetto mostra così all’opinione pubblica, grazie alle immagini e ai commenti propagati con la complicità dei media di Xavier Niel, Patrick Drahi, Vincent Boloré, Serge Dassault, Arnaud Lagardère, Martin Bouygues, e tutti quanti, cosa significa ‘l’ordine’ e indica ai diversi movimenti sociali di questo paese a cosa possano aspettarsi.
La missione dei 2500 robocop è abbattere la possibilità di vivere diversamente.
Ma non è l’unico effetto politico desiderato da Macron e i suoi sbirri. La sproporzione dei mezzi usati indica che il modo di vivere nella Zad minaccia l’ordine liberale : la possibilità di esistere
diversamente, di cercare la cooperazione invece della competizione, l’organizzazione senza gerarchia tra gli esseri umani, la gestione dei conflitti senza polizia o giustizia, la condivisione del bene comune in armonia con la natura, il vivere con sobrietà, l’uscita dell’asservimento al denaro.
Tutto questo è realtà nella ZAD ? Non si può dire. Ma ci si prova davvero, e numerosi fatti attestano che ci sia qui una magnifica alternativa, una finestra aperta nel muro asfissiante del capitalismo. La mission dei 2500 robocop mandati dal presidente banchiere è proprio di distruggere questa finestra.
Occorre andare ancora più lontano. Quello che sta succedendo a Notre-Dame-des-Landes è una
parte della guerra globale condotta dall’oligarchia contro i popoli.
L’attualità immediata ci ha appena mostrato come il portavoce dei poveri del Brasile, Lula, è stato arrestato a seguito di una sconcertante procedura, o come lo Stato israeliano uccide manifestanti e giornalisti a Gaza.
Sono gli ultimi scheggi dell’ondata autoritaria delle classe dirigenti. Quasi tutta Americaplatina (Brasile, Cile, Argentina, Peru, Guatemala) è passata sotto controllo di governi duri che applicano la ricetta neoliberale.
In Cina, il presidente Xi Jinping ha recentemente rinforzato il suo potere. In Russia, Putin
governa soffocando ogni opposizione. Negli Stati Uniti, Trump prosegue la sua politica di
deregolamentazione finanziaria e ambientale senza contro-poteri effettivi. In Egitto, nelle Filippine, in Polonia, in India, in una decina di altri paesi, si ritrova questa combinazione di potere forte, che difende gli interessi dell’oligarchia, e di distruzione dell’ambiente in nome della crescita.
E l’Europa evolve sempre di più verso questo nuovo modello di oligarchia autoritaria. E infatti una guerra civile mondiale che si svolge, una guerra condotta dalle classe dirigenti contro i popoli increduli dalla globalizzazione, e contro i frazioni che riescano ad opporsi a questa strategia del choc seguita dai capitalisti.
Una cifra evidenzia la sfida che non è solo una lotta sociale, ma proprio una guerra a proposito del futuro dell’umanità su questa pianeta in preda a una crisi ecologica senza precedenti : i membri del gruppo dell’1% dei più ricchi emettono in media ogni anno 80 tonnellate di CO2, ovvero dodici più della media della popolazione mondiale (6,2 tonnellate).
In altri termini, i più ricchi sono i più inquinanti. Nella prospettiva del rischio di cambiamento climatico e le sue conseguenze, si può considerare che queste emissioni di 80 tonnellate di CO2 ogni anno sono davvero criminali.
Le oligarchie promuovono la possibilità di mantenere un sistema in cui dannegiano l’interesse
generale. Perché il cuore dell’interesse generale, in questo inizio del XXI secolo, è proprio la
questione ecologica, di cui il risultato comanda le condizione d’esistenza dell’umanità.
E’ quasi ironico che il loro attacco del momento mira un posto in cui si cerca delle soluzione per vivere in un modo che non danneggia il clima.
Ecco perché Macron, Philippe, Collom e Hulot, che preservano gli interessi dei membri delle 80
tonnellate per anno, sono anche loro dei criminali, ed ecco perché occorre difendere la ZAD.
