RASSEGNA STAMPA DETTI E SCRITTI – SPECIALE CAPODANNO
31 DICEMBRE 2020
A cura di Manlio Lo Presti
Esergo
Ma il serpente non si morde la coda soltanto una volta all’anno. Esiste anche un Grande Anno, composto da 25.920 anni e causato dalla precessione degli equinozi.
ALFREDO CATTABIANI, Calendario, Rusconi, 1988, pag. 23
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SOMMARIO
La Leggenda di Capodanno
Odio il capodanno, firmato Antonio Gramsci
La notte di San Silvestro
La grande truffa della Chiesa d’Occidente
Giano bifronte, origini pagane del Capodanno
Capodanno, storia e curiosità, perché si festeggia il primo gennaio?
Il sole di Capodanno
Notti Magiche. Riti e tradizioni di Capodanno
Lenticchie, tradizione e cultura in un piatto
IN EVIDENZA
La Leggenda di Capodanno
Si sa a Capodanno si inizia un nuovo capitolo della vita, si buttano le cose vecchie e si enunciano i nuovi propositi, è una festa che deve le sue origini alla festa del dio romano Giano, e ci sono diverse usanze e rituali da seguire in questo giorno.
Uno dei riti più conosciuti è quello di mangiare le lenticchie, magari con le mani, allo scoccare della mezzanotte del 31 dicembre, per favorire ricchezza ed abbondanza, e subito dopo far esplodere qualche botto o fuoco d’artificio per celebrare il nuovo anno cercando di allontanare il maligno. Nell’Italia del sud si usa anche lanciare i cocci, un rito che simboleggia l’eliminazione del male, fisico e morale accumulato durante l’anno passato.
Per portare ricchezza in famiglia si usa mangiare anche l’uva passa, forse per questo motivo è uno degli ingredienti principali del panettone!
Poi ci sono storie sui “prodigi” della notte di capodanno come quello della donna che si trovava a raccogliere acqua a Pettorano sul Gizio, in Abruzzo, non sapendo che allo scoccare della mezzanotte di Capodanno, l’acqua del fiume si arresta e diventa d’oro,
e subito dopo torna a scorrere come prima. La donna così invece di acqua portò a casa una borsa d’oro.
Si narra anche che sia di buon auspicio incontrare per strada un vecchio o un gobbo (o un carro di fieno o un cavallo bianco) come prima persona dell’anno, mentre sarà un anno costellato dalla malasorte se si incontra un prete o un bambino….
Il primo giorno dell’anno non si dovrebbe mai lavorare, ma godersi il riposo, questo perché si crede che quello che si fa il primo dell’anno si farà per tutto l’anno.
C’è anche la previsione meteorologica dell’anno da fare durante i primi dodici giorni di gennaio, ogni giorno un mese dell’anno a venire, a seconda se farà bello o brutto si potrà prevedere come sarà il mese corrispondente a quel giorno.
Ma ora leggiamo questa bella leggenda di capodanno scritta da Otto Cima.
La leggenda di Capodanno di Otto Cima
Nelle valli del Comasco usavano, una volta, la notte di capodanno, appendere alla porta dei casolari un bastone, un sacco ed un tozzo di pane.
Eccone il perché.
Molti anni fa, al tempo dei tempi, e precisamente la notte di San Silvestro, padron Tobia stava contando il proprio gruzzolo in un angolo della sua capanna, quando fu battuto alla porta.
L’avaro coprì con un drappo i suoi ducati ed andò ad aprire. Una folata d’aria gelata di neve lo colpì in viso.
Era una notte d’Inverno.
Sotto la tormenta, fra il nevischio, egli vide un pover’uomo che si reggeva a stento e che non aveva neppure un cencio di mantello.
Padron Tobia fu molto contrariato da quella vista e domandò bruscamente allo sconosciuto:
“Che fate qui? Che volete? Chi siete?”
“Sono un povero viandante sperduto e sorpreso dalla bufera, e vi chiedo in carità di poter dormire nel vostro fienile.”
“Io non lascio dormire nessuno nel mio fienile. Andate, andate: non posso far nulla per voi!”
“Datemi almeno un tozzo di pane!”
“Non ho pane; andate!”
“Datemi un sacco, un cencio da mettermi al collo chè muoio di freddo!”
“Non ho sacchi e non ho cenci!”
“Almeno un bastone per appoggiarmi…”
“Non ho bastoni!”
E chiuso l’uscio in faccia all’infelice, ritornò al suo gruzzolo; ma sotto il drappo, invece di ducati trovò un pugno di foglie secche.
Padron Tobia impazzì e terminò i suoi giorni vagando perle vallate natie e raccontando a tutti la sua disgrazia; ma, d’allora in poi, la notte di capodanno tutti appesero alla porta del proprio casolare un bastone, un sacco, un tozzo di pane.
Articolo scritto da Valeria Bonora – valeria2174.wix.com
FONTE: https://www.eticamente.net/59683/la-leggenda-di-capodanno.html
Odio il capodanno, firmato Antonio Gramsci
Ogni mattino, quando mi risveglio ancora sotto la cappa del cielo, sento che per me è capodanno.
Perciò odio questi capodanni a scadenza fissa che fanno della vita e dello spirito umano un’azienda commerciale col suo bravo consuntivo, e il suo bilancio e il preventivo per la nuova gestione. Essi fanno perdere il senso della continuità della vita e dello spirito. Si finisce per credere sul serio che tra anno e anno ci sia una soluzione di continuità e che incominci una novella istoria, e si fanno propositi e ci si pente degli spropositi, ecc. ecc. È un torto in genere delle date.
Dicono che la cronologia è l’ossatura della storia; e si può ammettere. Ma bisogna anche ammettere che ci sono quattro o cinque date fondamentali, che ogni persona per bene conserva conficcate nel cervello, che hanno giocato dei brutti tiri alla storia. Sono anch’essi capodanni. Il capodanno della storia romana, o del Medioevo, o dell’età moderna.
