RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI SPECIALE 25 APRILE 1945
A cura di Manlio Lo Presti
Esergo
Bisognerebbe mandare al governo coloro che non amano il potere.
(Platone)
CAPELLI (Ed), Il libro aperto degli aforismi, Rubbettino, 2015, pag. 259
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SOMMARIO
L’Italia continua a “DIMENTICARE” il proprio passato
25 APRILE, FU VERA GLORIA?
Perché non celebro il 25 aprile
Liberiamoci da questa Liberazione
VENTICINQUE APRILE: STORIA MALTRATTATA E REALTÀ DIMENTICATA
25 aprile e retroguardia
“Il segreto d’Italia” sulle stragi partigiane a Codevigo ricostruisce «fatti reali»
IL NOSTRO 25 APRILE
Non fu la resistenza a liberare l’Italia ma solo gli alleati
L’Europa ha dimenticato da chi è stata liberata
Cancellare il 25 aprile. Per tornare a parlare di presente (e futuro)
L’Italia s’è desta ma non s’è liberata, l’hanno fatto gli Alleati
IL 25 APRILE NON C’È STATA ALCUNA LIBERAZIONE: DITELO ALLA DONNA ITALIANA STUPRATA DA 100 AFRICANI
QUANDO E DA CHI FURONO LIBERATE LE CITTÀ DELL’ITALIA DEL NORD
Compagno mitra, le stragi dei partigiani
I sette fratelli Govoni, uccisi dopo una notte di torture dai partigiani rossi
I partigiani di via Rasella furono eroi? Dibattito ancora aperto da affrontare senza pregiudizi
Porzus, la “strage partigiana”
La verità su S’Anna di Stazzema
CRIMINI DEI PARTIGIANI COMUNISTI IN ITALIA
RAPPRESAGLIE PARTIGIANE
Un libro racconta le atrocità dei partigiani. L’Anpi non ci sta e querela l’autore
Le stragi
2365 DONNE STUPRATE, TORTURATE E UCCISE COME “COOPERATRICI” DOPO IL 25 APRILE
Orrori dei partigiani comunisti
Eccidi di ex partigiani nella Bassa bolognese
Le vittime dimenticate di quegli assassini comunisti infiltrati tra i partigiani
Sitografia “contro e malgrado” il 25 aprile – A cura di Manlio Lo Presti
EDITORIALE
L’Italia continua a “DIMENTICARE” il proprio passato
Manlio Lo Presti – 25 aprile 2020
Grazie al contributo di un picco numero di studiosi, il nostro Paese ha dovuto fare i conti con un passato volutamente cancellato per far posto ad una “Vulgata ad usum Delphini” scritta quasi interamente dai collaboratori di Togliatti che, con la sua lunga strategia di occupazione del potere che ha dovuto sostituire con la presa armata del Paese, ha desertificato la cultura italiana incluso il tema della c.d. liberazione.
Si è trattato di una formidabile ed abilissima COVERT OPERATION ante litteram attuata per appropriarsi della storia italiana in chiave partigiana eliminando sistematicamente tutte le fonti “contro e/o malgrado” il vangelo canonico della Resistenza.
Questi studiosi sono stati democraticamente minacciati e anche sparati, ma ormai il processo di rettifica delle storie a senso unico era partito nonostante i moltissimi ostacoli costituiti da minacce, denunce, deviazioni, depistaggi, silenzi, omertà.
La retorica “partigiana” andava molto bene anche alle forze di occupazione angloamericane che vedevano di buon occhio la diffusione di una versione ingegnerizzata della storia postbellica e pre-guerra fredda che ha avuto l’effetto voluto di oscurare il peso delle truppe alleate e russe (mai citate) alla liberazione dell’Europa dell’Italia.
Gonfiare il numero dei partigiani fu un’altra COVERT OPERATION per mischiare le carte, per ammettere al banchetto sulla pelle dei vinti gli “amici degli amici” saccheggiando migliaia di famiglie borghesi per spogliarle delle proprietà e violentandole in massa le donne.
Il ruolo militare e bellico dei c.d. partigiani fu – salvo eccezioni – marginale e fu utilizzato dagli alleati per azioni di disturbo sapendo che tali raggruppamenti non avevano alcuna possibilità di realizzare operazioni di annientamento delle addestratissime forze tedesche e degli italiani ex militari della R.S.I.
L’onda lunga lunga togliattiana che si è impossessata delle università, della magistratura e del cinema (dove ha fabbricato in vitro i grandi registi che si sono fatti largo con i temi resistenziali, come da stile Tavistock Institute), per creare sartorialmente il prodotto RESISTENZA, con la connivenza degli USA, dei partiti di governo e dell’opposizione del tempo e negli anni successivi.
Ogni anno che passa vediamo che il velo obnubilante si squarcia sempre di più e consente di fare studi seri sugli eventi poco chiari che avvennero dal fascismo all’immediato dopoguerra, evidenziando i saccheggi di massa contro famiglie che non erano fasciste ma avevano beni e ricchezze depredate con violenza, stupri e migliaia di omicidi.
Anche questa è storia. Anche questi fatti dimenticati sono l’altra faccia della medaglia e hanno pari diritto di essere argomentati, discussi, studiati, analizzati al pari della stermina VULGATA RESISTENZIALE troppo orientata da una parte sola.
Che questa ricerca abbia la forza di proseguire e che non sia spenta, minacciata, sterminata dal DEEP STATE DE’ NOANTRI che vuole gli italiani imbecilli e chiusi nei recinti.
PROSEGUIAMO A RAGIONARE CON LA NOSTRA TESTA
BUONA LIBERAZIONE “VERA”
STORIA
La Storia non si celebra, si studia
di Gianfredo Ruggiero
Ogni anno, con l’approssimarsi del 25 aprile, si susseguono a ritmo incalzante le rievocazioni della guerra di liberazione. E’ un crescendo di manifestazioni, convegni e interventi per celebrare degnamente il sacrificio dei partigiani e di quanti si immolarono per riportare in Italia libertà e democrazia. Le piazze si tingono di rosso e i ricordi della barbarie nazifascista riaffiorano alla mente
FONTE:https://www.controinformazione.info/25-aprile-fu-vera-gloria/
Perché non celebro il 25 aprile
Non celebro il 25 aprile per sette motivi. Uno, perché non è una festa inclusiva e nazionale, ma è sempre stata la festa delle bandiere rosse e del fossato d’odio tra due italie. Due, perché è una festa contro gli italiani del giorno prima, ovvero non considera che gli italiani fino allora erano stati in larga parte fascisti o comunque non antifascisti e dunque istiga alla doppiezza e all’ipocrisia. Tre, perché non rende onore al nemico ma nega dignità e memoria a tutti coloro che hanno dato la vita per la patria, solo per la patria, pur sapendo che si trattava di una guerra perduta. Quattro, perché l’antifascismo finisce quando finisce l’antagonista da cui prende il nome: il fascismo è morto e sepolto e non può sopravvivergli il suo antidoto, nato con l’esclusiva missione di abbatterlo. Cinque, perché quando una festa aumenta l’enfasi col passare degli anni anziché attenuarsi, come è legge naturale del tempo, allora regge sull’ipocrisia faziosa e viene usata per altri scopi; ieri per colpire Berlusconi, oggi Salvini. Sei, perché è solo celebrativa, a differenza delle altre ricorrenze nazionali, si pensi al 4 novembre in cui si ricordano infamie e orrori della Grande Guerra; invece nel 25 aprile è vietato ricordare le pagine sporche o sanguinarie che l’hanno accompagnata e distinguere tra chi combatteva per la libertà e chi voleva instaurare un’altra dittatura. Sette, perché celebrando sempre e solo il 25 aprile, unica festa civile in Italia, si riduce la storia millenaria di una patria, di una nazione, ai suoi ultimi tempi feroci e divisi. Troppo poco per l’Italia e per la sua antica civiltà.
Quando avremo una memoria condivisa? Quando riconosceremo che uccidere Mussolini fu una necessità storica e rituale per fondare l’avvenire, ma la macelleria di Piazzale Loreto fu un atto bestiale d’inciviltà e un marchio d’infamia sulla nascente democrazia. Quando riconosceremo che Salvo d’Acquisto fu un eroe, ma non fu un eroe ad esempio Rosario Bentivegna con la strage di via Rasella. Quando ricorderemo i sette fratelli Cervi, partigiani uccisi in una rappresaglia dopo un attentato, e porteremo un fiore ai sette fratelli Govoni, uccisi a guerra finita perché fascisti. Quando diremo che tra i partigiani c’era chi combatteva per la libertà e chi per instaurare la dittatura stalinista. Quando distingueremo i partigiani combattenti sia dai terroristi sanguinari che dai partigiani finti e postumi, che furono il triplo di quelli veri. Quando onoreremo con quei partigiani chiunque abbia combattuto lealmente, animato da amor patrio, senza dimenticare “il sangue dei vinti”. Quando celebrando le eroiche liberazioni, chiameremo infami certi suoi delitti come per esempio l’assassinio del filosofo Giovanni Gentile, dell’archeologo Pericle Ducati o del poeta cieco Carlo Borsani. Quando celebrando la Liberazione ricorderemo che nel ventennio nero furono uccisi più antifascisti italiani nella Russia comunista che nell’Italia fascista (lì centinaia di esuli, qui una ventina in vent’anni); che morirono più civili sotto i bombardamenti alleati che per le stragi naziste; che ha mietuto molte più vittime il comunismo in tempo di pace che il nazismo in tempo di guerra, shoah inclusa. Quando sapremo distinguere tra una Resistenza minoritaria che combatté per la patria e la libertà, cattolica, monarchica o liberale, come quella del Colonnello Cordero di Montezemolo o di Edgardo Sogno, e quella maggioritaria comunista, socialista radicale o azionista-giacobina che perseguiva l’avvento di un’altra dittatura. I comunisti, che erano i più, non volevano restituire la patria alla libertà e alla sovranità nazionale e popolare ma volevano una dittatura comunista internazionale affiliata all’Urss di Stalin.
Da italiano avrei voluto che la Resistenza avesse davvero liberato l’Italia, scacciando l’invasore. Avrei voluto che la Resistenza fosse stata davvero il secondo Risorgimento d’Italia. E avrei voluto che il 25 aprile avesse unito un’Italia lacerata. Sarei stato fiero di poter dire che l’Italia si era data con le sue stesse mani il suo destino di nazione sovrana e di patria libera. In realtà l’Italia non fu liberata dai partigiani ma dagli alleati che ci dettero una sovranità dimezzata. Il concorso dei partigiani fu secondario, sanguinoso ma secondario. La sconfitta del nazismo sarebbe avvenuta comunque, ad opera degli Alleati e dei Sovietici.
I partigiani non agirono col favore degli italiani ma di una minoranza: ci furono altre due italie, una che rimase fascista e l’altra che si ritirò dalla contesa e ripiegò neutrale e spaventata nel privato o si rifugiò a sud sotto le ali della monarchia.
Il proposito di unire gli italiani non rientrò mai nelle celebrazioni in rosso sangue del 25 aprile. Fu sempre una festa contro: contro quei morti e i loro veri o presunti eredi. Chi ha provato a unirsi alla Festa da altri versanti è stato insultato e respinto in malo modo. Accadrà quest’anno pure ai grillini ignari?
Non vanno dimenticati gli italiani che restarono fascisti fino alla fine, combatterono, morirono senza macchiarsi di alcuna ferocia, pagarono di persona la loro lealtà, la loro fedeltà a un’idea, a uno Stato e a una Nazione; la futura classe dirigente dell’Italia fu falcidiata dalla guerra civile. Sia tra gli antifascisti che tra i fascisti vi furono patrioti e mazziniani che pensarono, credettero e combatterono nel nome della patria. L’antifascismo fu una pagina di dignità, fierezza e libertà quando il fascismo era imperante; ma non lo fu altrettanto l’antifascismo a babbo morto, cioè a fascismo sconfitto e finito. Era coraggioso opporsi al regime fascista, non giurargli fedeltà, ma fu carognesco sputare sul suo cadavere e oltraggiarlo. E infame è farlo ancora oggi, 74 anni dopo. Distinguiamo perciò tra gli antifascisti che rifiutarono di aderire al regime fascista, pagandone le conseguenze; e gli antifascisti del 25 aprile da corteo postumo e permanente.
FONTE:http://www.marcelloveneziani.com/articoli/perche-non-celebro-il-25-aprile/
Liberiamoci da questa Liberazione
Data nazionale, quella del 25 aprile, che celebra la festa della Liberazione. Ma quale Liberazione? Detta così sembra una domanda ovvia, per non dire provocatoria. Infatti che si celebri la fine della dittatura fascista è un dato di fatto. Viceversa non è per niente un dato di fatto, sia il modo, sia la retorica di questa celebrazione. Veniamo al modo. Chi ha veramente liberato l’Italia dal fascismo? La resistenza partigiana che per la verità ha combattuto ed ha lasciato sul terreno numerosi morti? Ehm. Che la lotta partigiana ci sia stata e che abbia dato un segnale di riscossa, oltre che nel nostro paese anche a livello internazionale da parte di combattenti per la libertà contro un regime fascista, diventato nazifascista, costituisce senza dubbio un merito che nessuno ci può togliere. Tuttavia il numero dei resistenti che via via è andato crescendo dopo la fine della guerra è stato relativamente esiguo per avallare la tesi che la liberazione sia stata opera solo loro e non delle forze, specie quelle americane, che persero migliaia di uomini per sconfiggere la dittatura fascista. Se poi dal piano militare la mettiamo su quello simbolico, non si può certo negare che il fatto costituisca senza dubbio la prova che esistevano delle coscienze libere, che a rischio della vita hanno voluto combattere e reagire dopo più di un ventennio di soprusi e di violenza liberticida. Se queste sono le premesse veniamo al secondo punto che riguarda la retorica di questa Liberazione. Due sono le considerazioni da fare. Da una parte la sbandierata esagerazione sul piano politico che da dopo la guerra e fino ad oggi, gli storici di( quasi) tutti i colori, hanno attribuito alla lotta partigiana. Vale a dire il merito, pressoché esclusivo della vittoria della libertà contro la dittatura. Mettendo in secondo piano lo sforzo bellico degli alleati che hanno combattuto strenuamente per sconfiggere un nemico fino all’ultimo capace di difendersi e di offendere. Le vestigia di questi combattimenti, sono ben presenti nei numerosi cimiteri, sparsi in tutt’Italia, che con le loro croci bianche, nude e senza nomi, ricordano i soldati alleati che hanno lasciato la vita per ridare nuova vita all’Italia liberata. Le proporzioni di forze fra alleati e resistenti partigiani non sono minimamente paragonabili, anche per il fatto della crescita numerica, come già detto, di questi ultimi a guerra conclusa. Ma che sia uno cento o uno mille, poco importa per definire il merito dell’esito della guerra. Tuttavia, è bene ribadirlo per non essere frainteso, tutto ciò nulla toglie al merito dei nostri valorosi partigiani, almeno sul piano delle motivazioni ideali. Quindi chapeau. A questo punto, più interessante è trattare il tema di queste motivazioni. Cosa si proponevano le formazioni partigiane? Sconfiggere il fascismo è un fatto certo, ma per costruire quale modello politico per il paese? E qui bisogna distinguere. Certe formazioni, quelle per intenderci di estrazione moderata, tipo per fare un esempio quelle di Giustizia e Libertà che raggruppavano democristiani o (ex) monarchici, desideravano la fine della dittatura per istaurare un nuovo regime. Che si basasse sul libero consenso dei cittadini, secondo un ideale appunto di giustizia e libertà. La maggior parte invece dei combattenti partigiani avevano un altro obiettivo. La loro determinazione, non era un ideale, ma una ideologia. Quella che aveva già trovato applicazione nell’Unione Sovietica, considerata un paradiso in terra per ogni popolo che volesse aspirare ad un sistema politico di presunta uguaglianza, ma senza libertà. Dove anzi la libertà non era auspicabile, perché poteva essere un intralcio al potere. In sintesi, si trattava di una presunta democrazia a parole, imposta da un regime assolutista dove ogni cosa ed ogni sopruso da parte della classe politica dei funzionari di Stato, veniva giustificato per il bene del proletariato. Il nuovo verbo era personalizzato da un certo Vissarionovic Dzugasvili conosciuto come Iosif Stalin che , come un dio in terra, non tollerava alcun dissenso ritenendolo contrario a quella concezione ideologica per la quale il sistema , per definizione, doveva considerarsi perfetto, e non poteva tollerare alcuna contestazione. La Siberia offriva ospitalità alle teste calde che nei lavori forzati a tanti gradi sottozero o si raffreddavano o meritavano una sistemazione sottoterra in quanto non idonee a vivere sopra la terra. Questa terribile ideologia, alla quale lo storia attribuisce cento milioni di morti, molte formazioni partigiane, le quali anche nel colore politico si richiamavano alla camicie rosse garibaldine, desideravano importare anche nel nostro paese. Il risultato sarebbe stato che vinta una dittatura, ci avrebbero regalato una seconda dittatura, ben più nefasta di quella che avevano contribuito ad abbattere. L’ideologia comunista, attraverso i suoi maestri della propaganda, trasformò la Resistenza in mito, cosicché venne tramandata come una cosa loro. Creando su di essa l’epopea della vittoria del bene contro il male assoluto, per avvolgerla in un ideale di sacralità che invece ci avrebbe portato molti più danni che benefici. Inutile insistere su questo punto. A distanza di oltre settant’anni, ormai parla la storia e le vecchie teste calde, ormai non ci sono più. Rimangono però quasi intatte le antiche paranoie trasformate in un mito resistenziale, trasformato in un nuovo risorgimento al fine di celebrare un fatto amplificato a bella apposta, per smuovere gli ignavi e convincere i dubbiosi. A questo punto, conviene passare allora dai fatti reali con molti dubbi a quelli altrettanto reali, ma senza dubbi, scomodando la storia. Ecco allora il punto politico, l’uomo cui va il merito di aver sconfitto l’ ideologia comunista, Queste le sue caratteristiche. Grigio sia nel modo di essere che nel vestire, manifestava una oratoria senza voli pindarici, senza enfasi, senza orpelli, senza pose gladiatorie delle quali, per la verità. ne avevano fatte per tutto un ventennio , una vera indigestione. Era soprattutto un uomo del fare, uno statista convinto, ma senza ostentazione, senza sussulti emozionali, se non per la sua vocazione profondamente cattolica, interpretata senza integralismi, senza bigottismi e senza giustificazioni verso le ingerenze o i soprusi clericali. Devoto alla Chiesa non era un baciapile, tanto che era visto da parte delle gerarchie vaticane, con qualche sospetto di laicismo. Mentre in politica offriva l’immagine di un uomo convinto, pulito, non assetato di potere e mai contagiato dalle logiche degli arrivismi, dei compromessi e dei sotterfugi. Fu lui insomma che ci salvò dal pericolo rosso che dall’est premeva sui nostri confini. Lo spartiacque fu l’anno 48 per il nostro paese. Le libere elezioni sconfissero il fronte popolare che vantava su due gladiatori della retorica come Togliatti e Nenni. Vinse invece il grigio De Gasperi, questo il suo nome, che senza retorica e senza toni trionfalistici seppe convincere le masse, non asservite, tramite la propaganda resistenziale, alla ideologia socialista e comunista. A lui dobbiamo la nostra riconoscenza ed a lui deve essere ricondotta il senso della nostra celebrazione della Liberazione. Che spurgata dalla retorica e dalla falsità, non nega il merito, ma lo ancora ai valori veri di libertà. Esaltandola (parlo della Liberazione) attraverso la figura di un italiano che nato a Trento e con qualche simpatia austriaca, credette negli ideali, ma avversò una ideologia che molti partigiani volevano sostituire a quella per la quale avevano combattuto. E verso la quale molta retorica non è ancora passata. Evitare di passare dalla padella alla brace è allora il senso della Liberazione che a me piace ricordare, come un prezioso insegnamento di un pericolo che fortunatamente abbiamo saputo scongiurare.
FONTE:http://www.ilpiacenza.it/blog/anticaglie/liberiamoci-da-questa-liberazione.html
VENTICINQUE APRILE: STORIA MALTRATTATA E REALTÀ DIMENTICATA
Malgrado il virus, non si dimentica il 25 aprile e le televisioni ricordano gli avvenimenti drammatici di quegli ultimi giorni di questo mese del 1945.
Liberazione, insurrezione, sono le parole ricorrenti e sono il perno di una storia inesatta e distorta.
A fine aprile del 1945, Hitler era già rinchiuso nel bunker della Cancelleria e la Germania, Berlino compresa, erano invase da est a ovest. I tedeschi in Italia avevano una sola preoccupazione, quella di raggiungere il loro Paese prima della resa ufficiale. Parlare, come talvolta si cerca di fare, di un’Italia del Nord liberata dai partigiani è un falso. Parlare di insurrezione è, quanto meno, una imprecisione. Con ciò la discesa dei partigiani nelle città, la resa da loro intimata alle truppe tedesche non fu inutile. Ritirandosi dall’Italia senza trovare ostacoli i tedeschi non avrebbero tuttavia mancato di operare distruzioni e compiere ulteriori atti della loro crudele tendenza all’oppressione. C’è poi la questione dei fascisti della Repubblica Sociale ai quali concedere l’onore di una prigionia nelle mani degli alleati era qualcosa di immeritato e certamente eccessivo. Del resto quelle ultime gesta delle forze della resistenza e delle popolazioni che le appoggiavano non furono senza qualche traccia di valore e di sangue versato. Falso storico anche se non pieno ed evidente come quello di sostenere che “Bella Ciao” sia stato veramente un canto dei partigiani.
Di contro c’è una realtà dimenticata, c’è la realtà dello sgretolamento non privo di carattere di pagliacciata del Partito Fascista ricostituito al servizio dell’invasore dopo il primo dissolversi del 25 luglio 1943. E ci sono altre pagliacciate, quella ad esempio del radunarsi dei Gerarchi a Milano in nome di quello che era stato il soggetto sbandierato e mai nemmeno in qualche misura realizzato e preparato di andare tutti a combattere l’ultima battaglia ed a versare l’ultimo sangue in Valtellina. A Milano andarono quasi tutti con la prospettiva di filarsela in Svizzera.
Mussolini che dopo avere anche lui cercato di dare a bere a qualcuno la sua volontà di morire con le armi in pugno, fu catturato mentre se la filava travestito da soldato tedesco, simulando una sbornia che completasse la figura. Buffone. Come buffone era stato in tutta la sua carriera politica, di socialista e di fascista, di fondatore dell’impero, di oratore altisonante, di cavaliere che impugna la spada dell’Islam. Prima di ritornarsene a Roma scacciato via in seguito dall’Africa. Buffonesco ed umoristico non fu solo il fascismo di Starace. Tutto il sistema era una colossale pagliacciata. La lotta per imporre l’uso del “voi” anziché quello del “lei” e del saluto romano anziché la stretta di mano, non sono state una pretesa personale del povero Starace.
Un’analisi della scienza del fascismo sia essa fatta in base a teorie marxiste, sia secondo i canoni Crociani non dovrebbe prescindere da questa componente estetica, da questa intrinseca qualità pagliaccesca del fascismo. Vitaliano Brancati ha intuito questa entità essenziale dell’Italia con gli “stivali”. Che tale si presentò all’inizio e tale fu alla sua fine. Certo sarebbe interessante approfondire la storia del 25 luglio, che io insisto sempre nel considerare una trappola che Mussolini tese ai suoi Gerarchi per scaricarsi della responsabilità della guerra oramai per lui perduta e cavarsene fuggendo alla ferocia della reazione di Hitler. Il 25 luglio quei Gerarchi che affollavano la zona del confine della Svizzera per filarsela dopo avere predicato il dovere di morire tutti con le armi alla mano ed aver lasciato le loro sedi con la scusa di andare in Valtellina a morire per la patria, è il simbolo di questa seconda e definitiva fine del fascismo. Questo è il fatto che la storia sostanzialmente ignora. Questa dimostrazione finale e indiscutibile del carattere pagliaccesco del fascismo non è menzionata tanto dagli storici quanto dagli esponenti politici.
Se l’insurrezione non fu quella cosa con la quale furono veramente cacciati e vinti i tedeschi, oramai definitivamente sconfitti nella loro stessa Capitale ha dato il suggello del dramma ad una commedia che avrebbe marchiato l’onore del Paese più lungo di quanto si possa immaginare, è qualcosa di cui dobbiamo essere grati a chi ne fu artefice e protagonista.
FONTE:http://www.opinione.it/societa/2020/04/24/mauro-mellini_25-aprile-italia-germania-resistenza-liberazione-insurrezione-hitler-mussolini-germania-gerarchi-milano/
25 aprile e retroguardia
La ricorrenza faziosa del 25 Aprile vede ogni anno una lunga teoria di critiche contrapposte e barocche, sviluppate e gridate quasi ad onorare una non-tradizione sviluppatasi lungo il corso dei sette decenni della nostra vita repubblicana. Entrare nel merito della vicenda è francamente penoso: da un lato il logorroico peana antifa ripetuto meccanicamente da nuove e vecchie leve della galassia sinistrorsa, in rigorosa tenuta arcobaleno noborders. La liturgia resistenziale, fatta di canti vetusti e pastasciutte rivoluzionarie si dipana pigramente entro i viali d’ogni città italiana, tra l’apatia latente della maggioranza silenziosa e silente, intenta a preparare la brava gita fuori porta. Il campo avverso, invece, malato di nostalgia, si dispera ricordando i bei tempi andati, i fasti imperiali, le sfilate militaresche, l’ordine e la pulizia del Regime, tra una bottiglia di vino Mussolini e un calendario comprato a Predappio.
E a Sparta e ad Atene, dunque, il pittoresco gretto e meschino s’impone sulla Storia, ingiuriando i morti, schifando i fatti. Alla fine della fiera, come sempre, chi risulta offesa è l’Italia
La festa nazionale, così come è stata concepita nel corso dell’Ottocento romantico, svolge una precisa funzione: nel gran corpo della religione civile dello Stato, infatti, occorre offrire al cittadino una serie di miti, ricordati in date specifiche, alla guisa delle festività religiose. Il 14 luglio in Francia, il 4 luglio negli USA, il 9 maggio in Russia costituiscono chiari esempi in questa direzione. Date inclusive, che rammentano ai posteri momenti fondamentali della vita nazionale, riuscendo a collegare idealmente le varie generazioni che hanno costituito e costituiscono il popolo d’uno Stato.
In Italia s’è voluto esaltare invece una data faziosa, che ha in sé i geni della divisione, della discordia, del disprezzo reciproco. Il 25 Aprile, infatti, non rammenta la Liberazione, ma la sconfitta rovinosa della RSI ad opera degli Angloamericani, coadiuvati da un tardivo ed effimero nucleo di partigiani. In soldoni, si ricorda l’esito, finale e tragico, di una guerra civile infame e sanguinosa, combattuta in maniera barbara e crudele, mentre la Patria veniva invasa e sconvolta da eserciti nemici in lotta, come al tempo delle guerre d’Italia del Cinquecento.
Come se non bastasse, l’evento ha un significato profondo, indipendentemente dall’ideologia politica, soltanto per una parte d’Italia, quel Settentrione martoriato dall’occupazione nazista e dalla guerriglia delle bande. Per un siciliano, per un napoletano, per un romano, la guerra era già finita nel 1943 e nel 1944: quel mercoledì di fine aprile, nel Mezzogiorno come a Roma non successe materialmente niente, come nulla fu infatti la lotta antifascista al Sud per una evidente componente temporale. Una festa nazionale che, quindi, ha un carattere locale. A ciò si sommi il gigantesco problema politico, dettato dall’esito degli eventi: neri sconfitti e demonizzati da una parte, rossi vittoriosi e mitizzati dall’altra. La pacificazione, impossibile ieri, pare ancora dura da ottenere nel 2016, in pieno XXI secolo. Troppe resistenze- è il caso di dirlo- si ergono ogni qualvolta si affronta il tema in maniera originale e scevra di pregiudizi, scatenando l’esercito dei dogmi e dei luoghi comuni su chi tenta di bucare il muro di gomma dell’epopea partigiana.
Il risultato è una completa disaffezione dei cittadini dalla data, oramai incompresa e assai distante dalla società contemporanea, che ha altri e ben più gravi problemi da affrontare. La sclerotizzata liturgia antifascista, così come il vetero-reducismo dei post-fascisti, risulta un rottame della Storia condannata dai tempi all’anacronismo. In un’epoca che muove l’attacco finale alle libertà e ai diritti dei popoli, continuare a difendere una data che divide e schiera gl’italiani è puro autolesionismo: dote congenita, purtroppo, dell’abitante dello Stivale.
FONTE:https://www.lintellettualedissidente.it/inevidenza/25-aprile-e-retroguardia/
“Il segreto d’Italia” sulle stragi partigiane a Codevigo ricostruisce «fatti reali»
Roberto Festorazzi commenta il film sull’eccidio del ’45: «Ben recitato e di alta efficacia narrativa: il Pci nella Resistenza gestì una politica delle stragi sistematica»
«Il racconto mi sembra esemplare sotto molti punti di vista, sia per l’efficacia narrativa sia per la continenza nella rappresentazione della violenza. Nonostante il film parli di cose terribili, riesce a mantenere sempre un tono molto delicato. Il regista è riuscito a darci una visione d’ambiente non solo accurata dal punto di vista storico ma anche verosimile e credibile». Così Roberto Festorazzi, ricercatore storico impegnato da anni nella ricostruzione di ciò che è accaduto nell’immediato dopoguerra, descrive il film Il segreto d’Italia (qui la recensione e l’intervista al regista), visto in esclusiva per tempi.it.
