RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI
8 GIUGNO 2020
A cura di Manlio Lo Presti
Esergo
Il Tempo: la principale materia prima
STANISLAW LEC, Pensieri spettinati, Bompiani, 2006, pag. 137
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SOMMARIO
PETIZIONE POPOLARE CON OGGETTO “NAZIONALIZZAZIONE DEL DEBITO PUBBLICO ATTRAVERSO IL BTP ITALIA”
CONTE: UN GOVERNO CHE SI MUOVE, MA CHE NON MUOVE
STIAMO TORNANDO AD UNA VITA NORMALE?!
Altro che anti-razzisti, sono nemici della democrazia.
In Sardegna operativa la registrazione digitale obbligatoria per chi arriva sull’isola
SERVONO DONNE E UOMINI AUTENTICI, DOTATI DI ATTRIBUTI
Altro che anti-razzisti, sono nemici della democrazia.
Libia, Eni, Cina, porti e tlc. Che cosa si è detto al Copasir con Carta (Aise)
TRUMP ABBANDONA LA GERMANIA
DR FAUCI’S DISJOINTED REACTION WHEN TRUMP TALKS ABOUT DEEP STATE REVEALS THAT
INNAMORATI DI SENECA: 3 OPERE PER INIZIARE
INTERVISTA a Sonu Shamdasani
Il ritorno allo stato selvaggio, un esempio letterario
Il Virus non esiste più. O no?
TRACCE E INDIZI PER L’IPOTESI DELLA PISTA AMERICANA NEL CASO MORO
Caro Prodi, il suicidio è stato entrare nell’euro
Crisi imprese: c’è allarme (anche) per la malavita
LA PROPRIETÀ ETERNA: ANALISI E DECADIMENTO DI UN DOGMA ASSOLUTO
Immigrati. Va peggio di prima
Francesco Sabatini. L`invasione degli anglicismi
Vaticano, Papa Francesco e l’intervista bomba di monsignor Luigi Negri a Libero
Salvini vuole le elezioni a settembre: “Conte è finito, voto con regionali e referendum”
Israele perfeziona la tecnologia per la sorveglianza
L’AUSILIARIA E IL COMANDANTE PARTIGIANO
L’ipocrita architetto Albert Speer, ministro degli armamenti del Reich
IN EVIDENZA
PETIZIONE POPOLARE CON OGGETTO “NAZIONALIZZAZIONE DEL DEBITO PUBBLICO ATTRAVERSO IL BTP ITALIA”
VIDEO QUI: https://youtu.be/6GkCP60LpeI
Il Comitato promotore per la nazionalizzazione del debito pubblico ha l’obiettivo di sollecitare il Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF) al collocamento di titoli di Stato su soggetti residenti, preferibilmente famiglie e imprese, offrendo ad essi condizioni adeguate alle necessità di impiego del risparmio, che sono diverse dagli obiettivi speculativi che muovono le grandi banche d’affari internazionali.
In questo senso, il Comitato ritiene che vi siano gli strumenti e le condizioni per un sostanziale ricollocamento di tutte le emissioni di titoli di Stato su soggetti residenti, e che ciò consenta all’Italia di sottrarsi alla morsa degli speculatori internazionali e delle agenzie di rating che agiscono sul debito per imporre misure di austerità all’economia.<
Si allega:
- Testo della Petizione popolare – BTP ITALIA
- BTP Italia -Domande e Risposte
- Buoni del Tesoro Poliennali indicizzati all’inflazione italiana
PETIZIONE POPOLARE CON OGGETTO “NAZIONALIZZAZIONE DEL DEBITO PUBBLICO ATTRAVERSO IL BTP ITALIA”
EGGI LA PETIZIONE
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FONTE:https://www.byoblu.com/petizione-popolare-con-oggetto-nazionalizzazione-del-debito-pubblico-attraverso-il-btp-italia/?fbclid=IwAR2g08kqiFdQ_K4goFAIudgp1AloBPZBEFjzsDr_44NF7atGSkGKBteJ43A
CONTE: UN GOVERNO CHE SI MUOVE, MA CHE NON MUOVE
L’Italia, dopo la pandemia del Coronavirus, ha sicuramente accentuato i suoi problemi. Adesso, come se non ci fossero già abbastanza castagne sul fuoco, il problema da affrontare urgentemente è questa maledetta ripresa e non ha suon di proclami, ma di fatti, tenendo presente l’eccesso di spese rispetto alle entrate. Ma per rimediare a questo ed evitare sprechi, il nostro premier Giuseppe Conte, delegittimando in un primo momento il Parlamento, in seguito ha chiamato a Palazzo Chigi dei tecnici (oltre mille), formando delle task force e comitati con un bel dispendio di denaro pubblico, dando loro il compitino di studiare e valutare quanto c’è da fare, come farlo e soprattutto come intervenire. Proviamo a formulare un’ipotesi: ammettiamo che tutto sia messo a posto e che a suon di promesse e di roboanti Stati generali dell’Economia, per inciso dovevano partire propri oggi e sono stati rinviati, sembra a mercoledì, ma vabbè questo è un solo un dettaglio, dicevamo ammettiamo che dopo tutto ciò la nostra nazione riparta, poi che Italia ci troveremmo davanti? Un problema da risolvere, tra i tanti, è senza dubbio quello rappresentato dal divario tra nord e sud. Quest’ultimo sembra essere stato posto, sempre più, su una strada impervia. Il Mezzogiorno, soprattutto dopo il Covid-19, è sempre più povero e sappiamo tutti che dove vi è povertà pullula maggiormente la malavita, che ha tutto l’interesse a mantenere le cose così come stanno.
La difficoltà, però, esiste e andrebbe affrontata una volta per tutte, non basta chiamare un dicastero ministero della Coesione territoriale e del Sud per dimostrare che vi è un interesse verso questa tematica, bisogna poi muoversi attivamente per cercare, nei fatti, di risolverla. Non basta neanche fare, come ha fatto Conte, erigendosi a paladino del meridione e finire poi a riproporre sempre la solita solfa, senza nessuna idea innovatrice all’orizzonte, ma mosso solo da qualche puro e semplice calcolo elettorale per accaparrarsi dei voti. Alzando gli occhi verso il resto della nostra penisola esiste anche un problema chiamato nord che, viceversa, nel corso del tempo si è sviluppato in termini imprenditoriali, nonostante la burocrazia e la competitività impari di altre nazioni, ma di cui adesso si incomincia a sentire il fiato sul collo. Un nord che, tra l’altro, ambisce a essere sempre più efficiente, come del resto vorrebbe essere anche il sud ed è per questo che entrambi esigono, a gran voce, infrastrutture adeguate e una Pubblica amministrazione più snella. Inoltre, bisogna fare i conti, purtroppo, con la questione della disoccupazione sempre più dilagante, soprattutto dopo il fermo di questi mesi.
Senza nascondere la testa nella sabbia, va detto chiaramente che questa situazione, incancrenita maggiormente dalla pandemia, ha prodotto delle scelte errate, sotto l’aspetto economico, intraprese dal Governo nella gestione della crisi e che tali rimedi hanno prodotto, inevitabilmente, una pressante perdita di competizione delle imprese italiane a livello internazionale. Infatti, il fermo, così lungo, imposto alle imprese italiane ha sancito l’uscita di queste dai mercati esteri consolidati già da tempo e che difficilmente potranno essere riconquistati dalle nostre società. Con buona pace di tutti, è duro ammetterlo, questo Governo ha, inconsapevolmente, suicidato l’imprenditoria italiana in un sol colpo. Per dirla fuori dai denti, si fa sempre più pressante l’esigenza di non continuare ad assistere inermi a quel processo di cambiamento che si sta attuando nel mondo, sia in termini di tecnologia sia di geo-economia. Il primo ha portato, inevitabilmente, alla perdita di posti di lavoro, aggravata in aggiunta dalla pandemia, il secondo ha ridisegnato i confini del potere economico, facendo emergere nazioni come la Cina e l’India.
Insomma, in Italia, in aggiunta a quanto accaduto da qualche mese, si sta vivendo una complicatissima transizione, se questa sfocerà portando risultati positivi è da vedere, di certo dopo le ultime scelte governative, obbiettivamente, qualche dubbio fondato appare all’orizzonte. La nostra nazione è troppo articolata e diversa, nord e sud non hanno le stesse esigenze, ma stranamente sia i lavoratori che gli imprenditori di entrambi hanno dimostrato, nell’ultimo periodo, che si è sulla stessa barca, entrambi in estrema difficoltà. Lo stesso Governo è rimasto impantanato, quindi prima di ridargli palla, quindi fiducia, è bene ricordarsi di ciò che ha fatto, anzi è il caso di dire di ciò che non ha fatto per il rilancio del Paese per farlo uscire dal caos. Speriamo solo che il tutto non finisca per essere ricondotto alla semplice definizione in base alla quale l’attuale Governo Conte è un governo che si muove, ma che non muove!
FONTE:http://www.opinione.it/politica/2020/06/08/alessandro-cicero_conte-task-force-parlamento-palazzo-chigi-stati-generali-economia-covid-19-mezzogiorno-penisola-ministero-coesione-territoriale/
ATTUALITÀ SOCIETÀ COSTUME
In Sardegna operativa la registrazione digitale obbligatoria per chi arriva sull’isola
La Sardegna ha reso operativa la registrazione digitale obbligatoria per tutti i visitatori dell’isola e per i sardi che rientrano nella regione. La procedura sarà attuabile sia tramite smartphone che pc, nell’attesa dell’attivazione dell’app SardegnaSicura.
Dal 3 giugno i visitatori ed i sardi che rientrano nella regione Sardegna dovranno obbligatoriamente effettuare una registrazione digitale, che sarà possibile concludere direttamente online sia da pc che da smartphone. Tale procedura, resa operativa nell’attesa dell’attivazione dell’app SardegnaSicura, vale anche per i sardi i sardi che rientrano nell’isola, compresi quelli che viaggiano in giornata.
La registrazione con le indicazioni di provenienza e destinazione può essere effettuata anche un mese prima della partenza, mentre è richiesto che la compilazione dei quesiti sullo stato di salute sia fatta massimo due giorni prima dell’imbarco.
Le autorità dovranno verificare che i passeggeri siano muniti di ricevuta di avvenuta registrazione. Allo sbarco gli stessi passeggeri riceveranno via mail il ben arrivato del governatore con un invito a mantenere comportamenti corretti, sulla base delle prescrizioni per evitare la diffusione del Covid-19.
A lavoro sull’app SardegnaSicura
Per adesso l’applicazione SardegnaSicura non è ancora funzionante, nell’attesa sarà utilizzata la registrazione digitale. Successivamente chi arriva in Sardegna può decidere di scaricare la app SardegnaSicura per il tracciamento dei contatti durante la permanenza. Per quanto riguarda l’applicazione la regione Sardegna è in attesa del cambio di nome da quello della versione precedente – Autorizzazione Regione Sardegna, utilizzata prima della totale riapertura tra Regioni – a SardegnaSicura.
“Abbiamo chiesto a chi arriva una registrazione che da questo fine settimana sara’ solo in via telematica. Per quanto riguarda la app Sardegna Sicura mi auguro che sia operativa in brevissimo tempo. Noi siamo pronti, bisogna attendere i tempi tecnici dei gestori di sistemi operativi” ha affermato il presidente della Regione Sardegna Christian Solinas.
La Sardegna ha deciso di anticipare di una settimana la riapertura della regione al transito dei passeggeri non residenti, consentendo a chi vive nel resto d’Italia di poter recarsi nelle città e nei luoghi di vacanza con sette giorni di anticipo, a tutto beneficio delle imprese del turismo sardo.
FONTE:https://it.sputniknews.com/italia/202006079177039-sardegna-rende-operativa-registrazione-digitale-obbligatoria-per-chi-arriva-sullisola/
SERVONO DONNE E UOMINI AUTENTICI, DOTATI DI ATTRIBUTI
NON SI SCAPPA DALLA REALTÀ, CI SONO I VERI UOMINI E CI SONO LE SCAMORZE
Esistono i veri uomini ed esistono le scamorze. Esistono i veri uomini ed esistono i caporali, i lecchini, i ciarlatani, i quaqquaraquà come li chiamava il principe De Curtis chiamato Totò. Dire questo non significa essere razzisti o manicheisti, non significa voler creare nuove categorie e nuove etichette, non significa voler dividere il mondo tra buoni e cattivi, tra bene e male, ma è semplicemente il riconoscimento di una realtà di fatto. Esiste in tutti noi la compresenza del buono e del cattivo. Esiste in tutti noi la possibilità di evoluzione nella direzione giusta o in quella sbagliata.
NON È PER NIENTE UNA QUESTIONE EREDITARIA O GENETICA
C’entra forse il fattore ereditario o il fattore genetico? I geni caratteriali regalati da mamma e papà? Certamente che l’avere un percorso netto, sia nella vicina fase ante-nascita che nella millenaria fase spirituale karmica delle vite precedenti, può valere molto, può essere a volte determinante. Ma di fatto non è raro che i figli dei grandi geni deludano e non siano all’altezza dei loro illustri antenati, per cui questa ipotesi non trova conferma nella realtà dei fatti.
L’EPIGENETICA HA FATTO GIUSTIZIA DI QUESTI VECCHI PREGIUDIZI
In ogni caso, come esiste l’epigenetica sul piano strettamente fisico e materiale, esiste pure l’epigenetica sul piano emozionale e spirituale, nel senso che uno nasce in un certo modo con certe dotazioni di partenza, ma poi ha la concreta e dimostrata possibilità di modificare se stesso, di modificare il suo Dna, i suoi geni e il suo genoma, migliorandosi ed evolvendo in senso positivo, o anche peggiorando e degenerando. Non a caso Madre Natura o la Divina Creazione ci ha forniti di libero arbitrio. Non possiamo cercare scuse o alibi.
LA VITA È UNA PIATTAFORMA SULLA QUALE POSSIAMO FISSARE E PLASMARE LIBERAMENTE I NOSTRI VALORI
Come si può arrivare a questo obiettivo? Attraverso i suoi pensieri, le sue azioni e le sue opere. Tutti pertanto hanno una strada aperta davanti a sé e tutti hanno la possibilità di tracciare in modo più o meno nobile, più o meno eroico, più o meno sublime, ed anche più o meno vile e banale purtroppo, il proprio percorso esistenziale.
DIOGENE E ALESSANDRO MAGNO INSEGNANO
Ecco allora l’importanza basilare di essere veri uomini, uomini e donne con gli attributi. Se ne trovano per fortuna dovunque, tutti i giorni, dovunque e tra tutte le categorie. Ovvio che la vera eccellenza è una qualità rara. Se ne era accorto anche il grande Diogene, quello che girava di giorno con la lampada accesa alla disperata ricerca di un vero uomo perché, persino a quei tempi, l’eccellenza latitava e la mediocrità predominava secondo i suoi rigorosi e straordinari criteri selettivi. Quel Diogene che al suo grande imperatore Alessandro Magno, venuto a fargli visita a cavallo e con la scorta, incuriosito e desideroso di offrirgli una residenza più consona e degna della sua botte rovesciata, giunse a dire “Imperatore scansati che mi stai oscurando la luce del Sole”.
Detto da un qualsiasi altro suddito dell’impero ciò sarebbe bastato per avere la testa mozzata all’istante. Ma Alessandro Magno che era un grande davvero pure lui, si rese conto di quale pasta fosse fatto questo suo impertinente cittadino, ribelle e coraggioso, unico e ingovernabile, al punto di esserne fiero. C’è da immaginare che gli abbia persino passato la mano sulla folta barba e che gli abbia lasciato una sostanziale regalia in monete d’oro, prima di tornarsene a corte.
NON CI SONO SCUOLE E NON CI SONO DIPLOMI
Tornando ai nostri tempi, non c’è purtroppo una scuola per veri uomini, e non c’è un diploma, un attestato o una laurea in umanità, e nemmeno un negozio al quale rivolgersi per comprare una sostanza speciale capace di trasformarci in veri uomini. Quanto poi ai titoli onorifici o professionali conferiti dai vari enti e ordini e ministeri sono tutti svianti e imbroglianti. Chiunque anteponga con orgoglio e supponenza un qualunque titolo al proprio nome e alla propria reale e autentica buona reputazione, alle buone maniere e alle buone intenzioni, perde di valore e si scredita agli occhi del prossimo.
PRIMA SEI UOMO E POI SEI TUTTO IL RESTO
Uno deve essere prima di tutto un vero uomo e poi uno scienziato, prima di tutto un vero uomo e poi un economista, prima di tutto un vero uomo e poi un medico, un fisico, un ingegnere, un politico di razza, un artista, un religioso o qualunque altra cosa. Quando vedo dei segnali di grandezza nel mio prossimo, scatta una lampadina e me lo segnala. Non devo fare un’indagine investigativa alla ricerca di note dolenti del suo passato. Anche se ve ne fossero alcune non gravi, si tratterebbe di cose ininfluenti in quanto parte di un percorso accidentato che aiuta la gente saggia a maturare, esperienze ininfluenti di fronte al risultato finale che la persona sa oggi esprimere.
L’ISTINTO TI PORTA A PERCEPIRE CHI ESPRIME ECCELLENZA E CHI NO
Sono una persona istintiva. Mi basta uno sguardo e mi bastano poche frasi per valutare l’umanità, la spontaneità e le qualità positive di una persona. Non sbaglio mai o quasi mai. Per questo mi piace la gente che combatte le ingiustizie e le canagliate, poco importa se vincente o perdente. Per questo mi piace la Sara Cunial e non certamente la tanta gente noiosa e di basso rango che popola l’attuale Parlamento, l’attuale governo e l’attuale presidenza. Serve una ventata di aria fresca che spazzi via gli umanoidi incollati alle poltrone e ai privilegi abusivi.
FALLIMENTO TOTALE DI OGNI OPPOSIZIONE IN ITALIA
Non trovo parole buone per l’opposizione, poiché l’opposizione da troppo tempo non esiste in questo paese. Parlare di opposizione in Italia in questa fase è assurdo. È una parola senza senso. Non so se il carro di Pappalardo sarà un carro vincente. Potrebbe anche essere una sfida impossibile. Ma ha senso provarla. Serve una persona seria e pacifica che riesca a convogliare, a coalizzare e coagulare le forze sane del paese, forze scientifiche, forze culturali, forze imprenditoriali, forze artistiche, forze spirituali che non mancano e che scalpitano e ribollono tra le personalità genuinamente alternative ai ladroni e agli opportunisti tuttora in sella alla macchina statale.
MI RIFIUTO DI CREDERE CHE GLI ITALIANI SIANO DAVVERO UNA MASSA DI PECORONI
Fino ad oggi gli italiani si sono davvero comportati nel peggiore dei modi possibili di fronte all’emergenza. Sono stati circuiti e ridicolizzati in modo atroce e indegno. Hanno reagito e stanno reagendo male. Su questo concordo perfettamente con l’amico Greg. Tutti appiattiti e tutti lobotomizzati, persino ingabbiati in ridicole e demenziali mascherine, secondo gli schemi unificati Zingarettiani-Berlusconiani.
STIAMO ATTENTI AL BILDERBERG, CENTRO MASSONICO MONDIALE
Uno degli ultimi Bilderberg è passato non casualmente per Torino. Tutti i massimi dirigenti dell’Unione Europea attuale sono di scuola e di frequenza Bilderberg. Diamoci da fare per non finire nelle fauci dell’Europa predatoria delle élite finanziarie marchiate Bilderberg, coi suoi furfanti grillini-prodiani-renziani, coi suoi Colao e i suoi massoni, con i gangster di stretta scuola speculatoria sorosiana, motivati a prendersi uno dei paesi più ricchi al mondo (perché questo è l’Italia per chi non lo sapesse) a prezzi di liquidazione. Lo hanno fatto in passato mettendo al tappeto l’economia thailandese e poi comprandosi per un bianco e un nero banche, assicurazioni, terreni e infrastrutture. Sono allenati a questi colpi di mano. Ma ora è il momento di darsi una svegliata e una strigliata, altrimenti ci sarà davvero pianto e stridor di denti.
SALUTE UMANA ALL’ULTIMO POSTO GRAZIE AL REGIME SANITARIO
Purtroppo siamo circondati da troppa mediocrità per non sentire la mancanza di gente del calibro di Diogene e Alessandro Magno. Siamo circondati da soggetti arroganti, presuntuosi, boriosi, superbi che amano sottomettere il prossimo, issandosi su un gradino di presunta superiorità. Questo vale per tutte le professioni. Vale in particolare nel campo medico, e mi richiamo al precedente articolo di pochi giorni fa “Il sofismo ingannevole del protagonismo medico” che non mi pare abbia avuto un grosso impatto in termini numerici, ma che merita a mio avviso di essere letto e considerato con molta più attenzione. Non è un caso che ci sia un patologico intreccio tra politica e medicina. Non è un caso che il mondo sia finito schiavo di un regime sanitario invasivo, assoluto e degenere, con la salute all’ultimo posto.
ANTEPORRE LA PAROLA UOMO A QUELLA DI MEDICO
Nel campo medico non si tende soltanto ad anteporre il titolo di medico-chirurgo o MD medical doctor, con arrogante prosopopea, ma si usa anche anteporre il carisma del camice, il guardare la controparte dall’alto in basso. Mi ritrovo spesso a parlare di medici e ho anche spesso riconosciuto che tra di essi ce ne sono alcuni eccezionali, di grande spessore. Rimango però convinto che tutti i medici straordinari della storia, e anche quelli odierni che conosco di persona, sono tali non in forza della loro formazione e della loro carriera universitaria, ma piuttosto in forza delle loro doti caratteriali e morali, in forza della loro umiltà, della loro serenità nel porsi sullo stesso piano delle persone che incontrano, della loro apertura mentale, del loro saper ascoltare i pazienti e volerli davvero aiutare a venir fuori dal loro stato di crisi, in forza del non farti pesare in alcun modo la loro posizione.
SERVE MONETA CIRCOLANTE E NON CAZZATE ELETTRONICHE PER IL CONTROLLO DELLE PERSONE
Vale anche per l’economia. Non manca in questo paese gente geniale, anche in questo settore fondamentale, anche in tecnica bancaria internazionale, ma per qualche distorsione sta avvenendo da anni una selezione alla rovescia per cui i mediocri vanno a occupare i posti di comando e i più bravi vengono insabbiati e messi da parte. A volte le forze del male finiscono per innescare una forte reazione che si ripercuote contro di esse. I piani di Vittorio Colao, posto a capo dell’attuale Task Force governativa localizzata nella City Londinese (tana degli stupri finanziari mondiali) sono talmente infernali e devastanti per l’Italia che hanno riportato a galla le idee più innovative, che portano ad esempio i nomi di Mauro Scardovelli, di Andrea Malvezzi e di Guido Grossi, e di altri ancora, dove si parla insistentemente di sovranità monetaria e di difesa a oltranza degli interessi nazionali.
PIÙ LE PERSONE SONO GRANDI E MENO TE LO FANNO PESARE
Alla fine, lo scienziato, l’economista, il giurista e il medico di valore sono grandi non certo in funzione dei loro meriti professionali anche superlativi, quanto per il loro capitale intrinseco ed esplicitato di umanità. Il titolo di medico in particolare conferisce spesso una arroganza ingiustificata, per cui diventa un fattore aggravante e peggiorativo, una distinzione in negativo.
SEI MEDICO? CHE PECCATO !
Nella visione igienistica siamo molto critici su questo a ragion veduta. “Sei medico? Peccato davvero, speriamo che tu abbia modo di redimerti e di disinquadrarti al più presto, recuperando la tua vera dimensione di uomo libero e pensante. Speriamo che tu possa liberarti delle deformazioni e dei guasti che ha prodotto in te, come in tutti coloro che hanno frequentato per 6 anni il percorso di medico-chirurgo. Speriamo che tu possa un giorno capire quello che mai ti hanno ancora insegnato, ovvero il rispetto rigoroso delle Leggi Universali della Natura”.
IL MEDICO DEVE SAPER STARE IN PUNTA DI PIEDI AI MARGINI DELLA SOCIETÀ, SENZA OSSESSIONARE LA GENTE
Ma anche qui il discorso cade nel vuoto. Io non cerco di sottovalutare nessuno. Cerco anzi di ridare dignità al medico e alla medicina, riportandoli alla giusta dimensione e alla giusta funzione, che è quella della vera emergenza. Ma tutto gioca a sfavore. In questi giorni di ossessione e di paura, si parla in continuazione di fondi alla medicina, di apparecchiature medicali, di sviluppo di nuovi grandi ospedali. Un mondo che corre il rischio concreto di diventare sempre più un luogo infernale di persecuzione sanitaria. Nessuno pare aver ancora capito che più medici e più ospedali ci sono e più la gente sta male, soffre e si ammala.
Valdo Vaccaro
Altro che anti-razzisti, sono nemici della democrazia.
Non ci inginocchieremo, non ci faremo rieducare né intimidire
Il colmo lo abbiamo visto ieri sera, quando è stata imbrattata e vandalizzata la statua di Winston Churchill a Londra, a Parliament Square.
Ora, può un sincero anti-fascista e anti-razzista prendersela con Winston Churchill? Evidentemente, dev’esserci qualcosa che non torna. E la cosa che non torna è proprio davanti a noi: quelli che vediamo ormai da più di una settimana devastare intere città, da Minneapolis a New York negli Stati Uniti, fino ad arrivare nel weekend appena trascorso in Europa, a Londra e Bruxelles, tutto sono tranne che sinceri anti-fascisti e anti-razzisti.
Sono innanzitutto “criminals and thugs”. No, la definizione non è nostra, né di Trump, ma di Barack Obama, che così, dopo una sola notte di disordini, definì i violenti che nel 2015 devastarono Baltimora dopo la morte di Freddie Gray: “No excuse for the kind of violence”. Non è arrivata in questa occasione una condanna così netta da parte dell’ex presidente, che invece ha lodato l’”attivismo” dei giovani e li ha esortati ad usare “l’urgenza delle proteste per innescare un vero cambiamento” (ma come, non doveva essere lui il cambiamento?).
Ma a noi non la date a bere, cari Antifa, BLM e varianti. La questione razziale non c’entra, così come non c’entra l’ingiustizia. È un misto di ignoranza e ideologia. Ideologia anti-occidentale, profondamente anti-democratica, è l’odio per l’avversario politico. E qualcuno soffia sul fuoco pensando di trarne un vantaggio.
Occorre dirselo. Non c’è razzismo davanti alla legge negli Stati Uniti (non più, da decenni) e i dati ufficiali smentiscono anche che ci sia un pregiudizio razziale sistemico nella condotta delle forze dell’ordine. Non siamo più negli anni ’60, anche se così sembrerebbe dai resoconti e dagli editoriali dai toni “romantici” che leggiamo in questi giorni su old e new media di sinistra. Non si intravedono reverendi King tra chi incendia edifici, saccheggia negozi, abbatte statue, pesta selvaggiamente e qualche volta uccide dei malcapitati. Almeno quattro afroamericani innocenti hanno perso la vita a causa, o addirittura per mano dei rivoltosi, mentre non si contano neri o bianchi che hanno visto distrutta la propria piccola attività e persino la propria abitazione. Una strage di diritti costituzionalmente protetti, quindi di giustizia, alla quale sindaci e governatori Usa hanno dimostrato di non essere capaci o di non voler opporsi.
Ma i dati ufficiali, riportati nei giorni scorsi dal Wall Street Journal, parlano chiaro. Se le uccisioni di afroamericani da parte della polizia sono circa il doppio, in percentuale, della popolazione di colore negli Stati Uniti, è per il tasso di criminalità e per il comportamento dei sospetti, prima e durante le interazioni con gli agenti di polizia.
Si contano circa 375 milioni di interazioni fra polizia e civili ogni anno. Nel 2019 i poliziotti hanno sparato, uccidendole, a 1.004 persone. Tra queste, gli afroamericani sono stati 235 (di cui 9 disarmati), circa il 25 per cento, una percentuale stabile dal 2015. Circa il doppio della popolazione di colore (13 per cento), ma molto meno di quanto indicherebbe il tasso di criminalità, dal momento che le sparatorie dipendono da quanto spesso gli agenti si trovano ad affrontare sospetti armati o violenti. Nel 2018, l’ultimo anno per il quale i dati sono stati pubblicati, gli afroamericani hanno commesso il 53 per cento degli omicidi e il 60 per cento delle rapine, oltre il quadruplo della percentuale della popolazione di colore.
Il 93 per cento dei neri viene ucciso da altri neri, ma in questi casi le “vite dei neri” sembrano contare molto meno rispetto a quando un nero viene ucciso da un poliziotto bianco. Black Lives Matter non protesta quando i neri si uccidono tra loro, anche se è la principale causa di morte tra gli afroamericani dai 15 ai 45 anni.
Nelle grandi città americane troviamo alte percentuali di agenti di polizia di colore, molte sono governate da sindaci neri, molti Stati da governatori neri, c’è stato persino un presidente nero – per otto anni, durante i quali evidentemente non è riuscito a fare molto. Di uccisioni di cittadini di colore da parte della polizia se ne registrarono di più sotto Obama, ma non per colpa sua, come oggi non è colpa di Trump. Anche perché negli Stati Uniti l’ordine pubblico non dipende dalla Casa Bianca e dal governo federale, la polizia è sotto il diretto controllo dei sindaci e dei governatori. Floyd è stato ucciso a Minneapolis, Minnesota, dove sono Democratici il sindaco, il governatore, il procuratore generale e persino il capo della polizia (di colore, tra l’altro). Eppure, la protesta è arrivata sotto la Casa Bianca.
Nella tragica fine di George Floyd quello che vediamo con evidenza è un eccesso di uso della forza, un abuso brutale di potere, ma non abbiamo indicazioni, al momento, di un movente razziale. Sarà eventualmente il processo a stabilirlo, come dovrà stabilire se si è trattato di omicidio volontario, colposo o preterintenzionale. E, anche qui, dal video che tutti abbiamo visto la risposta non è scontata. A proposito, c’è qualche “Nessuno tocchi Caino” che si preoccupa in questi giorni che Caino sia sottoposto ad un giusto processo, che si chieda come potrà mai svolgersi un processo sereno?
Ci si potrebbe chiedere, allora, cosa determina questi alti tassi di criminalità nella popolazione afroamericana. Condizioni socio-economiche di partenza mediamente più difficili? Le disuguaglianze persistenti nella società, nonostante la parità formale davanti alla legge? È una ipotesi, ma allora il problema non è il razzismo della polizia, è politico, e occorre riconoscere il fallimento di decenni di politiche federali e statali sostenute in primis dai Democratici; riconoscere che sotto Trump si è registrato il più basso tasso di disoccupazione degli afroamericani; riconoscere come una sciagura la identity politics, su cui proprio i Democratici hanno puntato per accrescere il loro consenso, che alimenta il vittimismo e il risentimento dei gruppi.
Si dirà, ma “per la maggior parte” sono state manifestazioni pacifiche. Ammesso e non concesso, certo, legittimo manifestare pacificamente e chiedere giustizia per George Floyd. Ci mancherebbe. Sempre tenendo a mente che la giustizia, dove grazie a dio c’è lo stato di diritto, è quella dei tribunali, non delle piazze. Ma nemmeno quelle strade e piazze pacifiche ci hanno convinto. Non ci convince l’evidente tentativo di strumentalizzare politicamente la morte di Floyd contro l’amministrazione Trump (non ricordiamo mobilitazioni simili durante gli otto anni di Obama, eppure non mancarono neri uccisi dalla polizia), né l’inginocchiatoio di massa, il tentativo ancora più grave di criminalizzazione – questa sì razzista – dei “bianchi”, come se tutti – solo perché “bianchi” – dovessero sentirsi responsabili della morte di George Floyd, espiare una colpa collettiva, una specie di peccato originale di “suprematismo”.
Ancor più che nelle violenze, l’amarezza e la preoccupazione stanno nel constatare la resa morale e politica delle istituzioni e delle leadership occidentali (tranne una, va detto, sebbene assediata) al senso di colpa, al politicamente corretto che sono oggi il vero cancro che rischia di dilaniare dall’interno l’Occidente, abbassando tutte le sue difese, prima di tutto culturali.
Il consiglio comunale di Minneapolis che decide di sciogliere il dipartimento di polizia, per concepire un “nuovo modello di sicurezza” (auguri); forze dell’ordine un po’ ovunque, anche a Londra, sotto un governo conservatore, che non muovono un dito, che addirittura si inginocchiano ad espiare una presunta colpa collettiva. Il diritto e i diritti sanciti dalle nostre costituzioni che restano indifesi, alla mercé dei violenti, i quali però passano per i “giusti”, per le vittime che si ribellano al “sistema”.
Assistiamo ad un ribaltamento orwelliano della realtà, una grande scena di isteria di massa, surreali le analisi e i commenti dei media mainstream. Come ha giustamente scritto Giulio Meotti, su Twitter:
“Siete bianchi? Non sentitevi in colpa, non avete ucciso voi George Floyd. Essere bianchi è diventato una specie di peccato originale. Se non fate professione di penitenza per essere bianchi, omaggiando immigrazione di massa e multiculturalismo, diventate un suprematista bianco”.
In Italia, il capo delle Sardine ci vorrebbe addirittura “educare” per farci accettare di buon grado lo ius soli.
Sia ben chiaro che noi, su questo piccolo ma combattivo vascello di Atlantico, non ci inginocchiamo, non ci facciamo rieducare né intimidire – soprattutto non da gente che avrebbe bisogno prima di tutto di un’istruzione di base. Si tratta di difendere l’Occidente con tutte le sue conquiste, non solo economiche, la sua cultura, la sua storia, la sua identità. La cosiddetta maggioranza silenziosa (nel frattempo diventata minoranza, chi lo sa…) dovrà farsi sentire, combattere la battaglia delle idee senza complessi, nei posti di lavoro, nel tempo libero, nelle conversazioni con gli amici, in famiglia, sui social media, nei bar e nelle piazze, con il voto, ovunque e in ogni momento.
E speriamo che la sfida sia raccolta da leadership all’altezza. Se non dal punto di vista culturale, almeno del coraggio.
FONTE:http://www.atlanticoquotidiano.it/quotidiano/altro-che-anti-razzisti-sono-nemici-della-democrazia-non-ci-inginocchieremo-non-ci-faremo-rieducare-ne-intimidire/
CONFLITTI GEOPOLITICI
Libia, Eni, Cina, porti e tlc. Che cosa si è detto al Copasir con Carta (Aise)
Indiscrezioni di Start sull’audizione del direttore dell’Agenzia Informazioni per la Sicurezza esterna (Aise), Luciano Carta, al Copasir (Comitato parlamentare di sicurezza della Repubblica).
Si è tenuta stamattina l’audizione del direttore dell’Agenzia Informazioni per la Sicurezza esterna (Aise), generale Luciano Carta, nell’ambito del programma avviato dal Copasir (Comitato parlamentare di sicurezza della Repubblica).
Non si è parlato soltanto di rischi di scalate estere per le imprese italiane ritenute strategiche.
In primo piano anche la Libia. Infatti, secondo la ricostruzione di Start, si è esplicitamente parlato della sicurezza effettiva dei nostri militari tra Irak e Libia.
Qual è il quadro geografico degli investimenti a rischio e l’instabilità mediterranea che potrebbero incidere sull’Italia?, è stata in sostanza la domanda che ha accomunato diversi interventi.
Qual è la sicurezza effettiva dei nostri militari a Misurata? Ci sono state pressioni sulle milizie di Haftar tramite i russi? Questi alcuni degli interrogativi.
Si è anche approfondita la prosecuzione delle operazioni estrattive e commerciali Eni connesse alla sicurezza. Riferite anche rassicurazioni giunte da parte della compagnia statale libica NOC i cui introiti alimentano la banca centrale libica controllata dal governo di Tripoli.
Discusso anche un fatto inedito e preoccupante: un attacco hacker ha fatto sì che gli account social dell’ambasciata italiana a Tripoli abbiano espresso plauso e sostegno alle avanzate dell’Esercito di Haftar. Tanto che ad esempio l’account Twitter dell’ambasciata ha prima smentito l’appoggio e poi di fatto è stato congelato.
L’ambasciata d’Italia in Libia smentisce ogni forma di approvazione a comunicazioni di terzi attribuita nelle scorse ore. Per il ripristino della sicurezza dell’account, lo stesso resterà chiuso nei prossimi giorni.
— Italy in Libya (@ItalyinLibya) January 11, 2020
سفارة إيطاليا في ليبيا تنفي صحة اي شكل من اشكال الموافقة على التصريحات المنسوبة من طرف ثالث في الساعات الماضية. سييبقى الحساب مغلقا في الأيام القادمة الي حين استعادة تامينه.
— Italy in Libya (@ItalyinLibya) January 11, 2020
Il tema tlc ha fatto capolino quando Carta ha parlato di reti di comunicazione con eventuali infrastrutture tecnologiche cinesi o Stati occidentali ma “senza un reale coordinamento Nato”. Per alcuni parlamentari il riferimento era alla Francia. Dunque a Vivendi, azionista di Tim che controlla i cavi di Telecom Italia Sparkle?
Toccato anche il tema Cina nel giorno in cui il Sole 24 Ore ha dato conto di una notizia che riguarda il porto di Venezia: lo scalo ha dovuto dire addio alla linea diretta di trasporto container con la Cina e il Sudest asiatico.
“La decisione è stata presa da Ocean Alliance, la compagine formata dalle compagnie Cma-Cgm, Cosco Shipping, Evergreen e Oocl, ed è legata al fatto che Venezia non dispone più di pescaggi adeguati a consentire la navigazione delle grandi portacontainer destinate al servizio Aem6, che collega appunto Shanghai (e altre città asiatiche, compresa Singapore) con la Laguna”, si legge oggi sul Sole.
Il terminal portuale di Vado Ligure è finto sotto la lente d’ingrandimento durante l’audizione perché non si farebbe abbastanza per limitare — secondo quanto emerso dalla riunione-audizione — la penetrazione in servizi commerciali e finanziari che finiscono per portare vantaggi a Pechino
FONTE:https://www.startmag.it/mondo/libia-eni-cina-porti-e-tlc-che-cosa-si-e-detto-al-copasir-con-carta-aise/
TRUMP ABBANDONA LA GERMANIA.