E sono diventati così invadenti e così fossilizzanti che ci sorprendiamo noi stessi a pensare talvolta che la vita in Italia sia incominciata nel 752, e che il 1490 0 il 1492 siano come montagne che l’umanità ha valicato di colpo ritrovandosi in un nuovo mondo, entrando in una nuova vita. Così la data diventa un ingombro, un parapetto che impedisce di vedere che la storia continua a svolgersi con la stessa linea fondamentale immutata, senza bruschi arresti, come quando al cinematografo si strappa il film e si ha un intervallo di luce abbarbagliante.
Perciò odio il capodanno. Voglio che ogni mattino sia per me un capodanno. Ogni giorno voglio fare i conti con me stesso, e rinnovarmi ogni giorno. Nessun giorno preventivato per il riposo. Le soste me le scelgo da me, quando mi sento ubriaco di vita intensa e voglio fare un tuffo nell’animalità per ritrarne nuovo vigore.
Nessun travettismo spirituale. Ogni ora della mia vita vorrei fosse nuova, pur riallacciandosi a quelle trascorse. Nessun giorno di tripudio a rime obbligate collettive, da spartire con tutti gli estranei che non mi interessano. Perché hanno tripudiato i nonni dei nostri nonni ecc., dovremmo anche noi sentire il bisogno del tripudio. Tutto ciò stomaca.
Aspetto il socialismo anche per questa ragione. Perché scaraventerà nell’immondezzaio tutte queste date che ormai non hanno più nessuna risonanza nel nostro spirito e, se ne creerà delle altre, saranno almeno le nostre, e non quelle che dobbiamo accettare senza beneficio d’inventario dai nostri sciocchissimi antenati.
Antonio Gramsci, 1 gennaio 1916, Avanti!, edizione torinese, rubrica Sotto la Mole.
FONTE: https://www.internazionale.it/notizie/2014/12/31/odio-il-capodanno-firmato-antonio-gramsci
La notte di San Silvestro
Nel Capodanno meno festeggiato da quando si festeggiano i Capodanni, forse c’è più tempo per un ripasso su chi era questo San Silvestro
31 dicembre 2020
A causa delle restrizioni dovute all’emergenza sanitaria, che in Italia prevedono un coprifuoco dalle 22 del 31 dicembre alle 7 del mattino del primo gennaio, quest’anno potrebbe essere il Capodanno meno festeggiato da quando si festeggia il Capodanno. Già, ma da quand’è che si festeggia il Capodanno? Lo sapete?
E soprattutto, chi era questo San Silvestro?
La notte di Capodanno coincide con il giorno del calendario dedicato a San Silvestro, tant’è vero che alcuni eventi o veglioni vengono chiamati “cenoni di san Silvestro”. Questo santo, che fu papa con il nome di Silvestro I tra il 314 e 335, non ha molto a che fare con i festeggiamenti dell’anno nuovo, e anche la pratica di festeggiare la sera del 31 è piuttosto recente, visto che fino al Settecento ognuno festeggiava un po’ quando gli pareva. Della strana storia di San Silvestro e della notte di Capodanno aveva scritto Leonardo Tondelli sul suo blog sul Post.
“La notte di San Silvestro”. Non so chi abbia cominciato a chiamarla così. Non è un’espressione antica: nel medioevo i giorni cominciavano al tramonto, quindi si trattava piuttosto della notte della Circoncisione di Gesù (primo gennaio). D’altro canto fino al Settecento ognuno festeggiava il capodanno un po’ quando gli pareva, per la gioia delle cancellerie. Non c’era consenso nemmeno tra una città e l’altra: a Venezia l’anno iniziava il primo marzo, perciò dicembre era davvero il decimo mese. A Firenze cominciava il 25 marzo: a Pisa anche, ma c’era un anno di differenza, così, per il piacere di complicarsi la vita. In Francia si cominciava con la Pasqua. Esatto, era una festa mobile, quindi ogni anno aveva un numero di giorni diversi. A Bisanzio, ma anche nel meridione e in Sardegna, si cominciava il primo settembre, che in fondo anche oggi è il capodanno vero, quello senza spumante e con tanta tristezza. Ufficialmente però alla fine ha prevalso lo “stile moderno” – che in realtà adoperavano già i romani nel secondo secolo avanti Cristo, detto anche “della circoncisione”, perché gli ebrei venivano circoncisi nell’ottavo giorno dalla nascita, e quindi a Gesù sarebbe capitato il primo gennaio, appunto. E San Silvestro, in tutto questo?
FONTE: https://www.ilpost.it/2020/12/31/notte-di-san-silvestro-2020-2021/
La grande truffa della Chiesa d’Occidente
31 dicembre – San Silvestro, Papa (†335)
“La notte di San Silvestro”. Non so chi abbia cominciato a chiamarla così. Non è un’espressione antica: nel medioevo i giorni cominciavano al tramonto, quindi si trattava piuttosto della notte della Circoncisione di Gesù (primo gennaio). D’altro canto fino al Settecento ognuno festeggiava il capodanno un po’ quando gli pareva, per la gioia delle cancellerie. Non c’era consenso nemmeno tra una città e l’altra: a Venezia l’anno iniziava il primo marzo, perciò dicembre era davvero il decimo mese. A Firenze cominciava il 25 marzo: a Pisa anche, ma c’era un anno di differenza, così, per il piacere di complicarsi la vita. In Francia si cominciava con la Pasqua. Esatto, era una festa mobile, quindi ogni anno aveva un numero di giorni diversi. A Bisanzio, ma anche nel meridione e in Sardegna, si cominciava il primo settembre, che in fondo anche oggi è il capodanno vero, quello senza spumante e con tanta tristezza. Ufficialmente però alla fine ha prevalso lo “stile moderno” – che in realtà adoperavano già i romani nel secondo secolo avanti Cristo, detto anche “della circoncisione”, perché gli ebrei venivano circoncisi nell’ottavo giorno dalla nascita, e quindi a Gesù sarebbe capitato il primo gennaio, appunto. E San Silvestro, in tutto questo?