La pellicola ricostruisce per la prima volta l’eccidio di Codevigo, un piccolo comune del padovano dove, tra il 29 aprile e il giugno 1945, fu ucciso un numero imprecisato di vittime (tra le 118 e le 365 persone) ad opera delle brigate partigiane di stanza nella zona (la Garibaldi e alcuni distaccamenti della Cremona). Si tratta di una vicenda dimenticata che per oltre 60 anni è stata ricostruita solo da pochissimi storici. Per Festorazzi il film ha il merito di ricostruire anche il contesto umano in cui avvennero i fatti: «Un mondo contadino che si è trovato improvvisamente travolto da qualcosa che non riusciva nemmeno a valutare. Come un animale che non riesce a fiutare l’odore della tempesta, e viene spazzato via».
Cosa ne pensa del film Il segreto d’Italia?
Si tratta di un film molto interessante e molto ben costruito, con attori tutti veramente straordinari. Un film altamente drammatico, non privo di una sua intima cifra poetica; in questo senso si tratta senz’altro di un’opera di grande valore artistico. Tutta la narrazione è dominata dal senso angoscioso di una catastrofe incombente, come se i protagonisti percepissero in anticipo, e con indicibile sgomento, la minaccia apocalittica che grava su di loro. Sono tutti personaggi che solidarizzano tra di loro, e vanno a morire abbracciati, sospesi nel vuoto, davanti a un abisso di orrore. È come se con loro finisse definitivamente un’epoca, quella che si potrebbe definire “la civiltà del timore di Dio”, nella quale, nonostante le alterne vicende politiche, gli uomini e le donne sapevano di poter contare sulle risorse di madre natura, nell’atavica convinzione morale che il favore della terra non dovesse mutare mai e che nessuna forza oscura potesse intervenire a turbare l’equilibrio tra l’uomo e il creato. Nel film è protagonista una famiglia contadina, i Martin: riassumono le virtù e la tenacia di questa civiltà contadina, che nelle sue espressioni migliori è una civiltà fondamentalmente cristiana. In quei giorni, questi agricoltori, costruttori di una società solidale, si sono visti spazzar via da un’ondata di violenza che non ha eguali in natura, perché non ha nulla a che vedere con le forze naturali, ma è violenza cieca e ideologica, cioè espressione “perfetta” del male nella sua accezione satanica: il “male assoluto”. Gli uomini e le donne di Codevigo, e mi riferisco in particolare al capofamiglia Martin, che ad un certo punto del film rischia di fare una brutta fine, hanno stampato negli occhi l’orrore che provano di fronte a questa dimostrazione di profanazione della persona umana. Qualcosa di simile a quello che provarono le vittime dei lager. Non osavano credere che essere umani potessero osare tanto, nel colpire dei loro simili, giudicati “nemici” o inferiori.
Ho trovato molto credibili gli attori. Anzi, sapendo che il film è stato prodotto con un budget limitato, appena 230 mila euro per altro tutti finanziati da privati, mi sono chiesto come il regista sia riuscito comunque a realizzare un opera così notevole. Ho saputo che i legali degli eredi del partigiano Arrigo Boldrini, che comandava la brigata Garibaldi, hanno chiesto al regista del film di visionare in anteprima l’opera. L’ho trovato un fatto orribile. Per me è una cosa da regime sovietico, inquietante, perché lascia supporre che si volesse esercitare una censura preventiva su un’opera artistica.
Lei ha studiato e lavorato per oltre trent’anni sui fatti avvenuti nei giorni della dissoluzione del regime fascista e della vittoria partigiana. Da storico, dunque, cosa pensa del film?
Ricostruisce molto bene dal punto di vista storico quello che è accaduto. Già nella prima metà del film, che presenta il contesto dei fatti, si ricostruisce molto bene quello che è accaduto realmente nell’Italia degli ultimi scorci del fascismo. C’è stata una intera nazione che si è trovata a non comprendere sino in fondo cosa sarebbe accaduto ai fascisti o ai presunti tali. È chiaro che il film non vuole raccontare ciò che è avvenuto nelle stragi, lasciando poi allo spettatore o allo studioso il compito di approfondire. Riguardo a Codevigo, Giampaolo Pansa nel Sangue dei vinti scrive degli “squadroni della morte”: ci furono gruppi di partigiani che rastrellavano interi paesi, poi uccidevano le persone, e le gettavano nei fiumi per occultarne i cadaveri. Codevigo si trova sulle rive del Brenta, ed è lì che vennero buttati i corpi. Ma questo è accaduto anche nel ravennate, in Veneto, e nel comasco.
Subito dopo il giugno ’45, però, su Codevigo furono avviate delle indagini che culminarono in 24 processi penali. Tuttavia, malgrado anche il ritrovamento di una fossa comune, tutti gli imputati furono assolti, compreso il comandante Boldrini “Bulow”.
Non è mai stato possibile dire con chiarezza che responsabilità abbia avuto il comandante Boldrini nell’eccidio di Codevigo, ma in tutta la storia di quei giorni è sempre stato difficile risalire nella catena di comando e ritrovare le responsabilità: al massimo si riesce a risalire all’identità di singole persone che venivano di fatto “scaricate” dai vertici partigiani. Questo, ad esempio, è quello che è accaduto analogamente nelle indagini sull’oro di Dongo, o sulla morte di Mussolini stesso. Il fatto che a Codevigo queste stragi siano andati avanti per mesi, rileva però un fatto particolare.
Cioè?
Il Partito comunista, forza egemone della Resistenza, dagli ultimi giorni di aprile del 1945 gestì una politica delle stragi che fu sistematica, premeditata, pianificata. Non si trattò, come si è cercato di far credere, di episodi isolati, vale a dire di singole manifestazioni di eccesso violento scaturito da odii e risentimenti personali. Parlare soltanto di “regolamenti di conti”, come certa storiografia continua a fare, significa negare la realtà. E la realtà dice che il Pci, in tutto il Nord Italia, gestì una politica del terrore, che aveva lo scopo di appiccare ed estendere il rogo di una rivoluzione rossa. Nella peggiore delle ipotesi, cioè nel caso in cui non fosse risultato possibile prendere il potere per via rivoluzionaria, il partito di Togliatti si era comunque, come dire?, portato avanti nel lavoro. Con le stragi, infatti, non soltanto si colpì il nemico fascista già sconfitto, ma si intese decapitare, umiliare, la classe borghese che avrebbe ostacolato la marcia trionfale dei comunisti verso il potere. Ecco dunque esplodere la spirale del terrore contro proprietari terrieri, industriali, notabili, antifascisti moderati di area cattolica, liberale, socialista, sacerdoti. Sono accaduti numerosi episodi simili a quello di Codevigo. Ricordo, tra altri, anche la strage di Schio, la “volante rossa” a Milano (che prosegue fino al ’47), la “corriera della morte” del savonese, persino il “post-Dongo”. Tra le vittime c’è stato di tutto. Mascalzoni fascisti, reduci o persone semplicemente sospettate, che in realtà con il fascismo non c’entravano nulla, che erano però vittime dell’odio di classe. Tutti erano possibili obiettivi di una grossa pulizia “politica”. Andavano cancellati.
FONTE:https://www.tempi.it/segreto-italia-sulle-stragi-partigiane-a-codevigo-ricostruisce-fatti-reali/
IL NOSTRO 25 APRILE
Sotto con l’ipocrisia della Repubblica, anche oggi. Sotto con un rito falso, fabbricato sette decenni fa e tuttora vivo, vegeto e in buona salute. Non abbiamo bisogno di aspettare il tardo pomeriggio, di appuntarci l’attualità di giornata: le celebrazioni del 25 aprile sono l’eterno ritorno dell’uguale, il tarocco storico elevato a religione di Stato, e di piazza. Fateci caso, guardatevi intorno, oggi. Bandiere rosse, falci, martelli e richiami proletari fuori tempo massimo assortiti, sigle estremiste, avanguardiste, cagnara organizzata da centri sociali che hanno lo stesso livello di tolleranza, nullo, di chi allora stava dalla parte sbagliata. Ovunque, vessilli dell’Anpi, associazione vetusta e gloriosa che mantiene la memoria dei partigiani, ma nessuna memoria è neutra, e quella è la memoria di certi partigiani, non dei monarchici e dei badogliani, per intenderci. Soprattutto nessun partigiano, monarchico, badogliano, azionista, comunista, solitariamente eroico, ce l’avrebbe mai fatta. A spazzare via il nazifascismo, intendiamo. Perché è questo, il gigantesco irrisolto, l’occultato, la menzogna collettiva, che il Giornalista Collettivo ovviamente propaga e amplifica, per sentirsi parte del bel mondo. Non sono stati i partigiani, va bene? Non provate a camuffare le nostre parole come fate con le vostre liturgie, nessuno nega il coraggio, in alcuni casi davvero titanico, lo spessore umano, la sostanziale giustezza della posizione (scremato chi inneggiava all’Unione Sovietica paradiso dei popoli, però). Ma tecnicamente, non sono stati loro a liberarci, né avrebbero potuto, e come tutti gli eroi veri erano i primi a saperlo, tanto che ogni volta che il fronte s’impantanava, che gli Alleati rinculavano, s’immergevano nelle loro montagne, consci di non avere alcuna autonomia operativa, né tantomeno militare.
Gli Alleati, ho detto, diciamo oggi, nel nostro piccolo, contro il travestimento (quasi) unanime. Viva la Liberazione, non c’è dubbio, il fascismo è scempio della libertà, non esisteva la nozione stessa di individuo, in quell’Italia totalitaria e corporativa, figuratevi se non strilliamo viva la Liberazione. Ma, insieme e con più forza, strilliamo: onore ai veri Liberatori. Questa, è la bandiera d’un 25 aprile vero, quella che mettiamo oggi in pagina, e non a caso è la bandiera d’uno Stato nato per inseguimento, diremmo per ossessione, della libertà, e tuttora incompreso per questo. La bandiera che dovrebbe prendersi le piazze, e i cuori, oggi, è la bandiera americana, è la bandiera della Quinta Armata, è la bandiera dei ragazzi dell’Ohio, dello Utah, dell’Illinois, ventenni che manco sapevano collocare l’Italia sulla carta geografica, e che sono morti, per la sua libertà. Insieme, ovviamente, alle bandiere inglese, canadese, australiana, neozelandese. Ci hanno liberato gli Angloamericani, basta un sussidiario di quinta elementare, e per fortuna. Perché l’alternativa era che ci liberassero i sovietici, un mero cambio di segno dell’Oppressione, chiedere a chi viene dall’Est. No, invece la nostra è Liberazione, e Liberazione fiera, perché è ritorno del diritto, dell’autonomia, del dissenso, della polifonia di voci, pensieri, punti di vista. Ve l’hanno ridato quei ragazzi, tutto questo, quei soldati di un Paese di cui voi siete avvezzi a bruciare la bandiera, in cortei analoghi, per profondità storica, a quelli di oggi. Noi invece la pubblichiamo, quella bandiera, noi urliamo God bless America, come dovrebbe essere in ogni 25 aprile sano, filologicamente corretto ed intellettualmente onesto, noi vi invitiamo a farvi un giro, un giorno, al cimitero di Omaha Beach, a guardare quelle croci che si mangiano l’orizzonte, un cimitero come un universo intero, dov’era in ballo la vostra libertà, è scritta sopra ognuna di quelle croci. È grazie a ognuno di loro, che oggi potete dirvi anti-americani, perché la vertigine della libertà prevede anche la possibilità di non essere riconosciuta, di essere infangata, vi dà anche questo diritto, ed è questa la vera differenza con ogni fascismo, nero, rosso, terrorista. Viva il 25 aprile e viva i suoi liberatori, gli Angloamericani.
FONTE:http://www.lintraprendente.it/2019/04/il-nostro-25-aprile/
Non fu la resistenza a liberare l’Italia ma solo gli alleati
Gli elementi dominanti della Resistenza, quelli comunisti, lottavano per l’Unione sovietica. Ecco perché Churchill voleva puntare non sulla Francia, ma sull’Italia
Quando guardo in streaming le facce nobili dei vecchi uomini inglesi e americani e del Commonwealth che hanno partecipato all’invasione della Francia nel 1944 e che ora sono tornati alle spiagge della Normandia per commemorare il 70° anniversario del «Longest Day», e poi, quando ascolto le loro parole piango – sorridendo.
Sono da onorare perché sono uomini in perfetta sintonia con la regola antica della vita, cioè: per meritare l’onore, un uomo deve dimostrare prima l’umiltà e poi la virtù. E loro, questi uomini che ormai hanno compiuto i 90 anni – e tutti i loro compagni caduti in nome della libertà – ce l’hanno fatta.
Poi, però, penso alla liberazione di Roma dagli stessi anglo-americani, accaduta due giorni prima del D-Day – il 4 giugno 1944 – e mi incazzo. Per parecchi motivi. In anzitutto, mi incazzo perché sono inglese ma in Italia si commemora la liberazione d’Italia ogni 25 aprile come se fosse un lavoro compiuto da partigiani e basta. E mi sento offeso che a Forlì in Romagna dove abito la strada che porta ad uno dei due cimiteri degli alleati nella città si chiama Via dei Partigiani. E mi sento offeso che quando si parla di alleati in discorsi o sui giornali, si fa riferimento solo agli «americani». In quei due cimiteri di Forlì giacciono i resti mortali di 1.234 soldati dell’Ottava Armata Britannica. Così tanti morti, solo a Forlì. Ma vi rendete conto? Non è ora – dopo 70 anni – di affrontare una semplice verità? Eccola: la Resistenza in Italia era completamente irrilevante dal punto di vista militare. In ogni caso, nell’estate del 1944 non esisteva una Resistenza in Italia. Dopo, invece – dall’autunno del 1944 in poi – che cosa di concreto ha portato questa Resistenza?
Peggio. Secondo la storiografia la Resistenza lottava per la patria, la libertà e la democrazia. Non è vero. I suoi elementi comunisti (quelli dominanti) lottavano per l’Unione sovietica, la dittatura e il comunismo. Ecco perché Churchill voleva puntare non sulla Francia, ma sull’Italia. Voleva a tutti costi fermare le forze comuniste nei Balcani e in Austria. Roosevelt no, invece, e ha prevalso il Presidente americano. Perciò, gli alleati, che avevano invaso l’Italia nel 1943, non ebbero le forze necessarie in Italia per liberarla fino all’aprile 1945. Si dice: solo grazie alla Ue ci sono stati 70 anni di pace in Europa. Non è vero. C’è stata pace in Europa solo grazie agli anglo-americani e al piano Marshall. Oggi, la Ue e la sua moneta unica rappresentano la più grave minaccia alla pace in Europa
FONTE:https://www.ilgiornale.it/news/cultura/non-fu-resistenza-liberare-litalia-solo-alleati-1025074.html
L’Europa ha dimenticato da chi è stata liberata
Il 20% dei cittadini europei non sa nulla dell’ultima guerra, e soltanto uno su otto crede che l’esercito sovietico abbia svolto un ruolo decisivo per la liberazione dell’Europa.
Da decenni agli europei si fa un lavaggio del cervello per minimizzare il ruolo dell’URSS e della Russia nella storia del XX secolo.
Schieramenti e mezzi
La marcia trionfale della Germania nazista attraverso l’Europa si arenò nell’Unione Sovietica. In quel periodo la potenza della macchina bellica hitleriana era colossale, mentre le possibilità delle forze armate degli USA e della Gran Bretagna restavano limitate. L’URSS dovette quindi affrontare la maggior parte delle truppe tedesche. Nel 1941-1942 sul fronte russo era concentrato più del 75% di tutte le forze di Hitler, e anche negli anni successivi circa il 70% delle divisioni della Wehrmacht restava sul fronte russo-germanico. Eppure, fu proprio l’URSS a ottenere tutta una serie di vittorie che nel 1943 invertirono il corso della Seconda guerra mondiale a favore della coalizione antinazista.
Entro l’inizio del 1944 la Germania aveva subito delle gravi perdite, ma restava un avversario forte con ben 5 milioni di uomini e il 75% dei mezzi (5400 carri armati e semoventi d’artiglieria, 54600 cannoni e mortai, più di 3000 aerei) dislocati sul fronte russo. Anche dopo l’apertura del secondo fronte, il versante orientale restava per la Germania il più importante. Nel 1944 contro l’esercito sovietico combattevano più di 180 divisioni tedesche, mentre le truppe anglo-americane erano contrastate da 81 divisioni di Hitler.
Sul fronte russo l’intensità dei combattimenti fu particolarmente elevata. Sul totale di 1418 giorni (quanto è durata la guerra) i combattimenti attivi impegnarono le truppe per 1320 giorni, mentre in Africa settentrionale la durata complessiva dei combattimenti fu di 309 giorni (sul totale di 1068) e in Italia di 49 sul totale di 663 giorni. Dal punto di vista geografico, nell’Est la linea del fronte aveva la lunghezza di 4000-6000 km — 4 volte di quanto misuravano il fronte nordafricano, quello italiano e quello occidentale presi all’insieme.
Dall’Armata Rossa furono disfatte 507 divisioni della Germania nazista e 100 divisioni dei suoi alleati, cioè 3,5 volte di più rispetto a quanto fecero gli alleati su tutti i fronti della Seconda guerra mondiale. Sul fronte russo la Germania subì più del 73% di tutte le sue perdite. I sovietici distrussero la maggior parte (75% ca) dei mezzi della Wehrmacht: 70000 aerei, circa 50000 carri armati e cannoni d’assalto, 167000 pezzi d’artiglieria.
L’offensiva strategica dell’esercito sovietico nel periodo tra il 1943 e il 1945, portata avanti senza interruzioni, avvicinò la fine della guerra, salvando la vita a milioni di inglesi e americani e creando condizioni favorevoli per i nostri alleati in Europa. Oltre al proprio territorio, l’URSS liberò il 47% del territorio dell’Europa (gli alleati liberarono il 27% del territorio europeo e il restante 26% fu liberato con sforzi congiunti dell’URSS e dei suoi alleati). L’Unione Sovietica liberò la maggioranza dei popoli schiavizzati dai nazisti, salvaguardando la loro sovranità. Considerando l’attuale assetto dell’Europa (quando esistono, in qualità di Stati indipendenti, Bosnia, Ucraina, ecc.), l’URSS liberò 16 paesi d’Europa, gli alleati ne liberarono 9 (6 paesi liberati grazie agli sforzi congiunti). La popolazione complessiva dei paesi liberati dall’URSS era di 123 milioni di persone, 110 milioni furono liberati dagli alleati e insieme l’URSS e gli alleati liberarono quasi 90 milioni di persone.
La gravità delle perdite
L’Unione Sovietica sconfisse le principali forze del blocco hitleriano, garantendo la resa totale e incondizionata della Germania e del Giappone. Le nostre perdite umane superano di alcune volte quelle degli altri paesi (anche presi all’insieme): 27 milioni di cittadini sovietici contro 427.000 americani, 412.000 britannici e 5 milioni di tedeschi.
Durante la liberazione della Polonia l’esercito sovietico perse 600.212 uomini (di cui 541.029 furono uccisi o morirono a causa di ferite e malattie). In Ungheria perdemmo 140004 persone e quasi altrettanto in Cecoslovacchia, 69.000 in Romania, 8.000 in Jugoslavia, 26.000 in Austria, più di 1.000 in Norvegia e circa 2.000 in Finlandia. Durante i combattimenti in Germania (compresa la Prussia Orientale) le perdite dell’URSS ammontarono a 101961 persone, di cui morirono 92-961.
Oltre ai 27 milioni di morti, decine di milioni di nostri cittadini furono feriti e mutilati. Entro l’inizio della guerra (22 giugno 1941) nell’esercito e nella marina dell’URSS erano arruolati 4 826 907 militari. In 4 anni della guerra furono mobilitati ancora 29 574 900 persone. Considerando le formazioni paramilitari e i militari di carriera, questa cifra sale a 34 476 752 persone (in Germania, Austria e Cecoslovacchia, nel 1939, c’erano 24,6 milioni di maschi all’età compresa tra 15 e 65 anni). Il paese perse un terzo della sua ricchezza: 1710 città e paesi, più di 70000 villaggi, 6 milioni di edifici, 32000 aziende e 65000 km di ferrovie furono distrutti.
Ogni paese ha apportato un suo contributo alla vittoria sul nazismo. Questa missione storica determina l’influenza degli Stati nel mondo postbellico e il loro peso nella politica internazionale, pertanto nessuno dovrebbe dimenticare o travisare il ruolo del nostro paese nella Seconda guerra mondiale.
FONTE:https://it.sputniknews.com/mondo/20150429322468-europa-liberata/
Cancellare il 25 aprile. Per tornare a parlare di presente (e futuro)
Fascisti. Fascisti ovunque. Con l’approssimarsi del 25 aprile, come ogni anno, ritorna più minaccioso che mai lo spauracchio in fez e camicia nera. Ovviamente in prima fila a denunciare questo pericolosissimo ritorno di fiamma tricolore (si scherza, suvvia…) è l’ANPI, l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia che, negli ultimi giorni, si è trovata coinvolta nell’ennesima e “attualissima” battaglia: la decadenza di Benito Mussolini da cittadino onorario di alcuni comuni italiani. Cittadinanza onoraria ovviamente conferita nella totalità dei casi durante il ventennio. Per non parlare di quel sindaco PD che, a Cremona, ha vietato una messa di suffragio in onore del Duce. O di chi, allarmato, lancia strali contro Giorgia Meloni colpevole di aver candidato alle elezioni europee un pronipote di Benito.
Del resto è inutile ripetersi, su questo blog lo si scriveva un anno fa e non è cambiato assolutamente nulla, il 25 aprile, “lungi dall’essere un momento in cui storicizzare i fatti del secondo conflitto mondiale, ne consente invece sempre più spesso la politicizzazione”. Politicizzazione che, non c’è bisogno di dirlo, anche in virtù della tradizionale coincidenza di questa festività con le maggiori tornate elettorali, torna sempre utile per una parte politica, la sinistra, che ultimamente di argomenti da sfruttare a proprio vantaggio ne ha pochini.
Si perdoni dunque a chi qui scrive l’autocitazione, ma del resto non avrebbe senso trovare un nuovo modo di esprimere un concetto così cristallino e financo banale. Ciò che però francamente preoccupa non è tanto questo, quanto il fatto che nessuno, soprattutto tra le fila della cosiddetta destra, che dovrebbe tendenzialmente essere la parte colpita dalla propaganda avversaria, muova un dito per mettere finalmente a tacere queste deliranti baracconate. Per consegnare finalmente il ventennio alla storia e lasciare riposare i morti in pace. Perché, va detto, parlare oggi di togliere la cittadinanza onoraria a Mussolini Benito, nato nel 1883, è un po’ come se gli inglesi chiedessero ai francesi di rimuovere l’intitolazione delle vie a Napoleone Bonaparte: una cosa ridicola. Punto.
Tanto ridicola che viene il sospetto che la cosiddetta “destra” abbia alla fine buon gioco a evitare la fine di queste strumentalizzazioni, fine che consentirebbe di concentrarsi su argomenti più attuali e problematiche più impellenti. Una su tutte, la crisi economica che l’Italia sta vivendo nonostante il Governo Frankenstein giallo-verde avesse promesso mirabolanti imprese. E riprese.
E invece no. Anche a destra si continua a prestarsi al gioco di doversi giustificare per il “peccato originale” del fascismo. Si continua a ribadire, da parte degli esponenti politici, l’estraneità a un passato con il quale, in realtà, non potrebbero comunque avere nulla a che spartire. In primis perché il fascismo, di destra, intendendo con questo termine la destra liberal-conservatrice, non lo era. In secondo luogo perché quella esperienza è finita nel 1945, quando gran parte degli attuali politicanti destrorsi neppure erano nati.
Ma così non si può andare avanti. Piaccia o meno, sia politicamente corretto o meno, il fascismo e l’antifascismo vanno strappati dai quotidiani e consegnati ai libri di storia, ai quali appartengono. E allora è forse necessario, dato che è impossibile attenderselo dalla sinistra, che la destra prenda coraggio e, sfruttando il momento di consenso, faccia qualcosa che è davvero utile al Paese: proporre la cancellazione, visto ciò che è divenuto, del 25 aprile dal calendario delle festività.
Sì, cancellarlo. Affinché, almeno sotto elezioni, i morti possano finalmente riposare in pace, con i loro errori e le loro buone azioni. Ma, soprattutto, perché la classe dirigente italiana, dopo 74 anni, possa finalmente guardare avanti. Smettendo di discutere di passato e, soprattutto, di sentirsi così esentata dal dover discutere di ciò che è davvero importante per le famiglie italiane e i loro figli: il presente e il futuro
FONTE:http://blog.ilgiornale.it/puglisi/2019/04/13/cancellare-il-25-aprile-per-tornare-a-parlare-di-presente-e-futuro/
L’Italia s’è desta ma non s’è liberata, l’hanno fatto gli Alleati
Anche in base ai conti di Bocca un partigiano su due partecipò alla Resistenza solo dal 15 al 25 aprile 1945
25 Aprile 2019 alle 13:39
L’arrivo delle truppe alleate in piazza San Babila a Milano (foto LaPresse)
“Siamo comunque grati agli americani per averci liberato, col concorso dei partigiani”. Curiosamente in un centro sinistra che spara contro Bush per la sua visita del 4 giugno, è quasi Fausto Bertinotti quello che si mostra più pacato. Ma anche lui usa poi un giro di parole la cui implicazione sembra essere che il lavoro sia stato per lo meno fifty-fifty, se non che addirittura siano stati i partigiani a fare lo sforzo principale. Prima ancora di essere il mito fondante dei partiti della Prima Repubblica, e in particolare del Pci, questo as- sunto fu fatto proprio dallo stesso Stato italiano, proprio per ottenere condizioni di pace meno gravose. “Anche l’Italia ha vinto”, era il famoso titolo di un numero speciale del 1945 del Mercurio, rivista culturale allora di grande prestigio.
Il 18 settembre 1943 i partigiani erano in tutto 1.500, di cui un migliaio di “autonomi”, bande di militari dell’ex esercito
Taviani, dunque, parlava di vari documenti che avevano rivelato progetti degli Alleati per una vera e propria spartizione dell’Italia. Gli inglesi si sarebbero installati in pianta stabile nelle isole; i francesi avrebbero ingoiato la Val d’Aosta e tutto il Piemonte e la Liguria occidentale, oltre a mantenere una zona di occupazione fino al Ticino; Tito si sarebbe pappato l’intero Friuli almeno fino al Tagliamento; l’Alto Adige sarebbe stato riconsegnato all’Austria; addirittura c’erano i greci che volevano una zona d’occupazione in Puglia! La Resistenza e l’attività delle truppe del governo del Sud avrebbero appunto evitato questo disastro. Altri storici contestano che sia stato effettivamente il contributo militare italiano alla guerra anti-tedesca a pagare il “biglietto di ritorno”, e sostengono che piuttosto sia stata la nostra importanza strategica sul fronte della guerra fredda dopo la rottura tra Usa e Urss a favorirci.
Truppe alleate a Roma (foto LaPresse)
Quale che si il vero motivo, che comunque l’Italia sia stata trattata meglio rispetto a Germania e Giappone dopo il 1945 non è un’illusione. Non solo infatti da noi l’occupazione militare durò solo fino al 1946, rispetto alla data del 1951 per il Giappone e del 1954 per la Germania. Non solo all’Italia fu possibile darsi una Costituzione da sola mentre gli Alleati imposero la nuova Costituzione giapponese e interferirono pesantemente nella genesi della Grundgesetz tedesca (anche se, visto il modo in cui queste costituzioni hanno funzionato, molti ritengono oggi che l’apparente fortuna italiana rispetto a Germania e Giappone sia stata in realtà una disgrazia…). Non solo all’Italia fu persino possibile ricevere indietro una delle ex- colonie, la Somalia, in amministrazione fiduciaria per dieci anni. Addirittura, fu proprio per il motivo esplicitato che l’Italia “si era schierata dalla parte giusta” che ci fu possibile partecipare alle Olimpiadi di Londra del 1948 e ai campionati di calcio in Brasile del 1950: eventi sportivi da cui invece i “vinti” Germania e Giappone furono esclusi come misura punitiva (è vero che, anche qui, c’è chi ritiene che se ci avessero impedito di andare in Brasile a fare figuracce ci avrebbero fatto solo un favore…).
C’è poi un secondo filone revisionista che contesta il primato “rosso” della Resistenza, rivalutando massicciamente il ruolo dei non comunisti. In questo campo il titolo recente è “La Resistenza cancellata” di Ugo Finetti. Ma in realtà i punti di riferimento effettivi li aveva già dati Giorgio Bocca nel 1966 proprio con la sua “Storia dell’Italia partigiana”, in cui si era messo a contare non solo il numero dei partigiani nei momenti cruciali del periodo settembre 1943-aprile 1945, ma anche la rispettiva filiazione ideologica. E tutta la storiografia moderata successiva, compresi i Montanelli e Cervi dell’“Italia della Guerra Civile”, ha poi utilizzato proprio quelle cifre. Che danno della Resistenza un quadro ben diverso da quello che ripete Giorgio Galli nei suoi libri sulla storia dei partiti politici italiani, secondo cui “tra i due terzi e i tre quarti dei partigiani erano comunisti”.