Ritira 9500 soldati, spostandoli in Polonia o riportandoli a casa
Le relazioni fra il presidente Trump e la Germania sono sempre state piuttosto tese. I tedeschi pensano che il presidente USA sia una specie di bruto, Trump ritiene che i tedeschi siano solo degli approfittatori che non partecipano in modo attivo alle spese della NATO, ma che lucrano sul proprio surplus commerciale.
Alla fine il presidente USA sembra aver perso la pazienza. Secondo il WSJ la Casa Bianca ha previsto il ritiro di 9500 soldati dalla Germania, riducendo la presenza totale sul suolo tedesco a 22500 militari e chiudendo e trasferendo diverse infrastrutture militari e logistiche. Questi uomini dovrebbero essere trasferiti verso altri paesi NATO, soprattutto Polonia, mentre una parte dei soldati rientrerà negli USA. Comunque gli USA manterranno la possibilità di portare le presenze a 52 mila soldati per le emergenze o le esercitazioni.
La decisione di Trump, che pure ha delle basi strategiche (la Germania non è più la prima linea della NATO) ha delle forti motivazioni politiche e questo non è sfuggito ai tedeschi. Le reazioni sono state di due tipi:
- la CDU ha reagito con sorpresa e rammarico. Ricordiamo che Martin Weber, un pezzo grosso del partito della Merkel, è un atlantista convinto e che questa era la posizione del partito della Merkel. Gli esponenti di questo partito hanno protestato mettendo il luce quanto la Germania sia importante per la NATO.
- La sinistra, Linke e frange socialdemocratiche e verdi in testa, vedono la decisione come un’occasione per la Germania per tagliare definitivamente con il passato e con al NATO, vista come una reliquia del passat.
Effettivamente la posizione del governo tedesco, che da un lato ha legami strettissimi con la Cina, dall’altro incrementa la dipendenza energetica dalla Russia, sta diventando sempre più incompatibile con la permanenza nella nella NATO. Però la Germania, da sola , militarmente non esiste e non sarebbe in grado di difendere i propri interessi nei confronti non delle superpotenze, ma neanche di paesi del terzo mondo. Ecco che da Berlino si rilancia il progetto di una difesa europea, frose la maggiore minaccia per gli USA, che non resteranno fermi.
FONTE:https://scenarieconomici.it/trump-abbandona-la-germania-ritira-9500-soldati-spostandoli-in-polonia-o-riportandoli-a-casa/
DR FAUCI’S DISJOINTED REACTION WHEN TRUMP TALKS ABOUT DEEP STATE REVEALS THAT
8 GIUGNO 2020
VIDEO QUI:https://youtu.be/MOYkeU81puk
CULTURA
INNAMORATI DI SENECA: 3 OPERE PER INIZIARE
Lucio Anneo Seneca, protagonista tormentato degli eventi del proprio tempo, è uno tra gli scrittori più moderni della letteratura latina e ci parla, come fosse vivo, nella lingua morta di Roma. Affascinato dalla morale stoica, riuscì a piegarla alle esigenze della vita pratica, come dimostrano i suoi molteplici scritti, grazie ai quali la riflessione romana raggiunse il massimo livello nell’ambito della filosofia morale.
Chi era Seneca?
Seneca nacque in Spagna, a Cordova, molto probabilmente nel 4 a.C., da una famiglia equestre molto benestante. Dimostratosi da subito ben predisposto verso lo studio, i suoi genitori decisero di trasferirsi a Roma in vista della carriera politica e retorica che Seneca sembrava destinato a intraprendere. Dotato di grandi capacità oratorie, suscitò ben presto l’invidia dell’imperatore Caligola che arrivò al punto di condannarlo a morte, invano. Nel 41 d.C., però, durante il principato di Claudio, Seneca venne esiliato con l’accusa di adulterio con la connivenza di Giulia Livilla, sorella proprio di Caligola. Ovviamente era solo una scusa: Seneca venne allontanato per le sue doti propagandistiche e oratorie che mettevano in evidenza, per contrasto, la pochezza di quelle di Caligola.
Rimasto per otto anni nell’allora selvaggia Corsica, dovette aspettare l’intercessione di Agrippina per ottenere il perdono dall’imperatore Claudio e la possibilità di tornare in Roma e di diventare il precettore, assieme ad Afranio Burro, del loro figlio minore e prediletto, Nerone. Seneca accompagnò l’ascesa al potere del giovane despota, diventando, di fatto, il reggente e principale artefice delle sue scelte. Questo periodo fu quello del cosiddetto “buon governo” (quinquennium felix), che si estenderà fino al 62 d.C., quando Seneca, vista la perdita di fiducia da parte dell’imperatore, si ritirerà gradualmente a vita privata.
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Nell’aprile del 65 d.C. venne coinvolto nella celebre congiura dei Pisoni, senza però esserne realmente partecipe: condannato a morte da Nerone, Seneca si suicidò prima che potessero prenderlo i suoi esecutori.
«Tutti ben conoscevano la crudeltà di Nerone, al quale non restava altro, dopo l’uccisione della madre e del fratello, che di ordinare anche l’assassinio del suo educatore e maestro. Dopo riflessioni di tal genere (…) il ferro recide, con un colpo solo, le vene delle braccia. Ma Seneca, poiché il corpo vecchio e indebolito dal poco cibo lasciava fuoruscire lentamente il sangue, taglia anche le vene delle gambe e dei polpacci (…) Intanto, protraendosi la vita in un lento avvicinarsi della morte, prega Anneo Stazio, da tempo suo amico fidato e competente nell’arte medica, di somministrargli quel veleno, già pronto da molto, con cui si facevano morire ad Atene le persone condannate da sentenza popolare. Avutolo, lo bevve, ma senza effetto, perché le membra erano già fredde e il corpo era insensibile all’azione del veleno. Da ultimo, entrò in una vasca d’acqua calda, ne asperse gli schiavi più vicini e aggiunse che, con quel liquido, libava a Giove liberatore. Portato poi in un bagno caldissimo, spirò a causa del vapore e venne cremato senza cerimonia alcuna».
Tacito, Annales XV 62-63.
Per il primo approccio letterario a Seneca
Seneca ha dato prova di sé in una vastissima produzione letteraria, che ci è giunta quasi interamente; la maggior parte di queste opere è di stampo filosofico, etico e psicologico. Per chi non avesse mai letto alcun testo del filosofo neostoico, in questo articolo vi spieghiamo come approcciarvi alle sue opere letterarie, invitandovi soprattutto a non lasciarvi scoraggiare dalle forme tipologico-testuali, come dialoghi e lettere: il filo conduttore e la coerenza del pensiero senechiano vi stupiranno!
Ecco un percorso basato su tre scritti per farvi innamorare di Lucio Anneo Seneca.
Per iniziare: «La tranquillità dell’animo» (50 d.C. circa)
Il De tranquillitate animi appartiene ai cosiddetti Dialoghi e, come la maggior parte degli scritti di Seneca, è di difficile datazione. Pur essendo una vera e propria raccolta di operette morali, questo è l’unico dialogo scritto realmente come tale e rappresenta uno dei vertici della produzione di Seneca.
Dedicato all’amico Sereno, in 17 capitoli, svolge i temi dell’inquietudine, della ricerca della tranquillità, del taedium vitae, del vuoto interiore, tutti argomenti affini a quelli della tradizione letteraria platonico-stoica. L’imperturbabilità, che costituisce l’ideale del saggio, per Seneca è l’equilibrio costante di tutte le passioni armonicamente composte (ovvero l’euthymìa dei Greci).
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Prima di prendere in esame le varie passioni, l’autore descrive, facendo parlare direttamente l’interessato, lo stato d’animo dell’amico, uno stato ambiguo, di instabilità e ondeggiamento. Quelli che lo animano sono gli eterni mali dall’uomo, gli stessi presenti nell’«essere o non essere» di Shakespeare, nell’«aut-aut» di Kierkegaard, nell’inettitudine di Svevo, nella nausea di Sartre, nella noia di Moravia, nel male di vivere di Montale… Scontenti di tutto, passiamo da un desiderio all’altro, cambiamo luoghi, fuggendo solo da noi stessi e vanificando di fatto ogni possibile fuga dal nostro inesorabile compagno. Seneca prende, poi, in esame tutte le passioni, con una sorprendente penetrazione psicologica, riconoscendo che sono, come i dolori, una legge della natura umana, e dichiara che il saggio non odia e non disprezza gli uomini che ne sono dominati: egli ne ride. Seneca, in questo modo, sembra essere un novello Socrate errante alla ricerca di anime da guarire, da consolare, pur non essendo ancora guarito nemmeno egli stesso.
Quella proposta è, quindi, una filosofia pratica, non priva di contraddizioni e compromessi, che vorrebbe insegnare a risolvere i problemi della vita, a conoscersi, ad entrare in intima comunicazione con se stessi liberandosi dalle passioni e dai timori, facendo uso della ragione, giacché questa è la prerogativa propria della nostra natura e va perseguita.
Per proseguire: «La brevità della vita» (49 – 54 d.C.)
«Ma perché la vita ci appare così breve?» È questa la domanda che sta alla base del De Brevitate vitae, un altro dei Dialoghi, scritto probabilmente tra il 49 e il 54 d. C., quando Seneca poté tornare a Roma dal suo esilio in Corsica.
Dedicato a Paolino, forse il padre della sua seconda moglie, tratta, in 20 libri, del tempo che scorre, della vita che scivola inesorabilmente e dell’umana incertezza del domani, senza mai sfociare nel pessimismo esistenziale. L’incertezza del futuro e la fugacità del tempo erano tragicamente suggeriti a Seneca dalla condizione politica che in età imperiale vedeva il destino di tutti appeso ad un filo, quello governato dalle mani del folle Nerone. Alla luce di questa vita tormentata, Seneca scrisse il De brevitate vitae per cantare la propria vittoria sulla precarietà della vita. La sua soluzione sta nella saggezza e nella capacità di vivere la qualità del tempo, non la sua durata: la conquista del tempo avviene solo per mezzo della saggezza che ci permette di vivere il presente, immergendoci completamente in ogni singolo gesto che compiamo, poiché il saggio non ha bisogno né del rimpianto del passato né dell’ansia del futuro, ma solamente del tempo presente, l’unico “tempo reale”.
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La salubrità di questo consiglio trova grande seguito anche nella psicoanalisi a noi contemporanea, che tanto ci ha suggerito, soprattutto negli ultimi mesi, di godere delle piccole cose della vita quotidiana. La vittoria sul tempo avviene, dunque, spostando l’attenzione dall’aspetto quantitativo a quello qualitativo, perché, in realtà, la vita non è breve, siamo noi a renderla tale, impegnandoci in attività che sottraggono il tempo alle cure del nostro animo. Le pagine più belle sono sicuramente quelle sugli affaccendati, che dipingono il quadro di un grande circo in cui si esibiscono gli acrobati della vita, tutti impegnati a mettere in mostra le proprie capacità e, quindi, tutti da biasimare.
«Noi viviamo come se dovessimo vivere per sempre, non riflettiamo mai che siamo esseri fragili, non consideriamo quanto tempo è passato ma lo consumiamo come se lo avessimo sempre tutto intero e persino in abbondanza, senza pensare che quel giorno che regaliamo a qualcuno o a qualche cosa potrebbe essere l’ultimo della nostra esistenza. Abbiamo paura di tutto, in quanto esseri mortali, ma nello stesso tempo vogliamo vivere come se fossimo immortali».
De brevitate animi, 3
Innamorati di Seneca: «Le lettere morali» (62 – 65 d.C.)
Le 124 Epistulae morales ad Lucilium sono senza dubbio l’opera che ha consacrato Seneca alla fama eterna. Composte dopo il suo ritiro dalla vita politica, in queste epistole, indirizzate all’amico Lucilio, Seneca si concentra sulla coscienza umana. Non è ancora chiaro agli studiosi se quest’opera sia realmente un epistolario o semplicemente una raccolta formulata dal filosofo; in ogni caso, l’opera si presenta come un unicum nel panorama letterario antico. Accanto allo splendore singolare e nuovo del genere, ma anche dello stile, si nota una fortissima sensibilità nei confronti dell’animo umano, una spiritualità capace d’intendere e accogliere tutte le contraddizioni e gli errori, indicando la via per la risoluzione di essi in un contemperamento di stoicismo, epicureismo e platonismo.
«Tu chiedi quali progressi abbia fatto? Ho cominciato ad essere amico di me stesso».
Epistulae morales, 1, 6.
Le lettere non parlano di questioni familiari o di attualità politica, perché l’intento principale di Seneca è di guidare il suo amico Lucilio, e tutti i lettori, nell’apprendimento delle vie della saggezza. Proprio per la natura del genere epistolare, le Lettere non sono tuttavia una trattazione organica di carattere filosofico o pedagogico. Seneca non ha mai voluto essere un filosofo sistematico: il suo approccio alla filosofia e all’etica non è di tipo logico-deduttivo, ma pragmatico-esistenziale, la qual cosa, dal punto di vista letterario, si traduce in un considerevole beneficio. Seneca trasmette a Lucilio norme di vita che sono il risultato pratico raggiunto dopo aver vissuto, e visto vissuti da altri, conquiste ed errori, speranze e delusioni, progressi e arretramenti: stabilire con esattezza in che cosa consista il vero bene da cui dipende la felicità; rendersi conto che, di fronte ai veri beni e ai veri mali, tutti gli uomini sono uguali; comprendere qual è il senso della vita, della morte e quale sia il fine ultimo dell’uomo; rendersi conto del ruolo di Dio e del Destino: queste sono, in sintesi, le chiavi utilizzate da Seneca per proporci il suo messaggio immortale.
In copertina: Artwork by Madalina Antal
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FONTE:https://www.frammentirivista.it/seneca-guida-opere/
Il ritorno allo stato selvaggio, un esempio letterario
Il Signore delle Mosche è un romanzo scritto nel 1952 da William Golding autore britannico insignito del Premio Nobel per la Letteratura nel 1983; rileggendo il romanzo oggi ritroviamo delle tanto interessanti quanto inquietanti dinamiche sociali. Nel romanzo, un gruppo di bambini e ragazzini sopravvive ad un disastro aereo ritrovandosi a vivere su un’isola deserta; i più piccini si radunano intorno a Ralph, il primo ad avere la presenza di spirito di usare il suono di una conchiglia per richiamare tutti i sopravvissuti e di accendere un fuoco per segnalare la presenza alle navi di passaggio. Ma dalla civiltà educata, il gruppo tornerà inesorabilmente verso la barbarie, l’incuria umana, il degrado morale ed ambientale; in due parole: verso una barbara inciviltà.
All’inizio il gruppo si reputa fortunato di essere capitato su un’isola accogliente, sulla quale c’è acqua potabile, maiali commestibili ed una vegetazione ricca e rigogliosa: i naufraghi pensano di organizzarsi come per una piacevole vacanza. Del resto sono tutti ragazzini piuttosto borghesi, alunni di una buona scuola inglese, che hanno ricevuto le basi per una socializzazione “civile”: devono solo aspettare e vincere la paura della notte.
Ma ben presto la facilità della sopravvivenza, scoglio primario nella vita di ogni essere umano, rende (evidentemente) il quotidiano troppo scontato; nascono i primi dubbi sulle regole comuni e le prime rivalità. Tra i ragazzini nascono due clan: uno fa a capo a Ralph, quello pronto e reattivo, e l’altro a Jack, un preadolescente invidioso e divertito dalla violenza. In un crescendo nel quale si vedono sgretolarsi ogni regola civile, ogni modo calmo di convivere e l’inselvatichirsi ingiustificato dei rapporti umani, i ragazzini finiscono per soccombere alla strafottenza del comando di Jack. Il gruppo è coeso dalla paura e dalle minacce: nessuno osa dire nulla al sanguinario e crudele ragazzino. Dalla violenza verbale il capo ordina quella fisica, non sopporta i difetti delle persone, deride, fa subire la tortura e finisce per ordinare una caccia all’uomo per eliminare definitivamente il suo rivale.
In una delle fasi culminanti Jack ha la meglio. Due gemelli originariamente fedeli ammiratori e parte del clan di Ralph lo trovano in un nascondiglio ed avviene lo scambio seguente:
«Dunque… che cosa…»
I due gemelli gli risposero indirettamente.
«Adesso te ne devi andare, Ralph.»«Per il tuo bene.»
«Sta’ lontano. Più lontano che puoi.»
«Non volete venire con me? In tre… avremmo delle probabilità.»
Dopo un momento di silenzio, Sam parlò con voce strozzata.
«Tu non conosci Ruggero. È una belva.»
«… e il capo… Son tutti e due…»
«… belve…»
«… ma Ruggero…»
I due ragazzi si fecero di ghiaccio. Qualcuno della tribù saliva da loro.
«Viene a vedere se facciamo buona guardia. Svelto, Ralph!»
Mentre si preparava a scender giù per il precipizio, Ralph si aggrappò all’ultima speranza che quell’incontro gli poteva offrire.
«Mi nasconderò qui vicino; in quella macchia lì sotto,» sussurrò, «dunque teneteli lontani. Non andranno mai a cercare così vicino…» I passi erano ancora a una certa distanza.
«Sam… me la caverò, no?»
I due gemelli tacquero di nuovo.«To’!» disse Sam improvvisamente. «Prendi questo…»
Ralph si sentì tra le mani un pezzo di carne e l’afferrò.
«Ma che cosa mi farete quando mi prendete?»
Silenzio, di sopra. Si accorgeva da solo, di esser sciocco. Si calò giù.«Che cosa mi farete?…»
Dall’alto della roccia gigantesca venne una risposta incomprensibile:
«Ruggero ha preparato un bastone con la punta da tutte e due le parti.»
Un bastone con la punta da tutte e due le parti.Ralph cercò di dare un significato a quelle parole ma non ci riuscì.
Nel romanzo di Golding, come in altri esercizi letterari, l’autore fa emergere come in un gruppo umano ci sia un ritorno allo stato di natura al quale neanche i bambini riescono a resistere: ritorna la violenza, l’odio, l’intolleranza, emerge la cattiveria e la natura predatrice dell’uomo. Sparisce la pietà, la collaborazione, l’empatia, il dialogo.
Nel finale, il gruppo volge all’autodistruzione totale con l’ultima trovata di Jack per stanare Ralph: distruggere l’ambiente comune dando fuoco all’intera isola (anche se poi il romanzo non finisce così).
Se si legge Il Signore delle Mosche come una metafora della tendenza autodistruttiva delle società umane afflitte dal benessere può emergere una certa angoscia. Le basi della più civile delle società, teoricamente quella britannica, (specie nel dopoguerra) s’imbarbariscono per una sorta di strana malagestione della libertà e dell’eguaglianza. E questo in effetti non rassicura.
Però bisogna dire che nel romanzo sono completamente assenti le donne.
Melissa Pignatelli
Da leggere: William Golding, Il Signore della Mosche, Oscar Mondadori (1a pubblicazione 1952).
Immagine in copertina: l’illustrazione per le nuove edizioni Oscar Mondadori de Il Signore delle Mosche eseguite da GIPI.
FONTE:https://larivistaculturale.com/2019/11/08/il-ritorno-allo-stato-selvaggio-signore-delle-mosche-golding-letteratura-analisi/
CYBERWAR SPIONAGGIO INFORMAZIONE DISINFORMAZIONE
Il Virus non esiste più. O no?
La realtà sostanziale, la realtà mediatica, la realtà individuale
“Dal punto di vista clinico il virus non esiste più”: con queste parole il professor Zangrillo, primario della terapia intensiva del San Raffaele di Milano, ha scatenato una vera e propria polemica dopo essere intervenuto in una trasmissione televisiva sottolineando che “chi è sul campo non vede più malati gravi in terapia intensiva”. Parole che hanno infiammato gli animi di virologi, componenti dell’Istituto Superiore della Sanità ed esperti del Comitato tecnico-scientifico. A prendere le distanze dalle dichiarazioni di Zangrillo è stata anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità, che ha prontamente smentito la notizia secondo cui il virus starebbe diventando meno letale.
Zangrillo non è l’unico medico a credere che il virus si stia indebolendo. Anche Bassetti, direttore della clinica di Malattie infettive del Policlinico San Martino di Genova e componente della task force Covid della Regione Liguria ha dichiarato che “abbiamo un’infezione molto diversa a quella di febbraio-marzo. E’ la presentazione della malattia che è diversa, sono i malati che arrivano al pronto soccorso che oggi sono meno gravi. Il virus è meno virulento”.
E’ comunque certo che le terapie intensive si sono svuotate e che il dato dei ricoverati è sceso enormemente … Questa è una Realtà Sostanziale che descrive la realtà per come la si vede.
“Vox populi, vox Dei” dice un’antica locuzione latina volendo indicare che l’opinione e il consenso popolare hanno sempre l’avallo divino e che quel che il popolo crede sia vero e giusto. In realtà non sempre la voce del popolo è la voce di Dio. In una società praticamente atea risuona alta la voce di un Dio potente, terribile e vendicativo, chiamato con diversi nomi ma costantemente negato, un po’ come si nega la morte, forse perché sono Padroni Assoluti, Padroni a cui non ci si può opporre. Questo è il volere inconscio delle masse. Le Verità populistiche che si affermano pur transitoriamente condizionano tutta la nostra vita.
Queste Verità transitorie poiché immaginarie, ovvero frutto di dinamiche inconsce collettive, dominano l’azione politica che se ne appropria, determinano il consenso, spingono alla persecuzione di protagonisti politici fino all’annientamento, influenzano la magistratura; dominano quasi totalmente l’informazione mediatica che, dipendente dall’audience, non cerca quasi mai Verità sostanziali perché gli indici di ascolto possano crescere e con essi anche i guadagni.
Ogni dato scientifico o oggettivo, in altri termini la Realtà Sostanziale, in contrasto con la Voce del Popolo rimane inascoltato e immediatamente dimenticato; ogni dato seppur infondato se in accordo con la voce popolare diventa un mantra che riecheggia ovunque. Questa “Vox Populi” forgia la Realtà Mediatica.
Questa volta la realtà mediatica è concorde con Zangrillo e Bassetti eppure c’è un qualcosa che la blocca.
Realtà sostanziale o Realtà mediatica in questo caso poco importa. A qualsiasi verità si decida di credere, ce ne è una che le supera tutte ed è l’innato istinto di sopravvivenza o Realtà Individuale, che consiste nel credere a ciò che può far comodo in quanto in rapporto al tuo Destino personale ed a ciò che ti potrebbe accadere in futuro.
I nostri politici mettono in atto una serie di comportamenti volti all’autoconservazione ed a rimanere in scena ancora per diverso tempo. Questo spiega perché la maggioranza di questo governo, tecnici e virologi hanno posizioni diverse dal mainstream ed oggi anche dai dati scientifici; sono sorretti da un istinto di sopravvivenza, il Reale Individuale.
Molti politici, virologi ed esperti, oggi illuminati dalle luci della ribalta, dopo il Covid19 spariranno nel nulla …
FONTE:https://www.infosec.news/2020/06/08/speciale-coronavirus/il-virus-non-esiste-piu-o-no/
TRACCE E INDIZI PER L’IPOTESI DELLA PISTA AMERICANA NEL CASO MORO
TRACCE E INDIZI PER L’IPOTESI DELLA PISTA AMERICANA NEL CASO MORO (PARTE I)
DI H.S.
Cloro Al Clero
A proposito dell’affaire Moro si ritiene che la pista americana, della CIA o, comunque, di un coinvolgimento americano sia frutto dell’opera di depistaggio attuata dai sovietici nel quadro della guerra fredda, come dimostrerebbero i documenti del cosiddetto dossier Mithrokin o rapporto Impedian. Può darsi, può darsi che il KGB, per distogliere l’attenzione dal rapporto fra taluni brigatisti rossi e la Cecoslovacchia, abbia tentato di depistare istradando verso una pista che avrebbe portato direttamente alla CIA. Tuttavia vi sono elementi che difficilmente potrebbero essere ricondotti a questa azione di inquinamento. In definitiva esistono tracce, indizi, certo non prove, che indicherebbero un coinvolgimento diretto di americani nel caso Moro. Innanzitutto, come più volte ribadito dall’esperto in materia Sergio Flamigni, il caso Moro è classificato come “segretissimo” dal Dipartimento di Stato USA. Come è risaputo, il segreto viene imposto quando sono in gioco gli interessi e la sicurezza della nazione o quando sono coinvolti i rapporti fra due stati (nel caso in questione certamente l’Italia e gli USA). Per quale motivo un fatto che, generalmente, viene interpretato come un – gravissimo – episodio di terrorismo di matrice interna comporterebbe il ricorso al segreto di stato di un paese straniero? Ciò, in realtà, non dovrebbe stupire.Nei comitati di crisi egemonizzati da elementi piduisti era presente l’esperto in antiterrorismo del Dipartimento di Stato Steve Pieczenick, il quale, per sua stessa ammissione, non aveva ricevuto il compito di adottare le strategie più adatte alla liberazione di Moro, ma di impedire l’accesso dei comunisti al potere. Naturalmente i comunisti in questione non erano brigatisti rossi ma quelli del PCI, impegnati nell’appoggio al governo Andreotti nel quadro dell’intesa fra le forze dell’arco costituzionale. Ancor più significativa è la presenza presso il Ministero degli Interni durante i 55 giorni della prigionia dello statista democristiano dell’esperto in affari italiani Michael Ledeen, un esponente della cosiddetta Nuova Destra americana dei neoconservatori. La biografia di questo personaggio è inquietante. Si tratta di uno di quegli intellettuali di punta raccolti presso Il Centro di Studi Strategici di Georgetown, una sorta di think tank costituito da kissingeriani, neoconservatori e falchi americani ed anticomunisti prevalentemente repubblicani ma non solo. Fra i personaggi vicini al CSIS ricordiamo appunto Kissinger, l’ammiraglio Haig ed ex direttori dei servizi segreti americani. All’epoca Ledeen scriveva articoli per il foglio filoamericano ed anticomunista “Il Giornale” diretto da Indro Montanelli ed edito dal piduista Silvio Berlusconi. Sarà proprio Ledeen a raccomandare l’assunzione del suo figlioccio Francesco Pazienza presso quel SISMI diretto dai piduisti Santovito e Musumeci. Pazienza si segnalerà per la creazione di un cosiddetto “Super SISMI” impegnato in operazioni spionistico criminali come il Billygate, i depistaggi relativi alla strage alla stazione di Bologna, le trattative nel rapimento dell’assessore napoletano Cirillo e i retroscena nell’assassinio del banchiere piduista Calvi. Il rapporto fra Ledeen, Pazienza e i servizi segreti piduisti è significativo. Il nome di Ledeen ricorre anche nell’affare Iran contra e nelle vicende relative ai contatti con gli iraniani alla vigilia dell’attacco americano all’Iraq di Saddam Hussein. Già questi elementi sono significativi per comprendere certi aspetti del rapporto fra americani ed italiani con il caso Moro. Indubbiamente ciò non dimostra certo che gli USA o, comunque, personaggi americani di un certo profilo furono coinvolti direttamente nel rapimento e nell’assassinio dell’onorevole Moro. Partiamo dall’inizio di questa vicenda e cioè da via Mario Fani ove si consumò il massacro della scorta di Moro e il rapimento dello statista.
Secondo quanto riportato dai consulenti della Commissione Stragi Silvio Bonfigli e Jacopo Sce nel libro edito dalla Kaos edizioni “Il delitto infinito”, ben tre testimoni videro nel commando brigatista un individuo che si distingueva per la padronanza delle armi e a cui si deve in gran parte la riuscita dell’operazione di guerriglia in via Fani. Le perizie accertarono che ben 49 colpi sparati provenivano dalla stessa arma. I brigatisti hanno sempre negato la presenza accertata di questo superkiller. Si trattava di un brigatista mai identificato? Certo è possibile, ma poco probabile anche perché in genere i brigatisti non possedevano quella perizia e padronanza mostrata dal misterioso superkiller, infatti l’operazione Fritz rimarrà un caso unico non solo nella storia delle BR ma dell’intero terrorismo dispiegato nell’Europa occidentale. E’ più probabile si fosse trattato di un professionista ingaggiato dall’esterno, italiano o straniero, per garantire la riuscita dei piani. Vediamo di aggiungere qualche tassello…
Un’interessante informazione la ricaviamo da una vecchia edizione (edizioni Kaos 1993) di un testo “classico” sull’affaire Moro, “La tela del ragno”, del solito Flamigni. A pagina 87 fa riferimento ad un articolo del “Resto del Carlino” datato 23 marzo 1978 e, quindi, in pieno svolgimento del sequestro Moro, nel quale si dà la notizia dell’arresto di un cittadino statunitense, tale Peter Jackson Hauser di 28 anni pluridecorato nella guerra del Vietnam in possesso di una falsa identità tedesca a nome di Reinald Lahusen e di un opuscolo della Baader Meinhof, in sostanza l’organizzazione terroristica tedesca di estrema sinistra RAF. Processato per falso ideologico e sostituzione di persona Hauser venne consegnato quale disertore alla base americana di Pisa che, naturalmente, si affrettò a farlo “esfiltrare”. Interrogato dalla Commissione Moro in merito il piduista direttore del SISMI, servizio informazioni militare, Santovito rispose che “gli accertamenti svolti anche presso il servizio segreto statunitense non fecero emergere nei confronti del predetto aspetti di interesse”. Viene da chiedersi chissà quale fosse stata la sollecitudine nel condurre tali accertamenti, ma tant’è…La tesi di Flamigni, ribadita in tutte le edizioni della “Tela del ragno” è che all’agguato in via Fani avrebbero partecipato terroristi tedeschi della RAF.
Ciò sarebbe avvalorato da testimoni che avrebbero udito parlare in tedesco e dalla presenza a Roma proprio in quei giorni di Willy Peter Stoll, uomo della RAF, già coinvolto nel sequestro Schleyer. Se le BR non avevano grande considerazione per la linea “politica” della RAF, invece ammiravano i tedeschi per la capacità militare mostrata nel sequestro del Presidente della Confindustria tedesca. E’ dimostrato che proprio in quel periodo i brigatisti ebbero contatti con elementi della RAF a Milano probabilmente in vista di azioni comuni, ma forse anche per avere una sorta di “consulenza” per l’operazione Fritz (che infatti è un nome tedesco). Non può non colpire il fatto che l’operazione Schleyer e l’operazione Moro si assomiglino molto dal punto di vista militare e non si può escludere che elementi tedeschi avessero partecipato sia all’organizzazione ed ideazione che all’esecuzione dell’agguato di via Fani. Anche se la circostanza dell’arresto di Hauser–Lahusen non verrà più ripresa in successive edizioni del libro di Flamigni, l’autore ribadirà sempre la convinzione che la RAF avesse partecipato all’azione, ma non solo. Secondo Flamigni, ma non è il solo, la RAF era pesantemente infiltrata dagli americani della CIA e dagli israeliani del MOSSAD e, in sostanza, eterodiretta da tali organizzazioni. Insomma le storie dei terroristi tedeschi della RAF e quelli italiani delle BR avrebbero viaggiato su binari paralleli: sia i primi, dopo l’arresto di Ulrike Meinhof e di Andreas Baader, sia i secondi dopo l’arresto di Renato Curcio e Alberto Franceschini, avrebbero attraversato fasi di pesanti manipolazioni e strumentalizzazioni ad opera dei medesimi servizi segreti (CIA e MOSSAD). La vicenda di Hauser – Lahusen illustra che ciò può essere realmente avvenuto. Naturalmente è possibile che si sia trattato semplicemente di un disertore che, disgustato dal comportamento dell’esercito americano in Vietnam, abbia poi prestato le sue capacità “balistiche” – notevoli visto che si trattava di un soldato pluridecorato – all’antimperialismo e all’antiamericanismo della RAF. Rimane in piedi anche l’altra possibilità e cioè che Hauser, il quale a questo punto si può tranquillamente considerare un cittadino americano di origini tedesche o, quantomeno, in possesso di una padronanza di questa lingua, fosse un infiltrato nella RAF per conto di uno dei servizi segreti degli USA. Anche in questo caso si presentano due opzioni: Hauser può essere stato infiltrato a scopo informativo e cioè per reperire notizie di prima mano sui gruppi terroristici europei dell’ultrasinistra dichiaratamente antiamericani e antiNATO oppure che, in realtà lo scopo fosse quello di fornire a gruppi come le BR la capacità militare di compiere determinate azioni, magari partecipando in prima persona. Magari lo scopo poteva essere quello di garantire la riuscita dell’operazione Fritz… L’idea non sembra troppo peregrina visto che si tratta di un soldato pluridecorato… E’possibile che, sostanzialmente, lo scopo dell’infiltrazione di Hauser nella RAF fosse in realtà quello di contattare le BR in vista dell’operazione Fritz? Nella comunità dell’intelligence si era perfettamente consapevoli che il modo migliore per “infiltrare” e reperire informazioni sulle formazioni terroristiche dell’estrema sinistra fosse quello di sfruttare le credenziali internazionali nell’ambito dello schieramento “rivoluzionario”. E’ noto il caso dell’agente segreto tedesco Weingraber che riuscì a contattare le BR proprio attraverso l’infiltrazione negli ambienti della RAF in Italia. Più diffusamente parleremo dell’agente segreto americano Ronald Stark che, incarcerato per traffico di stupefacenti, contattò in carcere Renato Curcio e altri brigatisti “storici”, sfruttando probabilmente la falsa identità di cittadino libico – e all’epoca si ricorderà che il dittatore libico Gheddafi appoggiava organizzazioni terroristiche e “rivoluzionarie” di ogni tipo – e i suoi reali agganci con gli ambienti del terrorismo mediorientale, specie libanese. Questo modo di procedere è stato apertamente “teorizzato” dal club di Berna, organismo di collegamento dei vari servizi di informazione civili dei paesi che facevano riferimento al Patto NATO.
Fra i fondatori del club Berna si distingueva Federico Umberto D’Amato, eminenza grigia dell’Ufficio Affari Riservati del Ministero degli Interni e iscritto alla loggia massonica P2. Definito l’ “Hoover italiano”, D’Amato era anche membro del Comitato speciale della NATO e negli anni Ottanta, dopo essersi messo a riposo, si vanterà a più riprese di essere stato un uomo della CIA in Italia e di aver collaborato con l’agente dell’OSS (il servizio segreto americano durante la Seconda Guerra Mondiale) e poi agente della CIA James Jesus Angleton, l’uomo che, fra i primi, pensò di utilizzare i vecchi nemici neofascisti contro i nuovi nemici degli Alleati i comunisti. A tale scopo Angleton strappò il capo della X Mas principe Junio Valerio Borghese dalle mani dei partigiani. A partire dagli anni Sessanta Angleton verrà posto a capo dell’operazione CHAOS, un’operazione della CIA finalizzata a infiltrare e spiare i movimenti ed i gruppi dell’ultrasinistra. La commissione Rockfeller accerterà che l’operazione CHAOS aveva anche intenti di dichiarata provocazione e che la CIA aveva operato in tal senso non solo in territorio statunitense ma anche in paesi aderenti al Patto atlantico quali Gran Bretagna, Francia, Germania occidentale e, naturalmente, in Italia. Lo stesso D’Amato, sicuramente un uomo di fiducia degli americani della CIA, è stato più volte accusato di essere stato uno dei burattinai della cosiddetta “strategia della tensione” e di aver manovrato in tal senso sia i gruppi di estrema sinistra che quelli di estrema destra peraltro senza che mai emergesse una qualche prova a suo carico.
E’interessante invece la relazione che, durante una riunione a Colonia del club Berna del 1973 sul tema del terrorismo, proprio il rappresentante dell’Ufficio Affari Riservati tenne nell’occasione. Egli ricordò la difficoltà dell’opera di infiltrazione dei gruppi di estrema sinistra e sostenne come in genere gli elementi dell’ultrasinistra si aprissero agli stranieri anche perché lusingati dall’attenzione internazionale. Inoltre parlò della formazione di tali infiltrati prevedendo, oltre alla necessità di un’istruzione adeguata, anche l’addestramento all’uso di armi ed esplosivi. E’ chiaro che non si sta parlando di semplici infiltrati a scopo informativo o di confidenti ma di veri e propri terroristi “di stato”. Quindi l’ipotesi che Peter Jackson Hauser fosse un esperto di guerriglia e terrorismo infiltrato proprio per conferire ai terroristi delle BR una capacità militare fuori dalla norma non pare poi così inverosimile. In questo caso si può pensare che Hauser, americano di origini tedesche, fosse stato un componente di forze speciali americane tipo i Berretti Verdi, non a caso molto attivi nella guerra del Vietnam. Naturalmente può anche darsi che Hauser fosse semplicemente un disertore poi venuto a contatto con la RAF per ragioni sue e che gli americani lo avessero reclamato per fargli il processo. Può anche darsi che quanto detto finora appartenga al mondo della congettura e dell’illazione, ma c’è dell’altro…
Nel 1991 uscì un testo classico sui misteri, le stragi ed il terrorismo in Italia: “The Puppetmasters” scritto dal giornalista investigativo inglese Philip Willan e arrivato in Italia un paio di anni dopo tradotto dalla casa editrice napoletana di Tullio Pironti. “I burattinai” – questo era il titolo italiano – non riscosse grande successo probabilmente anche per le tesi scomode che vi erano avanzate. Secondo Willan, infatti, nell’arco di tempo compreso fra il 1969 ed il 1984, gli americani contribuirono non poco a creare il clima di terrore, caos e violenza in Italia utilizzando di volta in volta la loggia massonica P2 e, quindi, personaggi come Gelli e Sindona, la criminalità mafiosa, quella organizzata e quella comune, i “gladiatori” della rete paramilitare di guerriglia atlantica STAY BEHIND, i golpisti “bianchi”, gli stragisti “neri” e i brigatisti “rossi”. A noi questo testo interessa per quanto è riportato sul caso Moro. Nella fattispecie, di particolare rilevanza è il capitolo XV “Il racconto del signor Brown”. In esso si narra di un certo Martin Brown, bizzarro personaggio con un passato di decrittatore per i servizi segreti inglesi, il quale avrebbe a più riprese tentato di instradare gli inquirenti italiani sulla pista degli americani e della CIA. Alla luce di quanto è già scritto sopra risulta interessante un documento dattiloscritto recuperato dalla polizia in due cabine telefoniche a Firenze secondo un rapporto datato 16 maggio 1979. Indipendentemente dall’affermazione di Willan secondo cui l’autore di tale documento risulterebbe proprio Brown esso merita un’attenta lettura perché il misterioso estensore sembrerebbe possedere una conoscenza di taluni retroscena dell’affaire Moro da far pensare che, in qualche modo, egli stesso ne fosse coinvolto. Ma vediamone il contenuto.