*Articolo pubblicato dalla rivista Reporterre, traduzione in italiano a cura di Sylvain Bianchi
FONTE: https://www.qcodemag.it/indice/interventi/la-zad-e-la-guerra-civile-mondiale/
POLITICA
A cosa serve l’epiteto «negazionista» e quale realtà contribuisce a nascondere
Pubblicato il 15.11.2020 Wu Ming
Video “virali” del tizio o della tizia che gliele canta ai «negazionisti»; titoloni sul pericolo «negazionisti»; invettive contro i «negazionisti»; satira sui «negazionisti», grasse risate! I «negazionisti» sono ovunque, ed è colpa loro se le cose vanno male. Ecco allora i nostri eroi, i prodi che li contrastano, gettando loro guanti di sfida: «Vengano in terapia intensiva, i negazionisti!»
Sono sfide a nessuno, invettive contro fantasmi, colpi sparati nella nebbia. Chi sarebbero i «negazionisti»? Sì, esistono frange secondo cui la pandemia sarebbe finta, ma sono ultraminoritarie. In genere, nemmeno chi è aperto a fantasie di complotto su Bill Gates, i vaccini e quant’altro nega che sia in corso una pandemia e che il virus uccida. E allora di chi si sta parlando?
Il termine «negazionista» ha ormai una storia pluridecennale. Coniato negli anni Ottanta per definire personaggi come David Irving, Robert Faurisson o Carlo Mattogno, secondo i quali nei lager nazisti non sarebbero esistite camere a gas né sarebbe avvenuto alcuno sterminio sistematico di ebrei e altri prigionieri, in seguito è stato esteso a sempre più ambiti, diventando un’arma nelle culture wars del XXI secolo.
In Italia, negli ultimi quindici anni, se n’è appropriata la destra per accusare di «negazionismo» chiunque smontasse le sue narrazioni – bufale storiche incentrate su fantasie di complotto antislave – sulle «foibe» e l’«Esodo istriano-dalmata». In quel modo, mentre una narrazione risalente al collaborazionismo filonazista diventava “storia di Stato” con l’istituzione del Giorno del Ricordo, la destra poteva fingere di occupare il “centro” del dibattito sulla memoria storica. In parole povere, poteva denunciare gli “opposti estremismi”: c’è chi nega la Shoah e c’è chi “nega le foibe”, stessa roba.
E dato che – nonostante l’opposizione di gran parte delle storiche e degli storici – anche in Italia si è introdotta una legge «anti-negazionisti» (lo ha fatto il governo Renzi nel giugno 2016), a essere agitato è anche lo spettro dell’azione giudiziaria. È proprio di quest’anno una proposta di Fratelli d’Italia per estendere l’attuale legge ai «negazionisti dei massacri delle foibe».
L’effetto di framing è quello della Reductio ad Hitlerum: su qualunque tema e questione si attiva un implicito – e a volte esplicito – paragone con il negazionismo della Shoah, e tramite una catena di false equivalenze si accelera il ciclo della Legge di Godwin: in men che non si dica ti danno del nazista, perché se sei “negazionista” – poco importa riguardo a cosa – sei come i nazisti.
Da tempo l’uso del termine «negazionismo» segnala un buttarla in vacca, e sarà sempre più così, perché il termine incoraggia l’indolenza, si presta ad accuse pigre.
Quel che è più grave, il termine spinge verso la patologizzazione dei discorsi sgraditi e la psichiatrizzazione dell’avversario: se non sei d’accordo con me che la penso “come tutti” allora “neghi la realtà”, e chi nega la realtà è un folle o un demente, e coi folli o i dementi non si può ragionare.
Torniamo all’ossessione odierna per i «negazionisti del Covid»: andando a vedere, si scopre che «negazionista» è un epiteto scagliabile contro chiunque critichi l’irrazionalità e/o iniquità di un provvedimento o anche solo si mostri scettico sulla sua efficacia, chiunque smonti un esempio di mala informazione mainstream sul virus o reagisca sbuffando all’ennesimo titolo strumentale, chiunque ricordi le responsabilità del governo o dei governatori, chiunque rifiuti la narrazione dominante incentrata sull’«è colpa nostra, non ce la possiamo fare, gli italiani capiscono solo il bastone». Persino chi “indossa male” la mascherina si becca l’epiteto di «negazionista».
Il «negazionista» è il nuovo «quello che fa jogging».
Uno pseudo-concetto che fa danni
L’uso indiscriminato ha reso l’epiteto non solo di scarsa utilità per capire quali posizioni si stiano di volta in volta scontrando, ma lo ha reso proprio tossico.