Niente. Non c’entra niente. Eppure da bambini, a furia di sentire parlare di “veglione di San Silvestro”, finivamo per immaginare uno di quei santi bonaccioni che portano doni nottetempo: un Santa Klaus per adulti, niente regali per i bambini ma un magnum per mamma e papà, e poi danze, ricchi premi et cotillons. Ebbene no, San Silvestro non è quel tipo di Santo. Silvestro Papa è l’ultima persona che invitereste a un veglione, San Silvestro è uno dei santi più opachi del calendario, notevole non per quello che ha fatto (resse la Chiesa di Roma ai tempi di Costantino), ma per quello che non ha fatto. Per esempio non ha indetto il concilio di Arles (314) che condannò lo scisma donatista: ci pensò Costantino. Undici anni più tardi a Nicea si tenne il primo concilio ecumenico della Chiesa universale, che condannò lo scisma ariano, e Silvestro non lo organizzò: ci pensò anche stavolta Costantino. Il papa non trovò nemmeno il tempo di andarci. Insomma appare abbastanza chiaro che all’inizio del quarto secolo il vescovo di Roma era una figura di secondo piano. Più in generale, era Roma che stava perdendo colpi. Era ancora il simbolo dell’impero, da poco si era munita di mura, ma non era più capitale. Non reggeva il dinamismo delle ricche metropoli orientali, Alessandria d’Egitto e Antiochia in Siria. Ma anche i Cesari e gli Augusti d’occidente le preferivano città più prossime ai confini, come Milano o Treviri. Costantino le avrebbe dato il colpo di grazia, fondando Costantinopoli – lui in realtà pensava di chiamarla “Nuova Roma” o qualcosa del genere, non era quel tipo di tiranno che si dedica le città da vivo.
Silvestro è ricordato come un grande confessore: si tenne prudentemente alla larga dalle dispute cristologiche, e tutto lascia capire che accettò senza troppi patemi che Costantino, imperatore non battezzato, gestisse le pratiche conciliari senza di lui. Tutto qui? Tutto qui. Tranne un piccolo dettaglio. Qualche secolo dopo la sua morte, Silvestro diventa famoso come protagonista della più grande patacca della Storia europea (diciamo che se la gioca alla pari con i Protocolli dei Savi di Sion): la Donazione di Costantino, un documento falso scritto probabilmente nel nono secolo, ma attribuito a un cronista-notaio di cinque secoli prima. La Donazione racconta di come Costantino, colpito dalla lebbra (!), si fosse rivolto ai sacerdoti pagani, i quali prontamente gli suggerirono il rimedio: un bel bagno rigenerante nel sangue di neonati. Sdegnato, ma anche un po’ disperato, Costantino si riduce a chiedere aiuto a Silvestro, che prontamente lo guarisce. A questo punto l’imperatore decide di omaggiare il pontefice con una modesta elargizione di territorio: la città di Roma, tanto per cominciare; lo Stato della Chiesa tra Lazio e Ravenna, e poi… e poi, crepi l’avarizia, tutto l’Impero d’occidente, anzi tutto l’occidente, fino al mare e anche più in là. Tant’è che quando nel quindicesimo secolo nasceranno controversie tra spagnoli e portoghesi sulle colonie americane, sarà la Chiesa a fare da intermediaria, basando il proprio diritto proprio sul testo della Donazione.
E a questo punto sorge spontaneo l’interrogativo: come hanno potuto crederci davvero, per tutto quel tempo? Ci voleva davvero l’acume filologico dell’umanista Lorenzo Valla per notare qualcosa di sospetto in un testo classico che parla di “feudi”? Nel testo è sottolineata l’importanza, guarda un po’, del Papa di Roma: Costantino chiede che sia riconosciuto superiore ai patriarchi di Antiochia, Alessandria e… Costantinopoli. Ma ai tempi di Costantino, Costantinopoli era ancora un cantiere, e soprattutto, come abbiamo visto, nessuno l’aveva ancora chiamata così. Per essere creduta autentica, insomma, la Donazione richiedeva uno sforzo di fede ben superiore a quello dei misteri cristologici e trinitari. Fa un po’ effetto, a chi ri-studia la Storia da adulto, e si sforza a ogni passo a trattare gli oggetti del suo studio da adulti, adulti inseriti in un contesto di credenze molto diverso dal suo, ma pur sempre adulti, non fanciulli russoviani o vichiani: fa un po’ effetto, dicevo pensare che per mezzo millennio la favoletta della fontana di sangue di neonati fu presa sul serio anche dai detrattori del potere secolare della Chiesa, uomini di potere o intellettuali come Dante:
Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre, non la tua conversion, ma quella dote che da te prese il primo ricco patre! Inferno (XIX)
Eppure in un qualche modo funzionò. Forse qualsiasi favoletta funziona, basta ripeterla con ostinazione.
Per esempio, provate con me: “La Chiesa paga già l’ICI, la Chiesa paga già l’ICI, la Chiesa paga già l’ICI”… ehi, funziona.
FONTE: https://www.ilpost.it/leonardotondelli/2011/12/31/la-grande-truffa-della-chiesa-doccidente/
Giano bifronte, origini pagane del Capodanno
Da Giano bifronte, dio romano, trae origine il nome del mese di Gennaio.
I Romani chiudevano l’anno con i Saturnali, le feste in onore del dio Saturno, e festeggiavano l’inizio del nuovo, il 1°gennaio, con le celebrazioni in onore del dio romano Giano, da cui trae origine il nome del mese di Gennaio.
Fu il calendario giuliano, promulgato da Giulio Cesare nel 46 a.C., a fissare l’inizio dell’anno il 1° gennaio, mentre prima era il 1° marzo.
Giano bifronte
Il dio bifronte Giano, che non trova riscontro in altre mitologie, fu tipicamente italico e latino. Il termine Ianus evoca la porta, in latino ianua, sia quella della casa privata sia quella delle vie della città.
Il dio Giano è considerato dio dell’apertura e dell’inizio, cioè del principio di ogni azione. Non era infatti possibile intraprendere nessuna impresa militare, commercio o lavoro artigianale e nessuna cerimonia, pubblica o privata, senza essersi propiziati il suo favore, per poter essere condotta a termine con soddisfazione. Per questo, la prima preghiera in ogni simile occasione era sempre rivolta a Giano, dio bifronte.
Questo dio proteggeva anche il principio della vita, ovvero il concepimento; allo stesso modo si era convinti che presiedesse alla nascita del mondo e di tutte le creature. Fu dunque definito in tal senso Ianus Pater, padre di tutti gli uomini, di tutta la Natura e dell’Universo. Proprio perché divinità degli inizi, a Giano era sacro il primo mese dell’anno, Ianuarius, Gennaio, e la festa del dio cadeva appunto il primo giorno dell’anno.