La Resistenza impegnò i fascisti distogliendoli dal fronte con gli Alleati, ma da sola non avrebbe mai potuto sconfiggere i nazisti
In base al conto di Bocca, infatti, il 18 settembre 1943 i partigiani erano in tutto 1.500, di cui un migliaio di “autonomi”: bande di militari nate dallo sfasciarsi del Regio esercito, che si collegheranno poi in gran parte con la Democrazia cristiana o il Partito liberale. Nel novembre del 1943 sono 3.800, di cui 1.900 autonomi. La sinistra diventa maggioritaria nel 1944: al 30 aprile ci sono 12.600 partigiani, di cui 5.800 delle Brigate Garibaldi, organizzate dal Pci; 3.500 autonomi; 2.600 delle Brigate Giustizia e Libertà del Partito d’Azione; 600 di gruppi più o meno esplicitamente cattolici. Per il luglio 1944 c’è la stima ufficiale di Ferruccio Parri che per conto del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (Clnai) stima 50.000 combattenti: 25.000 garibaldini, 15.000 giellisti e 10.000 autonomi e cattolici. Bocca vi aggiunge un 2.000 tra socialisti delle Brigate Matteotti e repubblicani delle Brigate Mazzini e Mameli. Nell’agosto del 1944 si arriva a 70.000 e nell’ottobre a 80.000, che però calano a 50.000 in dicembre. Giorgio Bocca poi conta 80.000 uomini ai primi del marzo 1945, cita una stima del comando generale partigiano su 130.000 uomini al 15 aprile, e calcola che “nei giorni dell’insurrezione saranno 250.000-300.000 a girare armati e incoccardati”. Anche di questa massa i garibaldini, ammette Bocca, “sono la metà o poco meno”.
Ma al di là della polemica interna sul peso delle varie componenti, il dato interessante è che stando a questa stima appena un partigiano su 23 ha combattuto per almeno un anno; 5 su 6 hanno preso le armi negli ultimi 4 mesi; quasi 4 su 5 negli ultimi 2 mesi; e addirittura uno su due negli ultimi 10 giorni! Insomma, la tesi secondo cui in Italia nel 1945 ci fu una gran massa di eroi della sesta giornata, come si diceva a Milano dopo le cinque giornate del 1848, non è calunnia, ma verità storica acclarata. E che corrisponde d’altronde a una precisa logica militare: sono sempre i finali aggregarsi di masse alle élites guerrigliere a segnare il trionfo delle rivoluzioni.
Ma fu davvero questa “rivoluzione” a liberare l’Italia? Anche qui, piuttosto che sulle polemiche è opportuno basarsi sulle cifre. Oltre a quello dei partigiani alle dipendenze dei partiti del Cln, in Italia tra settembre 1943 e aprile 1945 furono arruolati altri due eserciti. Il secondo fu il complesso delle forze militari della Repubblica Sociale Italiana (Rsi), che secondo una stima redatta dal Comando Ss di Milano contavano al 9 aprile 1945 attorno ai 130.000 uomini: 72.000 della Guardia Nazionale Repubblicana, nata dalla fusione tra carabinieri, Milizia e Polizia Africa Italiana; tra i 30.000 e i 35.000 soldati delle quattro divisioni regolari (Littorio di granatieri, Italia di bersaglieri, Monterosa di alpini, San Marco di fanteria di marina); 22.000 delle Brigate Nere, organizzazione armata del Partito Fascista Repubblicano; 4.800 della X Mas di Junio Valerio Borghese; 1.050 della Legione Autonoma Ettore Muti. Da parte sua Rodolfo Graziani in un suo memorandum a Mussolini del 25 giugno 1944 aveva stimato in 400.000 gli uomini chiamati dalla Rsi “alle armi e al lavoro”.
Truppe alleate sfilano tra la folla di Corso Lodi a Milano (foto LaPresse)
Il terzo esercito, infine, fu quello del Regno del Sud, che iniziò coi 6.000 uomini del Raggruppamento italiano motorizzato entrato in linea il 7 dicembre 1943, e mandato subito al macello sul fronte di Cassino, contro le posizioni di Monte Lungo e Monte Maggiore. Dal 18 marzo 1944 assunse il nome di Corpo Italiano di Liberazione (Cil), e nel luglio 1944 diede vita ai quattro Gruppi di Combattimento Friuli, Cremona, Legnano e Folgore, ognuno con un organico compreso tra i 9.500 e 12.000 uomini. Questi “Gruppi”, nucleo del futuro Esercito Italiano ricostituito, entrarono in linea nel gennaio del 1945 e parteciparono allo sfondamento sulla Linea Gotica sul fronte adriatico, assieme ai polacchi del generale Anders e a quella Brigata Ebraica embrione del futuro esercito di Israele (e i cui reduci nelle manifestazioni del 25 aprile si sono visti sventolare in faccia la bandiera palestinese). In particolare fu il Gruppo Friuli la prima unità alleata a entrare a Bologna. Come ammetteva invece Graziani nel già citato memorandum del 28 giugno 1944, malgrado i 400.000 richiamati la Rsi contro gli alleati non aveva “potuto inviare al fronte che quattro battaglioni di volontari, il Barbarigo, il Folgore, e due delle Ss”.
Un partigiano su 23 ha combattuto per un anno; 4 su 5 negli ultimi 2 mesi; e addirittura 1 su 2 negli ultimi 10 giorni
In particolare il comportamento di 1.400 paracadutisti che si fecero massacrare per cercare di fermare l’avanzata americana su Roma fu eroico. E va pure ricordato che la X Mas di Borghese, cui apparteneva il Battaglione Barbarigo, nel 1945 avrebbe combattuto sia contro i titini che contro la Friuli. Ma a parte questi casi numericamente marginali, resta il dato obiettivo che mentre il Regno del Sud riuscì a partecipare alla guerra vera e propria, la Rsi sostanzialmente no. E ciò perché i 130.000 uomini rimasti dopo la falcidia di diserzioni e imboscamenti erano stati distolti dalla guerriglia partigiana, che aveva trattenuto dal fronte anche almeno 70.000 soldati tedeschi. Insomma, la Resistenza è certo sopravvalutata, ma oggettivamente distrasse almeno 200.000 combattenti che agli Alleati avrebbero potuto dare più di un fastidio.
Ma dato alla Resistenza quel che è della Resistenza, bisogna pure dare agli Alleati quel che è degli Alleati. E anche qui, le cifre e le date parlano da sole. La Resistenza, cresciuta tra settembre e dicembre del 1943 al momento dell’avanzata alleata, subisce i primi micidiali rovesci tra la fine del dicembre del 1943 e il febbraio 1944, quando l’inverno arresta le operazioni sul fronte di Cassino e i tedeschi fanno allora grossi rastrellamenti che distruggono gran parte delle prime bande. Ed è proprio di questo shock che i “rivoluzionari professionali” del Partito Comunista e di quello d’Azione approfittano per prendere il sopravvento sugli autonomi, riorganizzando gran parte degli sbandati e inquadrando le nuove reclute nel momento in cui la ripresa dell’offensiva Alleata costringe i tedeschi ad allentare la presa. E la successiva avanzata degli anglo-americani dalla Linea Gustav alla Linea Gotica consente dunque alle bande di moltiplicarsi e attaccare, fino a creare le famose “repubbliche partigiane”: da Alba all’Ossola, alla Carnia, a Montefiorino. Ma il nuovo arrestarsi del fronte con l’autunno coincide con una nuova crisi, e sebbene i vertici partigiani contestino quel “Proclama Alexander” con cui il comandante inglese ha chiesto loro di sbandarsi in attesa della bella stagione, di fatto tra ottobre e dicembre del 1944 la cifra dei combattenti quasi si dimezza, mentre le repubbliche partigiane sono riconquistate l’una dopo l’altra. Infine, la moltiplicazione finale degli effettivi e la presa delle città coincide con la finale offensiva Alleata.
Insomma, i partigiani spadroneggiavano quando dovevano vedersela solo con le forze della Rsi, ma erano messi alla corda ogni volta che i tedeschi potevano distrarre dal fronte abbastanza forze da fare un repulisti. E un dato oggettivo è pure che sebbene dopo lo sbarco in Provenza del 15 agosto 1944 il confine delle Alpi fosse ridivenuto fronte tra tedeschi e Alleati, benché alle immediate retrovie di questo fronte il Piemonte fosse la regione con le bande partigiane più forti e agguerrite, i tedeschi riuscirono a reggere quella linea fino ad aprile inoltrato senza alcun problema. Conclusione: senza i partigiani, gli Alleati ci avrebbero messo un po’ di mesi in più a risolvere la guerra in Italia. Ma senza gli Alleati, la Resistenza non avrebbe potuto neanche cominciare.
FONTE:https://www.ilfoglio.it/cronache/2019/04/25/news/litalia-se-desta-ma-non-se-liberata-lhanno-fatto-gli-alleati-251421/
IL 25 APRILE NON C’È STATA ALCUNA LIBERAZIONE: DITELO ALLA DONNA ITALIANA STUPRATA DA 100 AFRICANI
E’ stupefacente che un paese governato da un manipolo di non-eletti imposto all’Italia da oscure élites finanziarie, si illuda di “festeggiare” un giorno che, alcuni ma non tutti, considerano di “liberazione” dalla dittatura.
Forse viviamo in un’epoca democratica? E’ “dittatura” solo quando il capo del governo si affaccia da un balcone indossando una divisa e non, quando la mezza figura d’un mediocre politicante deruba il popolo della propria identità, traghettando famelici clandestini nelle sue strade, nelle sue case? Quando decide per decreto che i cittadini debbano rimanere chiusi in casa?
Oggi, come ogni anno, si trascinerà la solita pantomima dei “liberatori” in doppiopetto gracchianti parole insulse e vuote. Stavolta non marceranno i “partigiani” che partigiani non sono mai stati, a meno di precoci e improbabili guerriglieri “novenni”.
Quest’anno rimarranno a casa, come recita il nuovo libretto rosso. E canteranno ‘Bella Ciao’ dai loro balconi. Per festeggiare una liberazione che non c’è mai stata. Alcuni di loro, privilegiati rispetto al resto della popolazione, si riuniranno nelle piazze a differenza di tutti gli altri italiani. Ma non importerà a nessuno. Tranne ai media di distrazione di massa.
Come ogni anno, le inutili parole di quell’altro privilegiato che vive sul colle più alto di Roma, attraverseranno l’etere per perdersi e non essere, da nessuno, ricordate.
I nuovi schiavi, senza tema di ridicolo, celebreranno la festa della liberazione, in cattività. Schiavi delle banche, schiavi dell’euro, schiavi di poteri che neanche comprendono. Felici di stare al guinzaglio.
Festeggiano, quando invece, ora, sarebbe tempo di combattere. Non di celebrare vuoti riti. Combattere, come avrebbero combattuto quei partigiani e quei fascisti che, in entrambi i casi, erano convinti di farlo per il bene dell’Italia.
Il 25 Aprile non è mai stata una festa, non si festeggia quando fratelli combattono i fratelli.
E il 25 Aprile non è mai stata una festa anche perché siamo usciti da una gabbia per entrare in una gabbia più grande e piena di luci, ma pur sempre una gabbia: quella “americana”. E dopo quasi un secolo, le basi dei “liberatori” sono ancora qui. I mafiosi che i hanno fatti sbarcare in Sicilia, escono dalle prigioni.
Almeno, l’anno scorso potevamo celebrare la liberazione dai barconi. Visto che l’anno prima erano sbarcati mille clandestini vomitati in Italia da navi straniere:
Come tutti gli anni precedenti. Quest’anno, invece, il business è ripreso. Arricchito dal nuovo business della quarantena di lusso su navi da milioni di euro al mese.
Ma una minoranza militante e iperattiva celebrerà questa data in cui dovremmo ricordare. E piangere. Non tanto o non solo perché non vi è stata alcune ‘liberazione’, a differenza di cosa racconta la vulgata da quasi un secolo, che ci riempie la testa di menzogne. Ma, soprattutto, perché i lutti più grandi, in Italia, non li hanno portati gli occupanti tedeschi, ma i liberatori alleati. E sia chiaro: gli occupanti tedeschi di lutti ne hanno portati.
Si potrebbe scrivere per ore sul numero delle vittime delle marocchinate. Gli stupri di massa delle truppe coloniali francesi, alle quali, addirittura, si è permesso di riposare in cimiteri italiani e alle quali si sono eretti monumenti di ringraziamento.
Le vittime furono migliaia: giovani, anziane, bambine e bambini. Non facevano discriminazioni i famigerati goumiers, le truppe coloniali francesi sotto lo sguardo soddisfatto dei liberatori. Lo stesso sguardo che, è bene ricordare, ebbero anche i franchisti durante gli stupri delle truppe coloniali spagnole contro le donne repubblicane.
Si potrebbe scrivere, dicevamo, per ore sulla striscia di sangue e miseria che hanno lasciato mentre ci ‘liberavano’. Ma basteranno le parole dello scrittore Frédéric Jacques Temple, allora soldato dell’esercito francese.
Scrive Temple in “Les Eaux mortes”: “Stesa sui cuscini sventrati, ancora giovane, con la gonna alzata fino al viso, un viso di cenere incorniciato da bei capelli neri. I neri, grandi e grossi, si lavoravano metodicamente quella donna aperta a forza, ora silenziosa e inerte, che aveva da molto tempo smesso di lamentarsi sotto le violente spinte. Nessuna tregua tra un uomo e l’altro. Erano più di cento, con i pantaloni abbassati e la verga in mano, in attesa del loro turno. Un ufficiale se ne stava vicino alla porta”.
Oggi non è cambiato molto. Solo che i liberatori li chiamano profughi. E gli ufficiali vicini alla porta sono i nostri politici. Oggi al governo.
E avete ancora l’ardire di chiamarla ‘liberazione’?
Nulla da festeggiare. Prepararsi, invece, a combattere.
FONTE:https://voxnews.info/2020/04/25/il-25-aprile-non-ce-stata-alcuna-liberazione-ditelo-alla-donna-italiana-stuprata-da-100-africani/
QUANDO E DA CHI FURONO LIBERATE LE CITTÀ DELL’ITALIA DEL NORD
Linea gotica
La linea gotica costituiva l’ultima forte linea difensiva tedesca prima della pianura padana. Fu predisposta dopo la perdita di Roma (giugno 1944) con lo scopo di creare un muro invalicabile per le forze alleate. Il punto centrale del fronte era poco a nord di Bologna, a cavallo del torrente Idice. Gli Alleati si disposero come segue: gli americani sul versante emiliano; i britannici sul versante romagnolo. Furono questi ultimi a conseguire gli unici risultati positivi nell’estate-autunno 1944: spostarono il fronte di 90km a nord, giungendo dal Rubicone al Senio. Gli americani, invece, durante l’autunno 1944 si spinsero fino a soli 16 km dal capoluogo emiliano, ma di qui non riuscirono a passare oltre.
A fine dicembre ’44 i tedeschi si assestarono sulla sinistra del Senio, da Casola Valsenio (sopra Castel Bolognese) ad Alfonsine, e sulla sponda sinistra del Reno fino al Po di Primaro.
Le armate tedesche
La Xª era schierata dall’Adriatico fino a Bologna e si componeva di un corpo corazzato e un corpo paracadutisti.
La XIVª era schierata dal torrente Idice al mar Tirreno, con un corpo corazzato e un corpo da montagna (con una divisione italiana). Al momento dello scontro finale gli Alleati schierano sulla prima linea 606.000 uomini, di cui 60.000 italiani. I nazifascisti 599.000, di cui 108.000 italiani. La supriorità degli Alleati sugli italotedeschi è di 2 a 1 in truppe e artiglieria, 3 a 1 in mezzi corazzati, assoluta in mezzi aerei. Fu assicurata parità di trattamento tra gli italiani combattenti al di qua e al di là della frontiera: un italiano, sia che fosse catturato catturato dagli Alleati, sia che fosse preso dai nazifascisti, fu considerato prigioniero di guerra.
Le operazioni militari nell’estate-autunno 1944
25 agosto 1944
L’VIIIª Armata britannica attacca la Linea Gotica e sfonda sull’Adriatico.
Le truppe tedesche constrastano l’avanzata degli Alleati dietro ogni corso d’acqua. Per liberare una città bisogna prima attraversare un fiume, che diventa come un ostacolo.
Il 21 settembre 1944 l’VIIIª Armata entra a Rimini. Superato il Marecchia, il 25 raggiunge Santarcangelo; superato l’Uso il 27 entra a Savignano sul Rubicone.
Si pensava che di lì a poco tutto il resto dell’Emilia-Romagna sarebbe stato liberato, invece il successo dell’estate 1944 rimase parziale, episodico. Infatti sul crinale appenninico il tentativo di sfondamento non riuscì. I tedeschi avevano concentrato tutte le loro truppe su Bologna: qui il fronte rimase fermo da ottobre ’44 ad aprile ’45. Gli americani della Vª Armata furono bloccati per tutto l’autunno e l’inverno a 16 km dal capoluogo emiliano. Le truppe britanniche dell’VIIIª Armata, invece, riuscirono ad avanzare progressivamente in Romagna, spostando il fronte dal Rubicone al Senio.
Ottobre 1944
Superato il Rubicone, vengono liberate Cesena e Cesenatico (20 ott.) e Cervia (23 ottobre).
9 novembre 1944
Dopo aver attraversato il Savio e il Ronco, gli alleati entrano a Forlì.
2-4 dicembre 1944
Dopo aver passato il Montone e i Fiumi Uniti gli alleati liberano Ravenna.
Il 16 dicembre liberazione di Faenza, dopo il passaggio del Lamone. Faenza viene liberata da truppe neozelandesi.
Il 30 dicembre il comando alleato ordina la sospensione delle iniziative offensive e ingiunge alle armate di attestarsi nei punti raggiunti. L’avanzata riprenderà nella primavera del 1945.
Le operazioni militari nell’aprile 1945
Dietro gli argini di destra del Reno e del Senio e al riparo di essi, venne preparata la grande offensiva che si scatenò a partire dal 9 aprile 1945.
1 aprile 1945
La LXXVIª divisione britannica inizia l’attacco nella zona di Comacchio. Partecipano alle operazioni i partigiani delle brigate Garibaldi.
9 aprile 1945
La Vª Armata americana (su Bologna) e l’VIIIª Armata britannica (nella Bassa Romagna) iniziano l’offensiva finale.
10 aprile 1945
La 2ª Divisione (della Nuova Zelanda) del V° Corpo britannico libera Cotignola.
L’8ª Divisione indiana libera Lugo.
Il Gruppo di Comb. “Cremona” libera Alfonsine e Fusignano.
11 aprile 1945
Il Gruppo di Comb. “Folgore” occupa Tossignano.
La 43ª Divisione Gurka (indiani) e la 3ª Divisione del II Corpo d’Armata polacco liberano Solarolo.
12 aprile 1945
Il “Folgore” libera Casalfiumanese e Codrignano.
La 3ª Divisione del II Corpo d’Armata polacco libera Castel Bolognese.
L’8ª Divisione indiana libera Sant’Agata sul Santerno.
13 aprile 1945
La 2ª Divisione (della Nuova Zelanda) del V° Corpo britannico libera Massa Lombarda.
14 aprile 1945
Le truppe polacche dalla via Emilia, i Gruppi Folgore e Friuli da Est avanzano verso Bologna liberando Imola.
La 46ª Divisione britannica libera Conselice e Lavezzola.
La 56ª Divisione britannica libera Filo.
16 aprile 1945
La Bastia viene liberata dalla 56ª Divisione britannica.
17 aprile 1945
Il II Corpo d’Armata polacco libera Castel San Pietro e Medicina.
18 aprile 1945
Argenta è liberata dalla 78ª Divisione britannica.
20 aprile 1945
La 2ª Divisione (della Nuova Zelanda) del V° Corpo britannico libera Budrio.
21 aprile 1945
Il II Corpo d’Armata polacco entra a Bologna nella prima mattinata; successivamente viene raggiunto dai Gruppi Friuli e Legnano e da elementi della Vª Armata americana. Nei primi giorni il Gruppo Legnano rimarrà a presidiare la città.
La 28ª Brigata Garibaldi libera Comacchio.
22 aprile 1945
La 167ª Brigata britannica libera Bondeno, Cento e Mirabello.
23 aprile 1945
Un giorno cruciale per la Liberazione: a Finale Emilia l’Armata britannica si congiunge a quella americana, chiudendo in una sacca intere divisioni tedesche.
23-24 aprile 1945
Gli americani liberano Reggio Emilia. I britannici liberano Ferrara.
24 aprile 1945
Reparti britannici e neozelandesi attraversano il Po.
25 aprile 1945
Gli alleati entrano a Mantova, Parma e Verona.
26 aprile 1945
Il Cln Alta Italia proclama pubblicamente l’assunzione dei poteri di governo.
Entra in Milano l’autocolonna partigiana proveniente dall’Oltrepò.
27 aprile 1945
Gli alleati entrano a Genova.
29 aprile 1945
Le avanguardie americane entrano a Milano.
Truppe inglesi raggiungono Venezia.
1 maggio 1945
Reparti nippo-americani della Vª Armata entrano a Torino.
2 maggio 1945
Alle ore 14:00 entra in vigore la resa incondizionata delle truppe tedesche in Italia e in Austria. Al passo del Brennero gli alleati si congiungono con la VII Armata americana proveniente dal Nord.
6 maggio 1945
A Milano sfilano i componenti del Comando Generale del CVL (Corpo Volontari della Libertà) con la bandiera tricolore decorata di medaglia d’oro.
8 maggio 1945
Annuncio dell’Armistizio.
Nella fase finale della «Campagna d’italia», dal 9 aprile al 2 maggio 1945, le perdite dei tedeschi e dei fascisti, tra morti, feriti e dispersi, furono di 70.000 uomini, quelle alleate di 16.700 uomini.
FONTE:https://digilander.libero.it/imiani/Ricerche/Liberazione/liberate.htm
Compagno mitra, le stragi dei partigiani
Per troppo, tanto tempo, era calata la cortina di ferro sulle numerosi stragi sanguinarie dei partigiani
comunisti (è sempre bene distinguere tra partigiani cattolici, la minoranza, e partigiani comunisti, la maggioranza, i più sanguinari, gli ultimi a deporre le armi, e che puntavano alla dittatura russa di stampo bolscevica). A Genova ed in Liguria non si contano le stragi effettuate dopo il 25 aprile 1945, a guerra finita. Con questo intento Gianfranco Stella, sabato 16 febbraio alle ore 17 presso la sede dell’Ugl di Genova, in via di Brera, nel cuore della city, presenta il libro “Compagno mitra”, un volume che cura al dettaglio ciò che fecero i partigiani comunisti dopo la guerra: stupri di massa, pestaggi, uccisioni, preti picchiati, bambini pestati a sangue. E partigiani di altro colore politico uccisi (probabilmente) come Aldo Gastaldi, e quindi le stragi di Castelletto, l’oro di Bargagli rubato ai tedeschi (e i cittadini di Bargagli che si sono arricchiti alle spalle dei nazisti, con ville con piscina) sul Polcevera (come racconta Pansa, venivano trovati galleggianti vari corpi fino alla primavera del 1946, tutti di fascisti), quindi le uccisioni a Quezzi, alla Doria, in corso Gastaldi alla casa dello studente, e poi ancora a Forte Begato sopra il Righi, a Sampierdarena, a Sestri Ponente, la fine che fecero i pochi fascisti di Voltri, di Campomorone.
FONTE:https://www.genovasi.it/index.php/notizie/12861-compagno-mitra-le-stragi-dei-partigiani
I sette fratelli Govoni, uccisi dopo una notte di torture dai partigiani rossi
Ida, 20 anni,
Primo, 22 anni,
Augusto, 27 anni, Giuseppe 30 anni,
Emo, 31 anni,
Marino 33 anni,
Dino, 41 anni.
Sono tutti morti l’11 maggio 1945.
E tutti facevano di cognome Govoni. Li hanno assassinati a guerra finita dopo averli torturati per una intera notte, i partigiani comunisti delle brigate Garibaldi ad Argelato, in comune di Pieve di Cento nel Bolognese. Ma se chiedete oggi agli studenti chi erano questi fratelli Govoni, forse uno su mille saprà darvi la risposta, mentre la percentuale è altissima se chiedete chi erano i fratelli Cervi. E quale studente, o giornalista, o storico, sa chi era Jolanda Crivelli, la giovane ventenne rapita, percossa a sangue, violentata, assassinata e lasciata appesa per un piede a un albero per due giorni a Cesena solo perché moglie di un combattente della Repubblica Sociale? A guerra finita? Pochi, o forse nessuno. Questa è la prova che ancora oggi, sin da dopo la guerra, le vicende della guerra civile italiana sono state rappresentate e raccontate in maniera falsa, omettendo tutto ciò che di male avevano commesso i partigiani ed esaltando tutto ciò che avevano fatto i combattenti della Repubblica Sociale italiana. A scuola non si insegna che pochi eroi con scarsi mezzi si levavano ogni giorno in volo contro nemici anche cento o duecento volte superiori di numero, per difendere la popolazione civile italiana dai bombardamenti terroristi dei cosiddetti “alleati”, alleati che rifornivano anche i partigiani di tutte le risorse affinché potessero compiere i loro attentati, come quello di via Rasella. A scuola non si insegna che una donna incinta è stata assassinata per strada dai partigiani perché colpevole di essere fidanzata con un marò della Decima Mas. A scuola non si insegna delle centinaia di ausiliarie della Rsi torturate, stuprate e assassinate dai partigiani rossi. Ma si insegna che i partigiani erano tutti eroi e i combattenti della Rsi mostri. Non è così. Sono pochissimi anni, dopo una cortina di silenzio e di omertà voluta dai comunisti e attuata dai democristiani, che la verità storica lentamente sta emergendo, e forse ci vorranno altri decenni per capire che in una guerra non ci sono buoni e cattivi. La interpretazione manichea della tragedia italiana sta per essere sconfessata, e solo quando si conosceranno tutte le verità sarà possibile dare un giudizio storico e morale su quelle vicende. Si sappia, i giovani sappiano, che per oltre settant’anni i vincitori hanno raccontato menzogne.
Ida Govoni, 20 anni, fu rapita mentre allattava la figlia e trucidata
Quella dei sette fratelli Govoni, di Pieve di Cento, di cui ricorre il 72° anniversario del massacro, è certamente una delle pagine più atroci della guerra civile italiana tra fascisti e partigiani. Per loro non c’è un museo, le scolaresche non vengono intruppate per vedere dove vissero e dove morirono. Su migliaia di libri sulla guerra civile, neanche dieci parlano di loro. Eppure la loro tragedia e quella della loro famiglia è indicativa per rappresentare l’atmosfera di selvaggia violenza, di terrore, di intimidazione e di omertà che in quegli anni regnava in Emilia Romagna e altrove. Accusati di essere fascisti, in realtà solo due di loro avevano risposto alla chiamata obbligatoria della Repubblica Sociale Italiana, furono sottoposti a torture indicibili e linciati dalla brigata partigiana garibaldina Paolo dopo torture e sevizie durate ore. La più giovane di loro, Ida, che aveva solo vent’anni e non si occupava di politica, fu sequestrata mentre stava allattando la figlia di due mesi e brutalmente assassinata. Dei sette fratelli Govoni solo uno risultò essere morto per un colpo di arma da fuoco, mentre gli altri furono massacrati a botte, bastonate, calci e infine strangolati col filo del telefono. I fratelli Govoni, tutti contadini da generazioni, erano in tutto otto, ma una, Maria, si era trasferita dopo il matrimonio e i criminali non riuscirono a rintracciarla. La storia è resa ancora più penosa dal fatto che dopo il massacri i partigiani buttarono i corpi in un fossato anticarro e si rifiutarono di dire ai genitori dove fossero le spoglie. Addirittura la madre Caterina fu derisa e poi picchiata a sangue da due donne dopo che aveva implorato un partigiano del paese di dirgli dove fossero sepolti i suoi sette figli. Il partigiano avrebbe risposto: «Procurati un cane da tartufi e vai a cercarli». Tutti nel paese sapevano, perché il massacro era stato perpetrato da decine di persone, ma nessuno parlava, perché i comunisti tenevano il circondario nel terrore di nuove vendette e omicidi. Solo qualche anno dopo chi sapeva parlò: era il fratello di una delle vittime della furia partigiana, che raccontò tutto ai carabinieri. Nel 1949 i componenti la brigata garibaldina che si era macchiata di quella strage furono denunciati, ma nel frattempo gli assassini erano stati messi al sicuro in Cecoslovacchia dal Partito Comunista Italiano. Questo come è noto avvenne per molti altri responsabili di omicidi nei confronti di civili innocenti, come ad esempio nel caso degli assassini di un settantenne inerme, tale Giovanni Gentile.
FONTE:https://www.secoloditalia.it/2017/05/i-sette-fratelli-govoni-uccisi-dopo-una-notte-di-torture-dai-partigiani-rossi/
I partigiani di via Rasella furono eroi? Dibattito ancora aperto da affrontare senza pregiudizi
Mercoledì 1 Maggio 2019
Egregio direttore,
il 27 scorso, ha pubblicato una lettera di Mattia Bianco relativa agli eccidi compiuti dai tedeschi negli anni 1943-45 in Italia, giustificandoli come risposta agli attacchi dei partigiani. Va bene che nella rubrica delle lettere si deve dare spazio a tutte le opinioni, ma purché siano corrette e attendibili. Non credo che lei pubblicherebbe una lettera nella quale si sostenga la legittimità della tortura per far confessare un presunto colpevole, sia pure un terrorista in possesso di informazioni importanti. Ed allora perché pubblicare una lettera che cerca di giustificare le atrocità dei nazifascisti?