Qualcuno ancora cerca di usare il termine in modo che produca senso. Nella migliore delle ipotesi, si brandisce un’arma concettuale spuntata; nella peggiore, si lancia un vero e proprio boomerang, perché l’effetto di framing è fortissimo e il termine genera inevitabilmente dicotomie, antinomie, pensiero binario.
Arma spuntata. Quando si parla di disastro climatico, dove pure un negazionismo – in senso stretto e in senso lato – è stato a lungo operante, godendo anche di finanziamenti da parte dell’industria dei combustibili fossili, l’accusa funziona sempre meno e sta diventando un cliché, un tic lessicale, una manifestazione di pigrizia, come già in altri ambiti. I negazionisti stanno da tempo ricalibrando i loro discorsi, oggi davvero poca gente sostiene che non sia in corso un surriscaldamento globale. Le argomentazioni speciose riguardano l’entità del fenomeno, le sue cause e il come farvi fronte.
Effetti boomerang e pensiero binario. Anche noi, in coda a un post di qualche settimana fa, abbiamo scritto che chi accusa chiunque di «negazionismo» è il più delle volte negazionista, perché nega ogni evidenza sull’irrazionalità dei provvedimenti e sulle responsabilità politiche nella gestione della pandemia. Un paradosso che abbiamo scelto di non sviluppare, perché sviluppandolo avremmo rilegittimato l’uso del termine e rafforzato un frame pericoloso. Ha provato invece a svilupparlo Giancarlo Ghigi in un articolo uscito sul sito di Jacobin Italia e intitolato «I due contagi».
Ghigi divide l’opinione pubblica in due schieramenti o due «tifoserie»: i negazionisti del morbo e i negazionisti del disciplinamento. L’articolo dice molte cose giuste, ma stabilisce dal principio una falsa omologia: almeno nella società italiana – ma crediamo valga per tutta l’Europa e gran parte dell’Occidente – i «negazionisti del morbo» sono un’infima minoranza, costantemente ingigantita al microscopio dai media e tirata in ballo per esecrare il dissenso, mentre il «negazionismo del disciplinamento» è maggioritario, impregna il discorso ufficiale e dà forma alla narrazione dei media filo-governativi.
Quando Ghigi esorta a «riconoscere il morbo come oggettività», di chi parla? Chi davvero non sta «riconoscendo il morbo come oggettività»? Quant’è utile stabilire un’omologia tra chi negherebbe l’esistenza del virus e chi prende sottogamba la gestione autoritaria e capitalistica dell’emergenza, se il primo atteggiamento è in gran parte effetto di una proiezione gigantografica mentre il secondo è ideologia dominante? Alla fine, l’esito è quello di riproporre gli “opposti estremismi”, con l’autore che si pone “nel giusto mezzo”. Come ci ha detto un compagno con cui abbiamo commentato il pezzo di Ghigi, «intuisco le buone intenzioni, ma si è come ubriacato della sua stessa dicotomia.»
Detto questo, ci è drammaticamente chiaro a chi pensasse Ghigi denunciando il «negazionismo del disciplinamento». Quest’ultimo gonfia il non-detto di una “sinistra”, anche e soprattutto “radicale” e “di movimento”, che in nome dell’emergenza – vissuta dal principio in modo subalterno – ha rinunciato a esprimere qualunque critica ai dispositivi in atto.
Lo s-piazzamento della «sinistra»
Con poche e lodevoli eccezioni, l’area politica che per inerzia abbiamo continuato a chiamare «il movimento» – un rado reticolo di centri sociali, collettivi universitari, radio indipendenti, librerie, cooperative e segmenti di sindacati di base – si è legata da sola mani e piedi. Lo ha fatto nel momento in cui ha deciso di sposare la narrazione colpevolizzante e securitaria imposta dalla «dittatura degli inetti», e questo è accaduto subito, prima ancora del 9 marzo.
Con l’autunno, l’area è rimasta spiazzata – anche in senso letterale: esclusa dalla piazza – dalle proteste e rivolte contro i dpcm, e adesso prova a far vedere che c’è anche lei, finendo per emettere proclami confusi, contraddittori, inefficaci. L’idea di fondo è ancora che si debba chiedere un «reddito di lockdown». Più è duro il «lockdown» – e lo si auspica duro, per stangare i furbetti dell’aperitivo e i genitori permissivi – più deve essere universale il reddito. La situazione immaginata corrisponde agli arresti domiciliari di massa con lo stato che ci versa un sussidio sul conto corrente.