“Vi prego di non tenere presente il mio italiano, inoltre non so scrivere a macchina. Non domandatemi neanche come mai solo ora uno sconosciuto vi scriva simili notizie; se sono vere o false. Sta a voi giudicare. La mia non vuole essere una confessione ma vuole solo dire la verità dei fatti. Il vero uomo che organizzò la strage di via Fani e il rapimento di Aldo Moro è un italoamericano molto intimo di Ronald Stark (che la polizia tanto ha dato prova di proteggere) il nome è David, nato il 18.3.1954 a San Diego, in California, occhi azzurri, alto 1,77 capelli castani, corporatura media, a volte porta i baffi, ex marine in Vietnam col grado di capitano, poi entrato nelle special forces dei green berets. Ultimamente era consigliere militare della Central Intelligence Defence nella Germania Ovest. David è l’unico dei massimi dirigenti che ha organizzato la strage di via Fani e il rapimento di Aldo Moro insieme ai suoi compagni già noti alla polizia. David comunque non ha partecipato all’eliminazione di Aldo Moro. ultimamente era residente a Roma, ma vive in modo speciale a Milano (frequenta biblioteca USIS, in via Bigli 1/A).
Chiaramente si tratta di un documento depistante, fatto in modo di inquinare il lavoro investigativo degli inquirenti. Innanzitutto il misterioso estensore afferma di voler riportare delle informazioni di cui è a conoscenza, ma che dovrebbero essere gli inquirenti a valutarne l’attendibilità, tuttavia si affretta poi a scrivere che la sua è un esposizione dei fatti. E’ una palese contraddizione di cui non può non essersi reso conto. Inoltre il misterioso David, l’ex marine che avrebbe partecipato all’organizzazione dell’agguato di via Fani e del rapimento dell’onorevole Moro è troppo giovane come veterano con il grado di capitano in Vietnam. La Central Intelligence Defence è un organismo inesistente. Quindi, ad una prima valutazione, chi ha scritto questo documento sarebbe un depistatore, una persona totalmente inattendibile, ma può essere illuminante il fatto che egli attui questa operazione di inquinamento in maniera tanto palese in maniera tale da non trovare nessun credito presso gli inquirenti. Alla luce di quanto già ho scritto e di quanto scriverò sembra che, non solo vi sia un intento “depistante”, nel senso che l’estensore vuole che gli inquirenti e gli investigatori non diano peso a quel che dice, ma anche che egli veicoli attraverso questo documento dei messaggi dalla natura più o meno “ricattatoria” nei confronti di coloro che sarebbero coinvolti nel caso Moro. In effetti l’affaire Moro è stato veicolo di misteriosi messaggi e di ricatti e controricatti in tutti questi anni. Senza entrare nei dettagli basti pensare al falso comunicato brigatista del lago della Duchessa, del borsello consegnato agli inquirenti zeppo di messaggi relativi all’assassinio dello statista democristiano e del giornalista Mino Pecorelli e della strana rapina alla Brink’s Securmark operata da falsi brigatisti.
Indirettamente ci occuperemo anche della copia del Field Manual 30 – 31 B delle forze speciali americane, fatto probabilmente ritrovare intenzionalmente da Gelli, perché ha qualche attinenza con il caso Moro. L’impressione è che il documento che porta l’attenzione sugli americani e le forze speciali americane come i Berretti Verdi sia il prodotto di qualcuno che, magari, è esso stesso coinvolto nella vicenda, ma che, per qualche ragione, lancia messaggi ricattatori ad altri soggetti implicati nell’affaire Moro. La conoscenza particolare che questo personaggio avrebbe dei fatti è dimostrata dal fatto che il suo documento coinvolge il misterioso David nell’organizzazione dell’agguato di via Fani e nel rapimento di Moro ma non nella sua eliminazione lasciando forse intendere che il suo scopo e, quindi, lo scopo dei soggetti a cui farebbe riferimento fosse quello di fornire alle BR la consulenza militare adatta per un’operazione terroristica di alto livello per consentire il rapimento dell’onorevole Moro. Poi i brigatisti avrebbero gestito il sequestro, con tutti i tentativi di trattative con domande ed offerte, in “proprio”. Si lascia intendere che fosse l’interesse dei “mandanti” di David fosse quello di far cadere Moro nella trappola brigatista. Sembra, quindi, che il misterioso David si identifichi con il citato Hauser se non fosse che nel documento si qualifica il primo come “italoamericano” mentre il secondo potrebbe essere un cittadino americano di origini tedesche. Non si sa se Hauser fosse un componente dei Berretti Verdi o dei marines, mentre David viene indicato esplicitamente come un ex marine poi entrato nei Berretti Verdi. Invece colpisce il fatto che entrambi fossero reduci del Vietnam, ma ciò potrebbe essere dovuto al fatto che nelle forze speciali americane fossero state assai attive nella guerra del Vietnam. Il carattere del documento, allusivo e “ricattatorio” nei messaggi”, non può però far escludere che David e Hauser fossero in realtà la stessa persona, l’infiltrato “americano” coinvolto nell’organizzazione ed attuazione del sequestro Moro e della strage di via Fani, oppure potrebbe trattarsi di due soggetti diversi entrambi infiltrati dalle forze speciali americane nelle BR. Ricordiamo che i Berretti Verdi e i marines americani, come del resto le SAS inglesi erano attive nell’addestramento e nell’istruzione della rete paramilitare e di guerriglia della NATO STAY BEHIND e della GLADIO. A questo punto il riferimento alla Germania Ovest può essere illuminante perché rimanderebbe ad Hauser e alla RAF, ma ricordiamo anche che la Germania era strategicamente importante per gli americani, gli inglesi e la NATO nell’ambito della guerra fredda.
All’indomani dell’assassinio del giudice Coco, primo vero omicidio eccellente delle BR nella nuova gestione di Mario Moretti, un anonimo ufficiale del SID, servizio informazioni militare, rilasciò un’intervista sul giornale Repubblica affermando che con il terrorismo in Italia avevano a che fare americani, tedeschi e arabi. In particolare asserì che erano particolarmente attivi elementi tedeschi già appartenenti all’organizzazione Gehlen. Questa intervista porta qualche elemento in più, perlomeno sul terrorismo in Italia. Reinald Gehlen era stato il capo del controspionaggio nazista per l’Europa dell’est, specializzato nelle infiltrazioni. Già prima della fine del conflitto Gehlen si era accordato con gli americani contattando il capo dell’OSS Dulles. Si ritiene che, generalmente, Gehlen sia stato l’agente CIA numero uno in Europa. Per alcuno sarebbe stato il vero capo della rete STAY BEHIND. Nel quadro della lotta internazionale al comunismo, l’organizzazione Gehlen, embrione del BND, il servizio segreto tedesco, ebbe contatti con l’Aginter Press, l’internazionale “nera” sita a Lisbona e con Pace e Libertà, l’organizzazione anticomunista diretta dal partigiano “bianco” anticomunista e piduista Sogno. Per l’organizzazione Pace e Libertà fu il provocatore Luigi Cavallo a mediare i rapporti grazie alla sua conoscenza della lingua tedesca, ma ne parleremo più avanti. Alla fine degli anni Sessanta il cancelliere Willy Brandt, nel quadro della Ostpolitik la politica di avvicinamento alla Germania Democratica e, quindi, all’URSS, rimosse Gehlen dall’incarico. In seguito gli uomini dell’organizzazione continuarono ad operare probabilmente come mercenari e, nell’ambito della lotta al comunismo.
E’possibile che Hauser fosse un elemento legato alla “Gehlen” e che i residui dell’organizzazione avessero infiltrato la RAF. Naturalmente siamo nel campo delle congetture, ma di ipotesi verosimili si tratta. Conviene fare qualche accenno all’Aginter Press, la falsa agenzia stampa dietro la quale si celava una vera e propria centrale terroristica internazionale di estrema destra fondata da ex militanti dell’OAS, l’organizzazione terroristica che cercava di impedire l’indipendenza dell’Algeria dalla Francia. Esistono documenti che dimostrano come essa fosse uno strumento della CIA per la citata operazione CHAOS in Europa. Attraverso l’Aginter Press venivano infiltrati elementi di estrema destra nell’estrema sinistra per estremizzarla e screditarla. Secondo un’informativa del SID l’Aginter Press sarebbe stata coinvolta nella strategia della tensione in Italia e nella strage di piazza Fontana. Dall’inchiesta del giudice Salvini emerse la responsabilità di militanti della formazione neofascista Ordine Nuovo alcuni dei quelli non erano altro che agenti al servizio dell’esercito americano di stanza alla base di Verona. Nei suoi diari l’ex Ministro degli Interni democristiano Taviani attribuiva la responsabilità della strage ai neofascisti e scriveva che era stato usato dell’esplosivo in dotazione alla NATO proveniente dalla Germania (che quindi ricorre ancora). L’esplosivo sarebbe stato procurato da un agente dell’americana DIA, il servizio segreto del Pentagono, a giudizio di Taviani più potente della stessa CIA. Bisogna aggiungere che sull’Aginter Press vige il segreto NATO a dimostrazione della vicinanza con il Patto Atlantico.
Anche la citazione della misteriosa Central Intelligence Defence acquista senso in quanto adombrerebbe un coinvolgimento sia della CIA (e abbiamo visto, infatti, come negli anni Sessanta fosse attiva l’operazione di provocazione CHAOS) sia della DIA (della quale vi è la possibilità di coinvolgimento nella “strategia della tensione” in Italia, ma vedremo anche il Field Manual 30 – 31 B). Il documento poi insiste sulle protezioni accordate dalla polizia ai brigatisti e agli infiltrati americani. Non è ben chiaro se ci si riferisce alla polizia in particolare o agli organismi di sicurezza in generale (polizia ma anche carabinieri, servizi di informazione, ecc…), ma vi è anche la possibilità che con il termine “polizia” si fosse inteso additate il Ministero degli Interni che, durante i 55 giorni del sequestro dell’onorevole Moro, aveva intasato i propri comitati di crisi di piduisti (si pensi ai vari Santovito, Grassini, Giudice, Lo Prete, Ferracuti, D’Amato, ecc…) e anticomunisti. Queste protezioni potrebbero rimandare ad un intreccio “italoamericano” (di qui probabilmente la qualifica attribuita al misterioso David) come retroterra politico e culturale dell’operazione. Secondo Willan sia il Gran Maestro della loggia massonica coperta P2 Licio Gelli, sia il banchiere mafioso Sindona sarebbero stati due elementi essenziali di questo intreccio, ma ne parleremo più avanti… La citazione di Ronald Stark, invece, è uno dei punti più interessanti del documento. Un libro di David Black (edizioni Castelvecchi per l’Italia) “Acid – storia segreta dell’LSD” costituisce praticamente una biografia di questo inquietante personaggio. Di lui abbiamo la certezza che fosse un agente segreto americano ma è difficile stabilire per quale agenzia lavorasse. Di sicuro Stark fu coinvolto nella diffusione di droghe ed allucinogeni sin dagli anni Sessanta frequentando gli ambienti della controcultura. Probabilmente fu coinvolto nell’operazione CIA denominata MK ULTRA finalizzata alla sperimentazione di allucinogeni come L’LSD, oppure nell’operazione BLUE MOON che mirava alla disgregazione degli ambienti giovanili con la diffusione delle droghe. In questo modo Stark divenne uno snodo importante fra mafia, terrorismo mediorientale ed internazionale e droga. Gli inquietanti intrecci fra traffici di droga, ma anche armi con la mafia ed il terrorismo ed il coinvolgimento dei servizi segreti, soprattutto nordamericani vennero alla luce con l’inchiesta del Giudice di Trento Carlo Palermo. Secondo l’ex contractor CIA Brenneke esisteva un legame operativo fra CIA, P2, mafia italoamericana e mafia siciliana nella gestione dei traffici di armi e droga e nell’istigazione del terrorismo di ogni colore. Negli anni Settanta Stark che negli USA e in Inghilterra si atteggiava a “alternativo” incontrò in Italia personaggi mafiosi o vicini alla P2 e al neofascismo che avevano la particolarità di essere coinvolti in tentativi golpisti (golpe Borghese e Rosa dei Venti) come il principe siciliano Alliata di Monreale, buon amico del principe Borghese massone, monarchico e con rapporti mafiosi coinvolto probabilmente nella strage di Portella delle Ginestre o il direttore del SID Vito Miceli simpatizzante della destra, piduista, in rapporti con Gelli e con Sindona e con ottime entrature americane. Ma ne parleremo più avanti…
Tornando a Stark, egli fu arrestato a Bologna nel 1975 per traffico di droga e in carcere, come già accennato, contattò i brigatisti incarcerati fra cui Curcio probabilmente sfruttando i suoi contatti con il terrorismo mediorientale. In questo senso emergono degli inquietanti collegamenti con il caso Moro. Secondo Black Stark fornì ai brigatisti in carcere un codice NATO per comunicare. Per straordinaria coincidenza al termine dei 55 giorni del sequestro Moro conclusosi con l’assassinio dello statista venne diffuso un comunicato delle fantomatiche Brigate Rosse cellula Roma Sud redatto in codice NATO. Inoltre Stark contattò anche un certo Paghera militante del gruppo terroristico anarcosituazionista Azione Rivoluzionaria il quale si attribuì, mentendo, il cosiddetto falso comunicato brigatista del lago della Duchessa. Secondo il solito Flamigni entrambi i comunicati pseudobrigatisti o falsamente brigatisti sarebbero da imputare al falsario romano Toni Chichiarelli legato alla banda della Magliana, ai servizi segreti italiani, a personaggi dell’estrema destra ma anche dell’estrema sinistra. Dell’intreccio servizi segreti – malavita faremo approfondimenti sia per quanto riguarda il caso Moro che Pecorelli. Per quanto riguarda Chichiarelli, egli fu coinvolti anche nella rapina alla Brinks’ Securmark durante la quale furono lanciati messaggi inerenti sia la morte di Moro che quella del giornalista Pecorelli. Comunque sia, alla sua scarcerazione, Stark fece perdere le tracce espatriando dall’Italia probabilmente attraverso la base di Pisa come aveva fatto lo stesso Hauser. Ciò indicherebbe, forse, che Hauser, il fantomatico David e Stark avrebbero lavorato per lo stesso organismo, forse legato all’esercito statunitense? E’un ‘ipotesi… La natura dei contatti dello Stark con i brigatisti non è mai stata chiarita.
Non meno importante del riferimento a Stark è quello allo USIS, vale a dire lo United States Information Service, un istituto culturale legato all’Ambasciata statunitense, utilizzato per la diffusione della cultura americana nel mondo. Attraverso lo USIS avviene inoltre la selezione del personale diplomatico e politico filoamericano e con idee liberali e progressiste. Secondo l’informatissimo Gianni Cipriani, come scritto nel suo “Lo stato parallelo” (edizioni Sperling & Kupfer del 1992), non solo lo USIS aveva iniziato a intraprendere contatti con esponenti socialisti in funzione anticomunista e per ridimensionare il loro tradizionale marxismo ma un manuale di campo delle forze armate USA considerava fondamentale il contributo dell’istituto nelle operazioni di guerra psicologica e qui balza all’occhio l’indicazione della frequentazione dell’USIS di Milano da parte di David, componente dei Berretti Verdi. L’estensore voleva forse sottolineare questo rapporto fra le forze speciali statunitensi e l’USIS nell’ambito delle operazioni di guerra psicologica? Willan cita invece un documento della Commissione P2 in cui si informa di un cospicuo finanziamento dell’USIS all’organizzazione Pace e Libertà di Sogno in funzione anticomunista. Occorre a questo punto spendere qualche parola su questa organizzazione.
Il suo capo, Edgardo Sogno, antifascista ed anticomunista, si era distinto nella guerra partigiana nella formazione “bianca” Franchi che, appunto portava il suo nome di battaglia divenendo un uomo di fiducia degli inglesi e degli americani. In funzione anticomunista fonda poi Pace e Libertà con entrature nella NATO e che recluta anticomunisti di ogni estrazione dall’estrema destra all’estrema sinistra. Di Pace e Libertà farebbero parte due uomini con un passato da partigiani “rossi” e comunisti: Luigi Cavallo e Roberto Dotti. Il primo dopo essere stato espulso dal PCI, si dedica alla provocazione ed alla schedatura di operai nella FIAT ricevendo i finanziamenti dell’ufficio REI del SIFAR l’allora servizio segreto militare che raccoglieva i finanziamenti dei “privati” per la GLADIO. Il secondo sarebbe stato addirittura un militante della Volante Rossa, sorta di Brigate Rosse ante litteram, e per i suoi rapporti con la Cecoslovacchia ed i fuoriusciti comunisti italiani in questo paese sarebbe stato utilizzato come infiltrato da Sogno. Inoltre, secondo Flamigni, avrebbe lavorato all’USIS. Entrambi questi personaggi avrebbero coltivato rapporti con le BR come vedremo… Sciolta l’organizzazione alla fine degli anni Cinquanta, dopo un periodo come ambasciatore in Birmania, Sogno tornerà in Italia per riannodare gli antichi rapporti, probabilmente con la benedizione di americani ed inglesi. Il progetto, quello di un golpe “bianco” e presidenzialista con l’intento di emarginare PCI ed MSI e di eliminare le ali estreme (non senza averle strumentalizzate con operazioni da strategia della tensione) molto simile al P
iano di Rinascita Democratica di Gelli e della P2 con l’appoggio dei partiti di centro e perfino degli “autonomisti” del PSI. Al solito l’intenzione è quella di interrompere il dialogo fra democristiani e comunisti. Oltre a Cavallo e Dotti Sogno riceve l’adesione di Randolfo Pacciardi animatore del piccolo gruppo gaullista e presidenzialista Nuova Repubblica con il contributo di alcuni reduci della Repubblica di Salò. Anch’egli ex partigano antifascista ed anticomunista e massone, già amico dell’ambasciatrice statunitense Boothe Luce,è probabilmente l’ex Ministro della Difesa indicato in un vecchio articolo di Pecorelli su Mondo Oggi nel 1967 come il mandante di un progetto di rapimento dell’onorevole Moro da addebitare alla sinistra nell’anno del Piano Solo del generale De Lorenzo. Vi aderisce anche il militare e parlamentare del MSI Birindelli iscritto alla P2. Fra lo schieramento dei “presidenzialisti” possiamo citare anche Fumagalli capo dell’ambigua formazione terroristica MAR in rapporti con elementi neofascisti, ma probabilmente anche con i GAP di Feltrinelli. Nella lunga intervista con Aldo Cazzullo Sogno ammetterà che era stato fatto un patto per “sparare a chiunque avesse fatto accordi con i comunisti”. Sembra la fotografia del caso Moro…
La citazione dell’USIS potrebbe però alludere ad un altro personaggio indicato da importanti esponenti del PSI come Craxi e Larini come il “grande vecchio” delle BR: Corrado Simioni. Costui, socialista “autonomista” espulso dal PSI per imprecisati motivi di “indegnità morale”, andò a lavorare proprio all’USIS di Milano. Successivamente, ma la notizia non ha ricevuto conferme, sarebbe andato a Monaco di Baviera dove avrebbe lavorato per Radio Free Europe un’emittente radiofonica finanziata dalla CIA e dall’organizzazione Gehlen per promuovere la propaganda anticomunista nell’Europa dell’est. Se la notizia fosse vera ci troveremmo di fronte nuovamente alla pista tedesca e all’organizzazione Gehlen. Alla fine degli anni Sessanta Simioni entra in contatto con i gruppuscoli marxisti leninisti e filocinesi a Berna in Svizzera e in Italia dove conosce Renato Curcio futuro leader brigatisti. E’ forse per singolare coincidenza che nello stesso periodo uomini riconducibili all’Aginter Press si mettono in contatto con l’Ambasciata cinese a Berna e con i gruppi maoisti. Ricordiamo che sono gli anni caldi dell’operazione CHAOS e delle infiltrazioni, per mezzo di provocatori e militanti dell’estrema destra nei gruppi dell’ultrasinistra. Pensiamo, ad esempio, alla vicenda di Freda e Ventura legati ad Ordine Nuovo e coinvolti nella strage di Piazza Fontana e i loro tentativi di infiltrarsi fra i filocinesi ed i maoisti. Sono anche anni di una certa confusione per l’estrema permeabilità dei movimenti studenteschi e giovanili ove per un certo periodo si incontrano maoisti, “nazimaoisti” e pacciardiani nella confusione fra estremismi “bianchi”, “neri” e “rossi”. A ciò si aggiunga il contributo di ex comunisti come Cavallo e Dotti, ex aderenti a Pace e libertà con i loro rapporti con gli ambienti della lotta armata… In questo clima nasce l’opzione della lotta armata e vengono fondati gruppi come quello delle BR. Simioni e un certo numero di “compagni” si staccano per fondare un’alla scissionista detta Superclan che vuole dare un respiro internazionale alla lotta contro l’imperialismo intensificando i rapporti con le organizzazioni “rivoluzionarie” straniere e organizzando attentati contro obiettivi NATO.
Rifugiatisi in Francia a metà degli anni Settanta i “compagni” del Superclan assieme a “compagni” francesi fondano la scuola di lingue Hyperion a Parigi dietro la quale si celerebbe una centrale internazionale del terrorismo dei gruppi dell’ultrasinistra e dei gruppi autonomisti ed indipendentisti. Insomma l’Hyperion costituisce per l’estrema sinistra ciò che l’Aginter Press è per l’estrema destra. Per singolare coincidenza la prima viene costituita quando la seconda viene dissolta. Siamo a metà degli anni Settanta e i regimi militari e fascisti in Europa (Spagna, Portogallo e Grecia) cadono ad uno ad uno. Non è improbabile che le stesse centrali, legate verosimilmente ai servizi segreti nordamericani e della NATO, si celino dietro la costituzione sia dell’Aginter Press che dell’Hyperion e che sia stato attuato un cambio di rotta. Simioni, inoltre, si vantava di godere dell’appoggio del Presidente francese Valery Giscard Estaing. Esistono indizi che fanno pensare a un coinvolgimento dell’Hyperion nell’affaire Moro: il nome di Innocente Salvoni, uno degli animatori della “scuola”, legato a Simioni, appare in una lista di sospetti terroristi presenti in via Fani stilata dalla Questura di Roma. Il nome verrà “depennato” anche, sembra, per l’intervento del celebre abbè Pierre imparentato con Salvoni. Inoltre poco prima del sequestro l’Hyperion apre due filiali, una a Roma ed una a Milano chiuse poi poco dopo la conclusione del sequestro. Secondo Flamigni la filiale romana era ubicata allo stesso indirizzo in cui erano presenti uffici del SISMI. Lo stesso Mario Moretti, il maggior responsabile “esecutivo” dell’operazione Fritz era stato in precedenza un militante del Superclan e viaggiava spesso a Parigi verosimilmente per incontrare i vecchi “compagni”. L’Hyperion venne coinvolta in un traffico internazionale di armi probabilmente per il suo ruolo di mediazione fra gruppi di diversa nazionalità. Nella fattispecie si trattava della distribuzione di armamenti fra gruppi terroristici di estrema sinistra ed indipendentisti come l’ETA, l’IRA, la RAF, le BR e una frangia estremista della palestinese OLP. Secondo il giudice veneziano Mastelloni alla base di questo traffico vi sarebbe stato un accordo fra CIA ed OLP mediato dal SISMI tramite il colonnello Giovannone noto per i suoi rapporti con i palestinesi e per essere un collaboratore del direttore piduista del servizio Santovito. E’ certo, invece, che fu il numero due del SISDE Silvano Russomanno, già uomo del piduista D’Amato, a vanificare, tramite un’intervista al Corriere della Sera a direzione piduista (Di Bella), un’operazione di polizia congiunta fra italiani e francesi per perquisire la scuola di lingue. Una soffiata insomma e proveniente da un organismo che avrebbe dovuto contrastare i “compagni parigini”. Esiste una connessione P2 – Hyperion già adombrata nell’affaire Moro. Ma non è finita… Il documentatissimo Flamigni scrisse nel 1994 “La sfinge delle Brigate Rosse” (KAOS edizioni), una sorta di biografia non autorizzata del capo brigatista Mario Moretti. E’soprattutto la storia dei rapporti scabrosi fra i Comitati di Resistenza Democratica, l’organizzazione costituita da Edgardo Sogno in vista del golpe “bianco” attraverso i citati Cavallo e Dotti con Corrado Simioni – che, ricordiamolo, aveva lavorato per l’USIS – e il Superclan/Hyperion e, quindi con le BR morettiane. Dal testo risulterebbe quasi che il Superclan e Simioni costituissero un “prolungamento” con i “bianchi” dei Comitati di Resistenza Democratica vicini agli americani e agli inglesi e che Moretti fosse un loro “infiltrato” nelle BR.
Sinteticamente fra le notizie riportate: la vicinanza “fisica”, a Milano, fra Moretti e Dotti da un lato e fra i suoceri di Moretti e Cavallo dall’altro, la militanza presso il Superclan della segretaria di Manlio Brosio, liberale, già segretario generale della NATO e il rapporto fra Dotti e Simioni di cui ha parlato per la prima volta l’ex brigatista Franceschini. Ricordiamo ancora una volta che Sogno, oltre ad essere filoamericano e filoinglese, era iscritto alla P2.
Al termine di questo viaggio nel documento citato da Willan e alla luce di notizie ed informazioni a volte provate a volte non ancora verificate emerge un intreccio ed una rete complessa di rapporti che coinvolge servizi segreti nordamericani come la CIA e la DIA e quelli inglesi, le forze speciali americane ed inglesi come i Berretti Verdi, i marines e le SAS, l’USIS, l’organizzazione Gehlen, la loggia massonica coperta P2, i servizi segreti italiani e più ingenerale della NATO la rete paramilitare NATO STAY BEHIND e la sua sezione
italiana GLADIO, Pace e Libertà e i Comitati di Resistenza Democratica, la Rosa dei Venti, l’Aginter Press e l’Hyperion. Non si può non notare come ciò contribuisca a determinare un quadro di reti e di rapporti all’insegna del filoamericanismo, dell’atlantismo e dell’anticomunismo. Certo la natura di questi rapporti è complessa e conflittuale, investendo soggetti assai diversi l’uno dall’altro, essendo vasto lo schieramento “atlantico” ed anticomunista, tuttavia viene delineato un certo ambiente…
Tornando alla questione di presenze americane in via Fani, altri indizi vengono aggiunti all’informazione di Flamigni su Hauser. Interessante è invece il ruolo dell’Hyperion che potrebbe profilarsi nel caso Moro. Data la natura di centro di collegamento della falsa scuola di lingue si può ipotizzare che Simioni e soci avessero mediato fra i “compagni” della tedesca RAF e le BR morettiane in vista dell’operazione Fritz favorendo probabilmente l’infiltrazione di elementi delle forze speciali americane. Questo ruolo sarà tanto più probabile quanto più si riuscirà a dimostrare il legame dell’Hyperion con organismi americani (ad esempio proprio l’USIS) o della NATO.
Occupiamoci ora di Mino Pecorelli…
Il 20 marzo 1979, all’incirca ad un anno esatto dal sequestro Moro, veniva assassinato il giornalista Mino Pecorelli. Il movente o i moventi dell’omicidio sono rimasti piuttosto oscuri perché Pecorelli aveva sicuramente parecchi nemici ed era molto attivo in una campagna contro il Presidente del Consiglio Giulio Andreotti. Pecorelli era informatissimo grazie ai suoi agganci con gli ambienti dei servizi segreti italiani ma anche con il sottobosco del mondo politico e quello finanziario. Ai tempi di Mondo Oggi aveva tentato uno scoop cercando di rivelare i rapporti fra CIA, servizi segreti NATO, l’organizzazione Gehlen, la Pro Deo, il Vaticano e multinazionali e grandi imprese italiane. Lo scoop era stato bloccato dall’Ufficio Affari Riservati che finanziava il bollettino. Sicuramente Pecorelli conosceva molti segreti relativi all’affaire Moro ed era in procinto di rivelarli. Forse è questo il vero movente dell’omicidio. L’unica certezza che è stata raggiunta è che i proiettili utilizzati provenivano dal deposito in dotazione alla banda della Magliana presso il Ministero della Sanità. La pista del deposito della banda porta a diversi casi: l’omicidio del colonnello dei carabinieri Varisco, rivendicato dai “rossi” delle BR e quello del capitano Straullo rivendicato dai “neri” dei NAR entrambi in qualche modo legati all’omicidio Pecorelli e i tentativi di depistaggio della strage alla stazione di Bologna. Per il giudice Sica esplosivo utilizzato in attentati rivendicati da “rossi” e da “neri” indifferentemente proveniva da quel deposito. Comunque la holding dei gangsters capitolini della Magliana compare nei maggiori fatti misteriosi e criminali a cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta: fra questi lo stesso caso Moro, ma anche i già citati omicidi di Pecorelli, Varisco e Straullo, la strage alla stazione di Bologna, l’assassinio del Presidente della Regione Sicilia Mattarella, il sequestro del democristiano campano Cirillo, la morte del banchiere Calvi e l’attentato al suo vice Rosone, l’omicidio del criminologo Semerari, la strage sul Rapido 904, la scomparsa di Emanuela Orlandi, le vicende relative al falsario Chichiarelli. La banda della Magliana appare un complesso snodo fra mafia siciliana nei rapporti con Pippo Calò, il cassiere, la Nuova Camorra Organizzata di Cutolo, la ndrangheta calabrese, il SuperSISMI di Santovito e Pazienza, la P2, la massoneria deviata, strutture paramilitari tipo GLADIO, il terrorismo “nero” ma anche “rosso” e gangsters tipo i marsigliesi e Turatello. Per quanto riguarda il caso Moro si rimanda a quanto scritto sul ruolo ambiguo del falsario Chichiarelli che potrebbe aver agito per conto dei servizi segreti ma anche delle stesse BR.
E’ stato il sedicente “gladiatore” Ravasio ad accennare ad una collaborazione della banda della Magliana con i servizi segreti militari allora egemonizzati dalla P2. Il risultato di questa collaborazione non è ben chiaro, ma i gangsters vennero “ricompensati” lasciando le mani libere nel compimento si alcune rapine. Inoltre, ma ne parleremo più avanti, nell’azione di via Fani sarebbero stati rinvenuti proiettili provenienti da una partita poi finita nel deposito del Ministero della Sanità. Ne tratterò più approfonditamente nel capitolo che riguarda più specificamente GLADIO… L’ambiguità è accentuata dal fatto che prima della conclusione del sequestro alcuni esponenti della DC ebbero contatti con i boss della Magliana e che Moro venne recluso in un appartamento in via Montalcini, zona di Roma sotto il controllo della banda. Le BR avevano forse contattato i boss? Si ricordi poi che la responsabilità della protezione di Moro ricadeva sul SuperSISMI attraverso l’Ufficio Protezione e Sicurezza diretto dal piduista Musumeci che, secondo un “pentito” brigatista tale Buzzati, avrebbe conosciuto l’ambiguo capo delle BR Senzani, teorico dell’alleanza fra BR e criminalità e, per alcuni, legato al SISMI. La collaborazione di elementi della Magliana legati all’estrema destra con il SuperSISMI appare, invece, evidente nel caso dei depistaggi delle indagini sulla strage alla stazione di Bologna. Secondo alcuni Moro sarebbe stato ucciso dalla componente “delinquenziale” delle BR, un probabile riferimento alla banda della Magliana o alla ndrangheta calabrese. E’possibile che Pecorelli conoscesse molti di questi retroscena anche perché, indirettamente, si era occupato della connessione tra le mafie siciliana e “romana” con la corrente democristiana andreottiana, ma a noi interessa soprattutto un suo articolo su Osservatorio Politico, il bollettino da lui diretto, risalente a ben due anni prima il sequestro Moro, vale a dire il 21 gennaio 1976 e intitolato “Decapitate le BR: giorni caldi attendono il paese?” che dimostra l’ottima conoscenza del giornalista del sottobosco degli ambienti dei servizi segreti italiani dai quali era, evidentemente, informato. Riportiamone per intero il testo.
C’è appena il tempo di registrare, con le massime congratulazioni per il gen. Mino, gli ultimi successi per la pratica Curcio che di nuovo per i militi dell’Arma s’accende un periodo di tensione al colore rosso. Crisi di governo, crisi economica, crisi internazionale – nonché l’arresto del “comandante di colonna” Renato Curcio – fanno infatti ritenere come probabile qualche clamoroso gesto da parte delle organizzazioni terroristiche agenti nel nostro paese.
E’anche questa l’opinione di alcuni funzionari ed esperti di cose italiane al Dipartimento di Stato. Il PCI, si dice, sta per tentare l’ultima spallata. E in questi casi, massime col Berlinguer che vuole mostrarsi uomo d’ordine, il comunismo internazionale ricorre sempre a tattiche di violenza. Sono pertanto questi i motivi che hanno indotto gli USA a mettere a disposizione dell’ambasciata di Roma – dove sono attesi a giorni – e delle multinazionali statunitensi operanti in Italia un nucleo di 50 marines esperti di guerriglia urbana e antiterrorismo. Potranno collaborare con i nostri servizi di sicurezza che, evidentemente, oltreoceano non riscuotono sufficiente affidabilità.
Prima di analizzare questo articolo occorre precisare che Pecorelli era egli stesso un piduista, buon conoscente del Gran Maestro Licio Gelli e che nella guerra dei servizi segreti italiani interna al SID si era schierato ai tempi con il direttore del SID Vito Miceli, piduista, filoarabo e vicino alla destra in contrapposizione con il capo dell’Ufficio D Gianadelio Maletti, anch’egli piduista ma anche filoisraeliano, andreottiano e in buoni rapporti con esponenti del PSI come Mancini. Op, il bollettino di Mino Pecorelli era, quindi, a disposizione della P2 e dei servizi segreti che tramite esso veicolavano messaggi o animavano campagne a favore o contro questo o quel gruppo di potere. Spesso, quindi, gli articoli rispecchiavano quelle posizioni e, dunque, si deve ricordare che, sia lo stesso Maletti che Franc
esco Cossiga, “gladiatore” confesso e già Ministro degli Interni nel periodo del sequestro dell’onorevole Moro, ammisero che la P2 aveva costituito un circolo di potere dell’oltranzismo atlantico e che Gelli stesso era alle dipendenze di personaggi d’oltreoceano. Inoltre Cossiga affermò, in un’altra occasione, che una sua fonte gli aveva riferito che la loggia coperta P2 era stata costituita nella base NATO e americana di Napoli ed era composta da militari e civil servants al servizio degli USA. Sull’argomento Gelli e P2 torneremo in seguito…
Tornando invece all’articolo il primo elemento importante che si evince da un’attenta lettura è l’apparente contraddizione di alcune asserzioni, com’era d’altronde nello stile di Pecorelli. Nonostante si ammetta che gli inquirenti e le forze di sicurezza abbiano riportato successi decisivi contro le BR arrestandone il capo Renato Curcio, si ritengono probabili nuove azioni terroristiche. Quel che viene detto è sorprendente, perché all’epoca si pensava che le BR fossero ormai alle corde grazie alle decine di arresti che avevano scompaginato l’organizzazione. E’ lo stesso titolo dell’articolo a stupire: viene detto che le BR sono state decapitate, tuttavia è previsto un periodo di rinnovata tensione. Come abbiamo visto i servizi segreti passavano informazioni a Pecorelli e, sull’argomento erano sicuramente molto informati. Già tempo prima, nell’ambito dell’inchiesta padovana sull’organizzazione eversiva atlantica Rosa dei Venti Miceli aveva previsto che al terrorismo “nero” sarebbe subentrato quello “rosso” e nel 1975 Maletti aveva inviato un rapporto al Ministero degli Interni nel quale si diceva esplicitamente che le BR si stavano riorganizzando addestrandosi alla tecnica delle gambizzazioni e che le campagne terroristiche venivano decise da un pugno di personaggi che sarebbe stato arduo definire “di sinistra”. C’è forse un riferimento all’Hyperion? C’è una notevole forma di “preveggenza” visto che il primo omicidio eccellente delle BR , quello del giudice Coco, risale al giugno 1976, quindi parecchio tempo dopo l’articolo di Pecorelli. In quel periodo, infatti, si sta consumando il passaggio dalle prime BR, quelle di Curcio e Franceschini a quelle morettiane con la loro strategia esplicitamente terroristica. Curiosamente poi Pecorelli attribuisce a Curcio il titolo di “comandante di colonna” e non di capo delle BR. Si vuole forse insinuare che Curcio non era poi così importante nell’organigramma dell’organizzazione. Si ha l’impressione che i servizi segreti sapessero che i Curcio, i Franceschini ma probabilmente anche i Moretti e, perché no?, i Senzani non fossero dei veri e propri capi ma soltanto gli esecutori di direttive provenienti da altri.