Mario Ferrarese
Rovigo
Caro lettore,
questa pagina è stata pensata come una palestra in cui ciascuno può, nei limiti di spazio consentiti, esprimersi. Continuerà a rimanere tale, anche se, non di rado, le opinioni di qualche lettore non coincidono con le nostre. La Resistenza continua ad essere, pur dopo molto decenni, un tema molto divisivo come dimostrano i numerosi e diversi punti di vista che abbiamo pubblicato. Non credo che Mattia Bianco, di cui non condivido alcune affermazioni, volesse fornire una giustificazione alle stragi e agli orrori dei criminali nazisti: se avessi dato questo significato alla sua lettera non l’avrei certamente pubblicata. Credo invece che Bianco volesse riproporre perplessità e dubbi su alcune vicende della guerra di Liberazione su cui, purtroppo, la storia non ha affatto posto il suo sigillo. Non per tutti, almeno. Il caso forse più clamoroso è quello dell’attentato di via Rasella. Da decenni è in atto una contesa infinita e inesauribile tra chi considera eroi i partigiani gappisti che uccisero in quella strada di Roma 33 soldati tedeschi e due civili italiani e chi invece considera quell’attentato un errore e una scelta sbagliata, che provocò poi la strage orrenda delle Fosse Ardeatine. Sulle pagine de l’Unità qualche anno fa, Claudio Bussi, figlio di Armando, partigiano e fra le vittime delle Fosse Ardeatine, scrisse che «l’attentato di via Rasella fu un atto di guerra, dettato da emotività più che da un preciso ragionamento, discutibile sul piano dell’opportunità e sbagliato se messo in relazione con le finalità che si volevano raggiungere». Bussi fu duramente attaccato, ma si può ragionevolmente pensare che con la sue parole volesse fornire un alibi ai crimini dei nazisti? Lo escluderei. Il problema, di fondo, è un altro. La Liberazione è stato un momento fondante e fondamentale della nostra democrazia. Va difeso dai revisionismi interessati. Ma deve poter essere sottoposta a un’analisi storica attenta e rigorosa. E depurata da pregiudizi e scorie ideologiche.
FONTE:https://www.ilgazzettino.it/lettere_al_direttore/lettera_di_mattia_bianco_relativa-4463800.html
Porzus, la “strage partigiana”
Sett’anni fa l’eccidio dei partigiani italiani in Friuli
Febbraio 1945. Ancora pochi mesi e la seconda guerra mondiale volgerà finalmente al termine ma la situazione in Friuli, nella zona italo-slovena della “Slavia Friulana” non è né tranquilla né semplice: da tempo ci sono contrasti tra il IX Korpus partigiano sloveno, facente parte dell’Esercito popolare di liberazione della Jugoslavia, e i partigiani italiani delle Brigate Osoppo-Friuli, inquadrate nel braccio armato del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia, il Corpo Volontari della Libertà. Alla radice di una rottura da tempo vista insanabile la natura politica degli schieramenti: il Korpus sloveno, tra cui sono inquadrate alcune divisioni garibaldine italiane dopo accordi tra esso e il Pci (Partito Comunista Italiano), è dedito totalmente all’ideologia comunista mentre le Brigate Osoppo raccolgono le altre formazioni politiche e autonome quali quelle monarchiche, azioniste, cattoliche: una visione “politica” agli estremi che avrebbe dovuto essere accantonata nello sforzo militare congiunto per la lotta al nazifascimo ma che invece fin dal suo inizio ha visto una collaborazione nulla, andando in alcune vicende a sfociare in delazioni, furti e accuse di collaborazionismo: gravi reati che venivano contestati ai partigiani delle Osoppo, rei di trattenere tutto il materiale paracadutato dall’Esercito inglese (che non sopportava nè di armare partigiani “rossi” né la presenza sul campo) e di arruolare tra le loro fila soldati della RSI come di intrattenere rapporti esclusivi con essa, allo scopo presto di unirsi in una lotta aggressiva anticomunista.
L’acme viene raggiunto alla fine di gennaio del 1945, quando viene ordinato alla Brigata garibaldina “Natisone” di “liquidare” la I Brigata Osoppo, la maggiore e più presente nel territorio friulano, rea di non inglobarsi con il Korpus sloveno e non condividere armi e materiali paracadutati e di nascondere una spia fascista addidata da Radio Londra, Elda Turchetti. L’interpretazione dell’ordine, che per i successivi anni sarà oggetto di aspri dibattiti, controversie e “nebbia ideologica” destinata a permanere anche dopo il crollo comunista negli anni 90 e fino alla morte dei responsabili che spesso si porteranno i segreti nella tomba, non è chiara a molti ma lo è per i GAP (Gruppi di Azione Patriottica) della Natisone, che radunano cento partigiani e si muovono nella zona di Porzus dove, fattisi passare per sbandati evasi da un treno diretto in Germania, penetrano nel perimetro della I Brigata Osoppo e lì, dal 7 al 18 febbraio uccideranno almeno 17 partigiani con esecuzioni sommarie, facendone spesso sparire i corpi. Dovrà passare più di un mese prima che si abbiano notizie dell’eccidio, anche con goffi tentativi di attribuirne la responsabilità alle forze nazifasciste, cui seguiranno poi inchieste partigiane nonché processi giudziari per i successivi quindici anni con alterne dichiarazioni di colpevolezza, ritrattazioni e varie condanne, che però tra latitanze,amnistie e domande di grazia non sfoceranno mai nel carcere se non in quello scontato a livello preventivo durante i processi. Sono passati 70 anni dai tragici fatti eppure l’ombra della strage di Porzus è viva, mai sanata come sarebbe dovuto accadere in un paese civile ma “sacrificata” nella guerra fredda, al pari degli “armadi della vergogna” in merito alle stragi nazifasciste, e nella distensione diplomatica con la Jugoslavia. Vani i tentativi, anche da parte della sinistra politica italiana, di far luce in maniera corretta sui tragici fatti e sulle responsabilità, richieste che si sono sempre scontrate con un “muro di gomma” politico o addirittura sulla paura della gente anche dopo molti anni. Vano è stato anche il tentativo di documentazione asciutta del regista Franco Martinelli, che nel 1997 girò il film “Porzus” a ricordo della strage: Martinelli ebbe non poche difficoltà a girare nei luoghi interessati a causa dei divieti imposti dai sindaci della zona e venne cercato di proibirne la proiezione al Festival di Venezia, poi successivamente la Rai acquisì i diritti sulla pellicola e trasmettendola solo nel 2012, dopo che precedentemente il regista aveva accusato la stessa di una censura “politica” nei confronti del film.
Settant’anni da una strage “partigiana”: partigiani le vittime e partigiani i carnefici, che in nome della storia e della pace meriterebbe, oltre allo sforzo di numerosi lavori storiografici tesi a stabilire i fatti, anche una verità chiara e semplice, perché in futuro non possa ripetersi.
FONTE:https://www.notizienazionali.it/notizie/attualita/6607/porzus-la-strage-partigiana
La verità su S’Anna di Stazzema
La storia della Resistenza comunista italiana è costellata da episodi talmente orrendi che sembrano, visti con gli occhi di oggi, assurdi e incredibili. In realtà tali episodi non furono né casuali né sporadici; i partigiani seguivano una linea ideologica e strategica ben precisa e già collaudata alla nascita dell’Unione Sovietica. Per potere perseguire la logica della resistenza comunista, rappresentata dalla strategia del terrore, servivano uomini che sapevano essere cinici e sanguinari, perché solo chi é permeato da tanta disumanitá puó apprezzare l’ideologia comunista.
La presenza permanente ed attiva dei criminali comuni all’interno della resistenza non deve per nulla stupire. Tra delinquenti della peggior specie e partigiani non c’era nessuna differenza e nessuna divergenza, sia di vedute che di comportamento anzi, la posizione dei partigiani è più grave perché, sia la pianificazione che l’esecuzione dei delitti erano la risultante della più sanguinaria freddezza e del più cinico odio ideologico. Ecco perché i crimini della resistenza sono particolarmente efferati. Che fossero dei criminali comuni o criminali guidati dall’ideologia (questo erano i partigiani), tutti gli autori di delitti furono coperti con ogni mezzo e in modo sistematico, sia dall’apparato del partito comunista italiano che da quello sovietico, sino ad organizzarne, qualora non ci fossero altri mezzi per proteggerli, la loro fuga ed il mantenimento nell’Unione Sovietica di Stalin.Tra gli innumerevoli esempi che consentono di comprendere perfettamente quale era la costante che contraddistinse sempre la strategia delle bande armate comuniste, si puó citare la tragica vicenda che il 12 agosto 1944 coinvolse Sant’Anna di Stazzema, un paesino dell’entroterra Lucchese, localitá nota come paese “vittima di stragi” da parte tedesca e fascista.
In realtá anche in questo caso, nulla togliendo alla crudezza germanica, furono i partigiani a fare inferocire i tedeschi, con il preciso scopo di indurli a compiere una rappresaglia, (che porterà alla fucilazione di quasi tutti gli abitanti del piccolo borgo).
Prima di addentrarci nella lettura che segue, vorrei fare una premessa! è ormai risaputo che il mesto operato dei partigiani non fu mai di nessuna importanza per le sorti del conflitto, come se ciò non bastasse, gli alleati, che pure si servirono di questi mascalzoni, non li ebbero mai in alcuna considerazione, tanto che essi per primi li considerarono sempre dei viscidi criminali.
Dell’amara vicenda di questo piccolo borgo ci sono chiare testimonianze di alcuni sopravvissuti. Tra di essi il signor Duilio Pieri, che nella strage perdette il padre, la moglie, due fratelli, le cognate e quattro nipotini, e che dal 1945 è presidente del locale “Comitato vittime civili di guerra”. I partigiani in questione erano i criminali della brigata 10/bis Garibaldi, i quali seguivano l’ormai collaudata tecnica: per prima cosa effettuarono alcuni agguati contro i tedeschi, che a loro volta risposero con una serrata ricerca dei ribelli nelle campagne circostanti al paesino. In quell’occasione i partigiani si introdussero a forza dentro le case e da lì spararono contro i tedeschi (questa operazione mirava a indurre i tedeschi a pensare che tra la gente del posto vi erano partigiani, o che la gente del posto desse loro protezione, azione che faceva scattare il diritto di rappresaglia).
A loro volta i tedeschi effettuarono una prima rappresaglia nella quale si limitarono a dare alle fiamme le case da dove erano partiti i colpi. Ma i partigiani continueranno nei loro agguati, sempre col medesimo scopo, indurre i tedeschi (in quel caso si trattava di un battaglione della 16° Divisione SS Reichsführer) a compiere altre rappresaglie. Con l’intento di non fare sfollare i civili, per farli uccidere, i partigiani tranquillizzarono la gente del posto assicurando loro che in caso di una nuova rappresaglia li avrebbero difesi. Infatti ben presto i tedeschi, decisi a “bonificare” la zona, affissero l’avviso di sgombero della popolazione per via dell’imminente rappresaglia (con tanto di avviso che avvertiva che chiunque fosse stato trovato nell’abitato sarebbe stato passato per le armi perché considerato fiancheggiatore dei partigiani).
Racconta Amos Moriconi, un ex minatore che in quel periodo faceva il fornaio, che nella strage perdette la moglie, la figlioletta di due anni, la madre, due sorelle, un fratello e il suocero.<<(…) I comunisti però intervennero subito, strappando il manifesto tedesco e affiggendone un altro nel quale facevano obbligo ai civili di non muoversi. Che cosa dovevamo fare? Eravamo presi tra due fuochi. La presenza minacciosa dei partigiani comunisti era molto più concreta di qualsiasi ordinanza tedesca. Così restammo tutti. Gli abitanti di Sant’Anna, gli sfollati che avevano cercato salvezza nel borgo appenninico non potevano certo sospettare, in quei momenti, che i comandi comunisti avevano freddamente deciso di sacrificarli. I partigiani calcolarono infatti cinicamente che le SS avrebbero scambiato gli uomini di Sant’Anna per partigiani comunisti e li avrebbero massacrati, tornando quindi alle loro basi con la certezza di aver “ripulito” la zona.>> Amos Moriconi continua il racconto:<<(…)Ricordo che affrontai uno degli ultimi partigiani che si accingevano a lasciare il paese e gli dissi: “Perché ci abbandonate? Voi sapete bene di averci infilato in una rete e sapete anche che i tedeschi non ci risparmieranno. Avevate promesso di difenderci. Dove ve ne andate adesso?”. Ma quello mi guardò ghignando e si allontanò senza rispondermi>>.
Ben si comprende che la strategia delle bande comuniste era quella di condurre a morte certa i civili.
Racconta ancora, Amos Moriconi. <<La strage incominciò poco dopo le sei del mattino. I tedeschi, circondata la vasta conca dell’anfiteatro dove sorge Sant’Anna, si divisero in squadre, penetrando simultaneamente nelle diverse frazioni che compongono il paese: Argentiera, Le Case, Franchi, Vaccareccia, Coletti, Bambini, Colle, Sennari e Molini.
La popolazione venne colta di sorpresa. L’allarme però corse fulmineo di casa in casa e furono numerosi coloro che riuscirono a mettersi in salvo gettandosi nei boschi che circondano Sant’Anna. Ma, come già era accaduto in occasione di precedenti allarmi del genere, solo gli uomini tra i 18 e i 60 anni cercarono scampo. Fino a quel momento, infatti, l’incubo della rappresaglia aveva sempre risparmiato, almeno nello Stazzemese, i vecchi, le donne e i bambini.
Nessuno in paese, quella mattina, poteva sospettare che i tedeschi fossero decisi a uccidere senza pietà, quali “fiancheggiatori” dei partigiani, tutti gli abitanti di Sant’Anna. Nessuno poteva immaginarlo, ad eccezione però di alcune persone: i capi partigiani comunisti della zona. Questi, infatti, sapevano benissimo che i tedeschi, quando ritenevano di dover eliminare qualsiasi presenza partigiana in un determinato settore, non esitavano a massacrare anche i civili che abitavano nella zona. Lo sapevano anche perché proprio in quelle ultime settimane, e specie nel territorio della provincia di Arezzo, centinaia di innocenti erano stati trucidati nel corso di alcune feroci ritorsioni scatenate dalla attività criminose di formazioni partigiane rosse. Ma i capi comunisti, fedeli alle direttive della “guerra privata” condotta dall’organizzazione rossa, si guardarono bene dal mettere sull’avviso gli abitanti di Sant’Anna: a loro, quegli uomini, quelle donne, quei bambini, facevano più comodo da morti che da vivi, visto e considerato, tra l’altro, che nessuno degli abitanti del paese aveva voluto entrare nelle formazioni partigiane comuniste.>>
Un altro sopravvissuto, Mario Bertelli, in un primo momento pensò che comunisti alla fine sarebbero intervenuti in difesa del paese e della popolazione ma si trattò di una illusione che durò poco. Bertelli racconta <<(…) Dal mio nascondiglio potevo sentire l’eco degli spari e delle raffiche. La distanza mi impediva di udire le grida e le invocazioni d’aiuto. Per un po’ di tempo ritenni così che i tedeschi sparassero più che altro per intimidire la popolazione come era già accaduto altre volte. Poi cominciai a vedere il fumo degli incendi. Bruciavano case un po’ dovunque. Mi resi conto che la situazione si stava facendo tragica. Ero solo, senza armi. Tornare in paese in quelle condizioni non sarebbe servito a nulla: non avrei potuto aiutare i miei familiari e sarei caduto subito nelle mani dei tedeschi. Trascorsi così ore di agonia. Alla fine gli spari diminuirono di intensità e poi cessarono del tutto. Mi avviai allora verso l’abitato. Avrei voluto correre ma ero troppo debole a causa della malattia: il terrore di quanto avrei potuto vedere in paese mi piegava le gambe. Quando giunsi, molte case stavano bruciando. Mi avvicinai alla prima: vidi alcuni cadaveri tra le fiamme. Allora corsi urlando come un pazzo verso la mia casa. Era stata distrutta dalle fiamme, ma tra le macerie infuocate non trovai alcun cadavere. Mi spinsi allora fino alla piazza della chiesa, da dove vedevo levarsi un fumo denso. Ma quando vi arrivai, una scena spaventosa mi inchiodò al suolo senza che avessi più la forza di avanzare di un passo: un mucchio enorme di cadaveri stava bruciando lentamente. Ad un tratto mi sentii afferrare convulsamente e una voce, quella di mio padre, singhiozzò: “Sono là dentro… tutti”. Seppi cosi che nell’orribile cumulo e erano anche mia moglie, mia madre, le mie sorelle Pierina e Aurora e mio nipote. La rappresaglia però non si accanì contro tutte le frazioni che compongono Sant’Anna. Nella frazione Sennari, per esempio, le SS diedero fuoco ad alcune case e radunarono tutta la popolazione in una piazzetta. Sistemarono quindi le mitragliatrici per falciare quei poveretti: giunse però all’ultimo momento un ufficiale che impedì il massacro.
Nella frazione Bambini, i tedeschi non bruciarono case e non uccisero alcuno. Le altre frazioni, invece, furono quasi tutte distrutte e gli abitanti massacrati. Non si è mai capito il perché di questa terribile selezione. Una risposta può essere data dal fatto che le SS conoscevano o perlomeno, credevano di conoscere l’ubicazione delle case nelle quali erano stati ospitati i partigiani o, peggio, dalle quali i partigiani avevano fatto fuoco contro i loro camerati. Infatti durante il rastrellamento, accanto ai tedeschi c’era un ex partigiano comunista di nazionalità polacca, diventato spia delle SS (di norma i partigiani presi prigionieri, per evitare di essere fucilati, tradivano sistematicamente i loro compagni, mandandoli a morte certa, oppure si mettevano al servizio dei tedeschi indicando loro le frazioni da distruggere e le famiglie da massacrare perché nascondevano partigiani).
I tedeschi compirono la loro rappresaglia e se ne andarono, dopodiché i partigiani, che erano rimasti a godersi lo spettacolo nascosti poco distante dal centro abitato, rientrarono in paese per compiere ció che fu sempre la prerogativa di questi sciacalli , il saccheggio delle case e l’espoliazione dei cadaveri, non mancando mai di strappare persino eventuali protesi dentarie in oro.
Racconta Amos Monconi:<<(…) Fu allora che qualcuno mi disse che era necessario seppellire subito i morti. Raccolsi un pò di attrezzi e scavai una grande buca. Poi vi trasportai le salme dei miei congiunti e cercai di comporle prima di seppellirle. Mentre mi stavo dedicando a questa terribile incombenza, vidi i partigiani. Erano due. Uno lo conoscevo bene da tempo: era un milanese che si faceva chiamare “Timoscenko”. Si avvicinarono a me. Notai subito che avevano le tasche piene di portafogli, oggetti d’oro e d’argento. Se ne erano infilati anche dentro la camicia. Li guardai senza parlare. “Timoscenko” allora mi disse: “Devi consegnarci tutti i soldi e gli oggetti di valore che trovi sui morti. Siamo noi che dobbiamo prenderli in consegna”. Mi sentii salire il sangue alla testa; impugnai la piccozza e la alzai di scatto; “Vattene” gli dissi… “Vai via se non vuoi che ti spacchi il cranio”. “Timoscenko” esitò un momento poi, senza replicare, si allontanò”. Sul conto di questo “Timoscenko” e altri partigiani comunisti ne abbiamo sentite raccontare di tutti i colori. Furono visti entrare nelle case dove non era rimasto vivo più nessuno e uscirne dopo aver fatto man bassa. Furono anche visti spartirsi il bottino.
Il racconto di Amos Monconi fu confermato da Teresa Pieri, una delle superstiti la quale, raccontando ciò che vide qualche giorno dopo la strage affermò <<(…)scesi a Valdicastello, in una strada riconobbi due partigiani comunisti che avevo visto tante volte a Sant’Anna. Mi avvicinai e mi accorsi che si stavano dividendo soldi, braccialetti, catenine d’oro. Tutta roba rapinata sui cadaveri dei nostri cari>>.
Vincenzo Ballerino
FONTE:https://www.ereticamente.net/2015/09/la-verita-su-sanna-di-stazzema.html
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Eccidio della “Buca del diavolo”
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Eccidio di Argelato (Volta Reno e Casadio)
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Eccidio Viazza – Budrio
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Francesco Moranino : criminale comunista
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Giuliano Gaggiani : criminale comunista partigiano
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I partigiani assassini amati dal PD
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La famiglia Corradi – Baricella
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La malafede partigiana e comunista
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L’assassinio del Conte Gualtiero Isolani Lupari – Minerbio
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L’assassinio della Marchesa Maria Giordani Catalano Gonzaga
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La tragica storia di Wilma Vecchietti – Baricella
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La 36a Brigata Garibaldi “Bianconcini”
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Leandro Arpinati
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L’eccidio dei sette fratelli Govoni
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L’eccidio di Baricella
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L’eccidio di Schio
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L’odio partigiano e comunista : l’assassinio di Giuseppina Ghersi
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Partigiano comunista assassino : Guerrino Avoni
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Pranzini Giovanni – Baricella
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Rosa Atti – San Pietro in Casale
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Terroristi graziati dai Presidenti della Repubblica
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Vittime dell’odio comunista nel “triangolo rosso”
FONTE:http://www.italian-samizdat.com/p/crimini-dei-partigiani-comunisti.html
RAPPRESAGLIE PARTIGIANE
di Ernest Armstrong
Rappresaglia. Nell’immaginario collettivo creato dal “mito resistenzialista”, all’udire questa parola appare l’immagine di un plotone di tedeschi che fucilano 10 innocenti civili italiani per ogni loro camerata morto.
In realtà la rappresaglia fu attuata da tutti gli eserciti che combatterono nella seconda guerra mondiale, come ricorda anche Gianni Alasia, attuale esponente di Rifondazione Comunista : “Quando il mio amico Heinz Karl M., di Monaco, militare della Wehrmacht, fu fatto prigioniero in Francia, visse momenti tremendi. Vennero fatte decimazioni, e Carlo non capiva il perchè di una cosa così terribile mentre erano inermi prigionieri.”[1] La rappresaglia era ammessa dal Diritto internazionale del tempo di guerra di Ginevra, a patto che ad eseguirla fosse un regolare esercito (in divisa) che fosse stato attaccato da terroristi (non in divisa). Essa poteva avvenire, qualora non si fossero presentati i colpevoli, su prigionieri o su civili, esclusi donne e bambini, colpevoli di aver protetto i terroristi. Sia i terroristi che chiunque avesse ucciso prigionieri, fuori dai casi previsti, alla fine del conflitto doveva essere processato per crimini di guerra. Questo in Italia non accadde. Chi ordinò uccisioni non giustificate dal Diritto Internazionale , se partigiano, fu ricompensato con l’inquadramento tra i graduati nell’Esercito e con titolo alla pensione.
8 agosto 1944, ore 9 del mattino, a Milano in Piazzale Loreto angolo viale Abruzzi esplode una bomba posta sul sedile di un camioncino tedesco che rifornisce di latte le famiglie. Muoiono nell’esplosione sei bimbi, una donna e due giovani padri. Tredici i feriti gravi, sei di loro moriranno il giorno dopo. Il bilancio finale sarà di 15 morti, 7 feriti gravi e una decina di feriti leggeri. Nessun tedesco muore nell’attentato ma l’efferatezza è tale che il Comando germanico chiede di procedere ad una rappresaglia in misura di uno per uno. Non tutti sono d’accordo. Il prefetto, Piero Barini, si dimette. Mussolini interviene e protesta con violenza. Anche il cardinal Schuster interviene. Malgrado ciò al mattino del 10 agosto in piazzale Loreto un plotone della Muti fucila quindici persone sospettate di aver rapporti con i partigiani e per questo da tempo incarcerate a S. Vittore. Ed ecco che scatta immediatamente la rappresaglia partigiana, infatti lo stesso giorno da parte della Delegazione per la Lombardia del Comando Generale delle Brigate Garibaldi viene impartito l’ordine alle formazioni partigiane di fucilare militari fascisti e tedeschi loro prigionieri nella misura di tre ad uno . “Per rispondere agli efferati delitti che i nazifascisti compiono a Milano…..1)Passare per le armi i prigionieri nazifascisti attualmente in vostro possesso; 2)Tali esecuzioni devono essere comunicate e popolarizzate segnalando che vengono eseguite come rappresaglia degli eccidi di Milano; 3) Se tali eccidi si ripetono le esecuzioni in massa di nazifascisti prigionieri dovranno essere immediatamente eseguite ”.
Verranno fucilati 30 prigionieri fascisti e 15 tedeschi, probabilmente dalle Divisioni Ossolane di Cino Moscatelli, in quanto molti di loro erano stati catturati in massa, su alcuni treni , qualche tempo prima, dai partigiani dell’Ossola.Un risvolto drammatico è dato dal fatto che Mussolini ed i gerarchi uccisi a Dongo verranno esposti, il 29 aprile 1945, a Piazzale Loreto per “vendicare la fucilazione di 15 patrioti”.
Purtroppo la prassi di fucilare prigionieri a seguito dell’uccisione di partigiani fu costante in tutte le formazioni.
Un elenco di controrappresaglie eseguite è contenuto in una lettera del 12 ottobre del 1944 della Delegazione Lombardia del Comando Generale delle Brigate Garibaldi. Un’altra lunga serie di rappresaglie partigiane viene effettuata nel Biellese, se ne trova traccia nel libro “La Resistenza nel Biellese” di Poma e Perona. L’ordine di “prendere fascisti” militi o civili da trattenere come ostaggi per scambi di prigionieri, piuttosto che per fucilarli per rappresaglia viene diramato dai vari Comandi. Così il Comando della 3a Divisione Liguria può permettersi di comunicare, il 25 agosto 1944 , che a seguito del ” processo del Tribunale Speciale contro trentun italiani….per ogni fucilazione ordinata dal tribunale, verranno fucilati 2 ostaggi che si trovano in nostre mani”. Si trattava di funzionari e agenti di PS e ufficiali e militi della GNR. Per la fucilazione di due partigiani avvenuta a Varzi, il Comando della 3a divisione Lombardia “Aliotta” ordina che ciascuna delle brigate dipendenti proceda alla fucilazione di 2 prigionieri, mentre dopo la fucilazione di 5 partigiani sulla piazza di Ivestria, la brigata Baltera risponde fucilando 20 SS tenute come ostaggi.
Anche la prassi di stampare ed affiggere manifesti minacciando le rappresaglie non fu prerogativa delle truppe dell’Asse, infatti si legge in un manifestino bilingue diffuso dalla divisione partigiana Serafino della Val Chisone: ”.Soldati tedeschi ….i vostri comandanti erano stati avvertiti che per ciascun nostro caduto avremmo ucciso tre di voi. Oggi informiamo voi stessi della decisione…”. Ma un manifesto del CLN del Piemonte, del 27 settembre 1944, alza la posta: “Alle persecuzioni risponderemo con le persecuzioni. Alle rappresaglie con le rappresaglie. Per ogni patriota ucciso cadranno cinque nazifascisti; per ogni villaggio incendiato cinquanta traditori verranno passati per le armi”. E non erano minaccie a vuoto. Infatti il 12 dicembre 1944, dopo l’uccisione di Duccio Galimberti, il Comando regionale Militare del Piemonte emana il seguente ordine: “Passare per le armi cinquanta banditi delle Brigate Nere per vendicare la morte del comandante Tancredi Galimberti”. La vita di Galimberti valeva dieci volte di più del minacciato.
Ma c’e già chi passa all’escalation e si prepara ad uccidere anche i familiari di tedeschi e fascisti. Così scrivono, il 28-12-44, i “compagni responsabili” a Pietro, commissario politico della 5a zona Cuneese:”. Se i nazifascisti uccidono per rappresaglia dei pacifici cittadini dovremo passare alla controrappresaglia sui fascisti, tedeschi e anche le loro famiglie.” . Purtroppo anche stavolta alle intenzioni seguirono i fatti.
Nei libri resistenzialisti delle fucilazioni eseguite per controrappresaglia dai partigiani non si trova che qualche traccia, molto ben mascherata, nè la stampa o la pubblicistica di destra ha mai approfondito questo tema. Cosicchè ancora oggi ci sono ignoti non solo la maggior parte degli episodi, ma anche il numero ed il nome degli uccisi. Che martiri sono, almeno quanto quelli delle Fosse Ardeatine. A questo proposito è emblematico un episodio accaduto in Piemonte, nelle Valli di Lanzo .