A parte che questo è un incubo huxleyano, rivelatore di un’idea miseranda di vita umana, qualcuno dovrebbe spiegarci perché e per come ciò potrebbe o dovrebbe realizzarsi. Perché lo diciamo «noi»?
Chi davvero non ha reddito, da che mondo è mondo, si organizza per protestare, lottare e ottenerlo. L’ultima cosa che fa è accettare o addirittura chiedere d’essere recluso.
Qualche giorno fa abbiamo visto gli operai Fiom di Genova scendere in strada e arrivare anche all’attrito con la polizia per protestare contro i licenziamenti, che in teoria sono bloccati, ma fatta la legge trovato l’inganno. In molti luoghi di lavoro i lavoratori e le lavoratrici si organizzano ogni giorno per rivendicare il diritto di fare assemblee sindacali in presenza, negli spazi adeguati, perché i padroni – privati e pubblici – hanno iniziato a negarle o a declinare ogni responsabilità in caso di contagio: sei buono per andare a lavorare ma non per fare l’assemblea sindacale. I riders manifestano ormai con una certa frequenza, con flash mob per strada, cioè precisamente sul loro luogo di lavoro. I cosiddetti intermittenti della cultura e lavoratori dello spettacolo sono scesi in piazza in varie città per ricordare a tutti che stanno alla canna del gas. Per non guardare all’estero, dove abbiamo visto lotte di piazza importantissime in questi mesi pandemici, perfino in un paese devastato come gli USA, dove il movimento Black Lives Matter ha dato una spallata importante alla presidenza di Trump contribuendo a non farlo rieleggere.
Le lotte le puoi fare se ti prendi lo spazio e l’agibilità per farle, non se ti fai recludere.
Se invece il reddito è una rivendicazione puramente ideale, astratta, allora sì, va bene anche chiederlo dal divano.
Una “spia” di quanto sia astratto il discorso è che, nelle varie convocazioni e articolesse, si attacca retoricamente Confindustria mentre si fanno i salti mortali per non criticare l’esecutivo, i tempi, modi e contenuti dei dpcm, l’emergenza come metodo di governo.
Lo diciamo chiaro: se attacchi Confindustria e non il governo, non stai davvero attaccando Confindustria.
La narrazione colpevolizzante, il costante scarico delle responsabilità sui cittadini, la demonizzazione dell’aria aperta quando il contagio è sempre stato molto più probabile al chiuso, la chiusura di luoghi della vita pubblica e settori del mondo del lavoro dove il contagio era improbabile mentre se ne tengono aperti altri dove è probabilissimo… Tutto questo deriva a cascata dalla necessità, da parte del governo, di non ledere gli interessi di Confindustria. Bisogna far vedere che si fa qualcosa, che si chiude qualcosa, e si adottano provvedimenti cosmetici, apotropaici, diversivi. È così dal marzo scorso, da quando il governo si rifiutò di dichiarare zona rossa i comuni di Alzano e Nembro, in bassa val Seriana.
E così ci ritroviamo a subire il coprifuoco, misura che non ha alcuna giustificazione epidemiologica credibile ma serve a fare “penitenza”, come detto con ammirabile candore dall’immunologa Antonella Viola dell’Università di Padova:
«Il coprifuoco non ha una ragione scientifica, ma serve a ricordarci che dobbiamo fare delle rinunce, che il superfluo va tagliato, che la nostra vita dovrà limitarsi all’essenziale: lavoro, scuola, relazioni affettive strette.»
Se il focus della narrazione si è fissato sulla necessità di “fare penitenza”, è perché la responsabilità è stata stornata da chi ce l’aveva e dispersa verso il basso.
Ogni presa di posizione che rimanga reticente su questo, ogni ricorso a Confindustria come mero sparring-partner retorico, ogni discorso unicamente incentrato sul «reddito di quarantena» o analoghe formule, ogni tinteggiatura “rivoluzionaria” dell’esortazione a chiuderci in casa è per noi irricevibile. E reazionaria.
«Ne parliamo dopo»… quando?