Pecorelli poi passa ad illustrare l’opinione condivisa da esperti del Dipartimento di Stato (come Pieczenick e ricordiamo che proprio sul caso Moro il Dipartimento di Stato ha imposto il segreto) e dai servizi segreti italiani – e, quindi, probabilmente dalla P2 – che la nuova ondata terroristica sarà causata direttamente dal PCI berlingueriano, che sulle soglie del potere, sta pensando al colpo si stato rilanciandosi come partito d’ordine e, per questo motivo, avrebbe bisogno di un clima di caos e violenza. Insomma si ripropone la tesi di una complicità fra PCI e BR, anzi di queste ultime come braccio armato dei comunisti. Queste affermazioni la dicono lunga sull’estrazione di questi “esperti” ed anche sulla loro buona fede. La tesi che il PCI avrebbe manovrato il terrorismo per tentare una sorta di colpo di stato non è solo fantasia, ma chiaramente propaganda anticomunista. Nessuno è mai riuscito a mettere indubbio la lealtà costituzionale del PCI, in quel tempo impegnato a cercare un accordo con la DC e anche con gli altri partiti dell’arco costituzionale per arginare la crisi economica Invece non vi sono dubbi sulle opinioni degli esperti americani, della P2 e dello stesso Pecorelli. Certo il PCI si presentò come partito d’ordine ed assunse un atteggiamento assai duro sia nei confronti del terrorismo rosso che di tutta l’ultrasinistra e, in particolare, del cosiddetto “movimento del 77” incoraggiando la repressione, ma è altra cosa dire che il PCI istigò il terrorismo e la violenza di questi gruppi per rafforzare il proprio potere. Inoltre gli Autonomi e il “movimento del 77” erano anche piuttosto violentemente antiPCI e non si può escludere che, per questo motivo, siano stati strumentalizzati. Fra gli oltranzisti atlantici non serpeggiava la paura di un PCI antidemocratico, sovversivo o golpista, ma al contrario, che i comunisti prendessero il potere per vie legali e costituzionali. Questo concetto è stato ribadito dal Consigliere per la Sicurezza Nazionale e Segretario di Stato dei Presidenti Nixon e Ford Henry Kissinger il quale fu tra i responsabili del golpe cileno che eliminò il socialista Allende, democraticamente eletto. La giornalista Patricia Verdugo attribuisce a Kissinger l’intenzione di destabilizzare il governo di Allende appoggiando l’estrema sinistra cilena. Ricordiamo poi le minacce rivolte a Washington da Kissinger a Moro per la politica di collaborazione con i comunisti. L’argomento pretestuoso di un probabile colpo di stato comunista serve solo a giustificare l’ingerenza americana e di gruppi di potere filoamericani e filoatlantici come la P2. In questo senso l’arrivo di 50 marines esperti di guerriglia urbana ed antiterrorismo in collegamento con l’Ambasciata USA a Roma (ricordiamo che l’USIS era collegato all’Ambasciata americana) potrebbe essere illuminante perché, ricordiamolo, in quel momento le BR e gli altri gruppi terroristici erano in grande difficoltà. Secondo Pecorelli questo nutrito gruppo di marines si sarebbe occupato della sicurezza dell’Ambasciata e delle multinazionali americane e avrebbe collaborato con i servizi di sicurezza italiani che, in quel periodo, stavano per essere egemonizzati dalla P2. Peraltro viene aggiunto che gli americani non consideravano i nostri servizi molto affidabili, forse per i conflitti e le lotte di potere interni anche allo schieramento italiano dell’”anticomunismo (si pensi alla rivalità Miceli – Maletti ma anche a quella fra SID e Ufficio Affari Riservati, fra carabinieri e polizia e a quelle che attraversavano la P2). La stessa P2 può forse essere considerato il tentativo di creare un collante “anticomunista” fra personaggi differenti fra loro. Comunque non è ben chiara la natura della collaborazione… Come abbiamo già visto, invece, membri delle forze speciali erano ancora attivi nel periodo del sequestro Moro. Hauser era in possesso di una falsa identità di terrorista tedesco nel verosimile tentativo di entrare in contatto con le BR. Stavano tentando di infiltrarsi nelle BR? E se la risposta è sì ci sono riusciti? E ancora quale era il vero scopo delle infiltrazioni? Neutralizzare i terroristi oppure fornire loro le capacità militari adeguate per portare avanti una linea di destabilizzazione a cui gli stessi americani erano interessati? In un certo senso queste domande sono già state poste, ma diventano sempre più urgenti… In genere le notizie riportate da Pecorelli provenienti da fonti dei servizi segreti si sono dimostrate altamente attendibili. Una cosa è certa: dal momento del presunto arrivo dei 50 – ben 50 ! – marines con funzioni di antiterrorismo e l’assassinio di Moro si registra, oltre all’escalation terroristica delle BR e di altri gruppi simili e, parallelamente, il punto più basso nell’opera repressiva dello stato senza che alcuna operazione di polizia di rilievo venga attuata. Sembra che i brigatisti vengano lasciati indisturbati e che ciò danneggi il PCI invece che favorirlo è dimostrato dalla flessione che il partito registra alle elezioni del 1979. D’altronde era un’idea di Kissinger quella di utilizzare l’estrema sinistra per screditare la sinistra, almeno secondo la Verdugo.
Registriamo, quindi, alcuni fatti che, per la loro concomitanza possono essere considerati inquietanti. Vediamoli:
1) L’arrivo e l’attività in Italia di un nutrito gruppo di membri delle forze speciali americ
ane in presunte funzioni di antiterrorismo.
2) L’intensificazione del reclutamento di elementi nella P2 in corrispondenza con l’estensione del Piano di Rinascita Democratico che prevede l’infiltrazione nelle istituzioni per stravolgere il dettato costituzionale e la progressiva egemonia dei piduisti nei servizi segreti e nelle forze di sicurezza soprattutto con la riforma del 1977.
3) Il ridimensionamento di quegli uomini che più avevano contribuito a portare colpi al terrorismo italiano: il generale dei carabinieri Dalla Chiesa a capo dei Nuclei Antiterrorismo che avevano messo a segno duri colpi contro le BR e il questore Santillo dell’Ispettorato Antiterrorismo che aveva smantellato i NAP e le organizzazioni del terrorismo neofascista. Peraltro Santillo aveva scritto alcuni rapporti che dimostravano i rapporti fra il Raggruppamento Gelli e il terrorismo “nero” e, durante il sequestro Moro avanzerà l’ipotesi di un coinvolgimento dello stesso Gelli.
4) Il cambio della strategia delle BR con la gestione Moretti all’insegna di un’escalation terroristica in concomitanza con l’apertura della scuola di lingue parigina Hyperion.
La cosa curiosa è che Moro era a conoscenze di infiltrazioni di americani (e israeliani) nelle BR e, per questo, era preoccupato…
L’11 giugno 2005, durante il Convegno “16 marzo – 9 maggio 1978, Operazione Moro” organizzato dalla Fondazione Sandro Pertini e dalla sezione di Trevignano dei DS, Giovanni Galloni, già dirigente democristiano e collaboratore di Moro fece delle importanti rivelazioni. Innanzitutto ribadì come vi fosse animosità da parte del solito Kissinger nei confronti di Moro per la linea di collaborazione con i comunisti, ma anche da parte del Primo Ministro israeliano Rabin per la politica filoaraba dello statista democristiano,poi fece un accostamento, un paragone fra il caso di Abu Omar e quello di Moro. Come è noto Abu Omar, sospetto reclutatore di terroristi islamisti, fu rapito da un “commando” della CIA per essere portato nella base americana di Aviano e, da qui, attraverso i voli segreti della CIA, in Egitto per essere “interrogato”. Il tutto avvenne, o con l’inerzia, o con la complicità del SISMI italiano diretto da Pollari. Ricordando come vi siano delle buone probabilità che, sia Hauser/Lausen, sia Stark fossero stati “esfiltrati” attraverso voli segreti forse della CIA partiti dalla base americana vicino a Pisa, c’è qualche motivo di prestare attenzione alle parole di Galloni, il quale lascerebbe intendere che l’operazione Moro è stata anche un‘operazione americana (oltre che israeliana). Secondo l’ex democristiano due settimane prima della strage di via Fani Moro gli aveva espresso delle preoccupazioni che riportò con le seguenti parole: “La cosa di cui sono molto preoccupato è questa : io so che i servizi segreti americano ed israeliano hanno degli infiltrati nelle Brigate Rosse, però questi servizi non ci hanno mai fatto comunicazione ai nostri servizi e allo Stato, perché certamente le loro indicazioni potrebbero essere utili per la ricerca dei covi.” Tralasciando il riferimento ai servizi segreti israeliani che potrebbe far intendere anche una collaborazione con gli americani ma di cui non ci stiamo occupando, risulta chiaro che l’infiltrazione americana nelle BR era cosa nota ed era nota perfino a Moro ed il fatto che i servizi segreti americani fossero scarsamente collaborativi con i nostri servizi costituiva grave motivo di preoccupazione. Come abbiamo visto dall’articolo di Pecorelli erano giunti uomini delle forze speciali americane esperti nell’antiterrorismo per collaborare con i servizi segreti italiani. Gli infiltrati a cui si riferisce Moro fanno parte del gruppo dei 50 marines indicati da Pecorelli? Ovviamente non ci sono elementi certi per dirlo, ma, considerati i dati raccolti, ciò viene lasciato supporre. Per lungo tempo si è pensato che l’unico uomo infiltrato dagli americani nelle BR fosse stato Ronald Stark di cui abbiamo a lungo trattato, ma la frase di Moro lascia intendere che gli infiltrati fossero più di uno. Inoltre Stark era riuscito a contattare la vecchia guardia brigatista in carcere per cui è veramente difficile pensare che potesse dare un contributo sostanziale alla scoperta dei covi delle nuove BR morettiane. E’ certo più ragionevole pensare che vi fossero stati infiltrati nelle nuove BR… Ma la vicenda di Hauser/ Lahusen sembra, invece, incastrarsi perfettamente con gli elementi raccolti, infatti si tratta di un membro delle forze speciali americane, pluridecorato e, quindi, esperto nelle azioni da “commando”. Non può non far pensare al riferimento dei 50 marines “antiterrorismo” di cui aveva scritto Pecorelli, inoltre era in possesso di una falsa identità da terrorista tedesco e, come abbiamo visto, era prassi dei servizi segreti infiltrarsi nei gruppi terroristici dell’ultrasinistra sfruttando la reputazione di terrorista straniero per cui non è irragionevole pensare che si sia infiltrato nelle BR oppure che abbia tentato un approccio in tal senso e questo proprio nel periodo a ridosso dei 55 giorni più bui della nostra Repubblica. Lo stesso discorso si può fare per il fantomatico David Berretto Verde e marine sempre che, il documento citato presenti una certa sua “nascosta” attendibilità…
FONTE:https://telestreetarcobaleno.tv/tracce-indizi-lipotesi-della-pista-americana-nel-caso-moro/amp/
ECONOMIA
Caro Prodi, il suicidio è stato entrare nell’euro
di Thomas Fazi
L’ineffabile Romano Prodi ha dichiarato a DiMartedì che il «il ritorno alla lira» sarebbe «assolutamente un suicidio». Ora, che Prodi senta il bisogno di fare la difesa d’ufficio dell’euro è comprensibile: d’altronde fu proprio il suo governo, nel 1996, ad avviare le procedure per l’ingresso dell’Italia nell’euro.
Ma proprio per questo dovrebbe avere la decenza di non parlare. Cosa accadrebbe in caso di uscita dall’euro, infatti, non lo sappiamo: molto dipenderebbe da come verrebbe gestita la cosa, e alcuni degli economisti più brillanti del pianeta ci hanno indicato la strada su come gestire e minimizzare l’impatto di una transizione dall’euro a una nuova valuta nazionale.
Quello che invece sappiamo per certo sono gli effetti che ha avuto l’ingresso dell’Italia nell’euro.
Fino alla fine degli anni Ottanta, l’Italia è stato il paese d’Europa con la più elevata crescita media. Poi, tra l’inizio e la metà degli anni Novanta, quel trend non ha solo subìto una brusca frenata, ma ha addirittura conosciuto una drammatica inversione di tendenza che dura fino ai giorni nostri, relativamente in particolare alla produzione industriale, alla produttività e al PIL pro capite: tutte variabili che fino a quel momento avevano registrato un tasso di crescita superiore o pari a quello della Germania e degli altri partner europei.
Il fatto che la dinamica del PIL italiano non denoti una marcata tendenza al declino, almeno rispetto alla Germania e alla media europea, prima dell’introduzione dell’euro, dovrebbe essere sufficiente a smentire la teoria secondo cui la crisi sarebbe imputabile a problemi strutturali che poco o nulla hanno a che vedere con l’integrazione economica e valutaria europea.
Il dato relativo all’andamento della produttività è particolarmente interessante, sia perché la bassa produttività dell’Italia è spesso additata come l’origine di tutti i mali del nostro paese, sia perché essa rappresenta la cartina di tornasole di tutta una serie di altre criticità. Per tutti gli anni Settanta e Ottanta la produttività italiana del lavoro ha viaggiato allo stesso ritmo di quella tedesca; all’inizio degli anni Novanta, poi, l’indice della produttività comincia a rallentare per poi arrestarsi bruscamente nel 1997.
Da allora è sempre cresciuta a tassi molto inferiori alla media delle economie avanzate, mentre quella tedesca, pur continuando a rallentare, è rimasta vicina alla media. Cosa è successo tra l’inizio e la metà degli anni Novanta? Sono emerse improvvise “debolezze strutturali” nella nostra economia? Siamo diventati d’un colpo tutti corrotti e scansafatiche? O in quegli anni sono state prese delle precise decisioni politiche che potrebbero spiegare la curiosa parabola dell’economia italiana?
Sarà una coincidenza – o quella che gli economisti chiamano una “correlazione spuria” – ma quelli sono gli anni in cui inizia il percorso di convergenza del nostro paese verso i criteri di Maastricht, che ha implicato non solo il fissaggio del tasso di cambio e una stretta fiscale estremamente violenta, ma anche un programma di (contro)riforme – tra cui la liberalizzazione di molti settori, lo smantellamento e privatizzazione di buona parte dell’apparato industriale pubblico, la deregolamentazione del mercato del lavoro ecc. – che ha investito praticamente ogni aspetto dell’economia italiana.
Una prima causa del crollo della produttività va dunque individuata nella rivalutazione della lira propedeutica all’ingresso dell’Italia nell’euro: nel 1995, dopo aver raggiunto la massima svalutazione rispetto al marco, la lira si rivaluta bruscamente, per poi continuare ad apprezzarsi nei mesi seguenti, fino a raggiungere l’anno successivo quello che sarebbe diventato il cambio irrevocabile fra la lira e il marco.
L’impatto sulle esportazioni non tardò a farsi sentire. La svalutazione della lira rispetto al marco iniziata nel 1992 aveva dato un forte impulso all’export italiano, tanto che nel 1993 la bilancia commerciale era tornata in attivo (dopo essere stata in territorio negativo per diversi anni), continuando a crescere a ritmi poderosi negli anni successivi. Poi, a partire dal 1997 – cioè da quando viene nuovamente fissato il tasso di cambio, provocando un’immediata rivalutazione della lira – la nostra bilancia commerciale comincia nuovamente a declinare, per entrare nuovamente in territorio negativo nel 2002, cioè nell’anno in cui l’euro entra ufficialmente in circolazione.
I numeri parlano chiaro: negli anni Novanta le esportazioni italiane erano molto sensibili (elastiche, nel gergo degli economisti) rispetto alle variazioni di prezzo, da cui l’impatto molto pesante sulla manifattura determinato dall’adozione del cambio fisso e poi della moneta unica. Come scrive Antonella Stirati in merito al peggioramento della bilancia commerciale italiana verificatosi nel corso dell’ultimo ventennio, «la perdita di controllo sul tasso di cambio, insieme alla scarsa crescita del mercato interno tedesco, hanno pesato negativamente molto più che l’emergere di nuovi paesi nella scena economica internazionale» (come per esempio la Cina).
Un’altra causa del crollo della produttività può essere individuata nella progressiva deregolamentazione e flessibilizzazione (precarizzazione) del mercato del lavoro cui abbiamo assistito nell’ultimo ventennio, dal pacchetto Treu (1997) fino al “Jobs Act” e all’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (2014). Il risultato di questo processo – anch’esso parte integrante del percorso di convergenza inaugurato con la firma del trattato di Maastricht, in linea con l’impostazione antilaburista dell’unione monetaria – è che per l’Italia l’indice di protezione del lavoro (EPL), calcolato dall’OCSE, è precipitato da 3,8 nei prima anni Novanta a poco più di 2 nel 2015 (ultimo anno per il quale disponiamo di dati).
Come ammette la stessa OCSE, siamo il paese che ha liberalizzato di più il mercato del lavoro relativamente alla posizione abbastanza rigida del passato. A sentire la Commissione europea e la BCE, che non perdono mai occasione di invocare le cosiddette “riforme strutturali”, in particolare la deregolamentazione del mercato del lavoro, ridurre i diritti dei lavoratori sarebbe una necessità impellente al fine di accrescere la produttività stagnante delle imprese. Eppure, se si giudicano i risultati della flessibilità, vediamo che essa non è stata accompagnata da un aumento della produttività ma, al contrario, da un drammatico crollo della suddetta.
Come se non bastasse, la produttività italiana ha risentito anche delle politiche di compressione della domanda e di restrizione fiscale adottate sempre con l’obiettivo dichiarato di ottemperare ai criteri di Maastricht. A partire dalla metà degli anni Novanta, infatti, la spesa pubblica corrente si è sistematicamente ridotta, con una contrazione di circa un punto percentuale solo tra il 1993 e il 1994. Da allora la spesa pubblica italiana in rapporto al PIL è sempre stata – e continua a essere – sistematicamente inferiore a quella degli altri paesi avanzati.
Nello stesso periodo l’Italia è anche il paese, fra quelli OCSE, che ha registrato la maggiore crescita delle diseguaglianze e il maggior grado di immobilità sociale. Il risultato è che da un ventennio l’Italia ha visto crescere la sua domanda interna a tassi sistematicamente più bassi della media dei paesi OCSE.
Questo, nota Guglielmo Forges Davanzati, «sembra confermare l’ipotesi interpretativa in base alla quale la riduzione della spesa pubblica contribuisce a generare effetti di segno negativo sulla dinamica della produttività del lavoro».
In definitiva, nella misura in cui tra l’inizio e la metà degli anni Novanta, tutti i maggiori indicatori economici – produttività, produzione industriale, crescita pro capite ecc. – hanno cominciato a manifestare un costante declino e risultano sostanzialmente stagnanti da allora, con tutte le conseguenze economiche e sociali che ne sono derivate, questo è largamente imputabile alla radicale riconfigurazione del nostro assetto economico-istituzionale conseguente all’adesione dell’Italia alla sovrastruttura economica europea e alle varie (contro)riforme regressive ad essa associate: fissaggio del tasso di cambio (con conseguente crollo delle esportazioni), deregolamentazione del mercato del lavoro, compressione dei salari, politiche fiscali restrittive e privatizzazione della grande industria pubblica.
È la stessa conclusione raggiunta dal noto economista olandese Servaas Storm nello studio più approfondito che sia mai stato realizzato sulle cause del lungo declino italiano: «Nello studio – scrive Storm – dimostro empiricamente come la recessione italiana debba considerarsi una conseguenza del nuovo regime economico post-Maastricht adottato dall’Italia a partire dai primi anni Novanta».
Per concludere: l’uscita dall’euro è un’incognita, ma non vi sono ragioni per credere che sarebbe necessariamente «un suicidio», come dice Prodi; anzi, vi sono ottime ragioni per credere che sarebbe la condizione essenziale per tornare a vivere. Al contrario, sappiamo per certo che l’ingresso dell’Italia nell’euro è stato – quello sì – un suicidio. Anche se forse sarebbe meglio parlare di tentato omicidio.
di Thomas Fazi
L’ineffabile Romano Prodi ha dichiarato a DiMartedì che il «il ritorno alla lira» sarebbe «assolutamente un suicidio». Ora, che Prodi senta il bisogno di fare la difesa d’ufficio dell’euro è comprensibile: d’altronde fu proprio il suo governo, nel 1996, ad avviare le procedure per l’ingresso dell’Italia nell’euro.
Ma proprio per questo dovrebbe avere la decenza di non parlare. Cosa accadrebbe in caso di uscita dall’euro, infatti, non lo sappiamo: molto dipenderebbe da come verrebbe gestita la cosa, e alcuni degli economisti più brillanti del pianeta ci hanno indicato la strada su come gestire e minimizzare l’impatto di una transizione dall’euro a una nuova valuta nazionale.
Quello che invece sappiamo per certo sono gli effetti che ha avuto l’ingresso dell’Italia nell’euro.
Fino alla fine degli anni Ottanta, l’Italia è stato il paese d’Europa con la più elevata crescita media. Poi, tra l’inizio e la metà degli anni Novanta, quel trend non ha solo subìto una brusca frenata, ma ha addirittura conosciuto una drammatica inversione di tendenza che dura fino ai giorni nostri, relativamente in particolare alla produzione industriale, alla produttività e al PIL pro capite: tutte variabili che fino a quel momento avevano registrato un tasso di crescita superiore o pari a quello della Germania e degli altri partner europei.
Il fatto che la dinamica del PIL italiano non denoti una marcata tendenza al declino, almeno rispetto alla Germania e alla media europea, prima dell’introduzione dell’euro, dovrebbe essere sufficiente a smentire la teoria secondo cui la crisi sarebbe imputabile a problemi strutturali che poco o nulla hanno a che vedere con l’integrazione economica e valutaria europea.
Il dato relativo all’andamento della produttività è particolarmente interessante, sia perché la bassa produttività dell’Italia è spesso additata come l’origine di tutti i mali del nostro paese, sia perché essa rappresenta la cartina di tornasole di tutta una serie di altre criticità. Per tutti gli anni Settanta e Ottanta la produttività italiana del lavoro ha viaggiato allo stesso ritmo di quella tedesca; all’inizio degli anni Novanta, poi, l’indice della produttività comincia a rallentare per poi arrestarsi bruscamente nel 1997.
Da allora è sempre cresciuta a tassi molto inferiori alla media delle economie avanzate, mentre quella tedesca, pur continuando a rallentare, è rimasta vicina alla media. Cosa è successo tra l’inizio e la metà degli anni Novanta? Sono emerse improvvise “debolezze strutturali” nella nostra economia? Siamo diventati d’un colpo tutti corrotti e scansafatiche? O in quegli anni sono state prese delle precise decisioni politiche che potrebbero spiegare la curiosa parabola dell’economia italiana?
Sarà una coincidenza – o quella che gli economisti chiamano una “correlazione spuria” – ma quelli sono gli anni in cui inizia il percorso di convergenza del nostro paese verso i criteri di Maastricht, che ha implicato non solo il fissaggio del tasso di cambio e una stretta fiscale estremamente violenta, ma anche un programma di (contro)riforme – tra cui la liberalizzazione di molti settori, lo smantellamento e privatizzazione di buona parte dell’apparato industriale pubblico, la deregolamentazione del mercato del lavoro ecc. – che ha investito praticamente ogni aspetto dell’economia italiana.
Una prima causa del crollo della produttività va dunque individuata nella rivalutazione della lira propedeutica all’ingresso dell’Italia nell’euro: nel 1995, dopo aver raggiunto la massima svalutazione rispetto al marco, la lira si rivaluta bruscamente, per poi continuare ad apprezzarsi nei mesi seguenti, fino a raggiungere l’anno successivo quello che sarebbe diventato il cambio irrevocabile fra la lira e il marco.
L’impatto sulle esportazioni non tardò a farsi sentire. La svalutazione della lira rispetto al marco iniziata nel 1992 aveva dato un forte impulso all’export italiano, tanto che nel 1993 la bilancia commerciale era tornata in attivo (dopo essere stata in territorio negativo per diversi anni), continuando a crescere a ritmi poderosi negli anni successivi. Poi, a partire dal 1997 – cioè da quando viene nuovamente fissato il tasso di cambio, provocando un’immediata rivalutazione della lira – la nostra bilancia commerciale comincia nuovamente a declinare, per entrare nuovamente in territorio negativo nel 2002, cioè nell’anno in cui l’euro entra ufficialmente in circolazione.
I numeri parlano chiaro: negli anni Novanta le esportazioni italiane erano molto sensibili (elastiche, nel gergo degli economisti) rispetto alle variazioni di prezzo, da cui l’impatto molto pesante sulla manifattura determinato dall’adozione del cambio fisso e poi della moneta unica. Come scrive Antonella Stirati in merito al peggioramento della bilancia commerciale italiana verificatosi nel corso dell’ultimo ventennio, «la perdita di controllo sul tasso di cambio, insieme alla scarsa crescita del mercato interno tedesco, hanno pesato negativamente molto più che l’emergere di nuovi paesi nella scena economica internazionale» (come per esempio la Cina).
Un’altra causa del crollo della produttività può essere individuata nella progressiva deregolamentazione e flessibilizzazione (precarizzazione) del mercato del lavoro cui abbiamo assistito nell’ultimo ventennio, dal pacchetto Treu (1997) fino al “Jobs Act” e all’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (2014). Il risultato di questo processo – anch’esso parte integrante del percorso di convergenza inaugurato con la firma del trattato di Maastricht, in linea con l’impostazione antilaburista dell’unione monetaria – è che per l’Italia l’indice di protezione del lavoro (EPL), calcolato dall’OCSE, è precipitato da 3,8 nei prima anni Novanta a poco più di 2 nel 2015 (ultimo anno per il quale disponiamo di dati).
Come ammette la stessa OCSE, siamo il paese che ha liberalizzato di più il mercato del lavoro relativamente alla posizione abbastanza rigida del passato. A sentire la Commissione europea e la BCE, che non perdono mai occasione di invocare le cosiddette “riforme strutturali”, in particolare la deregolamentazione del mercato del lavoro, ridurre i diritti dei lavoratori sarebbe una necessità impellente al fine di accrescere la produttività stagnante delle imprese. Eppure, se si giudicano i risultati della flessibilità, vediamo che essa non è stata accompagnata da un aumento della produttività ma, al contrario, da un drammatico crollo della suddetta.
Come se non bastasse, la produttività italiana ha risentito anche delle politiche di compressione della domanda e di restrizione fiscale adottate sempre con l’obiettivo dichiarato di ottemperare ai criteri di Maastricht. A partire dalla metà degli anni Novanta, infatti, la spesa pubblica corrente si è sistematicamente ridotta, con una contrazione di circa un punto percentuale solo tra il 1993 e il 1994. Da allora la spesa pubblica italiana in rapporto al PIL è sempre stata – e continua a essere – sistematicamente inferiore a quella degli altri paesi avanzati.
Nello stesso periodo l’Italia è anche il paese, fra quelli OCSE, che ha registrato la maggiore crescita delle diseguaglianze e il maggior grado di immobilità sociale. Il risultato è che da un ventennio l’Italia ha visto crescere la sua domanda interna a tassi sistematicamente più bassi della media dei paesi OCSE.
Questo, nota Guglielmo Forges Davanzati, «sembra confermare l’ipotesi interpretativa in base alla quale la riduzione della spesa pubblica contribuisce a generare effetti di segno negativo sulla dinamica della produttività del lavoro».
In definitiva, nella misura in cui tra l’inizio e la metà degli anni Novanta, tutti i maggiori indicatori economici – produttività, produzione industriale, crescita pro capite ecc. – hanno cominciato a manifestare un costante declino e risultano sostanzialmente stagnanti da allora, con tutte le conseguenze economiche e sociali che ne sono derivate, questo è largamente imputabile alla radicale riconfigurazione del nostro assetto economico-istituzionale conseguente all’adesione dell’Italia alla sovrastruttura economica europea e alle varie (contro)riforme regressive ad essa associate: fissaggio del tasso di cambio (con conseguente crollo delle esportazioni), deregolamentazione del mercato del lavoro, compressione dei salari, politiche fiscali restrittive e privatizzazione della grande industria pubblica.
È la stessa conclusione raggiunta dal noto economista olandese Servaas Storm nello studio più approfondito che sia mai stato realizzato sulle cause del lungo declino italiano: «Nello studio – scrive Storm – dimostro empiricamente come la recessione italiana debba considerarsi una conseguenza del nuovo regime economico post-Maastricht adottato dall’Italia a partire dai primi anni Novanta».
Per concludere: l’uscita dall’euro è un’incognita, ma non vi sono ragioni per credere che sarebbe necessariamente «un suicidio», come dice Prodi; anzi, vi sono ottime ragioni per credere che sarebbe la condizione essenziale per tornare a vivere. Al contrario, sappiamo per certo che l’ingresso dell’Italia nell’euro è stato – quello sì – un suicidio. Anche se forse sarebbe meglio parlare di tentato omicidio.
FONTE:https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/17960-thomas-fazi-caro-prodi-il-suicidio-e-stato-entrare-nell-euro.html
GIUSTIZIA E NORME
Crisi imprese: c’è allarme (anche) per la malavita
7 Giugno 2020
Le imprese in crisi a causa del coronavirus potrebbero essere sopraffatte da un altro grande problema: l’intromissione della malavita. Confcommercio ha lanciato l’allarme, presentando uno studio.
Le imprese hanno un altro nemico in questo difficile momento di crisi: la malavita.
A denunciare il problema è stata Confcommercio che il 7 giugno ha presentato uno studio al riguardo, realizzato in collaborazione con Format Research.
Aziende, imprese ed esercizi commerciali nell’ambito della ristorazione stanno affrontando una serie di ostacoli importanti dopo l’imposizione del lockdown per l’epidemia.
Drastico calo di fatturato, carenza di liquidità, consumi in difficoltà, nuove spese per la sanificazione, pagamento di affitti e tasse: queste sono le urgenze che gli imprenditori stanno cercando di risolvere anche attraverso il sostegno del Governo e delle misure economiche, quali quelle introdotte con il Decreto Rilancio.
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Intanto, però, la difficoltà delle imprese sta diventando terreno fertile per la crescita della malavita, criminalità e usura, a caccia proprio di imprenditori disperati e bisognosi di liquidità.
Ecco cosa ha mostrato lo studio di Confcommercio al riguardo.
La malavita: un problema in più per le imprese in crisi
L’indagine di Confcommercio e Format Research ha dato indicazioni preoccupanti sulle imprese: la criminalità, infatti, rappresenta un ostacolo ulteriore – alla già evidente crisi – per l’11% delle attività imprenditoriali in Italia.
Inoltre, il 10% degli imprenditori ha dichiarato di essere esposto all’usura o alla pratica di illegale appropriazione dell’azienda da parte della malavita.
Segnali inquietanti, quindi, in questa fase che vuole essere di rilancio del sistema economico italiano. Da sottolineare che, stando a quanto ha rilevato lo studio, il 20% di proprietari di negozi, piccole imprese e ristoranti si è dichiarato molto preoccupato per l’ingerenza della malavita, già presente nel quartiere di riferimento.
Se è vero che circa un’impresa su 3 ancora è incerta sul comportamento da tenere in caso di attacco da parte della criminalità, è anche importante ribadire che, stando all’indagine, il 67,4% degli imprenditori ha espresso una visione positiva delle Forze dell’ordine e della magistratura contro le azioni criminali.
Quanto pesa la crisi economica sulle imprese?
L’avanzare della criminalità sulle imprese è un segnale di quanto la crisi economica stia pesando sulle piccole e medie aziende e su esercizi commerciali molto diffusi e vitali in Italia, come i ristoranti.
Le risposte emerse dallo studio di Confcommercio hanno evidenziato che la scarsa liquidità e la decrescita dei consumi hanno impattato con una certa gravità per il 60% di commercianti e ristoratori.
Un 30% di imprenditori, inoltre, ha segnalato che le procedure burocratiche legate al dopo-lockdown e le nuove misure di sanificazione hanno particolarmente ostacolato l’attività economica.
L’allarme, comunque, è stato lanciato. Le parole di Sangalli, presidente di Confcommercio, sono state chiare:
“La crisi economica crea una zona d’ombra dove rischia di rafforzarsi la criminalità. Le nostre imprese in difficoltà denunciano sempre più spesso usura, estorsioni e acquisizioni illecite.”
Un ulteriore aspetto da considerare per il Governo alle prese con il rilancio dell’economia e delle imprese in crisi.
FONTE:https://www.money.it/crisi-imprese-allarme-anche-per-malavita
LA PROPRIETÀ ETERNA: ANALISI E DECADIMENTO DI UN DOGMA ASSOLUTO
by Angela Marinangeli | in Civile 8 GIUGNO 2020
Sommario: 1. Premessa – 2. Il diritto di proprietà e i diritti reali minori: dall’età liberale all’art.42 Cost. – 3. La funzionalizzazione della proprietà: dall’utilità sociale al potere d’esproprio – 4. Le interferenze anomale tra diritti assoluti e diritti relativi: la fragilità dei criteri di differenziazione, in particolare la dubbia natura delle obbligazioni propter rem e degli oneri reali – 5. Il numerus clausus e il principio di tipicità dei diritti reali: il sopravvento della manipolazione negoziale – 6. Verso nuove forme di proprietà: negozi di destinazione e il trust
1. Premessa
Non v’è dubbio, sin dai tempi della classicità, che la massima espressione del diritto soggettivo, fonte e ragione del suo esercizio, è la proprietà privata.
Quella stessa proprietà che nei secoli concepita come potere o dominio sulla cosa, come possesso avallato da un titolo che ne rafforza gli effetti, come capacità d’opposizione verso la generalità dei consociati.
Essa ha rappresentato, ad un tempo, il paradigma di tutto ciò che si pone in termini d’assolutezza e d’incorporazione sulla res, nonché l’antitesi rispetto ai diritti c.d. relativi, che vivono all’interno del rapporto e in esso si esauriscono.
Storicamente concepito come fulcro della proprietà fondiaria, il diritto reale assoluto sui beni immobili si correda di un sistema di tutele individuali, riconosciute dalla legge al titolare, onde consentirgli di tutelare il proprio bene in maniera diretta da qualunque forma di aggressione esterna, a prescindere da un rapporto personale con l’aggressore.
Questa tradizione giuridica, che colloca il diritto al vertice della scala dei valori, si implementa, come vedremo, nella culla dell’età liberale, ovvero in una fase storico-giuridica ove il negozio è visto come un mero strumento ancillare di trasferimento della proprietà, i diritti della personalità sono pressoché assenti e la famiglia partecipa dello stesso assetto patriarcale che ispira il sistema del possesso.
L’analisi che s’intende condurre è mirata alla ricostruzione storica, dogmatica e sistematica del diritto per eccellenza, la cui evoluzione si lega a un mutamento giuridico pregno del secolare susseguirsi delle fasi storiche nazionali e sovranazionali.
Senza alcuna pretesa d’esaustività nella trattazione basti qui premettere che la storia e la giurisprudenza, plasmando i tratti essenziali della res, ne hanno gradualmente inciso le fondamenta in maniera sempre più radicale, tanto che, ad oggi, non è più scontato per l’interprete avere una visione chiara ed esaustiva della materia.
Siffatta evoluzione trova il suo esito in un apparente dissesto degli elementi strutturali del diritto di proprietà e ancor più dei diritti reali minori, in particolare con riferimento ai criteri di identificazione rispetto ai diritti di credito.
Pregevoli tesi dottrinarie hanno portato alla luce, come vedremo, la debolezza sistematico-argomentativa dei tre elementi tradizionali ovvero “assolutezza, immediatezza e inerenza”, evidenziando la desuetudine degli stessi nel costituire un idoneo strumento distintivo tra le due categorie di diritti.
Del pari, una vulnerabilità altrettanto significativa si è avvertita nei principi di tipicità e numerus clausus dei diritti reali, entrambi espressione della certezza dei traffici giuridici, ma messi in discussione dall’avvento di nuove figure atipiche, della cui natura giuridica ci si interroga.
Ciò, in particolare, a causa della capacità dell’autonomia negoziale, ormai forte di una causa potenzialmente atipica, di poter manipolare la trama essenziale dei diritti reali in conformità alla ragion pratica, o funzione economico-individuale, perseguita dalle parti.
Il problema è però stabilire fino a che punto questa priorità accordata dalla giurisprudenza agli interessi concreti possa incidere sull’assetto tipico dei diritti reali stabilito dalla legge.
In termini diversi è opportuno domandarsi, dapprima ricercando la vera natura delle nuove proprietà in cui viene a scindersi la titolarità sostanziale e formale, se si possa legittimamente parlare di un decadimento definitivo del dogma.
2. Il diritto di proprietà e i diritti reali minori: dall’età liberale all’art.42 Cost.
Si è già accennato in apertura come la proprietà privata, nell’alveo dell’ispirazione liberale che mosse il Codice del Regno del 1865, costituiva il pilastro dell’ordinamento civile, la somma e la sintesi dei poteri, per essa intendendosi la proprietà fondiaria e latifondista, allora espressione della massima espressione della ricchezza economica e sociale.
Allo scopo l’art. 436 c.c. del Codice 1865, opportunamente definito il “Codice della proprietà”, ricalcando quanto previsto dal Codè Napoleon del 1804, sanciva: “La proprietà è il diritto di godere e disporre delle cose nella maniera più assoluta, purché non se ne faccia un uso vietato dalle leggi o dai regolamenti”.
Già dalla locuzione normativa spicca sugli altri il concetto di assolutezza, ad evidenziare l’illimitatezza interna ed esterna dell’istituto che si staglia attraverso la non comprimibilità, se non nei casi stabiliti dalla legge o dai regolamenti.
In tale fase è più che evidente come il dogma della proprietà sia nel plenum della sua grandezza, poiché esprime un diritto inviolabile della persona, piuttosto che un diritto economico-patrimoniale, sul quale, l’interferenza da parte dell’ordinamento costituisce un extrema ratio che piega il diritto assoluto all’interesse generale.
Non a caso, la summenzionata ideologia trova conferma nell’inesistenza di limiti dal carattere elastico, che avessero potuto in qualche modo incidere sul contenuto del diritto, attraverso l’attribuzione al giudice di un sindacato discrezionale in contrasto con un’idea d’assolutezza tendenzialmente senza limiti, ove l’eccezionale e rigido intervento della legge costituiva un mero ausilio ad eventuali specificazioni dell’istituto.
In ciò si spiega, altresì, il netto disfavore al “vincolo” che potesse in qualche misura rievocare reminiscenze feudali, non solo da parte del potere pubblicistico, bensì da parte dello stesso proprietario, dovendosi egli attenere strettamente agli esigui schemi posti dal legislatore.
Da codesta moderna, pur statica, concezione di proprietà senza vincoli si dipana un primo fondamentale principio che tutt’ora permea l’istituto: il numerus clausus dei diritti reali.
Come si avrà modo di vedere nel prosieguo della trattazione, il principio in questione, insieme a quello di tipicità, ha avuto la funzione di cristallizzare i diritti reali in una struttura pressoché immutabile, sottratta a qualunque manipolazione, anche negoziale, che ne potesse mettere in discussione l’“assolutezza” dogmatica.
Differentemente il negozio, rectius il contratto, si collocava in questo impianto normativo in maniera del tutto ancillare, tanto che nel Codice civile del 1865 non era presente una sua puntuale disciplina, rinvenibile esiguamente solo nel Codice di commercio e ciò anche in ragione di una staticità nella circolazione dei beni immobili.
Il contratto, oggi pilastro assoluto del codice vigente, assumeva così una dimensione strettamente funzionale al trasferimento del diritto di proprietà, ponendo in second’ordine l’esigenza di certezza e tutela dei traffici giuridici commerciali, all’epoca certamente di minore impatto dato il contesto a prevalenza agricola.
Con l’affermarsi dell’industrializzazione, e soprattutto del regime fascista, queste caratteristiche, in cui trovano la propria culla i tre requisiti essenziali di assolutezza, immediatezza e inerenza, iniziano ad accarezzare i primi effetti di cambiamento.