Nel gennaio 1994 mentre ristrutturava la sua casa alla periferia di Cantoira, in Alta Valle di Lanzo , Pierino Losero ritrova uno scheletro. Nasce un caso di cronaca di cui si occupano non solo i giornali locali , ma anche La Stampa di Torino. Si fanno vari esami e varie ipotesi : dai resti di un guerriero medioevale ad un caduto della Prima Guerra Mondiale. Finchè una lettera anonima ,spedita a La Stampa , e pubblicata il 18/1/1995 non svela il mistero. “Le ossa ritrovate un anno fa hanno un nome e cognome: Werner Teschendorff, ufficiale tedesco della Wehrmacht, nato a Dusseldorf nel 1922. La lettera anonima ha dato ragione a chi pensava ad una vittima della lotta di liberazione. ” Nel marzo o aprile del 1944- comincia il primo foglio- mi trovavo distaccato come partigiano GL in una baita sopra Chialamberto, lì ci vennero affidati tre prigionieri tedeschi dal comando garibaldino di Pessinetto” In quei giorni venne catturato dalla milizia repubblicana Battista Gardoncini, che venne poi fucilato a Torino, in piazza Statuto. Di conseguenza al gruppo partigiano del mittente, che ora abita nell’ Albese, arrivò l’ordine immediato di fucilazione per rappresaglia per i tre prigionieri. Il comandante Pedro Francina tentò più volte di far annulare l’ordine recandosi al comando di Pessinetto. Fu tutto inutile, i tre tedeschi dovevano essere passati per le armi. Due di loro, graduati e richiamati nell’esercito, furono fucilati in località “Alpe Crot”, sopra Chialamberto. Poi il racconto si fa più intenso: “Erano dei bravi ragazzi con i quali avevo fraternizzato, …con il cuore gonfio di tristezza e rimorso…lo guardavo mentre scriveva le sue ultime volontà…fu trasportato a Cantoira dove fu fucilato e seppelito in una vecchia casa. Aveva 22 anni, era laureato in botanica, doveva sposarsi di lì a poco, morì dignitosamente gridando “Viva la Germania”.
Quello che la lettera anonima non dice è che Werner Teschendorff fu uno dei centoventi prigionieri fucilati per vendicare la morte di “Battista”, ce ne dà conferma, in modo sibillino, Gianni Dolino capo partigiano delle Valli di Lanzo :” Battista, comandante delle Valli, e Pino suo commissario vennero catturati a Balme il 29 settembre e fucilati il 12 ottobre ‘44 con sette compagni, in via Cibrario a Torino, presso l’albergo Tre Re. Il comandante della Piazza di Torino, colonnelo Schmidt, rifiutò l’offerta di 120 uomini (tra i quali ufficiali tedeschi) della delegazione Garibaldi, tramite la Curia, in cambio di Battista. ……Pietà l’è morta: pagheranno i 120 offerti in cambio! .[2]
Durante la guerra civile il CLN non risparmiò certo sulla pubblicità da dare alle rappresaglie eseguite. Tranne a farne sparire , a guerra finita, ogni traccia. In nessun libro ho sinora trovato una sola riproduzione dei tanti manifesti in cui si annunciavano le rappresaglie eseguite. Per certo, d’altronde, il 15 ottobre 1944 la Delegazione della Lombardia del Comando Generale delle Brigate Garibaldi, annuncia in un manifesto che ad un eccidio nel Pavese si è risposto con la fucilazione di 8 prigionieri, a quello di 15 patrioti in provincia di Varese con quella di 45 nazifascisti, mentre l’Unità del 8-ottobre-44 dà la notizia della fucilazione di 35 prigionieri in risposta all’uccisione di 7 partigiani. Pubblicità fu data, non sappiamo per certo con quale strumento, all’uccisione di un tenente fascista il 19-10-44, effettuata dalla Divisione autonoma De Vitis, per rappresaglia contro l’uccisione di un partigiano e alla fucilazione di Luigi Bevilacqua, Luigi Gallo Marchiando, Michele Pozzi e del capitano Aurelio Quattrini , tutti della G.N.R., catturati l’11 marzo mentre eseguivano un trasloco di mobili, ordinata, il 23 marzo 44 , dal capo partigiano Marcellin a seguito di una rappresaglia tedesca a Pomaretto
Alcune rappresaglie portano inequivocabilmente la matrice della vendetta come quella eseguita dai partigiani a Collegno. In quella cittadina, alle porte di Torino, a “liberazione” avvenuta, il 1°maggio 1945 i tedeschi della divisione corrazzata del Generale Schlemmer, mentre si ritirano, vengono attaccati dai partigiani che sparando dai tetti uccidono due soldati. I tedeschi sospendono la ritirata, rastrellano le strade ed il mattino seguente , non essendosi presentati i responsabili, fucilano trenta tra civili e partigiani. Quando i tedeschi sono lontani ricompaiono i partigiani che si recano alla Brignione, una fabbrica nelle vicinanze; dentro vi sono trenta giovani della Divisione Littorio, nativi di Cremona e Mantova, nascosti lì ,dopo la resa, da un certo Ruchelli, impietositosi dalla loro sorte. Vengono massacrati tutti e trenta assieme agli studenti Tino Di Fullo e Remy Maccani, accusati di essere fascisti. Anche nella zona di Santhià, i tedeschi, che cercano di aprirsi un varco verso oriente,tra il 28 e 29 aprile, provocano morti, i partigiani per vendetta fucilano a Vercelli un egual numero di prigionieri fascisti. Sono i giorni di Caino, i giorni in cui il giornale Il ribelle , organo della IV divisione partigiana Pinan-Chichero, scrive: “Non basterà colpire l’idea, bisognerà colpire chi si è macchiato servendo l’idea fascista e chi si macchierà di fascismo. Occorre epurare: colpire gli individui renitenti, distruggerli, eliminarli integralmente, disinfettare l’aria infetta…. l’eliminazione dovrà colpire migliaia di fascisti ed i colpiti saranno sempre pochi.Non arrestiamoci per sentimantalismo o per stanchezza” la stessa “filosofia “viene ribadita con più autorità da Giorgio Amendola sull’Unità del 29 aprile,di Torino: ” Torino è il centro di direzione e di organizzazione di tutto il Piemonte. Il CLNP esercita la sua funzione di governo e coordina e dirige tutta la guerra. I tedeschi e gli ultimi gruppi di banditi neri sono ormai fuorilegge…..Pietà l’è morta! …E’ la parola d’ordine del momento. I nostri morti devono essere vendicati tutti. I criminali devono essere eliminati. La peste fascista deve essere annientata.Solo così potremo finalmente marciare avanti. Con risolutezza giacobina il coltello deve essere affondato nella piaga, tutto il marcio deve essere tagliato. Non è l’ora questa di abbandonarsi a indulgenze che sarebbero tradimento della causa per cui abbiamo lottato. Pietà l’è morta!”La strage è iniziata, gli ostaggi non servono più. Per essere certi che nessun fascista resti in vita, la 1a Divisione autonoma Val Chisone “A. Serafino”, già citata ,emana le Disposizioni sul trattamento da usarsi contro il nemico :”…Trasmetto gli ordini ricevuti dal CVL…gli appartenenti a tutte le truppe volontarie (fasciste) sono considerati fuori legge e condannati a morte. Uguale trattamento sia usato anche per i feriti di tali reparti trovati sul campo…in caso si debba fare dei prigionieri per interrogatori ecc., il prigioniero non deve essere tenuto in vita oltre le tre ore. firmato: Il Comando di Divisione. “Si è alla strage autorizzata. Ma torniamo alle rappresaglie, in particolare a quelle eseguite dai tedeschi e fascisti. Già oggi qualche storico ipotizza, a seguito di ricerche svolte, che molte rappresaglie venissero provocate appositamente per indurre la gente ad odiare i tedeschi ed i fascisti, ed anche per liberarsi di alleati “scomodi”, così come una ricostruzione dell’attentato di Via Rasella può fare concretamente dedurre. “I comunisti sapevano che l’attentato era assolutamente nullo da un punto di vista militare. Sapevano con assoluta certezza che a quell’attentato, a quel tipo di azione sarebbe seguita una rappresaglia. E’ altrettanto indubbio che sapevano che le vittime sarebbero state scelte fra i prigionieri antifascisti incarcerati a Roma. I dirigenti del PCI sapevano che circa centotrenta tra ufficiali del Centro Militare Clandestino e uomini di vari partiti non comunisti si trovavano nelle mani della polizia tedesca. L’attentato di via Rasella venne compiuto all’insaputa dei responsabili della lotta clandestina della capitale……….Nulla da stupirsi dunque che uno degli obiettivi, se non il vero obiettivo, fu quello di eliminare alleati che al disegno del PCI si opponevano: E’ fuori discussione , infatti, che l’unico vero risultato raggiunto, con l’eccidio di via Rasella ,fu il totale massacro di scomodi alleati che vennero così trasformati in altrettanti comodi martiri al servizio del partito comunista italiano.[3] Lo stesso Indro Montanelli, nel 1983 ,così riassunse l’attentato:” L’attentato fu inutile, perchè a chiunque risultava chiaro che la liberazione di Roma era questione di settimane, poi perchè prese di mira un reparto di anziani territoriali alto-atesini e scatenò la rappresaglia”…da più parti fu sottolineato che “gli ostaggi fucilati erano in maggioranza antifascisti ma non comunisti” La stessa strategia sembra aver suggerito l’uccisione di Ather Capelli. Al mattino del 31 marzo ‘44, vengono arrestati nel Duomo di Torino e sulla piazzetta antistante i componenti del Comitato Piemontese del CLN, in maggioranza badogliano; alle ore 13 dello stesso giorno, due gappisti, Sergio Bravin e Giovanni Pesce, uccidono a revolverate, dentro l’androne di casa, il direttore della Gazzetta del Popolo, Ather Capelli. L’omicidio darà il via alle rappresaglie a Torino e contribuirà notevolmente alla richiesta “di condanna esemplare” che porterà, nonostante gli interventi del Federale Solaro e del prefetto Zerbino per evitarla, alla condanna a morte del generale Perotti e di altri sette membri del CLN Piemontese, catturati .
Ma non è solo il caso dell’attentato di Via Rasella o di Torino. Così Liano Fanti, autore del libro ” Una storia di campagna. Vita e morte dei fratelli Cervi”, in una intervista a La Stampa : “Il Pci ha fatto dei fratelli Cervi una bandiera, in realtà il partito reggiano li aveva emarginati con l’accusa, sostenuta fino alle soglie dello scontro violento, di essere “anarchici” che non avevano assimilato le linee del partito….Il partito rifiutò ai Cervi la copertura di una delle tante “case di latitanza” (nascondigli che ospitavano i compagni che erano in pericolo o stavano per essere scoperti dal nemico) proprio nel momento di massimo pericolo , per i Cervi il rifiuto fu fatale. Questi fatti si trovano anche nella Storia della Resistenza reggiana di Guerrino Franzini. Dopo la cattura dei Cervi era stato emanato l’ordine di non compiere attentati per non mettere in pericolo la vita degli arrestati. Ma qualcuno non rispettò l’ordine e il 17 dicembre ’43 uccide il primo seniore della Milizia Giovanni Fagiani. I fascisti minacciano ritorsioni , ma non fanno nulla. Il 27 dicembre un gruppo partigiano uccide il segretario comunale di Bagnolo in Piano, Davide Onfiani. Non passano più di 12 ore e la rappresaglia colpisce i fratelli Cervi..Nel 1980 Osvaldo Poppi, che con il nome di “Davide” era membro del Comitato Militare, in una lettera inviata all’ Anpi di Reggio Emilia ha scritto che non aveva potuto fare con i Cervi quello che nel ’44 aveva fatto nel Modenese con Giovanni Rossi, un partigiano refrattario ad accettare la linea del partito. Testualmente: “..non avevo potuto eliminarli in virtù della loro “grande statura morale “.
Come si può comprendere molte sono ancora le cose da portare alla luce di quello che fu definito il “secondo Risorgimento” , ma ciò a cui più teniamo è che tutti coloro che ebbero il torto di morire per essersi schierati con la parte perdente o più semplicemente per colpa dell’ odio, non cadano nell’oblìo voluto da una storiografia bugiarda. Anche il “nuovo revisionismo resistenzialista” dell’ultimo libro di Pansa – I nostri giorni proibiti-, non ci trova d’accordo laddove la morale di fondo è quella dei vecchi partigiani che , invitano Marco, figlio di un loro compagno misteriosamente ucciso, a smetterla di cercare la verità, ma soprattutto ad abituarsi a non sapere.
[1] (Gianni Alasia in Le ville dei pescecani-Ed Coop. Cultura LorenzoMilani-Torino,1990,pag.78)
[2] (Gianni Dolino- Partigiani in Val di Lanzo-ed. Franco Angeli- Milano, 1989,pag.117)
[3](-Pagani-Cooper-Kunz-MARZO 1944- pag 86 e seg . vedi anche Adriano Bolzoni- Quando uccisero la pietà- supplemento al Borghese n°11 del 17-3-91-).
FONTE:http://www.laltraverita.it/documenti/rappresaglie_partigiane.htm
Un libro racconta le atrocità dei partigiani. L’Anpi non ci sta e querela l’autore
È significativa la scelta di Reggio Emilia per la presentazione del libro di Stella, che dedica un intero capitolo alla città e alla sua Resistenza. Tra gli episodi narrati c’è anche quello di un comandante partigiano che “incassava centinaia di milioni che parzialmente versava alla sezione Anpi reggiana”. Inoltre nel libro molti partigiani reggiani secondo la sezione locale dell’Anpi “vengono definiti come assassini e killer spietati dediti alle esecuzioni sommarie”. Tutti elementi che vanno a smontare il racconto ufficiale di quegli anni, descrivendo una realtà diversa da quella che da anni viene diffusa.
L’Anpi e i partiti di estrema sinistra da giorni tappezzano la città di manifesti in cui invitano tutti a mobilitarsi contro quella che è stata definita, una “delirante e pericolosa riscrittura della Resistenza”. Anche di fronte all’evidenza raccontata e supportata da verità storiche, i partigiani di Reggio Emilia hanno dichiarato di essere pronti a querelare l’autore del libro. Dopotutto, Stella ha già subito due condanne per diffamazione, avendo criticato un comandante partigiano di Ravenna e sostenuto che “il movimento partigiano fu un mito e null’altro, che la resistenza non fu determinante per le sorti della guerra e che il riscatto nazionale dal fascismo da parte dei partigiani combattenti fu un falso storico”.
Anna Pedri
FONTE:https://www.ilprimatonazionale.it/approfondimenti/un-libro-racconta-le-atrocita-dei-partigiani-lanpi-non-ci-sta-e-querela-lautore-96317/
Le stragi
I caduti della R.S.I., come altrove si è detto, assommarono a diverse decine di migliaia. Centomila è la cifra che, presumibilmente, si avvicina di più alla realtà. Molti caddero in combattimento, molti furono uccisi dai partigiani in un agguato, molti civili furono prelevati nelle loro case e uccisi con un colpo alla nuca.
Molti, invece, furono trucidati a guerra finita, in una serie di episodi dove l’odio e lo spirito di vendetta, ma anche il disegno preordinato dei partigiani comunisti, guidarono la mano di uomini che con ferocia bestiale infierirono su giovani soldati che, fidando nelle condizioni di resa stabilite, avevano deposto le armi nelle mani dei cosiddetti Comitati di Liberazione o di bande partigiane. Dopo qualche tempo dalla fine del conflitto (specialmente dopo il 18 aprile 1948), molti di quei crimini furono denunciati e la magistratura pronunciò anche diverse sentenze di condanna. I responsabili della strage di Oderzo, ad esempio, nelle persone di Adriano Venezian (Biondo), Giorgio Pizzoli (Gim), Silvio Lorenzon (Bozambo), De Ros (Tigre), Diego Baratella (Jack) vennero riconosciuti colpevoli di omicidio aggravato e continuato e condannati, il 16 maggio 1953, a pene varianti dai 24 (Jack) ai 28 (Tigre) ai 30 anni (tutti gli altri). Ma le amnistie e gli indulti succedutisi a ritmo febbrile su pressione dei comunisti, fecero sì che i cinque dopo pochi anni vennero scarcerati e ricevuti a Botteghe Oscure con tutti gli onori da Togliatti, Longo e Pajetta. Malgrado tutte le amnistie e tutti gli indulti, tuttavia, alcune condanne rimasero da scontare, ma il sollecito Partito Comunista di Togliatti provvide a far espatriare clandestinamente i condannati verso la Jugoslavia e la Cecoslovacchia. Cosicchè pochissimi di quei criminali hanno espiato le loro colpe. Ciò fu facile perché i partigiani, anche se imputati di gravi crimini, non potevano essere arrestati. Il Decreto Luogotenenziale 6 settembre 1946 n. 96, infatti, all’articolo 1 recitava: “”…non può essere emesso un mandato di cattura, e se è stato emesso deve essere revocato, nei confronti di partigiani, dei patrioti e (degli altri cittadini che li abbiano aiutati) per i fatti da costoro commessi durante l’occupazione nazifascista e successivamente sino al 31 luglio 1945…””
Qui si vogliono ricordare alcuni di quegli orrendi assassinii.
NOTA: Questa pagina è in continuo aggiornamento. Chiunque può contribuire ad arricchirla segnalando altri particolari sulle stragi ricordate o segnalandone altre e diverse. Chi potrà e vorrà farlo avrà la gratitudine non solo del curatore di questo sito ma anche di tutti coloro che conservano e onorano la memoria di tutti i nostri caduti.
Indirizzare a : mariopellegrinetti@alice.it
Indice:
Base Operativa Est della X^ Mas (I trucidati della)
Battaglione “Sagittario” della X^ (I morti del)
Bersaglieri volontari (I caduti del 3° Rgt)
Biellese (I feroci massacri del)
Botticino Sera e Santa Eufemia (La strage di)
Brigate Nere (Il tributo di sangue delle)
Busto Arsizio (La strage nel carcere di)
Cartiera Burgo (Le stragi della)
Cesena (La strage del carcere di)
Compagnia “Adriatica” della X^ Mas (Il sacrificio della)
Compagnia “D’Annunzio” della X^ Mas (Il sacrificio della)
Compagnia “Sauro” della X^ Mas (Il sacrificio della)
Distaccamento “Torino” della X^ (Il massacro del)
Ferrara (Eccidio del carcere giudiziario di)
Foibe istriane (L’orrore delle)
Folgore (I massacrati del Btg)
Francavilla Fontana (Brindisi) (Il rogo di)
Govoni (L’eccidio dei fratelli)
Guastatori del Genio II Btg (I caduti dei)
Imperia (La strage del carcere di)
Montebello (Gli uccisi del Btg)
Mussolini (I massacri del Btg)
9 settembre (Il sacrificio del Btg)
Onesti Mario (La strage dei ragazzini di)
“Onore e Sacrificio” (Gli uccisi del Btg volontari mutilati)
Ospedale Psichiatrico di Vercelli (La strage dell’)
Pallotti Carlo (La strage della famiglia di)
Ponte Crenna (I massacrati di)
Ponte della Bastia (Gli scomparsi al)
Ponte di Greggio (I trucidati di)
Samarate Varese (La strage di)
San Marco (I morti della Divisione
San Possidonio (La corriera della morte di)
Scalfaro Oscar Luigi (Le condanne a morte richieste dal P.M.)
Scuola Sommozzatori della X^ Mas (Il sacrificio della)
Secondo R.A.U. (L’eccidio del)
3° Rgt Milizia Difesa Territoriale “G.D’Annunzio” (Le stragi del)
Thiene (La strage nel carcere di)
Torino : L’assassinio dell’Aviere ferito Cristiano Fulvio
Trausella (TO) (Assassinio della levatrice di)
Valdobbiadene ( Gli N.P. trucidati a)
29^ Divisione SS (I trucidati della)
Visconti Adriano (L’assassinio del Maggiore)
Volto di Rosolina (Rovigo) (L’eccidio di)
XIV Btg Costiero (Gli uccisi del)
La strage di Oderzo (Treviso)
Negli ultimi giorni di aprile del 1945, esattamente il 28, 126 giovani militi dei Btg. “Bologna” e “Romagna” della GNR e 472 uomini della Scuola Allievi Ufficiali di Oderzo della R.S.I. (450 allievi più 22 ufficiali) si arresero al C.L.N. con la promessa di avere salva la vita. L’accordo fu sottoscritto nello studio del parroco abate mitrato Domenico Visentin, presenti il nuovo sindaco di Oderzo Ing. Plinio Fabrizio, Dr. Sergio Martin presidente del C.L.N., il Col, Giovanni Baccarani, comandante della Scuola di Oderzo e il maggiore Amerigo Ansaloni comandante del Btg. Romagna. Ma quando scesero i partigiani della Brigata Garibaldi “Cacciatori della pianura” comandati dal partigiano Bozambo l’accordo fu considerato carta straccia e il 30 aprile cominciarono a uccidere. Quel giorno furono massacrati senza pietà 13 uomini sulle rive del Monticano. La maggior parte, ben 100, furono uccisi al Ponte della Priula, frazione di Susegana e gettati nel Piave il 12 maggio. Pare si trattasse di 50 uomini del “Bologna”, 23 del “Romagna”, 12 della Brigata Nera, 4 della X^ MAS, e gli altri di altri reparti fra cui gli allievi della scuola. Infine:
LA BANDA DI “BOZAMBO”, “BOIA DI MONTANER”, AL MATRIMONIO TRA ADRIANO VENEZIAN E VITTORINA ARIOLI, ENTRAMBI PARTIGIANI
Al banchetto di addio al celibato di Venezian uno della banda affermò :- Ti auguriamo che tu abbia ad avere dodici figli e perché questo augurio abbia ad essere consacrato domandiamo che siano uccisi, vittime di propiziazione, dodici fascisti -.
Fu così che la mattina del 17 maggio scelsero tredici allievi ufficiali della Scuola di Oderzo e li assassinarono nei pressi del Ponte della Priula. (Particolare delle stragi di Oderzo).
( Contributo di Francesco Fatica dell’ISSES Napoli)
Vedi anche, qui appresso i caduti sulla corriera della morte. In totale le vittimo fra gli ufficiali della scuola di Oderzo furono 144.
La corriera della morte
Verso la metà di maggio (esattamente nella notte fra il 14 e il 15) tre camion della Pontificia Opera di Assistenza venivano dal bresciano e trasportavano verso sud reduci della R.S.I. che cercavano di rientrare a casa. Uno veniva da Rezzato, uno da Erbusco e uno da Brescia. Su quest’ultimo c’erano anche 15 o 16 allievi della scuola di Oderzo. A Bondanello, però, la polizia partigiana che aveva sede nella casa del popolo di Moglia, fermò i camion (almeno due). Il primo, proveniente da Brescia trasportava 43 persone. Queste furono consegnate alla polizia partigiana di Concordia che ne rinchiuse 25 (pare) a Villa Medici, ribattezzata “Villa del pianto”. Questi furono depredati di tutto e massacrati il 17 maggio. Gli altri, due notti dopo, vennero caricati su un camion e fatti proseguire per Carpi . Ma giunti a San Possidonio furono scaricati, condotti a gruppi nella campagna circostante, depredati, seviziati e uccisi. Era la notte del 19 maggio. Fra tanto orrore un fatto ancora più orrendo: fra quei poveretti c’era anche una giovane donna con marito e figlio. Questi ultimi finirono massacrati con gli altri. La donna, al sesto mese di gravidanza, fu violentata da nove uomini e poi abbandonata in stato confusionale davanti ad un albergo di Modena. Dalle risultanze processuali pare che gli uccisi fossero, in totale, più di ottanta. Diversi responsabili furono identificati ma, come al solito, pur essendo stati ritenuti colpevoli, beneficiarono dell’amnistia (e del minaccioso sostegno del partito comunista) e rimasero impuniti.
Gli uccisi di Pescarenico (Lecco)
La sera del 26 aprile transitò per Lecco una colonna di 160 uomini del Gruppo Corazzato “Leonessa” e del Btg. “Perugia” che ripiegava su Como. A Pescarenico furono attaccati dai partigiani. Asserragliati in alcune case i militi si difesero per tutta la notte e per tutto il giorno 27. A sera, avendo quasi esaurite le munizioni, fu trattata la resa. Le condizioni erano che i militi dovevano avere la libertà e gli ufficiali la prigionia secondo la Convenzione di Ginevra. Dopo la resa tutti gli uomini furono picchiati e insultati e minacciati tutti di morte. Il giorno 28 i tredici ufficiali e tre vice brigadieri furono uccisi. Prima di morire lasciarono ai religiosi che li assistettero, toccanti lettere per i familiari.
Seguono importanti contributi e l’elenco dei caduti del “Leonessa”, realizzati con la collaborazione di Michele Tosca:
1) Lecco quarantasei anni dopo – articolo del 1991
“Fu un barbaro eccidio non una dolorosa necessità”
A Lecco, dopo quarantasei anni dall’aprile del 1945, taluno ancora si chiedeva come realmente andarono le cose nei giorni 26, 27, 28 aprile durante e dopo la sanguinosa battaglia che ebbe come epicentro il borgo di Pescarenico e, come protagonisti, da una parte centosessanta uomini del Gruppo “M” Leonessa e del Battaglione “Perugia” e dall’altra un numero imprecisato molto più rilevante dei partigiani della 55a Brigata Rosselli (ed altre).
Si leggeva infatti sul quotidiano cittadino del 27 aprile 1991 che “sulla tragica vicenda lecchese del 28 aprile 1945 era sempre stata fornita la motivazione di dolorosa necessita’: come a dire che i sedici giovani ufficiali e sottoufflciali della “Leonessa e del “Perugia”, fucilati al campo sportivo di Lecco, per ordine del Comando partigiano, si fossero macchiati di crimini di guerra tali da costringere un sedicente tribunale del popolo a prendere la “dolorosa decisione” di assassinarli con giudizio sommario, malgrado si trattasse di militari in regolare uniforme, con precisi segni di riconoscimento e perciò stesso da considerarsi prigionieri di guerra tutelati dalla convenzione dell’Aja.
Nessuna diversa interpretazione dei fatti é sul piano giuridico, storico e morale possibile, nessun’altra e per nessun motivo. Del resto un atto di resa presuppone la cessazione contestuale del fuoco e quindi anche degli attacchi agli asserragliati.. Questo è fin troppo evidente.
Quei sedici ufficiali e sottoufficiali della “Leonessa” e del “Perugia” si erano arresi, dopo strenui combattimenti protrattisi dal tramonto del 26 aprile, al tramonto del 27 aprile, sulla base di precise condizioni sottoscritte da entrambe le parti e che prevedevano, dopo la cessazione del fuoco
1° – Onore delle armi secondo codice di guerra,
2° – Salvacondotto entro tre giorni per i mllitari di truppa, libe:i così
di rient:rare alle loro case,
3° – Applicazione della Convenzione di Ginevra sui prigionieri di
guerra per tutti.
A quel momento i morti delle nostre fila erano nove, numerosi i feriti.
Cessato il fuoco, il 1° punto fu rispettato. Ci inquadrammo sul luogo degli scontri e procedemmo in formazione, affiancati dai partigiani sino alle scuole Ghislanzoni. Marciavamo con le nostre armi in spalla. La gente di Lecco sui marciapiedi, restava muta a guardare. Nessuna invettiva salì contro di noi. Probabilmente perché nessuno sapeva che l’ultima nostra preoccupazione, prima della resa, era stata di mettere fuori uso le armi.
Va chiarito una volta per tutte che, se vi fosse stato anche il più marginale dei rilievi da sollevare nei nostri confronti, quella sfilata drammatica ma solenne e silenziosa non avrebbe potuto esserci consentita.
Quello che accadde dopo,oltrepassato il cancello della nostra prima prigione,fu lo scatenamento della barbarie, com’e’ noto a tutti e come risulta dal memoriale di Luigi Brusa, Rettore del Santuario della Vittoria, ampiamente diffuso, pubblicato e abbastanza ricco di particolari, peraltro la relazione dei carristi Lombardi e Mandelli, allegata al fascicolo pubblicato di recente a cura dei Reduci del Gruppo “M Leonessa”, attualmente in corso di ristampa, per una più vasta e approfondita documentazione storica, rispecchia con precisione e puntualità, financo nei particolari più terribili, i fatti.
Ci é stato chiesto: come eravate finiti a Lecco, quella sera? Una lapide sbrecciata e annerita dal tempo parla sul posto di nemico “nazifascista” in fuga. Da qualche anno quella lapide é stata guastata e non più sistemata, sicché l’elenco nominativo di tutti i caduti partigiani é scomparso, effetto di una debole e ingenerosa mancanza di memoria storica.
Noi arrivammo a quel tragico “appuntamento sul lago” dopo un difficile ripiegamento dall’Appennino fra Parma e Piacenza e la Val Trebbia. Il reparto aveva dovuto tenere la zona resistendo alla pressione sempre più ravvicinata di reparti partigiani e di calmucchi (ex prigionieri tedeschi) sotto gli attacchi quotidiani dei cacciabombardieri anglo-americani mirati alla distruzione dei pozzi petroliferi dell’Agip.
Può sembrare incredibile ma quei pozzi petroliferi avevano assicurato il funzionamento dei mezzi motorizzati in dotazione al Gruppo, il resto andava alle Forze armate repubblicane (vedi relazione Borgatti).
Ai primi di aprile i pozzi petroliferi di Montechino (Piacenza) furono infine bombardati con il fosforo, incendiati e praticamente distrutti dagli aerei anglo-americani, ciò nonostante il reparto della Leonessa mantenne malgrado tutto la posizione, ripiegando su Piacenza soltanto dopo il 20 di aprile.
La notte del traghettamento sul Po, il 23 o 24, esplose sotto gli attacchi aerei financo l’arsenale di Piacenza; le avanguardie corazzate americane in tale scenario apocalittico furono a lungo contrastate dai giovanissimi carristi della R.S.I..
Arrivammo, con i pochi mezzi rimasti, a Bergamo il 25 aprile, giusto in tempo per organizzare la colonna al comando del Tenente Ferraris, completa di due batterie di cannoni da 75/27. L’ordine ricevuto per radio da Milano era di raggiungere al più presto Como per poi arrivare al R.A.R. in Valtellina. In forza di quell’ordine, la colonna formatasi a Bergamo si mosse con i mezzi corazzati, con le due batterie di cannoni, con un reparto di esploranti e di motociclisti e con numerosi autocarri sovraccarichi di armi, munizioni e carburanti.