La cosa che continua a stupirci, nelle tirate moralistiche dei “compagni per la reclusione domestica generalizzata e per la colpevolizzazione dei furbetti”, è quanto la facciano semplice, quanto prendano alla leggera – quasi alla leggiadra – l’idea mostruosa di azzerare la vita sociale a tempo indeterminato, quanto siano arrivati a trovare non solo necessaria ma augurabile e persino, implicitamente, rivoluzionaria l’immagine di milioni di persone blindate tra quattro pareti (ma ci sono i social, c’è Zoom, dài, che vuoi che sia!). Stupisce il fatto che non si pongano mai il problema di quanta sofferenza, quanta malattia mentale, quante esistenze triturate e rovinate, quanti passaggi di vita fondamentali perduti, quanta morte ci sia in questo scenario. Perché la morte non è solo la cessazione di un paio di funzioni-base dell’organismo.
I controlli fatti dopo la fine di #iorestoacasa (da maggio in poi) hanno riscontrato un aumento generalizzato di suicidi, violenze domestiche, femminicidi, vendite di psicofarmaci, depressione, ansia e disturbi alimentari tra bambini e adolescenti, azzardopatia, dipendenza da Internet e da video e molti altri disturbi. Per non parlare dei disturbi che causa e causerà l’aver perso il lavoro, l’attività, a volte la dignità.
Davvero siamo arrivati a credere che «salute» sia soltanto non prendersi il virus?
Davvero siamo arrivati a pensare che «vita» significhi così poco, e si riduca al non ammalarsi di Covid?
Com’è possibile che si sia giunti a dire che ora si deve pensare solo al virus e di tutto il resto della realtà sociale – forse – ne parleremo «dopo»? Ma «dopo» quando? Davvero si pensa che, se stiamo zitti e muti adesso, «dopo» potremo riprendere discorsi “radicali” come niente fosse? Ma dove, come? Con quale faccia?
Ecco allora che «negazionista» diventa chiunque non accetti di posporre la critica a «data da destinarsi», cioè alle calende greche.
L’uso dell’epiteto si accompagna a un altro espediente: chi attacca Confindustria in modo astratto e retorico – come escamotage per non criticare il governo che di Confindustria tutela gli interessi – accusa di «confindustrialismo» (!) chi invece, coerentemente, critica Confindustria e governo insieme.
Questo capovolgimento della realtà è reso possibile da un’accusa preliminare: quella di «pensare alla libertà individuale invece che alla tutela del prossimo». In base a tale falsa premessa, ogni critica dell’emergenza sarebbe «liberista». A molti si è piantata in testa l’idea che la libertà sia «individuale» e da lì non li smuoverà più nessuno. Nelle scienze cognitive si chiama «pregiudizio di ancoraggio».
La facile apologia di ogni restrizione – anche la più irrazionale e disonesta – sta mettendo in secondo piano, anzi, in terzo, decimo, centesimo piano la devastazione del legame sociale, lo smarrimento di massa, la schizofrenia nei rapporti tra le persone, ma chi lo fa notare… «difende l’individuo».
In realtà è il contrario, il vero individualismo è quello di chi accetta l’escamotage neoliberale per eccellenza, che magari prima della pandemia fingeva di rifiutare: quello di indicare in un comportamento individuale la soluzione a un problema che invece è sociale e sistemico, e va affrontato con l’azione collettiva.
Nel contesto dell’emergenza Covid, accettare questa premessa porta a imperniare il discorso sulla “virtù” individuale, sul fare penitenza dell’individuo, sul sacrificio personale da esibire per far vedere che si è più altruisti degli altri. In questo gioca anche un certo cattolicesimo – il più retrivo e ipocrita, quello descritto in alcuni racconti di G.A. Cibotto – che infatti è eruttato fuori dalla crepa aperta dall’emergenza e adesso scorre sui social, soprattutto tra chi dei «più deboli» – espressione con cui pure si riempie la bocca – dimostra spesso di infischiarsene. Basti vedere la scarsa o nulla attenzione nei confronti di bambini e adolescenti.