Il Codice civile del 1942, all’art.832 c.c., utilizza una nuova formulazione per descrivere il contenuto del diritto: “la proprietà è il diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico”.
Il primo aspetto che esalta agli occhi è l’utilizzo del termine “pienezza” in luogo di “assolutezza”, accompagnato da un chiaro favor per l’implementazione degli statuti proprietari che non consentono più di parlare della proprietà, ma delle proprietà.
E ciò non tanto e non solo attraverso una differenziazione tra proprietà pubblica e privata, quanto mediante l’affermazione di una pluralità di discipline speciali volte a creare regimi differenziati a seconda delle tipologie e delle funzioni attribuite al diritto reale, fondiario, edificabile, commerciale, rustico ecc.
Il diritto di proprietà e in generale i diritti reali vengono ad assumere un carattere dinamico e funzionalizzato, ove patrimonio fondiario non è più il focus dell’impianto normativo, ma ne diviene una parte, la cui regolamentazione si sviluppa essenzialmente attraverso le dinamiche e gli effetti dell’autonomia negoziale.
È quindi il potere dispositivo, il contratto, la regolamentazione d’interessi privati ad assumere una nuova centralità che si coniuga all’ormai differente assetto economico-sociale, proiettato alla grandezza nazionale, ove l’interesse individuale regredisce, pur tuttavia, a mera sintesi di quello sociale.
Almeno in questa prima fase di vita del Codice la proprietà e i diritti reali mantengono tuttavia quell’alea di compostezza ereditata dal passato e ciò lo si desume dall’art.922 c.c. il quale enuncia i modi di acquisto dei diritti reali secondo un elenco che chiude con il principio di riserva di legge: “La proprietà si acquista per occupazione, per invenzione, per accessione, per specificazione, per unione o commistione, per usucapione, per effetto di contratti, per successione a causa di morte e negli altri modi stabiliti dalla legge”.
Non di meno, che vi sia una differente prospettiva rispetto al passato lo si evince dai seguenti aspetti di innovazione che vanno ad accompagnare il concetto di pienezza.
Fanno la loro comparsa agli artt.833-844 c.c. rispettivamente disciplinanti il divieto di atti emulativi e le immissioni, due limiti elastici che si di imprimono sull’ampiezza del diritto, attribuendo al giudice un significativo potere discrezionale d’intervento, dinnanzi ad atti di disposizione del bene in contrasto con i principi di buona fede e correttezza.
A ciò si accompagna la tipizzazione di una serie di diritti reali minori del tutto sconosciuti nel Codice del 1865, quali ad esempio la superficie e l’enfiteusi, che si impongono sulla proprietà attraverso un assetto particolarmente limitativo, che sovente mette in discussione la stessa unitarietà del diritto assoluto per eccellenza.
La logica del legislatore fascista è quella di conformare il diritto di proprietà, mediante un taglio che si discosta dall’intangibilità assoluta, per rendersi funzionale a una nuova utilità sociale, proiettata verso il potenziamento dell’economia nazionale e dell’autarchia. Di talché, nella ratio del sistema, anche la proprietà diviene, dopo il contratto, uno dei peculiari strumenti di realizzazione della grandezza economica.
La fase di svolta si ha tuttavia con l’avvento della Carta costituzionale del 1948, il cui riassetto organico dei valori umani, sociali ed economici viene a toccare anche il diritto in questione.
Il diritto di proprietà trova il suo spazio all’interno dell’art.42 Cost., non quindi tra i diritti fondamentali e inderogabili, bensì nel capo dedicato ai rapporti economici e patrimoniali.
La soluzione adottata dall’Assemblea Costituente, a ben vedere, intende distanziarsi definitivamente da una concezione di proprietà liberal-individualistica, affinché il carattere personale e inviolabile del diritto lasci spazio al riconoscimento di una funzione sociale-solidaristica di beni patrimoniali.
La disposizione, conformandosi al sistema di pluralità degli statuti proprietari, parla di proprietà pubblica e privata, e mette in risalto la funzione sociale della stessa, non più intesa né come fonte di reddito del proprietario latifondista né come strumento dell’economia dirigista, ma opportunità di lavoro accessibile alla collettività.
L’art.42 al comma 2 Cost. così recita: “La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e renderla accessibile a tutti”.
Il contenuto della norma, lungi dall’essere una qualitas della persona, pone una riserva di legge assoluta per ciò che concerne la determinazione dei modi d’acquisto della proprietà e i limiti ad essa, non potendosi ammettere che tale determinazione sia rimessa alla libertà convenzionale delle parti, o di fonti diverse dalla legge dello Stato.
Accanto a una consolidazione della pluralità degli statuti proprietari [La proprietà è pubblica o privata] si collocano i limiti ad essa, concernenti la accessibilità da parte del titolare del diritto e la funzione sociale.
Il limite dell’accessibilità è stato da taluni letto come un limite positivo, ossia espressione di una giustizia distributiva di ispirazione socialista, da altri, come un limite negativo concernente il divieto di forme di preclusione che non siano previste dalla legge.
Più complessa si è resa l’interpretazione della “funzione sociale” la quale può essere vista sia come un limite esterno ove è la legge a stabilire le restrizioni con norme puntuali, sia come un limite interno che prescindendo da una previsione puntuale assume il carattere di una tensione solidaristica tra l’interesse individuale e sociale.
Accanto a questi limiti positivi si collocano quelli c.d. negativi che possono riassumersi nel divieto di uso dannoso della proprietà, il quale già trova espressione negli artt.833 e 844 c.c., rispettivamente dedicati al divieto di atti emulativi e alle immissioni.
Questa forza conformativa, incidente su un diritto di proprietà non più completamente assoluto e illimitato, dimostra come, pur non ammettendosi un intervento del legislatore assolutamente conformativo, tale diritto assuma un carattere “larvato”, ad esempio nella disciplina degli espropri.
È proprio con riferimento al potere d’esproprio che emergono con forza i limiti derivanti da una concezione del diritto di proprietà differente da quella contemplata del diritto sovranazionale e pattizio.
Il diritto in questione nasce nell’ordinamento della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) ispirandosi a quella concezione liberale di fine ‘800 che muoveva da un’idea soggettiva-individuale della proprietà.
Proprietà, dunque, non come diritto economico-patrimoniale, bensì come diritto fondamentale dell’individuo, come qualitas o estensione dello stesso.
In tal senso si pone l’art.1 Prot. add. 1 CEDU ove sancisce che “Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di utilità pubblica e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale”
Dal tenore letterale della norma appare evidente la distonia rispetto alla portata dell’art.42 Cost., non solo per ciò che concerne la natura del diritto sotteso, quanto per le ricadute applicative in tema di espropriazione per pubblica utilità, la cui disciplina interna ha posto significativi problemi di frizione rispetto a quelle convenzionale. Per tale ragione, la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo ha ritenuto di dover censurare la normativa interne in materia d’esproprio, con particolare riguardo all’indennizzo e all’accesso acquisitivo, quante volte questa eludeva il contenuto dell’art.1 prot. 1 CEDU.
3. La funzionalizzazione della proprietà: dall’utilità sociale al potere d’esproprio
Nell’art.42 Cost. è contenuto il principio posto a fondamento dell’esproprio: l’utilità sociale della proprietà privata.
Il concetto di utilità sociale, sul quale non si ha necessità di tornare, va letto in combinato disposto con il precedente art.834 c.c., rubricato “espropriazione per pubblico interesse”.
Nelle norme in questione vengono affermati i tre presupposti del potere pubblico d’esproprio: la ragione di pubblico interesse, l’assoggettamento principio di legalità e la corresponsione di un indennizzo, a cui il codice, ma non la Costituzione appone l’aggettivo “giusto”.
Per quanto sia d’interesse ripercorrere l’evoluzione storico-giuridica del potere d’esproprio a partire dalla Legge Espropri del 1865, passando per la Legge sul risanamento della città di Napoli del 1889, appare opportuno, ai fini della trattazione, rileva in prima battuta l’effetto funzionalizzante e limitativo che l’istituto esercita sulla proprietà privata.
Una tale funzionalizzazione, espressa attraverso il limite dell’utilità sociale, deve trovare la sua realizzazione primaria attraverso la sussistenza di una dichiarazione di pubblica utilità.
In disparte i contrasti dottrinali volti a ricercare la pubblica utilità chi nella dichiarazione espressa di legge, chi nell’automatismo della Costituzione, si può in ogni caso ritenere che la stessa sia requisito imprescindibile al potere d’esproprio, sua essenza e ragion d’essere, a prescindere dal fatto che si pervenga alla conclusione del procedimento con l’adozione del decreto ablatorio.
Tanto ciò è vero che la mancanza di siffatta qualitas rende l’amministrazione carente di potere in concreto, o secondo altri soggetta a un cattivo uso del potere.
Ferma l’imprescindibilità del requisito costituzionale, occorre però soffermarsi sulla dialettica giurisprudenziale intercorsa tra il diritto interno e sovranazionale, volta a imporre la massima forma di tutela della proprietà privata, avverso istanze che, come pocanzi si vedrà, hanno avuto sulla stessa un effetto eccessivamente svuotante.
È indubbio che il potere d’esproprio, sebbene preordinato all’utilità sociale, rappresenti la massima ingerenza sulla posizione del proprietario, poiché più d’ogni altra causa esso investe il diritto nella sua totalità e unitarietà determinandone la cessazione.
Attraverso tale potere, invero, la pubblica amministrazione esercita sul bene un’ingerenza di carattere ablatorio, a prescindere dal consenso del titolare del bene espropriato.
Richiamando la terminologia amministrativistica, si può affermare che il potere d’esproprio rechi in sé quel carattere dell’esecutorietà di cui all’art.21 ter L.241/1990, secondo cui la p.a. può portare ad esecuzione coattiva un provvedimento amministrativo senza ricorso al potere giurisdizionale.
Tale peculiarità impone che l’esproprio sia strettamente soggetto ad una rigida procedimentalizzazione, scandita da una serie di fasi che, pur dovendo iniziare con la dichiarazione di pubblica utilità, dovranno necessariamente concludersi coll’emanazione del decreto d’esproprio.
Una tale procedura richiede la presenza cumulativa dei tre requisiti sanciti dagli artt.42 Cost. e 834 c.c., secondo la disciplina di cui al D.P.R. 8 giugno 2001 n.327.
Solo un procedimento, le cui fasi sono scandite dal principio di legalità, consente di tutelare al massimo le ragioni di un proprietario, che altrimenti verrebbe illegittimamente leso nella sua sfera giuridica e privato del proprio bene.
È proprio l’esigenza di rigore procedimentale ad aver rappresentato il terreno di scontro tra un sistema nazionale sempre più svincolato dalla legge formale e quella concezione individualistica di proprietà privata contemplata dalla CEDU, per la quale non basta una legalità forte, bensì “fortissima” che scandisca questo genere di potere.
Con la legalità fortissima, intesa come predeterminazione normativa del fine pubblico, è possibile stabilire lo scopo che giustifichi un tale sacrificio del privato e quindi quantificare quel giusto indennizzo che rappresenta l’elemento risolutore del contrasto tra interessi pubblici e privati.
La tendenza interna verso un eccessivo svuotamento del diritto di proprietà si è avuta infatti su due aspetti fondamentali.
Il primo aspetto concerne l’istituto di matrice pretoria definito espropriazione acquisitiva o invertita, il cui meccanismo si fonda sull’istituto civilistico di cui all’art.934 c.c., del c.d. “accesso invertito”.
Il secondo aspetto attiene il criterio di quantificazione dell’indennizzo, dalla Corte EDU ritenuto in più occasioni non adeguatamente ristorativo degli interessi del proprietario.
La prassi dell’espropriazione acquisitiva si è affermata per la prima volta negli anni ’80, quando la giurisprudenza (in particolare cfr. Cass. “Bile” n.1464/1983) ha iniziato a porre rimedio alle frequenti situazioni ove la p.a., dopo aver dichiarato la pubblica utilità, occupava un terreno privato e lo trasformava in maniera irreversibile, senza mai pervenire all’adozione di un formale decreto d’esproprio.
Siffatta condotta andava a creare una situazione di fatto che, pur in carenza del titolo legittimante, avrebbe in ogni caso consentito alla p.a. di avocare a sé la superficie trasformata, in deroga al principio generale dell’accesso ex art.934 c.c., secondo cui tutto ciò che è costruito sul suolo accede ad esso (superficies solo cedit).
In tale contesto, una sorta di parvenza formale veniva recuperata sulla base di un principio meramente giurisprudenziale, individuato nella “trasformazione irreversibile del bene”, preceduta da una dichiarazione di pubblica utilità, a fronte di un risarcimento del danno da illecito aquiliano.
È evidente come un tale sistema acquisitivo de facto non potesse ritenersi conforme al principio di legalità, né interna né tantomeno comunitaria.
Per tale ragione, la Corte EDU è più volte intervenuta nel censurare questo meccanismo ritenuto in contrasto con non solo con l’art.42 comma 3 Cost. ma anche con l’art.1 Prot. 1 CEDU per il tramite dell’art.117 Cost. che, già si è detto, concepisce la proprietà privata come un diritto individuale, prolungamento della personalità del privato.
Il punto nevralgico individuato dalla giurisprudenza era quello di premiare l’autore dell’illecito, creando un nuovo ed atipico diritto sul bene in contrasto con il principio del numero chiuso dei diritti reali, privo del necessario fondamento legislativo.
In secondo luogo si è evidenziata l’irragionevolezza di un sistema ove il pubblico interesse verrebbe ad essere imposto attraverso un procedimento illegittimo che preclude tutte le garanzie partecipative in capo al cittadino.
Si può dunque asserire che questa forma di sanatoria, realizzata per mezzo di un principio a carattere giurisprudenziale privo di certezza, determinatezza e conoscibilità, non può dirsi idonea a regolarizzare una procedura di fatto assente, che conduce altresì a un risarcimento non corrispondente al valore venale del bene acquisito.
Un primo tentativo di conformazione alle censure della giurisprudenza europea si è avuto con l’introduzione di un art.43 in seno al T.U. Espropri, poi dichiarato incostituzionale, del quale si è di nuovo eccepita la violazione della convenzione per il tramite dell’art.117 Cost.
Solo con l’introduzione dell’art.42 bis il processo di conformazione, pur non senza critiche, ha iniziato a dare più efficaci risultati.
La norma ha introdotto un procedimento amministrativo snello in cui, secondo i piani del legislatore, si sarebbe dovuta recuperare quella legalità formale e quelle garanzie minime di partecipazione che erano del tutto assenti nelle fasi antecedenti.
Tale procedimento, istaurandosi a seguito di un’occupazione sine titulo ma provvista di dichiarazione di pubblica utilità, conduce all’adozione di un provvedimento amministrativo con efficacia non retroattiva che sana l’occupazione disponendo l’acquisizione del bene al patrimonio indisponibile della p.a.
All’acquisizione sanante segue il riconoscimento sia di un indennizzo in favore del proprietario del bene occupato, corrispondente al valore venale del bene, che di un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale subito liquidato forfettariamente nella misura del 10% del valore venale del bene.
Al comma 4 della norma è possibile osservare come il legislatore abbia inteso implementare il momento procedurale della sanatoria mediante una motivazione particolarmente rinforzata, in cui la p.a. espropriante deve dar conto delle regioni di pubblico interesse, adeguatamente comparate agli interessi contrapposti, per cui si è reso necessario procedere all’acquisizione del terreno illecitamente occupato.
È dunque possibile cogliere il tentativo del legislatore di conformarsi a quella regola enunciata nella giurisprudenza della Corte Edu laddove puntualizza che il procedimento ablatorio del bene deve necessariamente sottostare a una regola che, pur non formalmente prevista, sia chiara, accessibile e precisa.
Una regola cioè in grado di reimmettere il fenomeno delle occupazioni illegittime nei binari della legalità formale-sostanziale.
Il secondo aspetto su cui occorre soffermarsi, anche esso posto al vaglio della Corte EDU, concerne il criterio di quantificazione dell’indennizzo, il quale per lungo tempo ha assunto una connotazione lontana dal requisito della “giustezza” presente nel codice ma assente nella Carta costituzionale.
Partendo dal presupposto che l’indennizzo rappresenta l’elemento riequilibrante nello scontro tra pubblico interesse e lesione alla proprietà privata, si vuole evidenziare come le tappe storiche che hanno caratterizzato l’indennizzo hanno visto l’alternanza tra la piena valorizzazione del bene espropriato e la non completa riparazione del pregiudizio subito dal proprietario. Questo secondo caso ha trovato concretizzazione con l’art.37 TUE, dichiarato incostituzionale per violazione dell’art.117 Cost. e art.1 prot. 1 CEDU.
Il primo modello che può ritenersi essere stato quantomeno satisfattorio, tanto è vero che fu recuperato con la L.359/1992, era quello contemplato dalla Legge sul risanamento della città di Napoli n.2892/1885.
Detto criterio, secondo cui l’indennizzo doveva quantificarsi nella media tra il valore venale del bene (intenso come edificabilità di diritto) e il reddito dominicale rivalutato, ridotto del 40% in caso di mancata cessione bonaria, consentiva di recuperare il valore venale del bene ablato.
In tal senso esso si imponeva sul criterio dichiarato incostituzionale del valore agricolo, già contemplato dalla Legge sulla casa del 1971 e dalla Legge Bucalossi n.10/1977.
Il problema è che anche il nuovo criterio di quantificazione, recapito dall’art.37 TUE e volto a recuperare una parvenza del valore di mercato del bene, si sarebbe posto in frizione con la già descritta concezione convenzionale di proprietà privata, la cui perdita non sarebbe stata pienamente valorizzata da un indennizzo che al netto delle imposte sarebbe risultato decurtato almeno del 50% rispetto al valore di mercato.
Cosicché la Corte EDU intervenuta sulla questione con la nota sentenza 29 luglio 2004 “Scordino c. Italia”, nel ribadire il valore individuale del diritto di proprietà, ha individuato il giusto indennizzo nel valore di mercato del bene espropriato, privo da qualsiasi forma di decurtazione, salvo che detto esproprio non fosse stato inserito in un piano di giustizia sociale o di riforma economica che giustifichi un quantum inferiore.
In sostanza la Corte nel censurare il meccanismo contemplato dalla normativa nazionale intende far proprio un criterio di ragionevolezza e proporzionalità che consenta al proprietario di veder interamente riparato il pregiudizio, pur legittimo, perpetrato dalla p.a. espropriante.
Ponendosi in affinità rispetto alla giurisprudenza europea, la Corte Costituzionale, con le sentenze n.348/2007 e n.181/2011, non solo ha ribadito il principio sopra espresso ma ha anche ricondotto sotto l’egida dell’eguaglianza una situazione di effettiva disparità di trattamento tra suoli edificabili e non edificabili.
Questi ultimi erano infatti stati esclusi dalla riforma dell’art.37 TUE, ora avente ad oggetto il criterio del valore di mercato, restando soggetti al valore agricolo medio (VAM), già contemplato dalla Legge sulla casa e rimasto in fieri solo limitatamente ai suoli non edificabili.
Alla luce di tali pronunce, la posizione della giurisprudenza costituzionale si è così determinata a stabilire una linea interpretativa dell’art.37 TUE completamente rispettosa della vocazione personalistica della proprietà privata.
Tale impostazione, che va ben oltre l’art.42 Cost., valorizza il principio d’eguaglianza di cui all’art.3 Cost., stabilendo la regola secondo cui il criterio di quantificazione dell’indennizzo, non potendo prescindere dal valore di mercato del bene, deve tenere conto di quell’ “inscindibile legame” tra il diritto di proprietà e il suo titolare.
4. Le interferenze anomale tra diritti assoluti e diritti relativi: la fragilità dei criteri di differenziazione, in particolare la dubbia natura delle obbligazioni propter rem e degli oneri reali
Puntualizzati gli aspetti salienti della disciplina dell’esproprio e i suoi effetti in materia di proprietà, è opportuno procedere verso l’analisi, più prettamente civilistica, delle due categorie concettuali per eccellenza: i diritti assoluti e i diritti relativi, onde verificare se, in effetti, si possa parlare di decadimento del dogma.
Come si è accennato nella parte introduttiva l’unica certezza che ha da sempre contraddistinto il diritto di proprietà e gli altri diritti reali sono tre caratteristiche ontologiche: assolutezza, inerenza, immediatezza.
Nei tre gli elementi, per decenni, è stato ravvisato il discrimen rispetto alla relatività dei diritti di credito, ovvero di quei rapporti c.d. ad effetti obbligatori tra le parti.
Appare necessario esplicarne il significato.
Nell’assolutezza dei diritti reali si consacra ciò che da sempre è stato ritenuto il requisito per eccellenza, ovvero la capacità in capo al titolare del diritto di opporlo erga omnes e il dovere della generalità dei consociati di astenersi dal recarvi nocumento.
L’inerenza attiene invece al versante della trascrivibilità del diritto, ossia della pubblicità imposta agli atti traslativi di diritti reali secondo l’elenco di cui all’art.2643 c.c.
L’inerenza fa sì che il diritto, anche minore sia incardinato alla res e con essa circoli sempre a prescindere da chi ne sarà il titolare.
L’immediatezza rappresenta invece il requisito più importante e forse l’unico che merita di essere attenzionato in quanto effettivamente qualificatorio.
Per immediatezza di intende la capacità del titolare del diritto reale di poter realizzare le sue pretese sullo stesso senza doversi servire dell’intermediazione di altri, come invece accade nel diritto di credito.
La stessa natura del credito, da “credere” confidare, implica che il titolare del diritto confidi sull’intervento di cooperazione del debitore, il quale attraverso l’adempimento deve realizzare l’interesse del creditore.
Diversamente la tutela dei diritti reali, in via generale, non abbisogna affatto della mediazione del terzo potendo il titolare adire immediatamente i rimedi previsti dal codice per realizzare il proprio interesse, concernenti le azioni di carattere petitorio: rivendicazione e restituzione.
Orbene, se queste sono state per lungo tempo le tradizionali differenze tra diritti assoluti e relativi, parte della dottrina ne ha messo in discussione l’indefettibilità, evidenziando come la netta differenza non sia più così netta, ove si abbia a che fare con talune fattispecie di dubbio inquadramento.
Prima di scandagliare dette fattispecie, è opportuno richiamare le diverse tesi anticonformiste, delle quali, pur non potendone accogliere le ragioni, è d’obbligo dare menzione.
Secondo una prima tesi non è opportuno parlare di diritti assoluti: i diritti devono considerarsi tutti relativi poiché, come accade per i diritti di credito, anche i diritti reali implicherebbero una relatività necessaria da individuarsi nella generalità dei consociati.
Più specificamente si ritiene che il termine di una relazione non può essere la res, ma necessariamente un altro soggetto, in virtù dell’assunto secondo cui un diritto è sempre verso qualcuno e non verso qualcosa.
Altra teoria, sostenendo l’esatto contrario, afferma che i diritti di credito rientrano nel novero dei diritti reali, sostenendosi al riguardo che fattispecie quali lo storno di dipendenti o l’uccisione del debitore costituiscano ipotesi in cui abbiamo a che fare con un credito che rappresenta una proprietà non corporale rientrante nel più ampio concetto di res.
Una terza tesi, di cui è interessante dare menzione, è quella che fa proprio un criterio discretivo di carattere trasversale, inerente alla modalità immediata o mediata di realizzazione del diritto.
In ispecie, sulla scorta del criterio dell’immediatezza, si sostiene che da un lato si debbano collocare tutti i diritti a realizzazione immediata, ovvero non necessitanti della collaborazione di un terzo soggetto e tra questi il diritto di proprietà e i diritti reali minori. Dall’altro lato si dovranno invece ricondurre i diritti a realizzazione mediata tra cui, oltre ai diritti di credito anche quelli reali dall’incerta natura, come ad esempio le servitù.
Questa ultima, come i diritti di credito o le obbligazioni propter rem (di cui parleremo a breve) trova collocazione tra i diritti a realizzazione mediata, non potendosi prescindere, si sostiene, dalla relatività nel meccanismo di realizzazione.
Le ragioni di siffatte interpretazioni risiedono per l’appunto nell’esistenza di fattispecie dall’incerto inquadramento, stante il fatto che le stesse presentano sia i caratteri dell’una come dell’altra categoria.
Più esattamente può ritenersi che nelle ipotesi in questione i tre requisiti essenziali trovano adombramento e non possono dirsi tutti contemporaneamente sussistenti.
Si prenda ad esempio proprio il diritto reale di servitù.
Per mera completezza espositiva si ricorda che la servitù prediale costituisce una soggezione fondiaria, definita dall’art.1072 c.c. come il peso imposto sopra un fondo, detto servente, per l’utilità di un altro fondo, detto dominante: il rapporto che viene in essere non è un rapporto tra i rispettivi titolari bensì tra i due fondi, quindi è un rapporto esclusivamente reale.
La peculiarità del diritto in questione risiede dunque nella realità e nell’inerenza alla res, ancorché, apparentemente, può sembrare che il titolare del fondo servente sia tenuto ad una condotta di collaborazione verso il titolare del fondo dominante, onde consentire allo stesso di realizzare la propria utilità, così mettendo in discussione il carattere dell’immediatezza.
La realità, diversamente, è del tutto ravvisabile nel fatto che l’utilità del fondo servente va a vantaggio, non della persona bensì del solo fondo dominante, come accade ad esempio nell’ipotesi atipica della servitù di parcheggio, la cui ammissibilità, o più precisamente la sua attitudine a costituire un’utilitas fundi, deve essere valutata nel caso concreto.
La giurisprudenza intervenuta in materia ha ritenuto infatti che se detta fattispecie, in talune ipotesi, dovrà essere ricondotta tra le servitù irregolari esorbitanti dall’art.1027 c.c. poiché costituite mediante un negozio ad effetti obbligatori, in altri casi ben potrà costituire un diritto reale di servitù, quante volte l’utilità di parcheggiare costituisca un’utilitas per il fondo servente e non per la persona (in tal senso Cass. civ. 18 marzo 2019, n.7561).
Il problema, del resto, si pone con riferimento a tutte la servitù irregolari, le quali sono concepite come quelle ipotesi in cui l’utilità va a vantaggio della sola persona, esse assumendo piuttosto i connotati di un negozio a efficacia obbligatoria a carattere personale, non trascrivibile e non opponibile ai terzi.
Per ciò che concerne le servitù negative, la loro natura è altrettanto dubbia.
Si definiscono tali quelle servitù che impongono al titolare del fondo servente obblighi di non fare, come ad esempio non costruire o non sopraelevare un muro.
Taluni individuano nel non facere un vero e proprio diritto di credito in favore di colui che si obbliga a non eseguire la propria attività, stante ancora una volta il carattere collaborativo che sottende il contegno del titolare del fondo servente.
È preferibile piuttosto ritenere che anche le servitù negative appartengono alla categoria dei diritti reali, poiché in esse si assiste ad uno scorporo del diritto di proprietà che va ad incidere sul titolare del fondo servente.
La fragilità dei tre criteri distintivi si evince, in particolare, in due peculiari fattispecie dalla natura incerta: le obbligazioni popter rem e gli oneri reali.
Come accennato in precedenza, le obbligazioni propter rem costituiscono una fattispecie ibrida, nella quale i caratteri essenziali dei diritti reali e dei diritti di credito si intersecano e allo stesso tempo si sbiadiscono.
Molteplici situazioni sono ricondotte dalla dottrina in tale fattispecie, la quale presenta la relatività, l’inopponibilità e la non trascrittivibilità dell’obbligazione, ma al contempo prospetta il carattere reale dell’inerenza alla res, posto che la titolarità dell’obbligazione si identifica nel bene e non nella persona del titolare.
In altre parole il rapporto obbligatorio circola insieme al bene e ad esso inerisce, pur in assenza della trascrizione, salvo i casi previsti dalla legge.
Egualmente anche gli oneri reali presentano le stesse problematiche interpretative.
Essi assumono nell’ordinamento una valenza ormai residuale, ultimo strascico di quella tradizione medioevale caratterizzata dal rapporto di asservimento tra il feudatario e i suoi sottoposti.
Possono definirsi tali quelle prestazioni di carattere periodico dovute da un soggetto in quanto proprietario nei confronti di un altro soggetto, in capo al quale vige un potere di esproprio del bene in caso di inadempimento dell’onere.
Si è dunque in presenza di una prestazione dai tratti obbligatori che non può essere paragonata alla servitù per il fatto che in quest’ultima il peso imposto sul fondo servente è di carattere continuativo, sempre costituito a vantaggio del fondo e mai della persona.
Negli oneri reali, di converso, il “peso” è di carattere non continuativo, privo dell’utilitas richiesta dalla predialità e potenzialmente costituibile in favore di un soggetto determinato, così assumendo il carattere di una prestazione ad effetti obbligatori.
Gli oneri si contraddistinguono per l’inerenza alla proprietà, per l’insorgenza automatica per effetto della legge, una volta sorta la titolarità del diritto reale, nonché per la tendenziale opponibilità ai terzi conseguente alla trascrizione.
Resterebbe da comprendere, oltre la natura giuridica che pone in dubbio la stessa certezza degli elementi costitutivi della proprietà, se il codice civile contempli, tipizzandole, talune fattispecie di oneri reali.
Parte della dottrina ritiene che una forma di onere reale sia ravvisabile nell’istituto dell’enfiteusi, ossia quel diritto reale di godimento con cui un soggetto, l’enfiteuta, assume lo stesso diritto di godimento che spetta al proprietario del fondo salvo l’obbligo di effettuare miglioramenti e corrispondere al proprietario concedente un canone periodico.
Se da un lato tale fattispecie si presenta come fortemente limitativa del diritto di proprietà tanto da doversi parlare di uno sdoppiamento tra dominio diretto e dominio utile, dall’altro, le obbligazioni di cui all’art.960 c.c. gravanti sull’enfiteuta secondo alcuni costituirebbero vere e proprie prestazioni a carattere reale.
Altre figure sono state individuate negli obblighi sanciti dall’art.860 c.c., a mente del quale “i proprietari dei beni situati entro il perimetro del comprensorio sono obbligati a contribuire alla spesa necessaria per l’esecuzione, la manutenzione e l’esercizio delle opere in ragione del beneficio che traggono dalla bonifica”, ovvero nel privilegio speciale sugli immobili e nella rendita vitalizia garantita da ipoteca.
Orbene, avverso chi ritiene che in tutti questi casi si ravviserebbe una riviviscenza della fattispecie in questione, si pone chi ne decreta la scomparsa dall’ordinamento vigente, asserendone la controversa natura giuridica al contempo reale e personale, come tale non perfettamente conforme ai caratteri strutturali della proprietà.
La realità tradizionalmente individuata dalla dottrina, essenzialmente fondata sul carattere dell’inerenza al bene, è opposta da chi ravvisa nell’onere un diritto di credito assistito da una garanzia reale, nel quale viene a mancare il requisito dell’immediatezza, stante la necessaria partecipazione collaborativa del soggetto tenuto alla sua realizzazione.
Allo stesso tempo l’onere non può essere concepito alla stregua di un diritto reale di garanzia, quale ad esempio l’ipoteca, quest’ultima rappresentando un diritto accessorio fonte in un titolo autonomo e distinto rispetto alla titolarità del bene.
In definitiva, non potendosi porre in dubbio la più o meno esaustiva bontà di tutte le argomentazioni dedotte dai vari orientamenti che negano l’esistenza di un netto criterio distintivo tra fattispecie assolute e fattispecie relative, ciò che invece sembra trovare ancora una propria ragion d’essere è il criterio dell’immediatezza.
L’immediatezza è quanto di più esaustivo possa consentire di distinguere le due categorie, poiché quanto non è ad immediata realizzazione dovrà necessariamente essere ricondotto nell’alveo degli effetti obbligatori: ivi comprese le figure ibride degli oneri reali, delle servitù negative e in generale delle obbligazioni propter rem.
5. Il numerus clausus e il principio di tipicità dei diritti reali: il sopravvento della manipolazione negoziale
Il dogma della proprietà e dei diritti reali è stato costruito nei decenni intorno a due noti concetti di numerus clausus e tipicità.
Sebbene la letteratura tenda a concepire i due concetti in maniera sovrapposta essi devono essere trattati in maniera disgiunta e differente.
Il numero chiuso indica un principio in forza del quale deve sussistere l’esclusività della fonte legale, essendo rimesso solo alla legge il potere di creare ex novo un diritto reale e non invece all’autonomia negoziale.
Diversamente la tipicità concerne non l’esclusività della fonte, ma l’esclusività della disciplina e del contenuto dei diritti reali che devono essere compiutamente fissati dalla legge.
Il punto essenziale è comprendere se e fino a che punto l’autonomia negoziale può spingersi nell’introdurre varianti contenutistiche.
Su tale questione si sono contese il campo tre diverse tesi dottrinali.
La tesi tradizionale e più risalente è certamente protesa alla rigidità e inderogabilità del numero chiuso dei diritti reali, adducendo una serie di argomentazioni.
Una prima argomentazione è quella fondata sul dato normativo e specificamente sul contenuto dell’art.832 c.c., il quale andrebbe a fissare al contempo una regola e un’eccezione: la regola è la pienezza del diritto di proprietà, mentre l’eccezione sono proprio le limitazioni normative ad esso.
In secondo luogo, si evidenzia il passaggio storico dall’ancien regime alla post-rivoluzione, contesto in cui si è affermato un diritto di proprietà scevro da qualsivoglia reminiscenza di carattere feudale, fino ad approdare, come visto, ad una concezione di proprietà funzionale alla realizzazione del pubblico interesse mediante la snella circolazione della ricchezza.
Altro argomento particolarmente significativo è quello pubblicitario, attento alla tutela dei terzi, la cui conoscibilità della condizione della res sarebbe messa in crisi dall’atipicità della limitazione.
Un argomento a carattere dogmatico si fonda invece sul principio di relatività del contratto tra le parti ex art.1372 c.c., il quale trova la sua deroga nei contratti ad effetti reali trascritti che, come noto, sono opponibili erga omnes.
Quest’ultimo principio non può essere suscettibile di deroghe per mezzo di diritti reali minori ulteriori rispetto a quelli espressamente disciplinati dalla legge.
La tesi totalmente opposta è quella che contempla l’assoluta atipicità, secondo la quale viene ad essere valorizzata la funzione sociale della proprietà e la sua funzionalizzazione al perseguimento di obiettivi sociali e ambientali legati al benessere della collettività.
La stessa certezza dei rapporti giuridici, posta a presidio della rigidità del numero chiuso, deve ritenersi soccombente rispetto al principio costituzionale di solidarietà ex art.2 Cost., il quale impone di valutare in concreto l’interesse perseguito dalle parti mediante la compromissione atipica della proprietà.
Con riguardo al principio generale della relatività degli effetti negoziali si sottolinea invece che anche il negozio ad effetti reali è un negozio rispondente al principio di cui all’art.1372 c.c., poiché l’effetto deve ritenersi prodotto solo tra le parti.
L’elemento dell’opponibilità derivante dalla trascrizione deve essere piuttosto concepito non come l’effetto diretto ma come l’effetto riflesso del negozio.
Del resto, l’elencazione dei negozi trascrivibili contemplata dall’art.2643 c.c. non può ritenersi tassativa, dovendosi piuttosto considerare trascrivibili tutti i negozi diversi da quelli elencati che producono gli stessi effetti o effetti omogenei.
Tra le due posizioni nettamente antitetiche appare preferibile accogliere una tesi mediana che fa leva proprio sulla distinzione resa in precedenza tra numerus clausus e tipicità dei diritti reali.
Più precisamente si deve ritenere che, mentre il numero chiuso è un principio che deve restare assolutamente intangibile, non potendosi ammettere l’esistenza di diritti reali atipici frutto della volontà negoziale, il principio di tassatività non resiste al decorso del tempo.
Non è infatti concepibile presumere che le norme codicistiche, concernenti la disciplina contenutistica della proprietà e dei diritti reali, debbano considerarsi norme imperative.
Le parti, pur non potendo creare ex novo categorie atipiche di diritti reali, possono intervenire sul contenuto degli stessi senza stravolgerne i requisiti minimi essenziali, al fine di perseguire il loro interesse concreto.
In definitiva è possibile affermare che il dogma dell’indefettibilità del numero chiuso dei diritti reali, come fattispecie eccezionalmente limitative di un diritto originariamente assoluto, non può dirsi completamente scalfito, ma nemmeno totalmente impassibile al decorso del tempo.
È nel principio di tipicità che si ravvisa, invero, quella falla del sistema che consente all’autonomia negoziale di insinuarsi nella disciplina contenutistica dei diritti reali, apportandovi deroghe funzionali, ma non drastiche, al perseguimento della ragion pratica del negozio.
La manipolazione negoziale è dunque ammessa, purché entro il limite del rispetto di quel contenuto minimo essenziale che ne garantisce lo stesso mantenimento del numerus clausus.
6. Verso nuove forme di proprietà: negozi di destinazione e il trust
L’analisi fin qui condotta è approdata verso la messa in discussione delle fondamenta tradizionali dei diritti reali, per ciò che concerne la superata indubitabilità dei tre elementi essenziali, la traballante dicotomia diritti assoluti-diritti relativi e la vulnerabilità negoziale se non del principio del numerus clausus, quanto di quello di tipicità.
L’evoluzione normativa, adeguatasi alle nuove esigenze economiche, ha visto la nascita o comunque l’implementarsi di una serie di istituti, connotati da profili di atipicità rispetto all’essenza dei diritti reali.
Istituti, anche dall’incerta natura, ove, più d’ogni altro aspetto legato alla manipolazione negoziale del contenuto, viene in discussione l’inscindibilità della titolarità del diritto di cui all’art.832 c.c.
La prima fattispecie che viene in rilievo è quella prevista dall’art.2645 ter c.c.: il negozio di destinazione.
Si parta dal rilievo secondo cui la fattispecie in oggetto trova collocazione sistematica nell’ambito della disciplina delle trascrizioni, immediatamente dopo le norme che disciplinano l’obbligo di trascrizione degli atti produttivi di effetti reali, nonché il principio di priorità delle trascrizioni.
Una tale collocazione rende la natura della norma ancor più complessa, stante il fatto che la stessa può considerarsi tutto tranne che una semplice norma sulla trascrizione del nuovo negozio.