A questa divinità, i sacerdoti offrivano farro e focaccia per propiziare i raccolti del nuovo anno. Quello stesso giorno i Romani usavano far visita agli amici, scambiarsi doni, fare offerte di focacce e di incenso al dio dell’inizio.
Di Giano bifronte si diceva che fosse stato il primo re del Lazio, prima ancora dell’arrivo di Saturno (il greco Crono); questi sarebbe stato ospitato proprio da Giano dopo essere stato detronizzato dal figlio Giove (il greco Zeus). Per l’ospitalità ricevuta, Giano ricevette dal dio Saturno il dono di vedere sia il passato sia il futuro, all’origine della sua rappresentazione bifronte.
Dimora del dio Giano era il colle del Gianicolo, che in latino significa appunto “luogo abitato da Giano”. Da qui il dio avrebbe regnato sui primitivi abitanti del Lazio insegnando loro l’agricoltura, i costumi del vivere civile e il rispetto della legge.
Giano bifronte significato
Poiché era il dio addetto alla sorveglianza della porta (sia quella della casa privata che quella delle vie della città), da cui si entra e si esce, era rappresentato con due volti, da cui l’appellativo di Giano bifronte: con una faccia guardava verso l’entrata e con l’altra l’uscita, l’inizio e la fine.
Il tempio a lui dedicato nel Foro Romano rimaneva aperto in occasione di imprese militari e belliche, ma sbarrato solennemente in tempo di pace. Quindi di Giano era esaltato anche il ruolo di custode della pace. Del tempio non ci sono resti; è rimasto solo una raffigurazione del tempio (chiuso) nel Foro su un moneta di Nerone del 66.
Giuturna moglie del dio bifronte
Tra le numerose mogli e compagne indicate, sua moglie Giuturna (o anche Juturna o Iuturna) era la ninfa delle fonti e delle sorgenti che, amata da Giove, ne ottenne l’immortalità (Ovidio, Fasti).
A Roma, Giuturna era venerata nel Foro della città, presso il Lacus Iuturnae, vicino al Tempio di Vesta, uno specchio d’acqua cui erano attribuite proprietà salutari, e nel tempio che le era dedicato nel Campo Marzio (oggi Largo di Torre Argentina) costruito nel 241 a.C. per volere di Gaio Lutazio Catulo per celebrare la vittoria su Cartagine nella Battaglia delle isole Egadi, conclusiva della prima guerra punica.
In onore di Giuturna erano celebrate le Iuturnalia. Queste avevano luogo nel mese di Gennaio ed erano seguite soprattutto da quanti si occupavano della manutenzioni delle fonti e degli acquedotti.
Fonto il figlio di Giuturna e di Giano bifronte
In quanto moglie del dio Giano, Giuturna generò Fonto (Fontus o Fons), divinità a sua volta legata al culto delle acque e venerata in Roma presso un tabernacolo eretto sul Gianicolo.
FONTE: https://www.studiarapido.it/giano-bifronte-origini-pagane-del-capodanno/
Capodanno, storia e curiosità, perché si festeggia il primo gennaio?
Perché festeggiamo il Capodanno il primo gennaio e a che tradizione è associato?
Stiamo per dire addio all’anno vecchio e salutare quello nuovo, e il modo migliore per farlo è probabilmente andando a scoprire alcune curiosità, piccoli cenni storici relativi al Capodanno, una festa che celebra appunto il primo giorno del nuovo anno.
Capodanno, storia e curiosità
E dal lontano 46 a.c. che si celebra questa speciale festa chiamata appunto Capodanno e che si riferisce al primo giorno dell’anno. Ad istituirla fu nientemeno che Gaio Giulio Cesare, proclamandola grande festività della Repubblica Romana. Naturalmente, all’epoca la data era basata sul calendario giuliani, ma a dire il vero anche con quello gregoriano le date sono rimaste mutevoli e poco chiare.
E’ solo dal 1691, con papa Innocenzo XII che il Capodanno è stato fissato irremovibilmente al primo gennaio. Secondo il calendario gregoriano infatti, il 1º gennaio segna l’inizio di un nuovo periodo. Naturalmente, non tutto il mondo festeggia in questa data, oltre al gregoriano anche il calendario giapponese ha scelto comunque il primo gennaio per celebrare il primo giorno del nuovo anno.
Tra gli esempi più voti invece di Capodanno in data diversa c’è quello cinese, che solitamente cade tra il 21 gennaio e il 20 febbraio. Tornando invece al nostro capodanno occidentale, la festa di Capodanno trae origine dai festeggiamenti in onore del dio romano Giano da cui trae origine il nome del mese di gennaio.
FONTE: https://www.investireoggi.it/news/capodanno-storia-e-curiosita-perche-si-festeggia-il-primo-gennaio/
Il sole di Capodanno
Le feste natalizie erano nella Roma imperiale feste del solstizio, del nuovo sole che rinasceva dopo la morte simbolica, risalendo verso il nord dopo aver toccato il punto più basso con l’entrata nella costellazione del Capricorno. Anche il nuovo anno legale cominciava in quei giorni, alle Kalendae Januarii, nel periodo immediatamente posteriore al solstizio che, veniva convenzionalmente fissato al 25 dicembre per seguire la tradizione dei Romani più antichi che, poco esperti in astronomia, si erano fidati dei propri occhi.
“Prima di cominciare l’anno”, scriveva l’Imperatore Giuliano nel discorso su Elio Re, “noi diamo in onore di Elio giochi magnifici, solennità consacrate a Elio Invincibile… Ah! si degnino gli dèi sovrani di permettermi di celebrare sovente questi misteri, e che il sovrano stesso dell’universo, Elio il primo, mi accordi questo favore! Sorto da tutta l’eternità intorno all’essenza feconda del Bene, mediatore fra gli dèi intelligenti, essi stessi mediatori, Egli ne assicura pienamente la continuità, la bellezza senza limiti, l’inesauribile fecondità, l’intelligenza perfetta, e li dota abbondantemente di tutti i beni atemporali” (1).