«Maligni amplificatori biologici»
In un post del 25 Aprile scorso, commentando la riapertura delle librerie e la prima visita di un paio di bambini alla libreria per ragazzi Giannino Stoppani di Bologna, scrivevamo:
«Questo momento di libertà è idealmente dedicato a chi per mesi ha dipinto i bambini come untori perfetti, potenziali omicidi dei loro nonni; a chi già prima della pandemia li definiva “maligni amplificatori biologici che si infettano con virus per loro innocui, li replicano potenziandoli logaritmicamente e infine li trasmettono con atroci conseguenze per l’organismo di un adulto” (Roberto Burioni, 31/03/2019); a chi ha scatenato il panico sociale contro di loro, spingendo i genitori a murarli vivi dentro casa, in certi casi rimandando perfino importanti visite mediche o terapie per loro essenziali. La pericolosità dei bambini è stata presa per oro colato, anche se i dati sul comportamento del Covid19 sono ancora contraddittori. Il 21 aprile scorso, il virologo dell’università di Padova Andrea Crisanti, che ha condotto lo studio sul focolaio di Vo’ Euganeo, ha fatto sapere che in quella comunità “i bambini sotto i 10 anni, seppure conviventi con infettati in grado di infettare, non si infettano. E se sono negativi non infettano”. […] Insomma, molti aspetti delle modalità di trasmissione di questo virus non sono ancora chiari, e sarebbe davvero paradossale se un domani dovesse emergere che abbiamo segregato i bambini più piccoli per niente, con un provvedimento dettato dal panico.»
Crisanti ha ribadito il concetto in un’intervista a Radio Capital di qualche giorno fa.
Anche un recente articolo apparso sulla rivista Nature conferma che i bambini entro i dieci anni non sarebbero infettivi e che in generale le scuole primarie non sono “punti caldi” per le infezioni da coronavirus.
Dunque abbiamo bruciato metà anno scolastico a una generazione per niente, tanto per chiudere qualcosa che non impattasse sull’economia. Perché dal punto di vista del capitale i giovanissimi sono come gli anziani: improduttivi (Toti dixit). Quindi sacrificabili.
Per i bambini campani è ancora così: niente scuola, mentre si chiama l’esercito a presidiare le strade, come durante un golpe, anziché a costruire ospedali da campo.
In Puglia, dopo la riapertura delle scuole, ordinata dal TAR il 6 novembre, l’assessore alla Salute Lopalco ha parlato di «un errore clamoroso». Repubblica e altri giornali locali hanno subito dato grande risalto ai dati dell’Asl, evidenziando che nella settimana della riapertura, dal 6 all’11 novembre, «il numero di positivi riscontrati in ambito scolastico nell’area metropolitana di Bari è passato da 132 a 243 casi». Ma un simile effetto immediato è tutto da dimostrare. Le scuole infatti, dove sono aperte, stanno funzionando come presidi sanitari, dove i positivi vengono individuati, tracciati, tamponati. Se, riaperte le scuole, aumentano i positivi, può trattarsi di contagi avvenuti proprio nella settimana di chiusura, quando i ragazzini non erano in aula, ma forse in luoghi meno sicuri.
Intanto teniamo gli adolescenti in DAD, dopo avere varato protocolli nazionali sulla gestione degli spazi scolastici e fatto investire denaro pubblico a governatori regionali e dirigenti per adeguarsi alle nuove normative. Soldi nostri buttati nel cesso.
Se fai notare tutto questo, però, sei «negazionista», e ti becchi l’attacco concentrico, i titoloni, i video virali, la memetica d’accatto, le invettive sui social, gli (ex-)amici che ti infamano.
Nel frattempo, è acclarato che:
■ l’Italia non aveva un piano pandemico aggiornato e il rapporto commissionato dall’OMS che denunciava il fatto è stato insabbiato;
■ durante l’estate il governo ha fatto poco o niente per arginare la tanto paventata seconda ondata (ma il ministro Speranza ha trovato il tempo di scrivere un libro intitolato Perché guariremo, la cui uscita in libreria è stata posticipata sine die);
■ in certe regioni le terapie intensive reggono bene, mentre in altre i malati di covid muoiono in corsia;
■ i tanto decantati metodi di “tracciamento” ipertecnologici sono andati in crisi nel giro di due settimane, tanto che nessuno ne parla nemmeno più; ecc.
Ma questo è l’Assurdistan, mica è lecito aspettarsi altro, no? Possiamo soltanto autoflagellarci, e insultare chi pretenderebbe meno inettitudine anziché essere trattato come una pezza da piedi.
Ecco cosa nasconde la «caccia al negazionista».