L’art.2645 ter c.c. rubricato “Trascrizione di atti di destinazione per la realizzazione di interessi meritevoli di tutela riferibili a persone con disabilità, a pubbliche amministrazioni, o ad altri enti o persone fisiche” così recita: “gli atti in forma pubblica con cui beni immobili o beni mobili iscritti in pubblici registri sono destinati, per un periodo non superiore a novanta anni o per la durata della vita della persona fisica beneficiaria, alla realizzazione di interessi meritevoli di tutela riferibili a persone con disabilità, a pubbliche amministrazioni, o ad altri enti o persone fisiche ai sensi dell’articolo 1322, secondo comma, possono essere trascritti al fine di rendere opponibile ai terzi il vincolo di destinazione; per la realizzazione di tali interessi può agire, oltre al conferente, qualsiasi interessato anche durante la vita del conferente stesso. I beni conferiti e i loro frutti possono essere impiegati solo per la realizzazione del fine di destinazione e possono costituire oggetto di esecuzione, salvo quanto previsto dall’articolo 2915, primo comma, solo per debiti contratti per tale scopo”.
Come è evidente dalla lettura del testo, la norma, a più riprese, rinvia al principio di meritevolezza del contenuto negoziale, soprattutto mediante l’espresso richiamo all’art.1322 comma 2 c.c.
L’atto negoziale unilaterale, con il quale il disponente imprime un vincolo di destinazione su un determinato bene destinato alla realizzazione di un interesse altruistico inerente a certe categorie di soggetti, deve soggiacere ad un vaglio di meritevolezza.
Accade infatti che un soggetto, il disponente, possa scegliere di trasferire un bene in capo ad un altro soggetto, il gestore, affinché questi lo amministri o in favore di un terzo beneficiario o semplicemente per un determinato scopo, che ne rappresenta il vincolo.
Dal punto di vista strutturale si può rilevare che solo un negozio di destinazione a carattere “dinamico” può dirsi composto di un atto di disposizione e di un atto di destinazione, i quali dovranno essere entrambi trascritti. Ben può accadere, però, che il disponente non trasferisca il bene al gestore ma si limiti a imprimere il vincolo di destinazione in favore del beneficiario, assumendo egli stesso la veste di disponente e gestore allo stesso tempo.
Il vincolo di destinazione, che produce un effetto segregativo sul bene sottratto al patrimonio del disponente, deve assumere una meritevolezza tale da rendere il negozio conforme al modello normativo, sia in termini positivi, ovvero non contrarietà a norme imperative, ordine pubblico e buon costume, sia in termini positivi ossia rispondere all’interesse solidaristico.
In ciò si ravvista la particolare forza che sorregge la causa negoziale, una causa che non può risolversi in una segregazione sic et simpliciter a danno della par condicio creditorum, ma che più incisivamente deve dar conto dello scopo solidaristico-sociale, unico che solo possa rendere accettabile un sicuro pregiudizio per i creditori generali.
Del resto un istituto quale quello destinatorio crea un’inevitabile segregazione patrimoniale del bene che viene così sottratto alla garanzia patrimoniale generica di cui all’art.2740 c.c., il quale, si badi, non rappresenta una norma di ordine pubblico inderogabile, purché
Da ciò se ne deduce che il nuovo istituto si colloca nel nostro ordinamento come una fattispecie di carattere sostanziale che, lungi dal produrre meri effetti pubblicitari, va ad incidere sull’atto.
Il punto che però interessa ai nostri fini è quello che si interseca con i principi fondamentali in tema di proprietà privata e diritti reali, posto che il negozio di destinazione possiede una natura incerta che necessita di essere indagata.
Sul punto si sono fronteggiate due tesi: la tesi che qualifica il negozio, come un atto produttivo di un effetto reale, il quale da luogo ad una sorta di sdoppiamento della proprietà, che si scinde così in proprietà formale facente capo all’acquirente-gestore e una proprietà sostanziale facente capo al beneficiario.
La tesi della realità sembra essere supportata dall’elemento della trascrizione, nonché dal fatto che taluno intravede nell’art.2645 ter c.c. una positivizzazione interna dell’istituto internazionale del trust (di cui si parlerà a breve).
Questa ricostruzione, tuttavia, non convince la dottrina prevalente, la quale eccepisce la non determinatezza dell’argomento pubblicitario.
L’atto di destinazione è in realtà un negozio ad effetti obbligatori molto particolare poiché esso assume la connotazione di un’obbligazione ambulatoria o propter rem, ossia un’obbligazione che si identifica con la res e circola con essa, a prescindere da chi sia il soggetto tenuto all’adempimento.
Nel caso di specie il titolare passivo dell’obbligazione propter rem è il gestore del bene su cui è stato impresso il vincolo di scopo in favore del beneficiario, cosicché la proprietà formale viene così ad essere compromessa dalla destinazione.
Non può ritenersi risolutivo l’argomento pubblicitario ai fini della qualificazione del negozio ad efficacia reale poiché, se tale fosse stato, la norma sarebbe stata superflua a causa del principio di autonomia negoziale e dell’art.2643 c.c. che ha ad oggetto tutti i contratti ad effetti reali, in secondo luogo, la particolare collocazione della fattispecie dopo la norma concernente il principio di prevalenza nelle trascrizioni, dimostra l’intenzione del legislatore di prevedere in via eccezionale la trascrivibilità di un negozio ad effetti obbligatori che non soggiace al principio di priorità.
Più d’ogni altro aspetto, asserisce la tesi degli effetti obbligatori, la realità del negozio di destinazione non può ritenersi accattabile in quanto determina uno sdoppiamento della proprietà in contrasto con il principio di indivisibilità del diritto in capo al medesimo titolare, deducibile dall’art.832 c.c.
Lo sdoppiamento crea, invero, un nuovo diritto reale atipico in capo all’acquirente-gestore, il quale verrebbe ad essere, da un lato investito di obblighi verso il beneficiario derivanti dal vincolo di scopo, dall’altro diverrebbe titolare di una proprietà “larvata” e fortemente circoscritta.
Ciò in evidente contrasto con il principio del numurus clausus dei diritti reali.
La tesi che viene ritenuta preferibile è quella che ricostruisce il negozio di destinazione come un negozio unilaterale ad effetti obbligatori, normalmente a titolo gratuito, anche a prescindere dal fatto che vi sia una confluenza di attribuzioni reciproche tra più beneficiari che si condensano nel medesimo atto pubblico (in tal senso Cassazione, 13 febbraio 2020, n. 3697).
L’obbligatorietà da vita ad una obbligazione propter rem caratterizzata dall’inerenza al bene vincolato, la cui conseguenza applicativa risiede nella possibilità per il beneficiario di esperire le azioni personali (non reali) nei confronti del gestore che, per qualche ragione, pone in essere atti distrattivi del bene destinato.
FONTE:http://www.salvisjuribus.it/la-proprieta-eterna-analisi-e-decadimento-di-un-dogma-assoluto/
IMMIGRAZIONI
Immigrati. Va peggio di prima
FONTE: La Verità – 8 giugno 2020
LA LINGUA SALVATA
Francesco Sabatini. L`invasione degli anglicismi
VIDEO
Francesco Sabatini, intervistato in occasione delle Giornate della lingua italiana (Olimpiadi di Italiano), che si sono svolte a Firenze dal 26 al 28 marzo 2018, parla della differenza tra la nostra lingua e le altre lingue neolatine, come lo spagnolo e il francese, nella resistenza all’assimilazione degli anglicismi. La debolezza politica, che storicamente ha caratterizzato il nostro paese diventato indipendente solo nel 1861, si è tradotta in un provincialismo aggiunto, in una tendenza a sottoporci facilmente alle influenze straniere.
FONTE:http://www.raiscuola.rai.it/articoli/francesco-sabatini-linvasione-degli-anglicismi/42318/default.aspx
PANORAMA INTERNAZIONALE
(Pietro Senaldi, Libero – 9 Gennaio 2018)
Monsignor Luigi Negri, arcivescovo di Ferrara e Comacchio, da pochi mesi Emerito, per tanti anni docente di Filosofia presso l’ Università Cattolica, si è fatto la fama di prelato del dissenso. Motivo, le sue esternazioni sugli immigrati, la comunione ai divorziati e la deriva laicista della Chiesa. Ma lui non ci sta a farsi affibbiare questa etichetta.
«Tutte le mie parole» spiega «nascono dal fatto che sono ben consapevole della gravità della situazione in cui versa il cattolicesimo odierno e ritengo che per uscire da questa situazione occorra una consapevolezza precisa di ciò che non va; per questo mi premuro di evidenziarlo».
Cos’ è che non funziona nella Chiesa, monsignore?
«Sono due secoli che si avverte in Occidente una profonda tendenza antireligiosa, espressione del razionalismo e dell’ illuminazione laicista. Tale movimento di pensiero e di azione si sta configurando come pensiero unico dominante, come ha denunciato anche Papa Francesco nei primi momenti del suo pontificato. L’ uomo ormai ha una concezione di sé e del suo potere intellettuale, morale, tecnico e scientifico come l’ unica misura del mondo e ha costruito una società insensibile alla domanda religiosa».
Siamo a inizio anno e sono appena passate le feste cristiane: che augurio si sente di fare ai fedeli e ai non fedeli per il 2018?
«Mi auguro che la fede torni a investire la società e restituisca agli uomini di oggi il senso profondo dell’ esistenza».
È ottimista?
«Non troppo, perché negli ultimi decenni la Chiesa, nonostante gli straordinari magisteri di San Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, ha imboccato una china che la sta portando ad arrendersi alla forza dilagante dell’ anticristianesimo: sta cedendo alla mentalità dominante e si accontenta di rifugiarsi in una sorta di riserve, già imposte in questi secoli a molte altre minoranze religiose e culturali».
Papa Francesco ha denunciato il pensiero unico ma talvolta non ne sembra invece il portabandiera?
«Papa Francesco viene strumentalizzato dal pensiero dominante e la sua denuncia iniziale sta perdendo forza. Ormai c’ è una connivenza tra un certo cristianesimo e la società laicista, alla quale la Chiesa sembra ormai incapace di dire dei “no”, che sarebbero a mio avviso assolutamente necessari».
Anziché di connivenza, non sarebbe più corretto parlare di un tentativo di intercettare la società laica?
«Per intercettare efficacemente una società come quella in cui viviamo è necessario che investiamo il mondo di una proposta essenziale per tutti gli uomini di questo tempo. La fede non si comunica mediaticamente e quindi non è un problema di strutture o organizzazioni: la fede si comunica da cuore a cuore attraverso la testimonianza. È un evento di grazia, non una notizia da telegiornale».
C’ è un problema di testimonianza del Cristo negli uomini di Chiesa?
«Certamente ciò che rende difficoltosa la comunicazione non è l’ incoerenza morale: la Chiesa, nella sua storia, si è sempre saputa riprendere dagli scandali morali.
Ma oggi la questione è ben più grave. Attualmente l’ incoerenza che affligge la Chiesa è di natura ideale.
Si tende a venire a patti con il secolarismo, per ritagliarsi un posticino e fare del cattolicesimo quasi un elemento di folklore, che non disturbi questa società ateistica».
Come può ritrovare attualità il cattolicesimo e avvicinare anche i non credenti?
«Deve tornare a sporcarsi le mani e vivere nel mondo, dove gli uomini hanno problemi e fatiche, e non deve temere di scontrarsi. Come diceva Jean Guitton, una delle personalità più straordinarie del cattolicesimo mondiale, è la fede a dover giudicare il mondo e non viceversa, come invece avviene oggi.
Il cattolicesimo ha una grande vocazione sociale, che ha la sua radice nell’ eucarestia e la sua espressione in una comunità sociale nuova. Oggi molti laici si sperticano in elogi aòl’ autorità della Chiesa e dei suoi vertici ma poi li trattano come prodotti del grande magic shop globale e ne utilizzano il pensiero secondo le proprie convenienze».
Perché, a differenza del cattolicesimo, l’ islam non è in crisi?
«Perché ha una vocazione politica più che religiosa: l’ islam più che una fede è una legge, uno status, sintetizzato dal termine sharia»
Cosa la preoccupa dell’ islam?
«A differenza del cristianesimo, che esalta la libertà dell’ uomo e la sua irriducibilità, al punto da renderlo partner di Dio nella fede, l’ islam non tiene in considerazione la persona. Il musulmano vale solo per il contesto sociale e politico nel quale vive. Non a caso l’ islam si diffonde tra i deboli, che hanno bisogno dell’ autorità per sentirsi protetti. Un altro aspetto preoccupante è la sua tendenza ad abbattere i valori della civiltà occidentale, primo tra tutti quello della distinzione invalicabile tra politica e religione, più volte sottolineato da Papa Ratzinger e che mi sembra uno degli aspetti migliori della nostra Costituzione. Nell’ islam le autorità religiose, che in molti casi fungono anche da autorità civili, amministrano la giustizia nei loro tribunali impartendo fatwe che prevedono anche la pena di morte. Il tutto senza che si veda con chiarezza la base di questa autorità sociale. C’ è poi l’ aggravio dell’ assenza di una interpretazione univoca dei testi religiosi».
Cosa pensa della questione immigrazione?
«L’ integrazione deve essere ragionevole e non si possono aprire le porte, come fosse una festa, senza mettere in evidenza i costi economici umani e culturali dell’ immigrazione, perché questo significa fare del qualunquismo ideologico. Sono cattolico e pertanto sono per l’ accoglienza delle diversità ma essa non può essere senza misure perché altrimenti porta allo schiacciamento e all’ eliminazione della nostra società. Non è così che l’ Europa cristiana ha, nei secoli integrato i fattori di novità che hanno poi contribuito a fare la sua ricchezza».
Quindi lei dissente sul tema da Bergoglio?
«Il Papa ha la funzione importante e straordinariamente efficace di farci superare la paura del diverso e farci considerare l’ apertura come dimensione necessaria della vita cristiana. Ritengo che, come ci ha insegnato in maniera efficace il grande Cardinale Biffi, competa alle istituzioni mettere le condizioni per impedire l’ esilio della civiltà cristiana in casa propria».
Non ritiene però che il messaggio non arrivi chiarissimo?
«La Chiesa e i fedeli devono assumersi la responsabilità della difesa del Cristo contro le manipolazioni. Si torna alla lotta contro l’ ideologia dominante della quale ci parlò Benedetto XVI».
Però sono stati anche i preti a mettere i profughi nel presepe.
«Farlo è un errore e una mistificazione. Perfino Cacciari sostiene che la difesa del presepe coincide con la difesa dell’ autenticità della proposta cristiana. La storia di Gesù, nato a Betlemme da Maria, è reale e come tale va celebrata, non è un mito da contestualizzare e manipolare come fanno certi “intellettuali”. È stata grandiosa la stretta di Papa Francesco in difesa del Natale dal suo snaturamento in nome di un falso rispetto di chi non è cristiano, come avviene negli asili e nelle scuole dove non si celebra più la Natività come una festa cattolica. C’ è stato un andazzo, le scorse settimane, per cui sembrava che stessimo celebrando la festa del migrante anziché la nascita di Cristo».
Com’ è possibile che la Chiesa non sappia difendere dalle strumentalizzazioni il messaggio di Francesco?
«Se la cristianità è debole, non è in grado di capire le parole del Papa. Attualmente è diffuso un concetto distorto della solidarietà cattolica, che si preoccupa solo dei problemi sociali da affrontare subito con le soluzioni imposte dalla mentalità dominante, e non dalla nostra identità . Solo se si è forti della propria identità ci si può aprire al prossimo. La Chiesa deve riconvertirsi e riprendere coscienza della propria identità».
Ma che vantaggio avrebbe il pensiero unico a spingere così ftanto per l’ immigrazione?
«Perché essa porta all’ omologazione, che è funzionale alla grande economia mondializzata, tra i cui obiettivi ci sono la riduzione del costo del lavoro attraverso la creazione di una bassa manovalanza di immigrati. Diceva il cardinale Caffarra che la verità è diventata un’ opinione, la giustizia è diventata giustizialismo e il bene è diventato benessere».
È pro o contro lo ius soli?
«Sono contrario a che esso diventi un valore indiscutibile da imporre al mondo cristiano senza un’ adeguata discussione. La cittadinanza è un bene prezioso per la società, non va concesso».
Cosa risponde a chi accusa Bergoglio di essere comunista?
«Rispondo che non è comunista. È sudamericano, quindi diverso da noi europei, che tendiamo a privilegiare una guida più sinodale e consensuale della Chiesa».
Lei è contrario alla comunione ai divorziati?
«Non può essere data automaticamente, senza una valutazione del singolo caso. Sono contrario alla confusione, per questo gradirei un chiarimento papale. Il cristianesimo non deve essere integralismo né in un senso né nell’ altro. Papa Ratzinger ci esortava a creare laici vivi, attivi e intraprendenti».
È ancora convinto che sia stato costretto alle dimissioni?
«Su questo è stato scritto di tutto. Non intendo contribuire all’ incremento della confusione. Ratzinger aveva una presenza umile e grandissima. Riproponeva la fede come cambiamento di vita e questo era inaccettabile per il pensiero unico dominante. In sostanza forse vale la pena di ricordare che il Cristianesimo è un evento di vita, donato dalla Grazia di Cristo e accolto dalla libertà dell’ uomo. Nei 15 anni del mio Episcopato ho inteso soltanto servire la rinascita continua dell’ avvenimento della fede nel cuore dell’ uomo e accompagnare un cammino di immedesimazione profonda nel Mistero della Chiesa e della Sua missione».
Ora si vocifera che si dimetterà anche Bergoglio?
«Non le sembrano già sufficienti due Papi»?.
FONTE:https://www.corrispondenzaromana.it/notizie-dalla-rete/vaticano-papa-francesco-e-lintervista-bomba-di-monsignor-luigi-negri-a-libero-la-chiesa-si-e-piegata-allislam-e-alla-sinistra/
POLITICA
Salvini vuole le elezioni a settembre: “Conte è finito, voto con regionali e referendum”
8 Giugno 2020
Matteo Salvini intervistato su La Stampa stronca ogni ipotesi di dialogo con il governo, tornando a invocare le elezioni a settembre: “Abbiamo i dossier pronti per governare: Flat Tax e codice degli appalti sospeso per cinque anni”.
Come arriva l’estate, a Matteo Salvini prende un’irrefrenabile voglia matta di andare al voto. Se nel 2019 con la crisi del Papeete e la conseguente caduta del governo gialloverde lo scopo era quello di massimizzare l’exploit delle europee, adesso con il Paese alle prese con l’emergenza coronavirus l’obiettivo come spiegato in un’intervista su La Stampa sarebbe il chiedere “agli elettori di esprimere un Governo che duri 5 anni e abbia le idee chiare”.
La data in teoria già ci sarebbe per queste elezioni politiche anticipate “gli italiani verranno chiamati a votare per regionali, comunali e referendum sul taglio dei parlamentari”, con questo election day che probabilmente si terrà a inizio settembre prima dell’inizio delle scuole.
“ Conte è finito, andiamo a votare in autunno – è stato l’attacco di Salvini – PD e M5S facciano un esame di coscienza, come ho fatto io, che ho chiuso un’esperienza di governo quando ho capito che tutto era bloccato”.
Per il leader della Lega “nei prossimi mesi si decide il destino dell’Italia per i prossimi 30 anni”, escludendo però l’ipotesi di un governo di unità nazionale “niente minestroni, sostegni esterni più o meno camuffati”.
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Salvini: elezioni ma senza proporzionale
Se Giuseppe Conte nella sua ultima conferenza ha teso una mano verso l’opposizione auspicando un dialogo per affrontare insieme questo momento di crisi, Matteo Salvini sembrerebbe aver rispedito l’invito al mittente.
“Noi abbiamo tentato di collaborare con il governo – ha spiegato l’ex ministro sempre su La Stampa – Lo abbiamo inondato di proposte. Ascolto da parte del governo: zero. Mi sembra chiaro che ignorino le stesse richieste del presidente Mattarella”.
Le proposte del Carroccio secondo Salvini sarebbero ben note “ sospensione del codice degli appalti per 5 anni; taglio delle tasse, con la Flat Tax modulata al 15 o 20 per cento, in base al reddito”, ma il governo finora non avrebbe recepito nessuna di queste misure.
Con i sondaggi che continuano a dare la Lega in calo, tutto a vantaggio soprattutto di Giorgia Meloni, non appare strano che Matteo Salvini abbia una gran fretta di andare a votare ma non con il Germanicum, la legge elettorale puramente proporzionale presentata dal tandem PD-M5S.
“Ci riporta indietro di 40 anni, alla Prima Repubblica – è stato l’affondo del leghista in merito al proporzionale – Invece chi ha un voto in più deve governare, ci vuole un premio di maggioranza, altrimenti dipenderemo dai Renzi di turno”.
Con il Germanicum infatti, anche se la Lega dovesse risultare il primo partito del Paese, sarebbero per forza necessarie delle alleanze con gli altri partiti per formare un governo: un sistema di voto che di fatti andrebbe a depotenziare di molto Salvini, ancorandolo ai suoi alleati e soprattutto a quel Berlusconi che non a caso sembrerebbe essere un grande sponsor del proporzionale.
FONTE:https://www.money.it/Salvini-elezioni-settembre-Conte-finito-regionali-referendum
SCIENZE TECNOLOGIE
Israele perfeziona la tecnologia per la sorveglianza
americanfreepress.net
Viene concesso al Mossad e allo Shin Betdi trarre profitto militarmente e finanziariamente dal virus.
L’organizzazione di spionaggio esterna israeliana Mossad e la sua equivalente di spionaggio interno Shin Bet hanno una reputazione molto più grande dei loro successi reali, ma l’unica area in cui hanno eccelso è la raccolta elettronica di informazioni. I recenti spionaggi tramite tecnologia elettronica, intorno alla Casa Bianca e ad altri edifici federali a Washington, effettuati dall’Ambasciata israeliana dimostrano che Israele non fa molta differenza tra amici e nemici quando conduce lo spionaggio. In effetti, lo spionaggio mirato agli Stati Uniti è probabilmente la sua priorità numero uno, a causa del fatto che lo Stato ebraico è così fortemente dipendente dal supporto americano che si sente obbligato ad accertare quali discussioni relative a esso si svolgono in segreto.
La penetrazione israeliana delle telecomunicazioni negli Stati Uniti è iniziata negli anni ’90, quando società americane come AT&T e Verizon, le entrature principali della National Security Agency (NSA) per la sorveglianza delle comunicazioni, hanno iniziato a utilizzare hardware di produzione israeliana, in particolare per la sorveglianza delle forze dell’ordine e la registrazione dei clandestini. I dispositivi avevano una cosiddetta backdoor, il che significava che tutto ciò che facevano era condiviso con Israele. I cyber specialisti israeliani hanno persino fatto irruzione in reti classificate, con la NSA e l’FBI consapevoli di ciò che stava accadendo, ma non disposti a confrontarsi con “il miglior alleato dell’America”. Una volta il Presidente Bill Clinton ha detto scherzando a Monica Lewinski, che avrebbero dovuto evitare di usare il telefono dello Studio Ovale perché qualcuno avrebbe potuto ascoltare. Si stava riferendo a Israele.
Di certo, il settore high-tech dello Stato ebraico ha ricevuto molta assistenza nel suo sforzo per i “propri obiettivi”, fornita dagli Stati Uniti, che consente a Israele di fare offerte su contratti governativi relativi alla sicurezza nazionale, garantendo praticamente che eventuali innovazioni tecniche saranno rubato e riesportate da compagnie israeliane high-tech. Importanti innovatori tecnologici come Intel, che lavora con l’NSA, hanno iniziato la loro attività in Israele e hanno dichiarato pubblicamente: “Pensiamo a noi stessi come un’azienda israeliana tanto quanto una società statunitense”. Il vulture capitalist miliardario sionista Paul Singer è stato recentemente accusato di orientare posti di lavoro altamente pagati nel settore tecnologico degli Stati Uniti in Israele, posti che si perdono per sempre nell’economia americana.
Quindi, Israele è leader nell’uso delle risorse elettroniche per eseguire lo spionaggio e raccogliere informazioni su vari obiettivi di interesse. Israele è anche innovatore e le sue strette relazioni con la comunità di intelligence degli Stati Uniti, in particolare l’NSA, significano che le tecnologie e le procedure sviluppate dallo Stato ebraico appariranno inevitabilmente in America.
In ogni caso, gli Stati Uniti stanno lavorando duramente sui propri strumenti per la gestione dei cittadini, stimolati dall’isteria di Covid-19. Le carte d’identità speciali potrebbero aiutare a tenere traccia dello stato di salute delle persone. Questo stato verrebbe registrato e aggiornato su un chip leggibile dagli scanner governativi che, secondo alcuni resoconti, potrebbe essere riportato o addirittura incorporato in modo permanente nel corpo di ognuno. Un altro piano promosso in una joint venture da Apple e Google, che sembra avere il supporto della Casa Bianca, prevede “l’aggiunta di tecnologia alle loro piattaforme smartphone che avviserà gli utenti se sono entrati in contatto con una persona con Covid-19. Le persone devono optare per il sistema, ma ciò ha il potenziale per monitorare circa un terzo della popolazione mondiale”con il monitoraggio effettuato dai computer centrali. Una volta stabilito il principio legale, secondo cui i telefoni possono essere manipolati per eseguire quella che ora è una “ricerca illegale”, non vi sono limiti tecnici o pratici a quali altre attività potrebbero essere eseguite.
SVILUPPI IN ISRAELE
Tenendo conto di quei passi per controllare i movimenti di cittadini eventualmente contagiati, alcuni recenti sviluppi in Israele sono, per dirla con un eufemismo, inquietanti. Lo Stato ebraico sta attualmente effettuando la sorveglianza multi livello condotta in tempo reale 24 ore su 24, 7 giorni su 7 di tutti gli abitanti del Paese. Il giornalista investigativo e attivista per la pace Richard Silverstein descrive in dettaglio perché ciò sta accadendo ora, cosa significa e come funziona.
Per Silverstein, Israele, come ogni altro Stato autoritario, sta attualmente sfruttando la distrazione causata dalla pandemia di coronavirus. Il Primo Ministro Benjamin Netanyahu, le cui fortune politiche sembravano svanire a causa di tre elezioni sospese, ha sfruttato la paura del virus per assumere poteri di emergenza e ottenere l’approvazione della Knesset per utilizzare un database nazionale altamente classificato “compilato dallo Shin Bet e comprendente dati personali privati su ogni cittadino israeliano, sia ebreo che palestinese. All’indomani dell’11 settembre, la Knesset israeliana ha segretamente assegnato alla sua agenzia di intelligence nazionale il compito di creare il database, che apparentemente era inteso come misura antiterrorismo”.
Il database, soprannominato “The Tool”, include nomi, indirizzi, numeri di telefono, lavoro e informazioni sul grado d’istruzione, ma va ben oltre ciò, nell’uso dei dati di localizzazione del telefono per registrare ogni telefonata effettuata dall’individuo, in modo da includere nomi e numeri di quelli chiamati e la geolocalizzazione del luogo da cui è stata effettuata la chiamata. Il monitoraggio del telefono ha anche permesso allo Shin Bet di creare un registro di dove il chiamante ha viaggiato in Israele e nei territori occupati. Anche l’uso di Internet, se attivo nel telefono, è stato registrato. È la sorveglianza più completa e totale di un individuo che è possibile ottenere e non comporta alcuna partecipazione umana, poiché tutto ciò viene fatto dal computer.
Netanyahu ha proclamato pubblicamente la sua intenzione di utilizzare il database, affermando che sarebbe stato impiegato per combattere il coronavirus, che ha descritto come una minaccia alla sopravvivenza nazionale. A seguito della crisi dichiarata, lui e il suo principale avversario, il leader del partito blu e bianco Benny Gantz, sono stati in grado di venire a patti il 20 aprile per formare un “governo di unità di emergenza nazionale”, con Netanyahu di nuovo come Primo Ministro. Lo sfruttamento della paura del virus, oltre al disvelamento del potente strumento tecnico di Israele per contrastarlo, ha prodotto una vittoria per Netanyahu, che si è efficacemente ritratto come un leader forte e indispensabile, cancellando lo stigma derivante dal suo processo in corso con l’accusa di massiccia corruzione mentre era in carica. Secondo quanto riferito, uno dei primi passi che Netanyahu intraprenderà è sostituire il Procuratore Generale e il Procuratore Statale che stavano tentando di mandarlo in prigione, eliminando efficacemente la minaccia che egli possa andare in prigione.
La rivelazione dell’esistenza del database ha inevitabilmente portato all’accusa che Netanyahu aveva, per tornaconto personale, disvelato l’arma antiterrorismo più potente di Israele. C’erano anche preoccupazioni riguardo al significato dell’enorme corpus di informazioni personali raccolte dallo Shin Bet, [fino a] includere suggerimenti che esso costituiva una grave violazione delle libertà civili. Ma la paura del virus, attentamente combinata con alcuni accordi e manovre politiche, ha significato che l’uso dei dati è stato infine approvato dal Comitato di Sicurezza della Knesset alla fine di marzo.
Israele, che ha chiuso i suoi confini e che ha ancora un livello relativamente basso di contagi e decessi da coronavirus, ha già iniziato a utilizzare il database dello Shin Bet, trasformando nel mentre i tentativi di affrontare la malattia come in qualcosa di simile a una guerra di intelligence. Le informazioni ottenute da “The Tool” consentono alla polizia e all’esercito di determinare se qualcuno è rimasto vicino a qualcun altro per più di qualche minuto. Se il contatto includeva qualcuno già contagiato, tutte le parti vengono poste in quarantena. Qualsiasi tentativo di eludere i controlli comporta l’arresto e la punizione a una pena detentiva di sei mesi più una multa di 1.500 dollari. I soldati armati che pattugliano le strade hanno il potere di interrogare chiunque si trovi in giro.
Il Mossad è anche coinvolto nella lotta contro il virus, vantandosi di aver “rubato” 100.000 mascherine e anche i respiratori a un Paese vicino, presumibilmente gli Emirati Arabi Uniti. Silverstein osserva che “il governo di estrema destra israeliana ha militarizzato il contagio. Proprio come un martello non ha mai incontrato un chiodo che non voleva martellare, è naturale per uno Stato di sicurezza nazionale come Israele considerare Covid-19 come una minaccia alla sicurezza, tanto quanto o più di una minaccia alla salute”. E quando si tratta di armi biologiche, Israele non è un parvenu. Ironia della sorte, la storia nascosta dietro la “guerra al coronavirus” è che Israele è esso stesso uno degli Stati più avanzati nello sviluppo e nella sperimentazione di armi biologiche nel suo laboratorio a Nes Tziona.
Just as a hammer never met a nail it didn’t want to pound
Tornando alla nascita di “The Tool”, il Ministro della Difesa Naftali Bennett ha anche suggerito di monetizzare il prodotto vendendone una “versione a uso civile”, che include il suo sistema operativo, le capacità analitiche e i dettagli di installazione a Paesi stranieri, tra cui gli Stati Uniti. Israele ha già commercializzato con successo alle agenzie di sicurezza e ai governi un prodotto simile chiamato Pegasus, che è stato descritto come il malware più sofisticato sul mercato.
Come “The Tool”, Pegasus esegue il data mining e l’analisi in tempo reale delle persone, sulla base di una serie di tecniche di raccolta. La cyber company israeliana NSO Group che commercializza Pegasus è stata recentemente coinvolta nel tentativo di hackerareWhats-App, il sistema di comunicazioni sicure di proprietà di Facebook, rivolto a giornalisti e attivisti politici, per conto di un client sconosciuto. Ironia della sorte, si ritiene che Facebook abbia precedentemente utilizzato i servizi un piuttosto ambigui del gruppo NSO. Forse più notoriamente, Pegasus è stato anche usato per monitorare i contatti e stabilire la posizione fisica nel caso del giornalista Jamal Khashoggi, che è stato assassinato da agenti dell’intelligence saudita a Istanbul.
Quindi, gli Americani dovrebbero stare attenti di fronte al nuovo software di sicurezza informatica promosso da Israele, perché lo Stato ebraico sta anche esportando la propria visione di uno Stato militarizzato, controllato centralmente, in cui tutti i diritti sono potenzialmente sacrificati per la sicurezza. Come ha già rivelato l’informatore Edward Snowden, l’NSA ha la capacità di raccogliere grandi quantità di informazioni sui cittadini. Se il governo degli Stati Uniti abboccherà all’amo e si muove nella direzione israeliana, usando quei dati per abilitare la sorveglianza e gestire tutto il popolo per tutto il tempo, la tentazione di utilizzare la nuova capacità sarà grande, anche se il suo uso non è, strettamente parlando, garantito.
E non ci sarà nessuno lì a dire no ai nuovi poteri, né al Congresso, alla Corte Suprema o alla Casa Bianca. E anche i media saranno dalla loro parte, sostenendo che la sicurezza contro le minacce esterne e interne richiede alcune violazioni dei diritti individuali. È uno dei paradossi della storia che gli Stati Uniti d’America, con le proprie vaste risorse, la grande popolazione e l’eredità della libertà individuale, stanno diventando più simili al proprio piccolo Stato cliente militarizzato, Israele. È una tendenza che deve essere contrastata a tutti i costi da ogni Americano che ha a cuore le libertà fondamentali.
Philip Giraldi è un ex specialista in antiterrorismo per la CIA e ufficiale dell’intelligence militare, editorialista e commentatore televisivo. È anche direttore esecutivo del Council for the National Interest. I suoi altri articoli appaiono sul sito web “The Unz Review”.
Fonte: https://americanfreepress.net/
Link: https://americanfreepress.net/israel-perfecting-surveillance-tech/
FONTE:https://comedonchisciotte.org/israele-perfeziona-la-tecnologia-per-la-sorveglianza/
STORIA
L’AUSILIARIA E IL COMANDANTE PARTIGIANO
Gianfranco Stella – Scrittore
Franca Barbier era cresciuta in una famiglia borghese di Saluzzo, nel Cuneese. Il padre era un militare di carriera e i sentimenti di patria erano forti anche per essa che dopo le magistrali era voluta entrare nel corpo delle ausiliarie.
Aveva 20 anni e 21 quando fu uccisa in Val d’Aosta.
Fu uccisa da un comandante partigiano ammaliato dalla sua determinazione e dalla sua bellezza.
Era stata catturata e condannata a morte perché in quel tempo non si facevano prigionieri.
Il comandante partigiano tentò di guadagnarsela, tentò di convincerla a entrare nella sua banda e ripudiare il fascismo. Era facile innamorarsene anche dopo i continui e altéri rifiuti.
Ne decise infine la fucilazione.
Le era stato consentito scrivere una lettera e la scrisse alla madre il 24 luglio del ’44: ” Mamma mia adorata (…) è giunta la mia ultima ora. E’ stata decisa la mia fucilazione che sarà eseguita domani (…). E’ terribile pensare che domani non sarò più (…) sarò sepolta qui perché neppure il mio corpo vogliono restituire (…). Addio per sempre”
Rivolta la plotone di esecuzione, ragazzi come lei, chiese di poter ordinare il “fuoco” e poi poter gridare “Viva l’Italia”.
Le fu acconsentito.
Ma la salva non la colpì; ammirati del suo fiero comportamento i giustizieri spararono alto, al di sopra della testa.
Fu il comandante partigiano che pose fine alla mancata esecuzione: le si avvicinò e la freddò con un colpo di pistola.
Come aveva scritto, il suo corpo fu lasciato in abbandono. Sarà scoperto due anni dopo, nell’ottobre del ’46.
Il comandante partigiano si chiamava Cesare Ollietti, che la nemesi ghermirà in pochi anni.
Nel ’48, all’età di trent’ anni, tirò le cuoia in un incidente stradale.
FONTE:https://www.facebook.com/804961509846268/posts/1196483830694032/
L’ipocrita architetto Albert Speer, ministro degli armamenti del Reich
Questo criminale fu l’architetto di Hitler, ruolo che gli valse l’appellativo di “architetto del diavolo” e ricoprì anche la carica di ministro degli armamenti del Terzo Reich. Coinvolto in tutti gli orrori commessi dai nazisti, dichiarò però di non essersi mai accorto di quanto di mostruoso stesse accadendo. In questo articolo analizzeremo, alla luce delle evidenze emerse in seguito, quanto fossero state meschine ed ipocrite le sue giustificazioni e il suo vittimismo.
Albert Speer nacque a Mannheim il 19 marzo 1905. Avrebbe voluto diventare un matematico ma studiò architettura esortato da suo padre, un ricco architetto di Mannheim. Dopo essersi laureato trovò un impiego come assistente all’università e fu perciò particolarmente fortunato in quanto la maggior parte dei suoi compagni di corso facevano la fila all’ufficio di collocamento. Infatti, in piena depressione i nuovi laureati non avevano alcuna possibilità di trovare lavoro.
Nell’atrio del Politecnico le riunioni politiche erano una consuetudine. L’università era una fortezza dei nazionalsocialisti e nella facoltà di architettura il 66% degli studenti votavano per loro. Nei primi giorni del dicembre 1930 il giornale nazionalsocialista di Berlino “Der Angriff” annunciò che Hitler avrebbe indetto una riunione per gli studenti. Hitler fece la sua apparizione nell’aula magna dell’Università di Berlino la sera del 5 dicembre 1930. Speer era presente ed ascoltò il discorso di Hitler, un discorso basato sull’arte che ammaliò gli studenti presenti, compreso Albert Speer. Queste furono alcune parole del Führer quella sera: “L’uomo non vive di solo pane e non si può immaginare la rinascita del popolo tedesco, senza risollevare anche la cultura tedesca e soprattutto l’arte tedesca“.
Tre mesi più tardi Albert Speer si unì ai nazionalsocialisti e cominciò a lavorare per loro. Fu Goebbels nel 1932 ad assegnargli il suo primo incarico come architetto, incaricandolo di restaurare alcuni ambienti della sede centrale del partito. I lavori svolti da Speer furono in linea con le aspettative di Goebbels, il quale rimase soddisfatto del lavoro svolto.
Ecco l’unica fotografia della cerimonia inaugurale degli ambienti restaurati da Speer, lavori che gli consentirono di farsi conoscere all’interno del Partito Nazionalsocialista.
Poco tempo dopo si presentò una grande opportunità per Speer. Ai primi di maggio del 1933 migliaia di persone da tutta la Germania si radunarono al Campo di Tempelhof e alla sua prima riunione di massa il nuovo regime voleva dimostrare la sua potenza. Goebbels conferì ad Albert Speer il compito di progettare la Piazza d’Armi.