La festa del Sole era diventata il culto più importante in Roma verso la fine del III secolo per l’influenza delle tradizioni orientali. L’imperatore Aureliano, originario della Dacia Ripensis e figlio di una sacerdotessa del Sole, istituì addirittura il culto statale del Comes Sol Invictus, la cui festa, il dies Natalis Solis Invicti, divenne il centro della liturgia imperiale. A questa eliolatria contribuiva non poco il progressivo diffondersi negli ambienti militari di un altro culto di origine orientale, il mithraismo, dove Mithra era considerato il Figlio del dio supremo Sol: Figlio del Sole e Sole lui stesso, nato da una roccia presso un albero sacro e con la torcia in mano, simbolo della Luce e del Fuoco che spandeva sul cosmo. Il mito narra che alcuni pastori presenti all’evento soprannaturale gli avevano offerto primizie dei greggi e dei raccolti. E superfluo sottolineare le analogie con la nascita del Cristo in una “grotta” illuminata da una stella mentre i pastori lo adoravano.
All’inizio del IV secolo la festa era diventata così popolare a Roma che persino i cristiani vi partecipavano accendendo con i “pagani” fuochi in onore dell’astro che rinasceva. La Chiesa, per allontanare i fedeli da quelle feste “idolatriche”, pensò di fissare la celebrazione della nascita del Cristo il 25 dicembre. D’altronde, chi era il Cristo se non il Sole di Giustizia, incarnazione della divina Bontà, Luce che illumina, produce, vivifica, contiene e perfeziona tutte le cose atte a riceverla? (2).
La prima notizia di una festa del Santo Natale a Roma risale all’anno 336. Da Sant’Agostino veniamo a sapere che anche in Africa la si celebrava nello stesso periodo. Verso la fine del IV secolo era ormai diffusa in tutta l’Italia settentrionale, così come in Ispagna. Nel Vicino Oriente invece, fino per lo meno all’inizio del V secolo, quando cominciò a diffondersi l’usanza occidentale, la nascita di Gesù era festeggiata il 6 di gennaio insieme con il suo battesimo e il miracolo di Cana, ed era chiamata Epifania. L’usanza derivava da un antico culto rammentato da Epifanio: la notte fra il 5 e il 6 gennaio si festeggiava ad Alessandria, in Egitto, la nascita del dio Eone dalla vergine Kore, scendendo in processione al Nilo con l’immagine di un bimbo, per raccogliere acqua che si sarebbe trasformata in vino (3).
Epifania significa in greco “l’apparizione” di una divinità o un suo intervento prodigioso: e siccome la nascita di Gesù era l’apparizione per eccellenza, i cristiani, orientali, adottarono questo termine per il Santo Natale. Successivamente, quando la festa del Natale romano penetrò in Oriente l’Epifania divenne prevalentemente la festa del battesimo di Gesù, mentre in Occidente, che a sua volta l’aveva recepita, dall’Oriente, celebrava “la rivelazione di Gesù al mondo pagano” con la venuta dei Magi a Betlemme, la Casa del Pane. Sicché per la liturgia romana i dodici giorni che seguono il Natale sono un tempo liturgico unitario che ha il suo centro nella Natività di Nostro Signore Gesù Cristo, alla quale ha dato il fondamento teologico papa san Leone Magno. Egli parla del mistero delle natività del Cristo (“sacramentum nativitatis Christi“) per indicare il valore salvifico dell’evento. Il Vangelo e i profeti, scrive san Leone Magno, “ci infervorano e ci ammaestrano che il Natale del Signore, quando il Verbo si è fatto carne (Gv. I,14), non ci appare come un ricordo del passato ma lo vediamo al presente”, e perciò ogni Natale rinnova per noi il Sacro Natale di Gesù (4).
L’Epifania a sua volta, con la festa che rievoca l’Adorazione dei Magi, visti come “primizie delle genti”, rammenta che il Cristo è Colui che trascende e illumina di vera luce ogni religione come Sovrano universale. Il Vangelo di Matteo, l’unico fra i quattro canonici che testimoni la venuta dei sacerdoti “pagani”, narra che i Magi recarono in dono al Cristo oro, incenso e mirra: l’oro perché è il Sovrano universale, l’incenso perché è divino; la mirra perché è il Grande Medico che può vincere la morte (5).
Il simbolismo solare informa il periodo natalizio collegando la tradizione orientale-romana al cristianesimo. La narrazione di Matteo, come le leggende e le usanze che vi sono connesse, testimonia di un’epifania di Luce e di Fuoco. E quale mai altro simbolismo si poteva applicare alla sua Natività non soltanto a Roma ma anche in Oriente, dove dall’Egitto all’Iran, l’eliolatria era diffusa? Nella Cronaca di Zuqnin, redatta nel 774-775 dal monaco Isó, e non dissimile da altre leggende coeve, si narra che i Magi, sacerdoti di origine iranica, depositari della sapienza esoterica, si tramandavano di padre in figlio una scriptura attribuita al terzo figlio di Adamo, Seth, che profetizzava l’apparizione di una stella che li avrebbe condotti fino al Salvatore, atteso in tutte le religioni del Vicino e Medio Oriente.