La pioggia, la nebbia e il caso determinarono lungo il percorso lo sdoppiamento della colonna e il conseguente dimezzamento del relativo potenziale in uomini e mezzi del troncone in movimento verso Lecco, direzione Como.
Alle porte di Lecco avvenne l’incontro con il Battaglione “Perugia” in gravi difficoltà per avarie agli automezzi. I Legionari del “Perugia” salirono così in gran parte sui nostri auto-carri e riprendemmo a muoverci insieme, una quarantina della “Leonessa e circa centoventi del “Perugia”.
Fummo fermati all’altezza del ponte ferroviario sul Corso, in località Pescarenico all’altezza di via Como, da un intenso fuoco di mitragliatrici. Durante le ore successive ci fu un crescente scambio di raffiche, di attacchi e contrattacchi con i primi feriti e i primi caduti.
Frattanto fu posto in atto l’accerchiamento della colonna e quindi fu deciso di asserragliarci in tre case del Borgo Pescarenico. Gli scontri, il giorno dopo, furono violentissimi. Vennero impiegati contro i militari della “Leonessa” e del «Perugia» tutti i mezzi di cui la 55a Brigata Rosselli disponeva per effetto degli aviolanci ango-americani. Di più c’erano le armi consegnate dai tedeschi, già arresisi il 25 e il 26 aprile.
Circa la denominazione……”controllata” delle formazioni che parteciparono con grande e da noi riconosciuta audacia alle operazioni, ci fù detto. che si trattava appunto della 55a Brigata Rosselli. Successivamente la stampa di Lecco di quei giorni pubblicò servizi e interviste con vari comandanti, tutti coperti da nome di battaglia, sicché resta tuttora problematico assegnare la competenza e la responsabilità delle trattative per il cessate il fuoco a questo o quel personaggio.
Così come non é mai stata resa nota la composizione del “tribunale del popolo” che sentenziò la fucilazione dei sedici Ufficiali e Sottoufficiali della “Leonessa” e del “Perugia”. In ogni caso la volontà di procedere a una esecuzione di massa e successivamente alla decimazione e non ancora alla eliminazione degli Ufficiali e Sottoufficiali furono sempre prese dinnanzi a noi da uomini vistosamente bardati di rosso.
Con i commilitoni del “Perugia” fraternizzammo subito e per tutta la giornata di fuoco, dividendo poi insieme le esperienze crudeli e violente della feroce prigionia al Ghislanzoni, ad Acquate, nel campo P.W. di Modena e poi ancora al campo 10 di Coltano.
Dagli eventi di quei giorni a Lecco i nostri caduti non sono stati lasciati soli. Vi è stata sempre la cura e il ricordo dei loro commilitoni sopravvissuti, e ciò si é concretizzato in un cippo eretto nel sacrario della “Piccola Caprera” dove ogni anno ci rechiamo a rendere onore a tutti i nostri caduti disseminati in Italia.
Va detto anche che, per interessamento di cittadini di Lecco, e in particolare della signora Mariadele Tentori, che videro lo svolgersi della battaglia e seguirono le sorti dei fucilati, dopo alcuni anni le autorità cittadine hanno ufficializzato la traslazione dei resti dal cimitero di Acquate, al santuario della Vittoria, dove sono stati tumulati accanto ai caduti di tutte le guerre, in forma solenne e con picchetto d’onore dell’Esercito italiano.
Quando i sedici giovani Ufficiali e Sottoufficiali furono portati dinanzi al plotone di esecuzione avevano già subito ogni sorta.di oltraggio e di violenza, di scherno ed umiliazione. In quell’aula della scuola Ghislanzoni dov’erano ammassati centosessanta giovani “di Pescarenico”, esplose la furia bestiale di aguzzini che non potevano avere niente in comune con i combattenti che ci avevano attaccato in armi riuscendo a distruggere ogni cosa intorno a noi, incendiando la nostra colonna, bombardandoci con bazooka, con mortai, con armi pesanti, con due “dingo” blindate, alla fine addirittura con una sorta di treno blindato, venendo all’assalto allo scoperto e invano più volte, malgrado tutto. Gli scontri finali erano avvenuti a distanza ravvicinata, a tiro di bomba a mano. Ci si poteva quasi guardare negli occhi. Quanti fossero non saprei dire. Certamente – mi si lasci questo convincimento – non erano gli stessi che infierirono su di noi in quella tragica e profanata aula di scuola. Volevano in un primo tempo dare luogo alla strage, come infatti altrove é accaduto, ad esempio laddove allievi ufficiali delle varie scuole e ragazzi in camicia nera sono stati trucidati in massa. Poi i caporioni di quella pagina di furore selvaggio ripiegarono sulla soluzione “umanitaria” della decimazione e, visto che il conto tornava, sedici su centosessanta, accettarono alla fine l’olocausto offerto dagli ufficiali e sottoufficiali per salvare la vita ai ragazzi più giovani.
Il ricordo é fermo alle parole del Tenente Ferraris, quando insieme al Sottotenente Satta, venne alle nostre postazioni per illustrarci le modalità della resa respingendo la nostra alternativa di una sortita finale, alla grande e in bellezza. Con i due Ufficiali della “Leonessa” c’era un indescrivibile rapporto di sorridente amicizia: ci dissero però con molta fermezza che una sortita, in quelle condizioni essendo quasi del tutto esaurite le munizioni, avrebbe sicuramente portato a uno scempio imperdonabile di vite giovanissime. Come “veterani” all’età di diciannove anni, avevamo il dovere di curarci dei ragazzi più giovani, taluni di sedici anni.
Si è scritto, sempre nel giornale citato della presenza nelle case di Pescarenico di falchi e colombe: non é vero, c’erano semplicemente dei giovani che avevano conosciuto lunghe esperienze di guerra e ragazzini volontari di recente arruolamento.
L’ambizione dentro l’animo di taluno di noi poteva essere quella di diventare – o prima o poi – ufficiali come Ferraris e Satta; arrivare alla RAR (ridotta délla Valtellina), raggiungendo Mussolini a Como e poi, magari vedendo realizzato il progetto a lungo accarezzato della divisione corazzata “M” per l’estrema difesa della R.S.I..
Il non essere ancora ufficiali ci salvò invece la vita; il destino era tutto scritto. Non ci rimase che fermare e disarmare qualche carrista più giovane nell’atto di tentare il suicidio con la pistola di ordinanza, ascoltare le parole del Tenente Ferraris al momento di uscire dalle macerie delle case sbrecciate e fumanti, dinnànzi al cadavere del Sergente Alessandri, caduto in battaglia.
E poi quella maledetta prigione, l’addio dei nostri camerati, la loro ultima indimenticabile lezione di vita.
Queste riflessioni vanno ai giovani del F.D.G. di Lecco, che hanno voluto ricordare, sul luogo della esecuzione, i sedici martiri del 28 aprile 1945, chiedendoci di aiutarli a conoscere la verità. Era un appuntamento al quale avevo sempre pensato, quello di consegnare a dei giovani la testimonianza intorno a quelle giornate.
L’incontro a Lecco, promosso dal F.D.G., dirigente Alberto Arrighi, e della locale subfederazione, dirigente il professor Redaelli, alla presenza dello studioso dottor Viganò, ha avuto un interessante seguito con la presentazione del volume “Appuntamento sul lago” di Fabio Andriola, approfondita ricerca storica sulle vicende dell’aprile 1945 di rara e quindi preziosa efficacia.
La verità storica é che ci fu alla fine, e soltanto alla fine, una resa a condizioni da parte nostra, due su tre di quelle condizioni furono tradite e ne seguì dunque un eccidio a guerra conclusa, una vigliaccata e un crimine senza giustificazione.
Non credevamo, dopo tanto tempo, che ci fosse bisogno di chiarire alcunché, visto che proprio nella città di Lecco gli uomini della «Leonessa» hanno ricevuto gli onori militari, da vivi e da morti.
I giovani della F.D.G. hanno poeticamente chiamato la testimonianza di Ezra Pound e di Cesare Pavese. Un accostamento intellettualmente nobile che ha vanificato del tutto la tesi ciarlatana e sbrigativa della “dolorosa necessità”, buona per mettere in pace la coscienza di chi ha il suo tornaconto nel cancellare la memoria storica degli eventi.
Lecco, oggi. Città ad alto reddito pro-capite corre velocemente al traguardo della provincia. Grande centro industriale sul lago di Como ai piedi della Valsassina e del Resegone di manzoniana memoria vive le contraddizioni laceranti di una società cittadina operosa, freneticamente impegnata a colmare i vuoti lasciati dallo Stato, i ritardi nell’attraversamento sotterraneo del centro, nella costruzione dell’autostrada per la Valtellina.
Nel grande cantiere della Lecco 1991 credo che sia ben difficile trovare occasione per i momenti di riflessione storica, di onesta rimeditazione intellettuale. Come in ogni centro di attività febbrile del mondo, la gente pensa giustamente a costruire, a edificare l’immagine di ciò che sarà la cittadina nel 2000, e vive l’ebrezza di questa lotta contro l’inerzia dello Stato, contro la pigrizia mentale e le regole lassiste del potere; può darsi che giorno dopo giorno, goccia dopo goccia, finisca col cancellare il ricordo del passato e la stessa memoria storica.
Si cerchi di capire il perché del nostro “no” a una tale ipotesi; in così lunghi e intensi anni di impegno civile abbiamo coltivato una condizione umana e morale di rifiuto permanente e globale di tutti i feticci agitati per esorcizzare la nostra anima di uomini irrinunciabiimente liberi. In questo senso siamo sinceri sino alla provocazione e crediamo che sulla realtà di oggi, così come sulle verità di ieri, noi tutti, anziani e giovani, abbiamo le carte per confrontarci con gli altri, sui problemi, sulle attese civili della gente.
Ma abbiamo anche intenzione di guardare alle cose con il lucido rigore di una certa intelligenza del mondo nel quale viviamo nel senso cioé della sua cognizione profonda e meditata.
Per questo ci sentiamo di rifiutare il senso di una giustificazione ipocrita di certi eventi come stati di necessità, anche se dolorosa.
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2) CADUTI DEL GRUPPO CORAZZATO “LEONESSA” DELLA R.S.I.
Capitano:
Aristide Lissa 07.06.44 – Santino di S.Bernardino Verbano NO
Tenenti:
Giovanni Ferraris 28.04.45 – Acquate di Lecco CO
Giannino Peri 00.02.45 – Autostrada TO-MI in seguito mitragliamento aereo
Giorgio Savoia 23.02.45 – Velleia – Gropparello Val d’Arda
Sottotenenti:
Bruno Berneschi 09.03.45 – Cisterna D’Asti
Ferdinando Camaiora 05.04. .45 Montechino-Groppparello PC
Valerio Cappelli 21.03.44 – Valp&lice – Pinerolo TO
Cesare De Giovanni 06.02.45 – Gassino Torinese TO
Roberto Petruzzi 13.02.46 – Pinerolo TO (trucidato al rientro da PI)
Armando Rinetti 26.04.45 – Piacenza Montale – morto nel carro semimovente L6 di Mimmo Bontempelli
Bruno Satta 28.04.45 – Acquate di Lecco CO
Stelvio Zenobi 05.04.45 – Montechino – Gropparello PC
Aiuto Capo:
Ernesto Battaille 01.01.45 – Milano- Piazza Firenze
Brigadieri:
Giuseppe Alessandri 27.04.45 – Pescarenico Lecco Co
Giuseppe Berini 04.05.45 – S.Eufemia di Brescia
Silvio Pilloni 06.02.45 – Gassino Torinese TO-
Savazzi – Piemonte
Vice Brigadiere:
Augusto Fumarola 06.04.45 – Rivergaro PC
Gottieri Pietro 25.04.45 – Piacenza (arso vivo mentre faceva
saltare il carro L3 di Mainardi)
Zanovello
Legionari:
Alberton Giuseppe 28.08.44 – Moncalieri TO
Valentino Mbini 29.12.44 – Torino
Aletteo 00.00.44 – Torino
Arnaldo Berini 04.05.45 – S.Eufemia di Brescia
Beretti 00.00.44 – Varallo Sesia
Mario Bonomi 21.03.44 – Valpellice Pinerdo TO
Rinaldo Brugnoli 16.03.45 – Rallio di Rivergaro PC
Esquilio Cerri 21.03.45 – Pinerolo TO
Cipollina 00.00.44 – Varallo Sesia
Renato Claps 30.06.44 – Lanzo TO
Antonio D’Agostino 27.04.45 – Torino
Achille Dejana 00.05.45 – Disperso durante il trasferimento ad Ivrea
Mariano Di Giovanbattista 05.04.45 – Torino
Fossati 00.00.00 – Torino
Carlo Gaffuri 10.04.45 – Osp. militare di Piacenza in seguito a ferite riportate a Gropparello PC
Emilio Legori 27.04.45 – Torino
Gregorio Maina 00.12.44 – Torino (mitragliamento aereo)
Carlo Manni 14.03.45 – Gropparello PC
Guido Minozzi 11.03.45 – Gropparello PC
Saverio Mazzoldi
Andrea Monzaschi 29.01.45 – Brescia (mitragliamento aereo)
Motisi 00.00.44 – Varallo Sesia
Giovanbattista Nobili 14.03.45 – Ospedale militare di Piacenza
Alberto Onorati 26.04.45 – Montale di Piacènza
Cesare Pecis 00.12.45 – Ospedale di Taranto al rientro dalla prigionia
Pelagatti 00.00.44 – Varallo Sesia
Sauro Saccomandi 30.01.45 – Torino
Giorgio Scoppino 06.02.45 – Gassino Torinese TO
Natale Spinella 06.02.45 – Gassino Torinese TO
Bruno Taddei 00.05.45 – Torino
Albino Valentino 29.12.44 – Torino
Emiliano Zini – Milano
Ufficiali n° 12
Sottoufficiali n° 08
Legionari n° 32
Totale militari n° 52
La strage di Monte Manfrei (Savona)
In questo luogo isolato dell’Appennino Ligure, fra Genova e Savona, nei giorni tragici di fine aprile, primi maggio 1945, i partigiani trucidarono i 200 marò del presidio di Sassello della Divisione “San Marco”, quando la guerra si era ormai conclusa. I cadaveri, sepolti sotto poca terra nei dintorni, non sono stati ancora rinvenuti tutti, anche per l’omertà delle popolazioni, minacciate ancora adesso dagli assassini dell’epoca. Una grande croce ricorda ora i caduti e ogni anno, l’8 luglio, numerose persone salgono lassù e li ricordano con una toccante cerimonia.
La strage di Rovetta (Bergamo)
Il 26 aprile 1945 un plotone della 6^ Compagnia della Legione Tagliamento di presidio al Passo della Presolana, al quale si aggiunsero alcuni militi della 5^, sentite le notizie della disfatta tedesca decise, malgrado la contrarietà di alcuni, di arrendersi, sollecitato in tal senso anche dal Franceschetti, proprietario dell’albergo che ospitava i militi e si diresse verso Clusone. Ma, giunti a Rovetta (BG), trattarono la resa col locale C.L.N. che promise un trattamento conforme alle convenzioni internazionali. Erano 46 militi comandati dal giovane S.Ten. Panzanelli di 22 anni. Deposte le armi, furono alloggiati nelle locali scuole elementari. Il prete del luogo, Don Giuseppe Bravi, era anche segretario del C.L.N. locale e garantiva il rispetto degli accordi. Ma una masnada di feroci partigiani, giunti da Lovere su due camion, impose la consegna dei prigionieri e il 28 aprile, dopo feroci maltrattamenti, 43 di loro (uno, Fernando Caciolo, della 5^ Cmp, sedicenne di Anagni, riuscì a fuggire e tre giovanissimi, Chiarotti Cesare, 1931, di Milano, Ausili Enzo, 1928, di Roma e Bricco Sergio, 1929, di Como, vennero risparmiati) vennero condotti presso il cimitero di Rovetta e qui fucilati. Ben 28 di loro avevano meno di 20 anni. L’ultimo ad essere ucciso, dopo aver assistito alla morte di tutti i camerati, fu il Vice brigadiere Giuseppe Mancini, figlio di Edvige Mussolini sorella del Duce.
Dopo la guerra alcuni di quei partigiani ritenuti responsabili della strage furono individuati e processati. Ma la sentenza fu di non luogo a procedere in forza del Decreto Legislativo Luogotenenziale n. 194 del 12 aprile 1945, firmato da Umberto di Savoia, che in un unico articolo dichiarava non punibili le azioni partigiane di qualsiasi tipo perché da considerarsi “azioni di guerra”. Fu, cioè, dalla viltà dei giudici, considerata azione di guerra legittima anche il massacro di prigionieri inermi compiuta, per giunta, quando la guerra era ormai terminata.
(Redatto con la collaborazione del ricercatore Giuliano Fiorani)
RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO:
COMITATO ONORANZE CADUTI DI ROVETTA
Bergamo 26/05/2008
COMUNICATO STAMPA
Questo notte i “ soliti ignoti” hanno distrutto nel cimitero di Rovetta le lapidi commemorative dei 43 legionari uccisi e di Padre Antonio il loro Cappellano
COMMENTO
Evidentemente gli eredi degli assassini di allora continuano a covare il loro odio insensato e bestiale. Tanto insensato e tanto bestiale da infierire contro delle lapidi che ricordano dei morti. L’estrema inciviltà dell’atto qualifica gli autori come persone profondamente disturbate e incapaci di sentimenti normali. Dio abbia pietà delle loro anime.
La strage di Lovere (Bergamo)
Mercoledì 25 aprile 1945 un piccolo presidio della Legione “Tagliamento”, 26 militi della 4^ Cmp, II Rgt, di stanza nell’edificio delle scuole elementari a Piancamuno in Val Canonica venne sorpreso da un gruppo di partigiani fra i quali erano dei polacchi in divisa tedesca. Malgrado la sorpresa i militi reagiscono, ma le perdite sono gravi : 9 morti fra cui il comandante aiutante maresciallo Ernesto Tartarini e tre feriti. Anche il comandante partigiano, però, tale Luigi Macario, viene ucciso insieme ad altri due, cosicché i partigiani, rimasti senza comandante, cedono al fuoco intenso dei militi superstiti e si ritirano. A questo punto giunge in aiuto una squadra del plotone Guastatori al comando del brigadiere Amerigo De Lupis.
Egli si rende conto che i tre feriti che giaccioni all’Ospedale di Darfo non hanno una assistenza adeguata. Uno dei tre, infatti, Sandro Fumagalli, muore la mattina del 26. Allora nel pomeriggio il De Lupis, con una piccola scorta, porta i due feriti ancora vivi all’Ospedale di Lovere, sul lago d’Iseo. Ma egli non sa che i partigiani stanno occupando la città. Al mattino, infatti, il locale presidio del 612° Comando Provinciale della G.N.R. comandato dal Ten. Agostino Ginocchio si è arreso a un gruppo di partigiani e altri partigiani stanno affluendo dalle montagne. Così il De Lupis e i suoi uomini vengono sorpresi all’uscita dall’Ospedale e catturati. Condotti presso la casa canonica (Palazzo Bazzini) che veniva utilizzata come prigione, vennero rinchiusi insieme agli uomini del Ten. Ginocchio. Testimoni dell’epoca affermano che ai prigionieri vennero inflitti pesanti maltrattamenti. Il 30 aprile un legionario, Giorgio Femminini di 20 anni, ottenne di potersi sposare con la sorella di un commilitone, Laura Cordasco, così fu condotto in chiesa col De Lupis e il commilitone Vito Giamporcaro come testimoni. Ma poichè la cerimonia si prolungava i partigiani condussero via tutti gli uomini del De Lupis e li portarono dietro il cimitero dove furono massacrati con raffiche di mitra. Gli uccisi furono sei: Amerigo De Lupis, Aceri Giuseppe, Femminini Giorgio, Mariano Francesco, Giamporcaro Vito, Alletto Antonino. I due legionari: Le Pera Giovanni e De Vecchi Francesco, ricoverati, come si è detto, in ospedale per gravi ferite, furono quasi ogni giorno percossi e maltrattati e, infine, prelevati da partigiani fra il 7 e l’ 8 di Giugno, oltre 40 giorni dopo la fine della guerra, percossi, seviziati e, infine, gettati nel lago e annegati. Vedi la documentazione.
(redatto con la collaborazione preziosa di Giuliano Fiorani e Sergio Geroldi)
I massacrati di Ponte Crenna (Pavia)
Il 12 agosto 1944 quattro giovani militi venivano catturati dai partigiani e barbaramente assassinati a Ponte Crenna nell’Oltrepo Pavese. Fra essi Walter Nannini, medaglia d’Argento alla memoria.
La strage di S.Eufemia e Botticino Sera (Brescia)
Fra il 9 e il 13 maggio 1945 furono prelevati 11 fascisti a Lumezzane e altri a Toscolano Maderno. Orribilmente seviziati, 23 vennero uccisi proprio di fronte alla chiesa di S.Eufemia mentre altri 16 vennero uccisi e gettati in una fossa a Botticino, in una località detta Mulì de l’Ora. I civili erano 16 e 23 i militari di cui 9 erano della Divisione San Marco. I cadaveri furono ritrovati in stato di avanzata decomposizione, con tracce di inaudita violenza e le unghie strappate. Autori dell’eccidio furono i partigiani comandati da tale Tito Tobegia.
L’eccidio dell’Ospedale psichiatrico di Vercelli
Nei giorni dal 23 al 26 aprile 1945 si erano concentrate a Vercelli tutte le forze della R.S.I. della zona, circa 2000 uomini, che andarono a costituire la Colonna Morsero, dal nome del Capo Provincia di Vercelli Michele Morsero. Tale colonna partì da Vercelli alle ore 15 del 26 aprile, dirigendo verso nord per raggiungere la Valtellina. I reparti che costituivano la colonna erano : Il 604° Comando Provinciale GNR Vercelli Comandato dal Colonnello Giovanni Fracassi, la VII^ B.N. “Punzecchi di Vercelli, parte della XXXVI^ B.N. “Mussolini” di Lucca, CXV° Btg “Montebello”, I° Btg granatieri “Ruggine”, I° Btg d’assalto”Ruggine”, I° Btg rocciatori (poi controcarro) “Ruggine”, III° Btg d’assalto “Pontida”. La colonna raggiunse Castellazzo, a Nord di Novare, la mattina del 27 aprile e, dopo trattative, la sera decise, dopo molte incertezze, di arrendersi ai partigiani di Novara dietro promessa di essere trattati da prigionieri di guerra. Il 28 aprile i prigionieri vengono condotti a Novara e rinchiusi in massima parte nello stadio. Subito cominciarono gli insulti e i maltrattamenti e il 30 cominciarono i prelevamenti di gruppi di fascisti dei quali non si ebbe più notizia. Lo stesso accadde nei giorni successivi insieme a feroci pestaggi. Il 2 maggio Morsero viene portato a Vercelli e fucilato. Intanto sono giunti gli americani che tentano di ristabilire un minimo di legalità. Ma il Corriere di Novara dell’8 maggio parla di molti cadaveri di fascisti ripescati nel canale Quintino Sella. Finché il 12 maggio giungono da Vercelli i partigiani della 182^ Brigata Garibaldi di “Gemisto” cioè Francesco Moranino che prelevano circa 140 fascisti elencati in una loro lista. Questi uomini saranno le vittime della più incredibile ferocia. Portati all’Ospedale Psichiatrico di Vercelli saranno, in buona parte massacrati all’interno di questo. Le pareti dei locali dove avvenne l’eccidio erano lorde di sangue fino ad altezza d’uomo. Altri saranno schiacciati in un cortile da un autocarro, altri fucilati nell’orto accanto alla lavanderia, altri, pare tredici, fucilati a Larizzate e altri ancora, infine, portati con due autocarri e una corriera (quindi in numero rilevante) al ponte di Greggio sul canale Cavour e qui, a quattro a quattro, uccisi e gettati nel canale. Nei giorni successivi i cadaveri ritrovati nei canali di irrigazione alimentati dal canale Cavour furono più di sessanta.
Solo il giorno 13 maggio, domenica, gli americani prenderanno il controllo dei prigionieri ed eviteranno altri massacri. Era già pronta la lista dei prigionieri da prelevare quello stesso giorno alle ore 18.
Il massacro di Schio (Vicenza)
La notte fra il 6 e il 7 luglio 1945 una pattuglia partigiana irruppe nel carcere di Schio dove erano detenute 91 persone, fascisti o presunti tali. (1) Di queste, che erano state radunate in uno o due stanzoni e contro cui furono sparate molte raffiche di mitra, ne furono massacrate ben 54 di cui 19 donne, mentre 14 rimasero ferite (11 in modo grave). Il tribunale militare alleato individuò alcuni degli esecutori materiali del crimine ed emise alcune condanne, però mai eseguite. Dai dibattimenti emerse che molte di quelle persone non avevano alcuna colpa e nei loro confronti era già pronto l’ordine di scarcerazione. Il governatore militare alleato ebbe ad affermare che i fatti di Schio “ costituiscono una macchia per l’Italia ed hanno avuto una larga pubblicità nei giornali statunitensi, britannici e sudafricani dove vengono considerati senza attenuanti ”.
Note: (1) 5 erano della Brigata Nera, 3 della Polizia Ausiliaria, 3 Ausiliarie, 34 fascisti e gli altri arrestati come tali, su semplice indicazione di un partigiano. C’erano ragazze diciassettenni, donne gravide, vecchi…Fra loro c’erano: Il Primario dell’Ospedale di Schio Dr. Michele Arlotta, il Commissario Prefettizio Dr. Giulio Vescovi, i fascisti RSI Mario Plebani, Tadiello Rino, Domenico e Isidoro Marchioro, il Dr. Diego Capozzo, Vice Comm.Pref., Anna Franco di 16 anni, Calcedonio Pillitteri, reduce dalla Russia, il vecchio Dr. Antonio Sella, che fu Podestà di Valoli del Pasubio, Giuseppe Stefani già Podestà di Valdastico. (da “Nuovo Fronte” n. 247 del Giugno 2005, pag. 10 , articolo firmato U.S.)
Il massacro di Avigliana (Torino)
Qui furono uccisi, a guerra finita, dopo che si erano arresi ed erano stati disarmati, 33 militari della R.S.I.
I morti di Agrate Conturbia (NO)
“Caduti per la Patria” sta scritto su una croce che fa la guardia a 33 salme di fascisti
senza nome (fra cui due o tre donne), trucidati nel sottostante bosco detto “la Bindillina” dai partigiani della zona. Solo nel 1959 fu possibile individuarle in fosse comuni e riesumarle. Ma si presume che gli uccisi il quel bosco siano stati molti di più, forse alcune centinaia. Infatti negli anni novanta, durante la costruzione di un campo da golf, vennero trovate molte ossa umane che, molto disinvoltamente, vennero gettate in una discarica insieme alle sterpaglie. (Nuovo Fronte n. 247 Giugno 2005)
I feroci massacri del Biellese
A Bocchetta Sessera (Vercelli) una stele ricorda le decine di cadaveri di fascisti, non solo uomini ma anche donne, stuprate e seviziate prima di essere uccise, che si presume ancora si trovino nel bosco sottostante. Fu questa, una delle zone dove la ferocia partigiana toccò livelli inimmaginabili. Qui operava Francesco Moranino detto Gemisto che, ricordiamolo, nel 1955 fu condannato all’ergastolo dalla Corte d’Appello di Firenze per strage di partigiani non comunisti e che fuggì a Praga, da dove rientrò in Italia dopo che il P.C.I. lo ebbe fatto eleggere Senatore
Gli N.P. trucidati a Valdobbiadene (Treviso)
Qui, dopo che il 9 marzo 1945 il grosso del Btg N.P. della X^ fu trasferito sul fronte del Senio, rimasero a presidio soltanto 45 marò. Essi, che avevano sempre vissuto in buona armonia con la popolazione e, quindi, pensavano di non avere nulla da temere, dopo il 25 aprile, a guerra finita, si consegnarono ai partigiani della Brigata “Mazzini” (Comandante Mostacetti). Ma nella notte fra il 4 e il 5 maggio essi furono divisi in tre gruppi per essere, si disse loro, trasferiti altrove. Il primo gruppo fu condotto in località Saccol di Valdobbiadene, spinto in una galleria e, qui, trucidato a colpi di mitra e di bombe a mano. La galleria, poi, fu fatta saltare per occultare il crimine. Il secondo gruppo fu condotto in località Medean di Comboi. Qui ai marò vennero legate le mani dietro la schiena con filo di ferro, indi, dopo essere stati depredati, vennero uccisi e bruciati. Stessa sorte ebbe il terzo gruppo, condotto in località Bosco di Segusino.
L’eccidio del 2° R.A.U.
Gli uomini del 2° R.A.U. ( Reparti Arditi Ufficiali) appartenente al R.A.P (Raggruppamento Anti Partigiano), che operava in Piemonte, si arresero ai partigiani il 27 aprile a Cigliano, a nord di Torino, essendo stato promesso il trattamento dovuto ai prigionieri di guerra e l’onore delle armi. Ma il 29 vengono divisi in due gruppi: nel primo vengono inclusi quasi tutti gli ufficiali, le ausiliarie e due signore mogli di ufficiali, nel secondo gli altri. Il primo gruppo viene condotto a Graglia fra inauditi maltrattamenti, senza cibo ne acqua per tre giorni. Fu negata l’acqua anche alla signora Della Nave, incinta. Il 2 di Maggio 1945 furono divisi in tre gruppi: il primo fu condotto al ruscello che divide il comune di Graglia da quello di Netro, il secondo in località Paiette e il terzo alla Cascina Quara presso il Santuario. E furono tutti trucidati. Oggi tutte le salme riposano in una tomba-ossario nel cimitero di Graglia dove una lapide bronzea recante il gladio della R.S.I. che ne ricorda il sacrificio.