Prima di realizzare il lavoro commissionatogli da Goebbels, il giovanissimo Speer rilasciò la sua prima intervista radiofonica: “Faremo in modo che la visita del Führer sia particolarmente impressionante. Abbiamo maturato la convinzione che nel campo lungo quasi mille metri, sarà necessario allestire un punto al centro da dove parlerà il Führer, in modo che il discorso venga percepito anche dalla folla più distante. L’effetto risulterà davvero molto impressionante“.
Goebbels nominò il giovane architetto Direttore Ufficiale dell’Organizzazione artistica delle riunioni di massa. Le costruzioni degli edifici però ancora dominio del professor Paul Ludwig Troost, allora architetto di Hitler. Il Führer ammirava Troost, quest’ultimo invece considerava Hitler come un profano di architettura, mentre Hitler aveva da sempre sognato di diventare architetto. Ecco perchè il Führer aveva necessità di un architetto giovane ed inesperto, qualcuno che avesse potuto plasmare a suo piacimento. Nel gennaio 1934 Troost morì e così Speer divenne a tutti gli effetti l’architetto di Hitler. I suoi progetti, le sue scenografie avevano l’obiettivo di esaltare la figura di Hitler. Speer divenne il regista del regime, l’esteta del nazionalsocialismo. Hitler riversava in Speer moltissima fiducia ed aspettativa.
Albert Speer era una figura diversa rispetto agli altri gerarchi nazisti. Colto, brillante, efficace, moderno, cortese, elegante e con la preferenza di indossare abiti civili, era un uomo che spiccava nella massa dei gerarchi nazisti. Certamente, senza Albert Speer il Reich hitleriano sarebbe crollato molto prima.
Speer a soli trent’anni era già nella cerchia dei fedelissimi di Adolf Hitler. Il Führer gli aveva concesso il privilegio di soggiornare nel Berghof, la casa di Adolf Hitler nell’Obersalzberg delle Alpi Salisburghesi vicino a Berchtesgaden. Hitler dichiarò: “Per Lei e per i Suoi progetti ho sempre tempo!” Tra i gerarchi, nessuna famiglia aveva il privilegio di poter trascorrere così tanto tempo in intimità con Hitler.
Tra Hitler e Albert Speer c’era un rapporto d’affetto molto particolare. Speer aveva un’adorazione smisurata nei confronti del Führer, e Hitler considerava il giovane architetto come suo figlio. Così, quando erano nella casa di Hitler nell’Obersalzberg, i due erano capaci di stare ore ed ore da soli con la matita in mano a realizzare i loro progetti architettonici.
Speer ricevette l’incarico di costruire un nuovo Palazzo della Cancelleria in soli dodici mesi. L’architetto diede prova di grandi doti manageriali e ingaggiò più di 8 mila operai. Due giorni prima della scadenza del termine per la consegna, Speer invitò Hitler per il collaudo dell’edificio. Per la prima volta il Führer definì “geniale” l’attività del suo architetto.
Nel gennaio 1937 Speer fu nominato ispettore generale per l’edilizia. Da allora i suoi poteri furono quasi illimitati ed ebbe l’incarico di trasformare Berlino in una città denominata “Germania”, la capitale del mondo secondo i piani di Hitler.
Il 24 giugno 1940 Speer accompagnò Hitler in visita nella Parigi occupata dai nazisti.
Tornato in Germania, Speer si rimise subito al lavoro. Della casa di Hitler nell’Obersalzberg l’architetto chiese notizie per telescrivente sullo sgombero di appartamenti di ebrei a Berlino. Infatti la capitale del mondo doveva essere “Judenfrei“, cioè senza ebrei e per far spazio ai progetti di Speer occorreva demolire edifici ed alloggi. Su disposizione dell’ispettore generale per l’edilizia, furono registrati e sgomberati oltre 23 mila appartamenti di ebrei.
Da tale punto in poi, nel corso di questo articolo, vedremo come seppur Speer abbia sempre negato ogni suo coinvolgimento, in realtà sia stato coinvolto nettamente nei crimini del regime nazista e non sia stato esente da alcuna responsabilità.
Per le prestigiose costruzioni che stava eseguendo a Norimberga, Speer aveva bisogno di pietre. A questo scopo strinse un accordo con il capo delle SS Heinrich Himmler. Nel 1941 Speer chiese che il granito rosso necessario per la realizzazione dello stadio tedesco di Norimberga, fosse preso a Natzweiler, in Alsazia. Così nella cittadina di Natzweiler fu allestito un campo di concentramento (“campo di concentramento Natzweiler-Struthof”) che altrimenti non sarebbe mai sorto. Nella cava del lager il lavoro era massacrante. Chi non era abituato non resisteva e veniva picchiato oppure buttato da un burrone. Altri prigionieri furono giustiziati dalle SS oppure morirono stremati. In questa cava morirono più di 20 mila prigionieri e la morte di ciascuno di loro avvenne per piena responsabilità di Speer.
Ad inizio del 1942, l’allora ministro degli armamenti e delle munizioni Fritz Todt, cercò insistentemente di convincere Hitler a ritirarsi dall’Unione Sovietica, prospettandogli una disfatta delle armate tedesche e un trionfo dell’Armata Rossa. Hitler non era d’accordo con le valutazioni di Fritz Todt e si rifiutava di ascoltare le tesi e i ragionamenti del suo ministro. L’8 febbraio 1942, subito dopo la conclusione di una concitata riunione con Hitler al quartier generale di Rastenburg, l’aereo su cui Todt si era imbarcato esplose subito dopo il decollo. Albert Speer avrebbe dovuto essere imbarcato sullo stesso aereo, ma stranamente rimase a terra senza motivo e senza preavviso. Appare evidente che Fritz Todt rimase vittima di un attentato di Stato, soprattutto prendendo in considerazione le sue aspre critiche sulla campagna di Russia e il fatto che proprio il “miracolato” Albert Speer assunse la sua carica.
Subito dopo la morte del ministro Fritz Todt, al suo posto, alla carica di Ministro degli armamenti e delle munizioni fu nominato il “superstite” Albert Speer. Il 12 febbraio 1942, alla cerimonia funebre di Todt, il suo successore Speer effettuò un ipocrita discorso all’interno del quale disse: “Per quanto grande possa essere il nostro cordoglio per questa perdita, quello del Führer è certamente maggiore. E’ lavorando tutti senza sosta che lo aiuteremo a superare questo dolore. Il buon esito del nostro lavoro è determinante per la vittoria della Germania. Ho giurato al Führer di dedicare tutte le mie forze al raggiungimento di questo obiettivo“.
In brevissimo tempo i rischi catastrofici manifestati da Fritz Todt non tardarono ad avverarsi. Grazie al contributo di tutto il popolo sovietico e all’eroismo dell’Armata Rossa, la guerra lampo in Unione Sovietica auspicata dai nazisti si dimostrò un totale fallimento. La Battaglia di Stalingrado segnò le sorti dell’intera guerra mondiale. Anche se ancora faticavano a rendersene conto, i nazisti ormai avevano perso la loro guerra contro il popolo sovietico.
L’economia di guerra della Germania non era preparata a questo fallimento. Speer cominciò a visitare tutte le fabbriche di armamenti al fine di tenere alto il morale degli operai, ma all’interno del suo ministero era nettamente crescente la diffidenza verso il pupillo di Hitler. Speer divenne frequentemente bersaglio di invidie, malevolenze e intrighi.
Nell’assumere la nuova carica, Speer dichiarò: “È necessario adeguare il Paese all’economia di guerra nel più breve tempo possibile“. Così, il 18 febbraio 1942 convocò a Berlino i grandi magnati dell’Industria e i massimi responsabili nel settore degli armamenti. Il nuovo ministro formulò una richiesta del tutto inaspettata: tutti dovevano firmare una delega che assegnava a Speer la direzione unitaria in materia di armamenti. I partecipanti alla riunione sapevano bene che Speer godeva dell’appoggio incondizionato di Hitler. Si trattava di una sorta di legge delega interna, che col benestare del Führer consegnava nelle mani di Speer ogni competenza relativa al settore degli armamenti. Riguardava l’economia, la produzione e qualunque altro comparto che in qualche modo avesse a che fare con gli armamenti. Questa fu solo una prima parte del processo di concentrazione di poteri che si sarebbe compiuto in modo quasi prepotente nei mesi seguenti.
Il mondo dell’Industria appoggiò i progetti di Speer anche perché il nuovo corso prometteva lauti profitti. Albert Speer dichiarò di confidare sul senso di responsabilità dell’industria, su esperti competenti e su una minore burocrazia. In breve tempo il piccolo Ministero degli armamenti divenne l’apparato centrale per l’economia di guerra, sottraendo competenze anche al potente Hermann Göring, il responsabile del Piano quadriennale dell’economia tedesca.
Fino all’estate del 1942 la produzione di armi crebbe del 60% circa mentre raddoppiò quella delle munizioni. Nel frattempo Speer confidava molto su una rapida fine della guerra, tanto che nell’aprile del 1942 dichiarò: “Dobbiamo vincere la guerra entro la fine di ottobre o l’avremmo perduta definitivamente!“
Invece le sorti della guerra andarono diversamente da quanto auspicato da Speer. Alla fine del 1942 a Stalingrado, la 6° Armata tedesca comandata da Friedrich von Paulus fu letteralmente disintegrata dall’immenso generale Vasilij Ivanovič Čujkov, il comandante della 62° Armata dell’Armata Rossa. Il 2 febbraio 1943, il giorno della definitiva vittoria della Battaglia di Stalingrado, dell’intera armata nazista rimanevano solo alcuni soldati così stremati che speravano di essere fatti prigionieri anziché essere destinati a morire nel mezzo della neve.
L’ostinazione tedesca nell’aver voluto combattere la Battaglia di Stalingrado, rese manifesta la follia e l’incompetenza militare di Hitler e dei suoi più stretti gerarchi. Tra questi anche Albert Speer, il quale si fidò ciecamente dei folli ordini impartiti dal Führer al generale von Paulus, nonostante nella sacca di Stalingrado si trovasse a combattere suo fratello Ernst (Ernst Speer) che scriveva lettere sconvolgenti a casa e che suo fratello Albert certamente aveva letto. Ernst Speer risultò disperso e non tornò mai a casa, come giustamente accadde ad altre centinaia di migliaia di vili invasori della Wehrmacht.
Dopo la disfatta di Stalingrado, per la prima volta Speer mise in dubbio il modo in cui Hitler conduceva la guerra. Non prese le distanze dal regime ma il rapporto con il Führer iniziò a cambiare. Da quel momento Hitler lo trattò in maniera diversa: non era più un rapporto tipo padre figlio, ma un rapporto tipo capo e collaboratore. Speer da quel momento in poi era obbligato a portare i risultati della sua attività politica.
Fu così che Speer si adoperò con determinazione affinché venisse decretata la mobilitazione generale per l’economia di guerra. Diede ordine che i territori occupati fossero saccheggiati e la produzione di armi ulteriormente aumentata. Speer dichiarò: “Sono determinato ad abbassare il tenore di vita del popolo tedesco, anche se questo dovesse portare alla proletarizzazione del Paese“. Da quel momento le donne e gli studenti furono mobilitati in massa per lavorare alla produzione di armi.
Ma giorno dopo giorno, l’Armata Rossa inflisse alla Wehrmacht gravissime perdite. I tedeschi necessitavano di continui rinforzi e così 700 mila operai furono richiamanti alle armi. Per far fronte alla produzione bellica, Speer decise di prelevare la forza lavoro nei territori occupati. Alla fine del 1944 più di 7 milioni di prigionieri erano ridotti in schiavitù e sottoposti ai lavori forzati. Al processo di Norimberga l’ipocrita Speer dichiarò di non essere stato a conoscenza che i lavoratori forzati erano maltrattati e tenuti in schiavitù. Non c’è dubbio che stesse mentendo.
Nel marzo del 1943 Albert Speer visitò il campo di concentramento di Mauthausen, considerato impropriamente come semplice campo di lavoro, fu di fatto, fra tutti i campi nazisti, il solo campo di concentramento classificato di “classe 3” (come campo di punizione e di annientamento attraverso il lavoro). Vi si attuò lo sterminio soprattutto attraverso il lavoro forzato nella vicina cava di granito e la consunzione per denutrizione e stenti, pur essendo presenti anche alcune piccole camere a gas. In totale più di 122 mila persone trovarono la morte durante la guerra a Mauthausen e nei vari sotto-campi del complesso. Prima della fuga, il 4 maggio 1945, le SS tentarono di distruggere le prove dei crimini da loro commessi, e approssimativamente solo 40 mila vittime furono identificate. Anche in riferimento a questa circostanza, al processo di Norimberga Albert Speer dichiarò di non essere stato a conoscenza che vi fossero vittime all’interno del campo di concentramento di Mauthausen. In pratica, l’ipocrita ministro non si accorse che solo nel campo di concentramento da lui visitato furono sterminate oltre 122 mila persone.
Eppure, dopo la visita l’architetto Speer si lamentò con il capo delle SS Himmler. Infatti un documento firmato da Speer , tuttora esistente e conservato nell’Archivio Militare tedesco, rileva che il ministro trovò gli alloggi dei detenuti troppo spaziosi e suggerì un diverso utilizzo degli spazi, nell’ottica di incrementare il numero dei detenuti nei campi di concentramento al fine di raggiungere il massimo grado di efficienza e produttività dai lavori forzati.
In un altro documento pervenuto intatto fino ai giorni d’oggi si legge: “Il ministro professor Speer ha autorizzato l’ampliamento del complesso di baracche di Auschwitz e ha deliberato lo stanziamento di 13,7 milioni di marchi per la costruzione di un volume edilizio aggiuntivo ad Auschwitz“. Tale relazione era indirizzata ad Himmler da Oswald Pohl, il capo dell’ufficio centrale per l’economia e la pubblica amministrazione. Era datata 16 marzo 1942. Fu in quel periodo che Auschwitz fu convertito da campo di concentramento in campo di sterminio. Nel 1943 Pohl riferì che Speer era stato informato di tutti i dettagli ed aveva autorizzato l’uso dei forni crematori e degli impianti per il trattamento speciale di disinfestazione. Quindi è del tutto evidente che Albert Speer sapeva ed era personalmente coinvolto nello sterminio attuato dai nazisti.
Nel frattempo il matrimonio di Speer entrò in crisi. Lui e sua moglie Margarete avevano sei figli.
Il 6 ottobre 1943 Speer fu invitato al Castello di Posen, in Polonia per un congresso dei funzionari locali del partito nazista. Speer voleva destinare ogni risorsa alla produzione bellica e privò questi funzionari di ogni privilegio. Le riunioni tenutesi al Castello di Posen segnarono la rottura tra Speer e gli amministratori locali. A conclusione del suo discorso Speer dichiarò: “Vi posso assicurare che sono fermamente intenzionato ad imporre l’autorità del Reich con qualunque mezzo!“
Dopo Speer prese la parola Himmler, il tema del suo discorso fu la soluzione finale, lo sterminio del popolo ebraico. Queste le parole di Himmler: “Sto parlando del trasferimento degli ebrei, dell’eliminazione di quella razza. E’ una di quelle cose che vanno dette con chiarezza: il popolo ebraico sarà cancellato!” Nelle sue memorie l’ipocrita Speer affermò di non aver sentito l’intervento di Himmler perché era già in viaggio per raggiungere Berlino. Ma le sue argomentazioni non convincono. Infatti Speer era in quel momento il gerarca nazista più potente del regime. Come poteva ignorare il progetto di sterminio? Inoltre è normale supporre che anche se non fosse stato presente al discorso di Himmler, certamente quel discorso gli fu riferito poiché dal giorno dopo ne parlavano tutti i gerarchi di Hitler.
Nel gennaio del 1944 Speer fu ricoverato nella clinica delle SS a nord di Berlino. Aveva un’infiammazione al ginocchio che gli provocava forti febbri. Per mesi il potente ministro svolse il suo lavoro da un letto dell’ospedale. Il medico curante, un ortopedico, era un amico intimo Himmler che in quel periodo era un suo grande rivale. Speer confidò alla sua segretaria: “Temo che questo medico voglia uccidermi!“
Questa circostanza è emblematica della storia del Reich. E’ infatti evidente quanto fosse pericoloso per un uomo influente come Speer, ammalarsi e stare quindi lontano dal Führer per via del groviglio di intrighi che venivano orditi continuamente da parte dei gerarchi nazisti che approfittavano del momento favorevole per prendere il potere.
L’8 maggio del 1944, Speer riprese pienamente il suo servizio. Tra il giugno e l’agosto del 1944 la Germania registrò livelli record nella produzione di armi. Speer riuscì a incorporare nel suo ministero l’intero settore degli armamenti aerei. Ormai aveva il controllo totale dell’economia. In un discorso del giugno del 1944 tenuto in una fabbrica di Berlino, Speer disse: “La controffensiva delle nostre armi dimostrerà a tutto il mondo, senza ombra di dubbio, che la tecnologia tedesca degli armamenti è nettamente superiore a tutti. Vi assicuro che il nemico dovrà aspettarsi delle sorprese anche in altri campi strategici. E’ possibile che subiremo anche qualche contraccolpo, ma sappiamo che alla fine della guerra, per noi ci sarà la vittoria!“.
Contemporaneamente a questa manifestazione pubblica di ottimismo, Speer però inviava continui memoriali ad Hitler, in cui metteva esplicitamente in guardia il Führer sul collasso economico e sul rischio di sconfitta. Negli anni precedenti Speer discuteva con il Führer dei vari problemi, da questo momento in poi invece cercava di prepararlo tramite i memoriali a quello che gli avrebbe detto verbalmente. Ma la reazione che quei memoriali producevano era sempre quella contraria a quella auspicata da Speer.
Speer condivideva con Hitler l’idea di portare avanti quella guerra disperata, ma impediva contemporaneamente che fosse attuato l’ordine del Führer di fare terra bruciata. Speer non accettava di distruggere gli impianti industriali che garantivano la sopravvivenza del popolo tedesco. Hitler però avvertì il suo ministro: “Speer non tollererò alcuna resistenza. A guerra finita il popolo potrà anche giudicarmi, chi però oggi ha un’idea diversa dalla mia finisce dritto sul patibolo!“
Speer allora si precipitò a Berlino e scrisse un’ultima lettera a Hitler: “Ho fatto molto per la Germania. Senza il mio lavoro forse avremmo perso la guerra nel 1942/43. Non posso ancora credere al successo della nostra causa se in questi mesi decisivi distruggiamo le basi per la sopravvivenza del nostro popolo“.
Hitler lette queste parole perdonò il suo ministro. Nell’aprile del 1945, nel bunker sotto le macerie del Palazzo della Cancelleria, Speer salutò Hitler per l’ultima volta. Il 1° maggio 1945 apprese la notizia della morte del Führer e fu colto da un’inarrestabile crisi di pianto.
Il vile Albert Speer decise di farsi arrestare dagli anglo-americani perché sapeva benissimo che se l’avessero arrestato i sovietici la sua fine sarebbe stata molto rapida e non indolore.
Il 20 novembre 1945 Speer comparve per la prima volta davanti al Tribunale di Norimberga.
Il ruolo svolto come uomo di fiducia di Hitler rappresentava una pesante responsabilità. L’accusa principale rivoltagli riguardava l’utilizzo ripetuto e massiccio di lavoratori prelevati dai campi di concentramento. Speer fu l’unico tra gli imputati che si assunse la responsabilità per quell’accusa, tuttavia non si considerò colpevole dei crimini contro costoro, compreso l’olocausto. Questi il risultato della corte: il giudice statunitense lo ritenne colpevole e lo condannò all’impiccagione, anche il giudice sovietico lo ritenne colpevole e lo condannò all’impiccagione, ma il giudice britannico lo ritenne colpevole e lo condannò a vent’anni di prigione, mentre addirittura il giudice francese lo ritenne colpevole ma lo condannò a 15 anni di reclusione. Non ci fu l’unanimità e così gli fu risparmiata la pena di morte. La sentenza definitiva lo condannò a vent’anni di carcere.
Certo lascia molti dubbi su come britannici e francesi abbiano potuto credere alle affermazioni di Speer il quale dichiarò di non aver mai sospettato fino all’ultimo che esistesse una politica di sterminio all’interno del Terzo Reich.
Dopo la guerra fu rinchiuso nel carcere di Spandau dove scrisse le sue memorie. All’intero di queste neanche una parola sui morti nei campi di concentramento e in quelli di sterminio, nessuna parola sulle atrocità e sui crimini commessi dai nazisti, sulle migliaia di lavoratori forzati condannati ad una fine atroce.
Speer avrebbe meritato di essere condannato a morte e di penzolare con una corda al collo, ma lo squallore franco-britannico impedì che venisse resa giustizia.
Il 1° ottobre del 1966 Speer tornò in libertà. Fu un evento mediatico mondiale. Dopo la liberazione, abbandonato il progetto di tornare ad esercitare la professione di architetto, pubblicò diversi libri, tra i quali due best seller, “Memorie del Terzo Reich” e “Diari segreti di Spandau“, entrambi oggetto di notevole interesse anche tra gli storici, ai quali Speer si rese sempre personalmente disponibile.
Condusse una vita piuttosto ritirata fino alla morte, che avvenne per infarto il 1° settembre 1981 a Londra, dove si era recato per partecipare a una trasmissione radiofonica della BBC. Il feretro fu in seguito rimpatriato in Germania ed inumato presso il Bergfriedhof, uno dei cimiteri cittadini di Heidelberg.
La maggior parte degli storici ritiene che nei suoi libri Speer minimizzi il proprio ruolo personale nelle atrocità di quel periodo. Alcuni documenti scoperti dopo la morte di Speer provarono inoltre, senza ombra di dubbio, che già nel 1943 Speer era a conoscenza di ciò che veramente accadesse ad Auschwitz e nel campo di sterminio di Birkenau. Nei documenti ritrovati, che recavano la firma di Speer, si faceva esplicito riferimento alla costruzione di forni crematori, obitori e torri di guardia.
In precedenza altri crimini di Speer erano venuti alla luce tanto che durante un colloquio tra Speer e Simon Wiesenthal, avvenuto alla fine degli anni Settanta, il celebre cacciatore di nazisti ebbe modo di dire all’architetto: “Se a Norimberga avessimo saputo quello che sappiamo adesso, lei sarebbe stato impiccato“.
Molti anni dopo la lettura della sentenza del Tribunale di Norimberga le dimensioni delle responsabilità di Albert Speer vennero alla luce con tragica evidenza. Il potente ministro per gli armamenti del Reich scelse il denaro, la fama e il successo, sottoponendo ad ogni tipo di atrocità la vita di migliaia di prigionieri.
Luca D’Agostini
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Fonti
Matthias Schmidt, Albert Speer: The End of a Myth, St. Martins Press, New York 1984
Francesco Bellanti, Conversazione con Adolf Hitler, Lulu, Raleigh 2019
Magnus Brechtken, Albert Speer : eine deutsche Karriere, Siedler, Monaco di Baviera 2017
Leon Krier, Albert Speer : architecture 1932-1942, Monacelli Press, New York 2013
Gitta Sereny, In lotta con la verità : la vita e i segreti di Albert Speer, BUR Rizzoli, Segrate 2009
Joachim Fest, Speer: The Final Verdict, Harcourt, San Francisco 1999
Dan van der Vat, The Good Nazi: The Life and Lies of Albert Speer, George Weidenfeld & Nicolson, Londra 1997
Gitta Sereny, Albert Speer: His Battle With Truth, Knopf, New York 1995
Albert Speer, Inside the Third Reich (traduzione di Richard and Clara Winston), New York, Toronto, Macmillan, 1970
FONTE:
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Insomma Moro sapeva di infiltrati americani (ed israeliani) nelle BR, infiltrati che, con buona probabilità, appartenevano al gruppo di marines dell’articolo di Pecorelli, sapeva che la collaborazione di costoro per il rinvenimento dei covi BR non era semplicemente scarsa ma proprio nulla, inoltre era un politico navigato e di lungo corso da non aver almeno il minimo sospetto che le BR potevano essere utilizzate dagli americani a fini destabilizzanti. Sapeva bene, anche perché aveva meditato a lungo sul suo futuro politico dopo il viaggio a Washington del 1974, che la sua linea politica era fortemente osteggiata negli ambienti internazionali. Nella lettera a Taviani, scritta durante la prigionia nel “carcere del popolo” delle BR, dopo aver attaccato l’ex Ministro degli Interni come uomo dagli antichi legami con gli americani (per il senatore Pellegrino già Presidente della Commissione Stragi Taviani era stato uno dei fondatori della GLADIO), Moro alluse a “resistenze americane e tedesche” contro la sua liberazione. Ancora una volta la “pista americane e tedesca”. Ricordiamo che, in concomitanza con questa lettera scritta a metà aprile, l’esperto antiterrorismo del Dipartimento di Stato Pieczenick abbandonò l’Italia. Per quale motivo? L’operazione era conclusa? I giochi erano fatti? Come già detto secondo Flamigni, il Dipartimento di Stato americano avrebbe classificato il caso Moro come “segretissimo” evidentemente sulla base della relazione fatta dallo stesso Pieczenick il quale avrà cura di confermare come la P2, nei suoi elementi presenti nei Comitati di crisi, avesse strumentalizzato le BR per eliminare Moro. Pieczenick sottolineerà poi i legami della P2 e di Gelli con l’Argentina dei militari golpisti. Ovviamente si tratta di affermazioni veritiere , ma ometterà di citare i rapporti che la P2 e Gelli avevano con gli americani, rapporti documentati da varie testimonianze, ma di questo parleremo… Aggiungiamo poi che un uomo come Michael Ledeen, il neoconservatore “esperto” di affari italiani di cui abbiamo già trattato, e che, proprio durante il sequestro Moro, prestava una consulenza di “antiterrorismo” presso il Ministero degli Interni su richiesta del “gladiatore” Cossiga. Aggiungiamo anche che Ledeen è spesso stato presentato come uomo degli americani in buoni rapporti con la P2 che, appunto era inserita nelle istituzioni e nei Comitati di crisi in maniera massiccia allora si possono ben capire le ragioni delle omissioni di Pieczenick, il quale doveva essere certo a conoscenza della presenza di Ledeen presso il Ministero degli Interni, e della classificazione “segretissimo” del caso Moro da parte del Dipartimento di Stato. Non è improbabile il fatto che Moro avesse ben capito quali fossero i giochi fatti alle sue spalle. L’allusione alle resistenze “americane e tedesche” può essere un riferimento all’asse fra USA carteriana e alla Germania di Schmidt (e indirettamente alla Francia di Giscard d’Estaing), insomma l’asse “trilateralista”, filoccidentale e tecnocratico, ma se era vera la testimonianza di chi ha udito parlare in tedesco in via Fani, allora si potrebbe tornare alla pista “Hauser/Lahusen” americana e tedesca per l’appunto per il duplice ruolo del personaggio Berretto Verde e terrorista della RAF tedesca. Se qualcuno ha parlato in tedesco Moro deve averlo sentito e, forse, era a conoscenza di infiltrati americani nelle BR che parlavano in tedesco per sfruttare una (falsa) identità da terrorista della RAF. Abbiamo visto come Moro fosse nel mirino per le sue politiche prima di apertura al PSI con il centrosinistra poi al PCI con la linea della “strategia dell’attenzione” ed era noto da dove venissero i progetti per la sua eliminazione. Già abbiamo citato il tentativo di rapimento che, probabilmente, Pecorelli aveva attribuito all’ex Ministro della Difesa Pacciardi, già in ottimi rapporti con l’ambasciatrice americana Mary Boothe Luce, massone e vicino alle posizioni “presidenzialiste” del filoamericano e filoinglese Sogno e ideato parecchi anni prima che nascessero le BR. Abbiamo visto l’ammissione di Sogno in un’intervista che i membri dei Comitati di Resistenza Democratica si erano impegnati a sparare a coloro che si fossero accordati con i comunisti. Un riferimento indiretto a Moro. Aggiungiamo poi la rivelazione della figlia di Moro secondo cui, nell’agosto del 1974 Moro avrebbe dovuto trovarsi sul famoso Italicus colpito da una strage attuata da elementi neofascisti toscani. I gruppi neofascisti toscani, come si seppe, erano finanziati da Gelli e dalla P2 ed erano in contatto con il capo stazione del SID a Firenze Mannucci Benincasa. Costui, a partire dal 1977, e quindi anche durante il sequestro Moro, disponeva di un infiltrato a buon livello nelle BR. Il fatto che questo contatto si sia interrotto con l’arresto del capo brigatista Senzani fa ragionevolmente pensare che l’ideatore dei sequestri D’Urso e Cirillo fosse un uomo del SID prima e poi del SISMI. Abbiamo già ricordato che c’è il sospetto che Senzani fosse in contatto con il capo dell’Ufficio Protezione e Sicurezza del SISMI, il piduista Musumeci, il cui nome compare a proposito di inquietanti retroscena relativi al caso Moro, alla strage alla stazione di Bologna e al sequestro Cirillo. Secondo un documento della DIGOS Senzani avrebbe usufruito di una borsa di studio della solita USIS – ricordate? Simioni e l’Hyperion – per un viaggio negli USA nella celebre Università di Berkeley. Riprendendo il discorso dei tentativi di assassinare Moro ricordiamo ancora le preoccupazioni dei comunisti dopo la strage di Piazza Fontana per il ritorno in Italia di Moro dal Consiglio d’Europa e, quindi i timori di un attentato. Negli anni successivi alla metà degli anni Settanta vengono lanciati messaggi sulla sorte di Moro: Pecorelli allude in vari articoli al destino di Moro e lo stesso Andreotti scrisse un romanzo “Il Ministro deve morire alle 13” che allude alla sorte di un Ministro riformista. Il fatto clamoroso è, poi, che sembra diffusa la conoscenza del tentativo delle BR di fare un’azione eclatante contro l’onorevole Moro, ma, come abbiamo visto, niente viene fatto per scongiurare questo tentativo, anzi sembra che si operi in una direzione ben precisa… D’altronde, se Senzani era un infiltrato del SISMI nelle BR, i risultati di tale operazione sono sotto gli occhi di tutti… La verità è che la ricorrenza di nomi come Gelli, Sogno e Pacciardi riconduce inevitabilmente al filoamericanismo e all’oltranzismo atlantico e, quindi, di pieno appoggio agli americani o, almeno, come vedremo, a certe fazioni americane.
Infine, ripercorrendo l’articolo di Pecorelli di cui sopra, le affermazioni di Moro e il caso Abu Omar, si pone il problema del rapporto fra servizi segreti americani e quelli italiani. I primi sono solamente soggiogati ai secondi o hanno avuto anche momenti di autonomia e conflitto? Secondo diverse testimonianze anche nella Commissione P2, i servizi segreti italiani sono stati sostanzialmente sudditi di quelli americani. Certo la considerazione della scarsa affidabilità loro attribuita può aver indotto gli americani a servirsi di strumenti come la P2 per poter condizionare meglio l’operato dei servizi segreti e delle forze di sicurezza. Durante il sequestro Moro si è parlato di un dissidio fra l’esperto Pieczenick ed il criminologo piduista Ferracuti. Senza mettere in discussione questi fatti, però bisogna ricordare che lo stesso Ferracuti era un collaboratore della CIA e dell’FBI oltre che del SISDE il servizio segreto civile italiano. Da ciò si deduce che c’era un’egemonia di elementi comunque schierati in un certo senso e che le divisioni potevano essere dettate da altri motivi. Non si deve dimenticare che l’”atlantismo italiano” è colmo di conflitti e lotte spesso di potere (Maletti /Miceli, Gelli/ Pazienza, Sindona/Calvi, ecc…) e ciò vale in una certa misura per gli USA (il dissidio fra Kissinger e l’ambasciatore in Italia Martin, le manovre per danneggiare Carter e far eleggere Reagan prima delle elezioni presidenziali USA).
Il rapporto USA/Italia rispetto al caso Mor
o tocca anche l’organizzazione paramilitare atlantica GLADIO di cui tratteremo adesso…
Nell’ottobre del 1990, in risposta alle sollecitazioni del giudice Casson che indagava sulla strage di Peteano ed in seguito alle rivelazioni del neofascista di Ordine Nuovo Vincenzo Vinciguerra, reo confesso autore dell’eccidio, circa il coinvolgimento di una struttura paramilitare legata agli americani ed alla NATO nella “strategia della tensione” e nelle stragi in Italia, il Presidente del Consiglio Giulio Andreotti rivelò in Parlamento l’esistenza della GLADIO o SID parallelo, un’organizzazione creata dalla NATO nel quadro della guerra fredda per resistere ad un’eventuale invasione sovietica. Per singolare coincidenza circa una settimana prima, nell’ex covo brigatista di via Montenevoso a Milano era stata rinvenuta una copia inedita del cosiddetto “memoriale Moro” in cui, peraltro, si faceva riferimento indiretto a questa struttura. Sorvoliamo sui conflitti, le vicissitudini e le lotte di potere che, allora, si innestarono sull’affaire GLADIO, mentre, invece, è opportuno rammentare che, in realtà, non era la prima volta che emergeva l’esistenza di un’organizzazione di tal fatta.
Nel 1974 nell’ambito dell’inchiesta padovana del giudice Tamburino sulla Rosa dei Venti, un’organizzazione terroristica filoatlantica, il rosaventista e probabile “gladiatore” Roberto Cavallaro in possesso del nulla osta di massima sicurezza NATO Cosmic e dipendente dalla base americana di Verona aveva rivelato l’esistenza di una fantomatica organizzazione X che si proponeva come obiettivo un colpo “dello stato”. Tale struttura, finanziata anche da multinazionali e dalla grande impresa e finanza tra cui il banchiere mafioso e piduista Sindona, infiltrava propri elementi in gruppi terroristici ed estremisti “neri” ma anche “rossi” o nei “bianchi” dei MAR di Fumagalli allo scopo di diffondere un clima di terrore, caos e violenza per legittimare un intervento delle forze armate. Tali gruppi terroristici o pseudoterroristici detti “gruppi paralleli” venivano strumentalizzati per poi essere abbandonati o “bruciati”. Insomma, se non si veniva a creare il clima di caos e di violenza adatto alla bisogna, era proprio l’organizzazione a prendersi l’incarico di determinate l’atmosfera di tensione, Insomma la “strategia della tensione” in piena regola. Nell’inchiesta, poi regolarmente insabbiata, saranno coinvolti il colonnello Spiazzi, il generale Nardini di stanza a Verona ed esperto di guerra psicologica, il citato principe Alliata di Monreale, siciliano , massone, monarchico destrorso con agganci mafiosi e con glia americani e poi il direttore del SID Vito Miceli. Come abbiamo visto gli ultimi due erano coinvolti anche nell’inchiesta sul golpe Borghese e avevano avuto contatti con l’agente americano Stark, quello che conoscerà Curcio e altri brigatisti in carcere. Invocando il Segreto di Stato, sarà proprio Miceli a confermare in qualche modo l’esistenza di un’organizzazione che, in tutto e per tutto, era assimilabile a GLADIO. Ricordiamo anche l’affermazione del direttore del SID circa la sostituzione dei “rossi ” ai “neri” nell’ondata terroristica. Si rivelò profetico…
Nel 1976, il periodico “Tempo” diretto da Lino Iannuzzi vicino alle posizioni del socialista autonomista Mancini (che, a sua volta, in quel periodo flirtava sia con Andreotti che con personaggi dell’ultrasinistra) e dei radicali, pubblicò uno scoop secondo cui in Sardegna esisteva una base segreta, ad Alghero, ove venivano addestrati elementi alla guerriglia urbana. Fra essi molti estremisti di destra, ma anche di sinistra e pure feddayn arabi. La rivelazione si incastrava perfettamente con la testimonianza del presunto “gladiatore” Cavallaro: elementi estremisti venivano infiltrati in gruppi di vario colore per portarli sul terreno della violenza. Inoltre emergerà molti anni dopo che la base di Alghero non era altri che la base per l’addestramento dei “gladiatori”.
Il colonnello Bozzo, braccio destro del generale Dalla Chiesa nella lotta al terrorismo delle BR, a più riprese, ha lasciato intendere che, non solo il generale conosceva la GLADIO, il che non è una sorpresa se si pensa che era un alto ufficiale dei carabinieri, ma anche che la struttura era coinvolta nella “strategia della tensione”. La questione era emersa in due riprese: la prima, nel corso delle indagini sulle bombe a Savona del biennio 1974 – 1975, attentati attribuibili alla destra neofascista. Secondo il generale si poteva ravvisare un legame operativo fra servizi segreti deviati, massoneria, la destra neofascista e la criminalità comune organizzata. Probabilmente con il termine “massoneria” il generale alludeva proprio alla P2 o “raggruppamento Gelli” e per “criminalità comune organizzata” intendeva a quella “anonima sequestri” che, ai tempi, era composta da elementi della futura banda della Magliana, dai marsigliesi e dal clan del gangster milanese Turatello. Su tale intreccio aveva indagato il giudice Occorsio poi assassinato dai neofascisti di Ordine Nero. Secondo il generale Dalla Chiesa in questa rete vi si poteva scorgere l’attività di una struttura paramilitare antinvasione poi debordata in azioni illegali. Si tratta di un chiaro riferimento alla GLADIO. In una seconda ripresa il generale cercò di fare luce su un tentativo di depistaggio che indica va nel magistrato Beria D’Argentine come un capo delle BR. L’azione di depistaggio conteneva messaggi interessanti. Durante la guerra D’Argentine aveva fatto il triplo gioco fra la formazione partigiana “bianca” Franchi (quella di Sogno), la brigata comunista di Morandino e i repubblichini. Beria D’Argentine farà parte del cosiddetto “comitato dei 20” (qualche attinenza con la Rosa dei Venti?) in funzione anticomunista e composto dagli uomini vicini a Sogno ma, negli anni Settanta rifiuterà di prendere parte la tentativo di golpe “bianco” di Sogno, Pacciardi e Cavallo per il coinvolgimento di elementi di estrema destra. Quel depistaggio era un tentativo di vendicarsi per quel rifiuto. Riemerge l’ombra di quella struttura paramilitare che, secondo il generale ed il colonnello Bozzo, aveva avuto origine, sia dall’infiltrazione delle formazioni partigiane comuniste e di sinistra allo scopo di annientarle, sia dal controllo di quelle di tendenza opposta (riferimento probabilmente alla Franchi ma anche alla Osoppo ed alla Martini Mauri).