Dai loro antenati i Magi, che sarebbero andati a Betlemme, avevano ricevuto una raccomandazione orale: “Aspettate una luce che sorgerà da Oriente, luce della Maestà del Padre, una luce che sorgerà in aspetto di stella sopra il Monte delle Vittorie e si fermerà sopra una colonna di luce dentro la Caverna dei Tesori dei Misteri”. Quell’anno i Magi, saliti secondo l’usanza sul Monte delle Vittorie, dov’erano conservati i rotoli di Seth che rivelavano i “misteri” tramandati da Adamo sulla maestà di Dio e le istruzioni suoi doni che si dovevano portare al Salvatore, avevano appena compiuto i riti purificatori quando videro qualcosa “simile a una colonna di luce ineffabile scendere e fermarsi sopra la caverna… E al di sopra di essa una stella di luce tale da non potersi dire: la sua luce era molto maggiore del sole, ed esso non poteva stare innanzi alla luce dei suoi raggi”. Poi la stella andò a fermarsi davanti alla Caverna, il cielo si apri come una grande porta da dove scesero uomini gloriosi portando sulle mani la stella di luce e si fermarono sulla colonna di luce mentre tutto il monte splendeva di una luce ineffabile. Infine la stella entrò nella Caverna dei Tesori Occulti mentre una voce chiamava i Magi: “Entrate dentro senza dubbi, con amore, e vedrete una vista grande e mirabile”. Entrarono e videro quella luce ineffabile trasformata in un piccolo uomo umile che disse: “Salute a voi, Figli dei Misteri Occulti”, rivelandosi come il Cristo. Quella stella, manifestazione ed emanazione della Luce di Dio, e dunque Dio stesso, li accompagna fino alla grotta della Natività dove essi vedono “la colonna di luce scendere e fermarsi davanti alla caverna, e scendere quella stella di luce e fermarsi sulla caverna dov’era nato il mistero e la luce di vita”. Durante il viaggio di ritorno riappare loro la luce ineffabile dicendo: “Io sono in ogni luogo e non v’è luogo dove non sono; io sono dove voi mi avete lasciato perché io sono più del sole del quale non v’è luogo del mondo che ne sia privo, pur essendo esso uno, e se venisse meno al mondo tutti i suoi abitanti starebbero nella tenebra. Quanto più sono io che sono il Signore del sole e la mia parola e la mia luce sono maggiori di quelle del sole!” (6).
Ispirate al simbolismo solare sono anche alcune usanze natalizie collegate al mondo vegetale (7), come per esempio l’albero di Natale, – emblema nelle tradizioni dell’Europa centrale e dell’Italia alpina – dell’albero cosmico che unisce i cieli alla terra nutrendo con i suoi “frutti” tutti gli esseri. Il simbolismo di origine precristiana fu assimilato dai cristiani che lo riferirono alla Croce, ovvero al Cristo. “Questo legno” scriveva Ippolito da Roma in un inno del secolo III «mi appartiene per la salvezza eterna. Me ne nutro, me ne cibo, sto attaccato alle sue radici… Quest’albero, che si allunga fino al cielo, sale dalla terra al cielo. Pianta immortale, s’innalza al centro del cielo e della terra, fermo sostegno dell’universo, legame di tutto, sostegno di tutta la terra abitata, legame cosmico che comprende in sé tutta la molteplicità della natura umana”.
L’Albero di Natale è dunque il simbolo del Cristo-Albero cosmico, analogo al Cristo-Sole che nasce per offrire la sua luce e i suoi frutti agli esseri, ponte fra cielo e terra. Per questo motivo si appendono all’abete tanti lumini che rappresentano da un lato la nascita del nuovo Sole, del Sole Bambino, e dall’altro la luce che dispensa all’umanità. Analogamente, i frutti dorati e i doni appesi ai suoi rami sono l’emblema della vita che il Cristo dona, e i dolciumi il suo amore. Riunirsi la notte di Natale intorno all’Albero significa essere in comunione con il Cristo, illuminati dalla sua luce, nutriti dalla sua linfa, pervasi dal suo amore.
Il simbolismo dell’albero solstiziale era stato posto in ombra dal Presepe di san Francesco d’Assisi, che è diventato dal Medioevo l’usanza più popolare in Italia e che merita un futuro scritto sull’interpretazione dei simboli che contiene, dalla capanna o grotta agli animali, il bue e l’asino. Ma qualcosa era sopravvissuto nel nostro Paese prima del ritorno novecentesco dell’Albero sull’onda del mito americano che l’ha stravolto in emblema del Consumo: era – perché oggi va scomparendo – la cosiddetta festa del ceppo diffusa non soltanto in Toscana, ma in varie regioni italiane; in Piemonte ad esempio si chiamava süc, nel trevigiano zòch.
Il filologo ottocentesco Pietro Fanfani, nel Vocabolario dell’uso toscano, scriveva che nella Val di Chiana, la sera della vigilia di Natale, tutte le famiglie si riunivano tra loro e mettevano nel camino un ceppo dicendo in coro: “Si rallegri il ceppo, domani è il giorno del pane; ogni grazia di Dio entri in questa casa; le donne facciano figliuoli, le capre capretti e le pecore agnelletti, abbondi il grano e la farina, e si riempia la conca di vino”. Poi si bendavano i bambini che dovevano avvicinarsi al camino e battere con le molle sul ceppo recitando una canzoncina detta Ave Maria del Ceppo: e quella canzoncina aveva la virtù di far piovere sul ragazzo dolci e regalini.
Nelle campagne piemontesi si diceva che il ceppo si sarebbe incenerito nelle 12 notti tra il Natale e l’Epifania, simboli dei 12 mesi dell’anno durante i quali il sole nuovo, rappresentato dal legno che si consumava, avrebbe nutrito il cosmo e gli uomini con la sua luce e il suo calore. Quel ceppo altro non era se non il simbolo del Cristo-Sole-Albero cosmico che nutriva l’umanità offrendole i suoi doni durante l’anno. Ecco perché i bambini, percuotendo il ceppo, sentivano piovere sul capo strenne e dolciumi; e perché si diceva “domani è il giorno del pane”: il pane simbolo per eccellenza del cibo spirituale e materiale.
Per questo motivo si mangiano a Natale dolci a base di farina, tra i quali il più celebre è il panettone milanese. E un’usanza antichissima, diffusa in tutta l’Europa. In Francia, ad esempio, si usava cuocere un grosso pane, chiamato pain de Calandre. Poi se ne tagliava un pezzetto sopra il quale venivano incise tre o quattro croci, e lo si conservava come un talismano capace di guarire da molti mali. Il resto del pain de Calandre era distribuito a tutta la famiglia. In Inghilterra i fornai regalavano ai clienti focacce chiamate Christmas-batch, e i fornai lombardi offrivano il panettone ai clienti.