L’eccidio dei fratelli Govoni
Alle ore 23 dell’11 Maggio 1945, venerdì, ad Argelato (Bologna), frazione Casadio, podere Grazia, assieme al altri dieci fascisti prelevati a San Giorgio in Piano, partigiani emiliani trucidavano, dopo averli condotti, legati a 3 a 3, presso una fossa anticarro, i sette fratelli Govoni che erano stati prelevati a Pieve di Cento la mattina alle 6,30 : Dino, 40 anni, falegname, Marino, 34 anni, contadino, Emo, 31 anni, falegname, Giuseppe, 29 anni, contadino, Augusto, 27 anni, contadino, Primo, 22 anni, contadino e Ida, di appena venti anni, sposata ad Argelato e madre di un bambino. Prima della morte tutti furono picchiati a sangue e seviziati in vario modo. Solo Dino e Marino avevano militato nella R.S.I., Marino come brigadiere della G.N.R. e Dino come semplice milite. Nel 1951, quando fu scoperta la fossa dove giacevano i corpi dei 7 fratelli insieme a quelli degli altri dieci fascisti, si scoprì lì vicino un’altra fossa con i resti di 25 cadaveri.
Gli uccisi del XIV Btg Costiero da Fortezza
Il 5 Maggio 1945, a guerra ormai conclusa, 20 militi del battaglione, che aveva valorosamente combattuto a difesa dei confini orientali, si consegnarono ai partigiani, fidando nelle leggi internazionali che tutelano i prigionieri di guerra. Ma i partigiani, totalmente irrispettosi di ogni legge, li condussero, dopo molte marce, a Sella Doll di Montesanto e qui, fattili inginocchiare sul bordo di una trincea della prima guerra mondiale, barbaramente li uccisero con un colpo alla nuca.
La strage di Codevigo (Padova)
Qui nei primi giorni del Maggio 1945 (fra il 3 e il 13) furono seviziate e uccise oltre 365 persone fra cui 17 fascisti (uomini e donne) dello stesso Codevigo (12 maggio). I militari, appartenenti a formazioni R.S.I. della provincia di Ravenna, erano stati catturati negli ultimi giorni di aprile e chiusi in carcere. Ma i partigiani romagnoli della 28^ Brigata Garibaldi “Mario Gordini” al comando di Arrigo Boldrini “Bulow” li prelevarono dicendo che li avrebbero condotti a Ravenna. Li condussero, invece, a Codevigo e qui, dopo averli seviziati, li condussero al ponte sul fiume Brenta e li uccisero a due a due, gettandoli poi nel fiume. Molte salme furono trascinate via dalla corrente. Altre, gettate nei cimiteri dei dintorni, furono recuperate per l’opera instancabile di Rosa Melai che, il 27 maggio 1962 riuscì a inaugurare l’Ossario dove potè radunare le salme ritrovate. Oggi sono 114 i caduti che qui hanno trovato riposo e rispetto.
I trucidati a Ponte di Greggio (VC)
I fatti avvennero nei primi giorni del Maggio 1945. Un numero imprecisato di fascisti della Repubblica Sociale Italiana vennero trucidati e i loro corpi gettati dal ponte nelle acque del canale Cavour. (Vedi la voce “Ospedale psichiatrico di Vercelli”)
I massacri dei bersaglieri del “Mussolini”
Come è noto il Btg di bersaglieri volontari “Mussolini” fronteggiò gli slavi del X° Corpus sul fronte orientale fin dal 10/12 ottobre 1943. Il 30 Aprile 1945, dopo la morte di Mussolini e la resa delle truppe italo-tedesche, anche gli uomini del “Mussolini” decisero di arrendersi ai partigiani di Tito, alle condizioni stabilite che prevedevano l’immediato rilascio dei soldati e la trattenuta dei soli ufficiali per accertare eventuali responsabilità. Ma i “titini” si guardarono bene dal rispettare le condizioni concordate e, invece di lasciare liberi i soldati, condussero tutti a Tolmino e li rinchiusero in una caserma. Da qui qualcuno fortunatamente riuscì a fuggire, ma, dopo alcuni giorni, 12 ufficiali e novanta volontari furono prelevati, condotti sul greto dell’Isonzo e, qui, trucidati. Dopo altri giorni altri dodici furono prelevati, condotti a Fiume e uccisi. E ancora il 18 maggio dall’Ospedale Militare di Gorizia furono prelevati 50 degenti e uccisi. Dieci erano bersaglieri. Intanto i sopravvissuti avevano iniziato una marcia allucinante, senza cibo né acqua, picchiati e seviziati, e altri furono uccisi durante la marcia. Finalmente giunsero al tristemente famoso campo di prigionia di Borovnica ove fame, epidemie, sevizie e torture inumane seminano morte fra gli odiatissimi bersaglieri. Alla chiusura di quel campo, nel 1946, i sopravvissuti furono internati in altri campi ove le condizioni non migliorarono assolutamente. Alla fine, il 26 giugno 1947, soltanto 150 bersaglieri, ridotti in condizioni inumane, poterono tornare in Italia. Dei quasi quattrocento caduti del battaglione, ben 220 furono quelli uccisi dopo il 30 aprile 1945.
La strage delle ausiliarie
Negli ultimi giorni dell’ Aprile e nei primi di Maggio 1945 l’odio bestiale dei partigiani si scatenò con particolare accanimento contro le donne che avevano prestato servizio in qualità di ausiliarie nell’esercito della R.S.I. Esse subirono torture, pestaggi, sovente stupri ripetuti, e si tentò di umiliarle in ogni modo, spesso denudandole ed esponendole così al ludibrio di folle imbestialite.
Giorgio Pisanò, nella sua “Storia delle Forze Armate della R.S.I.” (cui si rinvia per approfondimenti) ricorda diecine di casi di ausiliarie, spesso giovanissime, catturate da sole o in piccoli gruppi e, poi, martirizzate e trucidate. L’elenco delle ausiliarie cadute che compare in detta opera è di 200 nominativi, ma si avverte che tale elenco non è completo proprio perché non è mai stato possibile fare luce completa sulla quantità di crimini commessi dai partigiani in quella primavera di sangue a danno di queste giovani donne coraggiose e fedeli fino alla fine. Nella sola Torino ne furono massacrate 18.
L’olocausto della “Monterosa”
Tra il 24 e il 25 Aprile tutte le truppe schierate sul fronte alpino occidentale ricevettero l’ordine di ripiegare sul fondovalle. Così anche gli uomini della Divisione Alpina “Monterosa” iniziarono il ripiegamento. E, a cominciare dal 26 aprile, molti reparti, ad evitare spargimenti di sangue ormai inutili, si arresero al C.L.N. della zona avendo formali promesse di trattamento conforme alle leggi internazionali. Purtroppo tali leggi non furono rispettate e anche qui, come altrove, decine e decine di uomini ormai disarmati, furono trucidati con bestiale ferocia. Non è possibile ricostruire tutti i fatti, molti dei quali, probabilmente, non sono mai stati resi noti. E’ molto noto, invece, il caso degli uomini del Btg “Bassano” che si erano arresi il 26 aprile al C.L.N. di Saluzzo. Come al solito essi avevano avuto ampie garanzie di salvaguardia della loro incolumità. Ma, ancora come il solito, tali promesse non erano state rispettate. E l’Avv. Andrea Mitolo di Bolzano, già ufficiale del “Bassano”, con una circostanziata denuncia alla Procura della Repubblica di Saluzzo, descrive la fine di ventidue uomini, ufficiali e soldati, trucidati dai partigiani di “Gianaldo” (Italo Berardengo) dopo che si erano arresi ed erano stati disarmati.
Né, parlando della Monterosa, possiamo non ricordare l’infame attentato alla tradotta che trasportava sul fronte occidentale gli uomini della “Monterosa” che erano stati ritirati dal fronte della Garfagnana. Tra Villafranca e Villanova d’Asti fu minata la linea ferroviaria e l’esplosione, provocata al passaggio della tradotta, travolse due vagoni e uccise 27 alpini ferendone altri 21 anche in modo molto grave. Malgrado l’odiosità del vile attentato non fu attuata alcuna rappresaglia.
I trucidati della Divisione “Littorio”
Negli ultimi giorni di Aprile anche i reparti della “Littorio” che, come è noto, difendevano i confini occidentali, iniziarono il ripiegamento verso il fondo valle. Anche qui, come altrove, i reparti che rimasero in armi fino all’arrivo degli anglo-americani, si consegnarono a questi e furono avviati ai campi di concentramento.
Quelli, invece, come il III Btg del 3° Rgt granatieri, si consegnarono ai partigiani, ebbero sorte diversa. Era stato raggiunto un accordo coi partigiani del capitano Aldo Quaranta per un indisturbato deflusso di tuti i reparti e il III Btg, giunto il 27 aprile a Borgo San Dalmazzo, si arrese al capo del CLN del luogo, tale Oratino. L’accordo era che i militari sarebbero stati messi gradualmente in libertà forniti di lasciapassare. Fra gli uomini del Btg e i partigiani non c’erano mai stati scontri o altri incidenti, per cui il patto fu accettato dagli uomini della “Littorio” fidando nella parola dell’Oratino. Ma anche questa volta gli uomini del CLN e i partigiani non tennero fede alla parola data e il Maggiore Grisi, comandante del III Btg, il maggiore Montecchi, il Ten. Buccianti, il Cap. Calabrò, i Marescialli Sanvitale e Magni, il Caporal Maggiore Sciaratta ed altri furono uccisi alcuni dopo un processo sommario, altri senza processo e, soprattutto, senza che fossero loro contestate reali colpe.
I morti della Divisione “San Marco”
Negli ultimi giorni di Aprile, a guerra conclusa, molti uomini della Divisione “San Marco” furono uccisi dai partigiani. Giorgio Pisanò, nella sua “Storia delle Forze Armate della R.S.I.” ne elenca alcune centinaia fra cui circa 300 ignoti ancora in divisa ma privi di ogni segno di riconoscimento, trucidati a Colle di Cadibona, Monte Manfrei (vedi), Passo del Cavallo, Santa Eufemia e in altri luoghi.
Il Deposito Divisionale, ritiratosi a Lumezzane V.T., qui il 27 aprile accettò la resa con l’onore delle armi e un promesso salvacondotto per tutti. Ma una volta deposte le armi i partigiani, fedifraghi come sempre, condussero gli ufficiali a Gardone e, dopo due giorni, li trucidarono a S.Eufemia della Fonte (BS). Fra di essi il Comandante del Deposito Ten. Col. Zingarelli, la cui salma, ritrovata con le altre orrendamente mutilate, potè essere identificata in virtù di un maglione blu che era solito indossare.
I trucidati della 29° Divisione SS italiane
I reparti più atti al combattimento di questa divisione ( Btg “Debica” e Gruppo di combattimento “Binz”) si arresero agli americani nei giorni 29 e 30 aprile. Il resto della divisione, invece, ( Btg Pionieri e Btg dislocati a Mariano Comense e a Cantù) dopo una strenua resistenza condotta fino all’esaurimento delle munizioni, fu catturato dai partigiani. Gli ufficiali furono tutti trucidati. Il Ten. Luigi Ippoliti, ferito, fu prelevato in ospedale il 5 maggio 1945, condotto presso il cimitero di Meda e qui massacrato legato alla barella.
I caduti del 3° Rgt Bersaglieri volontari
Il I Btg era schierato a Genova e a levante di Genova. I reparti che erano a levante di Genova si sacrificarono quasi interamente per contrastare l’avanzata del negri della 92^ Div. “Buffalo”. I reparti che si trovavano in città furono attaccati dai partigiani e si difesero fino all’ultima cartuccia. Essendo ormai disarmati, furono catturati e, immediatamente, quasi tutti uccisi. Il II Btg si trovava, invece, in Liguria in difesa del confine occidentale. Quando giunse l’ordine di ripiegamento, risalì insieme alla 34^ Div. Tedesca fino a Quagliuzzo in Piemonte e qui, il 3 maggio, si arrese al CNL locale previo rilascio di un lasciapassare per tutti gli uomini. Malgrado il lasciapassare, però, il Cap. Francoletti e il Ten. Casolini furono condotti sul greto della Dora e qui massacrati. I corpi non furono mai ritrovati. Questo Btg ebbe anche due giovani mascotte, di quattordici e 12 anni, assassinate dai partigiani.
I caduti dei Guastatori del Genio II Btg
Anche questo reparto (che aveva poi assunto il nome di II Btg Pionieri “Nettuno”) ebbe i suoi caduti dopo la cessazione delle ostilità. Nei giorni successivi al 25 aprile 1945 il Btg fu sciolto a Somma Lombardo (Varese). La popolazione del luogo si adoperò in ogni modo per salvare gli uomini del Btg, favorendo il rientro nelle loro famiglie. Malgrado il generoso intervento, i partigiani catturarono il Capitano Dino Borsani e, dopo due settimane di torture, lo trucidarono insieme a tre militari sulle rive del Ticino. Era il 10 maggio 1945.
Gli uccisi del Btg Volontari Mutilati “Onore e Sacrificio”
Anche questo Battaglione che la Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi di Guerra aveva voluto costituire (come già accadde durante la campagna etiopica del 1936) ebbe trucidati molti dei suoi appartenenti. Il Btg era stato costituito a Milano e qui era sempre rimasto, a svolgere compiti territoriali. Dopo la resa anche su questi mutilati infierì la ferocia partigiana e, allorché ebbero deposto le armi, molti furono gli assassinati
L’eccidio di Ozegna
Pur non essendo accaduto dopo il termine della guerra, si ritiene opportuno narrare qui anche questo fatto, per la vigliaccheria con cui venne consumato l’agguato. L’8 di luglio del 1944 un reparto motorizzato del Btg “Barbarigo” della X^ MAS, che dalla metà di giugno si trovava in Piemonte, al ritorno da una missione fece sosta nella piazza di Ozegna. Lo comandava il Capitano di Corvetta Umberto Bardelli, comandante del Battaglione. Sulla stessa piazza si trovavano alcuni partigiani coi quali Bardelli avviò una pacata discussione invitandoli a non combattere contro altri italiani per conto dello straniero invasore. La conversazione fu pacata e i partigiani ammisero che occorreva fare fronte comune contro gli stranieri. Ma l’atteggiamento remissivo e non ostile nascondeva l’agguato. Infatti, mentre essi parlavano in quel modo con Bardelli, un centinaio di partigiani si ammassarono nelle vie che sboccavano nella piazza e, non appena i parlamentari partigiani si allontanarono, un inferno di fuoco si scatenò sugli uomini del “Barbarigo”. Bardelli tentò di organizzare la resistenza, gridando: – Barbarigo non si arrende – , ma cadde quasi subito sotto il fuoco delle armi partigiane della banda di Piero Urati (detto Piero Pieri) insieme a dodici marò. I sopravvissuti, molti dei quali erano feriti, dovettero arrendersi.
Il massacro del Distaccamento “Torino” della X^
Il 26 aprile 1945 le forze del Presidio militare di Torino lasciarono la città agli ordini del comandante regionale militare Gen. Adami-Rossi. Ma il distaccamento “Torino” della Decima Flottiglia MAS non le seguì e si chiuse nella caserma Montegrappa preparandosi ad una resistenza ad oltranza. Disponeva anche di qualche carro armato. La resistenza durò tre giorni ma alla fine, esaurito il carburante per i carri e scarseggiando le munizioni, il 30 aprile cessò. Qualcuno riuscì a mettersi in salvo attraverso certi cunicoli sotterranei, ma sui rimasti si abbattè la ferocia partigiana. Circa 70 uomini furono fucilati nel cortile della caserma, altri furono massacrati dalle varie formazioni partigiane che avevano partecipato all’assalto e alla cattura di prigionieri. Alla fine, dopo che avevano dovuto assistere al martirio dei camerati, vennero fucilate anche tutte le ausiliarie del reparto.
Il sacrificio della Compagnia “Adriatica” della X^ MAS
All’atto dell’abbandono di Ravenna il Ten. Di Vasc. Giannelli costituì, coi marinai presenti, una compagnia di fucilieri. Era il 1° dicembre 1944. Spostatasi a Chioggia, la compagnia si aggregò alla X^ e, nel gennaio 1945, partì per Fiume e, da qui, si portò sull’isola di Cherso. Qui, nel maggio 1945, la compagnia si sacrificò pressoché per intero per la difesa dell’isola.
Il sacrificio della Compagnia “D’Annunzio” della X^ MAS
Costituitasi a Fiume nel maggio 1944, fu l’estremo avamposto della Decima sui confini orientali. Posta alla difesa di Fiume, costituì anche tre distaccamenti: Laurana, Lussimpiccolo e Lussingrande. Il 25 aprile 1945 Laurana venne attaccata dai “titini” e i 130 marinai si difesero strenuamente fino all’arrivo dei soccorsi. Ma ben 90 caddero nello scontro. Gli altri due distaccamenti si difesero eroicamente fino alla totale distruzione. Fiume si difese con uguale valore fino al 1° maggio, nella vana attesa di uno sbarco anglo-americano. E il 2 maggio i superstiti furono catturati dagli iugoslavi. Ben pochi rientrarono dalla prigionia nel 1947.
Il sacrificio della Compagnia “Sauro” della X^ MAS
Costituita a Pola nel settembre 1943 con gli uomini del deposito del Reggimento San Marco rimasti, dopo la visita di Borghese passò alle dipendenze della X^. A fine aprile e fino al 3 maggio combattè strenuamente fino all’ultimo per la difesa della città. Pochi sopravvissero e furono catturati dagli slavi.
I trucidati della base operativa “Est” della X^
La Base “Est” aveva sede a Brioni Maggiore ma, a fine aprile, col precipitare degli eventi, si concentrò presso il Comando di Marina-Pola. Dopo aver partecipato alla difesa della città, quando essa cadde il personale fu catturato dagli slavi. Solo quattro marinai furono risparmiati. Ufficiali, sottufficiali e 50 fra gradutai e marinai furono trucidati a Portorose, a Brioni e a Pola.
Il sacrificio della Scuola Sommozzatori della X^
Questa scuola, costituita a Portofino nel gennaio 1944, nell’estate fu trasferita in Istria, sul confine orientale, a Portorose. Una parte del personale, catturata negli ultimi giorni di aprile, fu subito passata per le armi. Altri, caduti prigionieri a Pola ove si erano concentrati, finirono nei terribili campi di concentramento iugoslavi. Pochi i sopravvissuti.
I morti del Btg. “Sagittario” della X^
Il 30 aprile 1945 il Btg., insieme ad altri reparti del II° Gruppo di Combattimento, raggiunse Marostica e qui, secondo gli ordini, si dette in prigionia agli americani. Ma, dopo la resa, il Comandante Ten.Vasc.F.M. Ugo Franchi e numerosi marinai, furono prelevati e assassinati dai partigiani.
L’assassinio del Maggiore Adriano Visconti
Il 29 aprile 1945 a Gallarate il Primo Gruppo Caccia dell’Aeronautica Repubblicana si arrendeva al CLN del luogo previo accordo che garantiva a tutti l’incolumità. Gli ufficiali vennero condotti a Milano nella Caserma del “Savoia Cavalleria” in Via Vincenzo Monti. Qui, contrariamente agli accordi, gli ufficiali, cui era stato concesso di tenere le proprie armi, vennero disarmati. E mentre attraversavano il cortile della caserma, il Maggiore Adriano Visconti, comandante del Gruppo e il S.Ten. Valerio Stefanini, Aiutante Maggiore, vennero vilmente assassinati con raffiche di mitragliatore sparati alle spalle. Furono sepolti nel cortile stesso della caserma.
I massacrati del Btg. “Folgore”
Il 29 aprile 1945 il Btg. “Folgore” del Rgt “Folgore” si stava dirigendo verso Venaria Reale. Contemporaneamente una pattuglia su un autocarro si diresse a Torino per ritirare alcuni autocarri presso il deposito reggimentale e per recuperare i feriti del Btg presso l’O.M. Ma a Porta Susa un blocco partigiano impedì la realizzazione del progetto. Allora il sottufficiale capo-pattuglia parlamentò coi partigiani ed ebbe l’assicurazione che i feriti sarebbero stati rispettati. Purtroppo, invece, tutti i feriti furono massacrati. Il 1° maggio il Btg., giunto a Strambino il giorno prima, si sciolse, e il Capitano Fredda sciolse gli uomini da ogni obbligo. Ma quasi nessuno abbandonò il reparto che il 5 maggio, ad Ivrea, si consegnò in prigionia di guerra agli americani ricevendo l’onore delle armi. L’ausiliaria Portesan e il sergente maggiore Ciardella furono i soli a lasciare il Btg il 2 maggio, ma, appena fuori dalla zona presidiata, furono trucidati dai partigiani.
Le stragi di Genova
Fra il 26 e il 27 aprile 1945 cessava la resistenza dei presidi della GNR rimasti in città. Con l’assunzione del potere da parte del CLN iniziarono i massacri che coinvolsero anche gran parte dei familiari dei militi. Massacri che continuarono anche dopo l’arrivo a Genova della 92^ Div. “Buffalo” americana.
Le stragi di Imperia
I partigiani entrarono in Imperia il 25 aprile 1945. Fu subito costituita una “commissione di giustizia” che arrestò 500 fascisti o presunti tali. Si disse che era per salvaguardarne la vita. Ma il 4 maggio una quarantina di loro fu seviziata e uccisa. E anche nella provincia avvennero massacri spaventosi.
Le stragi di Milano
Il 608° Comando Provinciale GNR, fedele alle consegne, non si sbandò il 25 aprile 1945 e, chiusisi i vari distaccamenti nelle caserme, resistè fino all’ultima cartuccia. Dopo di che, malgrado le promesse di rispetto della vita, ci furono i massacri, compiuti prevalentemente dai partigiani dell’Oltrepo pavese. Interi plotoni vennero passati per le armi. E le uccisioni continuarono anche quando i pochi superstiti ritornarono alle loro case dai campi di concentramento.
Le stragi di Varese
Anche qui le forze del 609° Com. Prov. GNR rimaste sul posto, dopo essere state sopraffatte il 26 aprile 1945, subirono le atroci vendette dei partigiani che, dopo aver subito fucilato il Cap. Osvaldo Pieroni con alcuni altri, continuarono fino a tutto maggio le esecuzioni sommarie, abbandonando insepolti i cadaveri, spesso rimasti senza nome.
Le stragi di Como
Nella notte del 27 aprile 1945 il Colonnello Vanini aveva ordinato la resa e lo scioglimento del 610° Com. Prov. GNR. Ciò fu fatto, come dagli altri reparti della R.S.I., per evitare il bombardamento della città che sarebbe stato richiesto dai partigiani. Subito dopo cominciarono, anche qui, le sevizie e le uccisioni di numerosissimi militari, che continuarono per quasi tutto maggio.
Le stragi di Sondrio
Il 25 aprile 1945 a Sondrio comandava i circa 3000 uomini della R.S.I. il generale Onorio Onori che avrebbe dovuto organizzare il famoso ridotto della Valtellina. Altri 1000 uomini al comando del Maggiore Renato Vanna sono a Tirano e cercano di raggiungere Sondrio. Il Maggiore Vanna, con 300 uomini, tenta di forzare gli sbarramenti opposti dai partigiani, ma ecco che il generale Onori e Rodolfo Parmeggiani, federale di Sondrio, gli vanno incontro a Ponte in Valtellina, a 9 Km da Sondrio, gli comunicano di essersi arresi il giorno prima e lo invitano a fare altrettanto. E’ il 29 aprile. Tutti i prigionieri vengono chiusi nel carcere di via Caimi o nell’ex casa del Fascio. E qui, malgrado le solite promesse di trattamento civile e conforme alle convenzioni internazionali, ai primi di maggio ebbero inizio le uccisioni di massa. Il 4 maggio furono prelevati 8 uomini, condotti ad Ardenno, obbligati a scavarsi la fossa e uccisi. Il 6 maggio ne furono prelevati 13, condotti a Buglio in Monte e uccisi. Il 7 maggio fu la volta di altri 15. Condotti vicino a Bagni del Masino, furono mitragliati alle gambe e, poi, bruciati vivi. Si calcola che, in totale, gli uccisi siano stati oltre 200. Secondo alcuni addirittura 500. Fra gli uccisi anche l’ausiliaria Angela Maria Tam, il maggiore Vanna e due Capitani medici. Il S.Ten. Paganella fu gettato da un campanile. Molti uccisi ebbe anche il I Btg Milizia Francese, dipendente dallo stesso Comando.
Le stragi di Brescia
Gli uomini del 613° Com. Prov. GNR si arresero fra il 28 e il 30 aprile 1945. Subito ci furono sevizie e uccisioni compiute dai partigiani. Il maggiore Spadini subì un vergognoso processo e fu condannato a morte e fucilato il 13.2.1946. Il 23.4.1960 la vedova ricevette una telefonata del Ministro di Grazia e Giustizia On. Guido Gonella che gli annunciava l’annullamento della sentenza della Corte d’Assise Straordinaria di Brescia e la riabilitazione del marito.
Le stragi di Pavia
Le forze del 616° Com. Prov. GNR furono particolarmente pressate dalle ingenti bande partigiane della zona. Il 25 aprile 1945 il presidio di Strabella visse un episodio eroico. Per consentire al grosso delle truppe di ritirarsi verso nord, dodici giovanissimi volontari si assunsero il compito di impegnare le forze partigiane. I dodici giovani, poi ridotti a sei, si difesero disperatamente per tutto il giorno e tutta la notte. Poi accettarono la resa con l’onore delle armi. Ma poco dopo, furiosi per essere stati tenuti in scacco da sei ragazzi, i partigiani li prelevarono (ad eccezione di uno che riuscì a fuggire) e li fucilarono insieme ad altre 14 persone. La stessa sorte fu riservata a molti militi dehli altri presidi.
Le stragi di Vicenza
Gli uomini del 619° Com.Prov. GNR, all’atto dello sfondamento del fronte nell’aprile 1945 si ritirarono verso le montagne. Ma qui dovettero arrendersi ai partigiani. Vari distaccamenti, però, si difesero strenuamente finchè vennero sopraffatti e massacrati con inaudita ferocia. Vedi anche il terribile massacro di Schio.
Le stragi di Treviso
Anche in questa provincia gli uomini del 620° Com. Prov. GNR, dopo la resa avvenuta fra il 27 e il 30 aprile 1945, subirono la feroce vendetta partigiana. A Revine Lago, a Oderzo, a Susegana furono soppressi centinaia di uomini. Quelli del presidio di Fregona, arresisi il 27 aprile, furono portati a Piano del Cansiglio e infoibati.
Le stragi di Padova
Il 623° Com. Prov. GNR cessò di esistere il 28 aprile 1945. In tutta la provincia infierirono gli uomini della brigata garibaldina di “Bulow” (Boldrini) che commisero innumerevoli eccidi.
Le stragi di Bologna
Il 629° Com. Prov. GNR partecipò, il 21 aprile 1945, alla difesa di Bologna, poi si ritirò verso il Po e qui si sciolse. I suoi uomini furono braccati e moltissimi furono gli assassinati e lasciati senza sepoltura.Pare che gli uccisi dopo il 21 aprile 1945 nel bolognese ammontino a 773 di cui 334 civili fra cui 42 donne.
Le stragi di Parma
Il 631° Com. Prov: GNR partecipò alla difesa della città il 23 aprile 1945, poi una colonna si ritirò fino a Casalpusterlengo ove si sciolse. Ma i presidi di Colorno e di Salsomaggiore furono massacrati al completo. E il 26 aprile a Parma in via Giuseppe Rondinoni furono uccisi 10 bersaglieri della divisione “Italia”.
Le stragi di Modena
Il 633° Com.Prov.GNR nell’aprile 1945 si ritirò ordinatamente fino quasi a Como dove si sciolse. Ma nella provincia di Modena le uccisioni indiscriminate di fascisti continuarono fino al 1946. I fascisti uccisi nel modenese pare ammontino a 893. Per notizie particolareggiate vedi anche il sito http://members.xoom.it/fratricidio .
Le stragi di Forlì
Gli uomini del 636° Com. Prov. GNR ripiegati al nord, confluirono nel Btg. “Romagna” che fu inviato nel Veneto. Qui, negli ultimi giorni di aprile 1945 avvenne la resa e, dopo la resa, il pressoché totale annientamento ad opera dei partigiani.
FONTE:http://web.tiscali.it/RSI_ANALISI/stragi.htm
2365 DONNE STUPRATE, TORTURATE E UCCISE COME “COOPERATRICI” DOPO IL 25 APRILE
Pubblicato il 24/04/2019
PARMA- Non si può non essere colpiti dalla drammaticità di quanto viene raccontato dal Giornalista e Scrittore Giampaolo Pansa su quanto è accaduto durante la guerra civile in Italia, tra partigiani e fascisti e quanto di terribile ha continuato ad accadere negli anni immediatamente successivi alla fine della guerra.
Giampaolo Pansa riporta il numero di 2.365 donne uccise, spesso prima stuprate dai partigiani, di cui si conosce il nome e la vicenda. A cui bisogna aggiungere le centinaia di donne violentate che sono riuscite a sfuggire alla morte e che per un comprensibile senso di pudore hanno taciuto. E quelle picchiate, rapate a zero ed esibite come trofei per la sola colpa di essere fidanzate di soldati fascisti.