Come abbiamo visto l’organizzazione Pace e Libertà diretta da Sogno si era avvalsa della collaborazione di specialisti dell’infiltrazione e della provocazione come Dotti e Cavallo, entrambi con un passato da militanti comunisti e pure Beria D’Argentine era stato un partigiano comunista. Probabilmente il generale Dalla Chiesa pensava a Pace e Libertà o, forse, alla stessa GLADIO o forse ad entrambe, pensando fossero confuse nella stessa rete. Quel che è certo è che il generale pensava che le BR morettiane intrattenessero fitti rapporti con la scuola di lingue parigina Hyperion; che quest’ultima avesse rapporti con i sovietici ma anche con gli americani e con gli inglesi; che, forse, i rapporti con gli americani e gli inglesi passavano attraverso gli uomini di Sogno di cui sopra. In ogni caso Dalla Chiesa conosceva molti retroscena del caso Moro, era forse stato in contatto con il giornalista Pecorelli e non è inverosimile ritenere, in accordo con le dichiarazioni del superpentito di mafia Buscetta, che egli è stato ucciso dalla mafia siciliana e catanese su mandato di qualcun altro.
Sommariamente ripercorriamo la breve storia della GLADIO. Quando, durante l’ultimo conflitto mondiale, si stava profilando la vittoria degli Alleati e la sconfitta dei nazifascisti mentre aumentava la preoccupazione per l’espansionismo sovietico, americani ed inglesi cercarono l’alleanza con tutte quelle organizzazioni e con quei gruppi che osteggiavano i comunisti. In Italia ciò voleva dire anche la ricerca dell’alleanza con la mafia siciliana – che, ricordiamolo, attraverso quella italoamericana aveva collaborato allo sbarco alleato in Sicilia -, la criminalità organizzata e la
massoneria. Naturalmente la grande industria e finanza italiana avrebbero messo i soldi… Le formazioni partigiane bianche come la Franchi e la Osoppo vennero cooptate, ma vennero reclutati anche i neofascisti e molti elementi del corpo repubblichino della X Mas. Come abbiamo visto l’idea di reclutare i neofascisti era stata del numero due dell’americana OSS Angleton, futuro responsabile dell’operazione CIA denominata CHAOS. Così si formarono i primi nuclei paramilitari con l’adesione di elementi delle formazioni “bianche” ma anche fra molti neofascisti. In aggiunta c’erano le operazioni di infiltrazione e provocazione nell’estrema sinistra… Inizialmente la preoccupazione era quella di difendere la frontiera del nord est ai confini con la Jugoslavia di Tito, ma, successivamente, questa rete clandestina venne convertita per fini interni ed impedire l’avanzamento elettorale del PCI e delle sinistre. Negli anni successivi la CIA ed il SIFAR perfezionarono gli accordi di “collaborazione” e per la costituzione della rete paramilitari da inquadrare nella più estesa rete europea STAY BEHIND. Al 1952 risale il piano DEMAGNETIZE che prevedeva una serie di operazioni politiche, militari, paramilitari, economiche e psicologiche per contenere l’avanzata dei comunisti. E’chiaro che organizzazioni del tipo della GLADIO assumono un’importanza nel quadro di questo piano. L’accordo per la costituzione della GLADIO, sezione italiana della STAY BEHIND, nel quadro del Patto NATO avviene nel 1956 tramite un accordo siglato fra la CIA ed il SIFAR. Una parte importante nella messa a punto del piano ha il generale De Lorenzo, direttore del SIFAR e generale dei carabinieri gradito agli americani. Non verranno mai rese note le clausole segrete degli accordi segreti in ambito NATO e fra i servizi segreti americani ed italiani. Nominato in seguito capo di Stato Maggiore della Difesa il generale De Lorenzo appronterà il piano golpista Solo con l’intenzione di utilizzare la GLADIO. Al momento della costituzione della GLADIO verrà sciolta l’organizzazione filoamericana, filoinglese e filoatlantica di Sogno Pace e Libertà e ciò lascerebbe intendere che gli uomini di questa organizzazione siano entrati a far parte della GLADIO o, almeno, una parte di essi. Sembra che negli anni successivi la GLADIO sia stata utilizzata per infiltrarsi nei cortei sindacali e della sinistra per provocare violenze ed incidenti…
L’addestramento dei “gladiatori” venne curato, oltre che da istruttori militari italiani, da elementi delle forze speciali americane (Berretti Verdi e marines) e inglesi (SAS). Gran parte del finanziamento era di provenienza americana. Comunque, oltre che nel piano Solo il nome dell’organizzazione filoatlantica ricorre in altri episodi misteriosi, terroristici o criminali come la strage di piazza Fontana, la strage di Peteano, la Rosa dei Venti, la strage della Questura di Milano ( l’”anarchico” Bertoli compare in una lista di elementi “attenzionati” per essere reclutati nella GLADIO ed era in contatto con altri “anarchici” legati ai servizi segreti israeliani e con i neofascisti veneti di Ordine Nuovo), la morte dell’editore “rosso” Feltrinelli ( il quale, secondo alcune testimonianze, intratteneva rapporti con l’ambiguo MAR di Fumagalli che veniva fornito di armi ed esplosivo dai carabinieri della Divisione Pastrengo egemonizzati dalla P2, armi ed esplosivo presumibilmente provenienti da depositi destinati alla GLADIO), l’assassinio del commissario Calabresi, e, naturalmente l’affaire Moro.
Per quanto riguarda il caso Moro vi sono parecchie tracce che porterebbero a GLADIO. Vediamole ad una ad una.
1) Il sedicente “gladiatore” Antonino Arconte appartenente alla cosiddetta “GLADIO militare” distinta da quella “civile” è in possesso di un documento intestato al Ministero della Difesa datato 2 marzo 1978 in cui viene ordinato di contattare in Libano delle formazioni terroristiche (presumibilmente palestinesi) per collaborare alla liberazione dell’onorevole Moro. Il documento doveva pervenire nelle mani del già citato colonnello Giovannone, uomo vicino al piduista Santovito del SuperSISMI e in rapporti con l’OLP. Secondo Arconte lo stesso Giovannone sarebbe appartenuto alla GLADIO militare. Il fatto strano è che questa operazione viene ordinata un paio di settimane prima del sequestro a conferma che i servizi segreti italiani erano a conoscenza dei piani dell’operazione Fritz e che non fecero nulla per impedire il sequestro. Si vuole agire per una trattativa solo dopo il sequestro e non prima probabilmente per sfruttare politicamente la situazione. Ricordiamo che Giovannone compare nell’inchiesta del traffico d’armi fra OLP e BR che sarebbe stato “autorizzato” da un accordo fra CIA e SISMI. Lo stesso Stark era in contatto con formazioni armate libanesi. Paghera, il già citato militante di Azione Rivoluzionaria, avrebbe confessato che Stark gli aveva fornito la piantina di un campo di addestramento per terroristi nella valle della Beekaa appartenente al gruppo libanese sciita Amal. A proposito di rapporti fra SISMI e organizzazioni arabe o palestinesi lo stesso Moro, in una delle sue lettere avrebbe citato sia il colonnello Giovannone (in buoni rapporti con l’OLP) sia il generale Miceli (in buoni rapporti con la Libia di Gheddafi) come possibili canali di trattativa con le BR. Il futuro direttore del SISMI Martini ammetterà che i servizi segreti del Patto NATO, compresi gli stessi americani, intrattenevano rapporti di diplomazia segreta con i paesi arabi per non scontentare gli israeliani.
2) Il sedicente “gladiatore” Ravasio rivelerà che nei pressi del luogo dell’agguato alla scorta di Moro era presente il colonnello Guglielmi, il quale, secondo Flamigni, era stato un addestratore della GLADIO. Vi era stato mandato dal capo dell’Ufficio Protezione e Sicurezza del SISMI generale Musumeci piduista e numero due di Santovito. Poiché è impensabile che un uomo solo dovesse agire contro un commando di terroristi è presumibile che fosse lì come osservatore con l’ordine di non intervenire.
3) Nel covo brigatista di via Gradoli 96 che, ricordiamo, era circondato da appartamenti di proprietà del SISDE e del Ministero degli Interni e che era stato “bruciato” in concomitanza con il falso comunicato del lago della Duchessa vennero rinvenuti proiettili con una verniciatura speciale dello stesso tipo di quelli rinvenuti in vi Fani. In un documento della Questura di Roma declassificato solo nel 1998 si specifica che questi proiettili proverrebbero da un deposito per forze armate non convenzionali sito nell’Italia centrosettentrionale le cui chiavi sarebbero state nella disponibilità di soli sei individui. Si trattava probabilmente di una cellula della GLADIO o di un’organizzazione paramilitare e di guerriglia simile. Ma come mai questi proiettili sono finiti in un covo brigatista, anzi nel covo in cui abitava il capo delle BR Mario Moretti? Nessuno l’ha mai spiegato. Le uniche spiegazioni possibili possono essere che Moretti era in contatto con qualcuno che, a sua volta, era in rapporti con la GLADIO o altra organizzazione simile, oppure che egli stesso avesse rapporti diretti con la rete paramilitare atlantica. C’è da aggiungere poi che proiettili dello stesso tipo sono stati utilizzati per assassinare il giornalista Mino Pecorelli, proiettili che sono risultati provenire dal deposito d’armi della Banda della Magliana stipato nel Ministero della Sanità. Come abbiamo visto esponenti della banda intrattenevano rapporti con i servizi segreti italiani e c’è il sospetto che, nello stesso tempo, intrattenessero rapporti con le BR.
4) Una stampatrice proveniente dal RUS del SISMI, l’ufficio che si occupava della gestione dei corpi speciali come GLADIO, era finita nella tipografia di via Foà dove venivano stampati i volantini delle BR e di gruppi appartenenti all’ultrasinistra e all’Autonomia. Secondo il titolare della tipografia, tale Triaca sarebbe stato Moretti stesso a portare la stampatrice. Ancora una volta una traccia che porta alle BR, porta anche al SISMI e alla GLADIO. Poi secondo la giornalista Di Giovacchino
anche il falsario in rapporti con la banda della Magliana Chichiarelli si sarebbe servito della stessa tipografia e di quella stampatrice per produrre il falso volantino del lago della Duchessa. Se ciò risultasse vero si profilerebbero rapporti ambigui fra SISMI – GLADIO – BR – banda della Magliana anche alla luce di quanto detto al punto 3. Ma non è finita… Per difendersi Triaca si sarebbe rivolto all’avvocato Cascone. E chi sarebbe questo Cascone? Secondo l’informatissimo Cipriani egli avrebbe fatto parte della rete informativa dell’Ufficio Affari Riservati del Viminale capeggiata da Lino Ronga detta degli “extraparlamentari del Viminale” perché costituita da appartenenti a gruppi dell’estrema sinistra. Ronga era stato militante del PCI e poi, dopo la delusione per i fatti d’Ungheria si era spostato più a destra e si era iscritto al PSDI. Era stato “attenzionato” proprio da Santovito per un eventuale reclutamento nella GLADIO. Cascone, invece, era ben inserito negli ambienti che ruotavano intorno a Feltrinelli le cui posizioni erano, quindi ben conosciute dall’Ufficio Affari Riservati del Viminale a partire dal 1967 e ricordiamo che non è tutto ben chiaro sulla morte di Feltrinelli… L’eminenza grigia dell’Ufficio Affari Riservati D’Amato, uomo ben inserito nell’organigramma NATO, si era reso protagonista, nella metà degli anni Sessanta, dell’operazione “Manifesti cinesi” utilizzando i neofascisti dell’organizzazione di Delle Chiaie Avanguardia Nazionale camuffati da “maoisti” per affiggere manifesti allo scopo di provocare scissioni e contrasti nella sinistra. Furono proprio militanti di Avanguardia Nazionale ad infiltrare il Movimento Studentesco del Sessantotto con il cosiddetto “nazimaoismo” allo scopo di estremizzare i movimenti giovanili. Il pacciardiano e “nazimaoista” Dantini, esperto di esplosivi, era nella lista di “attenzionati per il reclutamento nella GLADIO e risulterà coinvolto nel tentativo di depistare le indagini sulla strage di Piazza Fontana. Peraltro la stessa Avanguardia Nazionale verrà coinvolta nella strage di Piazza Fontana e nelle indagini sulle bombe romane del 12 dicembre 1969.
Come abbiamo visto la figura di D’Amato risulta controversa: uomo della CIA e amico di quell’Angleton, già reclutatore di neofascisti in funzione anticomunista e direttore dell’operazione CHAOS con fini di provocazione. Ciò farebbe pensare ad un suo ruolo nella “strategia della tensione” strumentalizzando sia i gruppi dell’estrema destra che quelli dell’estrema sinistra. Durante i 55 giorni del sequestro Moro, risulta che fosse consigliere del Ministro Cossiga.
5) I brigatisti rossi Morucci e Faranda legati a quella fazione vicina all’Autonomia Operaia per la loro pregressa militanza in Potere Operaio e favorevole alla trattativa per la liberazione di Moro sfruttando gli agganci con il PSI si servirono di un perito di parte per la loro difesa: Marco Morin, ex militante di Ordine Nuovo, già arrestato anni prima ma rilasciato per detenzione di esplosivi. Il suo nome compare nella già citata lista di elementi “reclutabili” da GLADIO. Non solo… Anni prima fu coinvolto nel tentativo di depistaggio delle indagini sulla strage di Peteano cercando di sviare l’attenzione da Ordine Nuovo, organizzazione di cui faceva parte, per indirizzarla sui “sinistrorsi” di Lotta Continua. Come è noto nei tentativi di depistaggio fu coinvolta la Divisione dei carabinieri Pastrengo, inquinata dalla P2 e implicata nella fornitura d’armi al MAR dell’ex partigiano “bianco” Fumagalli vicino alle posizioni di Sogno e Pacciardi. Lo stesso Morucci era stato arrestato per possesso di materiale esplodente nel 1974, quando militava in Potere Operaio ma poi rilasciato… Ma com’è possibile che due brigatisti “rossi” si affidino ad un ordinovista “nero”, il più pericoloso nemico di classe? La domanda è destinata a rimanere senza risposta, ma si può fare un’ipotesi su quale fosse l’interesse di Morin. Nell’appartamento in cui furono arrestati i due brigatisti fu trovata la mitraglietta Skorpion utilizzata per assassinare Moro. Da dove veniva quell’arma? Possiamo fare ipotesi, supposizioni… Secondo l’ammiraglio Martini nei depositi NASCO della GLADIO c’era un certo numero di armi di fabbricazione sovietica e cecoslovacca. Il contractor CIA Brenneke, in un certo senso, ha confermato l’affermazione di Martini ammettendo di aver acquistato armi direttamente in Cecoslovacchia per conto dell’agenzia americana. D’altronde sappiamo anche che tentativi di infiltrazione in paesi del Patto di Varsavia come la Cecoslovacchia erano andati a buon fine come dimostrato dalla vicenda di Dotti, uomo di Sogno ed ex militante della Volante Rossa. Subito dopo l’agguato in via Fani venne diffusa la voce dell’uso di armi di fabbricazione sovietica e cecoslovacca da parte dei brigatisti nel chiaro intento di far ricadere le responsabilità sul KGB sovietico. Si può ben presumere quali fossero gli ambienti interessati a far circolare tale voce… Ma intanto ci chiediamo se fosse possibile che le BR avessero utilizzato nell’operazione Fritz armi di fabbricazione cecoslovacca provenienti da depositi dell’organizzazione atlantica e, quindi, filoamericana GLADIO?
Come si può vedere c’è più di una traccia che porta alla GLADIO il cui ruolo nella vicenda, che appare inquietante, deve essere chiarito…
Un paio di anni fa un presunto e sedicente “gladiatore” (nome in codice Fantasmino) fece nuove rivelazioni che non furono prese molto sul serio, ma che, alla luce di quanto già visto e analizzato, assumono maggiore importanza. Al giornale Unione sarda disse che faceva parte di una GLADIO militare con compiti di soppressione fisica di personaggi della sinistra italiana e con posizioni di contrasto con la NATO. Ma vediamo la parte dei rivelazioni che ci interessa
“In caso di attacco sovietico, l’intera nomenclatura, con intesta Berlinguer e Lama dovevano saltare. Un lungo elenco di personalità da spegnere era nelle mani delle BLUE LIGHT, un nucleo di 150 militari statunitensi, super addestrati e assolutamente privi di qualsiasi scrupolo. Vede, questi signori studiavano e si preparavano con noi, nelle basi logistiche di Milano, vicino Napoli e Verona. Da loro avevamo appreso le tecniche per sopprimere, infiltrare e quant’altro Erano, come dire, dei dormienti. Seguivano passo per passo i vertici comunisti, stando bene attenti a restare lontani dalle forze dell’ordine. Il loro fine era la destabilizzazione del paese per ricondurlo a posizioni più filoamericane magari spostando l’elettorato con una serie di operazioni sporche da addebitare alle Brigate Rosse. In realtà si muovevano parallelamente alle BR ma erano molti più letali. Il caso Moro, giusto per citarne uno. Nessuno di noi ha mai creduto alle Brigate Rosse. Non erano all’altezza di mettere in atto un’operazione militare di tale livello. Più verosimile che alcuni snipers BLUE LIGHT (cecchini) abbiano ucciso gli autisti e i carabinieri seduti a fianco nelle due auto sparando con armi ad altissima precisione da almeno quattrocento metri di distanza. Erano capaci, come noi d’altronde, di colpire il bersaglio anche a ottocento metri. Quindi, hanno lasciato il campo al commando brigatista. Vorrei porre un quesito: perché non è mai stata resa nota la perizia balistica sulle armi usata in vi Fani? Chi avrebbe dovuto dirlo non lo ha mai detto . Era meglio che non si sapesse. Le BLUE LIGHT dovevano continuare ad agire nell’ombra e l’Italia non poteva mettere in discussione nulla con la NATO. Far credere che le Brigate Rosse avessero progettato, organizzato e messo in atto il sequestro e l’omicidio del leader politico, era più semplice e conveniente. Per tutti.”
Innanzitutto conviene parte di quello che ha detto Fantasmino con le molle anche perché, se è vero che lui stesso è coinvolto nella GLADIO militare, viste le probabili responsabilità di questa struttura nell’affaire Moro, potrebbe avere qualche interesse a istradare sulla pista americana. E poi è possibile che i marines “antiterrorismo” e componenti delle forze speciali americane di cui si è parlato facesser
o parte delle fantomatiche BLUE LIGHT, questa sorta di GLADIO americana operante in Italia? Ciò lo lascia supporre, ma Pecorelli, ad esempio, scrive di un nucleo di 50 militari, mentre Fantasmino parla di 150 componenti. Naturalmente è possibile che dopo il gennaio del 1976 siano arrivati gli altri 100, oppure che si stia trattando di cose fondamentalmente diverse e cioè da una parte dei militari con reali funzioni di antiterrorismo (di cui tratta Pecorelli) e dall’altra cecchini che sfruttano le BR come copertura per le loro operazioni (di cui parla Fantasmino). Sembra paradossale ! Certo Fantasmino fornisce alcune spiegazioni interessanti su domande che ci siamo posti: ad esempio com’è possibile che l’arrivo degli esperti americani di guerriglia e antiterrorismo abbia poi coinciso con una fase di escalation del terrorismo brigatista e di minima repressione da parte dello Stato? Perché, secondo il sedicente “gladiatore”, i componenti di queste forze speciali americane dovevano servirsi delle BR come copertura e perché lo Stato non poteva mettere in discussione l’Alleanza Atlantica lasciando, di conseguenza, agire le fantomatiche BLUE LIGHT. Infatti reprimendo il terrorismo brigatista si sarebbe dovuto reprimere anche quello degli americani delle BLUE LIGHT. La questione della partecipazione di due diversi commandos nell’agguato di via Fani non è una novità. Anche il giornalista Viglione, un personaggio simile a Pecorelli, coinvolto nel citato depistaggio ai danni del magistrato Beria D’Argentine, aveva cercato di accreditare questa versione e cioè che la soppressione della sorta di Moro fosse stata opera di un differente commando “brigatista” e in quell’occasione Viglione parlò di carabinieri e poliziotti probabilmente con fini depistanti. E’ certo che l’operazione Fritz non ebbe uguali nella storia del terrorismo in un paese dell’Europa occidentale e che vi partecipò un cecchino di grandissima precisione e professionalità mai individuato. Secondo il generale Serravalle, già capo della GLADIO dal 1970 al 1974, esistevano pochissimi individui con quelle capacità. Forse è più logico pensare alla partecipazione di due o tre elementi estranei alle BR, individui con un addestramento superiore e che potrebbero far pensare a Berretti Verdi e marines come Hauser o il misterioso David, piuttosto che ad un commando. D’altronde lo stesso Fantasmino ammette che gli americani della BLUE LIGHT erano esperti nelle tecniche di soppressione ed infiltrazione. Abbiamo già ricordato più volte la falsa identità di Hauser. Per il resto quanto scritto da Flamigni, il documento del libro di Willan, l’articolo di Pecorelli, la dichiarazione di Galloni e, ora, le rivelazioni del “gladiatore” Fantasmino si inseguono e si incastrano perfettamente. Quindi riassumiamo i punti fondamentali che andrebbero verificati.
1) A partire dagli inizi del 1976 arriva un nutrito gruppo di membri delle forze speciali americane apparentemente con funzioni di antiguerriglia e antiterrorismo. Questi “esperti” coopererebbero con le forze di sicurezza e con i servizi segreti italiani.
2) Parte di questi militari si sarebbe infiltrato nelle BR, magari sfruttando false identità di terroristi della RAF, ma costoro non avrebbero fornito gli elementi per scoprire i covi brigatisti.
3) Per contro l’attività degli infiltrati sarebbe stata, piuttosto, quella di lasciar fare o, peggio, di fornire alle BR le capacità militari necessarie sia a fini generalmente destabilizzanti per impedire l’avvicinamento fra DC e PCI, sia per eliminare Moro il maggiore artefice di tale linea politica.
4) I servizi segreti italiani e le forze di sicurezza che, ricordiamolo, in quel periodo erano egemonizzate dalla P2, sarebbero state a conoscenza dell’attività dei “marines” ma avrebbero taciuto ai vertici politici per la loro fedeltà all’atlantismo, dettata dagli accordi segreti degli anni Cinquanta, e perché l’eliminazione di Moro coincideva con gli obiettivi piduisti.
Peraltro dobbiamo ancora trattare del Field Manual 30 – 31 B “manuale di campo” delle forze speciali americane e della P2 di Licio Gelli, il suo ruolo nella vicenda
Un ultima curiosità: da quanto emerso sia gli americani delle BLUE LIGHT, che gli appartenenti alla GLADIO militare, alla Rosa dei Venti e alla rete di agenti italiani del servizio segreto militare americano inseriti nell’organizzazione terrorista e neofascista Ordine Nuovo fanno capo alla base militare americana di Verona. Inoltre gli americani delle BLUE LIGHT frequentavano anche la base di Napoli che, ricordiamolo, secondo Cossiga, aveva tenuto a battesimo la loggia coperta P2 dedita all’oltranzismo atlantico e filoamericano e a cui, a quanto pare faceva riferimento la misteriosa struttura dei servizi segreti italiani ANELLO di ci ben poco si sa, ma che sembra coinvolta nelle trattative dei sequestri brigatisti Moro e Cirillo. Se queste informazioni fossero confermate dovremmo ammettere che tutti questi gruppi facevano capo ad una stessa struttura NATO pesantemente implicata nella strategia della tensione in Italia: pensiamo infatti alle infiltrazioni delle fantomatiche BLUE LIGHT nelle BR prima del sequestro Moro, all’attività dei “gruppi paralleli” legati alla Rosa dei Venti e al terrorismo stragista di Ordine Nuovo emerso nelle inchieste su Piazza Fontana, la Questura di Milano e Piazza della Loggia. Aggiungiamoci poi la P2…
Prima di proseguire, allora, formuliamo alcune domande sul caso Moro.
1) E’vero che agenti americani, con buona probabilità appartenenti alle forze speciali o al servizio segreto militare, si infiltrarono nelle BR alla vigilia dell’operazione Moro?
2) E’ vero che, lungi dalla volontà di arrestare l’attività brigatista, essi fornirono la preparazione militare e, forse parteciparono essi stessi all’agguato in via Fani?
3) E’ vero che essi contattarono le BR utilizzando false identità di terroristi tedeschi ritenuti in gran considerazione per le capacità militari?
4) E’vero che furono gli uomini della scuola di lingue Hyperion, centro di coordinamento del terrorismo internazionale, mediare fra i brigatisti rossi e i falsi terroristi tedeschi?
5) E’vero che tale mediazione avvenne con la collaborazione di uomini dei Comitati di Resistenza Democratica legati a Sogno, uomini con un passato comunista come Cavallo?
6) E’vero che, in qualche modo, l’organizzazione atlantica GLADIO collaborò alla riuscita del sequestro?
7) E’ vero che i membri della P2 inseriti nei Comitati di Crisi agirono in modo tale da portare il sequestro a determinate soluzioni e da depistare le indagini?
8) Infine è vero che, nella circostanza la criminalità organizzata giocò un ruolo ambiguo fra i servizi segreti italiani e le BR?
Da ultimo a proposito delle presenze della criminalità organizzata e comune nell’affaire Moro ricordiamo, oltre alla banda della Magliana, il coinvolgimento nelle “trattative”, poi abortite, della mafia italoamericana, della mafia siciliana legata a Pippo Calò, della camorra di Tutolo, dell’ndrangheta e degli uomini del gangster Turatello. Inoltre per rilanciare l’offensiva brigatista a metà degli anni Settanta Moretti, oltre a prendere in affitto il famoso appartamento in via Gradoli 96, compì due viaggi in Sicilia ed in Calabria e, precisamente, a Catania e a Reggio Calabria senza avvertire gli altri membri dell’organizzazione. Presumibilmente si incontrò con esponenti della mafia siciliana e dell’ndrangheta calabrese e ciò alla vigilia dell’omicidio del giudice Coco e anche prima dell’operazione Moro. A lungo si è parlato della partecipazione di uno o due esponenti dell’ndrangheta al sequestro. C’è poi da dire che l’ala “trattativista” delle BR , quella di Morucci, era in rapporti con gli Autonomi calabresi raccolti intorno alla rivista Metropoli, finanziata da esponenti del PSI come Mancini, e questo gruppo non avrebbe disdegnato di avere contatti con l’ndrangheta…
Passiamo ora alla P2, a Gelli e al Field Manual 30 – 31 B…
Nel giugno del 1982 la figlia di Gelli, Maria Grazia ven
ne fermata all’aeroporto di Fiumicino. Nel doppio fondo della valigia nascondeva alcuni documenti molto scottanti: il Piano di Rinascita Democratica, Il Memorandum sulla situazione politica italiana e… il Field Manual 30 – 31 B, appunto… Si trattava di un chiaro messaggio, un ricatto posto in essere dal Gran Maestro della loggia P2 verso quegli ambienti italiani, ma, presumibilmente, pure americani che, dopo essersi servito di lui, intendevano scaricarlo. D’altronde lo stesso ineffabile Cossiga affermò che, al momento opportuno, gli americani scaricarono Gelli. Ricordiamo che, ormai, la situazione politica italiana si era stabilizzata: la prospettiva di un avvicinamento fra DC e PCI era ormai sfumata, era stata trovata la stabile formula politico governativa “centrista” del cosiddetto “pentapartito” (DC, PSI, PSDI, PRI e PLI) con il ridimensionamento della vecchia classe politica democristiana considerata corrotta e troppo “aperta” a sinistra e il maggior peso della componente laica con l’ascesa del leader socialista Craxi, il quale, già ai tempi della Presidenza USA di Ford, era guardato con attenzione dagli americani e ora riscuoteva successo fra i neoconservatori e i repubblicani reaganiani per il suo acceso “anticomunismo”. In precedenza l’ala “autonomista” craxiana si era avvicinata alle posizioni del Piano di Rinascita Democratica di Gelli soprattutto per quel che riguardava la riforma istituzionale in senso presidenzialista e veniva finanziata dalla P2 tramite il Conto Protezione dell’UBS intestato a Claudio Martelli, il delfino di Craxi. Non è un caso che vi sia continuità fra Gelli, Craxi e poi Berlusconi nell’abbracciare determinate posizioni piduiste e filoamericane, ma di un americanismo che faceva, fa riferimento a certi ambienti.
Comunque è sicuro che da qualche tempo, certamente dalla perquisizione di Villa Wanda avvenuta un anno prima, Gelli fosse in difficoltà. Proprio nel giugno del 1982 verrà ritrovato impiccato a Londra il banchiere piduista Roberto Calvi, Presidente del banco Ambrosiano, che, come in seguito emergerà, era stato assassinato da sicari legati alla mafia di Pippo Calò il “cassiere”, alla camorra e alla banda della Magliana. Qualche tempo prima era stato il vicepresidente dell’istituto, Rosone, ad essere stato fatto oggetto di un attentato fallito e attuato da un esponente della banda della Magliana, già in rapporti con i marsigliesi e il gangster milanese Turatello. Secondo un rapporto del SISMI la morte del banchiere Calvi sarebbe stata decisa in una villa svizzera durante un incontro fra lo stesso Gelli, il numero due della P2 Umberto Ortolani anche Cavaliere di Malta e con buone entrature in Vaticano e nella “mafia texana” (a cui certo apparteneva la famiglia Bush), Francesco Pazienza, uomo del cosiddetto SuperSISMI vicino al neoconservatore americano Ledeen e Flavio Carboni riciclatore di denaro sporco per conto di Pippo Calò e dei boss della Magliana. Difficile da dimostrare, ma è certo invece l’intento del Gelli di inviare messaggi agli ambienti “puliti” che, magari, erano usciti indenni dallo scandalo della scoperta della loggia P2 pur essendo gravemente coinvolti, ambienti massonici, del Vaticano, della politica italiana e americana, ecc… Calvi era il banchiere della P2, in rapporti stretti sia con Gelli che con Ortolani e socio della Banca Privata del finanziere mafioso Michele Sindona e dello IOR, l’istituto vaticano diretto da monsignor Marcinkus. Quest’ultimo è un altro personaggio inquietante che appare ai margini della vicenda: indicato dal medico militare piduista Matteo Lex come egli stesso iscritto alla P2 e alla massoneria, un biglietto con il recapito telefonico di Marcinkus venne trovato nell’abitazione in cui furono arrestati i brigatisti Morucci e Faranda. Tra gli altri venne anche trovato il recapito dell’Università Pro Deo fondata dal padre Felix Morlion, frate domenicano che aveva lavorato per gli Alleati durante la guerra prima in funzione antinazista e poi anticomunista. Giulio Andreotti era stato il suo segretario particolare prima di diventare collaboratore di De Gasperi e probabilmente fu questa la spinta per la sua carriera politica. Secondo un vecchio articolo dell’Espresso Morlion frequentava la scuola di lingue parigina Hyperion più volte incontrata e legata alla “sovversione” internazionale di sinistra. Si pensa che, generalmente, Morlion fosse un “uomo” di D’Amato, l’eminenza grigia dell’Ufficio Affari Riservati del Vicinale poi consulente di Cossiga durante il sequestro Moro. Aggiungiamo poi che Silvano Larini, esponente del PSI vicino a Craxi associò la rivelazione che Simioni, ex “compagno”di partito, era il vero capo delle BR con quella secondo cui il Banco Ambrosiano e, quindi, anche lo IOR, finanziavano Solidarnosc, il sindacato polacco dei dissidenti contrari al regime comunista. Ma perché questo accostamento? Gli stessi canali finanziari e, quindi, il piduista Banco Ambrosiano e lo IOR oltre a riciclare i capitali mafiosi e della criminalità organizzata, oltre a finanziare Solidarnosc e foraggiare il PSI craxiano, finanziavano anche le attività dell’Hyperion e delle BR? Domande destinate a rimanere senza risposta, ma basti pensare all’assassinio del giudice Alessandrini, il quale stava per aprire un’inchiesta sugli illeciti finanziari del Banco Ambrosiano e poi venne freddato dai “rossi” di Prima Linea. Si seppe poi che il colonnello dei carabinieri Mazzei, iscritto alla P2 e in rapporti con un professore aderente a Prima Linea, dopo aver rassegnato le dimissioni, venne assunto proprio dal Banco Ambrosiano, forse per solidarietà fra “confratelli”. In precedenza Prima Linea aveva rivendicato il “rapimento” del solito Cavallo, a quel tempo in gravi guai giudiziari per il coinvolgimento del tentativo di “golpismo” presidenzialista di Sogno. Riparò proprio a Parigi dove c’era la sede dell’Hyperion… Ma torniamo indietro di qualche anno negli anni…
Dopo il crac della Banca Privata, Sindona cercò di mobilitare tutte le risorse necessarie. Era sicuramente l’uomo delle finanze della mafia italoamericana e sicula per il “lavaggio” dei proventi dei traffici di droga, ma godeva di ottime entrature nell’amministrazione del Presidente americano Nixon. Probabilmente non è un caso che le sue fortune finirono con lo scandalo Watergate che travolse Nixon. Il direttore del SID Miceli, altro uomo piuttosto gradito all’amministrazione Nixon, presentò Sindona a Gelli. Egli era infatti conoscente sia del Gelli che di Sindona e proprio il Gran maestro della P2 aveva influito sulla nomina di Miceli ai vertici del SID. Così anche Sindona si iscrisse alla P2. Per impedire l’estradizione di Sindona dagli Stati Uniti d’America alcuni influenti personaggi di chiaro orientamento firmarono un affidavit, dichiarazione giurata con valore legale. Fra i firmatari ricordiamo oltre al solito Gelli, Philip Guarino prete spretato italoamericano, massone, mafioso, legato alle lobbies italoamericane, presidente del comitato elettorale del Partito repubblicano per le elezioni che portarono alla presidenza Ronald Reagan e buon amico di Gelli, John Maccaffery anch’egli massone e già agente segreto del servizio segreto inglese durante la guerra e socio in affari di Sindona e il solito “atlantista” Edgardo Sogno. Insomma si ritorna al solito intreccio con radici storiche nella Seconda Guerra Mondiale fra americani, inglesi ed italiani.
Nel momento in cui finirono le fortune di Sindona, cominciarono quelle di Gelli. Pur legati agli stessi ambienti americani ed atlantici Gelli e Sindona erano i referenti di diversi gruppi economico – politico – mafioso – criminali. Sindona, come abbiamo visto, era il referente economico della mafia italoamericana e della vecchia mafia siciliana perdente dei Bontade e Badalamenti e in ottimi rapporti con vecchi repubblicani nixoniani e i democristiani andreottiani mentre Gelli era inserito nella massoneria internazionale, aveva agganci con gli elementi di quella Nuova Destra che prefigurerà l’elezione di Reagan alla presidenza USA e con i servizi segreti italiani e, probabilmente americani. Inoltre stava ten
tando di “aprire” ai socialisti craxiani ed anticomunisti e secondo il pentito Mannoia, era, con Calvi il “riciclatore” per conto degli elementi della nuova mafia dei Corleonesi, di Pippo Calò e della banda della Magliana. Non è forse un caso che questa componente mafiosa abbia dimostrato maggiori tendenze terroristiche di quella “perdente”. Alla fine degli anni Settanta Gelli tenterà di fare opera di proselitismo per la massoneria fra i mafiosi siciliani. Se Gelli tentava di penetrare nelle istituzioni italiane allo scopo di stravolgere la Costituzione, Sindona voleva promuovere, con il concorso della mafia e della massoneria siciliana, un movimento separatista in Sicilia. Per spingere i propri alleati – avversari a dare una sistemazione ai propri guai finanziari e giudiziari, Sindona cominciò a silurare Calvi, il banchiere di fiducia della P2, di Gelli e di Ortolani servendosi dell’opera del solito Cavallo, il provocatore di professione e fu “grazie” a lui che cominciarono ad essere scoperchiate le operazioni della triade piduista e mafiosa composta da Marcinkus, Sindona e Calvi. Ma i tentativi di ricatto di Sindona non si fermarono qui. Dopo aver fatto assassinare il liquidatore della Banca Privata avvocato Ambrosoli Sindona organizzò un falso rapimento pseudobrigatista con il concorso di mafiosi italoamericani legati alla potente famiglia Gambino, massoni italoamericani e mafiosi siciliani. Secondo una tesi piuttosto accreditata Sindona doveva farsi restituire i capitali mafiosi perduti ricattando importanti personaggi che avevano fatto esportare illegalmente i loro capitali con la celebre “lista dei 500”, ma Sindona asserì di essere stato mandato in missione per conto dell’ammiraglio Haig, già pezzo grosso dell’amministrazione Nixon, massone, vicino al CSIS e, dal 1976 al 1979, capo militare della NATO. L’obiettivo sarebbe stato quello di creare un movimento separatista e filoamericano in Sicilia in vista dell’istallazione dei missili Cruise a Comiso. Comunque sia l’accostamento del falso rapimento brigatista di Sindona e quello dell’onorevole Moro rimane piuttosto inquietante per il ricorso dei comunicati e gli appelli dei “rapiti”. Poteva esserci stata la mano di Cavallo nel falso rapimento di Sindona? Il tramite fra Sindona e Gelli fu il medico italoamericano massone Miceli Crimi, colui che sparò ad una gamba di Sindona per dare credibilità al falso rapimento. Fu questo l’anello che condusse i giudici milanesi Colombo e Turone che indagavano sul falso rapimento di Sindona a Gelli e alla scoperta della loggia P2. Un altro fatto curioso fu che il banchiere di Patti, prima di andare in Sicilia, fece tappa a Vienna. Doveva forse prelevare dei documenti scottanti? Non possiamo saperlo, ma è interessante sapere che, prima di andare a Londra, anche Calvi voleva fare tappa a Vienna. Cosa poteva esserci a Vienna? Stupisce il fatto che nessuno abbia tentato di fare un parallelo fra il “viaggio” di Sindona e quello di Calvi anche se il primo si fece aiutare dai mafiosi italoamericani e siciliani, mentre il secondo si servì della banda della Magliana e mente nel primo caso ci fu collaborazione, nel secondo Calvi fu “tradito”. Inoltre vale la pena ricordare che Sindona e Calvi erano stati soci nelle operazioni finanziarie a base di “scatole cinesi”.
H.S.
Fonte: http://cloroalclero.blogspot.com/
Link: http://cloroalclero.blogspot.com/2007/06/laffaire-moro-esclusivo-i-parte.html
08.06.2007