E persino la mancia aveva un significato religioso. In un libretto di Amedeo Costa dal titolo chilometrico, “Curioso discorso intorno alla Cerimonia del Ginepro, aggiuntavi la dichiarazione del metter Ceppo e della Manda solita a darsi nel tempo di Natale”, (Bologna 1621), si dice a questo proposito: “Suol darsi la Mancia in queste Santissime Feste di Natale in memoria della gran liberalità del Nostro Signore Dio, il quale diede se stesso a tutto il mondo, e in memoria di quella gran Mancia della Pace, che dagli Angeli della Natività di esso fu data e annunciata in terra a tutti gli uomini e per caparra ancora del preziosissimo sangue ch’egli era per cominciare a spargere nel giorno della sua Santissima Circoncisione, il quale dovea poi versare affatto nella sua Passione sul duro legno della Croce”.
Direttamente collegate al simbolismo solare sono i fuochi d’artificio e le fiaccolate sui monti innevati, che celebrano il nuovo anno, ovvero il nuovo Sole, e hanno anche un valore magico, come ha spiegato il Frazer nel Ramo d’oro. Ma, come ha osservato Maria Grazia Chiappori, il fuoco è collegato anche simbolicamente al Cielo, chiamato nello zoroastrismo “cristallo di rocca” (8). In molte leggende orientali si narra che il bambino donò ai Magi una pietra tratta dalla caverna in cui era nato, una pietra tanto pesante che essi la trasportavano con enorme difficoltà.
Con quel peso non sarebbero riusciti a proseguire il viaggio; e allora, visto un pozzo, ve la gettarono. Ma dopo qualche istante dalle profondità del pozzo s’innalzò una lingua di fuoco che sali fino al ciclo. “Questo fuoco – commenta la Chiappori – è una rivelazione sotto forma ignea, e dunque luminosa – come la stella – di Dio. La manifestazione luminosa della divinità ricorda la greca folgore di Zeus e l’iranico fuoco che, nella visione del tardo mazdeismo, scende dal cielo per annunciare la missione di Zoroastro tra gli uomini”.
Sole, Albero, Stella, Fuoco: tanti simboli che alludono in una complessa trama di corrispondenze, al mistero del divino che pervade il cosmo, e a quel cristallo luminoso che è deposto anche nel nostro cuore se sappiamo vederlo con il terzo occhio.
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Note
1 – 156 b-d
2 – Cfr. Dionigi Areopagita, Nomi divini, 697 C.
3 – O. Giordano, Religiosità popolare nell’Alto Medioevo, Bari 1969, p. 51.
4 – Cfr. san Leone Magno, Discorso del Natale (XXIX), e Discorso del Natale (XXIV), 2.
5 – Sul simbolismo dei doni e sui Magi cfr. Mario Bussagli-Maria Grazia Chiappori, I Re Magi, realtà storica e tradizione magica, Milano 1985.
6 – Sul simbolismo della stella oltre ai Re Magi cfr. Emilio Servadio, “Quell’angelo luminoso che accende le tenebre, ne “Il Tempo”, 13 dicembre 1985.
7 – Cfr. Alfredo Cattabiani, Erbario, Milano 1985, pp. 217-231.
8 – Ne I Re Magi, cit., pp. 165-174.
FONTE: http://www.centrostudilaruna.it/il-sole-di-capodanno.html
Notti Magiche. Riti e tradizioni di Capodanno
Un’altra straordinaria notte magica è quella che costituisce il cuore delle feste, la notte di Capodanno, la festa della speranza, la speranza nel domani. Con lo scoccare della mezzanotte un ciclo si conclude ed un altro ha inizio.
di Maria Pia Fiorentino, 29 Dicembre 2014
Un’altra straordinaria notte magica è quella che costituisce il cuore delle feste, la notte di Capodanno, la festa della speranza, la speranza nel domani. Con lo scoccare della mezzanotte un ciclo si conclude ed un altro ha inizio; è un istinto arcaico quello che induce gli uomini ad appellarsi alla fortuna attraverso una serie di consuetudini che pur avendo un sapore magico, vengono perseguite da tutti, anche dai più scettici: vischio, agrifoglio, nocciole, uvetta, lenticchie, zampone, simboli di fortuna e di abbondanza. E ancora botti, rumori, brindisi scherzi e risate che pare vogliano esorcizzare quel magico, lunghissimo momento che separa il passato dal futuro: è istintivo, d’altronde, rivolgere al futuro le proprie aspettative ed attribuire al passato ogni sorta di negatività.
I riti della notte di Capodanno
Vediamo dunque come propiziarsi la fortuna in questa notte incantata:
al momento del brindisi di mezzanotte, se avete un ceppo che arde nel camino, versate sulla fiamma il primo sorso del vostro spumante, avendo cura di far cadere qualche goccia del vostro vino anche sul ceppo e la fortuna non vi abbandonerà per tutto l’anno.
Prendete una noce, tenetela in mano per dieci minuti circa e poi gettatela nel fuoco; se la noce scoppierà l’anno sarà buono, se brucerà senza scoppiare, sarà un po’ più difficile.
A mezzanotte in punto bruciate il vecchio calendario arrotolato e legato con nove giri di filo rosso, ripetendo mentalmente «Brucia libro dei giorni passati e che i dolori del vecchio anno non tornino più».
Scrivete su un foglietto i progetti, le situazioni e le esperienze che, nell’arco dell’anno che si è chiuso, vi hanno arrecato dispiacere e che non desiderate più rivivere e quindi gettatelo nel fuoco. Su un altro foglio scrivete i vostri desideri e le vostre aspirazioni per l’anno che comincia e, dopo averlo piegato e strappato in quattro pezzetti ( perché nessuno possa leggerlo), affidatelo al vento…
Cose da fare
Far rumore con botti e campanelli per scacciare da casa le presenze negative.
Offrire al camino (o al vento, se non avete il camino) il primo sorso di spumante o il primo boccone dell’anno.
Buttare via (dal balcone?) oggetti vecchi dei quali volete liberarvi.
Mangiare tra la mezzanotte del 31 e l’alba del 1 gennaio le lenticchie con le mani.
Baciare uno sconosciuto sotto il vischio. Fare gli auguri ad una persona dell’altro sesso che sapete felice ed amata. Fare gli auguri ai propri animali domestici. Gettarsi dietro la spalla sinistra un sorso di vino e una moneta.
Indossare al contrario, un paio di slip rossi. Indossare un capo nuovo. Indossare qualcosa di rosso e di turchino. Mangiare a mezzanotte tredici chicchi, uno dietro l’altro, d’uva nera. Accendere una candela bianca da offrire all’anno nuovo perché vi sia propizio e lasciare che bruci completamente.