Giuseppina Ghersi era una bambina di appena 17 anni quando fu picchiata, stuprata e uccisa dai partigiani con l’accusa di essere al servizio del regime fascista. Studentessa delle magistrali alla “Rossello” di Savona scrisse un tema che la maestra inviò al Duce ottenendone i complimenti: questa la sua colpa.
La mattina del 25 aprile 1945, Giuseppina fu sequestrata da tre partigiani e portata nei locali della Scuola Media “Guido Bono” a Legino, adibito a Campo di Concentramento per i fascisti. Le cosparsero la testa di vernice rossa e le vergarono la emme di Mussolini sulla fronte per essere poi esibita in pubblico come un trofeo di caccia. Fu pestata a sangue e violentata per giorni.
Il 30 aprile fu posto fine al suo martirio con un colpo di pistola alla nuca e il suo corpo gettato, insieme ad altri, su un cumulo di cadaveri davanti al cimitero di Zinola.
Al riconoscimento della piccola partecipa Stelvio Murialdo il quale dà una testimonianza agghiacciante:
«…erano terribili le condizioni in cui l’avevano ridotta, evidentemente avevano infierito in maniera brutale su di lei, senza riuscire a cancellare la sua giovane età. Una mano pietosa aveva steso su di lei una sudicia coperta grigia che parzialmente la ricopriva dal collo alle ginocchia. La guerra ci aveva costretto a vedere tanti cadaveri e in verità, la morte concede ai morti una distesa serenità; ma lei, quella sconosciuta ragazza NO!!! L’orrore era rimasto impresso sul suo viso, una maschera di sangue, con un occhio bluastro, tumefatto e l’altro spalancato sull’inferno. Ricordo che non riuscivo, come paralizzato, a staccarmi da quella povera disarticolata marionetta, con un braccio irrigidito verso l’ alto, come a proteggere la fronte, mentre un dito spezzato era piegato verso il dorso della mano” …»
Lo scrittore Giampaolo Pansa, uno dei massimi conoscitori della guerra partigiana, nel suo libro “Bella Ciao” dedica un capitolo ad un’altra triste vicenda: “Gli stupri di Brogli”
La retorica resistenzialista e i libri che ne derivano hanno sempre ignorato l’esistenza del Campo di Brogli… un lager nella 6° Zona ligure, dove tra l’estate e l’autunno 1944 furono rinchiusi molti prigionieri fascisti. La loro sorte era segnata: venivano torturati e poi uccisi (…) erano tutti uomini, a parte due donne.
Una era un’ostetrica genovese, fra i trenta e i quarant’anni, bionda e con la testa rapata in modo selvaggio, coperta di croste rossastre. In seguito fu poi violentata e fucilata.
L’altra donna era molto più giovane e nessuno sapeva che fine avesse fatto.”
In seguito Gianpaolo Pansa rintracciò la donna, Lucia R., e ne raccolse la testimonianza:
Nel 1944 aveva 19 anni e frequentava la terza liceo classico a Genova. Una domenica di settembre era andata a visitare uno zio ammalato, fascista delle ultime file, commissario prefettizio di un piccolo comune della Valle Scrivia.
Quel giorno alla porta dello zio bussarono tre sconosciuti, partigiani arrivati per ucciderlo. Ma lui non c’era perché la sera prima era stato ricoverato all’ospedale di Novi Ligure.
Il terzetto trovò soltanto Lucia, la prese e la portò a Brogli (…) «arrivai a Brogli in preda alla disperazione. Il capo del lager, il famoso Walter, mi accusò di essere un’ausiliaria fascista, per di più parente di un podestà repubblichino (…) si divertiva a spaventarmi, i suoi uomini assistevano ridendo e insultandomi. Ma il peggio doveva ancora arrivare e successe la prima sera.
Mentre tutti i prigionieri venivano rinchiusi nel casone, mi portarono in una casupola vicina al comando del campo. Ero una ragazza illibata e quella sera persi la verginità. Il primo a violentarmi fu Walter, che poi mi passò a due russi. Mi presero con una brutalità bestiale, perché ero una troia fascista, così dicevano. Quando mi riportarono nel casone dei prigionieri, sanguinavo, avevo la faccia nera per le botte ricevute (…) pensavo che dopo essersi sfogati, Walter e i suoi uomini mi avrebbero lasciato in pace. Ma il giorno successivo mi resi conto che ero considerata una preda da stuprare a loro piacimento.
Mi facevano uscire tutti i giorni dal casone e mi usavano come fossi una prostituta al soldo della banda di Brogli (…) La mia tortura durò tutto il mese di ottobre (…) a salvarmi fu l’arrivo a Brogli di un commissario politico anziano (…) Mi sono accorsi anni per liberarmi dell’orrore di Brogli».
In un altro capitolo del suo libro, Giampaolo Pansa, descrive la vicenda di Giuseppe Ugazi e delle sue due figlie.
“Nell’agosto 1944, a Galliate viveva Giuseppe Ugazio, 43 anni, segretario del fascio repubblicano di quel comune (…) Ugazio viveva con due figlie. Cornelia, 21 anni studiava Medicina all’Università di Torino (…) la più piccola, Mirella detta Mirka, 13 anni. Verso le nove di sera del 28 agosto si presenta alla trattoria San Carlo, dove se ne stava seduto con un paio di amici, una pattuglia di militi della repubblica e invitano l’Ugazio a seguirli insieme alle figlie perché si teme un attacco dei ribelli.
Il segretario del fascio e le due ragazze salgono sull’automobile dei militi e soltanto all’ora scoprono di essere caduti nelle mani dei partigiani garibaldini travestiti da fascisti.
Li conducono attraverso i campi sino a una cascina isolata, la Negrina, qui li aspettano una ventina di ribelli che hanno già occupato il cascinale.
I partigiani mangiano e bevono, sotto lo sguardo atterrito dei tre ostaggi. Il padre di Cornelia e Mirka spera ancora di salvare almeno le figlie, poiché tra i ribelli ha riconosciuto un giovane di Galliate. Poi si rende conto di non avere via di scampo. Viene spinto in un boschetto vicino al podere, legato a un albero e torturato sotto gli occhi delle ragazze.
La sua vita sta per concludersi. I partigiani lo finiscono spaccandogli il cranio con il calcio dei moschetti. Subito dopo tocca alle figlie. Sia Cornelia che la piccola Mirka sono stuprate. I ribelli se le passano di mano per l’intera notte. E’ quasi l’alba del 29 agosto quando le ragazze non danno più segni di vita.
La banda trascina i corpi nel boschetto, accanto al cadavere del padre. Gli stupratori scavano una fossa poco profonda, una trentina di centimetri, non di più.
Al contatto con il freddo del terreno, Cornelia e Mirka si riprendono. Allora i partigiani fracassano la testa della ragazza più grande con i moschetti e soffocano Mirka, schiacciandole il collo con uno scarpone.
Poi se ne vanno poco dopo l’alba. E riprendono a combattere per la rivoluzione comunista”.
Orrori dei partigiani comunisti
Eccidi di ex partigiani nella Bassa bolognese
Tra l’8 e l’11 maggio, nelle campagne tra Argelato, Pieve di Cento e San Giorgio di Piano, 29 persone vengono sequestrate e uccise da un nucleo di polizia partigiana della 2a Brigata Garibaldi “Paolo”, già operante in quella zona durante il conflitto.
Il gruppo, che ospita anche alcuni componenti della 7a GAP, riceve ordini da Vittorio Caffeo “Drago” (1923-2007) ex commissario politico e vice comandante, in rapporto con il comando della brigata di stanza a San Pietro in Casale.
I sequestrati sono considerati fascisti o collusi con il fascismo della RSI. L’eccidio si svolge in due tempi: l’8 maggio sono catturate dodici persone, tra le quali la professoressa Laura Emiliani, l’ex podestà di San Pietro in Casale Sisto Costa, rapito assieme alla moglie e al figlio, e nove cittadini di Pieve di Cento, quasi tutti appartenenti alle Brigate Nere. Giudicati sommariamente da un tribunale partigiano, sono tutti condannati a morte.
Nella seconda strage, avvenuta l’11 maggio, rimangono vittime sette fratelli, Dino, Emo, Augusto, Ida, Marino, Giuseppe e Primo Govoni, dei quali solo due avevano aderito alla RSI. Alcuni di essi sono sequestrati a Pieve di Cento durante una festa da ballo.
Altre dieci persone sono prelevate dai partigiani a San Giorgio di Piano. I prigionieri subiscono torture, sono derubati e giustiziati. I loro corpi sono sepolti in fosse comuni, che verranno rinvenute nel febbraio 1951, grazie ad alcune testimonianze e alle indagini del maresciallo dei carabinieri Vincenzo Masala.
Il processo per le due stragi sarà celebrato a Bologna nel 1953 e vedrà la condanna all’ergastolo di quattro ex partigiani (Vittorio Caffeo, Vitaliano Bertuzzi, Adelmo Benini, Luigi Borghi), poi amnistiati.
Tutti quanti, nel frattempo, saranno da tempo riparati nella Cecoslovacchia comunista. Lo Stato italiano deciderà di risarcire la madre dei Govoni per l’uccisione dei figli.
Fonti della notizia:
Approfondimenti:
- “Almanacco di Bologna” (2003), p. 78
- Adelmo Caselli, Prelevati. La politica, il lavoro, la vita, l’odio, la violenza, i prelevamenti, le uccisioni e i processi nella lunga liberazione di Pieve di Cento, 1945-1951, 2. ed., Pieve di Cento, Bagnoli1920 edizioni, 2011, p. 93 sgg.
- Gianluca Costantini, Saturno Carnoli, Andrea Colombari, Ultimo. Storia ordinaria di guerra civile, Jesolo Lido (Ve), Edizioni del Vento, 2007, p. 101 sgg.
- Guido Crainz, Padania. Il mondo dei braccianti dall’Ottocento alla fuga dalle campagne, Roma, Donzelli, 1994, p. 226
- Nazario Sauro Onofri, Il triangolo rosso, 1943-1947. La verità sul dopoguerra in Emilia-Romagna attraverso i documenti d’archivio, Roma, Sapere 2000, 1994, p. 99
- Giorgio Pisanò, Sangue chiama sangue, Milano, Edizioni FPE, 1962, pp. 265-284
- Giorgio Pisanò, Paolo Pisanò, Il triangolo della morte. La politica della strage in Emilia durante e dopo la guerra civile, Milano, Mursia, 2003, p. 391 sgg.
- Angela Maria Politi, Luca Alessandrini, I partigiani emiliani dalla liberazione ai processi del dopoguerra, in: Istituto Storico Provinciale della Resistenza, Bologna, Guerra, resistenza e dopoguerra. Storiografia e polemiche recenti, Bologna, Istituto Storico Provinciale della Resistenza, 1991
- Gianfranco Stella, I lunghi mesi del ’45 in Emilia Romagna, Ravenna, Tipografia moderna, 2005
Le vittime dimenticate di quegli assassini comunisti infiltrati tra i partigiani
Tra i partigiani che hanno liberato l’Italia dalla piaga del fascismo, non tutti avevano buone intenzioni
Era l’11 maggio del 1945 quando nel piccolo comune di Pieve di Cento sono stati rapiti, e nel pomeriggio selvaggiamente uccisi, i 7 fratelli Govoni. Il primogenito, Dino, aveva 41 anni, mentre la più giovane, Ida, ne aveva appena 20; solamente due di loro avevano aderito alla Repubblica Sociale Italiana, ciononostante sono stati tutti massacrati di botte, e infine strangolati, da un drappello di comunisti che facevano parte della Brigata Garibaldi e si definivano partigiani.
Gran parte degli italiani sa poco o nulla degli eccessi perpetrati dalle frange più estreme dei ‘partigiani’ comunisti italiani al termine della Seconda Guerra Mondiale, eccessi che per molti anni sono stati minimizzati dalla stampa in quanto azioni di guerra, o di vendetta nei confronti di coloro che avevano commesso nefandezze sotto il regime nazifascista della Repubblica di Salò.
Tuttavia il quadro reale è ben diverso; secondo Alberto Fornaciari «le fosse comuni, le foibe e buona parte degli omicidi portati brutalmente a termine dalle brigate di partigiani comunisti avevano lo scopo ben preciso di eliminare fisicamente i possibili avversari del comunismo di stampo sovietico che si voleva instaurare a guerra finita».
Quel che è certo è che una parte consistente delle vittime non erano state collaboratori del regime nazifascista. Molti sono stati uccisi solo perché avevano espresso pubblicamente una certa avversione per il comunismo, e per le violenze causate da questa ideologia; numerosi sacerdoti cristiani sono stati trucidati principalmente per via della propria fede; in nome della ‘lotta di classe’ proprietari terrieri e funzionari pubblici sono stati seviziati e massacrati con l’accusa di essere fascisti.
Molti altri ancora, come ad esempio i fratelli Govoni, sono stati uccisi al solo scopo di «seminare il terrore, per continuare ad avere il controllo della situazione, anche a guerra finita», come ha scritto lo storico Giordano Bruno Guerri in un articolo pubblicato dal Giornale in memoria dei sette fratelli.
Ma come è possibile che dei crimini cosi efferati e numerosi siano stati taciuti, e sostanzialmente esclusi dai libri scolastici, dai programmi universitari e dai musei italiani? Secondo il celebre storico e giornalista Indro Montanelli «il silenzio mantenuto finora, o quasi, si spiega facilissimamente. Tutta la storiografia italiana del dopoguerra era di sinistra; apparteneva all’intellighenzia di sinistra, la quale era completamente succube del Partito Comunista. […] Non si poteva parlare delle stragi del triangolo della morte, perché anche queste ricadevano sulla coscienza – ammesso che ce ne sia una – del Partito Comunista».
Il Triangolo della morte
L’espressione ‘triangolo della morte’ (o triangolo rosso), si riferisce a una delle zone in cui le violenze partigiane si manifestarono con la maggiore intensità, ovvero l’area compresa tra Bologna, Reggio Emilia e Ferrara. Ad oggi non è ancora possibile stabilire con certezza quante persone siano state effettivamente giustiziate sommariamente dai partigiani comunisti tra il ‘43 e il ‘46. Tuttavia, nel libro Il triangolo della morte, i fratelli Pisano hanno raccolto i nomi – e per quanto è stato loro possibile anche le vicende – di circa 4500 persone uccise in Emilia Romagna dalla furia comunista di quegli anni.
I corpi dei fratelli Govoni, anch’essi emiliani, sono stati rinvenuti il 24 febbraio del 1951, grazie alle testimonianze di Guido Cevolani, che – secondo la ricostruzione dei fatti presentata dal libro Vincitori e Vinti, di Bruno Vespa – ha trovato il coraggio di superare il terrore e rompere il muro di omertà solo in seguito ai disperati appelli di Caterina Gamberini, la madre dei 7 fratelli.
Nella zona erano in molti a sapere, ma nessuno aveva il coraggio di parlare, anche perché la strage dei fratelli Govoni era stata preceduta da molti altri massacri. Non a caso nel 1951, assieme ai corpi dei fratelli, sono stati rinvenuti altri 35 cadaveri, dieci sepolti nella stessa fossa, mentre gli altri 25 interrati in una seconda fossa a pochi metri di distanza. Le indagini hanno appurato che si è trattato di due distinti massacri, avvenuti nella stessa settimana per mano dei militanti della Brigate Garibaldi; il tribunale di Bologna ha scelto di unire le due stragi in un solo procedimento, dal momento che gli imputati erano gli stessi.
Un eloquente articolo pubblicato dal Centro San Giorgio ha riassunto con le seguenti parole lo svolgimento dei terribili fatti dell’11 maggio: «I partigiani della Brigata Paolo infierirono con una crudeltà e un sadismo veramente inconcepibili su ogni prigioniero. Anche Ida, la mamma ventenne, che non aveva mai saputo niente di fascisti o di partigiani, morì tra sevizie orrende, invocando la sua bambina. Quelli che non morirono tra i tormenti furono strangolati. Quando le urla si spensero erano le 23,00 dell’11 maggio. Ebbe luogo, quindi – prosegue il testo della sentenza – la ripartizione degli oggetti d’oro in possesso dei prelevati».
Per rendersi conto dei criteri con cui i ‘partigiani’ comunisti selezionavano le proprie vittime basti pensare che tra i corpi rinvenuti nella seconda fossa è stato identificato quello di Giacomo Malaguti, un ragazzo di 22 anni che l’anno precedente aveva combattuto nell’Esercito del Sud contro i tedeschi a Montecassino. Tuttavia – secondo le informazioni raccolte da Bruno Vespa – il ragazzo aveva commesso «l’imperdonabile errore» di manifestare pubblicamente avversione al comunismo per via delle ripetute violenze partigiane.
Nel 1953 il processo di Bologna si è concluso con quattro condanne all’ergastolo, tuttavia in quel momento gli assassini erano già stati aiutati a fuggire in Cecoslovacchia, oltre la cortina di ferro, e così di loro si è persa ogni traccia.
Il seminarista Rolando Rivi
Un altro caso esemplare dell’efferatezza dei crimini commessi dai partigiani comunisti in Emilia Romagna è quello di Rolando Rivi, un seminarista appena 14enne scomparso il 13 aprile del 1945. Quella mattina il ragazzo era andato come di consueto a studiare in un boschetto vicino casa, ma quando il padre – non vedendolo tornare – è andato a cercarlo, ha trovato i suoi libri sparsi per terra, insieme a un biglietto con su scritto: «Non cercatelo, viene un momento con noi partigiani».
Dopo un giorno di ricerca, il padre, accompagnato dal curato di San Valentino, ha incontrato un partigiano a cavallo a cui ha domandato se sapesse qualcosa del seminarista Rivi, e quello – secondo la testimonianza del curato – ha risposto: «È stato ucciso qui, l’ho ucciso io, ma sono perfettamente tranquillo», e ha poi indicato loro il luogo dove si trovava il cadavere.
I due, dopo alcuni attimi di stordimento, hanno effettivamente rinvenuto il corpo del ragazzo in mezzo alla boscaglia, appena coperto da qualche foglia di quercia, con il volto tumefatto, il corpo pieno di lividi e due pallottole nel corpo, una alla tempia sinistra e l’altra all’altezza del cuore.
Nel 1951 il tribunale di Lucca ha condannato Giuseppe Corghi, il partigiano a cavallo, e Delciso Rioli per il rapimento e l’assassinio di Rolando, commutando a entrambi una pena di 22 anni di reclusione. Tuttavia, a causa dell’amnistia Togliatti, i due partigiani hanno trascorso in carcere solo 6 anni prima di tornare a piede libero.
Col passare degli anni, la tomba di Rolando è diventata una meta di pellegrinaggio, e nel 2013 le autorità ecclesiastiche hanno promulgato un decreto che ne ha riconosciuto il martirio, e ha santificato il giovane fedele.
Questo delitto è senza dubbio un caso emblematico della distorsione che l’ideologia comunista può indurre nella coscienza di un essere umano: una distorsione tale da consentire a un uomo, altrimenti sano di mente, di seviziare e uccidere un ragazzo innocente, di 14 anni, a cuor leggero; pensando persino di essere nel giusto.
La strage dei Conti Manzoni e la testimonianza di Indro Montanelli
Tra la notte del 7 e l’8 luglio 1945 si è consumato un altro brutale delitto nel comune di Lugo, in provincia di Ravenna. I quattro membri della famiglia Manzoni sono stati sequestrati insieme alla loro domestica da un gruppo di ex partigiani comunisti, che poi hanno saccheggiato la loro villa di famiglia. I 5 sono stati condotti in un azienda agricola, dove hanno trovato la morte, uno dopo l’altro. Secondo il libro Vincitori e Vinti, «l’autopsia dimostrò che la contessa e la domestica erano state uccise a bastonate, Giacomo e Luigi a colpi di pistola, mentre Reginaldo fu ferito e sepolto ancora vivo».
Il caso è rimasto avvolto nel mistero per diversi anni, anche perché prima della strage i comunisti avevano a più riprese garantito che non avrebbero torto un capello alla famiglia Manzoni, che aveva sempre aiutato i contadini della zona; ma nel 1948 i carabinieri hanno iniziato a indagare e hanno rinvenuto alcuni degli oggetti appartenuti alla famiglia Manzoni nelle case degli ex partigiani. Poco dopo, uno di loro ha confessato e così sono stati riesumati il 4 agosto 1948 i cadaveri dei 5 scomparsi, assieme alla salma del loro cane.
Il processo, terminato nel 1953, ha condannato all’ergastolo ben 13 ex partigiani comunisti, tra cui Silvio Pasi, leader dei Gruppi di Azione Patriottica della zona, nonché membro del Pci e dirigente della Camera del Lavoro di Faenza. Tuttavia anche in questo caso la pena è stata ridotta per effetto dell’amnistia Togliatti, in teoria fino a 19 anni di detenzione, ma poi in pratica gli assassini hanno trascorso in cella appena 5 anni, prima di tornare in libertà.
Montanelli ha raccontato, durante il programma televisivo La Storia d’Italia, di essersi recato nel triangolo della morte poco dopo la fine della guerra, per indagare sulla vicenda: «La strage dei conti Manzoni, che erano tutti miei amici e furono sterminati. Una famiglia di persone che con il fascismo non aveva niente a che fare; ci avevano convissuto come tutti gli italiani. Bene, nessuno mi voleva parlare di questa faccenda; quando ne parlai con il questore di Reggio Emilia, lui mi disse: “Montanelli guardi che se lei insiste in questa inchiesta non rispondo della sua pelle”».
«Io gli dissi: “Ma della mia pelle non deve rispondere lei, della mia pelle rispondo io. Io voglio andare in fondo a questa faccenda”. Allora lui, e questo l’ho saputo dopo, si rivolse al ministro Scelba, il ministro degli Interni, il quale si rivolse al direttore del Corriere, che era allora Gugliemo Emanuel, perché mi richiamasse; ed Emanuel mi richiamò con la scusa di mandarmi in Germania a seguire il processo di Norimberga. Ecco, ma nessuno aveva parlato: né dei carabinieri, né della polizia e tanto meno della magistratura, eppure lo sapevano».
Montanelli ha poi precisato che il ministro Scelba non ha agito così per insabbiare le indagini, ma piuttosto perché temeva realmente per la sua incolumità: «Sapeva che andavo incontro a dei grossi rischi, cercando di schiodare le bocche di questa gente. C’era una complicità assoluta».
Conclusione
Naturalmente i tre episodi sopracitati non rappresentano che una goccia tra le migliaia di storie dimenticate; storie di persone giustiziate sommariamente – spesso in maniera disumana – con l’accusa di essere ‘fasciste’.
La verità è che l’etichetta ‘fascista’, in gran parte dei casi, non era affatto legata al reale comportamento tenuto da ciascuno durante il ventennio, ma piuttosto è stata adoperata dai militanti comunisti per attaccare coloro che si opponevano al comunismo.
L’etichetta di ‘fascista’ è stata in effetti utilizzata in Russia, in Cina e a Cuba, per contrassegnare ed eliminare fisicamente i ‘nemici della rivoluzione’ e lasciare spazio alle ‘opere’ di questi regimi, che complessivamente hanno causato la morte innaturale di ben oltre 100 milioni di persone in tempi di pace, nel solo XX secolo, al fine di perorare la ‘grande causa del comunismo’.
Per saperne di più sugli eccidi avvenuti tra il 1943 e il 1946 si consiglia la lettura dei due libri sopra citati, come anche del saggio storico di Gianpaolo Pansa, Il sangue dei vinti.
Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente il punto di vista di Epoch Times.
Per saperne di più:
- Qual è il vero obiettivo del comunismo?
- Le uccisioni di massa in Oriente
- Le vittime del comunismo contano meno di quelle del nazifascismo
- I Nove Commentari sul Partito Comunista Cinese
- Come lo Spettro del Comunismo controlla il nostro mondo: Prefazione
FONTE:https://www.epochtimes.it/news/le-vittime-dimenticate-di-quegli-assassini-comunisti-infiltrati-tra-i-partigiani/
Sitografia “contro e malgrado” il 25 aprile
Link in rassegna:
https://www.tempi.it/segreto-italia-sulle-stragi-partigiane-a-codevigo-ricostruisce-fatti-reali/https://www.lintellettualedissidente.it/inevidenza/25-aprile-e-retroguardia/https://www.epochtimes.it/news/le-vittime-dimenticate-di-quegli-assassini-comunisti-infiltrati-tra-i-partigiani/https://www.bibliotecasalaborsa.it/cronologia/bologna/1945/eccidi_partigiani_nella_bassa_bolognesehttps://www.youtube.com/playlist?list=PLo1dxIARLR8dJEe5ITTi60sadvOwlzeYIhttp://www.congedatifolgore.com/it/2365-donne-stuprate-torturate-e-uccise-come-cooperatrici-dopo-il-25-aprile/http://web.tiscali.it/RSI_ANALISI/stragi.htmhttps://www.ilprimatonazionale.it/approfondimenti/un-libro-racconta-le-atrocita-dei-partigiani-lanpi-non-ci-sta-e-querela-lautore-96317/http://www.laltraverita.it/documenti/rappresaglie_partigiane.htmhttp://www.italian-samizdat.com/p/crimini-dei-partigiani-comunisti.htmlhttps://www.ereticamente.net/2015/09/la-verita-su-sanna-di-stazzema.htmlhttps://www.notizienazionali.it/notizie/attualita/6607/porzus-la-strage-partigianahttps://www.ilgazzettino.it/lettere_al_direttore/lettera_di_mattia_bianco_relativa-4463800.htmlhttps://www.secoloditalia.it/2017/05/i-sette-fratelli-govoni-uccisi-dopo-una-notte-di-torture-dai-partigiani-rossi/https://www.genovasi.it/index.php?option=com_content&view=article&id=12861:compagno-mitra-le-stragi-dei-partigiani&catid=34&Itemid=102https://www.controinformazione.info/25-aprile-fu-vera-gloria/http://blog.ilgiornale.it/puglisi/2019/04/13/cancellare-il-25-aprile-per-tornare-a-parlare-di-presente-e-futuro/https://www.ilfoglio.it/cronache/2019/04/25/news/litalia-se-desta-ma-non-se-liberata-lhanno-fatto-gli-alleati-251421/https://www.ilgiornale.it/news/cultura/non-fu-resistenza-liberare-litalia-solo-alleati-1025074.htmlhttp://www.ilpiacenza.it/blog/anticaglie/liberiamoci-da-questa-liberazione.htmlhttps://digilander.libero.it/imiani/Ricerche/Liberazione/liberate.htmlhttps://voxnews.info/2020/04/25/il-25-aprile-non-ce-stata-alcuna-liberazione-ditelo-alla-donna-italiana-stuprata-da-100-africani/https://it.sputniknews.com/mondo/20150429322468-europa-liberata/http://www.marcelloveneziani.com/articoli/perche-non-celebro-il-25-aprile/http://www.lintraprendente.it/2019/04/il-nostro-25-aprile/http://www.opinione.it/societa/2020/04/24/mauro-mellini_25-aprile-italia-germania-resistenza-liberazione-insurrezione-hitler-mussolini-germania-gerarchi-milano/
Link da consultare per approfondire:
https://it.sputniknews.com/opinioni/201704254409256-italia-25-aprile-liberazione/http://www.mentecritica.net/critica-della-liberazione/oldstuff/comandante-nebbia/13638/https://www.enzopennetta.it/2017/04/il-25aprile-e-una-festa-da-abolire-per-piu-di-un-motivo/https://www.wumingfoundation.com/giap/2020/04/verso-il-25-aprile/http://www.ideadestra.org/le-stragi-partigiane-del-dopoguerra-in-italia/http://stragipartigiane.blogspot.com/https://www.gospanews.net/2019/04/24/mattarella-straparla-ma-tace-sui-femminicidi-partigiani/https://www.iltempo.it/politica/2017/04/25/news/vendette-stragi-sangue-c-e-poco-da-celebrare-1027564/http://www.centrosangiorgio.com/piaghe_sociali/comunismo/pagine_articoli/atrocita_partigiane_in_italia.htmhttps://www.ilgiornale.it/news/cultura/esecuzioni-torture-stupri-crudelt-dei-partigiani-paura-e-844311.htmlhttps://www.imolaoggi.it/2016/04/24/sassuolo-una-delle-tante-stragi-effettuate-dai-partigiani-censurata-dalle-istituzioni/http://www.storiainrete.com/2779/in-primo-piano/la-resistenza-accusata-di-genocidio-davanti-alla-corte-dellaia/https://www.v-news.it/il-segreto-ditalia-il-film-sulle-stragi-partigiane-rifiutato-dalle-sale-italiane/https://www.iltempo.it/politica/2020/04/24/news/25-aprile-coronavirus-festa-liberazione-italiani-a-casa-premier-conte-negozi-chiusi-1320001/https://www.ilprimatonazionale.it/primo-piano/canzone-piave-25-aprile-sylos-labini-contro-europa-banche-154286/https://www.globalist.it/politics/2020/04/23/anche-rachele-mussolini-contro-il-25-aprile-c-e-poco-da-cantare-2056811.htmlhttp://www.ideadestra.org/le-stragi-partigiane-del-dopoguerra-in-italia/
FONTE: https://www.ilprimatonazionale.it/parla-il-direttore/farsa-25-aprile-disperato-tentativo-ravvivare-antifascismo-154342/
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