FONTE: https://www.wumingfoundation.com/giap/2020/11/caccia-al-negazionista/
STORIA
LE BOLLE PAPALI CHE HANNO CAMBIATO IL MONDO: SIAMO SCHIAVI DAL 1302 D. C. LO SAPEVATE?
5 04 2013
Il Sistema delle Bolle Papali costituisce storicamente il fondamento giuridico della nostra attuale schiavitù finanziaria.
Perché ha senso parlarne espressamente in questo momento, in cui un papa ha appena annunciato le proprie dimissioni?
Perché il precedente storico dell’evento attuale, rappresentato di Celestino V, papa che fu costretto a dimettersi nel 1294, rappresenta l’inizio della storia che ci ha condotto fino alla critica situazione che stiamo vivendo oggi.
Facciamo un passo indietro e vediamo come.
Celestino V, che le note della ormai notoriamente “addomesticatissima” Wikipedia ci fanno passare per uno sprovveduto ignorante, era invece un papa che intendeva rivoluzionare la Chiesa basandola nuovamente su un cristianesimo profondo. Per passare da un cristianesimo corrotto e di potere – la “ecclesia carnalis” – ad un cristianesimo aperto, pieno di veri valori spirituali sul modello del Cristo: l’ “ecclesia spiritualis”.
Tuttavia la chiesa di potere operò su più livelli per difendersi e bloccare l’opera di Celestino Quinto.
E il manovratore cardinal Caetani (stranamente via Caetani è la via in cui fu trovato il corpo esanime di Aldo Moro, statista italiano che aveva osato uscire dalle righe del controllo finanziario internazionale n.d.r.) lo indusse alle dimissioni nel dicembre del 1296.
Caetani poi, diventato Papa con il nome di Bonifacio VIII, lo fece imprigionare ed infine uccidere con un chiodo piantato nel cranio. La fine di Celestino Quinto e la conseguente fine dei Templari qualche anno dopo, mutarono profondamente la chiesa, facendola diventare solamente chiesa di potere e cancellando la gran parte delle correnti autenticamente spirituali.
A Bonifacio VIII, uno dei papi più oscuri e controversi della storia, che Dante nell’inferno pone nella bolgia dei Simoniaci, ossia i corrotti che fanno commercio di cose spirituali, si deve la redazione della famosa bolla “Unam Sanctam Ecclesiam” che istituì il primo fondamento giuridico dell’infame sistema che ora ci ha ridotto nella schiavitù finanziaria di cui ognuno di noi, ogni santo giorno della nostra vita, si trova a patire le vessazioni.
Le tre Bolle e l’istituzione dei Trust
Le informazioni che di qui in poi leggerete sono particolarmente dense e, dato che hanno il potere di trasformare letteralmente la visione della realtà che viviamo, è bene affrontarne la lettura con calma ed attenzione. Noi siamo qui essenzialmente in veste di compilatori, altri prima di noi hanno fatto un egregio lavoro di ricerca, sintesi e divulgazione.
Il nostro compito nel momento attuale, è quello di distribuire questi materiali in modo che quante più persone possibile abbiano l’opportunità di comprendere che sotto l’apparenza più o meno rassicurante della realtà che conosciamo c’è qualcosa di diverso, che difficilmente potremmo immaginare.
Per chi preferisse ascoltare una versione audio, (da scaricare e ascoltare con il proprio lettore mp3 o smartphone), consigliamo quella reperibile a questi link, approntata da Italo Cillo:
Parte I ( episodio 8 ) oppure se la preferite da I-Tunes scaricarla qui
Parte II ( episodio 9 ) oppure se la preferite da I-Tunes scaricarla qui
Per chi invece preferisse più classicamente la versione scritta, la miglior sintesi, che restituisce un quadro generale molto complesso in una lunghezza di testo accettabile per una sola sessione di lettura è quella tratta dal blog Hearthaware, che riportiamo integralmente citando al termine la fonte in link.
Buon ascolto, o buona lettura.
Jervé
Fonte: visto su http://www.iconicon.it/blog/ del 14 febbraio 2013
Link: http://www.iconicon.it/blog/2013/02/il-sistema-delle-bolle-papali/
FONTE: http://www.veja.it/2013/04/05/le-bolle-papali-che-hanno-cambiato-il-mondo-siamo-schiavi-dal-1302-d-c-lo-sapevate/
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