Cose da non fare
Preparare la pasta in casa per il pranzo di Capodanno. Spazzare la casa il primo giorno dell’anno. Lasciare appese delle corde o delle calze penzolanti. Contare denaro. Mangiare a mezzanotte qualcosa all’aperto. Litigare con qualcuno. Telefonare, se siete donne, in casa d’altri di buon mattino per fare gli auguri… la prima telefonata, perché sia di buon auspicio, deve essere fatta da una voce maschile.
FONTE: http://www.eternoulisse.it/miti_leggende/notti_magiche_riti_tradizioni_capodanno.html
Lenticchie, tradizione e cultura in un piatto
27 12 2019
I legumi che si consumano a Capodanno sono protagoniste di una lunga storia e di affascinanti leggende
Sono buone, sane e nutrienti. E non possono mai mancare sulla tavola del cenone di Capodanno. Cosa sono? Le lenticchie, naturalmente. Questo piccolo legume è il protagonista incontrastato dei veglioni di S. Silvestro, la notte che fa da ponte tra l’anno vecchio e l’anno nuovo. Si dice, infatti, che portino fortuna e che chi le mangia potrà godere di un nuovo anno all’insegna della ricchezza e della prosperità. Per questo non si rinuncia mai a un buon piatto di lenticchie. Nemmeno dopo i sostanziosi banchetti di Capodanno a base di portate succulente. Sappiano, dunque, che questo antico legume è ricchissimo di vitamine, sali minerali e proteine. Sappiamo che è povero di grassi, gustoso e sostanzioso. E sappiamo che porta fortuna. Ma sappiamo anche perché?
No, non tutti conoscono il significato simbolico delle lenticchie e si tratta, peraltro, di un significato alquanto controverso perché, nella storia, non ha sempre assunto connotazioni positive.
Il significato delle lenticchie ai tempi dell’antica Roma
A Capodanno non si può rinunciare a un buon piatto di lenticchie perché si associano, simbolicamente, al guadagno. Tale usanza affonda le proprie radici in un passato lontano. In epoca romana, infatti, si usava regalare, all’inizio del nuovo anno, un sacchetto di lenticchie da appendere alla cintura.
Anche la forma delle lenticchie facilita l’associazione alle monete. E l’augurio era che il contenuto del sacchetto potesse trasformarsi in guadagni per chi lo indossava. Inoltre, già in epoca romana, le lenticchie erano considerate un alimento nutriente e sostanzioso in grado di sfamare e sostenere chi non poteva permettersi di consumare carne e cibi costosi. Un alimento povero, dunque, ma molto prezioso, che assicurava una buona riserva di cibo anche nei periodi più difficili.
Il significato ‘biblico’ delle lenticchie
Eppure il significato simbolico delle lenticchie non viene interpretato soltanto con accezioni positive. Nell’Antico Testamento, infatti, si fa menzione del legume in un episodio chiave per la storia del popolo ebraico: un episodio, però, che non mette in buona luce il piccolo legume. Si narra, infatti, che Esaù, tornato stanco e affamato da una lunga battuta di caccia, chiese al fratello Giacobbe un piatto della minestra di lenticchie che aveva preparato. Il gemello glielo concesse, a patto, però, che Esaù rinunciasse, in suo favore, alla propria eredità e al diritto di primogenitura.
Esaù, che non dava importanza a certi privilegi, accettò. E fu così che rinunciò ad assumere la guida del popolo ebraico. Tutto per un piatto di lenticchie. Proprio per questo, ai giorni nostri, si usa dire “vendersi per un piatto di lenticchie”. Concedere, cioè, il meglio di sé per una misera contropartita che non vale affatto ciò per cui viene ricevuta. Nella tradizione ebraica questo episodio, nel corso del tempo, ha favorito l’associazione del legume alle occasioni di lutto, a quando si perde qualcosa di prezioso.
Le lenticchie tra storia e leggenda
Se le lenticchie sono diventate oggetto di numerosi simbolismi è perché sono un alimento antichissimo che ha rappresentato un’importante fonte di sostentamento per popolazioni di diverse epoche e provenienze. Basti pensare che sono note e consumate sin dall’era neolitica. E che sono state il primo legume della storia ad essere coltivato ed il primo cibo a essere stato cotto. La loro coltivazione comincia in terra egizia, dove le acque del Nilo rendevano fertile il suolo con il limo. E dove, si narra, che le navi partissero da Pelusio, patria mitologica di Achille, per trasportarle fino alla Grecia e alla Magna Grecia.
Per millenni hanno, dunque, rappresentato un importante prodotto del commercio e dell’agricoltura dei Paesi del bacino del Mediterraneo. Erano apprezzate tanto dai Greci quanto dai Romani. Tanto che l’imperatore Caligola scelse proprio un carico di lenticchie per proteggere, durante il trasporto per mare, l’obelisco egiziano che oggi troneggia su piazza San Pietro.
Come ogni celebrità, però, anche le lenticchie annoverano sostenitori e detrattori. E se Plinio ne decantava le proprietà nutritive e la capacità di rilassare gli animi, il letterato Artemidoro, nel suo trattato sull’interpretazione dei sogni, le considerava annunciatrici di lutti e sventure. Il medico rinascimentale Petronio le consigliava a coloro che desideravano condurre una vita modesta, visto che all’epoca erano considerate il cibo degli umili, alla corte di Luigi XIV erano state persino relegate a mangime per cavalli. Nemmeno Alexandre Dumas era un loro grande estimatore. Nel suo ‘Grand Dictionnair de Cuisine’ del 1873 ne parla addirittura come di un pessimo alimento.
Tra storia e leggenda, tra simbologie e superstizioni, le lenticchie hanno molto da raccontare. E quando ne mangeremo un piatto per buon augurio la notte di Capodanno, sapremo che questo semplice gesto affonda le proprie radici in un passato affascinante e lontano.
FONTE: https://www.stile.it/2019/12/27/lenticchie-tradizione-e-cultura-un-piatto-id-225133/
Origine del Capodanno
di 31 Dicembre 2012